Riformate dal D.Lgs. 24 settembre 2015 n. 156
Il Volume si propone di dare risposte tempestive ed esaustive a tutte le problematiche di tipo organizzativo e operativo sorte a seguito dell’adozione di questo strumento che riduce notevolmente il carico di contenzioso nelle aule dei Tribunali.
La nuova disciplina della riscossione tributaria Cucchi, Puoti, Simonelli pp. 350 euro 29 L’Opera, aggiornata alle modifiche normative apportate dal D. lgs. 24 settembre 2015 n. 159, si rivolge a professionisti ed operatori pratici del settore, con particolare attenzione ai principali indirizzi giurisprudenziali, spesso tra loro contrapposti, che si sono venuti a formare in relazione ai vari istituti analizzati.
Pacini
iure
i PraticiPacini Bruno Cucchi Giovanni Puoti Federica Simonelli
La nuova disciplina della riscossione tributaria
Procedure di notificazione, esecutive ed oppositive aggiornate al D.lgs. 24 settembre 2015 n. 159
Pacini
Vol. XXVI - Febbraio
Rivista bimestrale
2016
Vol. XXVI - Febbraio 2016
1
DIRETTA DA Mauro Beghin - Pietro Boria - Loredana Carpentieri (coordinamento di direzione) Gaspare Falsitta - Augusto Fantozzi - Andrea Fedele - Guglielmo Fransoni - Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo - Roberto Schiavolin - Giuseppe Zizzo
In evidenza: • Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem alla luce del diritto comunitario
Pasquale Russo • Rilevanza processuale penale del “fatto fiscale” e rilevanza processuale fiscale del “fatto
penale” Guglielmo Fransoni • Le implicazioni fiscali della morte (e resurrezione?) delle società cancellate dal registro
delle imprese Francesco Pepe • Sul contrasto con l’art. 3 Cost. della disciplina fiscale delle cd. sigarette elettroniche
Andrea Rovagnati • Sull’impugnabilità dei provvedimenti di diniego d’accesso alla Convenzione arbitrale
europea sul Transfer pricing Daniele De Carolis
ISSN 1121-4074
Manuale tecnico operativo della mediazione e della conciliazione tributaria
www.rivistadirittotributario.it
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB (PISA) - Aut. Trib. di Milano n. 131 del 28/2/1991
Bruno Cucchi Federica Simonelli Cecilia Domenichini
Diritto Tributario
1
Rivista di Diritto Tributario
Cucchi, Simonelli, Domenichini pp. 158 euro 18
iure
i PraticiPacini
i PraticiPacini
Manuale tecnico operativo della mediazione e della conciliazione tributaria
i PraticiPacini
i PraticiPacini
La collana nasce dall’idea di fornire ai professionisti libri argomentati, ma dal taglio pratico, che mettono l’attenzione sulle principali novità introdotte con le recenti riforme legislative.
Rivista di
Pacini
I
indici
DOTTRINA Salvatore Cameli
Lo “scopo di investimento” nell’imposta sostitutiva sui finanziamenti (nota a Cass. n. 695/2015).................................................................................... II, 28 Vincenzo Cardone, Fabrizio Pontieri
I costi in nero sostenuti per ottenere ricavi non contabilizzati (nota a Cass., sez. III pen., n. 37094/2015)............................................................................. III, 6 Carlo Cosentino, Sabrina Ferrazzi
Profili critici dell’applicazione del comma 3 bis dell’art. 68, D.lgs. n. 546/92, in materia di riscossione delle risorse proprie dell’Unione Europea...............
IV, 1
Daniele De Carolis
Sull’impugnabilità dei provvedimenti di diniego d’accesso alla Convenzione arbitrale europea sul Transfer pricing (nota a Cass., sez. un., nn. 12759 e 12760/2015).............................................................................................
V, 7
Francesco Farri (*)
Punti fermi e profili di irrazionalità nel regime fiscale della famiglia.............
I, 89
Guglielmo Fransoni
Rilevanza processuale penale del “fatto fiscale” e rilevanza processuale fiscale del “fatto penale”......................................................................................
I, 1
Adriano Modolo
La prova contraria all’accertamento sintetico tra nesso eziologico e compatibilità tra spese e risorse prive di significanza reddituale (nota a Cass., Sez. VI-5, n. 7339/2015)........................................................................................... II, 41 Francesco Pepe (*)
Le implicazioni fiscali della morte (e resurrezione?) delle società cancellate dal registro delle imprese...........................................................................
I, 39
Andrea Rovagnati (*)
Sul contrasto con l’art. 3 Cost. della disciplina fiscale delle cd. sigarette elettroniche (nota a Corte Costituzionale, n. 83/2015)....................................... II, 13 Pasquale Russo
Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem alla luce del diritto comunitario.............................................................................................. (*) Lavori sottoposti a revisione esterna.
I, 23
II
indici
Rubrica di diritto penale tributario
a cura di Ivo Caraccioli.............................................................................
III, 1
Rubrica di diritto europeo
a cura di Piera Filippi................................................................................
IV, 1
Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato
a cura di Guglielmo Maisto........................................................................
V, 1
INDICE ANALITICO QUESTIONI GENERALI AGEVOLAZIONI ED ESENZIONI
Agevolazioni per il settore del credito – Imposta sostitutiva sui finanziamenti – Operazioni di finanziamento a medio e lungo termine – Finanziamento destinato ad estinguere indebitamenti pregressi – Inapplicabilità dell’esenzione prevista dall’articolo 15 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 (Cass. n. 695 del 2015 con nota di Salvatore Cameli)............................................................ II, 25 PROCESSO TRIBUTARIO
Atti impugnabili – Diniego di accesso alla procedura convenzionale (Convenzione arbitrale europea) – Impugnabilità – Sussiste (Cass., SS.UU. ordd. nn. 12759 e 12760 del 2015, con nota di Daniele De Carolis).......................
V, 1
REATI TRIBUTARI
Dichiarazione infedele e omessa dichiarazione – Determinazione imposta evasa – Costi in nero – Rilevanza – Condizioni (Cass., sez. III pen., n. 37094 del 2015, con nota di Vincenzo Cardone e Fabrizio Pontieri)........................ III, 1
III
indici
IMPOSTE SUI REDDITI ACCERTAMENTO
Accertamento sintetico – Spese per incrementi patrimoniali – Art. 38, sesto comma, del D.P.R. 600/73, vigente ratione temporis – Prova contraria a carico del contribuente – Possesso di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte – Sufficienza – Dimostrazione del loro impiego per gli acquisti effettuati – Irrilevanza (Cass. n. 7339 del 2015 con nota di Adriano Modolo)...................... II, 37
ACCISE
Sigarette elettroniche – Equiparazione ai tabacchi – Irragionevolezza – Incostituzionalità (nota a Corte cost. n. 83 del 2015, con nota di Andrea Rovagnati)
II, 1
INDICE CRONOLOGICO Cassazione, sez. V civ. 16 gennaio 2015 - 20 novembre 2014, n. 695..............................................
II, 25
Cassazione, Sez. VI-5 10 aprile 2015 - 4 marzo 2015, n. 7339.......................................................
II, 37
Corte Costituzionale 15 maggio 2015 - 14 aprile 2015, n. 83.......................................................
II, 1
Cassazione, sez. III pen. 15 settembre 2015 - 29 maggio 2015..........................................................
III, 1
Cassazione, sez. un. 19 giugno 2015 - 12 maggio 2015, nn. 12759 e 12760.................................
V, 1
Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Franco Batistoni Ferrara - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro - Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio
V
Parte prima
Ai Lettori Dopo venticinque anni di fortunata e soddisfacente collaborazione con l’Editore Giuffrè, la Rivista di Diritto Tributario inaugura con questo fascicolo un nuovo ciclo, che ci auguriamo altrettanto felice, con l’Editore Pacini. Si tratta appunto di un nuovo ciclo in cui la Rivista, mantenendo immutati i componenti della Direzione, del Comitato Scientifico e della Redazione, si adegua al mutare dei tempi e delle tecnologie, nonché alle nuove esigenze del mondo universitario per fornire nel modo migliore ai propri abbonati occasioni di approfondimento e di riflessione scientifica nonché tempestiva conoscenza di giurisprudenza e prassi amministrativa nazionali, internazionali e comunitarie che riguardino questioni di principio. La Rivista rimane, cioè, una rivista di approfondimento scientifico dei temi tributari ma intende intervenire tempestivamente sui principali temi che saranno oggetto di dibattito e di approfondimento successivo. Per queste ragioni, alla tradizionale Rivista cartacea che uscirà con cadenza bimestrale e con lo stesso numero di parti e di pagine, sarà affiancato un aggiornamento on-line sul sito Rivista di Diritto Tributario che sarà articolato, da un lato, in aree tematiche e segnalerà le principali novità giurisprudenziali e amministrative, anticiperà i principali articoli in via di pubblicazione, i principali convegni annunciati e offrirà quindi ai Lettori spunti di approfondimento aggiornati sulle diverse materie. Ci auguriamo che la formula adottata incontri il favore degli abbonati e costituisca un giusto punto di equilibrio tra l’informazione immediata ormai reperibile on-line su molti siti e l’approfondimento a posteriori che talora giunge in ritardo. Confidiamo di riuscire a mantenere intatto il livello scientifico dei commenti combinandolo con la tempestività di informazione del lettore. Con questo spirito ci avviamo a questo nuovo ciclo della Rivista augurandoci che i Lettori continuino ad accordarci la loro fiducia.
La Direzione
Dottrina
Rilevanza processuale penale del “fatto fiscale” e rilevanza processuale fiscale del “fatto penale” Le interferenze fra diritto penale e diritto tributario sono molteplici e disomogenee. Anzitutto, esse di manifestano già sul piano sostanziale perché la fattispecie tributaria o quella penale sono integrate rispettivamente anche dal richiamo a fattispecie o effetti di norme penali o, rispettivamente, di norme tributarie. E ciò si realizza attraverso tecniche diversificate. Questo stato di cose si riflette sul piano del processo dove convivono tendenze al “coordinamento” fra giudizi e tendenze, invece, all’autonomia. There are many overlapping areas between criminal law and tax law, although they are far from being homogeneous. First of all, some interferences take place at substantive law level since the subject matter of the tax laws and of criminal norms are defined by reference to the subject matter or to the effects of criminal or, respectively, tax laws. This is achieved through a variety of techniques. This state of the art is reflected in the procedural law where we can find both a tendency to coordination and that towards autonomy between judgements concerning tax and criminal matters.
Sommario: 1. Premessa. – 2. “Richiamo” e integrazione della fattispecie. – 3. Ipotesi
di “richiamo” di “fatti penali” nelle norme tributarie. – 3.1. A) I proventi illeciti. – 3.2. B) I costi da reato. – 3.3. C) I proventi illeciti oggetto di sequestro o confisca. – 3.4. D) Il raddoppio dei termini. – 3.5. E) L’ineseguibilità della sanzione amministrativa. – 4. Ipotesi di “richiamo” di “fatti tributari” nelle norme penali. – 4.1. A) La tendenza alle definizioni autonome. – 4.2. B) La tendenza a definire mediante “richiamo”. – 5. Le “tipologie” dei richiami. – 6. Le esigenze di coordinamento fra giudizi nelle ipotesi di “richiamo”. – 6.1. A) Il richiamo di un atto. – 6.2. B) Il richiamo in senso proprio. – 6.3. C) La presupposizione. – 6.4. Le questioni da approfondire. – 7. L’esigenza di coordinamento come riflesso della pluralità dei giudizi e non della molteplicità delle giurisdizioni. – 7.1. I possibili rapporti fra più giudizi. – 7.2. La variabilità delle tecniche di coordinamento. – 7.3. Le tecniche di coordinamento in caso di giurisdizioni speciali. – 7.4. Considerazioni di sintesi sul “coordinamento”. – 8. Le modalità di coordinamento nel diritto positivo. – 8.1. A) Il richiamo del “fatto penale”: A.1. Giudizio penale e giudicato tributario. – 8.2. (Segue) A.2. Giudicato penale e giudizio tributario. – 8.3. B) Il richiamo del fatto tributario: B.1. Giudicato penale e giudizio tributario – 8.4. (Segue) B.2 Giudicato tributario e giudizio penale.
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Parte prima
1. Premessa. – Il tema indicato nel titolo si presenta in termini di tale assoluta generalità da imporre di procedere in modo molto graduale esaminando la questione dapprima nei suoi termini astratti e generali per procedere mano a mano verso le questioni più specifiche e concrete. Il punto di partenza di questa analisi sarà costituito dall’ovvia considerazione per cui, affinché il “fatto fiscale” o il “fatto penale” rilevino, rispettivamente, nel processo penale o in quello tributario, è necessario che essi siano “richiamati” da una norma di diritto sostanziale da applicare in uno di quei processi. Sulla scorta di tale premessa, tenteremo pertanto di individuare se e in che misura e, soprattutto, con quali tecniche le norme tributarie “richiamino” “fatti penali” e quelle penali, invece, “fatti tributari”. Terminata questa ricognizione sposteremo finalmente l’attenzione ai modi in cui si realizza la conseguente rilevanza del fatto penale (richiamato da norma tributaria) nel processo tributario, ovvero quella del fatto tributario nel processo penale, sottolineando come, sottesa a questa domanda, vi è la necessità di una riflessione sulle modalità di coordinamento fra i vari giudizi. 2. “Richiamo” e integrazione della fattispecie. – Come si è detto, se il fatto penale o quello fiscale non sono “richiamati”, rispettivamente, da una norma tributaria oppure da una norma penale, il problema del loro “trattamento” in sede processuale non avrebbe neppure modo di porsi. Questa generale pre-condizione di rilevanza deve essere ulteriormente specificata osservando, almeno in linea generale, le tecniche e le ipotesi in cui tale “richiamo” si realizza. Può tuttavia fin d’ora premettersi che, affinché si possa parlare di “fatto penale” o di “fatto fiscale” occorre che il “richiamo” abbia ad oggetto non già la mera modificazione della realtà, il mero evento, ma quella modificazione o quell’evento così come qualificato dalla norma fiscale o penale. Se così non fosse, infatti e per un verso, l’indagine avrebbe ad oggetto tutte le ipotesi – certamente innumerevoli – in cui un medesimo evento è preso in considerazione sia dalle norme tributarie che da quelle penali; per altro verso, sarebbe assai difficile spiegare in che termini si possa qualificare come “penale” e “fiscale” un evento che integra la fattispecie di norme diverse. Pur così delimitata, la nozione di “fatto penale” e “fatto fiscale” conserva un certo grado di indeterminatezza. Da questo punto di vista, non si può sfuggire alla constatazione che il diritto penale presenta un’elaborazione formale molto più compiuta che ha condotto ad astrarre dalle singole ipotesi di reato quella disciplina del “fatto
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Parte prima
tipico” che ha trovato espressione, in dottrina, nella concezione bipartita o tripartita del reato, ma soprattutto, a livello normativo, nella consolidata acquisizione di una “parte generale” del codice penale che, appunto, ha ad oggetto gli elementi “strutturali” del reato in sé. Questa maggiore elaborazione non deve essere probabilmente intesa come espressione di un livello di progresso più avanzato. È forse più corretto dire che nella parte generale del codice penale si manifesta l’esigenza propria del diritto punitivo a stabilire in modo univoco la struttura del reato essendo evidente che tale fissazione assolve più funzioni essenziali per quel settore del diritto: quella genericamente didascalica e di “indirizzo” per la generalità dei consociati; quella di favorire la massima omogeneità delle scelte interpretative; quella di dare evidenza formale a talune opzioni di fondo in modo da rendere palese che la scelta di una diversa struttura del reato (opzione certamente possibile) trae seco, necessariamente, una complessiva revisione del sistema al pari di quanto avviene per un edificio là dove se ne modifichino i muri portanti o l’architrave. Si tratta di esigenze strettamente legate ai valori coinvolti e implicati in ogni scelta di politica criminale, ben diverse da quelle proprie del sistema tributario. In questo sistema, anche i principi generali “sostanziali” trovano già compiuta sintesi a livello costituzionale e le opzioni relative alla distribuzione dei carichi pubblici – per le quali è richiesto un grado di “stabilità” certamente inferiore, in quanto un margine di flessibilità consente l’adattamento del sistema fiscale alle evoluzioni sociali e alle alternanze degli assetti politici – si manifestano nella struttura del sistema tributario nel suo complesso, non già nella struttura del fatto imponibile. Ferma restando tale differenza di prospettive, si deve aggiungere che, per quanto attiene al diritto tributario, non sembra sempre sufficientemente chiarito quali elementi della disciplina attengono alla definizione della fattispecie (astratta) e quali ai relativi effetti. A mio avviso – se si esclude che sia “effetto” solo la costituzione, estinzione o modificazione di una situazione giuridica soggettiva in senso proprio (diritto, obbligazione, obbligo, facoltà, potere ecc.) – la soluzione a tale quesito volge nel senso di dover adottare una visione ristretta del “fattispecie” tale per cui occorre annoverare nell’ambito degli effetti (e non della fattispecie) alcuni elementi del tributo quali la base imponibile, l’aliquota, talune qualificazioni soggettive ecc. La complessità della questione impedisce di argomentare più compiutamente l’affermazione. Posso limitarmi a qualche esempio idoneo a chiarire il mio pensiero: è “fatto” il conferimento di un bene, ma è effetto la relativa plusvalenza;
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Parte prima
è fatto la compravendita immobiliare a un determinato acquirente, ma è effetto l’individuazione (in concreto) dell’aliquota dell’imposta di registro in misura ordinaria o agevolata; è, infine, fatto la dimora abituale in un determinato stato, ed è effetto la qualificazione del soggetto ivi dimorante come un “residente” di quello stato medesimo e così via. Ne consegue che la scelta di considerare i “fatti” qualificati dalle norme penali o tributarie comporta inevitabilmente anche la considerazione degli “effetti” disciplinati da quelle norme. 3. Ipotesi di “richiamo” di “fatti penali” nelle norme tributarie. – Passando specificamente all’esame delle ipotesi in cui è dato riscontrare la rilevanza del fatto penale rispetto a norme tributarie, si può osservare come esse siano limitate numericamente, ma anche piuttosto eterogenee. 3.1. A) I proventi illeciti. – Anzi, dal punto di vista del diritto sostanziale, sembrerebbe esservi una sola disposizione che effettivamente attribuisce rilevanza a un fatto penale in quanto tale ed è l’art. 14, comma 4, della L. n. 537 del 1993 per la sola parte in cui esso è (pseudo)-interpretato dall’art. 36, comma 34-bis, del D.L. n. 223 del 2006. In effetti, anteriormente a tale intervento normativo, l’art. 14, comma 4, cit. non attribuiva rilevanza al fatto penale in sé, limitandosi, al contrario, ad escludere che esso condizionasse la valutazione degli effetti fiscali delle relative fattispecie. In altri termini, la disposizione stabiliva che i fatti fiscali dovessero essere considerati astraendo dai possibili riflessi penali ad essi connessi. La disposizione interpretativa contenuta nell’art. 36, comma 34-bis, del D.L. 223 del 2006 – che a causa della sua intrinseca asistematicità deve essere interpretata nel modo più restrittivo possibile – non ha modificato questo stato di cose relativamente ai redditi comunque classificabili in una delle categorie di cui all’art. 6 del TUIR. Questi redditi, cioè, continuano ad essere qualificati prescindendo dalla vicenda penalmente rilevante comunque ad essi connessa. Viceversa, là dove i proventi da attività illecita non siano riconducibili ad alcuna delle categorie reddituali disciplinate dall’art. 6 cit. e, per tale motivo, “sono comunque considerati come redditi diversi” (secondo quanto irrazionalmente dispone l’art. 36, comma 34-bis cit.), allora il reato risulta determinante ai fini della rilevanza fiscale del provento: in tanto un certo incremento patrimoniale è reddito, in quanto esso sia il frutto di un reato.
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Parte prima
3.2. B) I costi da reato. – Per i costi da reato, a mio avviso, il rapporto fra norma tributaria e “fatto penale” si pone in termini più mediati. Secondo l’interpretazione che mi sembra da prediligere, l’art. 14, comma 4-bis, della L. n. 537 del 1993 (nella formulazione vigente) non attribuisce rilevanza al fatto penale in sé, ma al suo accertamento da parte degli organi preposti. La fattispecie da cui dipende l’indeducibilità è costituita dall’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero ovvero dalla esistenza di un decreto che dispone il rinvio a giudizio. Allo stesso modo, il diritto al rimborso previsto dall’ultima parte del medesimo comma 4-bis sorge per effetto della pronuncia di sentenza assolutoria o di non luogo a procedere per motivi diversi dalla prescrizione del reato. In altri termini, la fattispecie tributaria è integrata da un atto del processo penale, cosicché il fatto penale, pur essendo ovviamente presupposto, non è direttamente rilevante. 3.3. C) I proventi illeciti oggetto di sequestro o confisca . – Il medesimo rapporto mediato appena visto per i costi da reato è riscontrabile anche nella disciplina della causa di non imponibilità prevista dal già citato art. 14, comma 4 della L. n. 537 del 1993. Come è noto, ferma restando la generale irrilevanza dell’illecito ai fini dell’imponibilità, la disciplina citata esclude che possa essere assoggettato all’imposta il provento illecito già oggetto di sequestro o di confisca penale. Si tratta, come è evidente, di un fatto impeditivo che rientra nella fattispecie tributaria, ma rispetto alla quale non assume rilevanza il fatto penale in sè, bensì i conseguenti provvedimenti assunti dagli organi preposti. 3.4. D) Il raddoppio dei termini. – Al di là di queste diposizioni, non mi sembra che vi siano altre ipotesi di rilevanza diretta o indiretta di fatti penali nel diritto tributario sostanziale. Vi sono, invece, ulteriori casi di rilevanza dei fatti penali nell’ambito della disciplina procedimentale. Il caso più noto è quello del c.d. “raddoppio dei termini” la cui fattispecie, anche successivamente alla recentissima novella, risulta comunque integrata (anche) dalla mera denunciabilità del fatto penalmente rilevante. A mio avviso, infatti, la nuova disciplina si è limitata ad arricchire la fattispecie del raddoppio di un fatto impeditivo (la mancata denuncia entro il termine ordinario), ma non ha modificato il fatto costitutivo rappresentato da
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Parte prima
un evento che presenti i caratteri necessari affinché sorga l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. In questo caso, quindi, l’applicazione di una norma tributaria, sia pure procedimentale, dipende da un “fatto penale”. 3.5. E) L’ineseguibilità della sanzione amministrativa. – Infine, sperando che non vi siano significative omissioni in questo elenco, un’ulteriore ipotesi è costituita dall’ineseguibilità delle sanzioni amministrative per effetto della pendenza di un procedimento penale ai sensi dell’art. 21 del D.lgs. n. 74 del 2000. Anche in questo caso, infatti, la disciplina specificamente tributaria afferente alla “eseguibilità” delle sanzioni amministrative, è condizionata da un fatto penale. È evidente, cioè, che se manca in assoluto il reato il problema dell’eseguibilità delle sanzioni amministrative non si pone. Quando vi è il reato, vi è senz’altro l’opportunità di realizzare un coordinamento fra gli apparati sanzionatori, tuttavia questo coordinamento non viene disciplinato avendo riguardo all’illecito (penale e amministrativo) da un lato e alla sanzione (penale e amministrativa) dall’altro, ma si incentra, invece, sull’elemento processuale. È la pendenza del processo fino alla sentenza di assoluzione (ovvero la pendenza delle indagini fino alla archiviazione) che determina l’ineseguibilità delle sanzioni. 4. Ipotesi di “richiamo” di “fatti tributari” nelle norme penali. – Fatta questa breve ricognizione delle ipotesi in cui la fattispecie delle norme tributarie è integrata da fatti penali, possiamo esaminare il caso opposto. Da questo punto di vista, mi sembra necessario segnalare l’emersione di due tendenze contrastanti. 4.1. A) La tendenza alle definizioni autonome. – La prima tendenza è quella all’autonomia nella definizione delle fattispecie. L’art. 1 della L. 74/2000 si preoccupa di fornire una definizione “penale” di alcuni elementi della fattispecie delle norme incriminatrici che, in sé, costituirebbero “fatti tributari”. L’esistenza di questa autonoma definizione determina in qualche misura una corrispondente autonomizzazione del fatto rispetto all’originaria collocazione nell’ambito della disciplina tributaria.
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Parte prima
Questa considerazione vale in generale per tutte le definizioni contenute nell’art. 1, ma l’esempio più chiaro è fornito dalla definizione di imposta evasa dove – probabilmente con intento meramente chiarificatore – la nuova disciplina esclude che sia imposta evasa “l’imposta teorica e non dovuta corrispondente alla rettifica in diminuzione di perdite di esercizio o di perdite pregresse spettanti e utilizzabili”. Probabilmente, il legislatore non si è reso conto del fatto che l’imposta dovuta a seguito della rettifica delle perdite pregresse non ha nulla di teorico. Comunque sia, è evidente che la nozione di imposta evasa assume nel diritto penale un significato autonomo, ciò che è accentuato ulteriormente dalla norma definitoria di cui al comma 1-bis dell’art. 4. Ai sensi di questa disposizione, infatti, l’imposta evasa è determinata non tenendo conto dei costi non deducibili perché non di competenza, o non inerenti, o delle componenti meramente valutative. In questa prospettiva, la condotta penalmente rilevante (ossia la lesione del bene tutelato rappresentata dall’evasione del tributo) risulta definita in modo pressoché totalmente autonomo rispetto alle corrispondenti norme tributarie. È pur vero che queste norme continuano ad entrare in rapporto con quelle penali là dove si tratta di disciplinare cosa sia l’inerenza o la competenza ecc., ma proprio la tendenza all’autonomia non può non rilevare nel momento in cui si intenda definire la natura di tale rapporto. 4.2. B) La tendenza a definire mediante “richiamo”. – Tuttavia, come si anticipava, esiste anche la tendenza esattamente opposta, ossia quella in cui vi è diretta rilevanza del “fatto tributario” ai fini della norma penale. Il caso più evidente è quello dell’estinzione del debito tributario prevista come causa di esclusione della punibilità dall’art. 13 del novellato D.lgs. n. 74 del 2000. Salvo verificare quali saranno gli orientamenti interpretativi della dottrina e, soprattutto, della giurisprudenza, dovrebbe ritenersi che, così come la nozione di “imposta evasa” è prettamente “penale”, viceversa la nozione “debito tributario”, non è affatto autonoma, ma rinvia a una “dimensione” prettamente tributaria. Le due nozioni, quella di “imposta evasa” e quella di “debito tributario”, altrimenti detto, sembrerebbero risultare distinte: - innanzi tutto, sotto il profilo “quantitativo” perché, in ciascun periodo d’imposta, alla determinazione dell’imposta evasa si perviene escludendo dal
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Parte prima
debito d’imposta quanto dovuto per effetto di rettifiche meramente valutative, o incidenti sull’inerenza, sulla competenza ecc.; - in secondo luogo, sotto il profilo “qualitativo”, in quanto la nozione di debito d’imposta sembra integrare un tipico caso di presupposizione normativa; - infine, se sempre dal punto di vista “qualitativo”, perché sembrano richiamati (o presupposti) anche i procedimenti di determinazione del debito rilevanti in sede tributaria. Non sembra questo il luogo per scandagliare più a fondo la reale portata di questa disciplina, potendoci limitare ad osservare che se la causa di non punibilità prevista dall’art. 13 intendeva realizzare un “surrogato” alla disciplina del ne bis in idem, il risultato parrebbe singolarmente contraddittorio perché – essendo limitate le fattispecie costituenti causa di non punibilità a vicende solutorie del debito realizzate con modalità che comportano sempre la riduzione delle sanzioni amministrative (ravvedimento, accertamento con adesione, conciliazione ecc.) - l’alternatività fra sanzione amministrativa e sanzione penale risulta, bizzarramente, realizzata là dove le sanzioni amministrative vengono irrogate in misura minore e secondo una logica maggiormente improntata alla “reintegrazione” piuttosto che alla “afflizione” (aspetto particolarmente spiccato nel caso del nuovo ravvedimento operoso), mentre nessuna alternativa sussiste là dove le sanzioni amministrative vengono applicate in misura piena. Insomma, la sanzione penale risulta recessiva là dove la sanzione amministrativa è tenue (e meno afflittiva) e coesiste con le sanzioni amministrative più spiccatamente afflittive. Né, in realtà, l’elemento discriminante parrebbe individuabile nella spontaneità della condotta almeno nella misura in cui, rispetto ai reati “da riscossione”, la causa di non punibilità opera anche nelle ipotesi estinzione del debito in sede di conciliazione giudiziale (ossia là dove la presenza di un atto di accertamento e, potenzialmente, anche di una prima pronuncia giudiziale, esclude l’assoluta “spontaneità” del pagamento). Ai nostri fini, è sufficiente ribadire il rilievo della compresenza nel sistema sanzionatorio penal-tributario di due tendenze diverse: a livello di individuazione della condotta tipica (e quindi del bene protetto), parrebbe riscontrabile una preferenza per l’autonomia definitoria; per quanto riguarda le cause di non punibilità e le circostanze attenuanti, risulterebbe invece prevalente il richiamo di nozioni e istituti così come disciplinati dalle norme più propriamente tributarie.
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5. Le “tipologie” dei richiami. – La sintesi del discorso che si è fin qui svolta sembra allora indicare che i “fatti” disciplinati da un settore normativo possono diventare rilevanti per un settore normativo diverso secondo tre schemi di riferimento: A. Il primo è quello del richiamo da parte di un settore normativo dei fatti non solo qualificati in astratto dalle norme di altro settore, ma anche concretamente considerati secondo i procedimenti propri di quel settore medesimo: si richiamano, cioè, le sentenze, gli atti di confisca, gli atti di definizione del debito, le rateazioni ecc. Ovviamente, questo modo di richiamare la disciplina e i fatti di altro settore, esclude una loro diretta rilevanza. Potrà porsi, certamente, il problema se l’atto o il procedimento corrispondono al relativo paradigma normativo (se la sentenza tributaria o penale è tale, se gli atti di definizione del debito sono validi ecc.), ma una volta che questo giudizio si sia concluso positivamente, il contenuto di tale atti viene assunto per come è. B. Il secondo schema di riferimento – che qui esponiamo in un’ideale progressione rispetto a quello precedente – consiste nella presupposizione con ciò intendendosi la rinuncia alla “diretta regolamentazione di un elemento della propria fattispecie legale, cui si accompagna la presa in considerazione della disciplina che dello stesso elemento sia dettata aliunde”. È questo, a mio avviso, il caso dei proventi da reato, o della “denunciabilità” ai fini del “raddoppio dei termini” (per quanto riguarda il diritto tributario); ovvero il caso del “debito d’imposta” (per quanto riguarda il diritto penale). C. Il terzo è ultimo schema è quello del vero e proprio rinvio alla disciplina dell’altro settore. A questo ultimo riguardo, sono necessarie due precisazioni. La prima è che, evidentemente, la nozione di rinvio in tanto può essere presa in considerazione in quanto si reputi possibile attuare questa modalità di collegamento fra norme del medesimo ordinamento non soltanto attraverso il richiamo di disposizioni o testi normativi, bensì anche mediante il riferimento ad articolazioni disciplinari omogenee identificate attraverso il loro “oggetto” (p.es. il richiamo alla competenza, abbraccerebbe tutte le disposizioni che, nel TUIR, si occupano di questo profilo di rilevanza delle componenti positive o negative di reddito e così via). È tuttavia evidente che, ove si ammetta (come a me sembra corretto) questa tecnica di rinvio, la distinzione (peraltro mai nettissima) fra rinvio e presupposizione tende a sfumare e la classificazione nell’una o nell’altra categoria costituisce l’esito di un’opzione interpretativa. Così, ad esempio, dovrebbe ritenersi corretto
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affermare che il riferimento alla “competenza”, all’inerenza ecc. nell’art. 4, comma 1-bis, del D.lgs. n. 74/2000 rappresentano ipotesi di rinvio in ragione della autonomia cui sembra aspirare la disciplina, ma non è affatto esclusa una diversa soluzione interpretativa. La seconda precisazione consiste nel ricordare che se già è vero in generale (quantomeno sotto il profilo dell’origine storica dei concetti) che, ove riferite al “rinvio”, le qualificazioni di fissità, recettizietà e materialità (e i loro opposti di mobilità, non ricettizietà, formalità) non sono perfettamente sinonimiche, questa conclusione è particolarmente centrata per ciò che attiene al rinvio intraistituzionale e specialmente quello che si realizza fra settori distinti in ragione della differente materia. In questo caso, infatti, le conseguenze del rinvio presentano profili di ibridismo tali che se alla “mobilità” del rinvio si associa essenzialmente la caratteristica per cui la norma richiamata deve essere applicata così come vigente al tempo rilevante per l’applicazione della norma richiamante (a seconda che essa sia procedimentale o materiale) e se il rinvio “ricettizio” viene contraddistinto principalmente dall’esigenza di interpretare la norma richiamata in chiave sistematica con il sistema richiamante, allora la mobilità del rinvio non sembrerebbe escludere necessariamente la sua recettizietà. Cosicché, per restare all’esempio di cui sopra, il richiamo nell’art. 4, comma 1-bis, del D.lgs. n. 74/2000 alle regole sulla competenza implica necessariamente che le norme tributarie rilevanti saranno quelle in vigore nel tempus commissi delicti, ma, al tempo stesso, la riscontrata tendenza all’autonomia delle definizioni penali imporrà una determinazione della competenza coerente con il sistema in cui il richiamo si inserisce. 6. Le esigenze di coordinamento fra giudizi nelle ipotesi di “richiamo”. – Sulla scorta di questo inquadramento, dobbiamo ora verificare in che misura il “fatto tributario” rilevi ai fini del processo penale e, specularmente, il “fatto penale” rilevi ai fini del processo tributario. Apparentemente, dopo quanto si è detto in precedenza, la risposta a questa domanda dovrebbe essere nel senso che la rilevanza non può che essere totale. Invero, se la norma materiale tributaria o penale è integrata dal richiamo (come elemento della fattispecie o della relativa disciplina) a un atto, o a un fatto qualificato, o a un effetto, o ancora alle norme di altro settore, il giudice chiamato ad applicare la norma materiale non potrà fare a meno di conoscere i suddetti atti, fatti, effetti o norme. Si comprendere, allora, che la questione di cui occorre occuparsi è diversa e attiene, non già alla rilevanza in sé, ma alla possibilità o alla necessità di un
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coordinamento fra i più giudizi che, eventualmente, possono svolgersi avendo riguardo la applicazione della stessa norma e la conseguente sussunzione dei fatti rilevanti. Se la norma materiale di un settore è richiamata dalla norma di altro settore e se i giudici chiamati a pronunciarsi sulla norma richiamata nel settore di “origine” e in quello della norma richiamante sono diversi (ma, come si dirà, anche se i giudizi sono solo cronologicamente distinti) è quantomeno legittimo chiedersi se il giudice che si trova a dover applicare la norma richiamante potrà farlo in modo del tutto autonomo o la sua decisione dovrà coordinarsi con quella di altro giudice. 6.1. A) Il richiamo di un atto. – Così posta la questione, essa è suscettibile di una prima delimitazione. Dovrebbe infatti ritenersi abbastanza evidente che il problema del coordinamento non si pone là dove il richiamo abbia ad oggetto un atto (inteso nell’accezione lata di cui sopra). In questo caso, infatti, il problema del coordinamento fra la considerazione (se vogliamo, fra l’accertamento) del fatto operata in un settore e quella operata nell’altro settore è risolta a monte dalla norma stessa là dove essa prevede che in uno dei due settori normativi il fatto rilevi non in via immediata, ma mediatamente e in modo conforme all’accertamento operato nell’altro settore quale risultante, appunto, dall’“atto” richiamato. 6.2. B) Il richiamo in senso proprio. – All’estremo opposto si pone il caso del rinvio. In questa ipotesi, infatti, il giudice si trova ad applicare “direttamente” la disciplina di altro settore per determinare l’esistenza di qualificazioni ed effetti che, al medesimo tempo, interessano tanto il settore richiamato, quanto, in virtù del richiamo, l’ambito normativo richiamante. Non vi è dubbio che questo è quanto è prescritto dalla norma materiale, ma è altrettanto indubbio che questa situazione pone (almeno in astratto) dei problemi di coordinamento che non sono risolti dalla disciplina materiale medesima e la cui soluzione deve essere ricercata a livello processuale. 6.3. C) La presupposizione. – La situazione intermedia è data dalle ipotesi di presupposizione. Il fatto che la norma materiale esprima la “rinuncia alla diretta regolamentazione di un elemento della propria fattispecie legale”, secondo la
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definizione che se ne è fornita, non deve, a mio avviso, indurre a concludere che si imponga anche una “rinuncia al diretto accertamento” dell’elemento medesimo e che, quindi, vi sia una necessaria subordinazione della considerazione dei fatti presupposti alle valutazioni concrete operate nel settore normativo richiamato. Quanto avviene a livello di considerazione astratta e di definizione normativa della fattispecie legale, non ha necessarie implicazioni a livello di accertamento e sussunzione della fattispecie concreta nella disciplina legale. Dall’opzione normativa per la presupposizione si potrà, forse, desumere una “preferenza” per la coerenza fra gli accertamenti secondo una delle forme di coordinamento di cui si dirà fra breve, ma non sembrerebbe esservi dubbio che questo (coordinamento), quale che esso sia, dovrà avvenire a livello di giudizi e non è di per sé assicurato dalla disciplina sostanziale. Al di là dei rapporti fra diritto tributario e diritto penale, d’altronde, la situazione non è nuova: si pensi ai dubbi che hanno sempre accompagnato la possibilità di contestare il risultato d’esercizio costituente il presupposto per la determinazione del reddito d’impresa. 6.4. Le questioni da approfondire. – Dal quadro appena tracciato, possiamo desumere, in termini generali, che il problema del coordinamento fra giudizi si pone nel momento in cui la disciplina sostanziale di un settore richiama la disciplina di altro settore mediante la tecnica della presupposizione o del rinvio, cosicché l’applicazione di una delle due discipline implica dover anche dar soluzione ai problemi di sussunzione (e, conseguentemente, di qualificazioni e di effetti) propri dell’altra. Se riconduciamo a questo quadro di riferimento la casistica elaborata in precedenza, ci rendiamo conto che, per quanto riguarda il le norme tributarie (e, quindi, il processo tributario), ciò avviene per il caso dei proventi da reato “innominati” e per il raddoppio dei termini. Per le norme penali, invece, il rapporto è molto più complesso in quanto l’intera disciplina dei reati tributari sembra fondata su una rete di rinvii e presupposizioni, nella misura in cui l’individuazione delle condotte rilevanti, sia in positivo che in negativo, della causa di non punibilità, delle circostanze attenuanti è evidentemente totalmente dipendente da nozioni squisitamente tributarie che, sotto il profilo normativo, configurano plurimi “richiami” la cui qualificazione non può che dipendere dalla sensibilità dell’interprete.
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7. L’esigenza di coordinamento come riflesso della pluralità dei giudizi e non della molteplicità delle giurisdizioni. – Su queste basi si possono quindi affrontare le questioni legate al coordinamento fra giudizi. In un sistema ipotetico in cui vi fosse un unico organo giurisdizionale deputato a conoscere (finanche secondo le medesime regole processuali) di qualsiasi controversia è evidente che non ci si potrebbe interrogare se a quel giudice sia o meno riconosciuta la possibilità di conoscere un determinato fatto, dovendosi al contrario presupporre che l’attribuzione del potere di decidere implichi la competenza a conoscere di tutti i fatti (normativamente) rilevanti per risolvere la controversia. Anche in quell’ipotetico sistema, tuttavia, un problema di coordinamento fra giudizi è potenzialmente sussistente nella misura in cui, pur essendo unico il sistema processuale, sono inevitabilmente molteplici le controversie e, al tempo stesso, è altrettanto inevitabile che il medesimo fatto – inteso come modificazione storicamente realizzatasi della realtà fenomenica – possa integrare la fattispecie di molteplici norme e, quindi, di più controversie. Si pone allora, almeno astrattamente, un problema di coordinamento fra i più giudizi in cui venga in rilievo il medesimo fatto; problema, questo, determinato non dai rapporti di specialità fra i giudizi, ma dai rapporti di anteriorità cronologica fra gli stessi. 7.1. I possibili rapporti fra più giudizi. – Questa situazione ipotetica viene qui richiamata perché rende plasticamente evidente le conseguenze che derivano dai possibili criteri di coordinamento. Infatti, in simili evenienze, il rapporto fra i diversi giudizi può essere informato solo a tre criteri diversi: a. quello della reciproca indifferenza; b. quello della pregiudizialità cronologica; c. quello della pregiudizialità per materia. Il primo criterio ha ovviamente il difetto di poter dar luogo a controversie decise sulla base del diverso accertamento di un medesimo fatto, cioè un risultato non rispondente ai canoni astratti della logica. Se questo non si risolve in una incompatibilità pratica, tuttavia, i conflitti “logici” risultano più tollerabili dell’irrazionale risultato cui si perverrebbe là dove si applicasse il secondo criterio per effetto del quale l’esito del primo processo risulta idoneo a pregiudicare quello di tutti i (potenzialmente infiniti) altri processi, pervendosi così a risultati incontrollabili e, come tali, irrazionali oltre che contrastanti con l’effettività del diritto di difesa tutelato dall’art. 24 cost.
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Si è autorevolmente dimostrato, infatti, che l’effettivo diritto alla difesa presuppone la precisa individuazione di quanto forma oggetto del processo. E questa condizione non sarebbe rispettata quando l’ipotetica idoneità del “primo” giudizio sul fatto a pregiudicare tutti i giudizi successi priva evidentemente le parti della possibilità di prevedere tutti i possibili giudizi pregiudicati. Il terzo criterio, infine, deve essere il riflesso di una scelta politica che implica l’attribuzione a quella particolare materia di una specifica “superiorità” secondo apprezzamenti ovviamente variabili a seconda del contesto di riferimento. Il caso dei rapporti fra processo penale e altri processi o processo tributario è esemplare: rispondeva a criteri politici e a ideologie ben precise la scelta operata con l’art. 28 dell’abrogato c.p.p.; ma rispondeva a scelte politiche altrettanto precise la scelta favorevole alla pregiudiziale tributaria e così via. 7.2. La variabilità delle tecniche di coordinamento. – Occorre ancora evidenziare che, distinto dal problema del coordinamento, è quello delle tecniche necessarie per attuarlo. Altrimenti detto – guardando le cose da un punto di vista astratto – l’affermazione che un giudizio è pregiudiziale rispetto ad un altro non implica necessariamente una forma esclusiva di coordinamento. Può darsi che si imponga la sospensione del processo pregiudicato in caso di pendenza di quello pregiudicante. Ma ci si può anche limitare ad attribuire alle parti la facoltà di invocare, nel giudizio dipendente, il giudicato formatosi rispetto al processo pregiudicante. Esemplare, da questo punto di vista, l’art. 3 c.p.p. che prevede solo la eventualità (e non la necessità) della sospensione del processo penale nel caso in cui sorgano questioni sulla cittadinanza e lo stato di famiglia, ma che, al tempo stesso, sancisce l’efficacia vincolante del giudicato civile formatosi sulle medesime questioni. Questo significa, ad esempio, che la formula adoperata dal legislatore nell’art. 21 del D.lgs. n. 74 del 2000, in sé, non esprime compiutamente la scelta per il doppio binario. L’esclusione della sospensione dei processi, non implica necessariamente l’esclusione di ogni forma di pregiudizialità fra gli stessi esistendo, come abbiamo appena verificato, ipotesi in cui non vi è sospensione, ma vi è pregiudizialità. Il doppio binario, in effetti, riflette una ricostruzione del sistema nel suo complesso influenzata anche fortemente dalla considerazione delle norme abrogate e dalle altre norme processuali secondo
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quanto diremo fra breve. Tuttavia, proprio perché questa costruzione dipende da una visione sistematica, essa è anche maggiormente suscettibile di essere messa in crisi dalle successive modifiche legislative. Quando, poi, l’esito di uno dei processi esplichi effetti rispetto all’altro, questi possono essere variamente modulati, vuoi imponendo un vincolo assoluto al giudice (alla stregua di un vero e proprio effetto di giudicato), vuoi attribuendo all’esito del primo giudizio un valore semplicemente “orientativo”, come si fa là dove alla sentenza viene attribuito valore di prova atipica. In definitiva, al di là del caso in cui il contrasto di giudicati ponga insuperabili problemi pratici, non esistono forme logicamente imposte di “coordinamento”. 7.3. Le tecniche di coordinamento in caso di giurisdizioni speciali. – Questa considerazioni valgono anche per il caso in cui esistano giudici specializzati. In questa evenienza, l’esigenza di coordinamento può essere maggiormente avvertita, là dove la separazione sia attuata con criteri tali da determinare, magari solo in alcuni casi limite, una segmentazione dei giudizi di origine meramente processuale e non conforme al diritto sostanziale. In questo caso, il coordinamento risponde a esigenze pratiche e, quindi, ha un ben diverso grado di cogenza. Al di là di questa ipotesi “di confine” (forse più teorica che reale), l’esistenza di giudici specializzati, a ben vedere, non introduce di per sé nuove esigenze di coordinamento. Là dove i diversi sistemi processuali siano considerati perfettamente omogenei, il plurimo accertamento del medesimo fatto nei più processi che si svolgono in diverse giurisdizioni non determina problemi diversi rispetto a quelli (già visti) conseguenti al plurimo accertamento del medesimo fatto nei più processi che si svolgono dinanzi alla medesima giurisdizione. Non ci si può tuttavia nascondere che la stessa specializzazione è espressione di un’opzione ordinamentale in cui i diversi sistemi processuali non risultano perfettamente equiparati, vuoi per le regole procedimentali adottate, vuoi per lo status dei giudici ad essi preposti. In questi casi, a ben vedere, oggetto di coordinamento non sono tanto i giudizi, quanto piuttosto i giudici. Quando questa situazione si realizza, il criterio di coordinamento non può essere altro che quello della pregiudizialità “per materia”, con la differenza che la “materia” si trova già ipostatizzata nella specializzazione delle giurisdizioni.
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Nell’uno e nell’altro caso, comunque, il coordinamento implica un rapporto di pregiudizialità, ferma restando la ricordata varietà delle tecniche impiegabili per dare concreta attuazione a tale rapporto. 7.4. Considerazioni di sintesi sul “coordinamento”. – Tirando rapidamente le fila di queste osservazioni, sembra di poter affermare che il criterio dell’indifferenza e quello della pregiudizialità cronologica hanno in comune l’assenza di qualsiasi (marcata) opzione valutativa per un particolare giudice o una specifica materia. La netta preferenza, fra i due, per il criterio dell’indifferenza è data dalla esigenza di prevenire i risultati incontrollabili – e, come tali, estremamente pregiudizievoli sul piano della effettività delle difesa – cui si perviene adottando il criterio della mera pregiudizialità cronologica. In ogni caso è evidente che queste scelte si collocano su un piano totalmente diverso da quello su cui opera il criterio della pregiudizialità “per materia” o “per giudice” il quale si fonda sempre su una valutazione di “idoneità” che difficilmente riposa su mere considerazioni di ordine tecnico (ammesso e non concesso che le valutazioni tecniche siano ideologicamente neutrali). Esemplare, da questo punto di vista, è la nota vicenda di Max Varadi, autore, come si sa, di una tesi brillante, ma non eccelsa che però fu “sfruttata” da Calamandrei per attirare l’attenzione sulla possibilità di leggere l’efficacia di giudicato affermata dall’art. 28 c.p.p. non come un vero e proprio vincolo, ma come “mezzo di prova”. Operazione, questa, certamente utile ad attenuare i profili “autoritari” sottesi alla formula del 1930, ma altrettanto certamente non risolutiva, perché quando l’ordinamento attribuisce una posizione privilegiata a un giudice o a un giudizio, si può solo modificare il fondamento di tale scelta o cercare di conformarne gli effetti, ma il sistema riflette comunque un’assenza di equiordinazione degli organi giurisdizionali. 8. Le modalità di coordinamento nel diritto positivo. – Avendo in mente queste linee di riferimento, possiamo esaminare le regole che presiedono ai casi, di cui si è detto, in cui il medesimo fatto (“penale” o “tributario”) può essere oggetto di accertamento da parte dei due giudici (“penali” o “tributari”). 8.1. A) Il richiamo del “fatto penale”: A.1) Giudizio penale e giudicato tributario. – La prima ipotesi da verificare è quella in cui la norma tributaria richiama una norma penale e, per tale via, rende rilevante l’accertamento nel processo tributario dei fatti sussumibili nella norma penale richiamata.
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Da questo punto di vista, è pacifico che il giudice tributario può procedere all’accertamento dei fatti e alla loro sussunzione nella norma penale, in quanto, per un verso, la possibilità di risolvere incidentalmente ogni questione da cui dipenda la soluzione del giudizio è espressamente affermata dall’art. 2, comma 3 del D.lgs. 546/1992 e, per altro verso, la sospensione necessaria del processo è limitata ai casi previsti dall’art. 39 (salve le ipotesi di pregiudizialità “interna” per come configurati dalla consolidata giurisprudenza) del medesimo decreto. I casi di sospensione necessaria, peraltro, sono proprio quelli in cui il giudice tributario non ha il potere di cognizione incidentale. La qualifica come “incidentale” della cognizione ha, però, un doppio valore: da un lato, significa che la cognizione sussiste, dall’altro, precisa che tale cognizione non produce effetti al di fuori del singolo giudizio. Ne deriva, pertanto, che è espressamente sancita l’irrilevanza dell’accertamento del giudice tributario rispetto al giudice penale. In realtà, tale irrilevanza dovrebbe consistere solo nella impossibilità che il giudicato tributario dispieghi un effetto vincolante nel processo penale. Attesa la ben nota atipicità dei mezzi di prova nel processo penale, non è di per sé inconcepibile che la sentenza del giudice tributario possa valere come prova atipica in quel processo. Ma si tratta di un’evenienza puramente teorica, non solo e non tanto per motivi che attengono all’apprezzamento “sociale” del processo tributario, quanto e soprattutto per la limitazione dei mezzi di prova che vige in questo ambito e che inficia di per sé l’esito di un accertamento in cui la valutazione della condotta e della posizione psicologica del suo autore è chiaramente centrale. Vi è, peraltro, da fare una considerazione ulteriore. Se anche si ammettesse una qualche efficacia al giudizio tributario nel giudizio penale per ciò che attiene ai fatti penali, questa potrebbe riguardare, al più, le ipotesi in cui il giudice tributario abbia risolto il caso dell’esistenza del reato ai fini dell’accertamento del reddito diverso di cui all’art. 14, comma 4, della L. n. 537 del 1993. È invece impossibile anche ipotizzare che una qualsivoglia efficacia possa essere attribuita al giudicato in cui sia risolta la questione relativa alla esistenza della “denunciabilità” ai fini del c.d. “raddoppio dei termini”. E questo perché, per definizione, la “denunciabilità” è questione che, come tale, non riguarda mai il processo penale.
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8.2. (Segue) A.2) Giudicato penale e giudizio tributario. – Sempre avendo riguardo alle ipotesi in cui la norma tributaria rinvia a norma penale, ci si può porre il problema inverso, ossia quello degli effetti della sentenza penale in ordine “al fatto penale” rilevante nel processo tributario. Come si è detto in precedenza il fatto che il processo tributario non debba essere sospeso non significa affatto, di per sé, che il giudizio tributario non possa essere pregiudicato dall’esito del processo penale. Anche se non vi è sospensione necessaria, quindi, il giudicato penale potrebbe avere una qualche efficacia nel giudizio tributario. La questione si è posta più volte, come noto, per il caso in cui il giudicato penale avesse ad oggetto “fatti tributari” ed è stata risolta (come vedremo) attribuendo allo stesso il valore di prova atipica. Ci si può porre, tuttavia, il problema se, nel caso di giudicato penale avente ad oggetto “fatti penali”, tale efficacia possa essere più incisiva. Il problema è quello della possibilità di una lettura estensiva – o, addirittura, conforme a costituzione – dell’art. 651 c.p.p. che, come è noto, attribuisce efficacia vincolante al giudicato penale nei giudizi civili e amministrativi quanto “quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso”. È infatti lecito chiedersi se un sistema che attribuisca siffatta efficacia al giudicato penale nei giudizi civili e amministrativi aventi ad oggetto il risarcimento del danno o le restituzioni, possa ammettere una diversa efficacia là dove dall’esistenza del reato (e, lo si ripete, dall’esistenza del reato “in sé”) dipende l’integrazione di una fattispecie reddituale secondo quanto previsto dall’art. 14, cit. Se si pensa, in particolare, ai limiti probatori che vigono nel processo tributario e all’estraneità rispetto alle tecniche processuali proprie di quel giudizio dell’accertamento di un reato, sembra difficile non attribuire preferenza all’accertamento compiuto dal giudice penale. I precedenti giurisprudenziali mi sembrano in realtà orientati a sottolineare l’assoluta autonomia del giudizio tributario, ma non parrebbe che questa, secondo le norme vigenti, sia l’unica soluzione prospettabile. Ovviamente – e ancora una volta – il problema non si pone con riguardo al c.d. “raddoppio dei termini” considerato, appunto, che questo non dipende dalla “sussistenza del fatto e dalla sua illiceità”, bensì da una valutazione prima facie della possibile sussistenza e illiceità del fatto. 8.3. B) Il richiamo del fatto tributario: B.1) Giudicato penale e giudizio tributario. – Ben più numerosi sono i casi in cui le norme penali rinviano a norme tributarie o ne presuppongono i relativi effetti e qualificazioni.
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Prendendo le mosse dal processo penale, si deve ribadire che gli art. 2 e 3 c.p.p., nel loro combinato disposto, disciplinano la cognizione del giudice penale in modo quasi corrispondente a quanto fa l’art. 2, comma 3 del D.lgs. n. 546 del 1992 per il giudice tributario Ai sensi di queste disposizioni, il giudice penale ha piena cognizione rispetto a tutte le questioni incidentali salvo quelle di stato. Anzi, al riguardo si deve osservare che il giudice penale ha cognizione anche rispetto alle questioni di falso e che, inoltre, rispetto alle questioni di stato non gli è negata in assoluto la facoltà di risolverle incidentalmente, occorrendo invece una valutazione in ordine alla “serietà” della questione e alla previa proposizione del giudizio civile. Il processo penale, quindi, disciplina i poteri del giudice in termini molto ampi facoltizzando il giudice penale a risolvere tutte le questioni relative ai fatti tributari ed ai relativi effetti che sono strumentali all’applicazione della norma penale ove questa rinvii alle norme tributarie o ne presupponga le qualificazioni. È altrettanto indubbio che questo giudizio ha natura incidentale e, come tale, ricade pianamente nella previsione generale dell’art. 2, comma 2, c.p.p. per cui è escluso ogni valore vincolante del giudicato penale negli altri processi civili, amministrativi o penali, salvo quanto disposto dagli artt. 651 ss. c.p.p. Al riguardo, è noto che un diverso coordinamento fra processo penale e processo tributario era previsto, per ciò che attiene all’accertamento dei “fatti tributari”, dall’art. 12 della L. 429 del 1982 che attribuiva valore vincolante all’accertamento in sede penale dei fatti rilevanti ai fini dell’applicazione delle imposte dirette e dell’Iva. La disposizione è stata abrogata dall’art. 25 del D.lgs. n. 74 del 2000. Con questo, però, non è venuta meno ogni forma di “coordinamento” fra giudizio penale e giudizio tributario che, tuttavia, resta affidato al solo valore di prova atipica, liberamente valutabile dal giudice tributario, riconosciuta al giudicato penale. Tuttavia, ancorché sembri che la giurisprudenza sia fermissima nell’affermare questa soluzione, si potrebbe ritenere quantomeno dubbio che una simile efficacia probatoria possa sussistere anche nelle ipotesi di presupposizione. È questo un tema che affronteremo immediatamente osservando la questione dal punto di vista del processo tributario. Ma fin d’ora è il caso di rilevare che la scelta di costruire la fattispecie penale in modo tendenzialmente
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autonomo e di fondare la causa di non punibilità sulla presupposizione del “debito tributario” sono chiaramente indici di una scelta legislativa di limitare, per quanto possibile, l’autonomo accertamento del “debito” da parte del giudice penale. Se così è, ipotizzare che, poi, le statuizioni del giudice a tale riguardo possano costituire prova atipica nel processo tributario, sembrerebbe costituire una conseguenza non coerente con le premesse. 8.4. (Segue) B.2. Giudicato tributario e giudizio penale. – Al contrario del processo penale – la cui disciplina comprende più norme volte a disciplinare l’efficacia extrapenale del giudicato – la disciplina del processo tributario tace totalmente sul tema. Come si è detto, il problema non si pone per le questioni che il giudice tributario risolve in via incidentale, perché è la natura incidentale della cognizione che esclude una rilevanza dell’accertamento in qualsiasi altro processo (anche tributario e, a fortiori, penale). Ma il giudizio in merito all’imposta non ha, ovviamente, natura incidentale e, quindi, l’esclusione, non solo pacifica, ma anche incontrastata di ogni rapporto di pregiudizialità è il riflesso del totale abbandono di ogni aspirazione all’unità della funzione giurisdizionale. Detto, altrimenti, nel sistema vigente sembrerebbe pacifico che il coordinamento fra giudizi è eccezionale e deve essere espressamente previsto, in difetto i giudizi devono restare autonomi. Occorre rilevare, al riguardo, che questa soluzione non risulta minimamente imposta a livello costituzionale, anzi in una delle due famose sentenze con le quali la Consulta dichiarò l’illegittimità della pregiudiziale tributaria (cfr. Corte Cost. n. 89 del 1982), il giudice delle leggi ritenne che là dove la fattispecie penalmente rilevante è integrata da un “fatto tributario” “si comprende, ed è costituzionalmente lecito, che nei casi in cui da quell’accertamento dipende se il reato esiste oppure no, l’azione penale abbia corso solo dopo che l’accertamento sia divenuto definitivo, come dispone l’ultimo comma dell’art. 58 del D.P.R. n. 633 del 1972. In questi casi non può nemmeno propriamente parlarsi di una deroga al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, perché manca al P.M. – né egli ha facoltà di determinarlo – un elemento essenziale della contestazione del reato, cioè la nozione di quell’elemento – il superamento del previsto ammontare del tributo evaso o del rimborso indebitamente ottenuto – che costituisce la soglia oltre la quale il fatto diviene reato”.
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Sembrerebbe plausibile leggere nelle parole di questa sentenza, non solo una valutazione di liceità, ma addirittura una “preferenza” per un forte livello di coordinamento fra giudizio tributario (e attività amministrativa di accertamento) e giudizio penale. In realtà, una certa tutela alle esigenze di coordinamento è arrivata da alcuni arresti giurisprudenziali che, pur senza escludere in alcun modo che l’accertamento di ogni elemento della fattispecie competa al giudice tributario, ha peraltro riconosciuto che su di questi incombe un onere aggravato di motivazione ove egli intenda discostarsi dalla determinazione dell’imposta evasa cui si è pervenuti in sede di amministrativa o giurisdizionale. In pratica, le esigenze di coordinamento sono state salvaguardate con il riconoscimento (in questo caso senza necessità di una espressa previsione) alle definizioni in sede amministrativa e giudiziaria del valore di prova liberamente apprezzabile dal giudice. Questi orientamenti sollecitano due riflessioni, fermo restando che la facilità con la quale si nega al giudicato tributario (e alle altre definizioni amministrative) un effetto pregiudicante per mancanza di una norma che lo preveda e, tuttavia, gli si attribuisce valore di prova, nonostante la mancanza di una disposizione che lo consenta (salva la generica previsione dell’atipicità delle prove penali), attesta che la ricerca di una soluzione avviene su basi prettamente empiriche. La prima è che, forse già anteriormente alla novella, ma sicuramente a decorrere dall’introduzione del nuovo art. 4, comma 1-bis, diventa difficile trattare diversamente la sentenza tributaria che determina una minore imposta evasa (così riportando la condotta al disotto delle soglie previste) e la sentenza tributaria che, ad esempio, riqualifica un costo indeducibile come non inerente anziché non esistente (così riportando comunque l’imposta evasa al di sotto delle soglie, ma non per il suo ammontare in senso assoluto, quanto per la ricordata irrilevanza, ai fini del computo dell’evasione, dei componenti negativi esistenti ma indeducibili per ragioni di inerenza ecc.). Val quanto dire che, se alla sentenza si riconosce valore di prova per ciò che attiene alla soglia, è difficile non estendere ulteriormente l’oggetto di ciò che può essere “provato” attraverso la sentenza. La seconda è che, se già si riconosce un’esigenza di coordinamento fra giudizi che hanno ad oggetto l’entità dell’imposta, da un lato, e gli elementi della fattispecie propri della norma richiamata, dall’altro, è logicamente conseguenziale, poi, ammettere che tale esigenza si presenta in modo ancor più stringente quando un elemento della fattispecie tributaria assume rilevanza nella disciplina penale in quanto oggetto di una presupposizione.
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In realtà, la stessa tendenziale anteriorità della estinzione del “debito d’imposta” rispetto al processo penale ai fini della integrazione della causa di non punibilità sembrerebbe confermare che l’entità del “debito” non è accertata dal giudice penale. Ma si tratta, evidentemente, solo di un’indicazione tendenziale perché, là dove il debito sia stato estinto mediante dichiarazione integrativa, nulla esclude che vi possa essere controversia sull’effettiva piena estinzione del debito e delle relative sanzioni (e ciò a prescindere dall’ulteriore elemento di complessità derivante dal dubbio se il debito debba essere quantificato al lordo o al netto delle componenti non rilevanti penalmente). In questa ipotesi, ovviamente l’entità debito e l’effettività della sua estinzione dovranno essere accertate dal giudice penale e si porrà in pieno il problema dei rapporti fra tale accertamento e quelli operati dal giudice tributario e dell’Agenzia. È ovvio che la più rilevante obiezione che è dato muovere all’idea che le determinazioni amministrative e processuali del debito d’imposta possano condizionare la sua determinazione in sede penale è legata alla possibilità che, proprio in sede amministrativa e processuale, la quantificazione del debito avvenga sulla base di criteri e regole del tutto avulsi dalla logica del processo penale e, come tali, con esso incompatibili. Ma, in assenza di una chiara indicazione del legislatore e, al contempo, in presenza di forti aspirazioni al coordinamento, è difficile immaginare che la soluzione possa individuarsi altrimenti che sulla scorta di considerazioni di ordine puramente pragmatico e, quindi, sempre sistematicamente insoddisfacenti.
Guglielmo Fransoni
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Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem alla luce del diritto comunitario Il lavoro, dopo aver esaminato l’attuale assetto dei rapporti tra l’irrogazione delle sanzioni amministrative e di quelle penali, comminate per lo stesso fatto alla stregua del principio di specialità accolto dal decreto legislativo n. 74 del 2000, è rivolto a cogliere le conseguenze dell’impatto sul nostro sistema legislativo del principio del ne bis in idem, così come elaborato dalla giurisprudenza della CEDU. This work, after analyzing the current structure of relations between the imposition of administrative sanctions and criminal penalties, applied for the same act in observance of the principle of speciality accepted by the Legislative Decree n. 74/2000, aims to grasp the consequences of the impact that the “ne bis in idem” principle, so as developed by the jurisprudence of the European Court of Human Rights, has had on our legal system.
Sommario: 1. Il concorso di sanzioni amministrative e di sanzioni penali in ambito
tributario: l’evoluzione legislativa al riguardo e l’approdo al principio di specialità. – 2. Limiti e deroghe al principio di specialità rinvenibili nel decreto legislativo n. 74 del 2000 e le novità introdotte dalla bozza di decreto legislativo approvata dal Governo in data 27 giugno 2015. – 3. L’operatività del principio del ne bis in idem secondo la giurisprudenza comunitaria e il suo impatto sulla disciplina contenuta nel decreto legislativo n. 74 del 2000. – 4. Il difficile trapianto del principio comunitario del ne bis in idem nel nostro ordinamento tributario ed i timidi segnali relativi al superamento del problema del concorso di illeciti amministrativi e di illeciti penali nella recente legge delega relativa alla riforma del sistema fiscale.
1. Il concorso di sanzioni amministrative e di sanzioni penali in ambito tributario: l’evoluzione legislativa al riguardo e l’approdo al principio di specialità. – Il concorso di sanzioni amministrative e di sanzioni penali è stato variamente disciplinato nel tempo dal legislatore. Con la legge 7 gennaio 1929, n. 4, rimasta in vita per un lungo periodo, fu adottato il criterio dell’alternatività tra i due tipi di sanzioni: infatti,
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dall’articolo 3 di essa fu sancito che le “leggi finanziarie stabiliscono quando dalla violazione delle norme in esse contenute e che non costituisca reato sorga per il trasgressore l’obbligazione al pagamento di una somma, a titolo di pena pecuniaria a favore dello Stato”. Dal criterio dell’alternatività si passò a quello del cumulo con il decreto legge 10 luglio 1982, n. 429 (convertito con la legge n. 516 del 1982), il cui articolo 10 stabilì che l’applicazione delle sanzioni penali previste da detto provvedimento non escludesse l’applicazione delle sanzioni amministrative (pene pecuniarie) previste dalle disposizioni vigenti in materia di imposte sul reddito e sul valore aggiunto. Ciò sebbene poco tempo prima la legge 24 novembre 1981, n. 689, recante la disciplina generale delle sanzioni amministrative, con esclusione di quelle contemplate in materia tributaria, avesse adottato il criterio di specialità, sancendo che, quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale. Per completezza del quadro si deve ricordare che l’opzione a favore del criterio del cumulo fu giustificata con il fatto che, a differenza delle sanzioni amministrative tendenti a colpire l’evasione, i reati enucleati dalla legge del 1982 erano tutti incentrati su fattispecie di pericolo prodromiche all’evasione stessa, sicché illeciti penali e illeciti amministrativi risultavano strutturati in maniera da avere oggetti diversi, in quanto preordinati a colpire fatti diversi. Da ultimo, con la riforma del sistema penale tributario ad opera del decreto legislativo n. 74 del 2000, la disciplina del concorso di sanzioni di tipo diverso nel settore tributario è stata uniformata con quella della legge n. 689 del 1981 mediante l’adozione del principio di specialità di cui all’articolo 19, formulato in termini identici all’articolo 9 della suddetta legge. A questo punto si impone un duplice ordine di considerazioni. Va precisato, in primo luogo, che il criterio di specialità, al quale fa riferimento l’art. 15 c.p. con riguardo all’ipotesi di più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale che regolano “la stessa materia”, per un verso mira ad attuare il principio del ne bis in idem e, per l’altro, serve ad identificare e regolare un concorso apparente di norme incriminatrici, che si contrappone al concorso effettivo o reale ed al concorso formale delle stesse: si ha infatti unicità di reato, posto che unica è la norma incriminatrice applicabile nello specifico caso. In sede penale è stato messo in evidenza che, oltre a quello di specialità, vi sono altri criteri per identificare le ipotesi di concorso apparente, quali il criterio di sussidiarietà e, soprattutto, quello di assorbimento o consunzione. In particolare, secondo la dottrina più accreditata, quest’ultimo non poggia su di un rapporto
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logico tra norme, come è per il principio di specialità, bensì su di un rapporto di valore per cui l’apprezzamento negativo del fatto risulta tutto compreso nella norma che prevede il reato più grave. Giova ulteriormente evidenziare, per lo sviluppo del discorso che ci proponiamo di fare, che la giurisprudenza tende a ritenere applicabile il solo criterio di specialità; soluzione, questa, che a maggior ragione si impone nelle ipotesi di concorso di sanzioni amministrative con sanzioni penali delle quali si occupa il citato articolo 19 del decreto legislativo n. 74 del 2000, posto che quest’ultimo non contiene la clausola di salvaguardia (“salvo che sia altrimenti stabilito”) rinvenibile nell’art. 15 c.p. In secondo luogo, merita rammentare che all’art. 19 del decreto del 2000 fanno seguito gli articoli 20 e 21, i quali concorrono, insieme al primo, a delineare il complessivo sistema in cui opera il criterio di specialità, con la specificazione delle concrete modalità operative dello stesso. L’articolo 20 prevede che il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possano essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti oppure fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione; allo stesso modo e ai sensi degli articoli 3 e 479 c.p.p., non può sospendersi il processo penale in attesa della definizione di quello tributario, stanti i limiti probatori relativi a tale secondo processo. È, questo, il sistema del cosiddetto doppio binario, i cui corollari sono due: da un lato, che il giudicato tributario non ha alcuna efficacia nel giudizio penale, a differenza di quanto avveniva prima del decreto legge n. 429 del 1982, allorché vigeva la regola della pregiudiziale tributaria; dall’altro, e correlativamente, quello per cui neppure il giudicato penale ha efficacia nel processo tributario, anche se l’inefficacia extrapenale del primo suole farsi discendere dall’articolo 654 c.p.p., a motivo delle limitazioni probatorie alle quali soggiace il secondo. Quanto all’art. 21, esso, dopo aver stabilito al primo comma che l’ufficio competente irroga comunque le sanzioni amministrative relative alle violazioni tributarie fatte oggetto di notizia di reato, aggiunge, al secondo comma, che tali sanzioni non sono eseguibili nei confronti dei soggetti diversi da quelli indicati dall’art. 19, comma 2, salvo che il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione o con sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto. Con quest’ultima norma il legislatore del 2000 ha inteso evidentemente operare un contemperamento tra l’applicazione del principio di specialità e del principio del doppio binario, siccome recepiti dai precedenti articoli 19 e 20, e l’esigenza di non determinare un’eccessiva dilatazione dei tempi di
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svolgimento in concreto dell’attività amministrativa di accertamento del tributo evaso e di irrogazione delle connesse sanzioni non penali; ciò anche in considerazione dei ristretti termini di decadenza ai quali soggiacciono l’una e l’altra, oltreché per preservare la funzione intimidatrice e afflittiva delle seconde. Non mi sembra, però, che egli sia riuscito del tutto in tale intento. Lasciando per il momento da parte i problemi interpretativi suscitati dalla formula adoperata dall’art. 21, l’alternativa cui ci si trova di fronte può riassumersi, per il momento e grosso modo, nei seguenti termini: se il giudice penale condanna l’imputato, allora le sanzioni amministrative diventano ineseguibili; mentre si verifica il contrario se l’imputato viene assolto. Così stando le cose, appare allora innegabile che il giudicato formatosi nella sede penale finisce per rivestire efficacia vincolante rispetto al procedimento e/o al processo tributario che ne sia conseguito in ordine alla concreta applicazione delle sanzioni amministrative, in barba all’autonomia dei rispettivi procedimenti e processi disposta dall’art. 20. Un esempio valga per tutti: se il procedimento o il processo tributario risultano definiti con l’accertamento di un’imposta evasa di entità inferiore al minimo edittale e con irrogazione delle relative sanzioni amministrative, queste tuttavia restano ineseguibili se il giudice penale addiviene alla condanna del contribuente per aver a sua volta e viceversa accertato un’imposta dovuta superiore al minimo edittale; con la conseguente necessità, per un verso, di ritenere che è sempre speciale la norma penale e, per l’altro, di attribuire efficacia preminente e decisiva al giudicato penale. E veniamo ai dubbi e alle incertezze ermeneutici suscitati dalla formula dell’esclusione della rilevanza penale del fatto come condizione essenziale affinché le sanzioni amministrative possano essere eseguite; dubbi ed incertezze dovuti alla constatazione che essa è diversa dalle formule assolutorie contemplate dall’art. 530 c.p.p. La tesi prevalente in dottrina è quella restrittiva per cui l’esclusione della rilevanza penale sussisterebbe solo quando il proscioglimento dell’imputato si collega all’accertamento della non ricorrenza degli elementi specializzanti della norma e delle fattispecie penali, ossia il superamento della soglia di punibilità e la natura dolosa della condotta. E a tale tesi si può prestare adesione, essendo difficile contrapporne un’altra che non sia in contrasto con il principio di specialità. Ciò, tuttavia, senza poter omettere la duplice constatazione che: a) così opinando, si prescinde dall’operatività del principio di specialità, poiché nei casi suddetti non vi è concorso di norme sanzionatorie ma una
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sola norma punitiva, e cioè quella che commina la sanzione amministrativa; b) facendo conseguire la non eseguibilità delle sanzioni amministrative pur quando l’assoluzione è pronunciata dal giudice penale, perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso oppure per intervenuta prescrizione del reato, si finisce per non far gravare su quest’ultimo nessuna delle due sanzioni e, quindi, per limitare notevolmente gli effetti di deterrenza del sistema sanzionatorio in materia tributaria, a prescindere dalla già rilevata efficacia di giudicato che in definitiva si viene a riconoscere alla sentenza penale. 2. Limiti e deroghe al principio di specialità rinvenibili nel decreto legislativo n. 74 del 2000 e le novità introdotte dalla bozza di decreto legislativo approvata dal Governo in data 27 giugno 2015. – L’articolo 19 del decreto legislativo n. 74 del 2000, dopo aver sancito al primo comma l’applicazione del principio di specialità, aggiunge al secondo comma che “permane, in ogni caso, la responsabilità per la sanzione amministrativa dei soggetti indicati nell’articolo 11, comma, 1 del D.lgs. 18 dicembre 1997, che non siano persone fisiche concorrenti nel reato”. A sua volta, e correlativamente, il secondo comma dell’articolo 21, di cui ci siamo occupati nel paragrafo precedente, precisa che il particolare meccanismo ivi escogitato per rendere operante il principio di specialità non opera nei confronti dei soggetti contemplati dal secondo comma dell’articolo 19. Ora, come è noto, l’articolo 11 del decreto legislativo n. 472 del 1997 (nella sua originaria formulazione) aveva previsto, fra l’altro e in specie, che quando una violazione incidente sulla determinazione o sul pagamento del tributo fosse commessa dal dipendente o dal rappresentante legale o negoziale di una persona fisica, ovvero dal dipendente o dal rappresentante o dall’amministratore anche di fatto di società, associazioni o enti con o senza personalità giuridica, nell’esercizio delle relative funzioni o incombenze, questi altri soggetti nell’interesse dei quali avesse agito l’autore della violazione restassero obbligati solidalmente al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata, salvo il diritto di regresso secondo le disposizioni vigenti. Successivamente, l’articolo 7 del decreto legge n. 269 del 2003 ha reintrodotto il principio della riferibilità delle sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica a carico esclusivo di quest’ultimi soggetti. Questo essendo il quadro normativo vigente, non si stenta a convincersi che il principio di specialità, pur enfatizzato dall’art. 19 del decreto n. 74 del
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2000, ha un campo di applicazione limitato, esso operando soltanto quando contribuente ed autore dell’illecito siano lo stesso soggetto. Invero, nelle ipotesi contemplate dall’art. 11 nella sua versione attuale, la responsabilità solidale dei soggetti ivi individuati può condurre nella sostanza, a seguito dell’esercizio del diritto di regresso espressamente riconosciuto nei confronti della persona fisica autore dell’illecito penale, al cumulo materiale (che è stato definito aberrante) della sanzione amministrativa e della sanzione penale in capo a quest’ultimo; risultato, questo, che è l’esatto contrario del concorso apparente di norme e di sanzioni relative allo stesso fatto sotteso al principio di specialità. Val la pena segnalare, per completezza dell’informazione, che alla stregua dell’art. 5, secondo comma del decreto legislativo 472 del 1997 e, oggi, del successivo articolo 11, come riformulato in base alla modifica introdotta dal decreto legislativo 7 ottobre 2015, n. 158 e recante l’attuazione della recente legge delega per la riforma tributaria, trovasi stabilito che, se la violazione non è commessa con dolo o colpa grave, la sanzione amministrativa non può essere eseguita nei confronti dell’autore che non ne abbia tratto diretto vantaggio in somma eccedente € 50.000,00, salva la responsabilità prevista a carico della persona fisica, della società, dell’associazione o dell’ente. Ora, e per un primo verso, non può sfuggire la singolarità di un coinvolgimento di questi ultimi soggetti, da considerarsi coobbligati solidali dipendenti, che operi per la parte eccedente la somma suddetta pur quando venga meno la responsabilità del coobbligato principale, identificabile per l’appunto nell’autore della violazione; per altro verso, poi, sorge il dubbio se e in quale misura sia esercitabile il diritto di regresso e, quindi ed in definitiva, se e in qual misura si verifichi il cumulo delle sanzioni in capo all’autore della violazione. Ancora più complesso e articolato è il discorso concernente i soggetti dotati di personalità giuridica. È probabile che alla base della disciplina oggi vigente vi sia la volontà del legislatore di colpire direttamente e esclusivamente il soggetto (appunto, la persona giuridica) che si avvantaggia della violazione tributaria; volontà non disgiunta dall’idea che la sanzione pecuniaria amministrativa sia dotata di un’efficacia deterrente ed intimidatrice maggiore della sanzione penale. Se così è, è agevole obiettare, da un lato, che qui non viene in considerazione l’imputazione della prestazione tributaria bensì l’assoggettamento ad una sanzione e, quindi, ad una prestazione di natura afflittiva; e, dall’altro, che l’idea di cui sopra contrasta con il pacifico assunto per cui la comminatoria di una sanzione penale si addice agli illeciti nei cui confronti sia massimo il giudizio di disvalore sociale.
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Vero è che in tali ipotesi la non operatività del principio di specialità si presta ad essere giustificata in ragione della diversità dei soggetti destinatari dell’una e dell’altra sanzione. Ma, a prescindere dai dubbi che una simile giustificazione può far sorgere, tenuto conto che il suddetto principio regola un concorso di norme sanzionatorie confluenti sullo stesso fatto, è altrettanto vero che non si può tralasciare un ulteriore rilievo; e con questo anticipo un dato di cui mi occuperò più diffusamente in seguito. Trattasi dell’orientamento giurisprudenziale comunitario che qualifica come sostanzialmente penali le sanzioni pecuniarie pur definite formalmente amministrative. Orbene, alla luce del sistema oggi vigente, viene consentito di applicare una sanzione (anche formalmente) penale all’autore della violazione ed una sanzione (formalmente amministrativa ma) sostanzialmente anch’essa penale alla persona giuridica, a prescindere da ogni sua responsabilità, in spregio all’art. 27 Cost. (in forza del quale, per l’appunto, la responsabilità penale è personale) e senza che tali soggetti possano in alcun modo sottrarsi alla predetta sanzione pecuniaria amministrativa pecuniaria; ciò a differenza di quanto previsto dagli articoli 6 e 7 della legge n. 231 del 2001 in tema di responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, in virtù dei quali l’ente non risponde qualora esso abbia tenuto determinati comportamenti tali da escludere nella sostanza un suo coinvolgimento nella commissione dell’illecito. Un’ulteriore deroga al principio di specialità si rinveniva nell’art. 13 del decreto legislativo n. 74 del 2000. Ivi, infatti ed alla stregua del tenore originario dell’articolo in questione, si configurava come circostanza attenuante per i delitti di cui al suddetto decreto il pagamento, prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, dei debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi effettuato anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie; con l’aggiunta della precisazione che, a tal fine, il pagamento dovesse riguardare anche le sanzioni amministrative previste dalle norme tributarie, sebbene non applicabili all’imputato a norma dell’art. 19, comma 1. In contrario, non varrebbe a mio avviso addurre che in tali casi il pagamento delle sanzioni amministrative congiuntamente all’applicazione delle sanzioni penali discende da un atto volontario, giacché, come opportunamente rilevato, il principio di specialità poggia su di un rapporto logico tra norme e la sua operatività non può dunque essere influenzata in alcun modo dalla volontà dell’autore della violazione intesa a consentire l’applicazione cumulativa delle norme stesse e delle relative sanzioni.
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Di ciò sembra essersi avveduta, ma solo in parte, anche il decreto legislativo n. 158 del 2015 innanzi richiamato, che, con la nuova formulazione dell’art. 13 e nei limiti e alle condizioni ivi fissati, prevede la trasformazione dell’integrale pagamento dei debiti tributari, ivi comprese le sanzioni amministrative, in causa di non punibilità per i reati di cui agli articoli 4, 5, 10-bis, 10-ter e 10-quater; con la conseguenza che ad essere applicata è una sola sanzione e si evita così il cumulo con la sanzione penale. Per tutti gli altri reati invece – e, comunque, quando non opera il novellato articolo 13 – il successivo art. 13-bis della bozza di decreto delegato innanzi citata ha tenuto ferma la configurazione del pagamento omnicomprensivo (ossia esteso anche alle sanzioni amministrative) come mera circostanza attenuante; sicché, in tutti questi casi, continua a profilarsi la deroga al principio di specialità che ho ritenuto di poter ravvisare nell’applicazione di entrambi i tipi di sanzioni. 3. L’operatività del principio del ne bis in idem secondo la giurisprudenza comunitaria e il suo impatto sulla disciplina contenuta nel decreto legislativo n. 74 del 2000. – Con riguardo al concorso di sanzioni amministrative e di sanzioni penali si è andato consolidando nel tempo, a livello comunitario, un orientamento giurisprudenziale che, sulla base di una premessa di cui subito dirò, è pervenuto alla definizione e alla conseguente applicazione del principio convenzionale del ne bis in idem. In particolare si è ritenuto che: A. sono da assimilare alle sanzioni penali le sanzioni formalmente amministrative aventi efficacia non meramente riparatoria o risarcitoria, bensì preventiva e repressiva, ossia con funzione afflittiva. Tale assunto si è manifestato fin dalla sentenza Engel c. Paesi Bassi del 1976 pronunciata dalla CEDU ed è stato ripetutamente messo a fuoco con numerose sentenze della stessa Corte anche con riferimento alle sanzioni amministrative in materia tributaria (in proposito, per tutte, si vedano la sentenza 5 giugno 2014 Nykànen c. Finlandia e la sentenza 10 febbraio 2015 Kliveri c. Finlandia); B. posta tale premessa, se ne è conseguentemente desunto, con l’adesione di numerosa dottrina, che anche in tema di sanzioni formalmente amministrative ma sostanzialmente penali tornano applicabili sia l’articolo 4 del Prot. n. 7 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sia l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, i quali, con formula sostanzialmente identica, stabiliscono che nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a
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seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato. La sentenza capostipite è quella della CEDU Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014 in materia di abusi di mercato, ma altre ne sono seguite nello stesso senso e, per quanto ci riguarda specificamente, anche in tema di sanzioni amministrative concernenti la materia tributaria (così, in specie, le due sentenze citate nella precedente lettera A). Siffatto orientamento induce a formulare alcune considerazioni. Come si è evidenziato nei paragrafi precedenti, per identificare e disciplinare il concorso apparente di norme e di sanzioni sono stati individuati una pluralità di criteri, tutti intesi ad attuare il principio del ne bis in idem. Ciò sta a significare che quest’ultimo opera in un determinato ordinamento secondo modalità e strumenti diversi, cui corrisponde (o può corrispondere) un ambito applicativo più o meno ampio. Così stando le cose, ritengo che meriti una puntualizzazione l’opinione piuttosto diffusa secondo cui il ne bis in idem, come principio di diritto sostanziale, troverebbe esplicito riconoscimento quale diritto fondamentale dell’individuo soltanto nella normativa comunitaria; mentre il ne bis in idem processuale è riconosciuto a livello di legislazione interna dall’articolo 649 c.p.p., che vieta di promuovere un secondo giudizio nei confronti dello stesso soggetto per il medesimo fatto. La verità è a mio avviso un’altra. Il principio del ne bis in idem sostanziale trova attuazione all’interno del nostro sistema penale generale mediante l’adozione del criterio di specialità ad opera dell’art. 15 c.p. e, nel settore tributario, ad opera dell’articolo 19 del decreto legislativo n. 74 del 2000; con una differenza non trascurabile rispetto al principio comunitario. Invero, le due disposizioni suddette assumono ad oggetto dell’illecito il fatto in senso astratto, e cioè individuato avendo riguardo all’astratta fattispecie normativa; in sede comunitaria, invece e come la giurisprudenza comunitaria in argomento non ha mancato di evidenziare, quel che rileva ai fini dell’operatività del principio in questione è il fatto in concreto (in questi termini si è pronunciata, tra le altre, la sentenza della CEDU del 10 febbraio 2009, Zolotukhin c.Russia). La conseguenza è dunque che il principio medesimo copre una sfera applicativa più ampia alla stregua del diritto comunitario rispetto a quella propria del diritto interno. Al riguardo, può essere utile ricordare che il nostro giudice di legittimità ha ritenuto non invocabile il principio di specialità, in quanto ricorrerebbe un concorso effettivo e non apparente di norme (con l’inevitabile cumulo delle due sanzioni), nei rapporti tra l’illecito amministrativo del ritardato o omesso versamento diretto di cui all’articolo
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13 del decreto legislativo n. 472 del 1997 e il reato di omesso versamento di ritenute certificate di cui all’articolo 10-bis del decreto legislativo n. 74 del 2000; ciò in quanto le fattispecie disciplinate dalle due norme sono diverse, configurandosi in specie, con riguardo alla fattispecie penale, un’ipotesi di reato in progressione. Orbene, non credo possa dubitarsi che ad una soluzione opposta (non cumulabilità delle due sanzioni) si perviene ove si faccia corretta applicazione del ne bis in idem nella versione comunitaria, dal momento che l’illecito amministrativo e l’illecito penale di cui trattasi mirano a colpire un identico fatto concreto, consistente nell’omesso o tardivo versamento di ritenute. Quanto all’art. 649 c.p.p., occorre tenere presente che in forza di esso l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto; se ciò nonostante viene di nuovo iniziato un procedimento penale, il giudice, in ogni stato e grado del processo, pronuncia sentenza di proscioglimento enunciandone la causa nel dispositivo. La mia convinzione è che tale disposizione, la quale viene generalmente intesa nel senso che essa fa del pari riferimento al fatto concreto (come evidenziato dall’inciso “neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo”), recepisce in verità tanto il ne bis in idem sostanziale, giacché non consente la doppia punizione dello stesso soggetto per il medesimo fatto (in tal senso si veda Cass. Sez. III pen. , sentenza 19334 dell’11/05/2015), quanto il ne bis in idem processuale (che invece la sentenza appena citata ritiene previsto dall’art. 669 c.p.p.), dal momento che essa, pur consentendo la pendenza di un doppio giudizio penale, preclude la prosecuzione del secondo dopo che il primo si sia concluso con una pronuncia definitiva. Dunque, venendo alla nostra materia e tirando le file del discorso: A. la sanzione formalmente amministrativa ma sostanzialmente penale non può cumularsi con la sanzione penale comminata per il reato previsto con riferimento allo stesso fatto concreto; B. il rapporto tra il procedimento relativo all’applicazione della prima e il procedimento relativo all’applicazione della seconda è regolato dalla loro scansione temporale, vale a dire che vige la regola della prevalenza del procedimento che si conclude per primo in una sorta di corsa contro il tempo: una volta definito uno dei due procedimenti, l’altro non può essere iniziato, e se è pendente deve comunque arrestarsi, senza mai concludersi e tantomeno condurre alla comminatoria nei confronti dello stesso soggetto di una seconda sanzione cumulabile con quella già erogata (non sto qui ad indagare sulle
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particolari problematiche suscitate dalle peculiarità del procedimento e del processo tributario che provvedono all’irrogazione della sanzione solo formalmente amministrativa); C. ne discende la sicura e manifesta incompatibilità con la normativa comunitaria, da un lato, del sistema delineato dagli articoli 19, 20 e 21 del decreto legislativo n. 74 del 2000, imperniato sulla esclusiva ed oltretutto limitata applicazione del principio di specialità, sulla regola del doppio binario e sul meccanismo di raccordo – del quale ci siamo ampiamente occupati in precedenza – degli atti di definizione del procedimento che si svolge in sede amministrativa e di quello che si svolge in sede penale; dall’altro, dell’attuale articolo 13-bis del decreto legislativo 472 del 1977 (nella formulazione recata dalla citata bozza di decreto legislativo), che addirittura prevede e consente nei confronti dello stesso soggetto l’applicazione di entrambe le sanzioni, in spregio anche al principio di specialità, come si è già avuto occasione di rilevare. Resta da verificare come possa e debba dirimersi siffatto contrasto. Quest’ultimo è stato sottoposto al vaglio della giurisprudenza, la quale ha avuto inizialmente un atteggiamento molto cauto, cercando di non affrontare funditus il problema; ma, successivamente, non si è più sottratta alla necessità di prendere posizione al riguardo. Si sono così succedute negli ultimi tempi tre ordinanze di remissione alla Corte Costituzionale: due concernenti gli illeciti nel settore degli abusi di mercato (Cass., Sez. V pen. 15 gennaio 2015, n. 1792, e Cass., Sez. Tributaria, 21 gennaio 2015, n. 250) e una concernente gli abusi tributari (Trib. pen. Bologna, 21 aprile 2015). Soffermando ratione materiae l’attenzione solo su quest’ultima, è dato constatare che con essa è stata sollevata (come hanno fatto le due sentenze appena citate dei giudici di legittimità) la questione di costituzionalità dell’articolo 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina da esso dettata al caso in cui all’imputato sia già stata irrogata, per il medesimo fatto e nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione alla quale debba riconoscersi tuttavia natura sostanzialmente penale. Non credo che questa impostazione, quale che sia l’interpretazione di cui sia ritenuto passibile l’articolo 649 c.p.p., colga nel segno. Infatti, una volta individuate le norme speciali del decreto legislativo n. 74 del 2000 alle quali sia imputabile la violazione del principio comunitario del ne bis in idem, sono quest’ultime che vanno disapplicate, come la dottrina tributaristica non ha mancato di rilevare. Con questa distinzione: se si tratta di tributi interni e la norma comunitaria invocabile è l’articolo 4 del Protocollo n. 7 della
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Convenzione EDU, la disapplicazione potrà essere solo indiretta, perché, configurandosi quest’ultimo quale norma interposta secondo la tesi fatta propria dalla Corte costituzionale, essa deve passare attraverso la remissione davanti a tale organo della questione di legittimità costituzionale delle disposizioni dettate dal decreto n. 74 del 2000 per violazione dell’articolo 117 Cost. ed in relazione al suddetto articolo 4; se, invece, si tratta di tributi armonizzati come l’IVA, allora il giudice interno investito del secondo procedimento relativo alla irrogazione della sanzione (amministrativa o penale) può, in virtù del disposto dell’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, addivenire alla disapplicazione diretta delle norme di cui sopra con esso in contrasto. Nei rilievi che precedono è implicito il nostro dissenso nei confronti della sentenza 7 maggio 2015 del Tribunale di Asti, che ha ritenuto di poter applicare analogicamente l’articolo 649 c.p.p. Ciò dal momento che il presupposto dell’analogia è l’esistenza di un vuoto legislativo, che invece nel nostro caso manca in presenza delle disposizioni speciali del decreto n. 74 del 2000 disciplinanti il rapporto tra procedimento amministrativo e processo penale, seppure in maniera conflittuale con il principio comunitario del ne bis in idem; ed a nulla rilevando che, sotto il profilo qui considerato, il tenore di quest’ultimo sia non dissimile dall’articolo 649 c.p.p. 4. Il difficile trapianto del principio comunitario del ne bis in idem nel nostro ordinamento tributario ed i timidi segnali relativi al superamento del problema del concorso di illeciti amministrativi e di illeciti penali nella recente legge delega relativa alla riforma del sistema fiscale. – Occorre, alla fine, fare un ulteriore passo avanti per valutare l’impatto dell’accoglimento del principio comunitario del ne bis in idem sul sistema sanzionatorio in materia tributaria. Non possono essere trascurati, come spesso purtroppo è avvenuto in dottrina e giurisprudenza, gli effetti negativi che ne discendono e che qui di seguito passiamo a mettere in evidenza. A. L’irrogazione delle sanzioni amministrative avviene in via autonoma con la notifica di un apposito atto di contestazione oppure contestualmente all’atto di accertamento del tributo e nello stesso termine di decadenza previsto per l’emanazione di quest’ultimo. Ciò, unitamente al fatto che l’agenzia delle entrate è il soggetto istituzionalmente preposto a controllare l’esatto adempimento delle prestazioni tributarie, comporta di solito che il procedimento amministrativo sia il primo ad avviarsi; inoltre, sempre normalmente, qualora segua una fase contenziosa e tenuto conto della maggiore
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celerità del processo tributario rispetto al processo penale, quasi sempre il primo è destinato a concludersi anteriormente al secondo. Ne discende che, nell’ottica del principio del ne bis in idem, è la sanzione amministrativa a prevalere il più delle volte sulla sanzione penale, impedendo l’irrogazione di quest’ultima. Non vi è dubbio, allora, che il meccanismo in questione rischia di depotenziare l’efficacia repressiva della seconda sanzione, che è quella prevista per gli illeciti rispetto ai quali è maggiore il giudizio di disvalore sociale, essendo quella più grave in quanto può comportare la privazione della libertà personale. B. In sede di procedimento amministrativo relativo all’imposta evasa e alle correlative sanzioni amministrative, la definizione di queste ultime può avvenire per mancanza di impugnazione davanti al giudice tributario oppure a seguito dell’attivazione dello strumento deflativo dell’accertamento con adesione o, in alternativa, di quello della conciliazione giudiziale nell’ambito del processo tributario. Ora, a differenza del principio di specialità che attiene ad un rapporto tra norme, il principio del ne bis in idem comunitario risulta fondato su di un rapporto tra procedimenti. Sorgono allora dubbi sull’operatività di quest’ultimo principio allorché l’assoggettamento alla sanzione amministrativa venga a dipendere da atti volontari del contribuente; anzi, con riguardo all’ipotesi dell’atto di accertamento divenuto definitivo per omessa impugnazione, la già citata sentenza Nykànen c.Finlandia lo ha espressamente escluso. C. Il processo tributario e il processo penale si svolgono davanti a giudici diversi e sono disciplinati da regole, soprattutto probatorie, diverse. In particolare a) le commissioni tributarie sono giudici onorari ma speciali in quanto forniti (almeno sulla carta) di preparazione specialistica; mentre quello penale è un giudice professionale, ma privo di specifica competenza in materia tributaria, e dalla cui cognizione, come la storia ci insegna, sono sempre state sottratte, per tale motivo, le questioni estimative; b) è vero che nel processo tributario non è ammessa la prova testimoniale (ed è questa la ragione che, invocando l’articolo 654 c.p.p., induce ad escludere l’efficacia del giudicato penale nel giudizio tributario), ma è altrettanto vero che nel suo ambito operano moltissime presunzioni legali che nel giudizio penale scadono a semplici indizi; a sua volta, il giudice penale dispone di poteri istruttori più ampi rispetto al giudice tributario perché, oltre alla prova testimoniale, può ricorrere ad altre prove non ammesse nel giudizio davanti alle commissioni, quali ad esempio le intercettazioni. Insomma, siamo di fronte a processi non comparabili tra di loro, sicché non può non apparire irragionevole e fuorviante
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che la definizione dell’uno precluda l’inizio o la prosecuzione dell’altro, affidandosi la prevalenza di uno dei due al solo elemento temporale. D. Può verificarsi, sempre sulla base del principio in questione, che una volta assolto il contribuente in sede penale, il giudice tributario, il quale accerti a suo carico un debito di imposta eventualmente anche superiore alle soglie di punibilità, sia privato del potere di condannarlo al pagamento delle sanzioni amministrative, dovendo su questo punto dichiarare la cessazione della materia del contendere, come esattamente prospettato da attenta dottrina. Tale conclusione finisce per svilire la funzione intimidatrice delle sanzioni in materia tributaria e getta un’ombra di non poco conto sulla concreta applicazione del principio suddetto nel nostro campo. E. Infine, il principio comunitario del ne bis in idem non è suscettibile di eliminare l’anomalia ravvisabile, per i motivi già esposti, con riguardo al regime applicabile allorché il contribuente è una persona giuridica, alla quale sono irrogate le sanzioni amministrative in aggiunta a quelle penali applicate a carico della persona fisica autrice dell’illecito; e ciò in quanto le due sanzioni gravano su soggetti diversi, ancorché in relazione allo stesso fatto concreto. Anomalia destinata ad aggravarsi, a mio avviso, ove si accolga la tesi della natura sostanzialmente penale delle sanzioni pecuniarie pur formalmente amministrative. Che dire a questo punto? A me sembra che la soluzione idonea a superare le controindicazioni prospettate a fronte del trapianto del principio comunitario del ne bis in idem nel settore tributario debba essere ritrovata sul piano sostanziale, ritornando alla regola dell’alternatività dei due tipi di sanzioni saggiamente recepita dalla legge n. 4 del 1929, in modo da evitare il concorso delle une e delle altre: ossia, prevedendo l’irrogazione di sole sanzioni amministrative per gli illeciti ritenuti meno gravi e riservando la comminatoria di quelle penali per gli illeciti più gravi. Senza dire che i vantaggi di siffatta soluzione, che parte della dottrina ha mostrato di condividere, sarebbero anche altri: in particolare, quello di non caricare di eccessivo lavoro i giudici penali e quello conseguente di salvaguardare al massimo l’effettività della sanzione penale, minacciata da una troppo frequente maturazione della prescrizione. Merita aggiungere che la stessa strada sembrava essere stata imboccata, seppure timidamente e in modo non privo di contraddizioni, dalla legge delega n. 23 del 2014 in tema di riforma fiscale, il cui articolo 8 aveva previsto, tra i criteri direttivi, quello di dare rilievo “alla configurazione del reato … per i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione o all’utilizzo
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di documentazione falsa”; ma nel contempo, anche quello di disporre “la revisione del regime della dichiarazione infedele e del sistema sanzionatorio amministrativo al fine di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità, le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti”. Peraltro, questi criteri hanno trovato solo parziale seguito nel decreto legislativo n. 158 del 2015 di attuazione della delega, là dove ci si è limitati ad innalzare le soglie di punibilità per la maggior parte dei reati e a prevedere, con il già citato nuovo testo dell’art. 13 del decreto n. 74 del 2000, una causa di non punibilità in ordine ad alcuni reati (tra i quali quelli concernenti l’infedeltà e l’omissione della dichiarazione) legata all’estinzione dei debiti tributari mediante integrale pagamento degli importi dovuti, comprensivi delle sanzioni amministrative. D’altronde, nell’ordine di idee da me prospettato si è mossa la rammentata ordinanza n. 1782 del 15 gennaio 2015 emessa dalla Cassazione penale, la quale non si è limitata a sollevare la questione di incostituzionalità dell’art. 649 c.p.p., sebbene in via subordinata, ma ha altresì ed in via principale rimesso al vaglio della Corte Costituzionale la questione di legittimità dell’art. 187-bis, comma 1, del testo unico in materia di intermediazione finanziaria n. 58 del 1998, nella parte in cui reca l’inciso “salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato” anziché “salvo che il fatto costituisca reato”; e ciò proprio sul presupposto che l’alternatività tra sanzioni penali e sanzioni amministrative sia il regime necessario o quanto meno il più idoneo per assicurare il rispetto del principio comunitario del ne bis in idem. Mi rendo conto che la soluzione qui propugnata va incontro ad ostacoli ed obbiezioni non trascurabili. In particolare, e senza debordare dai limiti imposti dall’oggetto del presente lavoro, non si può non tenere conto che il giudizio di disvalore in ordine alle singole fattispecie, per riservare la comminatoria di sanzioni penali alle sole condotte ritenute più gravi, si presenta tutt’altro che agevole, anche sotto il profilo dell’osservanza dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità della pena; con la conseguente necessità di graduare sanzioni ammnistrative e sanzioni penali pur all’interno della stessa tipologia di fattispecie, adottando, almeno per alcuni illeciti, lo strumento di specifiche soglie di punibilità ai fini della suddetta valutazione. In tal modo, invero, il problema del rispetto del principio del ne bis in idem resterebbe sul tappeto, sebbene in misura ridotta sol che si avesse cura di stabilire soglie di punibilità piuttosto elevate e, comunque, più alte che per il passato; che è poi la strada imboccata dal decreto legislativo n. 158 del 2015.
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In tal caso, allora, non ci si potrebbe poi esimere dal prendere in considerazione una regolamentazione dei rapporti tra processo tributario e processo penale diversa da quella oggi in vigore alla stregua del sistema delineato dalla normativa contenuta nel decreto legislativo n. 74 del 2000; e ciò senza scartare aprioristicamente nessuna alternativa, nella necessaria consapevolezza del mutato contesto nel quale oggi operano i due processi.
Pasquale Russo
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Le implicazioni fiscali della morte (e resurrezione?) delle società cancellate dal registro delle imprese (*) (**) L’articolo intende analizzare le implicazioni tributarie della irreversibile estinzione delle società cancellate dal registro delle imprese. L’esigenza di tutela dei creditori sociali che tale situazione solleva nel settore fiscale pone infatti problemi diversi rispetto a quelli emergenti nel settore civile, non solo per la natura pubblicistica del credito erariale, ma per la diversa disciplina normativa preordinata alla sua realizzazione. In particolare, si verificherà l’impatto della “stabilizzazione” (procedurale e processuale) della società cancellata da ultimo introdotta dall’art. 28, comma 4 D.lgs. n. 175/2014.
The article aims to analyze the tax implications of the irreversible extinction of companies deleted from the Companies Register. The need for protection of creditors that this situation raises in tax sector arises different issues from those emerging in the civil sector, not only for the public nature of the revenue credit, but because of the different legal framework intended to its realization. In particular, the article will occur the impact of (procedural) “stabilization” of the deleted company recently introduced by art. 28, comma 4 D.lgs. n. 175/2014. Sommario: 1. Premessa. – 2. L’essenza dei problemi inerenti l’estinzione delle società
di capitali: la mancanza di regole sulle “patologie” dello scioglimento della società e l’esigenza di un’opera di “completamento” da parte dell’interprete. – 3. Le “patologie” nella vicenda estintiva delle società di capitali: la sorte dei cd. “residui” (attivi e passivi) della società. La distinzione concettuale tra “sopravvivenze” e “sopravvenienze” e le relative implicazioni. – 4. La sorte delle sopravvivenze e delle sopravvenienze passive: i rapporti tra la (generale) responsabilità di soci e liquidatori ex art. 2495, comma 2 cod. civ. e quella specificamente prevista per i debiti tributari dall’art. 36 d.p.r. n. 602/1973. – 5. (segue): la generale responsabilità dei soci verso i creditori sociali a norma dell’art. 2495, comma 2 cod. civ.: questioni civilistiche … – 6. (segue): … e falsi problemi tributari. – 7. (*) Lavoro sottoposto a revisione esterna. (**) Lavoro svolto nell’ambito del Progetto di Ricerca di Ateneo (PRA) relativo al 2014 dell’Università degli Studi di Foggia, sul tema “L’invalidità degli atti impositivi tra ordinamento europeo, statuto dei diritti del contribuente, legge generale sull’azione amministrativa ed evoluzione delle procedure di accertamento del tributo, problemi attuali, inquadramento teorico e prospettive di riforma alla luce della legge delega n. 23/2014”.
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Il problema della natura tributaria del debito dei soci per (sopravvissuti o sopravvenuti) debiti tributari della società estinta. – 8. (segue): la natura della responsabilità dei liquidatori. – 9. L’azione del Fisco nei confronti della società (benché) estinta: la valenza marginale, non strutturale, ma meramente “condonistica” dell’art. 28, comma 4 D.lgs. n. 175/2014. – 10. I caratteri della responsabilità dei soci verso il Fisco: solidarietà passiva o litisconsorzio necessario? – 11. La sorte delle sopravvivenze e delle sopravvenienze attive: premessa. – 12. Il problema della sorte dei residui attivi della società estinta e della (possibile) valenza abdicativa della cancellazione dal registro delle imprese nel pensiero di dottrina e giurisprudenza gius-commercialistica: cenni. – 13. (segue): il tendenziale approccio “monolitico” al problema da parte delle Sezioni Unite: critica. – 14. Il problema della sorte dei residui attivi nel contesto tributario: (a) i diritti reali e i diritti di credito verso terzi (sopravvissuti e sopravvenuti) in capo alla società: profili di tutela da parte dell’amministrazione finanziaria della garanzia patrimoniale del credito tributario. – 15. (segue): (b) i crediti d’imposta “da indebito” (sopravvissuti e sopravvenuti) in capo alla società: profili di tutela da parte dei soci. – 16. La sorte dei processi pendenti.
1. Premessa. – L’irreversibilità dell’effetto estintivo conseguente alla cancellazione della società dal registro delle imprese (art. 2495, comma 2 cod. civ.) (1), principio oramai saldamente acquisito nel settore civile (2), non ha tardato a trovare spazio nel settore tributario, con tutto ciò che
(1) Sul precedente orientamento giurisprudenziale (elaborato in relazione al previgente art. 2456 c.c.) secondo cui l’estinzione della società presupponeva la definizione di tutti i rapporti pendenti, a prescindere dall’intervenuta cancellazione, cui era assegnata valenza dichiarativa, si rinvia, anche per ampi riferimenti, a M. Speranzin, L’estinzione della società di capitali in seguito alla iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese, in Riv. soc., 2004, 514 ss.; C. Pasquariello, Art. 2495, in A. Maffei Alberti (a cura di), Il nuovo diritto delle società, vol. III, Padova, 2005, 2282 ss.; F. Fimmanò, F. Angiolini, Gli effetti della cancellazione della società alla luce delle pronunce delle Sezioni Unite della Cassazione, in Riv. not., 2010, I, 1465 ss). Per una approfondita disamina del tema, seppur in una prospettiva prettamente giuscommercialistica, si veda altresì G. Positano, L’estinzione della società per azioni tra tutela del capitale e tutela del credito, Milano, 2012; V. Sanna, Cancellazione ed estinzione nelle società di capitali, Torino, 2013; A. Zorzi, L’estinzione delle società di capitali, Milano, 2014. (2) Cass., SS.UU., 22 febbraio 2010, nn. 4060, 4061, 4062, su cui: R. Weigmann, La difficile estinzione delle società, in Giur. it., 2010, 1610; D. Dalfino, Le Sezioni Unite e gli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese, in Le Società, 2010, 1004; A. Zorzi, Cancellazione ed estinzione della società tra problemi di diritto intertemporale, questioni di giurisdizione fallimentare, cessazione dell’impresa e fusione per incorporazione, in Giur. Comm., 2011, II, 887; M. Pedoja, Fine della “immortalità”: per le Sezioni Unite la cancellazione della società dal Registro delle imprese determina la sua estinzione, in Corr. giur., 2010, 1013; G. Selicato, I riflessi fiscali della cancellazione delle società dal registro delle imprese, in Rass. trib., 2010, 868; C. Glendi, Cancellazione delle società, attività impositiva e processo tributario, in GT – Riv. giur. Trib., 2010, 749.
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naturalmente ne consegue, atteso il “venir meno” del soggetto giuridicocontribuente: la “radicale” invalidità – se non addirittura “inesistenza” (3) – degli atti impositivi a quest’ultimo rivolti e degli “accordi” da esso stipulati in sede di adesione (4), l’inammissibilità dei ricorsi presentati da/verso la società estinta, nonché – per alcuni – l’estinzione dei processi pendenti per difetto sopravvenuto di capacità processuale e di legittimazione passiva, se non per “cessazione della materia del contendere” (5). Come ogni creditore sociale, il Fisco si è quindi trovato esposto al rischio di veder vanificata – da un momento all’altro – la propria pretesa nei confronti della società, e ciò a seguito di un atto unilaterale della società stessa, che ha (forse un po’ troppo frettolosamente) indotto molti a ravvisare un “abuso” in tal senso (6). Da ciò l’esigenza di trovare un’altra via di
(3) Sulla possibilità, almeno nel contesto antecedente l’introduzione dell’art. 28, comma 4 D.lgs. n. 175/2014, di qualificare l’atto impositivo rivolto alla società (già) estinta come giuridicamente “inesistente”, nonché sul significato da assegnare dogmaticamente a tale concetto, si veda tuttavia infra, par. 9. (4) Sull’impatto dell’estinzione della società cancellata sugli “accordi” cui amministrazione e contribuente sono giunti in sede di accertamento con adesione, si veda, in particolare, V. Ficari, La cancellazione dal registro delle imprese e l’accertamento con adesione: dall’inesistenza dell’accordo all’impugnabilità del diniego di revoca, in Boll. trib., 2011, 326 ss, (5) Questi, sostanzialmente, i riflessi nel settore tributario dell’estinzione delle società di capitali cancellate dal registro delle imprese, nella misura in cui è accolta la lettura dell’art. 2495, comma 2 cod. civ. fatta propria dalle Sezioni Unite del 2010: cfr. ex multis Cass., sez. V civ., 5 dicembre 2012, n. 21773; Cass., sez. V civ., 6 giugno 2012, n. 9110; Cass., sez. V civ., 3 novembre 2011, ord. n. 22863; Comm. trib. prov. Milano, sez. III, 14 gennaio 2011, n. 94; per ulteriori riferimenti, anche di giurisprudenza tributaria di merito, si veda C. Glendi, L’estinzione delle società di capitali cancellate dal registro delle imprese al vaglio dei giudici tributari, in Corr. trib., 2014, spec. 235-237; A. Querci, A oltre due anni dalla sentenza delle Sezioni Unite che ha segnato la definitività dell’estinzione delle società, cancellate dal registro delle imprese: questioni aperte e dubbi irrisolti, intorno al “requiem”, in Dir. prat. trib., 2013, I, 171 ss.; nonché, se si vuole, F. Pepe, Contributo allo studio delle invalidità degli atti impositivi, Torino, 2012, 43 ss. Sulla difficoltà, tuttavia, di inquadrare, nel caso di specie, l’estinzione del processo nelle ipotesi legislativamente previste dagli artt. 44-46 D.lgs. n. 546/1992 (rinuncia al ricorso, inattività delle parti, cessazione della materia del contendere), si veda infra, par. 16. (6) Sul punto, si impone una precisazione. Il riferimento alla possibilità di un “abuso” della cancellazione, al fine di sottrarsi – o quanto meno rendere più difficile – l’attività impositiva nei confronti della società cancellata, non può intendersi in senso proprio, essa costituendo la naturale e logica implicazione di una chiara scelta del legislatore della riforma societaria; altrimenti detto, si può certamente contestare (da un punto di vista di opportunità politica) l’irreversibilità dell’effetto estintivo conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, ma non si può predicare ex se il carattere abusivo di quest’ultima: sul punto, si rinvia alle
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soddisfazione del proprio credito; un’esigenza invero generale, da sempre ben presente in dottrina e giurisprudenza gius-commercialistica (7), ma che qui ha assunto, ed assume, contorni peculiari. Da un lato, il rilievo costituzionale del dovere di contribuzione alle spese pubbliche – presupposto indefettibile per l’esistenza stessa della comunità statale (artt. 2, 53 Cost.) (8) – nonché la correlata attribuzione al Fisco di strumenti di autotutela cd. “esecutiva” delle proprie pretese (poteri istruttori, procedure di accertamento e riscossione) (9), rendono spesso inadeguate le soluzioni normative adottate o proposte nel settore civile per far fronte alle innumerevoli problematiche che detta estinzione comporta. Dall’altro, il principio desunto dall’art. 2495, comma 2 cod. civ. si trova a dover essere calato in un contesto normativo peculiare, elaborato con a mente ben altro substrato civilistico, e con il quale è costretto a coordinarsi, ed in specie: si pensi all’art. 36 d.p.r. n. 602/1973, che fissa una responsabilità per i debiti tributari pregressi della società analoga a quella codicistica; ma anche, e da ultimo, all’art. 28, comma 4 D.lgs. n. 175/2014, disposizione stravagante che, nell’intento di agevolare l’attività impositiva del Fisco, ha previsto la temporanea “sopravvivenza” della società estinta ai soli fini tributari,
considerazioni di V. Ficari, Cancellazione dal registro delle imprese delle società di capitali, “abuso della cancellazione” e buona fede nei rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente, in Riv. dir. trib., 2010, I, 1037; in generale, sul tema, F. Fimmanò, Abuso di estinzione formale degli enti lucrativi e tutela dei creditori, in Riv. not., 2013, I, 1135. (7) Sin dalle prime indagini sull’estinzione delle società commerciali, dottrina e giurisprudenza hanno messo in luce l’esigenza di individuare adeguati strumenti di tutela dei creditori sociali, quanto meno laddove vi fosse stata una ripartizione dell’attivo. A tal fine, nel’originario silenzio del codice di commercio (privo di una disposizione analoga all’attuale art. 2495, comma 2 cod. civ.), si era proposta la possibilità di una siffatta azione di ingiustificato arricchimento verso i soci: forti della matrice giurisprudenziale e non legislativa di siffatta (che la rendeva adattabile anche alle ipotesi in esame), sostennero tale tesi, seppur con sfumature differenti, G. Ferri, Chiusura della liquidazione ed estinzione della società, in Foro it., 1939, I, c. 1320 ss., spec. c. 1326; F. Carnelutti, In tema di estinzione delle società commerciali, in Foro it., 1940, II, c. 25 ss., spec. 28-30, Autori il cui pensiero ha poi costituito la base concettuale per l’elaborazione dell’art. 2456 cod. civ. del 1942 e, da ultimo, del vigente art. 2495, comma 2 cod. civ. (8) Sul punto, in special modo, A. Fedele, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, in L. Perrone, C. Berliri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 1 ss. (9) R. Lupi, Società, diritto, tributi, Il Sole 24 ore, 2055, 211-212; Id., Diritto tributario. Parte generale, Milano, 2005, 53-54.
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con tutti i problemi – teorici e pratici – che ciò può comportare (10). Si tratta quindi di comprendere, in special modo alla luce dell’art. 28, comma 4 cit., quali sono oggi i reali spazi di tutela della pretesa tributaria nei confronti delle società cancellate. 2. L’essenza dei problemi inerenti l’estinzione delle società di capitali: la mancanza di regole sulle “patologie” dello scioglimento della società e l’esigenza di un’opera di “completamento” da parte dell’interprete. – Inevitabile punto di partenza dell’indagine non può che essere l’art. 2495, comma 2 cod. civ., avente ad oggetto le conseguenze dell’estinzione delle società di capitali. Si afferma in esso che, “ferma l’estinzione della società”, i creditori sociali insoddisfatti potranno agire nei confronti: (i) dei soci, nei limiti del valore dei beni e delle somme loro assegnate in base al bilancio finale di liquidazione (11); e/o (ii) dei liquidatori, per l’intero ammontare del credito, ove la mancata soddisfazione di quest’ultimo sia dipesa da una loro “colpa” (12). Questa disposizione, va detto subito, certamente presenta molti aspetti di coerenza sistematica. Essa si inserisce perfettamente nella trama dei principi e delle logiche sottese alla (nuova) disciplina delle società di capitali: in particolare, coinvolgendo nella responsabilità per debiti sociali pregressi solo i soci ed i liquidatori, e non anche la società, implicitamente ne ribadisce l’irreversibile estinzione, come inteso dal legislatore della riforma; la limitazione della responsabilità dei soci ai soli beni e somme “ricevute in base al bilancio finale di liquidazione”, nel contempo, conferma la persistenza del beneficio della responsabilità limitata (e della destinazione funzionale dei beni sociali all’impresa) anche dopo l’estinzione della società ed assicura – seppur ex post e in modo “frammentato” – il completamento della liquidazione, cui fine precipuo è il (prioritario) soddisfacimento dei debiti sociali, previa monetizzazione di tutto l’attivo (art. 2491 cod.
(10) Come far convivere l’estinzione “civilistica” della società e le sue naturali conseguenze (estinzione del patrimonio, cessazione degli organi sociali, “distacco” giuridico e “materiale” dalla sede legale) con l’esercizio verso di essa (società) di una qualsivoglia azione creditoria, anche tributaria? Sul punto, si veda infra, par. 9. (11) M. Porzio, La cancellazione, in AA.VV., IL nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, vol. 4, Milanofiori Assago, 2007, 84 e 91. (12) Le due azioni possono convivere e non vi è rapporto di sussidiarietà: C. Pasquariello, op. cit., 2291.
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civ.); infine, il dovere dei liquidatori di rifondere l’intero credito sociale nel caso di colposa (e, a maggior ragione, dolosa) mala gestio nella fase di liquidazione – oggettivamente manifestata dalla compresenza di debiti residui e di una quota dell’attivo sociale comunque assegnato ai soci – si inserisce nella generale tendenza del sistema a responsabilizzare tali organi sia nei confronti dei soci che di terzi (artt. 2489, comma 2, 2491, comma 3, 2495, comma 2, 2633 cod. civ.) (13). Il difetto di fondo di tale disposizione – e da cui a ben vedere traggono origine tutte le questioni connesse allo scioglimento (ed all’estinzione) della società di capitali – è che essa è sotto moltissimi aspetti lacunosa; non fornisce cioè alcuna regola alle diverse patologie di cui tale vicenda può essere concretamente affetta. Sotto questo aspetto, si occupa solo dei cd. “residui passivi” – sui quali si dirà a breve – e lo fa in modo superficiale e parziale, limitandosi a definire la misura massima di “responsabilità” di soci e liquidatori, senza chiarirne l’esatta estensione (se, ad esempio, per i soci, comprenda solo i beni e le somme effettivamente assegnate o se si estenda anche ad acconti e conferimenti non versati) e senza definirne alcuni aspetti fondamentali, di notevole rilevanza pratica (regime della responsabilità, solidale o meno, termine di prescrizione, destino di garanzie e privilegi dell’originario credito sociale, spendibilità del titolo esecutivo ottenuto nei confronti della società anche verso i soci, ecc…). La disposizione, inoltre, è assolutamente silente su due altre importanti circostanze: sulla sorte dei cd. “residui attivi”, ossia degli eventuali diritti di credito e diritti reali della società (erroneamente) non considerati in sede di liquidazione (14), nonché – e soprattutto – sulla sorte dei processi (e, per quanto di interesse sul piano tributario, dei procedimenti) pendenti nei quali è parte la società (15).
(13) Per considerazioni in tal senso, si veda, in special modo, F. Fimmanò, F. Angiolini, op. cit., 1471 ss., spec. 1474; C. Pasquariello, op. cit., 2288. (14) Su cui, infra, parr. 11 ss. (15) Su cui, infra, par. 16. Questa lacunosità della disciplina sull’estinzione delle società di capitali rimarca peraltro la profonda differenza con la normativa in tema di fusione, la quale invece – a seguito della riforma societaria – espressamente prevede la “prosecuzione” tutti i rapporti, sostanziali e processuali, delle società fuse o incorporate (che si estinguono) in capo alla società risultante dalla fusione o alla incorporante (art. 2504-bis, comma 1 cod. civ.). Con ciò, se non proprio risolvendo specificamente, comunque fornendo un chiaro ed indubitabile principio cui rapportare ogni questione connessa al “venir meno” delle società coinvolte nell’operazione. Per i risvolti e le problematiche processuali connesse al principio fissato dall’art. 2504 bis, comma
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L’estinzione delle società di capitali sollecita quindi l’interprete ad una delicata e complessa opera di “completamento” della relativa disciplina, alla identificazione cioè – in via ermeneutica – di norme specifiche volte a regolarne gli aspetti irrisolti. Ed è – si ripete – un’opera complessa, perché ogni aspetto (fisiologico e patologico) della vicenda finisce, de iure o de facto, per intersecarsi con gli altri (inducendo talvolta ad assimilazioni o estensioni forse un po’ troppo acritiche), nonché peculiare, quando ad essere coinvolte sono situazioni giuridiche matrice tributaria (pregressi debiti o crediti tributari della società estinta), atteso che, in quest’ultimo caso e come si tenterà di mostrare, i problemi a volte si complicano, altre volte (paradossalmente) si semplificano . 3. Le “patologie” nella vicenda estintiva delle società di capitali: la sorte dei cd. “residui” (attivi e passivi) della società. La distinzione concettuale tra “sopravvivenze” e “sopravvenienze” e le relative implicazioni. – Se ciò che va “colmato” dell’art. 2495, comma 2 cod. civ. è, innanzitutto, la disciplina delle patologie connesse allo scioglimento ed alla estinzione della società, occorre preliminarmente comprendere come dette “patologie” concretamente si manifestano. Il primo aspetto da trattare – che inevitabilmente interessa anche l’amministrazione finanziaria, in quanto creditore sociale – riguarda quindi la sorte dei cd. “residui” (sia attivi che passivi) della società, il cui senso, logico e terminologico, va chiarito subito. In primo luogo, è indubbio come la persistenza di tali “residui” esprima oggettivamente un non corretto svolgimento della procedura di scioglimento ed estinzione, una sua patologia, per l’appunto. Ciò è vero tout court in presenza di “residui attivi” (16), mentre quando vi sono “residui passivi” lo è solo se vi è stata altresì ripartizione di attivo tra i soci e/o vi sono ancora residui attivi non monetizzati. La persistenza di debiti sociali non soddisfatti, nonostante la integrale (e corretta) liquidazione dell’attivo sociale, rientra infatti nella normale logica sottesa alla responsabilità limitata dei soci.
1 cod. civ., si veda F. Santagada, Fusione e cancellazione di società e vicende del processo, in Giusto proc. civ., 2010, 277 ss. (parte I) e 577 ss. (parte II); V. Colensanti, Ancora in tema di fusioni societarie e interruzione del processo, in Riv. dir. proc., 2007, 375 ss. (16) Indicativi di per sé stessi del fatto che l’attivo sociale non è stato completamente liquidato, con conseguente “danno” sia per i creditori sociali eventualmente ancora insoddisfatti, sia per i ulteriori soci, almeno nei limiti in cui – estinto ogni altro debito sociale – avrebbero potuto ottenere beni o denaro in assegnazione.
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Ciò detto, si tratta di precisare il senso della generica espressione “residuo” (attivo o passivo), sin qui utilizzata. Dietro di essa vanno infatti distinte due diverse situazioni, comunemente indicate con i termini “sopravvivenze” e “sopravvenienze” (attive e passive): (i) con le prime (sopravvivenze) si intendono quei beni (17), crediti o debiti sociali pre-esistenti alla cancellazioneestinzione della società, ma non iscritti nel bilancio finale di liquidazione dal liquidatore (perché trascurati o ignorati); (ii) con le seconde (sopravvenienze) i beni, crediti o debiti riferibili alla società – o meglio: scaturenti da rapporti giuridici ad essa già riconducibili – ma che si manifestano giuridicamente dopo la sua cancellazione-estinzione (18). Su questa distinzione occorre spendere alcune parole, pena il rischio di facili confusioni o incomprensioni. In prima battuta, tali termini indicano ovviamente fattispecie che nulla hanno a che fare con le “sopravvenienze” fiscalmente rilevanti, ossia con quegli elementi del reddito d’impresa regolati dagli artt. 88 e 101 TUIR e ben noti ai tributaristi. Qui il “sopravvenire” (ed il “sopravvivere”) dell’elemento patrimoniale va inteso rispetto all’estinzione della società, e non ad una loro precedente rilevanza contabile e/o fiscale. Va poi osservato come tale differenziazione – emersa in un contesto giurisprudenziale nel quale l’estinzione della società pur cancellata era subordinata alla definizione di tutte le posizioni debitorie (19) –manifesta oggi evidenti limiti. Se, come si è detto, alla cancellazione della società ne consegue l’irreversibile e totale estinzione, mai infatti potrà parlarsi – in senso tecnico-giuridico – di “sopravvivenza” o “sopravvenienza” di un elemento patrimoniale (rectius: di una situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, obbligatoria o reale) “della società”; quest’ultima ha infatti irrimediabilmente perso capacità e soggettività giuridica e, quindi, possibilità di divenire centro di imputazione di qualsivoglia diritto o obbligo (20). L’unica valenza che, allo
(17) In realtà, più correttamente dovrebbe parlarsi di diritti di proprietà o di altri diritti reali su beni, ma per comodità espositiva si utilizzerà qui ed in prosieguo il termine “bene” per indicare tali situazioni giuridiche soggettive, come d’uso peraltro negli scritti di chi si è occupato del tema. (18) Sulla distinzione in esame, oltre agli Autori già citati, cfr. altresì T. Ascarelli, Liquidazione e responsabilità delle società per azioni, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1952, 248; nonché R. Costi, La cancellazione delle società per azioni ed il problema delle sopravvenienze passive, in Giur. it., 1964, I, 1, 1355, nota 2; Id., Le sopravvenienze passive dopo la liquidazione della società per azioni, in Riv. dir. civ., 1964, I, 280 ss. (19) Cfr. retro, nota 1. (20) In tal senso, cfr. F. Pasquariello, F. Platania, La cancellazione (della
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stato, si può assegnare a tali concetti è quindi meramente formale e figurata, ossia identificativa di quelle situazioni giuridiche che sarebbero di pertinenza della società, se questa fosse ancora in vita, o perché ad essa formalmente ancora riferite (per es. in un provvedimento giurisdizionale o amministrativo, in un atto o negozio giuridico) o perché di esse non è stata espressamene definita la sorte (ad es., perché il bene o il credito della società non è stato assegnato in sede di riparto dell’attivo); sorte la cui disciplina – per l’appunto – l’interprete deve chiarire, colmando il menzionato vuoto legislativo. Infine, occorre sottolineare come frequente sia l’assimilazione sul piano (non concettuale, ma) normativo e talvolta didattico dei due fenomeni (sopravvivenze e sopravvenienze). Sebbene talvolta ciò possa ammettersi, non si può ignorare come la pre-esistenza o meno del “residuo” spesso sollevi sia determinante nel sollevare problemi (e richieda soluzioni) differenti tra loro. Ad esempio, le sopravvivenze attive, in quanto residui pre-esistenti – quindi conosciuti o conoscibili – ma non indicati nel bilancio finale di liquidazione, pongono non solo il problema della (prova della) “colpa” o del “dolo” del liquidatore (quindi di una sua responsabilità nei confronti dei creditori sociali e/o dei soci stessi), ma anche l’interrogativo circa la possibilità di una “reviviscenza” della società estinta, sul presupposto di una non corretta liquidazione dell’attivo (cd. cancellazione della cancellazione), nonché della possibile valenza abdicativa della cancellazione stessa (21). La realizzazione delle sopravvenienze, siano esse attive o passive, si interseca invece con il problema della sorte dei processi pendenti. Il “sopravvenire” in capo alla società (rectius: in dipendenza di un precedente rapporto giuridico di cui era parte la società) di un elemento attivo o passivo (bene, credito o debito) può dipendere infatti da un atto o fatto giuridicamente rilevante sul piano sostanziale verificatosi successivamente all’estinzione (ius superveniens, sentenza della Corte costituzionale, sorgere ex post di un diritto di retrocessione di un bene, ecc…) (22); ovvero da un provvedimento amministrativo o giurisdizionale che – si badi: emesso nell’inconsapevolezza dell’avvenuta cancellazioneestinzione della società ovvero per l’operare di meccanismi giuridici di “stabilizzazione” della società estinta (23) – formalmente accerti in favore o
cancellazione) della società. Strategie di tutela del credito, in Le società, n. 7/2014, 846-847. (21) Al riguardo, si veda infra, par. 12. (22) Per tali esempi, F. Pasquariello, F. Platania, op. ult. cit., 846. (23) Cfr. infra, par. 9.
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contro di essa (società) la sussistenza di diritto o di un obbligo (24), del quale – poi – si dovrà definire la sorte. 4. La sorte delle sopravvivenze e delle sopravvenienze passive: i rapporti tra la (generale) responsabilità di soci e liquidatori ex art. 2495, comma 2 cod. civ. e quella specificamente prevista per i debiti tributari dall’art. 36 d.p.r. n. 602/1973. – Come chiarito, occorre innanzitutto analizzare in che modo il nostro ordinamento regoli il fenomeno (patologico) dei “residui” passivi della società, ossia l’ipotesi di debiti della società inadempiuti, sopravvissuti o sopravvenuti all’estinzione. Si è detto che l’art. 2495, comma 2 cod. civ. del loro (per così dire) “adempimento post-mortem” rende “responsabili”, seppur a condizioni ed in misura differente, sia i soci che i liquidatori; e che analoga responsabilità è specificamente prevista – ma con alcune differenze – per quanto attiene ai debiti tributari della società dall’art. 36 d.p.r. n. 602/1973. Si tratta quindi di definire sin d’ora il rapporto intercorrente tra queste due fattispecie, anche perché – si vedrà – proprio in relazione ad esso (rapporto) la distinzione tra “sopravvivenze” e “sopravvenienze” passive assume un rilievo non solo concettuale e didattico, ma anche normativo. Prescindendo per ora dalle implicazioni dell’art. 28, comma 4 D.lgs. n. 175/2014 (25), le due azioni appaiono oggi in parte sovrapponibili. L’art. 36 cit. trova applicazione nei confronti delle sole società soggette ad IRES ed in relazione (oramai) a qualsivoglia debito tributario (26) già definitivamente accertato, in via amministrativa o giurisdizionale (“imposte dovute”) (27), ma – si noti – a prescindere dall’avvenuta estinzione della società, unica condizione per operare essendo l’inizio della fase di liquidazione. La disposizione codicistica presuppone invece l’estinzione della società, sia essa di capitali o
(24) F. Fimmanò, F. Angiolini, Gli effetti della cancellazione, cit., 1476. (25) Su cui, si veda infra, par. 9. (26) L’art. 28, comma 7 D.lgs. n. 175/2014 ha soppresso all’interno dell’art. 19, comma 1 D.lgs. n. 49/1999, che in relazione alle disposizioni ivi indicate ne circoscrive l’ambito di applicazione alle sole imposte sui redditi, il riferimento all’art. 36 cit., con ciò assegnandogli una area di operatività generale e non più limitata a tali imposte. (27) Cass., sez. trib., 8 gennaio 2014, ord. n. 179; Cass., sez. trib., 11 maggio 2012, n. 7327; Cass., sez. trib., 17 maggio 2002, n. 8685; in tal senso, si veda, ex multis, A. Carinci, L’estinzione delle società e la responsabilità tributaria di liquidatori, amministratori e soci, in Il Fisco 2015, 1-2843 ss; Id., La nozione di “imposte dovute” rilevante per la responsabilità del liquidatore della società, in Corr. Trib. 2014, 786 ss, cit., 785.
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di persone (28), coinvolgendo quindi (anche) debiti fiscali non definitivamente accertati, nella specie: debiti oggetto di atti di accertamento “nuovi”, emessi dopo l’estinzione della società, debiti oggetto di atti di accertamento “vecchi”, ossia emessi prima dell’estinzione, ma oggetto di un processo ancora pendente. Margini di sovrapposizione sembrano dunque emergere quando la definizione (amministrativa o giudiziale) dell’accertamento del debito tributario nei confronti della società si è verificato prima della sua estinzione, ma il Fisco decida di agire in via esecutiva solo dopo l’intervento di quest’ultima. Ove infatti l’estinzione della società dovesse verificarsi prima della definizione della pretesa – rendendosi quest’ultima (definizione) non più possibile nei confronti della società (29) – verrebbe conseguentemente meno la possibilità di avvalersi dell’azione di cui all’art. 36 cit. (30), quanto meno, secondo alcuni, nei confronti dei soci (31). Potrebbe dirsi, quindi, che l’azione prevista dall’art. 36 cit. abbia ad oggetto solo le sopravvivenze passive di matrice tributaria, tali essendo i debiti fiscali già definitisi e preesistenti all’estinzione; mentre l’azione di cui all’art. 2495, comma 2 cod. civ. potrebbe essere esperita sia per quest’ultime, che per le sopravvenienze (tributarie) passive. Si tratta quindi di capire il rapporto tra di esse in relazione alle fattispecie comuni. Il problema assume un risvolto pratico, sussistendo tra le due azioni un certo “scarto” sotto diversi aspetti. Alla maggior garanzia patrimoniale prevista per i soci dall’art. 36 cit. (32), fa da contrappeso la minor “misura”
(28) Sull’applicabilità dell’art. 2495, comma 2 cod. civ. alle società di persone, a seguito di Cass., SS.UU., n. 4060/2010 cit., si veda M. Perrino, L’estinzione delle società di persone, in Riv. dir. comm., 2011, 699 ss. (29) Ma cfr. infra, par. 9, sulla stabilizzazione procedimentale della società ai soli fini tributari sancita dall’art. 28, comma 4 cit. (30) In tal senso, G. Ragucci, Le nuove regole sulla cancellazione delle società dal registro delle imprese valgono solo “pro futuro”, in Corr. giur., 2015, 1628; P. Laroma Jezzi, Cancellazione di società e responsabilità dei coobbligati, in Corr. trib., 2014, 2954. (31) Per A. Carinci, La nozione, cit., 789, il subingresso dei soci nelle posizioni procedimentali e processuali della società estinta, sulla scorta di Cass., SS.UU., n. 6070/2013 (su cui cfr. infra, par. 6), consentirebbe al debito fiscale di quest’ultima di rendersi esso (debito della società) “definitivo”, seppur in capo ai soci-successori, così da realizzare la premessa necessaria per l’azione di responsabilità verso i liquidatori a norma dell’art. 36 cit. (32) L’art. 36 cit. fa riferimento ai beni ed alle somme assegnate ai soci non solo durante il periodo di liquidazione ed in base al bilancio finale, ma anche nei due periodi di imposta precedenti la liquidazione; l’art. 2495, comma 2 cod. civ. limita la garanzia ai beni e somme (effettivamente) assegnate in base a detto bilancio.
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della responsabilità dei liquidatori (33); così come, rispetto a questi ultimi, differenti sono i fatti che l’amministrazione finanziaria è tenuta a provare per giovarsi di essa: l’elemento soggettivo del “colpa” (o, a maggior ragione, del dolo) nello svolgimento della liquidazione (art. 2495, comma 2 cod. civ.) si contrappone al dato oggettivo del mancato pagamento di crediti tributari in assenza di crediti superiori da estinguere (art. 36, comma 1 cit.). In particolare, sotto quest’ultimo profilo sembra delinearsi un’ulteriore linea di separazione tra la fattispecie codicistica e quella “tipica” tributaria di responsabilità dei liquidatori. Il riferimento generico alla “colpa” dei liquidatori assume infatti una dimensione evidentemente più ampia rispetto alla “violazione dell’ordine dei pagamenti” contemplata dall’art. 36 cit. (34), che può costituire un’ipotesi di “colpa” (predeterminata dalla legge), ma certamente non l’unica. Si pensi, su tutte, alla sussistenza ex se di sopravvivenze attive conosciute (o conoscibili) dai liquidatori, ciononostante non liquidate, oggettivo sintomo di una gestione (per così dire) “superficiale” della liquidazione. Tanto che, in tali ipotesi, possono prospettarsi per l’amministrazione due strade parallele: sia una azione volta a monetizzare il residuo attivo, onde soddisfarsi (anche) su di esso (35), che una azione di responsabilità, a norma dell’art. 2495, comma 2 cod. civ., verso i liquidatori. La preferibilità dell’una o dell’altra strada dipenderà ovviamente da una serie di fattori, quali l’entità del debito tributario, la misura dell’attivo non liquidato, la “capienza” del patrimonio dei liquidatori ed il rischio di infruttuosità dell’azione nei loro confronti, ecc. Ciò precisato, nelle ipotesi comuni alle due azioni sembra invece ragionevole ipotizzare la possibilità di scelta da parte dell’amministrazione finanziaria di quella che – istruttoria alla mano – prospetta maggiori probabilità di successo (36). Ciò non toglie che – in un’ottica de iure condendo – sarebbe quanto mai opportuno un criterio di coordinamento tra le due azioni, trovando ragion d’essere storica l’art. 36 cit. in un contesto normativo contraddistinto
(33) La cui responsabilità ai sensi dell’art. 36, comma 1 cit. è circoscritta non all’intero importo delle imposte dovute, come implicitamente sancito dall’art. 2495, comma 2 cod. civ., ma “all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione del crediti”. (34) Nel senso di ricondurre la responsabilità dei liquidatori di cui all’art. 36 cit. ad una violazione delle regole di riscossione, nella specie dell’ordine nel pagamento dei debiti da parte dei liquidatori, si veda G. Ragucci, La responsabilità tributaria dei liquidatori di società di capitali, Torino, 2013, 40 ss. (35) Su cui si veda infra, par. 11. (36) In tal senso, sembra A. Carinci, L’estinzione, cit.
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dalla affermazione secondo cui l’estinzione della società deriverebbe non dalla cancellazione, ma dall’estinzione di tutti i suoi debiti, oramai superato (37). 5. (segue): la generale responsabilità dei soci verso i creditori sociali a norma dell’art. 2495, comma 2 cod. civ.: questioni civilistiche … – Ciò detto, circoscrivendo l’indagine alla sola norma codicistica, va ribadita la sua laconicità, dunque l’esigenza – si noti: anche in relazione all’azione del Fisco per debiti tributari della società estinta – di un’opera di “completamento” della disciplina da parte dell’interprete. Ebbene, sul fronte civilistico (ossia in relazione a generici crediti verso la società, di matrice non tributaria), quest’opera è stata compiuta da dottrina e giurisprudenza seguendo un ben preciso modo di ragionare. Si sono prese le mosse dall’interrogativo circa la natura (o il titolo) giuridico di detta responsabilità: in sostanza, si è tentato di “incasellare” l’azione di cui all’art. 2495, comma 2 cod. civ. (e, ante riforma, quella di cui al previgente art. 2456, comma 2 cod. civ.) all’interno di altri istituti o di altre azioni legislativamente già previste, per attingere dalla relativa disciplina e dotarsi così di regole che potessero colmare gli “spazi” lasciati vuoti del legislatore societario. Va dato atto di come la questione abbia avuto risonanza pressoché esclusivamente in relazione alla posizione dei soci, pacificamente individuandosi il fondamento della responsabilità dei liquidatori in un illecito civile, dunque ravvisando in essa una species di responsabilità extra-contrattuale (e della quale si dirà oltre) (38). Limitando a ciò il discorso, può quindi osservarsi come – a seguito di un lungo ed insoluto dibattito – variegate siano state le posizioni di dottrina e giurisprudenza, ciascuna delle quali, tuttavia, nella sua essenza appare riconducibile ad un preciso modo di “leggere” la vicenda estintiva ed il rapporto che, a seguito di essa, si instaurerebbe tra (obbligazione della) società estinta e (“responsabilità” dei) soci (39). Volendo schematizzare: (i) vi è chi ha ravvisato nell’estinzione della società il fatto generatore di una vicenda
(37) Sul legame tra l’art. 36 cit. e l’orientamento giurisprudenziale precedente, menzionato in apertura, in nota 1, e sul suo rilievo ai fini della (corretta) ricostruzione della vicenda estintiva, si veda C. Glendi, Corte costituzionale, sezioni unite della Cassazione ed estinzione delle società cancellate dal registro delle imprese, in Corr. giur., 2013, 1275; nonché P. Laroma Jezzi, Cancellazione di società, cit,, 2952-2953. (38) Cfr. infra, par. 8. (39) Per riferimenti, si rinvia a D. Dalfino, “Venir meno” della società e processi pendenti, in Le Società, 2014, 1232.
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tecnicamente successoria, tra quest’ultima ed i soci, salvo poi dibattere sul “titolo” di successione, se universale o particolare; (ii) vi è chi, invece, vi ha scorto una vicenda sostanzialmente novativa, contraddistinta cioè dalla estinzione di ogni debito della società e dalla (contestuale e pur correlata) costituzione in capo ai soci di una nuova posizione debitoria, ora ricondotta all’area dell’ingiustificato arricchimento, ora a quella dell’indebito oggettivo, ora al contratto sociale stesso; (iii) vi è chi, infine, ha visto nella responsabilità dei soci una mera garanzia per debiti comunque riferibili, anche dopo l’estinzione, alla società, sotto specie o di accollo ex lege o di fideiussione o quale corollario della responsabilità limitata della società (che renderebbe i soci “responsabili senza debito”). Orbene, è evidente come, in linea di principio, ricostruire la vicenda estintiva – ed apprezzare conseguentemente il rapporto “società estinta/ ex-soci” – nei diversi termini sopra indicati sia tutt’altro che irrilevante. Una ricostruzione in chiave successoria, ad esempio, presupponendo (per definizione) l’idea della mera modificazione soggettiva dal lato passivo dei precedenti rapporti obbligatori tra società e terzo creditore, comporterebbe, sul versante sostanziale, l’assoggettamento dell’obbligazione degli ex-soci al medesimo regime dell’originaria obbligazione della società (con permanenza di precedenti garanzie e privilegi, con possibilità per l’ex-socio di proporre le eccezioni proponibili dalla società, con identità di termine di prescrizione, ecc…) (40). A conseguenze in parte analoghe si giungerebbe collocando i soci nella posizione di meri garanti del debito della società estinta, non verificandosi idealmente alcun mutamento dello “statuto” del rapporto obbligatorio, rappresentando la responsabilità patrimoniale elemento (pur necessario, ma comunque) esterno a detto rapporto (41). Se invece si ritiene costituirsi un nuovo debito, allora la pretesa dei creditori sociali sarà sottoposta ad un diverso
(40) Proprio al mantenimento del medesimo statuto normativo è infatti generalmente pre-ordinato il concetto stesso di “modifica” (i.e. “successione”) nel rapporto obbligatorio: sul punto, si veda, su tutti, M. Allara, Vicende del rapporto giuridico, fattispecie, fatti giuridici, con prefazione di N. Irti, Torino, rist. 1999 (ed. orig. 1942), 22 ss. (41) In dottrina si distingue infatti tra (i) diritto di credito in senso stretto, espressione del cd. rapporto obbligatorio, e (ii) diritto a soddisfarsi, in via esecutiva, sul patrimonio del debitore, espressione della cd. responsabilità patrimoniale. In questa prospettiva, il secondo appare elemento – sì – necessario per la realizzazione del primo, ma esterno ad esso, dipendendo non solo dall’accertamento di quest’ultimo, ma anche dall’accertamento dell’inadempimento da parte del debitore e, ove richiesta, della sua colpa. Sul punto, cfr. C.M. Bianca, Diritto civile 4. L’obbligazione, Milano, 1998, spec. 625-626.
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e nuovo statuto normativo, a seconda di come si intenda inquadrare l’azione di cui all’art. 2495, comma 2 cod. civ. (ingiustificato arricchimento, indebito oggettivo, contratto sociale, ecc…). Il tutto poi – si vedrà – con frequenti ripercussioni sul versante processuale. Ebbene, nonostante l’ampiezza e l’importanza che simile dibattito ha assunto nel settore civile e processual-civile, non vale tuttavia la pena – ai fini della presente indagine – soffermarsi oltremodo su di esso, e ciò essenzialmente per due ragioni. Da una parte, perché nessuna delle posizioni assunte in dottrina e giurisprudenza si è, a ben vedere, rivelata pienamente confacente alla vicenda estintiva delle società. Potrebbe dirsi – parafrasando Blaise Pascal (42) – che nell’art. 2495, comma 2 cod. civ., e nelle altre disposizioni codicistiche che direttamente o indirettamente toccano il tema dell’estinzione delle società di capitali, vi sia “abbastanza luce ed abbastanza buio” per ravvisare nella vicenda in esame ora una successione tra società estinta e exsoci, ora una novazione, ora una garanzia ex lege. Certo, alcune letture del fenomeno appaiono istintivamente più convincenti e credibili di altre, ma nessuna – ad un più approfondito esame – riesce a cogliere perfettamente nel segno. Tanto che, spesso, con singolare inversione logica, la ricostruzione della vicenda sul versante sostanziale viene (di fatto) operata non tanto in sé stessa, ma in funzione della soluzione considerata più adeguata ai problemi che essa genera sul versante processuale. Dall’altra, e soprattutto, perché – come si tenterà di mostrare a breve – davvero poco rileva una simile questioni nella prospettiva tributaria. Per meglio comprendere ciò, appare utile prendere le mosse da quello che oggi può a ragione dirsi “diritto vivente” in materia. 6. (segue): … e falsi problemi tributari. – Deve infatti darsi atto di come la dottrina maggioritaria e, soprattutto, le Sezioni Unite della Cassazione abbiano apprezzato il rapporto “società estinta/ex-soci” in chiave successoria ed a titolo universale, seppur vagamente definita “sui generis” (43). Scelta –
(42) Pensées, 430 (149). (43) Cass., SS.UU., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071, 6072, su cui: C. Consolo, F. Godio, Le Sezioni Unite sull’estinzione di società: la tutela creditoria “ritrovata” (o quasi), in Corr. giur., 2013, 691; G. Cottino, La difficile estinzione delle società: ancora un intervento (chiarificatore?) delle Sezioni Unite, in Giur. it., 2013, 862; F. Fimmanò, Le Sezioni Unite pongono la “pietra tombale” sugli “effetti tombali” della cancellazione delle società di capitali, in Le Società, 2013, 536; M. Speranzin, Successione dei soci ed iscrizione nel registro delle imprese del fatto estintivo della società, in Corr. giur., 2014, 252; L.P. Murciano,
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questa – certamente discutibile, ed infatti da alcuni criticata (44), ma oramai consolidata, tanto da potersi dire “diritto vivente” (45). Un simile modo di apprezzare il fenomeno, di matrice ascarelliana (46), logicamente, ha condotto all’affermazione dell’identità sostanziale del “titolo” da cui scaturisce la responsabilità (e il debito) degli ex-soci con quello della società estinta, del quale ultimo il primo trascina con sé lo “statuto normativo” (prescrizione, garanzie, privilegi, ecc…). Quest’ultima circostanza sembrerebbe assumere un rilievo determinante sul versante fiscale. Ove infatti si fosse apprezzato il debito degli ex-soci come un debito nuovo – connesso, ad esempio, alla fattispecie dell’“ingiustificato arricchimento” o dell’“indebito oggettivo” – ciò avrebbe comportato che le pretese dell’amministrazione finanziaria verso gli ex-soci (s’intende: connesse a precedenti debiti tributari della società, sopravvissuti o sopravvenuti) smettessero la loro veste tributaria per assumere una veste privatistica, con la (grave) conseguenza di impedire al Fisco l’utilizzo dei propri poteri impositivi (in quanto funzionalmente legati alla natura tributaria del credito), con onere di agire dinanzi al giudice ordinario. La ricostruzione della vicenda in chiave successoria delle Sezioni Unite, postulando l’identità del titolo debitorio, consentirebbe invece la
La responsabilità dei soci per l’obbligazione d’imposta della società estinta, in Riv. trim. dir. trib., 2013, 891. (44) Si è osservato come l’’impianto normativo sia dell’art. 2495, comma 2 cod. civ., che dell’art. 36 cit., prevedendo letteralmente un sistema di “responsabilità”, appaia incompatibile con l’idea del trasferimento (o successione) ad altri delle posizioni giuridiche sociali pregresse: in tal senso, U. La Porta, Estinzione del soggetto e cancellazione della società dal Registro delle imprese, in Le Società, 2013, 1031 ss.; C. Glendi, Corte costituzionale, cit., 1271 ss.; D. Dalfino, “Venir meno” della società, cit., 1238 ss. (45) Cfr., tra le tante pronunce, Cass., sez. III, 23 settembre 2015, n. 18845; Cass., sez. I, 21 settembre 2015, n. 18560; Cass., sez. VI, 3 settembre 2015, n. 17560; Cass., sez. I, 10 agosto 2015, n. 16638; in giurisprudenza tributaria di legittimità, cfr. Cass., sez. V, 7 ottobre 2015, n. 20063; Cass., sez. V, 1 ottobre 2015, n. 19611; Cass., sez. V, 17 dicembre 2014, n. 26495; Cass., sez. V, 5 novembre 2014, n. 23574; Cass., sez. V, 8 ottobre 2014, n. 21188; Cass., sez. V, 6 novembre 2013, n. 24955. (46) La Cassazione, nello sposare l’idea della successione tra società estinta e soci, sia sul versante sostanziale (ossia in relazione alla sorte dei cd. residui attivi e passivi) che su quello processuale (ossia in relazione alla sorte dei processi pendenti: su cui, si veda infra, par. 16), espressamente argomenta sulla scorta di una visione della struttura societaria quale mero schermo giuridico di una attività sostanzialmente dei soci; schermo venuto meno il quale farebbe riaffiorare quest’ultimi quali centri di imputazione delle situazioni giuridiche soggettive della prima e contitolari delle stesse: tale approccio, di matrice jheringhiana, è stato fatto proprio da T. Ascarelli, Liquidazione e responsabilità delle società per azioni, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1952, 248 ss.
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“trasmissione” al debito degli ex-soci ex art. 2495, comma 2 cod. civ. della natura tributaria del debito che la società estinta originariamente aveva verso l’erario, legittimando l’azione amministrativa del Fisco (47). Ebbene, sia consentito osservare come un simile modo di affrontare la questione, ancorché diffuso (48), e pur conducendo ad una conclusione nella sostanza condivisibile (la natura tributaria del debito degli ex-soci) (49), manifesti delle criticità sul piano metodologico. Ritenere infatti che (a) il dilemma circa la natura tributaria o non tributaria del debito gravante sugli ex-soci sia variabile dipendente dalla (b) ricostruzione teorica della vicenda estintiva sul versante “civilistico”, a sommesso avviso di chi scrive, costituisce una erronea inversione dei termini della questione. Questa “stortura” sembra legata ad un errore di prospettiva (per così dire) “storica”. Come osservato, il dibattito in ordine alla “natura” (o al “titolo”) della responsabilità in questione – di volta in volta risolto in base ad una diversa ricostruzione dogmatica della vicenda estintiva (successione, novazione, garanzia) – era ed è ancor oggi pre-ordinato esclusivamente al “completamento” delle lacune della disciplina codicistica in tema di cancellazione ed estinzione
(47) In tal senso, in giurisprudenza, Cass., sez. trib., 26 giugno 2015, n. 13259; Cass., sez. trib., 2 aprile 2015, n. 6743; Cass., sez. trib., 3 novembre 2011, ord. n. 22863. (48) In tal senso, cfr. T. Tassani, La responsabilità di soci, amministratori e liquidatori per i debiti fiscali delle società, in Rass. trib., 2012, 366 ss., spec. 372, il quale sembra far dipendere la natura tributaria o meno del debito degli ex-soci (ex art. 2495, comma 2 cod. civ.) dalla (previa) identificazione, sul piano civilistico, della “natura” o “titolo” della loro responsabilità. L’Autore, dopo aver collegato la natura tributaria del debito degli ex-soci all’imputazione nei loro confronti dell’“effetto giuridico tributo” conseguente alla (prevalente) ricostruzione della vicenda estintiva in termini successori, ammette infatti come “simili conseguenze non potrebbero invece verificarsi qualora si affermasse una diversa configurazione della responsabilità dei soci, dal punto di vista civilistico, non ricollegata alla successione nei rapporti ma alla nascita di una nuova obbligazione ex lege, fondata su un titolo differente (per esempio quello dell’arricchimento senza causa)”. Con ciò lasciando intendere la dipendenza logica della natura tributaria del debito degli ex-soci dalla ricostruzione della vicenda estintiva sul versante civilistico (successione, novazione, garanzia); analogamente, seppur in termini più sfumati, mostrano di dar precedenza logica alla ricostruzione civilistica della vicenda estintiva, ora aderendo o criticando l’impostazione delle Sezioni Unite, L. Bianchi, Società di capitali cancellata: tra successione e responsabilità (tributaria) dei soci, in Dir. prat. trib., 2015, 28 ss.; M. Chionchio, RL, Società estinte e debiti tributari pregressi: coordinamento tra criteri civilistici e tributari sulla responsabilità dei soci, in Dialoghi trib., 2014, 197 ss.; P. Laroma Jezzi, Cancellazione di società e responsabilità dei coobbligati, in Corr. trib., 2014, 2954; G. Ragucci, Le nuove regole sulla cancellazione delle società dal registro delle imprese valgono solo “pro futuro”, in Corr. giur., 2015, 1628. (49) Si veda infra, par. 7.
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delle società di capitali. Dare una spiegazione dogmatica della vicenda estintiva e, correlativamente, inquadrare l’azione di cui all’art. 2495, comma 2 cod. civ. è servito e serve cioè solo per trovare delle regole che consentano di risolvere le numerose problematiche connesse alle patologie di tale vicenda. Soltanto in questa prospettiva il problema aveva (ed ha ancor oggi) senso: solo perché vi è un “vuoto” legislativo da colmare. Ma questa – si osservi – è una esigenza che, per quanto qui di interesse, emergerebbe solo ove il debito degli ex-soci nei confronti dell’amministrazione finanziaria, pur originando da un debito tributario della società, non fosse qualificabile come tale (tributario); solo ove dovesse cioè assimilarsi ad una “comune” posizione debitoria, per ciò stesso governata dalle (sole) disposizioni civilistiche; in tal caso – sì – il deficit regolativo dell’art. 2495, comma 2 cod. civ. costringerebbe l’interprete a chiarire la natura del rapporto, al fine di scovare altrove, ma nell’ordinamento civile, le regole mancanti nella disposizione. Ove al contrario si ravvisasse nel suddetto credito un credito tributario, ebbene, il sistema fornirebbe già agli operatori giuridici una disciplina sostanziale e processuale tendenzialmente completa – qual è quella relativa all’accertamento ed alla riscossione della pretesa fiscale – con ciò rendendo l’interrogativo sulla natura in sé della vicenda estintiva del tutto inutile. Sembra cioè che sia la questione circa la natura tributaria o meno dei debiti degli ex-soci per (maggiori) imposte della società estinta ad avere priorità logica; solo dopo aver risolto tale interrogativo, ed in termini negativi, avrebbe senso domandarsi come intendere la vicenda estintiva nella prospettiva del rapporto “società estinta/ex-soci” (successione, novazione, garanzia) e quale debba essere il suo inquadramento specifico (successione particolare, universale; ingiustificato arricchimento, indebito oggettivo; accollo ex lege, fideiussione, responsabilità da contratto sociale, ecc…). Il che porta a sostenere che la questione che prioritariamente va posta è ben altra: il debito tributario degli ex-soci, a norma dell’art. 2495, comma 2 cod. civ. (ma anche dell’art. 36 d.p.r. n. 602/1973) può considerarsi, dopo l’estinzione della società, ancora tale, cioè “tributario”? 7. Il problema della natura tributaria del debito dei soci per (sopravvissuti o sopravvenuti) debiti tributari della società estinta. – Per rispondere ad un simile interrogativo non si può ovviamente trarre alcun argomento dalla disciplina dell’azione verso i soci. La possibilità di ammettere l’esercizio dei poteri impositivi da parte del Fisco (là dove la legge nulla dice), nonché la
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ragionevolezza (e legittimità costituzionale rispetto all’art. 3 Cost.) di una loro eventuale esplicita previsione (come nell’art. 36 cit.), dipendono e sono infatti conseguenza dalla (previa) qualificazione delle responsabilità e delle obbligazioni ivi previste come “tributarie”; non ne costituiscono presupposto. Piuttosto, ad aver rilievo è innanzitutto la funzione (o finalità) a cui il debito dei soci ex art. 2495, comma 2 cod. civ. può dirsi preordinato. Occorre cioè prioritariamente domandarsi quale sia il (generico) dovere giuridico di cui esso (debito) intende essere specificazione, se trattasi cioè del dovere di contribuzione ex art. 53 Cost., ovvero di altro dovere; interrogativo a cui – a sommesso avviso di chi scrive – non può che rispondersi partendo da un’analisi “morfologica” della fattispecie legale che di detta responsabilità costituisce fonte. Ebbene, già in tale prospettiva, ne appare abbastanza evidente la natura tributaria. Si osservi infatti come esso scaturisca essenzialmente da due elementi: (i) dalla sussistenza di un debito fiscale della società estinta e (ii) dalla assegnazione ai soci di somme o beni in sede di liquidazione. Al di là di come si voglia inquadrare quest’ultimo elemento (se mera limitazione della responsabilità, dunque elemento “esterno” al rapporto obbligatorio, ovvero elemento “interno” e costitutivo dello stesso) (50), l’estraneità alla fattispecie dell’animus dei soci (colpa o dolo, buona o mala fede) appare sintomatica della natura tributaria del debito dei soci, essendo quest’ultimo in ultima analisi quest’ultimo fondato su fatti fiscalmente rilevanti; su fatti che, benché riferibili alla società, sono qui assunti in quanto espressivi di una attitudine alla contribuzione, le cui conseguenze giuridiche (debito d’imposta), solo per per esigenze di tutela del credito (erariale), sono eccezionalmente imputate ai soci. Ma non solo. A spingere verso una qualificazione come tributaria della responsabilità dei soci – ossia verso l’applicazione ad essa della disciplina in materia di accertamento e riscossione – vi è altresì un altro fattore, di ordine non sostanziale, ma formale (o procedurale, se si preferisce). Se, come detto, alla base di tale responsabilità vi sono innanzitutto dei fatti assunti perché fiscalmente rilevanti (i fatti costitutivi dell’originale debito tributario della società), il loro accertamento non può che essere devoluto all’amministrazione finanziaria e, in seconda battuta, al giudice tributario e ciò non solo perché organi tecnicamente più “competenti”, ma perché, in caso contrario, si creerebbero
(50) Sul punto, cfr. infra, par. 10.
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i presupposti per una evidente sperequazione tra società estinta e società non estinta: a parità di concreta capacità contributiva, se la responsabilità dei soci fosse considerata una responsabilità civile, il debito tributario della società estinta (che ne è presupposto) verrebbe ad essere determinato in modo differente dal medesimo debito della società non estinta, attesi i diversi metodi di accertamento e i diversi mezzi probatori utilizzabili nella sede civile ed in quella tributaria (51). La qualificazione come “tributaria” della suddetta responsabilità si imporrebbe cioè comunque in forza degli artt. 3, 53 Cost., non potendosi ammettere che – ceteris paribus – il fatto estintivo possa di per sé dar luogo ad una determinazione diversificata dello (stesso) onere fiscale. 8. (segue): la natura della responsabilità dei liquidatori. – Quest’ultima osservazione potrebbe rendere ragione della qualifica “tributaria” anche della responsabilità dei liquidatori (e degli amministratori). Vero è che quest’ultima viene pacificamente inquadrata nell’ambito delle responsabilità “da illecito civile”, ossia extra-contrattuale: l’essere infatti la colpa (o il dolo) dei liquidatori l’elemento determinante ai fini della sua sussistenza porta evidentemente a ricollegare il corrispondente debito alla violazione di un dovere di comportamento, alla mala gestio nella liquidazione, e non al dovere di contribuzione. Essa esprimerebbe cioè (funzionalmente) un debito – sì verso il Fisco, ma – non fiscale (52). Tanto che, da alcuni, si è dubitato della possibilità (ove non previsto, come nel caso dell’art. 2495, comma 2 cod. civ.) e della ragionevolezza (ove previsto, come nel caso dell’art. 36, comma 4 cit.) per l’amministrazione di avvalersi dei poteri impositivi, apparendo maggiormente corretta una azione dinanzi al giudice ordinario (53). Eppure,
(51) Si pensi, da un lato, ai vari strumenti (e metodi) di accertamento lato sensu “presuntivi” (studi di settore, sintetico, ecc…) e “concordatari” (accertamento con adesione, conciliazione giudiziale, mediazione fiscale, ecc…) di cui dispone l’amministrazione finanziaria e di cui è privo il giudice ordinario; dall’altro, dei mezzi di prova ammessi in sede civile ed esclusi nell’accertamento tributario, amministrativo e giudiziale (prova testimoniale, giuramento). (52) Una responsabilità extra-contrattuale (aquiliana): per riferimenti, G. Niccolini, Art. 2495, in G. Niccolini, A. Stagno d’Alcantrès (a cura di), Società di capitali. Commentario, III, Napoli, 2004, 1846; D. Dalfino, Le Sezioni Unite, cit., 1013, nota 10; nonché, tra gli studiosi di diritto tributario, con riferimento all’art. 36 cit., G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2015, 570; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. 1. Parte generale, Torino, 2016, 283. (53) T. Tassani, La responsabilità, cit., 380; M. Basilavecchia, Quale atto impositivo, cit., 2443; A. Carinci, La nozione , cit., 786, nota 4.
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non sembra possibile negare ad essa la medesima natura della responsabilità degli ex-soci. Si osservi quanto segue. Innanzitutto, con riferimento alla responsabilità ex art. 36 cit., relativa ai debiti tributari già definitisi in capo alla società, si è condivisibilmente osservato in dottrina come essa – prendendo le mosse da una “violazione dell’ordine dei pagamenti” – debba collocarsi sul piano della (non corretta) riscossione del tributo. I poteri che l’amministrazione eserciterebbe ai sensi di tale disposizione servirebbero cioè solo ad assicurare a posteriori il rispetto delle legittime cause di prelazione del credito fiscale, con ciò facendo rientrare a pieno titolo la responsabilità dei liquidatori nell’area della fiscalità (54). Ma, anche nelle ipotesi estranee all’art. 36 cit. e comprese nella norma generale codicistica, quanto osservato in relazione alla responsabilità dei soci ed alla (necessaria) quantificazione del loro debito attraverso i moduli tipici dell’accertamento tributario (pena il rischio di violazione degli artt. 3, 53 Cost.), sembra spingere verso una la qualifica di “tributario” al debito dei liquidatori verso l’amministrazione finanziaria: in fondo, il “danno” che i liquidatori sarebbero chiamati a risarcire è rappresentato dalla (maggiore) imposta accertata nei confronti della società; una maggiore imposta che – si noti – l’amministrazione avrebbe potuto pretendere dalla società stessa (se non si fosse estinta) e potrebbe pretendere dai soci (dopo l’estinzione). Come consentire, dunque, che il “danno” derivante da questo mancato introito possa assumere una misura diversa sol perché la pretesa è esercitata nei confronti dei liquidatori (o amministratori)? Senza contare – peraltro – la possibile co-esistenza delle due azioni, che renderebbe ancor meno ragionevole una differenziazione soggettiva della tutela e dei criteri di (concreta) quantificazione del tributo dovuto (55).
(54) In tal senso, si veda ampiamente G. Ragucci, La responsabilità tributaria dei liquidatori di società di capitali, Torino, 2013, 40 ss., che lega la responsabilità dei liquidatori a degli “obblighi di protezione”, non legati al profilo dell’accertamento, ma a quello della riscossione del debito (già accertato in via definitiva) della società. Da qui la natura di mero atto di liquidazione ed esecuzione dell’atto di cui all’art. 36, comma 4 cit., seppur impropriamente qualificato come “atto di accertamento”. Sia consentito osservare sommessamente come un simile inquadramento regga e sia pienamente condivisibile, ma solo nelle ipotesi contemplate dalla disposizione tributaria. Al di fuori di esse – ossia con riferimento a debiti non ancora accertati e/o ai casi di pieno rispetto dell’ordine dei pagamenti, ma di “colpa” e mala gestio della liquidazione (ad esempio, per l’aver trascurato dei crediti pur agevolmente realizzabili o per aver negligentemente ignorato beni liquidabili) – sembra maggiormente ragionevole ricondurre la responsabilità dei liquidatori entro la sfera dell’accertamento propriamente detto. Con conseguente necessità di fondare, ove possibile, altrove l’eventuale natura tributaria della stessa (su cui, infra nel testo). (55) In un’ottica analoga, sembra porsi G. Fransoni, L’esecuzione coattiva a carico dei
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Al riguardo, va comunque osservato come la giurisprudenza mostri sostanziale indifferenza rispetto al problema della “natura” della responsabilità dei liquidatori per debiti tributari della società e della disciplina ad essa applicabile, serenamente affermando che “quello verso il liquidatore e l’amministratore è credito dell’amministrazione finanziaria non tributario, ma civilistico […] ancorché detta responsabilità debba essere accertata dall’Ufficio con atto motivato da notificare ai sensi dell’art. 60 d.p.r. 600/73, avverso il quale è ammesso ricorso secondo le disposizioni relative al contenzioso tributario” (56). 9. L’azione del Fisco nei confronti della società (benché) estinta: la valenza marginale, non strutturale, ma meramente “condonistica” dell’art. 28, comma 4 D.lgs. n. 175/2014. – Ammessa la natura tributaria della responsabilità dei soci e (si può ritenere) anche dei liquidatori per i debiti fiscali (sopravvissuti e sopravvenuti) della società estinta, si tratta di comprendere bene i termini e le modalità della relativa azione, in relazione sia alle ipotesi riconducibili all’art. 2495, comma 2 cod. civ., che a quelle riconducibili all’art. 36 cit. Prendendo le mosse dalla fattispecie codicistica, si è detto che essa finisce per regolare i casi di (i) accertamenti emessi successivamente alla cancellazioneestinzione della società, di (ii) accertamenti che, alla cancellazione-estinzione, sono oggetto di processi pendenti; (iii) accertamenti già definitisi in capo alla società, ma ancora non “eseguiti” all’estinzione. Tralasciando per ora le ultime due ipotesi, sulle quali ci si soffermerà oltre, fino ad oggi è apparso evidente ed indubbio che, dopo l’estinzione della società di capitali, l’amministrazione finanziaria che intenda emettere un nuovo atto di accertamento per pregressi debiti tributari sociali, ciò debba fare esclusivamente nei confronti degli ex-soci (o dei liquidatori), con autonomi atti di accertamento loro personalmente rivolti (57). Questa è
debitori diversi dall’obbligato, in Rass. trib., 2011, 834, nota 25. (56) Così, tra le molte pronunce, Cass., sez. V, 11 maggio 2012, n. 7327, punto 14 (corsivi aggiunti). (57) Che sia necessario, in ogni caso, un autonomo atto di accertamento nei confronti degli ex-soci, non potendosi nei confronti di essi agire direttamente in via esecutiva, è punto pacifico: al riguardo, si veda, da ultimi, M. Basilavecchia, Quale atto impositivo per riscuotere dall’amministratore il debito della società?, in Corr. trib., n. 32/2014, 2441 ss.; A. Carinci, La nozione, cit., 787, i quali rilevano come la responsabilità dei soci per i debiti sociali (sia ex art. 2495, comma 2 c.c. che ex art. 36 cit.) sia infatti legata ad elementi ulteriori rispetto a quelli costitutivi del debito tributario della società, che ne costituisce solo antecedente logico; si evidenzia altresì come, conseguentemente, sia onere
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davvero l’unica certezza fornita dall’art. 2495, comma 2 cod. civ. Ebbene, anche questa certezza è, quanto meno sul versante fiscale, venuta meno. Come accennato, è stato recentemente introdotto l’art. 28, comma 4 D.lgs. n. 175/2014, il quale ha “posticipato” l’estinzione della società cancellata dal registro delle imprese a cinque anni dalla richiesta di cancellazione “ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi” (58). Ciò sembrerebbe rivoluzionare completamente le modalità di azione del Fisco verso soci e liquidatori, sterilizzando del tutto (seppur solo sul versante tributario) l’effetto estintivo della cancellazione dal registro delle imprese e consentendo al Fisco di agire nei confronti della società come se nulla fosse accaduto. Se però si osservano più attentamente le implicazioni di tale disposizione, ci si accorge che la suddetta “rivoluzione” è solo “sulla carta”. Al di là del maldestro confezionamento lessicale della norma (59), degli evidenti profili di illegittimità costituzionale per eccesso di delega (60) e delle contingenti ragioni storiche della sua emanazione, la regola che essa pone si rivela infatti intrinsecamente contraddittoria, inadeguata ed anzi sostanzialmente inutile (quanto meno ove intenda essere risposta al problema del recupero dei residui passivi tributari) (61). In primo luogo, è stato condivisibilmente evidenziato come la “stabilizzazione” solo relativa della società cancellata – l’essere l’effetto estintivo irrilevante ai soli fini della validità degli atti tributari indicati
dell’amministrazione provare tali ulteriori elementi (in specie, il valore dei beni e delle somme assegnati, rispettivamente, in base al bilancio finale di liquidazione ovvero nei due periodi d’imposta precedenti la liquidazione). (58) Sul tema, G. Fransoni, L’estinzione postuma della società ai fini fiscali ovvero della società un poco morta e di altre amenità, in Rass. Trib., 2015, 47 ss.; R. Lupi, Società estinte: a che serve il “Nosferatu tributario”?, in www.fondazionestuditributari.com; A. Carinci, L’estinzione cit., 1-2843; V. Ficari, La disciplina delle società estinte: il profilo dei termini – Commento all’art. 28, commi 4 e 6 del D.lgs. 21 novembre 2014, n. 175, in S. Muleo (a cura di), Commento al decreto sulle semplificazioni, Torino, 2015, 129 ss.; G. Ragucci, La responsabilità tributaria di liquidatori di società di capitali dopo le modifiche apportate dal D.lgs. n. 175/2014, ibidem, 139 ss.; D. Deotto, Non si può essere “un po’ morti”: quindi una società estinta non può mai stare in giudizio, in Il fisco, n. 18/2015, 1-1751; Id., Decreto semplificazioni fiscali: l’“inferno fiscale quinquennale” delle società estinte, in Il fisco, n. 1/2015, 1-37. (59) G. Fransoni, op. ult. cit., 47. (60) Su cui, ampiamente, V. Ficari, op. ult. cit., 130-131. (61) Sulla possibilità di avvalersi di tale disposizione, almeno con riferimento al problema dei residui attivi tributari, si veda infra, parr. 14, 15.
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nell’art. 28, comma 4 cit. – non solo a livello pratico, ma anche teorico e sistematico non possa funzionare: come far convivere la recettizietà degli atti impositivi con la impossibilità di identificare, dopo l’estinzione, una “sede legale” o un “legale rappresentante” della società cui destinare la notifica? Come escludere, una volta ammessa la “sopravvivenza” dell’organoliquidatore ai fini delle suddette notifiche, le permanenza anche dell’assemblea (che di esso avrebbe diritto a disporre eventualmente la sostituzione)? Come negare, con ciò, la permanenza del vincolo sociale, anche in mancanza di un qualsivoglia apporto? Una volta ammessa la capacità del liquidatore a ricevere gli atti, come non assegnargli – poi – anche il potere di contestarli, quindi di ammettere la persistenza del potere rappresentativo della società, dunque della capacità di agire di quest’ultima, dunque la sua “non estinzione”? (62) Altrimenti detto, la stabilizzazione tributaria della società, per poter operare, si trova costretta a trascinare con sé una stabilizzazione anche civilistica, con ciò tuttavia negando contraddittoriamente la premessa stessa della sua ragione d’essere, ossia l’irreversibilità dell’estinzione (63). In secondo luogo, occorre sgombrare il campo da una (troppo facile) argomentazione a sostegno di un simile meccanismo. Vero è infatti che l’art. 28, comma 4 cit., stabilizzando temporaneamente la società estinta ai soli fini della validità degli atti tributari (impositivi e processuali), introduce una fictio iuris analoga a quella del nuovo art. 10 l. fall.; e vero è altresì che della ragionevolezza di quest’ultima norma nessuno dubita. Tuttavia, non si può – sul suo esempio – argomentare la praticabilità ex se di analoga regola in ogni campo, come quello processuale (64) o, per quanto qui di interesse, tributario. L’art. 10 l. fall. è infatti disposizione pur sempre pre-ordinata alla dichiarazione di fallimento della società (pur) estinta, dunque strumentale agli effetti legali di quest’ultima, tra cui – si noti – il sistema delle cd. revocatorie fallimentari (artt. 64, 65, 67 l. fall.); un sistema, quest’ultimo, finalizzato a rimediare (ex post ed entro certi limiti) alla “disgregazione” giuridica e
(62) In tal senso, si rinvia ampiamente alle considerazioni di G. Fransoni, L’estinzione postuma, cit., spec. 50 ss.; V. Ficari, La disciplina, cit., 132 ss.; G. Ragucci, Le nuove regole, cit., 1630. (63) A conferma di quanto a suo tempo acutamente osservato in dottrina, ossia l’impossibilità logica e pratica di ammettere che un soggetto di diritto possa estinguersi (o, specularmente, esistere) solo sotto alcuni profili e non altri. (64) In tal senso, M.F. Ghirga, La Corte Costituzionale, cit., 1188; D. Longo, Gli effetti, cit., 932.
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materiale del patrimonio della società fallita (65), la cui centralità nell’ambito della procedura fallimentare è nota (66). È proprio in tale prospettiva, e solo in essa – ossia della procedura fallimentare – che la temporanea “stabilizzazione” disposta dall’art. 10 l. fall. può razionalmente giustificarsi (67): vi è un legame essenziale tra la finzione ivi contemplata ed i peculiari effetti della dichiarazione di fallimento che ne fanno davvero – come anche la Cassazione ha condivisibilmente osservato (68) – una norma eccezionale. Specularmente, una qualsivoglia altra forma di “stabilizzazione”, come quella ex art. 28, comma 4 cit., se scollegata ad alcun meccanismo di “recupero” giuridico e “materiale” del patrimonio sociale, si rivelerebbe indadeguata. A che pro infatti la salvaguardia – si noti – solo formale della validità degli atti tributari ad essa rivolti? L’esecuzione della pretesa ivi consacrata sarebbe infatti comunque destinata a risultare infruttuosa, scontrandosi con l’estinzione giuridica del patrimonio sociale, naturale conseguenza dell’estinzione della società, non incisa dalla disposizione (69) (ed atteso anche l’improbabile, perché difficoltoso, esercizio di azioni revocatorie ordinarie da parte del Fisco) (70). Peraltro, anche a voler intendere la disposizione nel senso di consentire una azione esecutiva sui beni e sui crediti un tempo della società ed ora nel patrimonio di terzi (quali acquirenti in sede di liquidazione) (71), si incapperebbe nel limite
(65) Per una sintetica disamina del quale si rinvia a G.F. Campobasso, Diritto commerciale 3. Contratti titoli di credito procedure concorsuali, 5^ ed., a cura di M. Campobasso, Milanofiori Assago, 2014, 375 ss. (66) Sulla centralità del sistema delle revocatorie all’interno della disciplina del fallimento, addirittura ragion d’essere storica di tale procedura concorsuale, si veda A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedura concorsuali, Bologna, 2014, 161-162; S. Bonfatti, P.F. Censoni, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2009, 140; E. Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, Padova, 2012, 216; sul recente ridimensionamento delle revocatorie fallimentari, al fine di mitigarne gli abusi, frequenti in passato, si veda tuttavia G. Terranova, I profili giuridici dell’istituto. Il danno come fondamento dell’azione, in Tratt. proc. concorsuali, diretto da L. Ghia, C. Piccinini, F. Severini, vol. II, Milanofiori Assago, 2010, spec. 3 ss. (67) Spunti in tal senso in V. Sanna, Cancellazione, cit., 185 ss.; Id., Gli effetti, cit., 97; D. Dalfino, “Venir meno”, cit., 1236-1237, spec. nota 42. (68) In tal senso, condivisibilmente, Cass., SS.UU., n. 6070/2013, cit., punto 5.1. (69) Cfr. F. Pepe, Contributo, cit., 44-45. (70) Sulle scarse possibilità di successo di eventuali azioni revocatorie, cfr. in generale M. Speranzin, Successione dei soci, cit., 257; C. Consolo, F. Godio, Le Sezioni Unite, cit., 703. (71) Sull’utilità, tuttavia, di tale disposizione ai fini dell’esecuzione sui beni “residui” della società estinta, non trasferiti (ed intestati) a nessuno, si veda infra, par. 14.
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invalicabile delle trascrizioni immobiliari e dei beni mobili registrati e/o della buona fede nell’acquisto per i beni mobili non registrati, che ne impedirebbero comunque il pignoramento (art. 2914 cod. civ.) (72). Unica azione (davvero) esperibile sembra quindi quella nei confronti dei soci e, eventualmente, dei liquidatori, ossia sul loro patrimonio, seppur entro i diversi limiti fissati dalla legge. In tale ottica, l’art. 28, comma 4 cit., con riferimento alla sorte dei residui passivi, può essere inteso esclusivamente quale disposizione servente all’esperibilità dell’azione di cui all’art. 36 cit.: la “stabilizzazione” procedurale e processuale della società estinta, ai soli fini fiscali e non anche civili, in teoria consentirebbe infatti la “definizione” dell’accertamento (formalmente) ad essa rivolto, altrimenti impossibile a seguito dell’estinzione (73), permettendone la spendibilità nei confronti di soci e liquidatori ai sensi dell’art. 36 cit. (74). Solo in tale ottica, peraltro, sembra potersi evitare l’assurdo logico-giuridico della “validità” imposta per legge ad un atto giuridicamente “inesistente” (75); ritenendolo cioè non atto connotato da una propria autonoma funzione impositiva, bensì semplice “tassello” di una fattispecie normativa ben più complessa ed ampia – in tal caso, l’art. 36 cit. – finalizzata all’accertamento ed alla riscossione del tributi nei confronti (non della società estinta, cosa giuridicamente assurda, ma) dei soci e/o dei liquidatori. Il problema è, però, a monte: cui prodest? Se l’unica azione possibile è nei confronti dei soci e dei liquidatori, poco importa al Fisco il non poter
(72) C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile, IV, Torino, 2014, 74. (73) Cfr. retro, par. 4. (74) In tal senso, G. Fransoni, L’estinzione postuma, cit., 56; R. Lupi, Società estinte; cit., A. Carinci, L’estinzione, cit., XXX; G. Ragucci, La responsabilità tributaria di liquidatori di società di capitali dopo le modifiche apportate dal D.lgs. n. 175/2014, cit., 140; D. Deotto, Non si può essere, cit. (75) Nel senso che un atto amministrativo possa definirsi giuridicamente esistente solo se (i) ascrivibile, anche solo in apparenza, ad una amministrazione pubblica, nonché (ii) suscettibile di essere “eseguito” (ossia capace integrare la propria fattispecie di esecuzione e di produrre, quindi, effetti giuridici cd. secondari), (iii) a prescindere dalla sua “validità” (ossia capacità di realizzare correttamente la fattispecie espressiva del potere amministrativo cui esso è espressione, dunque di produrre effetti giuridici cd. primari), si veda F. Luciani, Contributo allo studio del provvedimento amministrativo nullo, Torino, 2010, 120 ss.). Nel senso che l’atto impositivo rivolto alla società estinta perché cancellata dal registro delle imprese, benché ascrivibile all’amministrazione finanziaria, ed astrattamente idoneo a realizzare la relativa fattispecie di riscossione (eseguibilità formale), sia comunque “inesistente” sul piano giuridico per difetto del termine passivo sia soggettivo (debitore) che oggettivo (patrimonio) dell’obbligazione d’imposta (non eseguibilità sostanziale), sia consentito il rinvio a F. Pepe, Contributo, cit., 43 ss.
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agire ex art. 36 cit. per intervenuta cancellazione della società, ben potendo al medesimo fine avvalersi dell’azione (generale) ex art. 2495, comma 2 cod. civ.; né l’art. 28, comma 4 cit., né lo stesso art. 36 cit. sembrano inoltre precludere al Fisco una azione diretta nei confronti dei soci, “saltando” – per così dire – la notifica dell’atto impositivo alla società (estinta, ma) resa “stabile” dalla disposizione in commento, come peraltro auspicato in dottrina (76). L’art. 28, comma 4 cit. sembra quindi aggiungere poco o nulla agli strumenti di tutela della pretesa erariale, apparendo dunque inutile, se non addirittura controproducente. Vero è che risolverebbe nell’immediato il problema della notifica degli atti di accertamento ai soci (problema in realtà meno significativo di quanto possa apparire) (77), ma costringerebbe l’amministrazione ad una duplicazione di procedimenti (verso la società e, poi, verso soci e liquidatori), con significativa probabilità di incappare nella scadenza del termine quinquennale ivi previsto e decadere dall’azione (78). Se così fosse, allora unica reale utilità della disposizione in esame, sul versante dei residui passivi tributari, sarebbe “condonistica”: una disposizione volta cioè non a risolvere, nel contesto tributario, i problemi strutturali che la cancellazione delle società solleva, bensì a far fronte ad una serie di difficoltà storicamente contingenti, relative ai procedimenti ed ai processi tributari già in corso all’entrata in vigore del D.lgs. n. 175/2014 e sui quali pendeva o si era già abbattuta la “spada di Damocle” della “inesistenza” o “radicale nullità” dell’atto impositivo o della “inammissibilità” del ricorso o dell’impugnazione (79). Questa sembra essere, ad un primo sguardo, l’unica lettura sistematicamente accettabile della disposizione in esame – si badi – se ad essa si vuol dare un qualche reale senso pratico, sul versante dei residui passivi: una norma qualificabile come “procedurale”, per lo meno in funzione dell’operare – come (forse impropriamente) si suol ripetere – del criterio
(76) R. Lupi, Superfluo notificare a società, ma va provata responsabilità socio, in www. fondazionestuditributari.com, a margine di Comm. trib. prov. Catania, sez. XIV, 25 febbraio 2015, n. 2127, ove nel medesimo senso. (77) Sia che si ammetta un vincolo di solidarietà passiva tra i soci ovvero una situazione tra di essi suscettibile di dar luogo processualmente ad un litisconsorzio necessario, non sussisterebbe per l’amministrazione l’obbligo di notifica dell’atto di accertamento a tutti i soci, ciò influendo solo sull’eventuale eseguibilità degli stessi (circoscritta ai soci notificatari): sul punto, si veda infra, par. 10. (78) In tal senso, G. Fransoni, op. ult. cit., 56-57. (79) In tal senso appare orientata l’Agenzia delle entrate: cfr. circ. n. 31/E del 30 dicembre 2014 e circ. n. 6/E del 19 febbraio 2015.
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tempus regit actum (80). Cosa che potrebbe argomentarsi anche in virtù della evidente impossibilità – sul piano sostanziale – di imputare una qualsivoglia situazione giuridica (dunque anche un debito tributario) ad un soggetto che, pur formalmente evocato in un atto impositivo, e pur considerato – per fictio iuris – ancora in vita, comunque non dispone di un patrimonio in senso giuridico cui ascrivere (anche solo oggettivamente) detta situazione. Vero è, infatti, che l’ordinamento tributario può imputare obblighi fiscali anche a soggetti di diritto privi di autonoma qualificazione tipologica nel settore civile; tuttavia, anche in questi casi, occorre che ad essi sia giuridicamente riferibile un patrimonio, del quale (inoltre) abbiano potere di “auto-governo” (81). Il problema è che una simile lettura della disposizione, oltre ad essere palesemente sconfessata dalla giurisprudenza (82), comunque esporrebbe
(80) In realtà, a sommesso avviso di chi scrive, poco utile è porre la questione relativa al campo di applicazione dell’art. 28, comma 4 cit. nei termini di “norma sostanziale (irretroattiva) o norma procedurale (retroattiva)”, così come – forse – anche nei termini di “norma retroattiva o irretroattiva” tout court. Quanto alla distinzione tra norme sostanziali e processuali, è ben nota la sua incertezza (sul punto, G. Fransoni, Tipologia e struttura della norma tributaria, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, Milanofiori Assago, 2012, 249 ss.) che la rende a tal fine inidonea a fornire una soluzione al problema specifico, riproponendo sotto mentite spoglie l’annosa ed irrisolta questione della natura dichiarativa e costitutiva degli atti impositivi; quanto alla distinzione tra norme retroattive e irretroattive, anch’essa appare non risolutiva, essendo qui chiamato l’art. 28, comma 4 cit. ad operare in un contesto procedimentale, ossia in presenza di una sequenza di atti teleologicamente ordinata (seppur non “rigida” nella sua composizione) all’accertamento ed all’escussione del tributo. Questo aspetto muta infatti la sostanza del problema, riducendone il senso nell’interrogativo: la “reviviscenza” ivi prevista riguarda gli atti o i procedimenti (questi ultimi intesi quali fattispecie unitarie)? Ebbene, a sommesso avviso di chi scrive, una risposta a tale domanda può fornirsi solo previa ricostruzione della ratio della norma, la quale ratio – a sua volta – non può che desumersi dal sistema nel quale essa è collocata ed è chiamata ad operare e, in tal caso, non solo dal sotto-sistema tributario, ma anche ed ancor prima dal sistema del diritto civile e delle società. In questa prospettiva, come si è tentato di mostrare nel testo, unica apparente funzione (i.e. senso pratico) che – almeno in relazione alla sorte dei residui passivi – ad essa sembra potersi ragionevolmente assegnare è quella di intervenire sui procedimenti in corso, ripristinandone la “legittimità perduta”. (81) Sul tema, in tal senso e molto chiaramente, cfr. ex multis A. Giovannini, La soggettività tributaria, in Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 65 ss., spec. 72-73; P. Russo, G. Fransoni, L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2014, 105-106. (82) Nel senso che l’art. 28, comma 4 cit. avrebbe valenza “sostanziale”, incidendo sul profilo della “imputazione alla società di rapporti e situazioni nella sfera delle relazioni con i suddetti enti creditori”; da cui la irretroattività della disposizione, ritenuta applicabile ai soli atti emanati successivamente alla entrata in vigore del D.lgs. n. 175/2014, si veda: Cass., sez. V, 2 aprile 2015, n. 6743; Cass., sez. VI-T, 6 maggio 2015, ord. n. 9030; Cass., sez. VI-T, 24 giugno 2015, ord. n. 15648; Comm. trib. prov. Reggio E., sez. II, 23 gennaio 2015, n. 5; Comm.
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la disposizione in esame a non pochi dubbi di legittimità costituzionale, attribuendo al Fisco una posizione di evidente privilegio rispetto agli altri creditori sociali, con lesione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) (83). Da qui l’opportunità di indagare se tale disposizione, che allo stato è esistente e con la quale – piaccia o meno – ogni operatore giuridico deve fare i conti, possa essere utile sotto altri aspetti. Utilità che – si anticipa sin d’ora – forse, ed in qualche misura, potrebbe ravvisarsi sul fronte processuale e dei cd. residui attivi. 10. I caratteri della responsabilità dei soci verso il Fisco: solidarietà passiva o litisconsorzio necessario? – Che avvenga direttamente (84) o indirettamente (ossia previa definizione della pretesa tributaria in capo alla società “stabilizzata”), l’azione dell’amministrazione finanziaria per debiti tributari della società estinta deve, in ultima analisi, indirizzarsi verso i soci o i liquidatori e “colpire” il loro patrimonio (85). Ciò impone di comprendere le modalità ed i termini di tale azione. Come affermato in precedenza, quando il debito per il quale il creditore della società estinta agisce è un debito tributario – e tali possono ritenersi anche i debiti degli ex-soci e liquidatori (86) – l’“integrazione” della disciplina di cui all’art. 2495, comma 2 cod. civ. è abbastanza agevole, trovando spazio la comune normativa in tema
trib. prov. Chieti, sez. V, 9 marzo 2015, n. 155. Sul tema, V. Ficari, La disciplina, cit., 135 ss.; G. Ragucci, Le nuove regole, cit., 1626; M. Zanni, Irretroattiva la norma sulla resurrezione delle società cancellate dal registro delle imprese, in Il fisco, n. 17/2015, 1682. (83) In tal senso, V. Ficari, La disciplina, cit., 134; Id., La Cassazione mette un freno alla sopravvivenza “retroattiva” ai fini tributari delle società cancellate dal registro delle imprese, di prossima pubblicazione su Riv. trim. dir. trib., il quale efficacemente definisce la parte pubblica un creditore “non pares inter pares”. (84) Assegnando cioè all’art. 28, comma 4 cit. o una valenza “condonistica”, circoscritta ai processi pendenti e non anche ai “nuovi” accertamenti, ovvero ammettendo non l’obbligo, ma solo la possibilità dell’amministrazione di avvalersi della “stabilizzazione” ivi prevista (ammettendo quindi un’eventuale azione diretta verso i soci a norma dell’art. 2495, comma 2 cod. civ.). (85) Il che, sul piano prettamente formale, potrebbe rappresentare deroga alla limitazione della responsabilità derivante dal contratto sociale, atteso che – pur nei limiti dei beni e delle somme assegnate – gli ex-soci rispondono di debiti della società con il proprio patrimonio (nel quale dette somme e beni sono giuridicamente confluiti). Tuttavia, la limitazione alla quota di attivo sociale ripartito rende tale deroga apparente o, se si preferisce, ragionevole, non implicando una vera e propria “rottura” con il principio di responsabilità limitata del socio che, anzi, si cerca in tal modo di salvaguardare sul piano sostanziale ed ex post (cfr. retro, par. 2). (86) Cfr. retro, parr. 7, 8.
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di accertamento e riscossione dei tributi. Molti dei nodi irrisolti sul versante civilistico, qui si rivelano di agevole soluzione: si pensi al problema del termine di prescrizione, qui non sussistente, operando le comuni decadenze dell’azione impositiva (87); o anche alla spendibilità nei confronti dei soci e dei liquidatori del titolo esecutivo ottenuto nei confronti della società, questione in parte assorbita nell’oramai acquisita efficacia esecutiva dello stesso atto di accertamento (88), in parte risolta dall’art. 36 cit., quanto meno per gli accertamenti verso la società definitisi prima dell’estinzione. Ciononostante, permangono anche in essa dei “vuoti” da colmare in via interpretativa. In specie, per quanto riguarda la responsabilità degli ex-soci, risvolti significativi presenta il problema relativo alla sussistenza o meno tra di essi di un rapporto di solidarietà passiva nonché di una situazione suscettibile di imporre, in sede processuale, un litisconsorzio necessario a norma dell’art. 14 D.lgs. n. 546/1992. Il dilemma scaturisce, in entrambi i casi, dal peculiare modo di essere della fattispecie legale costitutiva della pretesa dei creditori sociali (e del Fisco) verso gli ex-soci. Essa infatti presenta sia (a) un elemento comune (ossia il debito, anche tributario, della società estinta), che (b) degli elementi specifici, riferibili a ciascun singolo socio (ossia l’entità delle somme ed il valore dei beni ricevuti in sede di liquidazione, o come acconti, oltre ai conferimenti non versati). Ebbene, dinanzi a questa (ideale) scomposizione degli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità dei soci l’interprete può (consapevolmente o meno) assumere due diversi approcci, ciascuno dei quali ugualmente sostenibile, ma suscettibile di condurre a conclusioni profondamente differenti, se non antitetiche. Da un lato, potrebbero (idealmente) marginalizzarsi gli elementi specifici della responsabilità: si potrebbe infatti sostenere che la limitazione della garanzia patrimoniale (ai beni e somme ricevute) sia pur sempre elemento
(87) Termine di decadenza il cui dies a quo è quello ordinariamente previsto dalle leggi d’imposta e non la data della cancellazione della società dal registro delle imprese: in tal senso, cfr. T. Tassani, La responsabilità, cit., 372. (88) Sul cd. accertamento esecutivo e sulle sue implicazioni procedimentali e processuali, si vedano, anche per riferimenti, i contributi contenuti in C. Glendi, V. Uckmar (a cura di), La concentrazione della riscossione nell’accertamento, Padova, 2011 ed in M. Basilavecchia, S. Cannizzaro, A. Carinci (a cura di), La riscossione dei tributi, in Quaderni di Rivista di Diritto tributario, n. 8, Milano, 2011.
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esterno al rapporto obbligatorio (89), il quale dunque sarebbe identico tra i diversi soci, perché connotato esclusivamente dall’“elemento comune” (debito della società); affermazione questa che potrebbe indurre a sostenere – come è stato fatto sul versante civilistico e sulla scia dell’art. 1294 cod. civ. – la sussistenza di un vincolo di solidarietà passiva tra di essi (pur diversamente limitata) e, correlativamente, la negazione di un litisconsorzio necessario (in quanto notoriamente incompatibile con quanto disposto dall’art. 1306, comma 2 cod. civ.). Dall’altro, e specularmente, sia gli elementi specifici che quelli comuni potrebbero invece essere valorizzati, i primi “internalizzandoli” nella descrizione dei singoli rapporti obbligatori dei soci (con ciò negandone l’identità ed escludendo la solidarietà passiva tra di essi); i secondi, nel senso di ritenerne l’accertamento questione pregiudiziale ineliminabile, con conseguente necessità di litisconsorzio tra i soci (90). Va evidenziato come la giurisprudenza tributaria finisca per sposare quest’ultimo approccio, ora espressamente prescrivendo il litisconsorzio necessario tra i soci (91), ora ponendo l’onere di provare l’effettiva assegnazione di beni e denaro ai soci in capo all’amministrazione finanziaria (92), in tal modo apprezzando implicitamente gli “elementi specifici” come (anch’essi) costitutivi del debito dei soci, dunque internalizzandoli nel rapporto
(89) Cfr. retro, par. 5, nota 41. (90) Come noto, la sussistenza di un litisconsorzio necessario, nell’ambito del processo tributario, richiede – ai sensi dell’art. 14 D.lgs. n. 546/1992, per come interpretato da consolidata giurisprudenza (cfr. Cass., SS.UU., 18 gennaio 2007, nn. 1052, in tema di atti di divisione ex art. 34 d.p.r. n. 131/1986; Cass., SS.UU., 4 giugno 2008, nn. 14815, 14816, in tema di accertamento dei redditi delle società di persone tassate per trasparenza ex art. 5 TUIR) – che l’accertamento della pretesa verso il singolo contribuente implichi necessariamente l’accertamento di elementi costitutivi “comuni” a più soggetti, se non direttamente, quanto meno in presenza di un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra le diverse posizioni soggettive: sul tema, da ultimo ed ampiamente, L. Castaldi, Sul processo tributario litisconsortile. Lineamenti storico ricostruttivi, Pisa, 2013; nel senso della sussistenza di un litisconsorzio necessario tra i soci nell’ambito del processo civile, cfr. M. Vanzetti, Cancellazione delle società dal registro delle imprese e processi pendenti, in Giur. Comm., 2013, II, spec. 986; D. Dalfino, “Venir meno”, cit., 1238. (91) Affermano espressamente la necessità di un litisconsorzio tra gli ex-soci della società estinta, sebbene senza tuttavia spendersi nella elaborazione di un approfondito supporto argomentativo: Cass., sez. VI-T civ., 21 luglio 2015, ord. n. 15260; Cass., sez. VI-T civ., 6 maggio 2015, ord. n. 9030; Cass., sez. V civ., 5 novembre 2014, n. 23574; Cass., sez. V civ., 8 ottobre 2014, n. 21188; Cass., sez. V civ., 6 novembre 2013, n. 24955. (92) Si veda, in tal senso, Cass., sez. V civ., 07 ottobre 2015, n. 20063; Cass., sez. V civ., 26 giugno 2015, n. 13259; Comm. trib. prov. Catania, sez. XIV, 25 febbraio 2015, n. 2127.
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obbligatorio (93). Questa lettura del fenomeno, pur condivisibile in linea di principio, impone alcune precisazioni e solleva delle questioni su cui vale la pena soffermarsi brevemente. Va osservato in primo luogo, ed in via preliminare, come l’esigenza di omogeneità delle decisioni e di integrità del contraddittorio alla base della affermazione, in tali casi, del litisconsorzio necessario tra i soci a bene vedere assume un peso minore di quanto possa apparire. Certamente non si pone laddove l’azione dell’amministrazione finanziaria verso i soci avvenga a norma dell’art. 36 cit., ossia attenga a debiti tributari della società già definitisi prima della sua estinzione (o definitisi dopo l’estinzione per effetto della “stabilizzazione” di cui all’art. 28, comma 4 cit.): qui l’accertamento dell’elemento comune (debito tributario della società) è già avvenuto ed è oramai indiscutibile; i giudici del processo avverso l’atto impositivo notificato ai soci dovranno quindi prenderne semplicemente atto ed occuparsi solo dell’accertamento degli elementi specifici (beni e denaro ripartiti, colpa dei liquidatori). Ma non si pone nemmeno ove – avvalendosi dell’art. 28, comma 4 cit. – l’amministrazione notifichi alla società estinta (e non direttamente ai soci, a norma dell’art. 2495, comma 2 cod. civ.) l’atto di accertamento delle maggiori imposte dovute da quest’ultima, atto sul quale – poi – si incardinerebbe l’eventuale processo. Anzi, probabilmente, questo è una dei pochi profili di utilità pratica della disposizioni, sebbene poi la sua applicazione trascini con sé le problematiche di matrice civilistica di cui si è detto (in special modo, la paradossale necessità di una “reviviscenza” dell’organo-liquidatore e, quindi, dell’assemblea) (94). In secondo luogo, l’onere di chiamare in giudizio tutti i soci, quali litisconsorti necessari, per la normale inversione tra posizioni sostanziali e processuali che contraddistingue la tutela dinanzi le Commissioni tributarie (quanto meno nelle comuni liti fiscali, non “da rimborso”), diversamente da quanto avviene nel settore civile, ricadrebbe non sul creditore sociale (Fisco), ma sul socio-ricorrente: egli è infatti l’unico soggetto ad avere interesse all’instaurazione ed alla prosecuzione dell’eventuale giudizio avverso l’atto di accertamento. Il che ribalterebbe su quest’ultimo tutti i problemi pratici connessi alla parcellizzazione della tutela del credito sociale,
(93) Atteso che l’onere della prova degli elementi costitutivi di ogni pretesa, salvo l’operare di presunzioni legali, ricade su colui che intende farla valere (art. 2697, comma 1 cod. civ.). (94) Cfr. retro, par. 9.
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che normalmente subisce il creditore stesso: maggiori costi di contenzioso, maggior rischio di insolvenza (95), difficoltà nelle notifiche, se rivolte ad un ampio numero di soci (96). Vero è che, sotto quest’ultimo aspetto, l’art. 2495, comma 2 cod. civ. consente, entro un anno dalla cancellazione, di notificare le domande presso l’ultima sede della società estinta; ma è altresì vero che – pur unificato il luogo di notifica (97), ed anche ammettendo l’applicazione (analogica?) di tale regola agli “atti di chiamata” dei litisconsorti – la notifica dovrebbe comunque avvenire individualmente e separatamente e non, come invece altrove previsto (art. 303 cod. proc. civ., art. 65 d.p.r. n. 600/1973), cumulativamente ed impersonalmente (98). Ma il problema – forse – ha una connotazione solo teorica (99). In terzo luogo, non può non sottolinearsi altresì come, nel settore tributario, la regolamentazione del litisconsorzio necessario comunemente accolta in giurisprudenza, ove applicata alla vicenda in esame, striderebbe con alcuni principi cardine del diritto societario. Se, da un lato, tale regolamentazione impone (come ovvio che sia) la compresenza dei litisconsorti necessari nel processo, dall’altro, non richiede tuttavia un’analoga (generale) attività di accertamento verso ciascuno di essi. Ben potrebbe cioè l’amministrazione finanziaria notificare atti di accertamento solo ad alcuni dei (futuri, potenziali) litisconsorti necessari; vero è che, instauratosi il processo, devono essere chiamati in causa anche i litisconsorti non notificatari, ma questa chiamata non supplirebbe all’inerzia della parte pubblica la quale, per agire in via esecutiva contro di essi, dovrebbe comunque procedere (se non già decaduta) ad autonomo accertamento nei loro confronti (100).
(95) C.S. Hamel, Questioni in tema di fallimento di società cancellata, in Giur. Comm., 2014, II, 943; D. Longo, Gli effetti processuali della cancellazione di società dal registro delle imprese, in Riv. dir. proc., 2013, spec. 930-931. (96) M. Vanzetti, op. cit., 988 ss.; D. Longo, op. cit., 930-931. (97) Ed anche prescindendo dai problemi di effettiva conoscibilità dell’atto da parte dei soci che tale soluzione comporterebbe, ben potendo essi non avere più alcun legame con la vecchia sede della società: sul punto, cfr. F. Fimmanò, F. Angiolini, op. cit., 1497-1498; G. Niccolini, op. cit., 1847-1848; D. Dalfino, Le Sezioni Unite, cit., 1013; D. Longo, op. cit., 928-929. (98) M.S. Spolidoro, Seppellimento prematuro. La cancellazione delle società di capitali dal registro delle imprese ed il problema delle sopravvenienze attive, in Riv. soc., 2007, 830, nota 19; F. Fimmanò, F. Angiolini, op. cit., 1494-1495. (99) Appare estremamente improbabile che un accertamento relativo a debiti tributari della società intervenga entro l’anno successivo la cancellazione. (100) Sul punto, si veda, ampiamente, P. Russo, Manuale di diritto tributario. Il processo
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Il soddisfarsi verso soltanto alcuni dei soci (i notificatari) crea quindi le premesse per una concreta alterazione del riparto del rischio d’impresa, così come fissato dal contratto sociale secondo le quote di partecipazione di ogni socio (101). L’affermazione del litisconsorzio necessario tra gli ex-soci, almeno nel contesto tributario, sollecita cioè dei correttivi che assicurino a chi concretamente ha pagato una qualche forma di regresso verso coloro che sono rimasti immuni dall’azione impositiva, semplicemente perché (pur partecipanti al processo) non notificatari. Al riguardo, ammettere anche un vincolo di solidarietà passiva tra i soci potrebbe rappresentare una soluzione adeguata, attesa la disciplina dell’art. 1299 cod. civ. e considerato che unica alternativa sarebbe l’azione di ingiustificato arricchimento (art. 2041 cod. civ.), con tutti i suoi evidenti limiti (102). Si tratterebbe però di conciliare il vincolo (sostanziale) di solidarietà passiva con il vincolo (processuale) del litisconsorzio; cosa notoriamente esclusa, vista la presenza dell’art. 1306, comma 2 cod. civ. che, consentendo ad ogni con-debitore di valersi del giudicato altrui favorevole, implicitamente ne esclude l’operatività (103). A meno di non ritenere non applicabile l’art. 1306, comma 2 cod. civ. al caso di specie, come, secondo alcuna dottrina, avverrebbe nelle ipotesi di solidarietà passiva paritetica (o “tipica”) (104).
tributario, Milano, 2013, 88 ss. (101) Supponiamo: un attivo residuo da liquidazione di 1000; 3 ex-soci (A, B, C), assegnatari di somme di denaro in sede di liquidazione per 600 (A), 300 (B) e 100 (C), secondo le rispettive quote di partecipazione al capitale sociale (60%, 30%, 10%); un debito tributario residuo di 400 emerso post-estinzione; la notifica di un atto di accertamento (ex art. 2495, comma 2 cod. civ. o art. 36 cit., non importa) esclusivamente nei confronti di A; l’accertamento in via giudiziale del debito di 400 (in litisconsorzio con B e C, tuttavia non notificatari, quindi non suscettibili di essere esecutati); il pagamento dell’intero da parte di A, unico notificatario, nonché responsabile – per così dire – “capiente”. Ebbene, se il debito fosse stato correttamente estinto in sede di liquidazione, l’attivo residuo sarebbe risultato certamente inferiore (1000 – 400 = 600), ma comunque ripartito sulla base delle medesime quote di partecipazione (rispettivamente, 240, 180 e 60). L’adempimento del debito dopo la liquidazione da parte di uno o solo di alcuni degli ex-soci, solo perché successivo, impone dei correttivi, pena il rischio di una alterazione del riparto (pro-quota) del rischio di impresa, che comprende certamente una distribuzione “plutocratica” anche dei debiti sociali. (102) Sul carattere sussidiario e sui limiti dell’azione di ingiustificato arricchimento, si veda, ex multis, C.M. Bianca, Diritto civile 5. La responsabilità, Milano, 1994, 809 ss.; A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, 46^ ed., a cura di G. Trabucchi, Torino, 2013, 1063 ss. (103) A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 326 ss. (104) In tal senso, si veda L. Castaldi, Considerazioni civilistiche e non, a margine della
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11. La sorte delle sopravvivenze e delle sopravvenienze attive: premessa. – Quanto ai residui attivi, come può facilmente intuirsi, alla loro (successiva) ripartizione hanno interesse sia soci che i creditori sociali, trattandosi di elementi patrimoniali su cui questi ultimi potrebbero (maggiormente) soddisfare le proprie pretese. Sulla loro sorte, tuttavia, l’art. 2495 cit. tace del tutto, sollecitando anche qui un’opera di “completamento” da parte dell’interprete (105). Il tema – declinato nella prospettiva tributaria – assume una configurazione completamente diversa a seconda che lo si riferisca: (a) a diritti reali di cui essa è (era) titolare e non trasferiti a nessuno, nemmeno in sede di liquidazione; (b) ai crediti che la società estinta vanta(va) nei confronti di terzi; (c) ai crediti che la società estinta vanta(va) nei confronti dell’amministrazione finanziaria stessa per imposte da essa versate, ma non dovute (cd. crediti di imposta “da indebito”). La prima ipotesi pone l’interrogativo della sorte di tali diritti, apparendo irrazionale ammetterne la derelizione. La seconda induce a invece chiedersi se e come il Fisco – nell’originaria inerzia della società e nel successivo disinteresse dei soci – possa realizzare il credito, così da potersi soddisfare su di esso. La terza induce a verificare se, in che modo ed in che termini i soci e, eventualmente, i liquidatori possano attivarsi per recuperare le somme erroneamente versate dalla società estinta all’erario per imposte non dovute. Tutti questi casi – va precisato – saranno trattati solo in relazione a diritti già definiti in capo alla società (cd. sopravvivenze attive) ovvero che ancora devono essere fatti valere (ad esempio, crediti d’imposta per i quali ancora non è stata presentata istanza di rimborso, o crediti verso terzi dei quali non è stato ancora chiesto formalmente l’adempimento), non anche in relazione a diritto sub iudice, dei quali ci si occuperà oltre, quando si tratterà della sorte dei processi pendenti (106). 12. Il problema della sorte dei residui attivi della società estinta e della (possibile) valenza abdicativa della cancellazione dal registro delle
sent. 22 giugno 1991, n. 7053 delle SS.UU. della Corte di Cassazione, in Riv. dir. trib., 1992, II, 96 ss., spec. 104; cui adde L. Ferlazzo Natoli, P. Accordino, Solidarietà tributaria paritetica e litisconsorzio necessario, in Il fisco, 2007, 1-926. (105) Si tralascia in tal sede il diverso problema della rilevanza tributaria (imponibilità) dei residui attivi in capo alla società e/o ai soci, su cui si veda ampiamente T. Tassani, Estinzione delle società e residui attivi da liquidazione: profili fiscali, in Rass. trib., 2015, 1012 ss. (106) Cfr. infra, par. 16.
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imprese nel pensiero di dottrina e giurisprudenza gius-commercialistica: cenni. – In generale, il problema della sorte dei residui attivi della società estinta è stato ampiamente trattato dalla dottrina gius-commercialistica, che ha proposto soluzioni variegate, anche qui – come per i residui passivi – essenzialmente finalizzate a “colmare” in via interpretativa il silenzio dell’art. 2495, comma 2 cod. civ. Al riguardo è sufficiente osservare come tre siano state le proposte degli studiosi: (i) in primo luogo si è ipotizzata la possibilità (e necessità), in presenza di attività sopravvissute o sopravvenute, di costituire un patrimonio separato, assimilabile all’eredità giacente e con nomina di un curatore speciale ex art. 78 cod. proc. civ. (107); questa soluzione che però non ha trovato spazio in giurisprudenza e nella prassi; (ii) in secondo luogo, si è valutata la possibilità di una cd. “cancellazione della cancellazione della società dal registro delle imprese” (108); tesi fondata sull’idea che la presenza di residui attivi sarebbe oggettivamente espressiva di una non corretta liquidazione, dunque di una non legittima iscrizione del provvedimento di cancellazione, come tale passibile di revoca ex art. 2191 cod. civ. (con “reviviscenza” della società, seppur ai soli fini del completamento della procedura liquidatoria) (109); anche questa tesi,
(107) In tal senso, V. Salafia, Sopravvenienza di attività dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, in Le Società, 2008, 931 ss.; C. Glendi, Corte costituzionale, cit., 1277-1278; M. Pedoja, Fine della “immortalità”, cit., 1019; in giurisprudenza, cfr. Cass., sez. I civ., 16 luglio 2010, n. 16758. (108) L’espressione ovviamente è atecnica, dovendosi piuttosto parlare di iscrizione dell’atto di cancellazione del precedente atto di cancellazione della società. La tesi è stata caldeggiata da M. Speranzin, L’estinzione della società di capitali in seguito all’iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese, in Riv. soc., 2004, 527 ss.; nonché, soprattutto, da M.S. Spolidoro, Seppellimento prematuro, cit., 823 ss.; P. D’Alessandro, Cancellazione della società e sopravvenienze attive: opportunità e legittimità della riapertura della liquidazione, in Le Società, 2008, 898; nonché, da ultimo, da G.B. Barillà, Cancellazione della società dal registro delle imprese e sopravvenienze attive: il dibattito prosegue, in Giur. comm., 2014, II, spec. 795-797; F. Martino, Sugli effetti sostanziali della cancellazione delle società dal registro delle imprese, in Giur. comm., 2013, II, 974 ss.; V. Sanna, Gli effetti della cancellazione dell’impresa e della società dal registro delle imprese, in Giur. comm., 2015, II, spec. 85 ss.; A. Zorzi, L’estinzione delle società di capitali: la sorte delle “mere pretese” e “crediti illiquidi”, in Giur. comm., 2015, II, 264. (109) Più esattamente, tal tesi prende le mosse: (i) dalla non equiparabilità dell’estinzione della società alla morte della persona fisica; (ii) da una interpretazione dell’art. 2495 cit. nel senso di imporre la “persistenza” dell’effetto estintivo solo ove fossero emersi residui passivi, non anche ove ve ne fossero di attivi; (iii) dal fatto che quest’ultima circostanza sarebbe oggettivamente dimostrazione di un non corretto e non completo svolgimento della liquidazione; (iv) dall’idea che la corretta ed integrale liquidazione dell’attivo costituirebbe
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nonostante un certo seguito iniziale (110), ed attese le critiche cui è andata incontro (111), ha finito per essere accolta solo in casi limite (112); (iii) l’idea che, anche in tal caso, si verifichi una forma di successione dei soci nelle posizioni attive della società. Questa è la soluzione accolta dalle Sezioni Unite della Cassazione, le quali hanno così risolto il problema dei residui attivi in termini simmetrici a quello dei residui passivi, secondo il meccanismo della successione cd. “sui generis”: attribuendo beni e crediti residui in con-titolarità pro quota tra i soci (113). Scelta che, pur dominante in dottrina (114), non è tuttavia andata (anch’essa) esente da critiche, legate
condizione per la legittima iscrizione nel registro delle imprese del provvedimento di cancellazione della società; (v) dalla possibilità quindi di una revoca di tale provvedimento in presenza di residui attivi, con “reviviscenza” della società, onde procedere all’esatto compimento della procedura liquidatoria (per tali argomentazioni, si rinvia a M.S. Spolidoro, op. ult. cit., spec. 843 ss.). La peculiarità di tale soluzione è che essa si pone sostanzialmente come “rimedio” non alle implicazioni che l’estinzione della società avrebbe sui residui attivi, ma alla stessa irreversibilità dell’estinzione. Mediante l’escamotage procedurale della “revoca” della “cancellazione” (ad opera del Giudice del registro ai sensi dell’art. 2191 cod. civ.) essa finisce infatti per operare non sulle conseguenze, ma sulle cause del problema (nel senso per cui tale tesi svuoterebbe tuttavia il principio affermato dalle Sezioni unite del 2010, cfr. R. Weigmann, La difficile estinzione, cit., 1618). (110) Segue tale impostazione, seppur in relazione ad un caso, del tutto particolare, di trasferimento della sede legale all’estero, Cass., SS.UU., 9 aprile 2010, n. 8426, in Boll. trib., 2010, 1335, con nota di G. Selicato, Estinzione e reviviscenza di società cancellate dal registro delle imprese tra certezza dei rapporti giuridici e tutela del credito erariale; per ulteriori riferimenti di giurisprudenza, si rinvia, da ultimo, a V. Sanna, Gli effetti, cit., spec. 82, nota 5. (111) Critiche assise in particolar modo sulla natura solo formale del controllo di legalità dell’iscrizione, dunque sull’impossibilità di condizionare l’iscrizione, e consentirne la revoca, sia alla verifica della sostanziale presenza/assenza di residui attivi (F. Fimmanò, F. Angiolini, op. cit., 1469-1471), sia alla loro effettiva assegnazione ai soci (M. Porzio, op. cit., 91); sul punto, per più ampie considerazioni in tal senso, si veda M.C. Lupetti, La possibile reviviscenza delle società dopo la loro cancellazione dal Registro delle Imprese, in Le Società, 2014, 1335 ss.; C.S. Hamel, Ancora dubbi sulla cancellazione della cancellazione, in Le Società, 2014, 945 ss.; F. Fanti, Estinzione della società e cancellazione dal R.I.: ancora ombre sul dettato legislativo?, in Le Società, 2013, 403 ss. (112) Quali la prosecuzione dell’attività d’impresa, per le società di persone, la destinazione di tutto il patrimonio sociale ad un trust liquidatorio, la presentazione di un bilancio finale di liquidazione “apparente” (o un “simulacro” di bilancio), la presentazione di una richiesta di cancellazione prima dei 90 giorni dal deposito del bilancio finale): per riferimenti, V. Sanna, Gli effetti, cit., 85 ss.; nonché F. Pasquariello, Cancellazione di società nella mera “apparenza” del bilancio finale di liquidazione, in Giur. comm., 2015, II, 584 ss. (113) Cass., SS.UU., n. 6070/2013 cit., punto 4.2. (114) Per riferimenti, M. Porzio, op. cit., 91.
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soprattutto ai numerosi problemi pratici inerenti la gestione del patrimonio “comune” (115) e, soprattutto, la trascrizione delle vicende relative ai singoli beni (116). In questa occasione la Cassazione ha – peraltro – preso esplicita posizione su un problema logicamente antecedente rispetto a quello della sorte dei residui attivi, ossia quello della (possibile) valenza abdicativa della cancellazione: se cioè essa costituisca o meno un (tacito) atto di rinuncia dei diritti facenti capo alla società. Il dilemma sorge in quanto, come noto, la scelta del liquidatore di perseguire la monetizzazione di un credito sociale ovvero di “rinunciarvi” rientra nella sua discrezionalità professionale, sebbene da compiere nell’esclusivo interesse della compagine sociale (117). Ebbene, al riguardo, le Sezioni Unite hanno optato per una soluzione decisamente ambigua, ammettendo infatti l’effetto abdicativo, ma limitandolo alle sole mere pretese, crediti controversi ed illiquidi, non iscrivibili in bilancio di liquidazione (correlativamente, facendo cadere in successione i beni e crediti “certi e liquidi”, iscrivibili seppur non esigibili) (118). Tale soluzione, si è osservato, oltre a sollevare una serie di problemi applicativi – in primis, come distinguere tra “mere pretese, crediti incerti e illiquidi” ed altri crediti o pretese (119) – manifesta una dubbia ragionevolezza in sé. Intuitivamente, sembra infatti proprio la “non iscrizione” delle pretese iscrivibili ad esprimere con maggiore probabilità una (qualche) volontà abdicativa (120). 13. (segue): il tendenziale approccio “monolitico” al problema da parte delle Sezioni Unite: critica. – Al di là di tutti questi interrogativi, può dirsi come anche qui – come per i residui passivi – il problema della identificazione di una disciplina applicabile finisca, nel settore fiscale, per ridimensionarsi fortemente, fornendo di per sé l’ordinamento tributario norme ad hoc che, probabilmente, rendono non necessario uno sforzo ricostruttivo
(115) G. Niccolini, op. cit., 1841. (116) Su cui F. Martino, op. cit., spec. 972-973. (117) R. Weigmann, op. cit., 1617. (118) Cass., SS.UU., n. 6070/2013 cit., punto 4.1. (119) E. De Sabato, Cancellazione dal Registro delle Imprese, estinzione ed effetti su rapporti giuridici sostanziali e processuali, in Giur. comm., 2013, II, 619-610. (120) A. Zorzi, L’estinzione, cit., 260 ss.; F. Pasquariello, F. Platania, La cancellazione, cit., 846.
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analogo a quello compiuto sul versante civile. Per comprendere ciò appare tuttavia necessario partire da quello che, a sommesso avviso di chi scrive, costituisce il principale difetto della ricostruzione della vicenda estintiva fatta propria dalla Cassazione: l’assegnare alla lettura in chiave successoria una valenza – per così dire – “monolitica”. La Suprema Corte, assunta una simile ricostruzione sul piano sostanziale e con riferimento ai residui passivi, mostra infatti di estenderla in modo pressoché automatico ed acritico a paradigma di riferimento per la soluzione dei problemi posti sia dalla presenza di residui attivi che dei processi pendenti. In realtà, se si parte dalla (più volte ribadita) premessa per cui – nel caso dell’estinzione delle società di capitali – ogni qualificazione giuridica della vicenda è pur sempre strumentale all’identificazione di una disciplina applicabile alle sue patologie, volta a colmare i “vuoti” dell’art. 2495, comma 2 cod. civ., ebbene un simile “automatismo” non pare più accettabile; anzi, in materia, nessun “automatismo” qualificatorio sembra ammissibile. Innanzitutto, appare metodologicamente scorretto estendere tout court la soluzione che l’ordinamento adotta per regolare lo scioglimento della società nella sua fisiologia (ossia, la liquidazione) anche alle sue eventuali patologie (residui attivi e passivi, processi pendenti) e trarne la relativa disciplina (121): trattasi di situazioni profondamente diverse, sia sul piano giuridico che materiale, che sollevano problemi diversi e che potrebbero richiedere soluzioni diverse. Altrimenti detto, il fatto che il legislatore abbia scelto, per regolare fisiologicamente la sorte delle varie posizioni giuridiche della società che si scioglie, il meccanismo della liquidazione – come noto, “ontologicamente” incompatibile con ogni forma di successione (122) – non può escludere a priori l’identificazione in quest’ultima del principio regolativo delle ipotesi patologiche, potendo queste manifestare esigenze diverse e richiedere soluzioni diverse. Ma non solo.
(121) In tal senso, sembrano porsi U. La Porta, Estinzione del soggetto, cit., 1031 ss.; C. Glendi, Corte costituzionale, cit., 1271 ss.; D. Dalfino, “Venir meno” della società, cit., 1238 ss., laddove deducono dall’opzione legislativa per il modulo della liquidazione, quale meccanismo fisiologico di regolazione dei rapporti giuridici della società al suo scioglimento, l’impossibilità di utilizzare il modulo della successione nelle ipotesi patologiche che tale vicenda può talvolta comportare. (122) Come già esaustivamente osservato da F. Carnelutti, Sistema del diritto processuale civile, III, Padova, 1939, 442 ss.; Id., Conversione del procedimento per modificazione della lite, in Foro it., 1939, IV, c. 199; cui adde G. Minervini, La fattispecie estintiva delle società per azioni e il problema delle cc. dd. sopravvenienze, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1952, 1025.
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Affermato un certo modo di inquadrare dogmaticamente la vicenda estintiva in una sua patologia (ad esempio, successione a titolo universale per i residui passivi), non è detto che questo modo debba valere per ogni tipo di patologia. Quest’ultima osservazione si rende nitida proprio con riferimento ai residui attivi: le situazioni giuridiche soggettive attive che possono sopravvivere o sopravvenire in capo alla società estinta (ovviamente nel senso figurato che si è detto (123)) sono infatti variegate e la “gestione” della loro sorte si apre, a seconda della tipologia, a opzioni regolative – si noti: già in astratto – diverse tra loro. Quanto alla sorte dei diritti di credito della società (sopravvissuti o sopravvenuti), oltre a porsi solo per essi il problema dell’estinzione per (implicita) rinuncia (124), l’alternativa teorica è evidentemente quella tra successione e ri-liquidazione (i.e. riapertura della fase di liquidazione, secondo lo schema della “cancellazione della cancellazione”); analoga alternativa si pone per i diritti reali, ma senza che di essi possa prospettarsi un effetto abdicativo della cancellazione (pena l’assurdità di una derelizione dei beni), e con prospettive di adeguatezza diverse a seconda delle circostanze. Ad esempio, vi è chi ha ritenuto applicabile il modulo della successione universale ove i diritti reali sui beni (pur non liquidati e non assegnati) siano stati indicati nel bilancio finale di liquidazione (in tal caso, apparendo agevole anche la trascrizione della vicenda traslativa, attraverso un atto di ricognizione o un atto di divisione redatto ai soli fini della continuità delle trascrizioni) (125); in caso contrario, l’assenza di indicazione imporrebbe inevitabilmente la riapertura della liquidazione (“cancellazione della cancellazione”) (126). Questo per sottolineare come il problema della sorte dei residui attivi meriti probabilmente una soluzione articolata e non necessariamente speculare a quella fatta propria per i residui passivi. 14. Il problema della sorte dei residui attivi nel contesto tributario: (a) i diritti reali e i diritti di credito verso terzi (sopravvissuti e sopravvenuti) in capo alla società: profili di tutela della garanzia patrimoniale del credito tributario. – Come accennato, il problema della sorte dei diritti reali e dei
(123) Cfr. retro, par. 3. (124) Cfr. retro, par. 11. (125) F. Martino, Sugli effetti sostanziali, cit., 972-974. (126) F. Martino, op. ult. cit., 974 ss.
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crediti che la società estinta vanta(va) nei confronti di terzi pone la domanda di se e come il Fisco possa, nell’inerzia dei soci, realizzare questi ultimi, monetizzandoli e così soddisfacendo (maggiormente) le proprie eventuali pretese tributarie verso la società. Invero, sotto questo aspetto, la normativa fiscale mette a disposizione dell’amministrazione finanziaria una serie di strumenti che le consentono di perseguire tale finalità con maggior celerità ed efficacia rispetto ai comuni creditori sociali. Relativamente ai diritti reali su beni immobili e mobili registrati facenti capo alla società estinta, ma non indicati in bilancio finale di liquidazione ovvero indicati, ma non assegnati (ossia non formalmente trasferiti a chicchessia), i relativi problemi di trascrizione – nel contempo necessaria, in forza del principio di continuità, per una loro successiva cessione, e impossibile, per l’assenza di un valido titolo di trasferimento – per il Fisco non costituiscono un problema, anzi paradossalmente ne sono la soluzione. Tali beni infatti, proprio per effetto del loro mancato “trasferimento”, risultando ancora formalmente intestati nei registri immobiliari alla società, consentirebbero all’amministrazione finanziaria una azione esecutiva direttamente su di essi, avvalendosi della “stabilizzazione” di cui all’art. 28, comma 4 cit. Se l’atto di accertamento (che oramai è anche titolo esecutivo) può, per effetto di tale disposizione, validamente indirizzarsi alla società benché estinta, allora la sua esecuzione coattiva ben potrebbe ricadere sui beni ad essa ancora intestati, secondo le “speciali” procedure dell’esecuzione esattoriale immobiliare (artt. 76, 77 d.p.r. n. 602/1973). In tal prospettiva, il problema se assoggettare tali diritti a successione ovvero ad un procedimento di re-liquidazione è del tutto bypassato. E – forse – in ciò potrebbe ravvisarsi una qualche utilità pratica dello stravagante art. 28, comma 4 cit. Quanto ai diritti di credito verso terzi, nel caso in cui essi siano non ancora certi, liquidi ed esigibili (e non siano già oggetto di processi pendenti), sembra invece che il Fisco possa avvalersi, come qualunque altro creditore sociale, dell’azione surrogatoria, a patto di ammettere un’interpretazione “estensiva” o “elastica”, se non “analogica” dell’art. 2900 cod. civ. (127); se invece vi è già
(127) L’esercizio dell’azione surrogatoria non consente, infatti, una “sostituzione” del creditore-surrogante nella posizione creditoria (verso il terzo) del debitore-surrugato. Piuttosto, essa è finalizzata a consentire a quest’ultimo di realizzare egli stesso, nel proprio patrimonio e su impulso del surrogante, l’utilità di un determinato diritto di credito; così da permettere anche al surrogante (seppur indirettamente e senza alterazione della par condicio creditorum) una maggiore soddisfazione della propria pretesa (sul tema, ampiamente, cfr.
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certezza, liquidità ed esigibilità del credito, e se il debito tributario della società è esecutivo (anche solo provvisoriamente), si potrà procedere a pignoramento presso il terzo-creditore a norma dell’art. 72-bis d.p.r. n. 602/1973 (128), con ciò bypassando (anche qui) il problema del rapporto società-soci e della sua qualificazione giuridica. 15. (segue): (b) i crediti d’imposta “da indebito” (sopravvissuti e sopravvenuti) in capo alla società: profili di tutela da parte dei soci. – Di maggiore complessità la sorte dei crediti di imposta “da indebito” della società estinta. Sul punto sembra doversi distinguere il caso in cui, alla data di cancellazione della società, le procedure di rimborso relative a tali crediti (a) non siano state attivate (ma sarebbero ancora attivabili) ovvero (b) siano già pendenti, ossia l’istanza di rimborso sia stata presentata dalla società ancora esistente e, nelle more di una risposta dell’amministrazione, vi sia stata cancellazione dal registro delle imprese. (a) Nel primo caso, si tratta di capire se la cancellazione dal registro delle imprese integri una (implicita) abdicazione – o, se si vuole, “rinuncia” – del credito fiscale vantato dalla società verso il Fisco o, per usare la terminologia fatta propria dalle Sezioni Unite del 2013, se tale credito debba o meno qualificarsi “mera pretesa” e, dunque, sia destinato ad estinguersi insieme alla società (129). Al riguardo, la dottrina appare orientata nel senso di una risposta negativa, laddove afferma che il credito verso l’erario sarebbe anch’esso oggetto di successione pro-quota in capo ai soci, i quali per ciò stesso sarebbero legittimati a presentare personalmente – e limitatamente a quest’ultima (quota) – istanza
C.M. Bianca, Diritto civile 5. La responsabilità, cit., 417 ss., spec. 420-421; A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, cit., 784-785). In tal prospettiva, sembrerebbe poco confacente l’esercizio di una simile azione da parte dei creditori della società estinta ed in relazione ai suoi eventuali residui attivi, attesa l’irreversibile estinzione di questa e – soprattutto – del suo patrimonio giuridico. Tuttavia, anche alla luce della comune affermazione circa la legittimazione del surrogante a ricevere direttamente la prestazione dovuta dal terzo al surrogato, si è proposta un’interpretazione “elastica” dell’art. 2900 cod. civ., al fine di ricomprendervi anche il caso di residui attivi emergenti a seguito di estinzione di società di capitali: in tal senso, si veda, in special modo, C. Consolo, F. Godio, Le Sezioni Unite, cit., 703. (128) Su cui, da ultimo, F. Odoardi, Il processo esecutivo tributario, in M. Basilavecchia, S. Cannizzaro, A. Carinci (a cura di), op. cit., 282 ss. (129)
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di rimborso (130), salva la facoltà, ammessa dalla stessa amministrazione finanziaria, di delegare a tal fine un unico socio o, per le sole società di capitali, eventualmente un terzo (131). Invero, un simile modo di ragionare sembra incappare in quel rovesciamento dei termini del problema cui si è accennato in precedenza: non dalla ricostruzione della vicenda in termini di “successione” può infatti derivare la valenza o meno di “mera pretesa” del credito tributario, bensì il contrario: è dalla eventuale negazione di “mera pretesa” (i.e. dalla negazione della valenza abdicativa della cancellazione) che dovrebbe affermarsi – ove si voglia seguire la Cassazione – la “successione” del credito. Per definizione, non può “succedere” un credito che è stato (pur implicitamente) oggetto di rinuncia! Ed allora, il problema della idoneità della cancellazione a determinare l’estinzione, per “rinuncia” implicita, dei crediti di imposta della società va risolto guardando altrove e, in primis, (i) alla funzione costituzionale del medesimo (di equo riparto dei carichi pubblici ex art. 53 Cost.), nonché (ii) all’impossibilità di dedurre dal sistema tributario una qualche forma di “volontaria estinzione” dei crediti d’imposta, diversa dalla mera inerzia del contribuente (per scadenza dei termini decadenziali previsti per la presentazione delle istanze di rimborso). Elementi da cui può ragionevolmente dedursi l’impossibilità di assegnare alla cancellazione l’effetto di estinguere i crediti d’imposta della società. Ciò precisato (132), si deve ammettere come – pur non dipendendo
(130) In tal senso, T. Tassani, Estinzione, cit., 1028. (131) In tal senso, espressamente, la Ris. n. 77/E del 27 luglio 2011, per un commento alla quale, si veda G. Selicato, Profili procedimentali dei rapporti giuridici attivi sopravvenuti all’estinzione societaria, in Riv, trim. dir. trib., 2012, 478 ss., che, pur condividendo nella sostanza la soluzione fatta propria dall’amministrazione finanziaria, rileva tuttavia, da un lato, l’opportunità che il delegato abbia una qualche competenza ed esperienza professionale, eventualmente già disponendo di un “collegamento con le vicende societarie” (requisiti invece non richiesti dalla risoluzione in commento); dall’altro, l’irragionevolezza circa la possibilità di delegare un terzo (e non solo un socio) limitatamente alle società di capitali, quanto meno se giustificata solo sulla base di “una generica valutazione statistica” in ordine alla “normale” minor dimensione delle società di persone ed in luogo di un “puntuale accertamento nel caso concreto” (da cui una paventata lesione del principio di uguaglianza nella scelta tra forme giuridiche societarie). (132) Il fatto cioè che (i) il problema della valenza o meno abdicativa della cancellazione sia logicamente antecedente al (ii) problema della qualificazione del rapporto intercorrente tra società estinta ed ex-soci, sul versante dei residui attivi di matrice fiscale ed in vista dell’identificazione di una disciplina volta a regolarne la sorte.
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logicamente da quanto previsto dalla Sezioni Unite in relazione al problema dei residui passivi – la riconduzione dei residui attivi tributari all’interno dello schema (sostanziale) della successione a titolo universale in capo ai soci appare non solo soluzione adeguata, ma unica via percorribile. Premesso che qui, diversamente da quanto avviene sul fronte dei residui passivi, anche applicando la normativa tributaria in materia di rimborsi, permane comunque una “lacuna” da colmare in via interpretativa, ossia l’identificazione dei soggetti legittimati al rimborso (133); in tal ottica, esclusa l’estinzione tout court del credito tributario per effetto della cancellazione, ed apparendo non sostenibile l’idea che la “stabilizzazione” della società a norma dell’art. 28, comma 4 cit. operi anche a tali fini (134), altro non resta – se si afferma la persistenza del credito verso l’erario – che ravvisare negli ex-soci gli unici legittimati (pro quota) a tale istanza, con ciò palesemente evocando gli estremi del fenomeno successorio (sul piano sostanziale) e del litisconsorzio necessario (sul piano processuale). Nel secondo caso, il problema assume contorni diversi a seconda che vi sia un provvedimento e che questo sia di accoglimento ovvero di (totale o parziale) rigetto. Nella prima ipotesi, sembra potersi affermare l’emersione di una “sopravvenienza” attiva in senso proprio, ossia di una posizione creditoria verso il Fisco formalmente ancora riferita alla società, costituitasi nella inconsapevolezza della sua estinzione (135) e la cui sorte troverà regola
(133) Lacuna che invece non sussiste nel caso di residui (tributari) passivi, attesa l’espressa identificazione negli ex-soci e negli ex-liquidatori (e ex-amministratori) della società estinta i “responsabili” di tali debiti ai sensi dell’art. 2495, comma 2 cod. civ. e art. 36 cit. (134) Contro una estensione dell’art. 28, comma 4 cit. alle istanze di rimborso del contribuente, nonché ai provvedimenti (amministrativi e giurisdizionali) che su tali istanze decidono militano due argomenti: (i) la lettera della disposizione, che non annovera tali atti tra quelli la cui validità è “stabilizzata”, seppur ai soli fini tributari; nonché, ed anche sminuendo tale argomento, attesa l’evidente sciatteria nel confezionamento sintattico e grammaticale della disposizione in questione, (ii) la mancanza di un qualsiasi sostanziale interesse a presentare istanza di rimborso da parte dei (redivivi) liquidatori, non essendo il credito di loro pertinenza, né potendosi ritenere questi “compulsati” da una loro responsabilità verso i soci (artt. 2395, 2489 cod. civ.), sia per la mancanza di un danno diretto al patrimonio dei soci che ne è essenziale presupposto (cfr. G.F. Campobasso, Diritto commerciale 2. Diritto delle società, 8^ ed., a cura di M. Campobasso, Milanofiori Assago, 2014, 400 ss., spec. 401), sia perché un credito di imposta da indebito ben potrebbe emergere successivamente all’estinzione e non dipendere da un “errore” nella dichiarazione, liquidazione e versamento del tributo (per es. per effetto di una pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma impositiva; per ius superveniens con effetto retroattivo, ecc…). (135) Cfr. retro, par. 3.
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– seguendo la Cassazione e quando immediatamente sopra osservato – nella successione in capo ai soci (136), che avranno quindi titolo per pretendere dal Fisco la loro parte di rimborso. Nel secondo caso, si pone il problema dell’impugnazione del provvedimento, diretto alla società estinta, ma della quale (impugnazione) hanno ovviamente interesse solo i soci. Se tuttavia consideriamo il provvedimento di rigetto come giuridicamente “inesistente” – provvedimento, si noti, non incluso negli atti indicati dall’art. 28, comma 4 cit. (137) – esso potrebbe qualificarsi come una sorta di “non risposta” dell’amministrazione, consentendo dunque il realizzarsi di una forma di “silenzio-rifiuto” (art. 19, comma 1 lett. g) D.lgs. n. 546/1992), con possibilità dei singoli soci di attivarsi giudizialmente per ottenere il riconoscimento integrale del credito della società (prima) e, di riflesso, della propria quota nel consueto termine decennale di prescrizione (art. 21, comma 2 D.lgs. n. 546/1992) ed in litisconsorzio necessario. 16. La sorte dei processi pendenti. – L’art. 2495, comma 2 cod. civ. nulla dispone in relazione alla sorte dei processi pendenti che vedono la società quale parte processuale. L’estinzione della società, quale soggetto giuridico, implicherebbe infatti altresì l’estinzione dei processi in corso, venendo meno la sua capacità processuale (138). Una simile evenienza è parsa però a molti inaccettabile, laddove oggetto del contendere fosse un debito della società, perché ciò avrebbe consentito al debitore di impedire egli – unilateralmente – al processo di giungere ad una decisione di merito o, peggio, di rendere la decisione impugnata (se a lui favorevole) immediatamente incontrovertibile (139). Da qui l’opportunità di vagliare altre soluzioni, quali: (i) la prosecuzione del processo da parte/nei confronti della società, pur estinta (secondo un meccanismo analogo a quello previsto dall’art. 10 l. fall.)
(136) Cfr. retro, par. 6. (137) Il quale assume ad oggetto della finzione giuridica ivi prevista solo gli “atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi” e non anche – sembrerebbe, lettera alla mano – i provvedimenti che dispongono sulle istanze di rimborso presentate dal contribuente. (138) In tal senso, su tutti, si veda C. Glendi, L’estinzione postliquidativa delle società cancellate dal registro delle imprese. Un problema senza fine?, in Corr. giur., 2013, 10; Id., Cancellazione-estinzione della società e cessazione della materia del contendere nei giudizi in corso, in GT-Riv. giur. Trib., 2011, 751. (139) D. Longo, op. cit., 922.
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o (ii) la prosecuzione del processo da parte/nei confronti dei soci, in quanto “successori” della società (140). Va da subito dato atto, da un lato, di come le Sezioni Unite della Cassazione (141) e la successiva giurisprudenza di legittimità (142) – coerentemente alla ricostruzione, sul piano sostanziale, del rapporto “societàex soci” in chiave successoria (143) – abbiano in generale optato per la seconda soluzione, ravvisando nell’estinzione un evento idoneo a dar luogo ad una successione a titolo universale nel processo, con conseguente (eventuale) interruzione a norma degli artt. 110, 299 ss. cod. proc. civ.; dall’altro, di come il legislatore tributario, attraverso l’art. 28, comma 4 cit., abbia invece sposato la prima soluzione. Entrambe queste vie manifestano tuttavia, in un modo o nell’altro ed in termini più o meno evidenti, significativi profili di irragionevolezza. Quanto alla prima (stabilizzazione) si è già detto del suo insanabile conflitto con l’estinzione (civilistica) del soggetto giuridico-società, dei suoi organi e del suo patrimonio (144), peraltro conflitto destinato ad acuirsi se contemplato in relazione agli strumenti di composizione amministrativa e giurisdizionale della lite (conciliazione giudiziale, reclamo e mediazione): come far convivere la validità di tali accordi con l’assenza del potere di rappresentanza della società? Ma non solo. Le sentenze del giudice tributario formalmente emesse contro la società “stabilizzata” non sarebbero suscettibili di esecuzione (anche provvisoria) a norma dell’art. 67 D.lgs. n. 546/1992: in forza di esse, infatti, quale patrimonio si potrebbe aggredire? Non quello della società, perché non più esistente, né quello dei soci, a tal fine richiedendosi una ulteriore e successiva azione di accertamento a norma dell’art. 36 cit. (145). Al riguardo, va poi messo in luce un ulteriore aspetto della vicenda. Anche nel contesto della soluzione “successoria” può emergere infatti una qualche forma di “stabilizzazione” della società estinta. Come noto, l’evento interruttivo, per operare, deve essere dichiarato dal difensore della società, a
(140) Per riferimenti, D. Dalfino, “Venir meno”, cit., 1235 ss. (141) Cass., SS.UU., n. 6070/2013 cit. (142) Cfr., tra le tante, Cass., sez. V civ., 2 aprile 2015, n. 6743; Cass., sez. V civ., 28 gennaio 2015, n. 1568; Cass., sez. V civ., 10 febbraio 2014 (ud.), n. 25971; Cass., sez. V civ., 12 marzo 2014, n. 5678; Cass., sez. V civ., 13 novembre 2013, n. 25507. (143) Cfr. retro, par. 6. (144) Cfr. retro, par. 9. (145) Cfr. retro, par. 4.
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nulla rilevando la sua conoscenza da parte del giudice e/o la dichiarazione per bocca della contro-parte. La “stabilizzazione del processo” nei confronti della parte “venuta meno”, dipendendo dalla “stabilizzazione del parte processuale” ed essendo quest’ultima legata ad una scelta discrezionale e “strategica” del difensore, è quindi possibile solo nei limiti dei poteri conferitigli con il mandato ad litem (146), salvo poi capire (decidere?) fino a “dove” tali poteri possono spingersi (147). In questa prospettiva, l’art. 28, comma 4 cit. potrebbe apprezzarsi come una sorta di implicito divieto (imposto al difensore?) di dichiarare l’interruzione, in deroga agli artt. 110 e 299 ss. cod. proc. civ. In fondo, solo il difensore, quale unico professionista abilitato ad interloquire tecnicamente con il giudice tributario, può dichiarare la cancellazione e l’estinzione della società da questi rappresentata e difesa in giudizio. Sancire la “persistenza” processuale di quest’ultima altro non significa che impedire al difensore di compiere validamente una siffatta dichiarazione. Ma questa eventualità, comunque si
(146) Sul punto, si rinvia a C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile, II, Torino, 2014, 379 ss., spec. nota 124; M.F. Ghirga, Interruzione del processo, Bologna, 2014, sub art. 300. (147) All’interno del problema relativo alla interruzione ed alla successione dei soci nel processo si inserisce cioè l’altro problema relativo agli spazi di “ultrattività” del mandato del difensore, rispetto al quale deve registrarsi un duplice orientamento della Cassazione. In alcune occasioni, i giudici di legittimità hanno infatti ammesso, in assenza di dichiarazione dell’evento interruttivo, l’ultrattività del mandato, la stabilizzazione della parte e la prosecuzione del processo da parte sua o nei suoi confronti, ma solo nei limiti del grado in cui l’evento si verifica; con la conseguenza che l’impugnazione della sentenza che quel grado definisce deve essere comunque compiuta, a pena di inammissibilità, da o nei confronti dei successori, ossia da o verso coloro che costituirebbero, secondo nota formula, la “giusta parte” processuale (in tal senso, proprio con riferimento al casi di cancellazione di società dal registro delle imprese, Cass., SS.UU., nn. 6070, 6071, 6072/2013 cit,; Cass., sez. V civ., 20 settembre 2013, n. 21517; Cass., sez. V civ., 5 novembre 2014, n. 2574). In altri frangenti, i medesimi giudici si sono spinti fino ad estendere il mandato anche ai successivi gradi di giudizio (sempre che la dichiarazione dell’evento interruttivo non avvenga successivamente), purché al difensore la procura ab origine conferisse mandato anche per le fasi di impugnazione, e fatto salvo il giudizio di Cassazione, limite insuperabile all’ultrattività del mandato, occorrendo per esso procura speciale, da conferirsi necessariamente successiva alla pubblicazione della sentenza di secondo grado (cfr. Cass., SS.UU., 4 luglio 2014, n. 15295; Cass., SS.UU., 29 settembre 2014, n. 20447; Cass., sez. V civ., 17 settembre 2014, n. 19533; Cass., sez. V civ., 17 dicembre 2014, n. 26495; Cass., sez. III civ., 24 marzo 2015, n. 5855). Sul tema, si veda, anche per riferimenti, M.F. Ghirga, L’ultrattività del mandato nel caso di evento interruttivo verificatosi fra un grado e l’altro di giudizio: “una storia infinita”, in Riv. dir. proc., 2014, 1520 ss., a commento di Cass., SS.UU., n. 15295/2014 cit., ove si rileva – criticamente – il “doppio regime” emergente dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, a seconda che la parte “venuta meno” sia una società estinta (ultrattività limitata al grado di giudizio) o una persona fisica defunta (ultrattività ai gradi successivi).
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voglia apprezzare la “misura” di ultrattività del mandato (148), comunque finirebbe per scontrarsi con la necessità – in ogni caso – di una procura speciale per il giudizio di Cassazione (149), rivelandosi quindi soluzione “monca” dal punto di vista processuale. Quanto alla seconda (successione universale), al di là delle diverse critiche in radice ad essa (150), ed al di la dei problemi pratici connessi alla parcellizzazione della riassunzione che essa implicherebbe (151), vi è una (sottaciuta) ragione che ne impedirebbe l’accoglimento anche sul fronte processual-tributario. Se, come osservato in precedenza, la responsabilità dei soci (successori universali nel processo) è limitata ai beni e somme assegnate in sede di liquidazione; e se questa assegnazione deve essere provata in giudizio dall’amministrazione, allora il sub-ingresso in quest’ultimo dei soci determinerebbe non solo una (ovvia) modifica dei soggetti del processo, ma anche del suo oggetto (causa petendi): vi sarebbe cioè – in corso di processo – un ampliamento dei fatti costitutivi della pretesa erariale di cui il giudice dovrebbe conoscere (152), con
(148) Cfr. retro, nota precedente. (149) Ibidem. (150) Critiche essenzialmente legate alla impossibilità di assimilare l’estinzione della società alla morte della persona fisica, implicito presupposto della ricostruzione in chiave successoria della vicenda, mancando nella prima l’involontarietà dell’evento, in funzione della quale sono invece “tarate” le regole di cui agli artt. 110, 299 ss. cod. proc. civ. di cui si pretende applicazione al caso in esame: sul punto, ex multis, e per ampi riferimenti, cfr. M.F. Ghirga, La Corte Costituzionale e le conseguenze processuali della cancellazione della società dal registro delle imprese, in Corr. giur., 2013, 1182-1183, 1186 ss. (151) Forse in parte semplificati dall’art. 43 D.lgs. n. 546/1992, che – nelle ipotesi di interruzione del processo (a norma dell’art. 40 del medesimo decreto) – sembra ridimensionare l’onere di comunicare la riassunzione del giudizio alle altre parti; onere gravante sulla segreteria della Commissione tributaria, dovendo la parte interessata presentare solo istanza di trattazione al Presidente di sezione della Commissione. (152) Come peraltro notato dalla stessa Cass., sez. V, 1 ottobre 2015, n. 19611, la quale tuttavia immediatamente ne sminuisce la “carica” problematica, ammettendo la possibilità di una prosecuzione del giudizio in virtù del principio di ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2 Cost.). A tal fine, la S.C. in quest’occasione menziona alcuni suoi precedenti in tal senso orientati (ossia Cass., sez. V, 6 febbraio 2015, n. 2241; Cass., sez. V, 14 gennaio 2015, n. 437), che però riguardavano situazioni profondamente diverse (in specie, il caso di omessa pronuncia su alcune eccezioni che, se manifestamente infondate o inammissibili e non implicanti ulteriori accertamenti di fatto, impedirebbero una cassazione della sentenza con rinvio, consentendo una pronuncia della Cassazione nel merito della controversia: il tutto in forza di una lettura costituzionalmente orientata al rispetto dell’art. 111, comma 2 Cost. dell’art. 348 cod. proc. civ.) e del tutto non pertinenti ai casi qui studiati.
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più o meno significativa (a seconda del grado e dello stato del processo) lesione del principio del doppio grado di giurisdizione (153). Unica soluzione ragionevole sembrerebbe quindi quella dell’estinzione del processo, soluzione che tuttavia sembra opportuno precisare nei contorni. Se la riteniamo idonea a determinare il passaggio in giudicato della sentenza impugnata e, nel processo tributario di primo grado, la definitività dell’atto impositivo (154), può dar luogo a risultati irragionevoli ed inaccettabili: in specie, nei processi successivi al primo grado, scaturenti dall’impugnazione da parte del Fisco di sentenze ad esso sfavorevoli, dell’estinzione del processo potrebbe “abusare” il contribuente-resistente, così ottenendo “unilateralmente” un giudicato ad egli favorevole. Meglio allora ritenere che l’effetto estintivo provochi sempre e comunque (e soltanto) il consolidamento dell’atto ab origine impugnato dal contribuente, non anche il passaggio in giudicato delle sentenze medio tempore pronunciate. Una soluzione – questa – certamente discutibile sotto diversi aspetti: al di là della mancanza di un chiaro appiglio normativo, essa infatti presuppone sia una visione unitaria dell’intero processo (del quale i diversi gradi di giudizio costituirebbero solo “frammenti” non indipendenti), che una lettura dello stesso in chiave latamente “costituivista” (il processo come incidente sull’atto e non sul rapporto, lettura invero disattesa dalla giurisprudenza di legittimità); senza contare – da ultimo – la difficoltà di inquadrare la cancellazione dal registro delle imprese tra i casi di “rinuncia al ricorso”, richiedendo questa l’“accettazione” della controparte (art. 44 D.lgs. n. 546/1992), nonché di “cessazione della materia del contendere” (art. 46 D.lgs. n. 546/1992), non potendosi certamente predicare una inutilità oggettiva (ossia per entrambe le parti) del processo. Essa tuttavia presenterebbe anche diversi vantaggi (teorici e pratici) di non poco conto: (i) in primo luogo, sarebbe coerente con la natura volontaria della cancellazione dal registro delle imprese; (ii) in secondo luogo, si “incastrerebbe” bene con la disciplina “speciale” di cui all’art. 36 cit., l’estinzione del processo comportando la definitività della pretesa, immediatamente spendibile contro soci e liquidatori ai sensi di tale norma; conseguentemente (iii) contribuirebbe
(153) Principio generale, seppur non di rilievo costituzionale (cfr. Corte cost., n. 301/1986). (154) In tal senso, C. Glendi, Corte costituzionale, cit., 1282; nonché, in generale, P. Russo, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, cit., 257.
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a responsabilizzare ulteriormente i liquidatori, i quali – consapevoli di esporsi, con la cancellazione, all’azione di cui all’art. 36 cit. in forza dell’atto impugnato – probabilmente avrebbero maggior cura dei processi tributari in corso con parte la società. Con ciò, riducendo – forse – il rischio di (impropriamente detti) “abusi” della cancellazione, che da sempre tanto preoccupano dottrina e giurisprudenza, tributaria e non solo.
Francesco Pepe
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Punti fermi e profili di irrazionalità nel regime fiscale della famiglia* La Costituzione italiana richiede come necessaria la valorizzazione e la promozione della famiglia di cui all’articolo 29 nel quadro di “contabilità sociale” in cui si traduce il principio di capacità contributiva. Si tratta di un punto fermo che l’attuale sistema tributario italiano è molto lontano dal realizzare in modo costituzionalmente adeguato: accanto ad alcuni istituti debolmente favorevoli alla famiglia, infatti, esso manifesta un approccio diffidente verso la famiglia e prevede molteplici istituti che, anziché favorire la famiglia e la sua formazione come richiesto dall’art. 31 Cost., favoriscono vicende legate allo scioglimento di essa. Guardato nella prospettiva della famiglia, quindi, l’attuale sistema tributario italiano presenta profili di irrazionalità e squilibri particolarmente gravi e meritevoli di rimozione. The Italian Constitution identifies as a necessary matter the development and the promotion of the family, such as it is defined in article 29: this also involves the principle of contributory capacity, intended as “social accounting”. This is a firm point which the current Italian taxation system is very far from realizing in a constitutionally adequate manner: in fact, next to some institutions who are faintly favorable to family, it shows a wary approach towards the family and it calls for multiple institutions who favor occurrences linked to the dissolution of it instead of favoring it and its development as requested by article 31. Therefore, if seen from the perspective of the family, the current Italian taxation system presents profiles of irrationality and particularly serious imbalances which are worth removing.
Sommario: 1. Lo speciale rilievo della famiglia nel riparto dei carichi pubblici nazionali.
– 2. La famiglia come centro di riparto nel prisma dei presupposti dei singoli tributi. – 3. La famiglia nell’imposta sul reddito. – 3.1. La necessità costituzionale dello splitting familiare nell’IRPEF. – 3.2. Principio di uguaglianza e necessità di diversificazione del regime fiscale della famiglia rispetto a quello di altre forme aggregative. – 3.3. Possibile valorizzazione dei rapporti non matrimoniali per taluni diversi aspetti. – 4. La famiglia nelle imposte sui consumi e sui trasferimenti. – 5. Famiglia e diverse forme aggregative nei tributi locali, nelle tasse e nelle prestazioni pubbliche (I.S.E.E.). – 6. L’attuale disfavor familiae dell’ordinamento e l’esigenza di razionalizzazione del sistema.
(*) Lavoro sottoposto a revisione esterna.
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1. Lo speciale rilievo della famiglia nel riparto dei carichi pubblici nazionali. – Le esigenze di vita e di piena realizzazione della persona umana danno luogo a una congerie di bisogni e richieste che devono essere soddisfatte e organizzate nel quadro delle collettività di riferimento nelle quali la persona si colloca congiuntamente ad altre persone latrici di esigenze in parte analoghe, in parte concorrenti e in parte contrastanti (1). Ciascuna collettività organizzata ha nel tempo rintracciato e fornito proprie soluzioni per la miglior possibile soddisfazione e il miglior possibile contemperamento di tali esigenze e interessi dei propri componenti. L’individuazione delle predette soluzioni costituisce la base del fenomeno giuridico (2) e le regole del vivere comune che ne derivano possono avere una stabilità e una importanza diversificata: generalmente, la collettività tende a considerare talune di dette soluzioni e regole come particolarmente stabili, importanti e, così, indefettibili alla stregua di un quadro fondamentale del vivere della collettività. Nelle società giuridicamente evolute, l’individuazione delle soluzioni del vivere comune dà corso a regole fissate per iscritto e alle regole fondamentali viene conferita la forma di costituzione scritta. Le soluzioni per la soddisfazione e il contemperamento delle esigenze dei componenti della collettività si caratterizzano sia sotto il profilo del riparto di competenze nella presa in carico dei compiti di soddisfazione delle suddette esigenze, sia sotto il profilo delle modalità di soddisfazione di esse. Sotto il primo profilo, in relazione a ciascuna tipologia di esigenza (o di sfaccettatura di specifica esigenza) possono a seconda dei casi essere considerate maggiormente efficaci soluzioni che ne affidino la cura all’individuo ovvero a forme di aggregazione superindividuale le quali, a loro volta e a seconda
(1) In via generale, può affermarsi che talune delle predette esigenze rispondano a bisogni connaturali alla persona umana, preesistenti rispetto alla stessa collettività e comunque sostanzialmente ricorrenti qualunque sia la forma in cui essa storicamente si organizza: si pensi – solo per fare gli esempi più immediati ed evidenti – all’esigenza di conservazione della vita o a quella di perpetuazione della specie. Altre esigenze, per contro, rispondono a bisogni storicamente circoscritti e transeunti: si pensi – per fare esempi altrettanto evidenti – agli interessi cavallereschi (centrali nel Medioevo e oggi scomparsi) o alla esigenza di tutela della identità informatica (inesistente in passato e sempre più rilevante in tempi recenti). (2) Le pagine più belle al riguardo sono quelle di Paolo Grossi. Nell’ambito della sterminata letteratura dell’insigne Autore, l’aspetto indicato nel testo è esaminato e sviscerato sotto molteplici profili, a cominciare da quelli più basilari contenuti nella Prima lezione di diritto, Roma – Bari, 2015, passim. Con specifico riferimento al panorama costituzionale italiano cfr. P. Grossi, La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico postmoderno, in Riv. trim. dir. pubbl., 2013, 607 ss.
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dei casi, possono essere più o meno complesse. Nelle società giuridicamente evolute, è fisiologico che alcune delle forme di aggregazione superindividuali volte al soddisfacimento di esigenze che, stabilmente, si sono viste più efficacemente soddisfatte a livello collettivo tendano a istituzionalizzarsi fino a trasformarsi in vere e proprie organizzazioni più o meno complesse (3). Sotto il secondo profilo, possono essere individuate modalità progressivamente più articolate con il crescere della complessità delle esigenze stesse e dei mezzi astrattamente disponibili per soddisfarle. In connessione a quest’ultimo aspetto, va tenuto conto che la soddisfazione di molte delle esigenze dei componenti della collettività implica una ripartizione tra i membri di essa di risorse scarse. Conseguentemente, l’individuazione delle soluzioni suddette implica necessariamente la fissazione di regole che disciplinino la ripartizione tra i membri della collettività delle risorse necessarie alla soddisfazione, sul piano collettivo, delle esigenze delle persone. Tale ripartizione deve tener conto della meritevolezza degli interessi e delle esigenze da tutelare, così come fissate in quel fondamentale quadro del vivere collettivo che è la costituzione. Per far ciò, il riparto deve essere equilibrato tenendo conto al contempo sia del fatto – a dire il vero intuitivo – che le persone o le aggregazioni che istituzionalmente curano le proprie esigenze gravando meno rispetto ad altre sulla collettività devono, in linea di principio, concorrere meno di altri alle spese da sostenere per il funzionamento delle predette organizzazioni collettive; sia del fatto che, all’interno di una comunità razionale, le esigenze minime essenziali dei membri che non possono provvedere autonomamente alla propria cura vengono tendenzialmente a integrare un interesse di tutela proprio della collettività stessa (4). Corollario dei due predetti presupposti è che, laddove taluni individui o talune aggregazioni superindividuali si accollino con una stabilità riconosciuta dalla società stessa la gestione a livello autonomo di esigenze che altrimenti dovrebbero essere gestite da
(3) Per un completo studio della dinamica di nascita delle pubbliche amministrazioni intese in senso moderno cfr. l’opera di L. Mannori - B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Roma - Bari, 2004. (4) Ciò in ragione della naturale spinta umana alla solidarietà nei confronti dei bisognosi e dei sofferenti e, in ogni caso e anche in un fredda prospettiva utilitaristica, in ragione della considerazione che qualunque membro, in un certo momento della propria esistenza, potrebbe trovarsi in una condizione di debolezza e di bisogno indipendente dalle proprie scelte, conseguentemente essendo portato razionalmente a cautelarsi da tale eventualità.
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organizzazioni collettive con conseguenti oneri sull’intera comunità, tali soggetti devono, anzitutto, essere considerati rilevanti in sede di riparto delle risorse scarse e degli oneri connessi all’appartenenza alla collettività e, poi, essere sostenuti nella propria opera. Il riparto degli oneri di gestione collettiva delle esigenze personali, in altre parole, assume strutturalmente il carattere di una “contabilità collettiva” che deve tenere conto delle funzioni sociali dei diversi soggetti che compongono la comunità. Calando le predette considerazioni generali sulla situazione italiana, è accertato come essa abbia storicamente e da sempre adottato soluzioni nelle quali il punto di equilibrio, in termini di competenza al soddisfacimento delle esigenze personali, è risultato marcatamente collocato al livello più prossimo possibile alla sfera individuale, confidando molto su corpi sociali intermedi di dimensioni ridotte e tendenzialmente autogestiti e autonormati (5). Tra questi, ha sempre avuto posizione centrale la famiglia naturale fondata sul matrimonio (6), storicamente e istituzionalmente deputata a rispondere alla parte prevalente dei bisogni connaturali e fondamentali della persona umana (7), ma anche a una buona parte dei bisogni storicamente determinati o
(5) Si pensi, ad esempio, alla esperienza dei Comuni caratteristica della realtà italiana, che merita qui di essere menzionata rinviando alle note successive per considerazioni più specificamente riferite alla tematica oggetto di interesse in questa sede. (6) In generale sul punto cfr. E. Giacobbe, Il matrimonio e la famiglia, in Trattato di diritto civile diretto da Rodolfo Sacco, Le persone e la famiglia, vol. III Il matrimonio, t. I a cura di Giacobbe E., L’atto e il rapporto, Torino, 2011, 1 ss. Sotto il profilo storico e sociologico, cfr. per tutti G. Campanini (a cura di), Le stagioni della famiglia. La vita quotidiana nella storia d’Italia dall’unità agli anni Settanta, Milano, 1994; P. Donati - G. Rossi, Le associazioni familiari in Italia. Cultura, organizzazioni e funzioni sociali, Milano, 1996. Sull’importanza che continua ad avere in tal senso cfr., tra i molti, F. D’Agostino (a cura di), Famiglia, diritto e diritto di famiglia, Milano, 1985; G. Angelini, La famiglia italiana, Milano, 2000; P. Donati (a cura di), Famiglia e capitale sociale nella società italiana. Ottavo Rapporto CISF sulla famiglia in Italia, Milano, 2003; P. Donati (a cura di), Ri-conoscere la famiglia. Quale valore aggiunto per la società? Decimo Rapporto CISF sulla famiglia in Italia, Milano, 2007; P. Donati - L. Tronca, Il capitale sociale degli italiani. Le radici familiari, comunitarie e associative del civismo, Milano, 2008; G. Rossi, La famiglia come capitale sociale, in E. Scabini - G. Rossi, La ricchezza delle famiglie, Milano, 2010, 113 ss.; P. Donati (a cura di), Famiglia risorsa della società, Bologna, 2012; P. Donati, Il genoma che fa vivere la società, Soveria Mannelli, 2013. (7) In una prospettiva tributaristica, sono belle le parole che spende al riguardo C. Scalinci, La famiglia ‘community care’ nell’imposizione sul reddito, in Dir. prat. trib., 2004, II, 864 ss., il quale, sottolineato “il ruolo che spetta alla famiglia nel tessuto sociale e che questa comunque assolve ed, allo stesso tempo, l’opera, certosina e di valore, che ciascuno svolge
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socialmente indotti, traducendosi così strutturalmente anche in quel principium urbis et quasi seminarium rei publicae di ciceroniana memoria (8). La tendenza a questa valorizzazione delle iniziative spontanee del corpo sociale per la soddisfazione delle esigenze delle persone, che potrebbe avvicinarsi a quella logica indicata, con linguaggio moderno, come “sussidiarietà orizzontale”, ha assurto a vero e proprio dato identificativo della stessa identità nazionale italiana, distinguendola e caratterizzatola rispetto ad altri possibili approcci contrassegnati dallo spostamento del baricentro della gestione delle esigenze personali nella direzione della organizzazione collettiva (9).
in quella primaria ed essenziale società naturale” (ivi, 869), evidenzia la “insostituibilità della home care e di questa community care: la famiglia riacquista il suo ruolo di soggetto collettivo intermedio, di risorsa primaria di riferimento, ‘luogo naturale della solidarietà’, perché capace, per natura, di proposta e di risposta umana, con una osmosi – credo, innegabile – dalla intimità domestica a ciò che la circonda” (ivi, 879). (8) M.T. Cicerone, De officiis, Lib. I, cap. XVII, 54. (9) Come noto, nel corso della storia sono stati molteplici i momenti in cui la soluzione al problema della soddisfazione delle esigenze personali è stata individuata in una spersonalizzazione e pubblicizzazione dei sistemi volti a soddisfarli. A ben vedere, essi sono emersi fin dai tempi di Platone, il quale nella Repubblica individuava come ottimale soluzione quella dell’affidamento dell’educazione dei giovani (Libro II, 376e ss.). In Europa, la pubblicizzazione del sistema e la diffidenza verso i corpi intermedi ha caratterizzato l’evo cd. “moderno” in tutti i Paesi di area di influenza francese e in quelli di influenza tedesca, venendo a rappresentare una delle più caratteristiche e perniciose tra le “mitologie giuridiche della modernità” (P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2007, 43 ss; Id., Assolutismo giuridico e diritto privato, Milano, 1998; L. Mannori - B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, cit., 154 ss. e 182 ss.; più nello specifico, anche con riferimento alla famigerata legge Le Chapelier del 1791, cfr. per tutti, J. Dumont, I falsi miti della rivoluzione francese, trad. it. Milano, 1991). In Italia, i tentativi di esautorazione dei corpi intermedi, sul modello francese, vi furono certamente (si pensi alle leggi Crispi di pubblicizzazione delle IPAB), ma il radicamento dell’approccio autorganizzativo, unito alla relativa debolezza dello Stato centrale, ha fatto sì che mai la Nazione abbia davvero abbandonato l’abitudine ad esso (cfr., ad esempio, A. Acquarone, L’Italia giolittiana, Bologna, 1981, 59 ss.) e che tale desiderabile realtà abbia avuto un rilievo fondamentale anche dal punto di vista giuridico (si pensi alla teoria degli ordinamenti di Santi Romano la quale, pur figlia del suo tempo e quindi necessariamente permeata da elementi di statalismo, risulta indubbiamente indicativa delle caratteristiche nazionali suddette: cfr. in materia P. Grossi, La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico post-moderno, cit., specie 610-614). Sul punto cfr., in generale, L. Antonini, Sussidiarietà fiscale, Milano, 2005, 70 ss., il quale parla di una Welfare Society in sostituzione di un Welfare State il cui modello, specialmente in Italia, si mostra in una situazione di cronica crisi, fisiologicamente acuita dall’apertura globale dell’ordinamento; S. Stammati, Declinazioni del principio di sussidiarietà nella disciplina costituzionale della famiglia, in Dir. e soc., 2003, 262-266; per gli aspetti relativi alla realtà familiare cfr. C. Scalinci, La famiglia
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Dopo vicende drammatiche che hanno rischiato di travolgere, oltre a numerosi altri cardini del vivere sociale, anche quello tipicamente italiano della autorganizzazione della società civile nel senso anzidetto (10), la collettività ha sentito l’esigenza di recepire i tratti essenziali degli schemi di soddisfazione e contemperamento delle esigenze dei propri membri in regole di una costituzione scritta, rigida e caratterizzata da un controllo accentrato di conformità ad essa delle altre norme, così da tracciare in modo stabile i canoni fondamentali per ordinare il vivere comune della società italiana (11). Conseguentemente, la forma essenziale della Costituzione del 1948 è costituita dalla centralità delle esigenze personalistiche e dalla valorizzazione del metodo autorganizzativo della società per soddisfarle, cui corrisponde il concetto che con linguaggio attuale può definirsi di “sussidiarietà orizzontale” (12). Strumenti necessari
‘community care’ nell’imposizione sul reddito, cit., 878 e 880; P. Donati, Sociologia della famiglia, Bologna, 1978; G. Rossi - P. Donati, Welfare State. Problemi e alternative, Milano, 1982. (10) È noto, infatti, come il totalitarismo del regime fascista abbia tentato di strumentalizzare anche la famiglia: sul punto cfr. F. Vari, Contributo allo studio della famiglia nella Costituzione Italiana, Bari, 2004, 24 ss.; S. Stammati, Declinazioni del principio di sussidiarietà nella disciplina costituzionale della famiglia, cit., 264; F.P. Casavola, La Famiglia dalla identificazione nel pater familias alla società naturale, in Aa.Vv., La famiglia e i suoi diritti nella comunità civile e religiosa, Roma, 1987, 31; A. Rocco, La legislazione, in Civiltà fascista, 1935, 312; più in generale sul tema cfr. G. Capograssi, Il diritto dopo la catastrofe, ora in Opere, V, Milano, 1959, 190 ss. (11) Per usare le parole di M. Cartabia, Principi inviolabili e integrazione europea, Milano, 1995, 5, la Costituzione repubblicana può in questa prospettiva definirsi correttamente come “patto fondamentale sui valori che orientano e unificano l’intero ordinamento e quindi ne determinano la fisionomia”. L’Autrice sottolinea, al riguardo, che è un tratto specifico e caratterizzante delle democrazie contemporanee quello di sentire “l’esigenza dell’inviolabilità di alcuni valori” (ivi, 164), a differenza di quanto avveniva negli ordinamenti precedenti. (12) La circostanza che i Padri Costituenti abbiano inteso valorizzare e promuovere la spontaneità delle iniziative della società civile come metodo di soddisfazione delle esigenze delle persone e, quindi, di perseguimento dei fini per i quali la Repubblica Italiana veniva costituita emerge con chiarezza dall’impalcatura che sorregge l’intera Parte Prima della Costituzione, dalla lettura della trama delle disposizioni della Carta fondamentale e dall’esame dei lavori preparatori. Sotto quest’ultimo profilo, possono vedersi le chiare considerazioni di S. Grassi, Il contributo di Giorgio La Pira ai lavori della Assemblea Costituente, in U. De Siervo (a cura di), Scelte della Costituente e cultura giuridica, Bologna, 1980, 179 ss., specie 192. Per una considerazione di sintesi, da parte dello stesso La Pira, relativa alla misura in cui la Costituzione approvata abbia effettivamente accolto l’impianto organicista prospettato come necessario nei lavori preparatori cfr. G. La Pira, Il valore della Costituzione italiana, in Id., La casa comune: una Costituzione per l’uomo, rist. a cura di U. De Siervo, Firenze, 1979, 277; la centralità di questa impostazione lapiriana nel quadro dell’anello dei cardini fondamentali della
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per realizzare questo progetto sono i principii democratico, pluralistico e solidaristico (13), il diritto al lavoro come forma di autosostentamento e la tutela particolare di quelle forme aggregative superindividuali che hanno caratterizzato nel senso anzidetto l’identità nazionale (14). Tra queste ultime, insieme alle confessioni religiose, alle istituzioni di assistenza, alle scuole, ai sindacati e alle cooperative, vi è anche e per prima la famiglia naturale fondata sul matrimonio (15): a ciascuno di tali corpi sociali, del resto, la
Costituzione è sottolineata anche dalle intense parole di P. Grossi, La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico post-moderno, cit., 614-621. Considerata la sostanziale corrispondenza tra questo fondamentale principio autorganizzativo della società civile e il corrispondente disegno del ruolo dei pubblici poteri come sussidiario e supplente, può quindi ben condividersi la posizione di chi ha affermato che “i costituenti italiani, pur non facendo uso della parola ‘sussidiarietà’, hanno adottato una serie di disposizioni ispirate al principio corrispondente. Il quale, quindi, in relazione ad una pluralità di discipline, si presenta come un principio costituzionale non scritto” e, per le ragioni già dette, assolutamente centrale e fondamentale (così A. D’Atena, Lezioni di diritto costituzionale, Torino, 2012, 119; cfr. altresì V. Baldini, Sussidiarietà e principio personalista, in Id., a cura di, Sussidiarietà e diritti, Napoli, 2007, 71 ss.; F. Pizzolato, Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, Milano, 1999, 54 ss.; E. Tosato, Sul principio di sussidiarietà dell’intervento statale, in Nuova antologia, 1959, 451). (13) L’imprescindibile collegamento fra principio autonomista e principio democratico è evidenziata, tra i molti, da G. Berti, Art. 5, in G. Branca (diretto da), Commentario alla Costituzione, Bologna, 1975, 286, il quale osserva come il principio autonomista costituisca una vera e propria “faccia interna” della sovranità popolare; V. Baldini, Sussidiarietà e principio personalista, cit., 67 ss.; L. Antonini, Sussidiarietà fiscale, cit., 51 ss. Quanto al collegamento con il principio pluralista, si rinvia alle considerazioni svolte nella nota precedente relativamente al chiaro pensiero in tal senso di Giorgio La Pira. (14) Le ricostruzioni più complete sono quelle di V. Onida, voce Costituzione italiana, in Dig. IV, Disc. pubbl., IV, Torino 1989, 329-331, il quale chiarisce in modo esplicito che “i principi fondamentali della Costituzione non sono espressi, né per intero, né soltanto nei primi dodici articoli, pure ad essi intitolati. Essi si ricavano piuttosto dall’intero testo”, fermo restando che non tutti i diritti previsti in Costituzione e riconducibili all’art. 2 Cost. devono per ciò solo qualificarsi come inviolabili e supremi (arg. ex Corte Cost., sent. n. 109 del 1971); A. Baldassarre, voce Diritti inviolabili, in Enc. giur., XI, Roma, 1989, 27; S. Stammati, Declinazioni del principio di sussidiarietà nella disciplina costituzionale della famiglia, cit., 272 ss. (15) Le correlazioni tra valore della famiglia e principio di autonomia e sussidiarietà emergono con chiarezza dagli Autori citati nel presente scritto. Oltre a questi, cfr. specificamente sul punto C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, II, Padova, 1976, 1165; F. Vari, Il soliloquio del giudice a Babele ovvero il tentativo della Cassazione di equiparare il regime costituzionale di famiglia, convivenze more uxorio e unioni omosessuali, in Aa.Vv., Scritti in onore di Antonio D’Atena, t. IV, Milano, 2015, 3135 ss., par. 1; S. Stammati, Declinazioni del principio di sussidiarietà nella disciplina costituzionale della famiglia, cit., 257 ss., specie 258; G. Dalla Torre, Famiglia e Costituzione. Riflessioni su una rivoluzione permessa,
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Costituzione ha dedicato apposite previsioni di riconoscimento e tutela che vengono a costituire, nel proprio nucleo essenziale e insieme ai tre principi predetti (autorganizzazione/sussidiarietà, democraticità, pluralismo), l’ossatura fondamentale integrante i principi supremi dell’ordinamento – non suscettibili di compromissione da parte di ordinamenti esterni ivi compresi quelli sovranazionali (16) – e quella “forma” (17) repubblicana che non può essere soggetta a revisione finché la collettività non abbia mutato identità al punto tale da decidere di dotarsi di un altro e diverso patto fondamentale (18).
in Iustitia, 1999, 221 ss.; G. Berti, La famiglia nella Costituzione, in Iustitia, 1999, 284 ss.; A. D’Atena, Il principio della sussidiarietà nella Costituzione italiana, in Riv. dir. pubbl. com., 1997, 603 ss.; F. Benvenuti, L’ordinamento repubblicano, Padova, 1996, 28 e 84; F. Santoro Passarelli, Criteri per la riforma del diritto di famiglia, in Aa.Vv., Scritti in onore di Gioacchino Scaduto, III, Padova, 1970, 174; Id., Il governo della famiglia, in Iustitia, 1953, ora in Id., Saggi di diritto civile, Napoli, 1961, 401; C. Grassetti, I principi costituzionali relativi al diritto familiare, in P. Calamandrei - A. Levi (diretto da), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, II, Firenze, 1948, 285 ss. (16) Sul punto cfr., in dottrina e per tutti, M. Cartabia, op. cit., 6-11 e 176-221. La Corte Costituzionale ha valorizzato il vincolo dei cd. “controlimiti” fin dalle prime pronunce sull’argomento, dapprima implicitamente (sent. n. 98/1965) e dipoi esplicitamente (sent. n. 183/1973), e lo ha sempre mantenuto fermo anche a seguito delle note evoluzioni giurisprudenziali in ordine ai rapporti tra ordinamento interno ed europeo (sent. n. 170/1984, sent. n. 399/1987, sent. n. 129/2006; ord. n. 454/2006; sent.n. 284/2007), esponendolo con particolare precisione nella sentenza n. 232/1989 e nella sentenza n. 73/2001, la quale qualifica i principi supremi e fondamentali come “limiti necessari a garantir(e) l’identità” dell’ordinamento italiano. (17) Cfr., con chiarezza, Corte Cost., sent. n. 1146/1988. Al riguardo, può affermarsi che il concetto di “forma” repubblicana contenuto nell’art. 139 Cost. debba essere inteso in senso aristotelico di sinolo fra forma e sostanza che ad essa dà contenuto. Sulla corrispondenza tra principî supremi operativi come “controlimiti” nei confronti del diritto europeo e principî fondamentali sottratti alla revisione costituzionale cfr. M. Cartabia, op. cit., 8-9; V. Onida, voce Costituzione italiana, cit., 321 ss. In merito alla identificazione del contenuto dei principî fondamentali sottratti alla revisione costituzione cfr. M. Cartabia, op. cit., 141-167. (18) La correlazione tra principi costituzionali supremi e identità nazionale è stata originariamente ben posta in evidenza da C. Mortati, La costituzione materiale, Milano, 1940, 141 ss., ove si è affermato che una delle funzioni fondamentali di quella che l’Autore qualifica come “costituzione materiale” (ossia del nucleo inviolabile dell’ordinamento costituzionale di uno Stato) è rappresentato dal conferimento di una fisionomia e di una identità propria all’ordinamento, la quale non potrebbe essere cambiata se non istituendo un nuovo ordinamento, ossia operando una “rivoluzione” in senso tecnico (si vedano, al riguardo, le conclusioni che della teoria di Mortati traggono M. Cartabia, op. cit., 155 e 157, ove si afferma che “i valori immodificabili variano ... da Stato a Stato, da ordinamento a ordinamento, proprio perché costituiscono elementi della identità di ciascuno di essi”, e A. Pizzorusso, Art. 138, in G. Branca, a cura di, Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma 1981, 703 ss.). Come correttamente osservato dalla dottrina più moderna (cfr., per tutti, M. Cartabia, op. cit., 158-175, 212-213), l’intuizione del pensiero di Mortati che è stata recepita dalla Corte
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Dalle considerazioni svolte emerge come il riparto delle risorse scarse e degli oneri connessi all’appartenenza alla collettività debba necessariamente tener conto delle peculiarità di queste forme aggregative che la Costituzione repubblicana riconosce come ad essa preesistenti e cui conferisce uno specifico valore da tradurre in speciali forme di tutela. Trattandosi di aggregazioni superindividuali che si accollano con una strutturale preordinazione alla stabilità riconosciuta dal patto fondamentale la gestione a livello autonomo di esigenze altrimenti gravanti su organizzazioni collettive con conseguenti oneri sull’intera comunità, i soggetti sopra indicati (associazioni benefiche, scuole, confessioni religiose, sindacati, cooperative, famiglie matrimoniali) devono essere considerati rilevanti in sede di riparto dei carichi pubblici ed essere sostenuti nella propria opera mediante una tutela maggiore e differenziata rispetto ad altre forme aggregative non riconosciute dal patto fondamentale come specificamente meritevoli di una protezione apposita (19). Di ciò deve tenersi conto in sede di interpretazione e applicazione dell’articolo 53 della Costituzione (20). Infatti, l’articolo 53 Cost. delinea quel fondamentale aspetto della soddisfazione delle esigenze delle persone costituito dalla necessità di ripartire, tra i componenti della collettività, le spese e gli oneri necessari a farvi fronte (21). Tale funzione-presupposto
Costituzionale e che è divenuta patrimonio condiviso dell’ordinamento in chiave assiologica sta nella “idea della immodificabilità di un insieme di valori essenziali per l’ordinamento”, che prescinde dall’azione delle forze politiche e sociali dominanti e il cui nucleo fondamentale è rimesso alla diretta custodia della Corte Costituzionale (per il nucleo fondamentale del valore della famiglia promossa dalla Costituzione e per i rapporti strutturali dei principi supremi con la sovranità esterna dello Stato, cfr. le successive note 85-90 al par. 3.2.). (19) Così anche C. Scalinci, La famiglia ‘community care’ nell’imposizione sul reddito, cit., 864 ss. (20) La necessità di interpretare il principio di capacità contributiva alla luce del disegno personalistico della Costituzione Repubblicana è stata magistralmente posta in evidenza da F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, in L. Perrone - C. Berliri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 39 ss. L’Autore sottolinea come il fondamento personalistico delinei l’identità basilare dell’ordinamento italiano e venga a costituire il vero nucleo di quello che J. Habermas, La rivoluzione in corso, Milano, 1990, 147 definirebbe “patriottismo costituzionale”. Quanto ad autonomia e sussidiarietà, senza considerare in questa sede le problematiche del federalismo fiscale, la necessità di valorizzare adeguatamente tali aspetti nel quadro della declinazione del principio della capacità contributiva in Italia è stata posta in evidenza nel modo più chiaro da L. Antonini, Sussidiarietà fiscale, cit., passim. (21) Questa è, infatti, la nozione fatta propria dalla Corte Costituzionale ed esplicitata soprattutto con la sentenza n. 156/2001 in materia di IRAP. Simile concezione, del resto, è
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fondamentale può essere qualificata come il profilo “estrinseco” del principio di capacità contributiva recepito dal comma 1 dell’articolo citato: tale profilo estrinseco rappresenta il contenitore cui le diverse posizioni degli interpreti hanno conferito volta volta un contenuto che dà corpo a quello che può definirsi come il profilo “intrinseco” del principio stesso (22) e che si incentra prevalentemente (23) sul carattere economicamente apprezzabile, effettivo e attuale dei presupposti di quegli istituti giuridici i quali obbligano i membri della collettività a concorrere alle pubbliche spese anche a prescindere da rapporti tecnicamente sinallagmatici con i soggetti che gestiscono una specifica esigenza della persona (24). Per le ragioni già viste, pertanto, lo schema fondamentale di riparto degli oneri della collettività dà vita a un sistema di vera e propria “contabilità sociale” che non può limitarsi alla contabilità della pubblica amministrazione (ossia a tener conto delle spese necessarie a far fronte agli oneri di
stata preparata da sentenze precedenti (54/1980, 42/1992, 315/1994, 410/1995) ed è stata confermata nelle letture successive (sent. n. 356/2008, ord. n. 36/2009), da ciò conseguendo che il diritto vivente osta all’interpretazione assolutistica prospettata dalla parte prevalente della dottrina (la quale, peraltro, si dimostra incompleta anche per tutte le ragioni che verranno indicate nel prosieguo). In dottrina, gli autori moderni che maggiormente hanno sostenuto la presente lettura, oltre a quelli che verranno indicati nel successivo par. 5, sono A. Fedele, Corrispettivi di pubblici servizi, prestazioni imposte, tributi, in Riv. dir. fin., 1971, II, 27 ss.; Id., Dovere tributario e garanzie dell’iniziativa economica e della proprietà nella Costituzione italiana, in Riv. dir. trib., 1999, I, 971 ss.; Id., La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, in L. Perrone - C. Berliri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., 14 ss.; e F. Gallo, Irap e principio di capacità contributiva, in Giur. comm., 2002, I, 131 ss.; Id., I principi di diritto tributario: problemi attuali, in Rass. trib., 2008, 919 ss.; Id., L’uguaglianza tributaria, Napoli, 2012, 19 ss.; Id., L’evoluzione del sistema tributario e il principio di capacità contributiva, Rass. trib., 2013, I, 499 ss.; L. Paladin, Il principio di eguaglianza tributaria nella giurisprudenza costituzionale italiana, in Riv. dir. trib., 1997, I, 305 ss. Cfr. altresì la successiva nota 30. (22) Non sembra necessario, quindi, parlare di concezioni “agli antipodi in tutto” e di “una sorta di contrapposizione di lettura, divergente di centottanta gradi” (G. Falsitta, Il principio della capacità contributiva, Milano, 2014, 4). (23) Ma non esclusivamente: il riparto, infatti, non si attua oggi (e in realtà non si è mai attuato) esclusivamente tramite le imposte, ma anche tramite altre tipologie di entrate per le quali non si vede le ragione di escludere pregiudizialmente l’operatività del principio di capacità contributiva, inteso con contenuti differenziati a seconda della tipologia di entrata di cui si discute. Cfr., al riguardo, il successivo par. 5. (24) Come noto, i criteri che la Corte Costituzionale ha individuato come strutturali del tributo “consistono nella doverosità della prestazione, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti, e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione a un presupposto economicamente rilevante” (sent. n. 141 del 2009).
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funzionamento delle organizzazioni istituzionalizzate per la gestione degli interessi superindividuali), ma deve necessariamente guardare e valorizzare il ruolo di quei corpi che il patto fondamentale ha riconosciuto come stabilmente funzionali alla gestione a livello autonomo di esigenze fondamentali della persona, tra i quali – ex art. 29 Cost. – la “famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (25). 2. La famiglia come centro di riparto nel prisma dei presupposti dei singoli tributi. – La funzione-presupposto fondamentale di criterio di riparto di spese e oneri necessari a far fronte alla soddisfazione delle esigenze delle persone, che delinea il profilo estrinseco della capacità contributiva, fa sì che esso detti anzitutto criteri di individuazione e delineazione dei centri rilevanti nel riparto dei carichi pubblici. Il profilo soggettivo della capacità contributiva, quindi e prima ancora che essere conformato alla luce dei contenuti del versante intrinseco, si correla strettamente con il versante estrinseco di essa. I centri di riparto dei carichi pubblici, infatti, devono essere anzitutto individuati in relazione all’identificazione di nuclei socio-economico-giuridici latori di esigenze che la collettività è chiamata a soddisfare e di nuclei socioeconomico-giuridici stabilmente deputati alla gestione di tali esigenze. L’individuazione di tali nuclei si traduce generalmente nella costituzione di situazioni giuridiche soggettive e in rapporti di credito-debito ma talora può tradursi anche in una valorizzazione attinente al piano economico fattuale (26). Tali situazioni giuridiche soggettive e posizioni economiche possono rivestire sia carattere attivo (quando il nucleo è individuato come meritevole di assegnazione di risorse scarse, in relazione alla sua funzione di soddisfazione delle esigenze della collettività), sia carattere passivo (quando il nucleo è individuato come atto al concorso agli oneri collettivi, in relazione
(25) Nello stesso senso C. Scalinci, La famiglia ‘community care’ nell’imposizione sul reddito, cit., 877-878 (“una famiglia per la collettività, ... giustifica, se non esige, una collettività per la famiglia”); A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, I, Torino 2012, 5; Id., La famiglia nell’ordinamento tributario, II, Torino, 2015, 452; S. Stammati, Declinazioni del principio di sussidiarietà nella disciplina costituzionale della famiglia, cit., 300. (26) A. Fedele, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, cit., 2166: “i criteri di individuazione dei soggetti passivi nella imposta personale sul reddito diverso da quello fondato sulla ‘titolarità giuridica’ del reddito medesimo possono porsi, in ordine alla ratio delle norme relative, sul medesimo piano di quest’ultimo”.
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alle esigenze che esso riversa sulla collettività): ciascun centro di riparto può essere titolare al contempo di situazioni attive e di situazioni passive (27). A sua volta, poi e come detto, il profilo soggettivo della capacità contributiva si correla anche e inevitabilmente con il versante intrinseco di essa, caratterizzato dalla individuazione delle situazioni fattuali in relazione alle quali concretizzare l’idoneità di certi centri di riparto a divenire assegnatari di risorse scarse e quella di certi centri a divenire contributori di tali assegnazioni. Il giusto bilanciamento di posizioni attive e passive e la giusta individuazione dei presupposti del riparto rappresenta, in una società complessa, il sostrato fondamentale costituzionalmente necessario per raggiungere l’obiettivo del miglior possibile soddisfacimento delle esigenze personali dei membri della collettività. La delicatezza di questi aspetti e di questo bilanciamento assume particolare rilievo quando si considerano quelle situazioni presupposto di riparto (tributi) che vedono i membri della collettività obbligati a concorrere agli oneri pubblici a prescindere da rapporti tecnicamente sinallagmatici con i soggetti che gestiscono una specifica esigenza del membro chiamato a concorrere. Da ciò derivano molteplici conseguenze, sotto vari profili. Sotto il profilo dogmatico, la peculiare importanza quantitativa del sistema tributario nel quadro del complessivo riparto degli oneri collettivi ha condotto non solo alla progressiva autonomizzazione di una specifica branca scientifica del diritto (28), ma anche all’instaurazione di una sorta di corrispondenza biunivoca – fin quasi alla immedesimazione – del principio di capacità contributiva di cui al primo comma dell’art. 53 Cost. con il sistema tributario, mentre a ben vedere, se è vero che non può esservi un giusto sistema tributario senza valorizzazione della capacità contributiva, è anche vero – e oggi appare particolarmente chiaro (29) – che vi sono aspetti del principio di capacità contributiva i quali esulano dal sistema tributario in senso proprio e a maggior ragione del sistema impositivo in senso stretto, alla stregua di cerchi concentrici e non di cerchi sovrapposti (30). Sotto il profilo regolamentare, la peculiare sensibilità
(27) Ciò si lega anche alla concezione ampia del concetto di “pubbliche spese” su cui cfr. A. Fedele, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, cit., 6; Id., Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino 2005, 17-18. (28) L’evoluzione è dettagliatamente esposta da G. Falsitta, op. ult. cit., 297 ss. e 356 ss. (29) Si pensi al sistema I.S.E.E., di cui si dirà nel successivo par. 5. (30) Si rinvia, al riguardo, al paragrafo 5 ma, fin d’ora, si osserva come i motivi che
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degli aspetti del riparto e del bilanciamento di situazioni attive e passive in materia di tributi ha fatto sì che il patto fondamentale, per un verso, abbia ritenuto opportuna la sottrazione di tali aspetti alla diretta contrattazione degli interessati (31) ma, per altro verso e al contempo, abbia imposto – sulla scorta di una convenzione più che secolare (32) – che tali aspetti siano decisi da organi rappresentativi della collettività, nelle forme previste dall’ordinamento quali fonti idonee a esprimere un sufficiente grado di rappresentatività (nella specie, leggi e atti aventi forza di legge). Concentrando, quindi, l’esame sui fenomeni di riparto degli oneri collettivi di carattere tributario e volendosi precisare il contenuto delle situazioni soggettive attive e passive, può dirsi che le situazioni soggettive attive, collegate a una valutazione di meritevolezza di assegnazione di risorse scarse, possono essere intese in relazione ai tributi essenzialmente come idoneità di un soggetto a divenire giuridicamente creditore di un tributo, ovvero a gestire (33) un credito tributario di cui è titolare un altro soggetto,
la dottrina generalmente indica a preteso suffragio della immedesimazione del principio di capacità contributiva con il sistema impositivo in senso stretto (si assume come punto di riferimento, a questo riguardo, l’opera di G. Falsitta, Il principio di capacità contributiva, cit., 9 ss.), consistenti essenzialmente nella necessità di dare a tale a tale principio un contenuto autonomo e diverso da quello dell’articolo 3 della Costituzione e nella necessità di valorizzare il testo della disposizione del comma 1 dell’art. 53 Cost., a ben guardare non giustifichino la conclusione tratta e non precludano la lettura in questa sede proposta e conforme alla posizione della Corte Costituzionale. Anzitutto, le peculiarità contenutistiche dell’articolo 53 rispetto all’articolo 3 dovrebbero risultare chiare dalla esposizione che si sta svolgendo in questa sede (cfr. specialmente parr. 1, 2 e 5), dovendosi tener conto che il profilo estrinseco del principio di capacità contributiva non esaurisce la portata della norma, la quale lo congiunge con un profilo contenutistico intrinseco che ne costituisce il proprium caratteristico a seconda dei profili del concorso che volta volta si prendono in considerazione e che, per i profili strettamente impositivi, ben possono coincidere con i contenuti individuati dalla dottrina tributaristica. In secondo luogo, a differenza di quanto sovente sostenuto, nel testo della disposizione non vi è alcunché che riferisca il primo comma dell’art. 53 unicamente al sistema tributario, né tanto meno alle sole imposte in senso stretto (l’aspetto è evidenziato anche da F. Gallo, L’evoluzione del sistema tributario e il principio di capacità contributiva, cit., 499 ss., par. 3). Per di più, il fatto che il comma secondo prenda invece in considerazione espressamente il comparto tributario dimostra piuttosto che quest’ultimo è inteso dalla Costituzione come uno dei profili di cui si compone il quadro del concorso alle pubbliche spese di cui il principio di capacità contributiva rappresenta il criterio ordinatore. (31) In questa prospettiva si spiega razionalmente il divieto di referendum sulle leggi tributarie, su cui cfr. specialmente G. Fransoni, Nozione di legge tributaria e ratio del divieto di referendum abrogativo in materia tributaria, in Riv. giur. trib., 1997, 906 ss. (32) Le cui radici affondano, come noto, nel Medio Evo, con la Magna Charta britannica. (33) Esercitare poteri di controllo, accertare, riscuotere.
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ovvero ancora a divenire destinatario economico del gettito di un tributo. Specularmente, le situazioni soggettive passive, collegate a una valutazione di idoneità al concorso al sostenimento degli oneri collettivi, possono essere intese in relazione ai tributi essenzialmente come idoneità di un soggetto a divenire giuridicamente debitore di un tributo, ovvero a gestire un debito tributario di cui è titolare un altro soggetto, ovvero ancora a divenire destinatario del peso economico di un tributo (34). Così declinato per il comparto tributario, il profilo soggettivo del principio di capacità contributiva si correla con il profilo intrinseco del principio stesso richiedendo, in primo luogo, l’individuazione delle tipologie di situazioni fattuali concrete in cui far sorgere per un soggetto l’obbligo di trasferire risorse scarse a un altro soggetto a prescindere da un rapporto tecnicamente sinallagmatico (presupposto o ratio del tributo) (35), e, in secondo luogo, la determinazione dei criteri per fissare l’entità di detto trasferimento di risorse (base imponibile e aliquota). Come facilmente intuibile, in una società complessa sono molteplici le situazioni fattuali suscettibli di costituire presupposto per rapporti di trasferimento di questo tipo, talché i profili estrinseco e intrinseco della capacità contributiva devono necessariamente contrappuntarsi per individuare quali siano le tipologie di centri di imputazione soggettiva più idonee ad assumere la titolarità di posizioni attive o passive in relazione alla specifica tipologia di presupposto fattuale cui la vicenda di trasferimento viene collegata. A questo riguardo, le considerazioni esposte nel precedente paragrafo 1 richiedono che, nel coacervo di valutazioni connesse alla configurazione del sistema di riparto dei carichi della collettività, debba necessariamente tenersi conto dei tratti specifici caratterizzanti l’identità ordinamentale della collettività di riferimento, in quanto posti alla base del patto fondamentale finalizzato al miglior soddisfacimento delle esigenze dei membri di essa. Sotto
(34) La giusta e necessaria giuridicizzazione del settore tributario non impedisce la rilevanza di aspetti economici e fattuali: si pensi al comparto dei tributi sul consumo e, in particolare, all’IVA (cfr. A. Fedele, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, cit., 2166). Non deve, quindi, suscitare pregiudiziale diffidenza lo scostamento tra situazioni giuridiche e situazioni socio-economiche e la valorizzazione anche di queste ultime nell’ambito di un discorso tributario. (35) A. Fedele, Il presupposto del tributo nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Giur. cost., 1967, II, 969-974, specie 971. Sul fatto che, nella prospettiva estrinseca della capacità contributiva, il presupposto del tributo consista nella ratio dell’individuazione di un dato criterio di riparto cfr. A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., 34 e 145.
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l’aspetto del riparto avente carattere tributario, i predetti tratti specifici devono quindi essere valorizzati in sede di individuazione della tipologia di centro di riparto idoneo ad assumere una posizione attiva o passiva in relazione alla specifica tipologia di situazione fattuale assunta come presupposto di un trasferimento di risorse obbligatorio e non sinallagmatico. Considerato che, tra i predetti tratti specifici del contesto collettivo di riferimento, si è vista essere presente anche la peculiare tutela e valenza della famiglia come centro stabilmente preordinato alla soddisfazione delle esigenze di membri della collettività, un ragionamento adeguato circa il regime fiscale della famiglia nella Repubblica Italiana non può che prendere le mosse da una corretta ricostruzione della base di partenza individuata nel capoverso precedente e concludersi in modo coerente con tale presupposto. Occorre, quindi, verificare se e come, in relazione a ciascuna tipologia di situazione fattuale assunta dall’ordinamento come presupposto di un trasferimento di risorse obbligatorio e non sinallagmatico, debba essere valorizzata la famiglia come centro di riparto e imputazione di posizioni soggettive (giuridiche o anche solo economiche) connesse alla vicenda tributaria. 3. La famiglia nell’imposta sul reddito. – Riguardato nell’ottica del versante estrinseco del riparto, il possesso di un reddito superiore al minimo per la sopravvivenza può di per sé validamente considerarsi una situazione fattuale idonea a fondare una valutazione di idoneità del possessore a concorrere alle spese della collettività a prescindere da specifiche vicende che lo riguardano specificamente e alle quali correlare la contribuzione. Il reddito, infatti, “esprime potere di disporre di beni e servizi sia, in forma immediata, con l’acquisto e il consumo, sia in forma mediata, tramite il risparmio e la destinazione a nuovi investimenti” (36): e, tenuto conto che la combinata valutazione della mole del fabbisogno di servizi della società italiana nell’era del welfare State e della scarsità di risorse naturali a disposizione impone di individuare situazioni di riparto che prescindano non solo da rapporti tecnicamente sinallagmatici (ossia aventi carattere tributario in senso lato), ma anche più in generale da vicende specificamente riferite al contributore (ossia
(36) A. Fedele, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, in Giur. cost., 1976, I, 2178. Generalmente questo profilo viene dato per assodato dalla dottrina, che non avendo quasi mai messo in discussione la legittimità del tributo sul reddito, neppure si è soffermata a valutare le ragioni per la quali l’assunzione dello stesso come presupposto di un’imposta possa considerarsi ragionevole.
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aventi carattere impositivo in senso stretto) (37), è indubbio che la posizione in cui si trovi il centro individuato come possessore di un reddito superiore al minimo vitale denoti un’attitudine a concorrere anche a quegli oneri che non siano direttamente attinenti alla soddisfazione delle esigenze proprie del centro stesso e, quindi, un’attitudine a rivestire una situazione “passiva” nell’ambito di uno schema di riparto avente carattere non solo tributario, ma strettamente impositivo (38). Al contempo, la poliedricità e vastità dei poteri dispositivi denotati dal possesso di un reddito (e che contraddistinguono questo presupposto impositivo rispetto ad altri, di cui si dirà nei paragrafi che seguono) rende evidente come il presupposto del tributo si presti a comprendere e capirne anche i mezzi che il possessore potrebbe scegliere di utilizzare al fine di gestire autonomamente proprie esigenze per la cui soddisfazione, altrimenti, egli avrebbe titolo a rivolgersi alla collettività. La prospettiva di “contabilità sociale” di cui si è detto nei precedenti paragrafi rende necessaria, nel quadro della concreta configurazione del tributo sul reddito, la valorizzazione di tale aspetto quando esso corrisponda a mezzi utilizzati dal soggetto per la soddisfazione di esigenze che la società ritiene meritevoli di apprezzamento e che altrimenti sarebbe in qualche modo chiamata essa stessa a soddisfare: in tale prospettiva, infatti, il possessore di reddito si manifesta atto ad assumere anche una posizione in certa misura “attiva” (in termini di meritevolezza di assegnazione di risorse scarse) intrinseca alla stessa dinamica della vicenda di riparto basata sul possesso di un reddito (39), la quale richiede quindi di valorizzare il ruolo sociale del possessore in termini di “diritto al non intervento fiscale dello Stato per permettere di assolvere – laddove è possibile – innanzitutto autonomamente (ovvero con risorse proprie) i compiti di rilievo sociale” del possessore stesso, in un’ottica di “fiscalità compensativa” (40).
(37) Altre collettività nazionali possono non avere problemi di questo tipo: si pensi agli Emirati Arabi Uniti o al Sultanato del Brunei, dove un combinato di scarsità di esigenze finora sviluppate dalla fetta preponderante della popolazione e di abbondanza di risorse naturali rende possibile un sistema tributario minimo e basato, per i residenti, essenzialmente su tasse. (38) La peculiarità delle imposte rispetto alle tasse è uno dei pochi aspetti di questa parte del diritto tributario che può dirsi condiviso, almeno nei propri tratti essenziali, dalla dottrina: per tutti, cfr. P. Russo, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2007, 16 ss. (39) In una prospettiva simile cfr. anche C. Scalinci, La famiglia ‘community care’ nell’imposizione sul reddito, cit., 876 e 882. Ciò determina quello che la dottrina identifica come il carattere tipicamente “personale” dell’imposta sul reddito stessa. (40) La citazione, molto chiara e specificamente riferita al possessore rappresentato dal
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I primi problemi fondamentali che vengono a porsi in materia di imposta sul reddito nella prospettiva del riparto degli oneri della collettività, pertanto, sono rappresentati (i) dalla necessità di individuazione del centro che possa correttamente essere enucleato come punto di riferimento della situazione fattuale assunta a presupposto del tributo e (ii) dalla necessità di definire istituti giuridici che permettano la valorizzazione e la promozione delle scelte di autogestione effettuate da tali centri di riparto. I due profili appaiono peraltro suscettibili di connessione, poiché talune scelte di autogestione possono sostanziarsi in realtà meritevoli di assurgere a unitario centro di riferimento della situazione fattuale assunta a presupposto dell’imposta. Appare chiaro, secondo quanto già osservato anche nel precedente par. 2., come il rintracciamento del concreto punto di definizione sia rimesso essenzialmente all’opera di mediazione politica svolta dagli organi rappresentativi della collettività (Parlamento): ciò è vero specialmente con riferimento al secondo versante del problema, ove l’opera di mediazione politica è indefettibile al fine di rinvenire l’equilibrio desiderato bilanciando opportunamente le posizioni passive e attive in modalità e proporzioni diverse a seconda delle specifiche tipologie di casi e contesti considerati (41).
nucleo familiare, è tratta da L. Antonini, Sussidiarietà fiscale, cit., 137, secondo il quale deve garantirsi “il riconoscimento che l’obbligo del concorso alla spesa pubblica possa, in alcuni casi e sotto il controllo statale, essere assolto in una forma alternativa a quella tradizionale (burocratica-impositiva)” (ivi, 122). Al riguardo, specie quando il discorso è riferito al terzo settore, si parla sovente di fiscalità cd. “compensativa” (G. Zizzo , Ragionando sulla fiscalità del Terzo Settore, in Id., a cura di, La fiscalità del Terzo Settore, Milano, 2011, 4 ss.; M. Miscali, La fiscalità del Terzo Settore: dall’agnosticismo legislativo al diritto costituzionale alla sussidiarietà fiscale, ivi, 59 ss.; A. Mazzullo, Ripensare la fiscalità del Terzo Settore: dal no profit al non profit, in Fisco, 2014, 2769 ss.). Tutto quanto fin qui detto, naturalmente, non toglie che, laddove lo Stato eserciti un potere impositivo burocratico tradizionale, lo svolgimento della vicenda impositiva debba svolgersi secondo meccanismi propriamente giuridici e senza commistioni di valutazioni giuridiche tra interessi di cui è latrice la pubblica amministrazione e interessi di cui è latore l’amministrato, che restano – nella singola vicenda impositiva considerata – strutturalmente divergenti. (41) Gli strumenti giuridici intrinseci al meccanismo di funzionamento dell’imposta sul reddito e coerenti con la funzione predetta consistono essenzialmente in deduzioni, detrazioni e crediti d’imposta da accordare in relazione a tutte o parte degli oneri che il soggetto sostiene per soddisfare autonomamente delle proprie esigenze delle quali, altrimenti, dovrebbe farsi carico la collettività. Per converso, guardando al criterio di riparto nel suo senso più ampio, sussistono altresì strumenti giuridici esterni rispetto al funzionamento dell’imposta sul reddito, quali sussidi e trasferimenti di varia natura da parte delle pubbliche amministrazioni nei confronti dei soggetti meritevoli di assegnazione di risorse scarse.
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Al contempo, tuttavia, appare altresì chiaro che in tale opera di definizione deve necessariamente essere tenuto conto dei criteri fondamentali tracciati dal patto costituzionale, ai quali devono conformarsi le concrete scelte del legislatore in punto di individuazione del centro di riparto e delle modalità di valorizzazione delle scelte di autogestione. Il patto fondamentale, infatti e come diffusamente illustrato nel paragrafo 1, ha individuato alcuni organismi come corpi stabilmente funzionali alla gestione a livello autonomo di esigenze fondamentali della persona le quali altrimenti dovrebbero essere gestite da organizzazioni collettive con conseguenti oneri sull’intera comunità. Le peculiari caratteristiche del presupposto dell’imposta sul reddito, enucleate all’inizio di questo paragrafo, fanno sì: (i) che tali corpi individuati dalla Costituzione siano considerati come centri unitari di riparto nell’economia della vicenda reddituale; e (ii) che siano particolarmente favoriti nella valorizzazione delle scelte di autogestione effettuate (42). Se il secondo profilo può apparire di evidente comprensione, comportando la necessità di riconoscere a questi corpi – tra i quali primeggia la famiglia – sgravi, deduzioni e detrazioni dall’imposta sul reddito più che proporzionali o comunque ulteriori rispetto a quelli accordati dall’ordinamento a soggetti diversi cui non è costituzionalmente riconosciuta la funzione sociale anzidetta (43), il primo profilo merita alcune considerazioni più specifiche. Esse muovono dalla presa d’atto che, se la Costituzione espressamente configura un determinato corpo come centro unitario di soddisfazione di esigenze personali
(42) Tra tali corpi, come detto, vi è la famiglia. La necessità costituzionale di valorizzare la famiglia nel settore tributario è emersa già in sede di lavori preparatori della Costituzione, in occasione dei quali uno dei firmatari degli emendamenti che hanno condotto all’introduzione dell’art. 53, On.le Salvatore Scoca, ebbe modo di affermare che dalla necessità di rispettare il principio di capacità contributiva e il divieto di imposizione del minimo vitale, che ad esso si correla, deriva “pure che debbono essere tenuti in opportuna considerazione i carichi di famiglia del contribuente. Sono, questi, aspetti caratteristici di quella capacità contributiva, che la formulazione concordata dell’articolo aggiuntivo pone a base della imposizione” (il testo è riportato da G. Falsitta , op. cit., 114). Sul fatto che il principio di capacità contributiva richieda la valorizzazione ai fini fiscali della famiglia cfr. F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, cit., 49. Più in generale, L. Antonini, Sussidiarietà fiscale, cit., nonché la dense pagine di C. Scalinci, La famiglia ‘community care’ nell’imposizione sul reddito, cit., specie 873-876. (43) Questo aspetto è posto in evidenza anche da F. Moschetti, La capacità contributiva. Profili generali, in A. Amatucci (diretto da), Trattato di diritto tributario, Padova, 1994, I, t. 1, 1 ss., par. 14.b e par. 14.d.
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che altrimenti dovrebbero essere soddisfatte a carico della collettività, è irragionevole ritenere che il corpo stesso possa non essere considerato come centro unitario nel disporre di beni e servizi nella prospettiva complessiva degli acquisti, consumi, risparmi e investimenti necessari al funzionamento del centro stesso. Conseguentemente, è irragionevole che il corpo stesso possa non essere considerato come centro unitario nella situazione sostanziale che rappresenta il presupposto dell’imposta sul reddito. Siffatta conclusione rappresenta un diretto corollario della configurazione contenuta nel patto costituzionale e, apparendo autoevidente per i corpi entificati, nondimeno vale allo stesso modo anche per quei corpi che vengono valorizzati in tal senso della Costituzione pur essendo prevalemente considerati non entificati, come in particolare la famiglia (44). Concentrando l’attenzione su quest’ultima, infatti, accanto a già di per sé assorbenti considerazioni di carattere sociologico (45), è il dato giuridico che conferma la conclusione sopra enunciata. L’articolo 144 del codice civile, invero, afferma che “i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare” e l’art. 143 dello stesso codice afferma che “entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”, oltre che specificamente a “mantenere, istruire ed educare la prole” (artt. 147 e 148 c.c.). Appare, quindi, giuridicamente incontestabile, oltre che sociologicamente evidente, che per le persone che compongono una famiglia sia la famiglia stessa, e non tanto i singoli, a rappresentare il centro cui si riferisce il potere di disporre di beni e servizi in una prospettiva complessiva di acquisti, consumi, risparmi e investimenti. E quanto appena detto non riguarda soltanto quel minimo essenziale per la sopravvivenza del nucleo stesso, ma costituisce una complessiva valutazione che riguarda il
(44) Ritengono, peraltro, che la famiglia debba essere considerata come un ente dotato di autonoma capacità giuridica anche insigni giuristi come, ad esempio, P. Barile, Il soggetto privato nella Costituzione italiana, Padova, 1953, 14; U. Majello, Profili costituzionali della filiazione legittima e naturale, Napoli, 1965, 14. (45) Cfr., per la particolare chiarezza, A. Fedele, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, cit., 2179; E. De Mita, La illegittimità costituzionale del c.d. “cumulo”, in Dir. prat. trib., II, 1976, 340. Gli assunti in questione, inoltre, sono da sempre considerati pacifici da parte degli scienziati delle finanze (per tutti, G. Stefani, Imposta personale, cumulo dei redditi e capacità contributiva, in Boll. trib., 1976, 1637 ss.; G. Steve, Lezioni di scienza delle finanze, Padova, 1976, 321 ss.).
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tenore di vita anche potenziale del centro di aggregazione considerato (46), ciò che ulteriormente corrobora la conclusione per cui sono i tratti essenziali (e non solo quelli minimi indispensabili) della situazione fattuale che costituisce il presupposto del tributo sul reddito a manifestarsi come unitari in presenza dell’aggregazione familiare (47), così richiedendo come necessaria
(46) La giurisprudenza è pacifica sul punto: cfr., fra le motlissime, Cass., sentt. nn. 7437/1994, 3490/1998, 17537/2003, 25019/2007. (47) Non possono, quindi, essere condivise le osservazioni di R. Braccini, Osservazioni sulla rilevanza tributaria dei doveri economici familiari, in Dir. prat. trib., 1977, I, 1239-1245 e L. Tosi, Considerazioni sul regime fiscale della famiglia: discriminazioni ai danni delle famiglie monoreddito, prospettive di riforma e problematiche di ordine costituzionale, in Rass. trib., 1988, I, 351 ss., in parte condivise anche da A. Giovannini, Famiglia e capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2013, I, 221, i quali ritengono che il regime civilistico della famiglia (in particolar modo, l’estraneità dei proventi lavorativi al regime di comunione legale), per un verso, impedisca di sostenere la tesi per cui i coniugi hanno la reciproca disponibilità dei redditi dell’altro e, in conseguenza di ciò e per altro verso, rappresenti un sostrato tale da impedire l’individuazione nella famiglia di un nucleo unitario ai fini dell’imposta sui redditi. Entrambi questi assunti, infatti, sono infondati. (i) Sotto il primo profilo, gli autori, infatti, non conferiscono il debito rilievo agli obblighi di cui agli articoli 143 e 144 del codice civile, che configurano come obbligatoria la formazione di una “cassa comune” familiare non soltanto ai fini della soddisfazione dei bisogni essenziali ma anche, come chiarito dalla giurisprudenza, ai fini della soddisfazione dei bisogni connessi al tenore di vita potenzialmente ricollegabile al complessivo reddito della famiglia unitariamente considerata: da ciò consegue, anche sotto il profilo strettamente civilistico, che la realtà civilistica è configurata in modo tale da rendere concreta la situazione di reciproca disponibilità dei redditi familiari (conforme la dottrina civilistica, la quale osserva che “anche nei rapporti patrimoniali, la famiglia si rivela idonea ad essere vista dalla legge come ‘centro di imputazione di interessi’ che sono dell’intera comunità familiare”: così, per tutti, P. Rescigno, Matrimonio e famiglia. Cinquant’anni del diritto italiano, Torino 2000, 359), seppur tramite una doverosa collaborazione degli altri membri (coercibile giudizialmente) che non rappresenta certo un elemento irrilevante ai fini della normale sistematica delle imposte sui redditi (si pensi a tutti i redditi tassati per competenza, la cui effettiva disponibilità in capo al contribuente è sempre mediata da un obbligo di collaborazione da parte di un altro soggetto). (ii) Sotto il secondo, poi e comunque, va altresì tenuto conto che accanto ai criteri della “libera disponibilità” in questo senso intesi, “ne concorrono altri, fondati sul concreto atteggiarsi, in fatto ed in determinate circostanze, delle scelte circa la destinazione di taluni redditi” (A. Fedele, op. ult. cit., 2166). Invero, se “nella maggioranza dei casi tali facoltà decisionali spettano al titolare delle situazioni giuridiche soggettive”, “non si può certo escludere che, sia pure in ipotesi limitate, la facoltà di disporre del reddito spetti, in fatto, a persone diverse” e che tale situazione debba essere valorizzata ai fini delle imposte sui redditi quando assistita da una valutazione “di larga probabilità” e ancor più quando sostenuta da specifiche norme giuridiche come avviene per la situazione della famiglia (A. Fedele, op. ult. cit., 2174-2177, ove ulteriori esempi in tal senso). In tali casi, “i criteri di individuazione dei soggetti passivi nella imposta personale sul reddito diverso da quello fondato sulla ‘titolarità giuridica’ del reddito medesimo possono porsi, in ordine alla ratio delle norme relative, sul medesimo piano di quest’ultimo”: se ciò possa avvenire o meno,
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e fisiologica la considerazione unitaria della famiglia nell’imposta sui redditi, ferma restando la possibilità di concedere ai coniugi la possibilità di optare per una imposizione separata qualora intendano valorizzare eventuali peculiarità della loro situazione rispetto allo schema ordinamentale (48). Questa è la prospettiva che si mostra come necessitata una volta che si sia definitivamente riconosciuto come sussistente e centrale, come fatto anche dalla Corte Costituzionale, quel versante estrinseco della capacità contributiva che in occasione della sentenza sul cumulo familiare n. 179 del 1976 la Corte non aveva ancora apprezzato e valorizzato appieno (49), avendo confuso gli
in altre parole, dipende dalla concreta configurazione della ratio del singolo tributo considerato, la quale viene ad essere concretizzata nella dogmatica della fattispecie in quello che viene indicato come presupposto (A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., 34 e 145). Invero, mentre diverse considerazioni devono essere fatte per le imposte sui trasferimenti (cfr. il successivo par. 4) e più in generale per i tributi reali, per le imposte sul reddito “il legislatore tributario apprezza le norme che disciplinano la produzione e la circolazione della ricchezza come un dato di fatto: non è dunque irrazionale che egli ritenga prevalente, in ordine all’effettiva attribuzione della potenzialità economica espressa dal reddito, la constatazione che, di fatto, in determinate circostanze e situazione, i poteri di destinazione del reddito sono generalmente esercitati nell’interesse di (o anche di) persone diverse da quelle designate dai criteri in questione. Si tratta, infatti, di identificare i soggetti che manifestano una determinata specifica capacità contributiva, non i titolari di determinati rapporti giuridici” (A. Fedele, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, cit., 2164-2166). E ciò è quanto esattamente deve ritenersi necessario avvenire, per le ragioni esposte nel testo, in materia di imposizione sui redditi familiari. (48) Ad esempio, laddove alla considerazione unitaria della famiglia si accompagni il mantenimento della soggettività passiva in capo ai singoli coniugi, come si dirà nel successivo par. 3.1., e laddove a tale configurazioni si accompagnino forme di reciproche responsabilità d’imposta in capo ai coniugi (cfr. A. Fedele, op. ult. cit., 2171), è necessaria anche alla luce dell’art. 24 Cost. la previsione di un regime opzionale che permetta anche a uno solo dei due coniugi di chiedere che la determinazione delle imposte sul reddito dovute sia calcolata individualmente e senza considerazione unitaria della famiglia (il problema è posto con chiarezza, ad esempio, da M.A. Grippa Salvetti, Note in margine alla legge delega sulla introduzione del quoziente familiare, in Riv. dir. trib., 1991, I, 475). Pertanto, in tal caso, è necessario prevedere come opzionale il trattamento individuale a fronte della fisiologicità del trattamento unitario, non già viceversa come invece prospettato dalla Corte Costituzionale nel 1976, per le ragioni che si stanno per dire nel testo. (49) Anche le obiezioni di R. Braccini, Osservazioni sulla rilevanza tributaria dei doveri economici familiari, cit., 1237 ss. mostrano di muovere da una concezione particolare riduttiva e patrimonialistica della capacità contributiva, relegata essenzialmente all’esigenza di esenzione del minimo vitale. Per converso, la necessità di ribaltare, alla luce di una completa valorizzazione del principio della capacità contributiva, la decisione della Corte Costituzionale del 1976 era già stata colta a suo tempo da A. Fedele, op. ult. cit., 2180, il quale affermava che, “ammettendo la diversa giustificazione sopra esposta, questa conclusione avrebbe dovuto essere rovesciata”.
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aspetti attinenti alla capacità contributiva con gli aspetti attinenti al rispetto del principio di uguaglianza (50). Non a caso, nelle occasioni più recenti in cui ha avuto modo di confrontarsi con la questione, la Corte non ha affatto escluso la legittimità costituzionale di misure volte a considerare la famiglia come nucleo unitario senza con ciò aggravare il prelievo secondo quanto avveniva in precedenza nella vigenza del cumulo (51) e si è limitata a far presente che la possibilità di una tassazione separata deve comunque sempre essere accordata come diritto facente capo a ciascuno dei due coniugi (52). Confermata la perfetta razionalità della configurazione della famiglia come centro unitario di riparto nell’economia del presupposto dell’imposta sul reddito alla luce del versante estrinseco della capacità contributiva oggi correttamente valorizzato anche dalla Corte Costituzionale, va adesso ulteriormente illustrato come tale necessità di considerazione unitaria si traduca, tecnicamente e al di là degli aspetti meramente consequenziali alla contitolarità civilistica di determinati cespiti (53), nella necessità di strutturare
Anche F. Gallo, Regime fiscale della famiglia e principio di capacità contributiva, in Riv. dir. fin., 1977, I, 94 sottolinea che “così ragionando la Corte ha dovuto forzare non poco, anche sul piano letterale, l’interpretazione dell’art. 53 Cost. accettando una definizione del principio di personalità esasperatamente individualistica e addirittura riferendosi, nel contesto della sentenza, ad una capacità contributiva ‘personale’ di cui nell’art. 53 non v’è traccia”. (50) Esplicite, in tal senso, sono le considerazioni di L. Paladin, Il principio di eguaglianza tributaria nella giurisprudenza costituzionale italiana, cit., 306-307. (51) In altre parole, il reale tenore della sentenza della Corte del 1976 deve individuarsi nella declaratoria di incostituzionalità, non tanto del sistema del cumulo in sé e per sé considerato, ma nella previsione di un sistema di cumulo che aggrava l’imposizione della famiglia rispetto ai membri che ne fanno parte. Ciò emerge chiaramente dalla motivazione, sia nella parte in cui concentra l’attenzione sul trattamento deteriore, sia nella misura in cui mostra di legare il principio di capacità contributiva necessariamente all’individuo e di non disporre degli strumenti necessari a favorire la famiglia, ed è ulteriormente chiarito dalla giurisprudenza successiva (cfr., al riguardo, Corte Cost., n. 358/1995, riportata infra). Questo aspetto è evidenziato anche dalla dottrina (L. Tosi, op. cit., 346). (52) Corte Cost., sent. n. 76/1983, ove si è affermato che, dai “principi costituzionali che sono a base della precedente pronuncia”, deriva che dal “sistema della separata tassazione ... il legislatore non può prescindere, dovendo riconoscere ai coniugi, in ogni caso, il diritto di chiederne l’applicazione”. In altre parole, con la sentenza in questione la Corte non solo non ha escluso misure volte a valorizzare la famiglia come nucleo unitario, che anzi ha continuato ad auspicare, ma non ha neppure escluso che tali misure siano considerate applicabili in modo generalizzato, ben potendo il diritto a ottenere una imposizione separata essere soddisfatto mediante predisposizione di uno specifico meccanismo opzionale in tal senso. Non contraddicono quanto appena affermato le sentenze successive n. 266 del 1983 e n. 85 del 1985. (53) Sull’argomento cfr., per tutti, A. Fedele, La comunione legale nel diritto tributario, in Dir. prat. trib., 2002, I, 34 ss.; A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, I, cit., 161
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e commisurare il carico impositivo a una entità rappresentata dalla sommatoria dei redditi prodotti dai membri della famiglia stessa. 3.1. La necessità costituzionale dello splitting familiare nell’IRPEF. – La suddetta necessità di strutturare e commisurare il carico impositivo reddituale a una entità rappresentata dalla sommatoria dei redditi prodotti dai membri della famiglia richiede la ricerca di soluzioni a una serie di problematiche tecniche e giuridiche, all’esito della quale il risultato finale di schema impositivo adeguato per la famiglia risulta praticamente necessitato in forza di progressive esclusioni degli ulteriori possibili schemi ipotizzabili. (A) Il primo e più semplice problema da affrontare attiene alla considerazione se la necessità di configurare la famiglia come centro unitario ai fini delle imposte sui redditi debba necessariamente tradursi o meno nella ricomprensione applicativa nel campo dell’IRES, visto che la regola generale di cui all’art. 2 del TUIR stabilisce che soggetti passivi dell’IRPEF sono le “persone fisiche”. Il problema, che di solito viene posto indirettamente e implicitamente quando si afferma che istituti come il quoziente familiare e lo splitting sarebbero incompatibili con la struttura dell’IRPEF come imposta applicata sui singoli individui (54), risulta in realtà mal formulato, poiché la necessità di considerazione unitaria della famiglia come centro di riparto ai fini delle imposte sui redditi non impone necessariamente una entificazione della stessa ai fini fiscali, ossia il collegamento direttamente a essa di obblighi strumentali (come la presentazione della dichiarazione) o pecuniari e di diritti di credito, ma può agevolmente essere soddisfatta con opportuni accorgimenti in punto di commisurazione del debito d’imposta in capo ai singoli membri di essa: costoro, infatti, possono ben mantenere la propria identità fiscale (55),
ss. La normativa di riferimento è oggi contenuta negli artt. 4 e 5 del TUIR. (54) Per tutti cfr. L. Tosi, op. cit., passim e specialmente 373; M.A. Grippa Salvetti, op. cit., 478. (55) A. Fedele, op. ult. cit., 2172 e 2173 evidenzia che, assumendo come corretto presupposto quello per cui la famiglia è centro unitario “di consumo e di erogazione”, “la capacità contributiva non può che essere riferita a tutti i componenti il gruppo” (e non a uno solo di essi) e in modo commisurato “alla somma dei redditi unitariamente disponibili in ambito familiare, la cui destinazione è effettuata in considerazione dei bisogni e degli interessi di tutti i componenti la famiglia medesima, cosicché al limite l’intera somma potrebbe essere erogata in funzione delle necessità di uno solo di essi”. Coerentemente, lo stesso A. Fedele, op. ult. cit., 2180 conclude che “l’obiezione che il cumulo ... determinerebbe in certo qual modo
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eventualmente accompagnata a possibili forme di responsabilità d’imposta alla configurazione delle quali deve congiungersi, come richiesto dalla Corte Costituzionale, la possibilità per i coniugi di optare per un regime di tassazione strettamente individuale. In questo senso, la considerazione della famiglia come nucleo unitario ai fini di imposte sui redditi di cui rimarrebbero soggetti passivi sul piano giuridico i singoli membri di essa, ossia la considerazione della famiglia come “unità impositiva senza personalità tributaria” (56), non appare come una situazione eccezionale rispetto al sistema dell’IRPEF, bensì come una situazione semplicemente speciale e derogatoria (57) che non si rende certo incompatibile con la struttura del tributo stesso così come non si rende tale quella sottesa al trattamento delle società di persone (58).
il riconoscimento della soggettività passiva della famiglia in quanto tale e ciò in contrasto con la natura dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, può essere superata laddove si riconosca che l’esigenza di assumere tutti i redditi della famiglia ad imponibile può anche essere soddisfatta col meccanismo dell’imputazione ad una o più persone fisiche dell’unico presupposto dalla somma di tali redditi costituito”. In senso analogo, F. Gallo, Regime fiscale della famiglia e principio di capacità contributiva, cit., 94-95. (56) Questa è l’icastica espressione utilizzata da C. Scalinci, La famiglia ‘community care’ nell’imposizione sul reddito, cit., 882; Id., Il tributo senza soggetto, Padova, 2011, 264 ss. e 434. In senso analogo le considerazioni di A. Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, 201-203; A. Fantozzi, Regime tributario, in C.M. Bianca (a cura di), La comunione legale, Milano, 1989, II, 1090-1091. (57) A. Fedele, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, cit., 2164 e 2170. (58) Che l’imposizione per trasparenza delle società di persone manifesti tratti di affinità, seppure in una prospettiva invertita, rispetto a splitting e quoziente familiare è intuito, oltre che da A. Fedele, Imposte reali ed imposte personali nel sistema tributario italiano, cit., 465, anche dalla dottrina più legata all’impostazione individualistica della nozione di possesso di reddito (cfr. L. Tosi, op. cit., 374; M.A. Grippa Salvetti, op. cit., 477), sebbene poi tale dottrina non tragga le dovute conseguenze in merito alla perfetta praticabilità di istituti come splitting o quoziente familiare. Non vi è alcunché di asistematico, infatti, nella constatazione che la considerazione unitaria della famiglia ai fini delle imposte sui redditi richieda un passaggio di quantificazione e imputazione di obblighi di pagamento successivo rispetto alla percezione del reddito da parte di uno dei membri di essa (L. Tosi, op. cit., 363-364, 372): è del tutto fisiologico, infatti e nell’ambito delle imposte cd. “con accertamento”, che la quantificazione del debito avvenga in un momento successivo all’insorgenza del presupposto (non vi è, quindi, alcun bisogno di postulare l’insorgenza di un legame con chi ha erogato il reddito al coniuge immediato percettore, come invece sembra prospettarsi ivi, 363) e il fatto che in tale circostanza la determinazione del debito d’imposta tenga conto di variabili ulteriori come quella del nucleo familiare. Di recente, A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, II, cit., 501-505 ha ritenuto superabili i prospettati problemi di costituzionalità di quoziente e splitting operando
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(B) Ferma restando la necessità di mantenere la famiglia nel campo applicativo dell’IRPEF, il secondo ordine di problemi essenziali da affrontare attiene al fatto che il meccanismo di valorizzazione unitaria della famiglia ai fini del tributo sul reddito debba garantire il rispetto di tutti gli altri principi costituzionali, oltre a quello di capacità contributiva: fra tutti, il primo principio da garantire è quello di uguaglianza di cui all’articolo 3 Cost., che richiede di trattare in modo diverso situazioni diverse sotto gli aspetti giuridicamente rilevanti ai fini dell’istituto considerato, in modo da valorizzare adeguatamente i profili di differenza rilevanti, e, al contempo, di trattare in modo uguale situazioni uguali sotto gli aspetti giuridicamente rilevanti ai fini dell’istituto considerato (59). (B.1.) Sotto il primo profilo, la necessità di considerazione in modo unitario della famiglia ai fini dell’IRPEF impone di diversificarne il trattamento rispetto agli altri centri di riparto dell’IRPEF e impone che la diversificazione di trattamento sia coerente con l’entità dei profili che distinguono la famiglia rispetto agli altri centri. Rinviando al paragrafo successivo per gli aspetti relativi ai rapporti con altre tipologie di aggregazioni superindividuali che talora si ritengono manifestare punti di contatto con la famiglia, si osserva che il rispetto del principio di uguaglianza sotto il profilo qui considerato richiede la garanzia che la considerazione unitaria della famiglia non determini un carico impositivo maggiore rispetto a quello che i membri di essa avrebbero sopportato se non fossero stati parte della famiglia stessa. Va tenuto conto, infatti, che l’esigenza di considerazione unitaria della famiglia ai fini dell’IRPEF è determinata dalla strutturale preordinazione, ad essa riconosciuta dalla Carta Costituzionale, alla soddisfazione di esigenze personali che altrimenti dovrebbero essere gestite a spese della collettività. In questa prospettiva, pertanto, appare evidente come sia lo stesso principio di capacità contributiva, correttamente inteso anche alla luce del versante estrinseco di esso, a richiedere che la considerazione unitaria della famiglia ai fini dell’IRPEF si traduca in un trattamento meno oneroso, e non più oneroso,
riferimento a considerazioni analoghe a quelle sottese al sistema del consolidato fiscale ai fini IRES. (59) Per una sintetica ricognizione degli inconvenienti cui dà corso la mancata considerazione della famiglia come nucleo unitario ai fini delle imposte sui redditi cfr., per tutti, F. Gallo, Regime fiscale della famiglia e principio di capacità contributiva, cit., 98 ss., par. 4.
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rispetto a quello delle persone che non siano parte di una famiglia (60). Non vi è bisogno, in altre parole, di ricorrere all’invocazione dell’art. 31 Cost. per sostenere che la considerazione unitaria della famiglia ai fini dell’IRPEF è funzionale a un alleggerimento del prelievo sul reddito familiare rispetto alla situazione in cui un pari reddito fosse percepito al di fuori di una famiglia, e non già all’aumento del carico impositivo della famiglia stessa: è la corretta interpretazione del principio di capacità contributiva a rendere necessaria tale conclusione. In questo contesto, appare chiara la correttezza sostanziale della sentenza n. 179/1976 della Corte Costituzionale: solo che la vera ragione a sostegno di tale pronuncia deve essere individuata non già nella lettura restrittiva del principio di personalità della capacità contributiva da essa effettuata, che come si è detto si collega a una ancora non compiuta comprensione dello stesso da parte della Corte, bensì nel fatto che il cumulo oggetto di giudizio comportava per la famiglia un trattamento deteriore rispetto a quello che sarebbe spettato ai singoli membri se non fossero stati parte della famiglia. (B.2.) Sotto il secondo profilo, la necessità di considerazione in modo unitario della famiglia ai fini dell’IRPEF richiede che i centri di riparto rappresentati dalle famiglie non siano trattati diversamente tra loro quando non manifestino profili di diversità giuridicamente rilevanti ai fini del presupposto del tributo reddituale (61). Volendo esemplificare, tra i profili di possibile
(60) A tal fine, è bene rilevare che un argomento sovente utilizzato – specie in passato (per tutti, L. Perrone, Il cumulo dei redditi familiari: costituzionalmente illegittimo o soltanto iniquo?, in Giur. cost., I, 1976, 2188 ss.) – a preteso contrasto dell’affermazione appena effettuata nel testo è stato quello incentrato sul fatto che, in famiglia, le persone realizzano economie di scala che da soli non realizzerebbero e che, pertanto, si giustificherebbe la ricognizione in capo a essa di una forza reddituale maggiore di quella sussistente in capo ai membri singolarmente presi. Siffatta argomentazione è stata analizzata e rigettata anche dalla Corte Costituzionale nel 1976, sebbene in base ad argomentazioni non soddisfacenti. In realtà, il vero motivo per cui la predetta osservazione non merita alcuna condivisione consiste in ciò che tali economie di scala, laddove presenti, sono del tutto irrilevanti ed estranee rispetto al presupposto generale dell’IRPEF (così anche A. Fedele, “Possesso” di redditi, cit., 2184 nota 65; F. Moschetti, voce Capacità contributiva, in Enc. giur., Roma 1988, par. 6.3, 12, il quale valorizza a tal fine anche l’art. 47 Cost.; A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, I, cit., 134). Nelle imposte sui redditi, infatti, le economie di scala possono al più determinare un aumento della base imponibile quando il tributo sia applicato sugli utili netti, come avviene per l’IRES (maggiori sono le economie di scala, maggiore è in punto di fatto la dimensione della base imponibile) o per alcune categorie reddituali (ad esempio, il lavoro autonomo), ma non rilevano in altri frangenti. (61) Ciò in quanto, per un verso, l’alleggerimento dei compiti della collettività in chiave
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diversificazione rilevanti ai fini del presupposto dell’IRPEF vi può essere la diversa composizione categoriale dei redditi (62). Per converso, tra i profili di possibile diversificazione che non sono rilevanti ai fini del presupposto dell’imposta, una volta riconosciuta l’unitarietà della famiglia come centro di imputazione di rapporti tributari, deve riconoscersi con sicurezza rientrare l’allocazione del reddito in capo ai membri della famiglia stessa (63). Il punto in questione appare particolarmente importante, poiché l’attuale sistema impositivo italiano sul reddito si manifesta evidentemente inidoneo a soddisfare l’esigenza di non trattare diversamente famiglie con composizione complessiva del reddito diversificata soltanto sotto il profilo da ultimo menzionato (64), come evidenziato anche in modo piuttosto perentorio dalla Corte Costituzionale (65). Nel contesto di una imposta sul reddito progressiva e non semplicemente proporzionale come è l’IRPEF italiana, infatti, risultano del tutto insufficienti (66) a riequilibrare la posizione di famiglie che si trovino
di autorganizzazione della soddisfazione delle esigenze dei suoi membri che tali famiglie producono è considerato, in prospettiva costituzionale, identico e, per altro verso, coincidono le situazioni fattuali concrete in relazione alle quali sorge l’obbligo di trasferire risorse scarse a un altro soggetto a prescindere da una vicenda di specifica gestione di esigenze del primo da parte del secondo. (62) Diversa modalità di computo della base imponibile o addirittura discriminazione come in caso di ILOR. (63) In altre parole, se la famiglia deve essere riconosciuta come centro tributario unitario, non può non considerarsi identica ai fini dell’imposta sul reddito la situazione di una famiglia i cui due membri produttori di reddito producano un reddito imponibile di cinquanta a testa, rispetto alla situazione di una famiglia i cui due membri produttori di reddito producano l’uno un reddito imponibile di trenta e l’altra di settanta o viceversa, ovvero rispetto alla situazione di una famiglia in cui il reddito imponibile di cento sia prodotto soltanto da un membro. Infatti, una volta riconosciuta per i motivi suddetti la necessità di considerare unitariamente la famiglia come centro di rapporti tributari nell’imposta sul reddito non si rinvengono ragioni razionalmente rilevanti che permettano di giustificare, nella prospettiva del presupposto del tributo sul reddito, una diversificazione di trattamento nei casi predetti. (64) A questo riguardo, si osserva come la considerazione di R. Schiavolin, La capacità contributiva. Il collegamento soggettivo, in A. Amatucci (diretto da), Trattato di diritto tributario, cit., I, t. 1, 1 ss., par. 2 (“l’idea che i componenti delle famiglie monoreddito debbano essere agevolate” non terrebbe conto “dei maggiori costi sopportati, proprio per adempiere ai doveri familiari, da coniugi che lavorano entrambi”) appaia capovolta rispetto alla concezione di capacità contributiva adottata e ritenuta corretta in questa sede: al contrario, sarebbe semmai lecito ritenere che le famiglie monoreddito realizzino con maggior pregnanza il principio di autorganizzazione e gravino meno delle altre sulla collettività per il soddisfacimento delle esigenze dei propri membri. (65) Cfr., in particolare, la sent. n. 358/1995. (66) La palese insufficienza delle detrazioni previste dal TUIR è comunemente
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in una situazione di diversa allocazione del reddito detrazioni per familiari a carico sul modello di quelle previste dall’art. 12 del TUIR, a meno che non si aumentino adeguatamente gli importi di esse e non si raffinino i meccanismi di flessibilità che pure l’art. 12 stesso cerca di predisporre. L’equilibrio di sistema e il rispetto del principio di uguaglianza per l’aspetto in questione, quindi, si rende possibile unicamente predisponendo forme di deduzioni o detrazioni (67) adeguate ovvero introducendo un meccanismo di quoziente familiare o un meccanismo di splitting (68). La scelta di questa ultima tipologia di soluzioni rende strutturalmente più stabile la valorizzazione unitaria della famiglia, rendendo più complessi eventuali interventi del legislatore dettati da contingenti esigenze di cassa, e pertanto risulta in linea di principio preferibile (69).
riconosciuta: per tutti cfr. F. Moschetti, La capacità contributiva. Profili generali, cit.; L. Tosi, op. cit., 379; L. Antonini, Sussidiarietà fiscale, cit., 132, 137-140; Corte Cost., sentt. nn. 76/1983, 276/1983, 85/1985. Un accurato esame storico dell’evoluzione della disciplina delle detrazioni per carichi di famiglia è condotta da A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, I, cit., 76 ss. e II, cit., 9-80, ove si evidenzia altresì come la valorizzazione della famiglia debba tradursi, oltre che in adeguate detrazioni per familiari a carico, anche nell’adeguato riconoscimento di deduzioni e detrazioni per le spese sostenute per prendersi cura della famiglia e dei familiari stessi, che non si prestano ad essere sostituite dal sistema di splitting e di quoziente familiare e che, quindi, si prestano ad essere mantenute e incentivate anche in aggiunta a essi. Si evidenzia, peraltro, come anche per le deduzioni e detrazioni per spese sostenute nel diretto interesse dei familiari (per esempio, spese mediche, assicurative, educative e sportive ricomprese nell’ambito applicativo dell’art. 15, comma 2 del TUIR) valgano le considerazioni che saranno svolte nel successivo par. 3.2., le quali operano altresì relativamente al concetto di “familiari” cui si riferiscono l’art. 10, comma 3-bis, l’art. 15, comma 1, lett. b), quinto periodo, l’art. 16, comma 1-quinquies e l’art. 67, comma 1, lett. b) del TUIR, tutte norme che possono considerarsi, anche se solo in misura moderata, giustamente favorevoli alla famiglia (cfr., al riguardo, A. Turchi, op. ult. cit., II, 71-79, 87-88, 111-120, 134-139). Del resto, l’art. 5, comma 5 del TUIR è chiaro nel fornire una definizione tipizzata del concetto di “familiari” valevole ai fini delle fattispecie impositive IRPEF. (67) Da parte di autorevole dottrina (A. Giovannini, Famiglia e capacità contributiva, cit., par. 5.) è stata proposta anche l’utilizzazione dello strumento della negative income tax: tale strumento, sostanziandosi nella garanzia di un sussidio per le famiglie più povere, ossia aventi un reddito inferiore alla soglia stabilita dal legislatore, sembra tuttavia idoneo a valorizzare profili diversi rispetto a quelli indicati nel testo. I limiti e le problematiche applicative di tale istituto sono state, peraltro, messe bene in evidenza da G. Stefani, Economia della finanza pubblica, Padova 1999, 461 ss. (68) Per le differenze tra i due istituti cfr., per tutti, A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, II, cit., 452-472, 486 e 494. La pari praticabilità in linea di principio di queste soluzioni è confermata anche da Corte Cost., sent. n. 76/1983, par. 7. (69) In questo senso anche F. Gallo, Regime fiscale della famiglia e principio di
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Peraltro, come noto, tali meccanismi possono essere configurati secondo modalità diversificate sotto molteplici profili, il primo dei quali attiene all’individuazione dei soggetti coinvolti nel sistema di determinazione dell’imposta. Al riguardo, nell’ordinamento italiano attuale appare maggiormente coerente un meccanismo che coinvolga appieno nel calcolo ripartito soltanto i coniugi, lasciando la valorizzazione dei figli e del numero di essi a istituti esterni e ulteriori rispetto al meccanismo di suddivisione (come deduzioni, detrazioni o crediti d’imposta, accanto ovviamente a possibili altre sovvenzioni esterne al sistema dell’imposta sui redditi). Tale maggiore coerenza emerge considerando che, in Italia, il presupposto dell’imposta sul reddito è tendenzialmente spostato nella direzione del reddito prodotto piuttosto che in quella del reddito entrata o ancor più evidentemente del reddito spesa: conseguentemente, guardando al versante passivo del rapporto tributario, i membri della famiglia considerabili strutturalmente idonei al concorso al sostenimento degli oneri collettivi in relazione al presupposto impositivo sono necessariamente i coniugi. Quanto ai figli, per un certo periodo della propria vita essi sono per natura inidonei a tale concorso e, sovente, lo sono anche in un periodo successivo in relazione a possibili scelte di soddisfazione di esigenze personali (come ad esempio quella di proseguire negli studi): in tali frangenti, il ruolo della famiglia come centro di soddisfazione di esigenze di persone (i figli) che altrimenti dovrebbero essere soddisfatte con oneri a carico della collettività si presta effettivamente ad essere valorizzato nel modo migliore con strumenti ulteriori come deduzioni, detrazioni e crediti d’imposta, mentre eventuali redditi dei figli dovrebbero essere imputati in pari quota ai genitori che hanno l’usufrutto legale dei cespiti che li producono (come del resto già fa l’art. 4 del TUIR). Con la progressiva acquisizione della idoneità al concorso al
capacità contributiva, cit., 104; A. Fantozzi, Regime tributario, cit., 1091; C. Scalinci, La famiglia ‘community care’ nell’imposizione sul reddito, cit., 884. Evidenzia la strutturale instabilità delle detrazioni anche A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, II, cit., 50, il quale ricorda come la Corte Costituzionale abbia peraltro considerato para-agevolativo, anziché strutturale, il sistema stesso (Corte Cost., n. 6/1998, esaminata criticamente dallo stesso Autore ivi, 477 e dalla restante parte della dottrina fra cui cfr. E. De Mita, Il minimo vitale e la tassazione della famiglia, in Id., Fisco e Costituzione, III, Milano, 2003, 590; L. Antonini, La tutela costituzionale del minimo esente, personale e familiare, in Riv. dir. trib., 1999, I, 867) ed evidenzia (ivi, 473-485) molteplici dubbi di costituzionalità (per violazione degli artt. 3, 30, 31, 36 e 53 Cost., con particolare riguardo alla violazione del principio di salvaguardia del minimo vitale familiare e ai mancati coordinamenti interni della normativa) del sistema delle detrazioni e deduzioni attualmente previste dall’ordinamento italiano.
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sostenimento degli oneri della collettività, vi sarebbero i presupposti razionali affinché anche i figli entrassero a far parte del meccanismo di suddivisione del quoziente o dello splitting (70): tuttavia, ragioni di coerenza con il trattamento previsto per la fase precedente, congiuntamente con valutazioni relative alla necessità di incentivare la formazione di nuove famiglie da parte dei giovani (art. 31 Cost.) e di promuovere il lavoro giovanile (art. 1, 4 e 36 Cost.), rendono più opportuno il mantenimento relativamente ai figli di sistemi di valorizzazione esterni rispetto al meccanismo di suddivisione dei redditi familiari (quoziente o splitting) e di importo decrescente con il crescere dell’età dei figli stessi salvi casi particolari (come quelli in cui i figli siano affetti da malattie che li rendano inabili alla formazione di un nuovo nucleo familiare e comunque al procacciamento dei mezzi necessari a concorrere al riparto degli oneri della collettività: cfr. art. 38 Cost.) con riferimento ai quali, peraltro, risulta necessaria una valorizzazione ai fini reddituali (essenzialmente in termini di detrazioni) anche della presenza di ascendenti, discendenti di grado diverso dal primo (l’art. 5, comma 5 del TUIR prevede, peraltro, per alcuni profili IRPEF il limite di rilevanza del terzo grado anche per i rapporti in linea retta) ed eventualmente di collaterali e affini che risultino effettivamente a carico della famiglia anche in relazione alla fattispecie di cui all’art. 433 c.c. L’opportunità di mantenere estranei i figli rispetto al meccanismo di suddivisione, unita a quella di valorizzarne la presenza accordando alla famiglia deduzioni, detrazioni o crediti d’imposta, rende più adeguato il meccanismo dello splitting rispetto a quello del quoziente (la cui caratteristica differenziale rispetto allo splitting risiede proprio nell’attribuzione di coefficienti di suddivisione anche ai figli, oltre che ai coniugi) (71). Alla luce delle considerazioni appena esposte, quindi, non appaiono meritevoli di accoglimento le osservazioni di coloro (72) i quali ritengono il quoziente o lo splitting familiare misure ormai non più necessarie, alla
(70) Ancorché solo parzialmente e in modo decrescente con il progredire dell’età in modo tale da non rendere economicamente più conveniente per la famiglia mantenere un figlio con un reddito basso piuttosto che incentivarlo a formarsi una propria famiglia e ad aumentare i propri redditi. (71) Per alcune considerazioni macroeconomiche circa gli effetti di un meccanismo similare a quello indicato nel testo cfr. A. Vernizzi - M. Monti - M. Kośny, An overall inequality reducing and horizontally equitable tax system with application to Polish data, in Aa.Vv., Towards quality of life improvement, Wrocław, 2006, 33-90. (72) Cfr., ad esempio, V. Visco, Prospettive di riforma fiscale in Italia, in Riv. dir. fin., 2012, 178 ss., par. 3.
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luce di una generale tendenza a una crescente omogeneità di composizione dell’allocazione dei redditi fra i membri della famiglia (73), né comunque opportune, alla luce della desiderabilità dell’obiettivo di raggiungere la predetta omogeneità (74). Per converso, va ricordato che la necessità di attuazione di
(73) Sotto questo profilo, appare sufficiente osservare come sia tutt’oggi diffusa (nonostante la disposizione di cui all’art. 26, c. 1 del d.l. n. 69/1989, su cui cfr. G. Tabet, Disposizioni urgenti in materia fiscale. Art. 26, in Nuove leggi civili commentate, 1990, 1197; M. Proto, Riflessioni in tema di tassazione del nucleo familiare, in Riv. dir. trib., 1991, I, 813) la prassi per cui coppie felicemente sposate, ma in cui sia presente un significativo squilibrio nell’allocazione dei redditi in capo ai coniugi perché l’uno produce redditi sensibilmente superiori a quello prodotti dall’altra o viceversa, procedano ad ottenere la separazione legale (cfr. già F. Gallo, Regime fiscale della famiglia e principio di capacità contributiva, cit., 100 e G. Zingali, La famiglia nella Costituzione e nella riforma tributaria, in Dir. prat. trib., 1971, I, 713 ss.) in modo tale che il coniuge che produce maggior redditi versi un assegno di mantenimento periodico tale per cui possa dedurre il relativo importo dal reddito imponibile (art. 10, comma 1, lett. c del TUIR) ripartendo così ex art. 50, comma 1, lett. i del TUIR il carico impositivo sul percipiente. Si tratta di una pratica per la quale, peraltro, difficilmente possono ritenersi sussistenti i presupposti applicativi del principio di divieto di abuso del diritto poiché, per le ragioni sopra esposte, il risparmio d’imposta così conseguito non può qualificarsi come “indebito”, essendo volto ad ottenere un trattamento impositivo conforme ai principi costituzionali a fronte di una disciplina normativa che, invece, non può ritenersi tale per tutte le ragioni sopra esposte. (74) Sotto questo profilo, va osservato che la mancata attuazione del quoziente familiare si manifesta strutturalmente inidonea a promuovere l’obiettivo dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi ritenuta rilevante dall’articolo 29, comma 2 della Costituzione repubblicana. E ciò vuoi perché la ricerca della omogeneizzazione dei redditi imponibili prodotti da marito e moglie non può essere razionalmente considerata un elemento rientrante nel concetto di “eguaglianza morale e giuridica” dei coniugi, come rilevato anche dalla Corte costituzionale, la quale, fin dalla sentenza n. 179 del 1976, ha espresso “l’auspicio che ... possa essere data ai coniugi la facoltà di optare per un differente sistema di tassazione ... che agevoli la formazione e lo sviluppo della famiglia e consideri la posizione della donna casalinga e lavoratrice”, tutelata dall’articolo 4 della Costituzione (Corte Cost., n. 28/1995; in dottrina sul punto cfr. specialmente G. Tedeschi, Il contributo della moglie al bilancio domestico e i principi della Costituzione, in Riv. dir. civ., 1958, I, 133). Vuoi, in ogni caso, perché il regime fiscale dei coniugi risulta strumento strutturalmente inidoneo a incidere sulla promozione del lavoro femminile, in quanto nel contesto attuale della realtà italiana il problema dell’occupazione femminile extradomestica dipende essenzialmente da carenze nella domanda di lavoro da parte dei datori di lavoro piuttosto che da carenze nella offerta: talché la misura appropriata per promuovere l’obiettivo dovrebbe essere anzitutto quella di incentivare i datori di lavoro ad assumere donne e madri di famiglia con tutti i relativi diritti o di incentivare fiscalmente il lavoro autonomo femminile, ma sicuramente non quella – di per sé strutturalmente sterile – di limitarsi a penalizzare le famiglie in cui le donne guadagnino meno dei mariti o viceversa. Anzi, in una prospettiva costituzionale di valorizzazione della capacità contributiva come “contabilità sociale” sarebbe a rigore più coerente favorire fiscalmente le famiglie in cui il reddito imponibile è concentrato su un coniuge poiché l’altro si dedica a tempo pieno alla famiglia stessa, poiché è ragionevole
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meccanismi del genere rappresenta un requisito minimo indispensabile che non determina un trattamento preferenziale della famiglia (alla cui necessaria attuazione sono invece preordinati gli strumenti menzionati nel secondo punto dell’introduzione del paragrafo), ma pone le condizioni per una minima garanzia di rispetto del principio di eguaglianza e di capacità contributiva una volta che si sia riconosciuta, per tutte le ragioni esposte, la valenza della famiglia come centro unitario di rapporti tributari reddituali nel quadro del principio di “contabilità sociale” in cui si traduce il profilo estrinseco di capacità contributiva di cui all’art. 53 dell’attuale Costituzione repubblicana. Al riguardo, infine, merita ribadire come lo splitting o il quoziente familiare non si pongano di per sé in contrasto con il principio stabilito dal comma 2 dell’articolo 53 della Costituzione, in forza del quale “il sistema tributario è informato a criteri di progressività” (75). Invero, la valutazione della progressività di quella parte del piano di riparto avente carattere tributario è concettualmente successiva alla valutazione della rispondenza del riparto al principio di capacità contributiva, il quale rende necessaria l’individuazione della famiglia come centro unitario di imputazione delle situazioni reddituali. Talché non ha senso paragonare la progressività di un sistema rispondente al criterio di capacità contributiva (quello delle splitting o del quoziente) con quella di un sistema che ad esso non risponde adeguatamente (quello della tassazione separata dei coniugi) (76).
ritenere che in questa situazione l’autosoddisfazione delle esigenze dei propri membri da parte della famiglia sia più marcata rispetto al caso opposto, con conseguente maggior alleggerimento dei compiti della collettività in chiave di autorganizzazione della soddisfazione delle esigenze dei suoi membri e correlativa maggior meritevolezza di riduzione del carico impositivo. (75) Come invece sostenuto da una parte della dottrina: L. Perrone, Il cumulo dei redditi familiari: costituzionalmente illegittimo o soltanto iniquo?, cit., 2202 ss.; Id., Il cumulo dei redditi, il principio della capacità contributiva e la progressività del sistema tributario, in Riv. dir. fin., 1977, II, 113. (76) Inoltre, va considerato che “l’attributo della progressività non può che riferirsi all’attitudine dell’insieme dei tributi a ridurre le differenze tra i consociati nella distribuzione degli indici di capacità contributiva” (A. Fedele, Imposte reali ed imposte personali nel sistema tributario italiano, cit., 476): e per tutte le considerazioni svolte nei precedenti parr. 1 e 2 appare evidente che la considerazione della famiglia come nucleo unitario ai fini delle imposte sui redditi non compromette in alcun modo tale valore ma, anzi, lo favorisce. Peraltro, se il problema cui si intendesse far fronte è quello della riduzione del gettito fiscale che nell’immediato corrisponde all’introduzione di meccanismi di splitting o quoziente familiare, la misura che dovrebbe essere adottata - per quanto del tutto inopportuna in termini di politica macroeconomica di lungo periodo, visto che i meccanismi in questione si prestano a generare un effetto virtuoso di incentivo alla natalità e di incentivo al consumo, con conseguente stimolo
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3.2. Principio di uguaglianza e necessità di diversificazione del regime fiscale della famiglia rispetto a quello di altre forme aggregative. – Nel punto (B.1.) del precedente paragrafo si è accennato al fatto che la necessità di considerazione in modo unitario della famiglia ai fini dell’IRPEF impone di diversificarne il trattamento rispetto ad altre possibili forme di aggregazione superindividuale e che tale diversificazione di trattamento deve essere coerente con l’entità dei profili che diversificano la famiglia rispetto ad esse. Il riferimento è, in particolare, alle cd. coppie di fatto (tra persone di sesso diverso o dello stesso sesso), alle unioni civili tra persone dello stesso sesso o a forme poligamiche, che vengono sovente considerate condividere con la famiglia di cui all’articolo 29 della Costituzione alcuni elementi caratteristici. Con riferimento alla situazione italiana, peraltro, l’attenzione può per il momento essere concentrata sulle prime (coppie di fatto), ampiamente diffuse nella realtà sociale odierna, e sulle seconde (unioni civili), oggetto di un disegno di legge in avanzato stato di discussione di fronte al Parlamento italiano, mentre le unioni poligamiche risultano allo stato attuale tendenzialmente estranee alla valorizzazione nell’ordinamento italiano (77). La necessità di garantire il rispetto del principio di uguaglianza in questo ambito si traduce essenzialmente nella verifica se le misure strutturali relative all’imposizione reddituale della famiglia (splitting, quoziente, detrazioni, deduzioni o simili) o le misure di incentivazione della stessa (cfr. introduzione al par. 3, punto ii) debbano ritenersi o meno applicabili anche ad altre forme di aggregazione superindividuale. Tale verifica non può che essere condotta alla luce delle considerazioni costituzionali e strutturali che conformano la materia. Invero, come si è sopra illustrato, le conclusioni relative, anzitutto,
alla domanda di beni e servizi e crescita del gettito tributario nel medio-lungo periodo - è quella della rimodulazione delle aliquote IRPEF per la famiglia (diversificandole da quelle previste altrimenti ai fini IRPEF e garantendo comunque che il carico impositivo per la famiglia nell’ambito di tale imposta sia complessivamente più basso di quello che farebbe capo ai membri di essa laddove non avessero dato vita alla famiglia stessa) e non tanto quella di porre limiti quantitativi allo splitting o al quoziente, come invece sovente suggerito. Va ricordato, comunque, che una siffatta rimodulazione non è richiesta dall’art. 53, ma sarebbe unicamente frutto di contingenti scelte di politica fiscale, peraltro di dubbia opportunità e di probabile incompatibilità con l’art. 31 Cost. (77) Alcuni Stati esteri, invece, predispongono strumenti che le consentono (cfr. ad esempio i cd. “Samenlevingscontract” in Olanda e nell’art. 1476 del Burgerlijk Wetboek del Belgio) anche al di là del profilo della eventuale valorizzazione (specie nell’ottica dei ricongiungimenti) di forme poligamiche di soggetti appartenenti a nazioni diverse (come quella islamica).
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alla necessità di considerazione della famiglia come centro unitario di riparto ai fini reddituali e, ulteriormente, alla necessità di applicare un regime fiscale di favore per la famiglia costituiscono diretto corollario, sotto il profilo tributario, della presa d’atto che l’ordinamento della Repubblica Italiana ha considerato la famiglia come una aggregazione superindividuale funzionale ad accollarsi, con un livello di stabilità socialmente riconosciuto e recepito dall’ordinamento, la gestione a livello autonomo di esigenze che altrimenti dovrebbero essere gestite da organizzazione collettive con conseguenti oneri sull’intera comunità. Ciò è avvenuto, come detto, in sede di patto fondamentale della collettività nazionale, ove è stata riconosciuta (e si è richiesto di valorizzare) la predetta funzione con riferimento a quella famiglia che si caratterizza per essere “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29 Cost.). In questa prospettiva valutativa, la preordinazione alla stabilità socioordinamentale del centro di aggregazione superindividuale costituisce presupposto necessario affinché la collettività possa confidare nel ruolo del centro stesso, riconoscendo a esso la natura di manifestazione attuativa di quel principio di autorganizzazione e sussidiarietà che rappresenta uno dei tratti fondamentali e supremi dell’ordinamento nazionale (78). In altre parole, è la strutturale preordinazione alla stabilità socio-ordinamentale del centro di aggregazione superindividuale a permettere alla collettività di affidarsi a esso per la soddisfazione di una parte rilevante delle esigenze personali di alcuni membri della collettività stessa: verso un centro di aggregazione che potrebbe essere unilateralmente sciolto in ogni momento e insindacabilmente da parte di ciascuno dei suoi membri o che comunque la Costituzione non considera preordinate alla stabilità ordinamentale, infatti e come evidente, la collettività non potrebbe nutrire ragionevole affidamento circa la stabile idoneità del centro stesso ad alleggerire i compiti della collettività o comunque non potrebbe ragionevolmente nutrire il medesimo affidamento che nutre verso centri di aggregazione costituiti per essere stabili nel tempo (79). Conseguentemente,
(78) Con la già menzionata conseguenza che la manifestazione attuativa specificamente considerata rientra nel ristretto novero dei principi supremi dell’ordinamento non modificabile da ordinamenti sovranazionali e costituente quella “forma” della Repubblica insuscettibile di riforma costituzionale fino al momento in cui la collettività non decida di dotarsi di un patto costituzionale integralmente nuovo (79) P. Donati, Le “famiglie di fatto” come realtà e come problema sociale oggi in Italia, in La famiglia, 1990, n. 139, 3 - 20.
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è la strutturale preordinazione alla stabilità socio-ordinamentale di certi centri di aggregazione superindividuale, tra cui la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, che richiede di valorizzare il ruolo di tali centri in sede di configurazione del tributo sul reddito (80) nel senso indicato nell’introduzione del par. 3. e nel precedente par. 3.1., ossia introducendo strumenti come detrazioni, deduzioni, sgravi e forme di splitting o quoziente familiare. Ciò detto, appare chiaro che i predetti elementi di giuridica preordinazione alla stabilità, rilevanti ai fini del riparto e da valorizzare in sede di configurazione della imposta sul reddito in virtù della struttura del presupposto di essa, ricorrono per la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio ai sensi dell’articolo 29 della Costituzione e non ricorrono per le coppie di fatto e per le unioni civili. Invero, mentre la preordinazione alla stabilità continua ad essere un elemento costitutivo del matrimonio (81), che la Corte Costituzionale correttamente qualifica per definizione come “stabile istituzione sovraindividuale” (82), essa non solo non lo è per coppie di fatto e unioni civili ma, anzi, è il più caratteristico elemento strutturale
(80) Il valore della preordinazione alla stabilità è a questo fine ritenuto essenziale anche da A. Fedele, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, cit., 2182, il quale, dimostrata la razionalità della considerazione unitaria della famiglia ai fini delle imposte sui redditi, si chiede se “anche per le cd. famiglie illegittime non possono dirsi sussistere i motivi addotti a giustificazione” degli istituti giuridici necessari a rendere operativa tale unitarietà, e conclude che è ragionevole “considerare il matrimonio come indice della sicura volontà di attribuire alla convivenza quei caratteri di stabilità e di reciproca fiducia e cooperazione sui quali si fonda la gestione unitaria dei redditi”, preordinazione che invece non è ragionevole ritenere sussistente per altre forme di coabitazione. Motivatamente contrario a ogni forma di assimilazione fra famiglia e aggregati “di occasionali e slegati conviventi” si era già mostrato G. Zingali, La famiglia nella Costituzione e nella riforma tributaria, cit., 712. (81) E. Giacobbe, Il matrimonio e la famiglia, cit., 16 ss.; A. Donati, La famiglia tra diritto pubblico e diritto privato, Padova, 2004, 248 ss.; F. Vari, Contributo allo studio della famiglia nella Costituzione Italiana, cit., 50 ss.; Id., Il soliloquio del giudice a Babele, cit., par. 4; C. Esposito, Famiglia e figli nella Costituzione italiana, in Aa.Vv., Studi in onore di A. Cicu, Milano, 1951 e in Id., La Costituzione italiana. Saggi, Padova 1954, 140, ove si parla di “stabilità come esigenza inderogabile del vincolo matrimoniale”; A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1998, 251. (82) Corte Cost., sent. n. 8 del 1996; nello stesso senso Corte Cost., sent. n. 310/1989 e n. 352/2000. Il fatto che l’istituto del divorzio non abbia compromesso la valenza di intrinseca preordinazione alla stabilità che l’ordinamento costituzionale attribuisce alla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio è fin dagli inizi stato riconosciuto anche da parte della giurisprudenza (cfr., già negli anni successivi all’introduzione del divorzio, Corte Cost., sent. n. 181/1976; Cass., sent. n. 3828 del 1975 e sent. n. 1194 del 1974, in Giust. civ., 1974, I, 995).
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differenziale tra esse e la famiglia fondata sul matrimonio. Infatti, a differenza di quanto generalmente ritenuto, il regime giuridico di coppie di fatto e unioni civili è già allo stato attuale – senza necessità di attendere forme di tutela e promozione legislativa – pressoché identico a quello della famiglia fondata sul matrimonio per una larga maggioranza dei profili giuridicamente rilevanti, dall’assistenza medica ospedaliera alla tutela assicurativa. Gli unici elementi differenziali, a parte quelli relativi alla filiazione nel caso di unioni civili tra persone dello stesso sesso, evidenti ma non direttamente rilevanti ai fini del discorso che si sta svolgendo in questa sede, derivano dal fatto che coppie di fatto e unioni civili sono strutturalmente, sociologicamente e ordinamentalmente prive di quella preordinazione alla stabilità (83) la quale, invece, ha sempre caratterizzato e tuttora caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio costituzionalmente promossa.
(83) Il discorso appare auto-evidente per le coppie di fatto (sul punto cfr., per tutti, F. Vari, Contributo, cit., passim, specie 102 ss. e 118), che per loro natura possono dissolversi immediatamente in ogni momento e senza alcuna conseguenza giuridicamente apprezzabile (altro, naturalmente, è il piano dei permanenti doveri dei genitori verso i figli, sicuramente connotato al massimo livello del carattere di stabilità e del quale deve naturalmente essere tenuto conto sul piano fiscale a prescindere dalla forma di legame che avvince i genitori: cfr. F. Vari, Contributo allo studio della famiglia nella Costituzione italiana, cit., 19), ed è incontestatamente dimostrato da studi scientifici per i rapporti omosessuali, avvinti o meno da legami di unione civile che riproducano in tutto o in parte la disciplina del matrimonio in punto di modalità e conseguenze giuridiche dello scioglimento. I primi studi condotti da ricercatori omosessuali negli anni Ottanta negli Stati Uniti d’America hanno chiarito che su 156 coppie omosessuali esaminate soltanto sette avevano avuto una relazione esclusiva, ma comunque nessuna di durata superiore a cinque anni (D.P. McWhirter - A.M. Mattison, The male couple. How relationships develop, Englewood Cliffs USA, 1984, 252; ancor più emblematici i dati dello studio di A.P. Bell - M.S. Weinberg, Homosexualities: A study of diversity among men and women, New York USA, 1978): più di recente, uno studio olandese ha accertato che le relazioni tra omosessuali hanno una durata media di un anno e mezzo, anche a seguito dell’introduzione di forme di promozione pubblica come i matrimoni fra persone dello stesso sesso (M. Xiridou - R. Geskus - J. Wit, The contribution of steady and casual partnerships to the incidence of HIV infection among homosexual men in Amsterdam, in 17 AIDS 2003, 10091038). Più in generale sul tema cfr. S. Girgis - R. George - R. Anderson, What is marriage?, in 34 Harvard Journal of Law and Public Policy (2010), 245 ss., da poco tradotto in italiano a cura di M.M. Giungi, Che cos’è il matrimonio?, Milano, 2015; W.R. Schumm, Comparative Relationship Stability of Lesbian Mother and Heterosexual Mother Families: A Review of Evidence, in 46 Marriage & Family Review (2010), 499-509; M. Regnerus, How different are the adult children of parents who have same-sex relationships? Findings from the New Family Structures Study, in 41 Social Science Research (2012), 752-770; D.P. Sullins, Emotional Problems among Children with Same-Sex Parents: Difference by Definition, in British Journal of Education, Society, and Behavioural Science, 2015, 99 ss.
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Le considerazioni sopra svolte non tolgono, ovviamente, che nei singoli casi concreti possano esservi contaminazioni di fatto tra le diverse forme aggregative, ossia famiglie fondate sul matrimonio i cui membri in concreto non si occupano stabilmente della soddisfazione delle reciproche esigenze personali, e coppie di fatto o unioni civili in cui, per converso, i membri si assistono in modo del tutto stabile e analogo, sotto questo profilo, al paradigma giuridico del matrimonio. Va tenuto conto, tuttavia, che il fenomeno giuridico prevede strutturalmente il compimento di scelte e l’individuazione di forme di categorizzazione che implicano generalizzazioni e tipizzazioni, altrimenti ricadendosi in una forma di normazione casistica che non può considerarsi rientrare nel concetto di diritto e di ordinamento giuridico (84). E, su questo presupposto, va preso atto che la Costituzione italiana ha inteso riconoscere un certo ruolo soltanto a determinate tipologie di aggregazione (nella specie, la famiglia naturale fondata sul matrimonio) e “potenziare certe forme sociali a scapito delle più spontanee forme di iniziativa individuale”, ponendo a tutela delle prime “la forza di resistenza opposta dalla natura delle cose” (85).
(84) Su questo aspetto, in generale, F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2015, 211 ss. e 347 ss. Con specifico riguardo all’art. 29, in merito alla “temuta cristallizzazione di un modello storicamente dato di famiglia, … non si dubitò, in quella sede essere compito della Costituzione creare punti fissi che rappresentassero la base di eventuali ulteriori sviluppi costruttivi”: così E. Giacobbe, Il matrimonio e la famiglia, cit., 2-3, con riferimento a G. Dossetti, intervento nella seduta della Adunanza Plenaria del 15-01-1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, VI, Roma, 1971, 101, conclude esattamente che, “nonostante le trasformazioni avutesi nel contesto sociale, debba, a tutt’oggi, riconoscersi l’esistenza di un unico modello normativo di famiglia, espressione di un valore ancora caratterizzante il nostro ordinamento costituzionale”. Nello stesso senso cfr. anche S. Stammati, op. cit., 272. Sull’argomento cfr., per tutti, A. Trabucchi, Pas par cette voi s’il vous plait, in Riv. dir. civ., 1981, I, 329; Id., E così la famiglia conserva ancora un valore nell’ordine civile!, in Riv. dir. civ., 1980, II, 234; Id., Natura, legge, famiglia, in Riv. dir. civ., 1977, I, 1; Id., Matrimonio e divorzio, in Riv. dir. civ., 1971, I, 1 ss.; G. Giacobbe, Famiglia: molteplicità di modelli o unità categoriale?, in Dir. famiglia, 2006, 1219; Id., La famiglia dal codice civile alla legge di riforma, in Dir. famiglia, 1999, 242 ora in Id., La famiglia nell’ordinamento giuridico italiano, Torino, 2006, 1 ss.; Id., Il modello costituzionale della famiglia nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. civ., 2006, I, 481; Id., Famiglia e DICO: una impossibile convivenza, in Legalità e giustizia, 2006, 191. La posizione è stata costantemente condivisa dalla giurisprudenza costituzionale (sentt. nn. 71/1966, 79/1969, 237/1986, 644/1988, 310/1989, oltre alle pronunce più recenti esaminate nelle note successive). (85) Così A. Moro, Le funzioni sociali dello Stato, in Quaderni di Iustitia, 1953, 40 ss.: tale forza di resistenza, come si dirà infra, si sostanzia (S. Stammati, op. cit., 272) nella fissazione di “limiti insuperabili non solo dall’intervento legislativo dello Stato, ma anche dallo
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Tali scelte costituenti, che come dimostrato nel precedente par. 1 attengono ai principi supremi (86) e, come tali, sono tra l’altro sottratte
stesso intervento del potere di revisione costituzionale”, poiché la Costituzione ha inteso fissare “un valore giuridico di resistenza e conservazione della famiglia, la cui importanza si mostrava senza alcun dubbio primaria ed essenziale”. In senso analogo, anche P. Barile, La famiglia di fatto: osservazioni di un costituzionalista, in Aa.Vv., La famiglia di fatto, Montereggio, 1977, 44 afferma che “i costituenti intesero famiglia e matrimonio come un’endiadi, perché vollero che la tutela costituzionale proteggesse il gruppo sociale nascente dalla società naturale rivestita, per così dire, dalla forma del matrimonio”. (86) Rinviandosi, più in generale, alle considerazioni illustrate nel precedente par. 1 anche relativamente al fatto che le scelte in cui si traducono i principi supremi sono immodificabili a costituzione vigente, si osserva che l’attinenza dell’art. 29 ai principi supremi della Costituzione è riconosciuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza che si è occupata dell’argomento. In dottrina, si considerino per tutte le riflessioni del padre costituente C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 1165, il quale ha chiaramente osservato che, “vincolando in tal modo il legislatore a conservare l’assetto familiare qual è apprezzato tradizionalmente dalla coscienza comune del nostro popolo”, nell’art. 29 Cost. “il richiamo alla ‘società naturale’ vuole significare non già un rinvio ad un diritto extrastatuale bensì affermazione del limite posto alla revisione, la quale non potrà alterare la struttura fondamentale dell’istituto familiare”. Al riguardo, è solo il caso di ribadire che un certo grado di rigidità e fissità dei principi supremi costituisce elemento imprescindibile per l’individuazione di un nucleo essenziale di valori supremi dell’ordinamento nazionale, la cui modificazione implica la modificazione della stessa identità nazionale (sul punto cfr. M. Cartabia, op. cit., 155-158, 166-174, 196): ovviamente, la rigidità più assoluta attiene unicamente al “nucleo essenziale” dei principi supremi e non a ogni minimo dettaglio della disciplina di essi (così Corte Cost., sent. n. 18/1982 e sent. n. 366/1991). In questa prospettiva, con riferimento al principio della tutela e promozione della famiglia, la Corte Costituzionale (sent. n. 138 del 2010, definitivamente confermata da tutta la giurisprudenza successiva, tra cui cfr. ord. n. 276/2010 e ord. n. 4/2011) è stata chiara nell’affermare che, pur essendo “vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere ‘cristallizzati’ con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi”, la interpretazione evolutiva “non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata”, dovendosi a tal fine ribadire “che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto”, basato sull’elemento essenziale che “i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso”. La diversità di sesso dei coniugi, in altre parole, rappresenta secondo la Corte Costituzionale uno dei nuclei fondamentali e imprescindibili (e, come tale, immodificabile anche da parte di ordinamenti esterni e di leggi costituzionali) di quella famiglia la cui promozione il patto costituzionale della Nazione individua come un principio supremo dell’ordinamento (conformi, fra i molti, E. Giacobbe, Il matrimonio e la famiglia, cit., 12; F. Vari, Il soliloquio del giudice a Babele, cit., par. 5; P. Schlesinger, Una risoluzione del parlamento europeo sugli omosessuali, in Vita e pensiero, 1994, 252). Tutto ciò “in coerenza con la concezione del matrimonio afferente alla millenaria tradizione giuridica e culturale
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all’influenza di ordinamenti esterni (87) poiché rappresentano un tratto strutturale dell’identità e della sovranità nazionale (88), richiedono di essere
dell’istituto, oltre che all’ordine naturale costantemente inteso e tradotto nel diritto positivo come legittimante la sola unione coniugale tra un uomo e una donna”, essendo “la diversità di sesso dei nubendi ... connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio” (così, da ultimo, Cons. St., sez. III., n. 4899/2015, nel ribadire che l’identità di sesso dei nubendi rende in Italia tecnicamente “inesistente” un matrimonio, ancorché contratto all’estero, “vertendosi in una situazione di un atto mancante di un elemento essenziale della sua stessa giuridica esistenza”). D’altra parte, è evidente e in definitiva da nessuno negato che i Costituenti, quando hanno inserito il concetto di “naturale” nella formulazione dell’art. 29, intendessero implicitamente escludere le unioni fra persone dello stesso sesso, alle quali al tempo veniva diffusamente operato riferimento come rapporti “contro natura” (cfr., ad esempio, l’art. 425 del codice penale sardo, recepito nel primo codice penale del Regno d’Italia applicato fino al 1889; in giurisprudenza, per tutte, Cass. Torino, in Riv. pen., 1884, 493; il termine “contro natura” ha continuato ad essere pacificamente utilizzato nel linguaggio giuridico anche in seguito, cfr. ad esempio A. Dalla Volta, Una associazione a delinquere nel reato di violenza carnale contro natura, in Zacchia - Rass. stud. med. leg., VIII, 1929, 1 ss.) e comunque del tutto irrazionali (si leggano, ad esempio, le parole del fondamentale manuale di C. Aubry - C. Rau, Corso di diritto civile francese secondo di metodo dello Zachariae largamente ampliato e completamente rifuso, versione italiana a cura di L. Landucci, II, Torino, 1900, 610, ove si qualifica come “ridicolo chi, dato un apparente matrimonio tra persone d’egual sesso, lo sostenesse valido finché alcuna di esse o la pubblica autorità non lo impugnasse”). (87) Anche questo altro elemento, consustanziale ai principi supremi dell’ordinamento, è stato evidenziato dalla Corte Costituzionale italiana con la sentenza n. 138 del 2010, la quale ha evidenziato che anche le convenzioni internazionali alle quali l’Italia ha aderito “non impon(gono) la piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna”. Nello stesso senso anche Cons. St., sez. III., n. 4899/2015, il quale ha chiarito come il profilo in esame “attiene, in via esclusiva, alla sovranità nazionale” e, conseguentemente, che qualsivoglia pronuncia di organi giudicanti sovranazionali come Corte UE e CEDU “non vale, in ogni caso, a superare l’infrangibile ostacolo dell’art. 29 Cost.”. (88) Cfr., per tutti, M. Cartabia, op. cit., 212. Il profilo in esame incide anche sulla utilizzabilità degli argomenti comparatistici, poiché una corretta comparazione deve tener conto dei limiti che necessariamente si incontrano a fronte di principi supremi differenti nei diversi contesti nazionali: come osservato dalla migliore dottrina (M. Cartabia, op. cit., 6 nota 7), infatti, se molti patti costituzionali prevedono un trattamento privilegiato e rafforzato per alcuni principi costituzionali individuati come fondamentali e supremi, “ciò nondimeno le caratteristiche dei valori privilegiati non sono affatto identiche negli ordinamenti richiamati. La comparazione deve perciò essere particolarmente prudente su questo punto, perché la ‘posizione privilegiata’ di alcuni valori costituzionali può avere significati differenti nei diversi ordinamenti”. Ciò è quanto si è visto avvenire proprio in materia di tutela della famiglia, poiché la situazione nazionale italiana ha sul punto da sempre manifestato caratteri di strutturale diversità rispetto a quella degli altri Paesi dell’Europa occidentale e atlantica nello sviluppo della realtà familiare. La tematica è esaminata da F. Vari, Contributo allo studio della famiglia nella Costituzione Italiana, cit., 108 ss. e da E. Giacobbe, Il matrimonio e la famiglia, cit., 8-9, la quale individua il dato maggiormente significativo in tal senso, oltre all’aspetto della
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valorizzate quando ricorrano elementi differenziali ritenuti essenziali dalla stessa Carta Fondamentale. E, come si è visto, ciò è quanto avviene per la materia oggetto di esame nel campo della imposizione sui redditi laddove, per un verso, gli istituti i quali valorizzano come unitaria e promuovono una certa entità soggettiva poggiano sul presupposto essenziale che essa rappresenti un centro strutturalmente preordinato a una stabilità socialmente e giuridicamente rilevante erga omnes, e, per altro verso, tale elemento è ritenuto dall’ordinamento costituzionale sussistente nella sola aggregazione caratterizzata dalla diversità di sesso dei suoi fondatori e astretta da vincolo matrimoniale e non in altre fattispecie. Da ciò consegue che gli istituti dell’IRPEF i quali valorizzano la famiglia come centro unitario e quelli che la promuovono in materia di imposte sui redditi (in specie, il diritto alla detrazione per coniuge o affine a carico, le altre misure di contorno che, riferendosi ai “familiari”, comprendono anche il coniuge e gli affini entro il secondo grado ex art. 5, comma 5 del TUIR come rilevato alla precedente nota 66, nonché, in prospettiva de iure condendo, splitting familiare o altri istituti similari) non possono essere applicati o estesi per legge, a costituzione vigente, alle altre aggregazioni superindividuali menzionate, altrimenti venendosi a trattare in modo uguale situazioni differenziate con conseguente violazione del principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 Cost. (89). Del resto, la circostanza che la
celebrazione e a quello della indissolubilità che venne confermato dal codice civile del 1865 a differenza di quanto avvenuto negli altri Paesi dell’Europa occidentale, nel ruolo giuridicamente rilevante da sempre attribuito alla donna, “considerandosi la moglie non ischiava ma compagna dell’uomo”. Da ciò consegue che indicazioni in senso contrario alle conclusioni tratte nel testo non possono essere correttamente ricavate da argomenti di comparazione con realtà nazionali diverse come quelle francese, tedesca, spagnola, statunitense o affini. (89) L’aspetto è già stato sottolineato con chiarezza dalla Corte Costituzionale (sent. n. 138 del 2010): “in questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”. In modo esplicito, F. Vari, Il soliloquio del giudice a Babele, cit., par. 2, afferma che “la Costituzione non solo consente, ma altresì impone al legislatore di istituire un regime speciale a favore della famiglia, diverso da quello comune”; L. Violini, Il riconoscimento delle coppie di fatto: praeter o contra constitutionem?, in Quad. cost., 2007, 392 ss. Le considerazioni svolte nel testo in ordine all’IRPEF valgono, per identici motivi, anche per gli istituti di carattere previdenziale, come la reversibilità delle pensioni: anche tali istituti, infatti, poggiano su una valutazione di perordinazione alla stabilità che la Costituzione ha riservato alla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
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Corte Costituzionale abbia specificamente affermato che coppie omosessuali e di fatto possano trovare cittadinanza nell’ordinamento soltanto per il tramite dell’art. 2 Cost. rende evidente il fatto che, sul piano tributario, non possano essere adottati istituti volti a valorizzare le medesime come nucleo unitario: infatti, l’art. 2 Cost. è volto alla tutela del singolo anche nell’ambito delle formazioni, e non specificamente a quella della formazione sociale (90). Si può concludere, pertanto, che il principio di eguaglianza, il quale richiede di trattare in modo differenziato situazioni differenti in modo tale da tener conto dei profili di diversità giuridicamente rilevanti, rende necessaria la differenziazione nei termini anzidetti del regime fiscale della famiglia fondata sul matrimonio rispetto a quello delle coppie di fatto o delle unioni civil (91).
(90) E. Giacobbe, Il matrimonio e la famiglia, cit., 14; G.B. Ferri, Persona umana e formazioni sociali, in Iustitia, 1977, 71. La pronuncia della Corte Costituzionale richiamata nel testo è la già citata sent. n. 138 del 2010, la quale si pone sul punto sulla scia di un orientamento del tutto univoco nella giurisprudenza della Corte, da sempre chiara nell’affermare che solo nel matrimonio l’ordinamento è chiamato ad attribuire “rilievo alle esigenze della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale”, mentre negli altri casi il rilievo rimane pur sempre attribuito alla “soggettività individuale dei conviventi” (così Corte Cost., sent. n. 8 del 1996; nello stesso senso le sentt. n. 310 del 1989 e n. 2 del 1998). (91) In altre parole, e a scanso di equivoci, dalla dimostrazione svolta nel testo discende che ad essere costituzionalmente illegittima per violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione sarebbe una norma di legge che estendesse anche alle coppie di fatto o alle unioni civili il regime fiscale ai fini IRPEF della famiglia fondata sul matrimonio costituzionale (in particolare, detrazioni, splitting familiare e istituti affini), e non una norma di legge che preveda (come imperfettamente fa l’odierno art. 12 del TUIR) per la sola famiglia fondata sul matrimonio un regime IRPEF di detrazioni, deduzioni, quoziente e simili non applicabile alle coppie di fatto e alle unioni civili. Si tenga conto, inoltre, che a fronte di un contesto di particolare scarsità delle risorse da parte della collettività nazionale e delle preclusioni costituzionali all’indebitamento (art. 81 Cost.), l’alleggerimento del carico impositivo verso centri di aggregazione soggettiva diversi da quelli costituzionalmente tipizzati e promossi determinerebbe inevitabilmente la sottrazione di risorse scarse dalla disponibilità di altri centri di imputazione (più in generale, sui pregiudizi che arrecherebbe alla famiglia tutela dalla Costituzione la promozione anche di coppie di fatto e unioni civili fra persone dello stesso sesso cfr. F. Vari, Contributo allo studio della famiglia nella Costituzione Italiana, cit., 98; A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, I, Padova, 2003, 16 ss.): conseguentemente, almeno fino al momento in cui la collettività non sia stabilmente in una condizione di surplus di risorse a disposizione (condizione legata, tra l’altro, alla soluzione del problema del debito pubblico), l’estensione dell’attribuzione (diretta o indiretta) di risorse scarse a centri di aggregazione soggettiva che il patto fondamentale ritiene dotati di un livello di promozione e tutela inferiore a quello previsto per altre tipologie di centri, tra cui la famiglia, contrasterebbe anche sotto questo ulteriore profilo con il patto fondamentale, specie laddove l’attribuzione di tali risorse a centri di aggregazione promossi dalla Costituzione sia giustificato dalla presenza in questi utlimi di elementi essenziali – come si è visto avvenire per le misure necessarie in materia di imposte sui
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3.3. Possibile valorizzazione dei rapporti non matrimoniali per taluni diversi aspetti . – Le considerazioni sopra svolte si riferiscono essenzialmente a quegli aspetti del regime fiscale della famiglia (detrazioni, deduzioni, quoziente o splitting e simili) i quali direttamente si connettono al versante estrinseco e soggettivo del principio di capacità contributiva, posto in correlazione con gli elementi fondanti del presupposto del tributo sul reddito e con la preordinazione a una stabilità socio-giuridicamente rilevante dell’assunzione, da parte del centro aggregativo superindividuale, del ruolo di soddisfare esigenze personali che altrimenti ricadrebbero sull’intera collettività. Laddove, invece, tale preordinazione alla stabilità non costituisca elemento fondativo degli istituti considerati, i principi supremi dell’ordinamento costituzionale non ostano alla valorizzazione anche ai fini dell’imposta sul reddito di forme aggregative superindividuali diverse dalla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio tipizzata dalla Costituzione Repubblicana. Tra questi istituti giuridici, possono essere ricompresi molti di quelli attinenti alla fase accertativa come ad esempio l’accertamento sintetico ex art. 38, comma 5 del d.P.R. n. 600/1973 (così come modificato dall’art. 22 del d.l. n. 78/2010 e attuato dal D.M. 24 dicembre 2012) e gli accertamenti basati sulle risultanze dei conti correnti bancari (92). Concentrando l’attenzione su questi ultimi, va infatti ricordato che la fissazione a livello legislativo del presupposto e della base imponibile del tributo si traducono nella delineazione di fattispecie alla ricorrenza delle quali si produce in capo a un determinato soggetto l’effetto costituito dalla nascita dell’obbligazione tributaria. Affinché tale effetto giuridico possa portare nella realtà le concrete modificazioni che ne costituiscono il contenuto, e che sono rappresentate da quell’obbligatorio trasferimento di risorse scarse prescindente da un rapporto sinallagmatico in cui si sostanzia il tributo, è necessaria in un ordinamento complesso come quello odierno la previsione di ulteriori fattispecie volte alla scoperta e “rappresentazione” dell’effettivo modo di
redditi – che altre forme aggregative non hanno. (92) Si vedano, in proposito, le pagine di A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, II, cit., 158-194. Riguardo agli accertamenti sintetici, la capacità reddituale complessiva del nucleo aggregativo è confermata anche dalla Direttiva dell’Agenzia delle Entrate n. 14 del 2014. Riguardo agli accertamenti cd. “bancari”, l’estensione dell’ambito accertativo e giustificativo ai componenti delle forme aggregative superindividuali è ormai prassi costante (cfr., ad esempio, circ. n. 2/E/2006), nonostante susciti più di una riserva sul piano concettuale.
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essere della verificazione dell’effetto stesso (93). Tale “rappresentazione” può avvenire anche mediante meccanismi inferenziali tipizzati come le presunzioni legali o il redditometro, cui il contribuente può replicare dimostrando che la ricostruzione dell’ente accertatore non individua la verificazione di un effetto obbligatorio reddituale poiché i dati di partenza di tale raffigurazione non corrispondono a presupposti che l’ordinamento considera suscettibili di produrre obbligazioni tributarie nel quadro dell’imposizione sui redditi. Come noto, un importante argomento di possibile replica in tal senso può essere quello volto a dar rilievo alla circostanza per cui sono le aggregazioni superindividuali in cui il contribuente è inserito a giustificare situazioni (come movimentazioni bancarie o tenore di vita) non strettamente coerenti con la situazione reddituale della singola persona oggetto di accertamento. Ebbene, in questa prospettiva emerge come anche aggregazioni superindividuali non caratterizzate dalla preordinazione alla stabilità possano dar corso a condivisioni reddituali e patrimoniali che consentono a un membro dell’aggregazione di appoggiarsi a un altro per la contingente soddisfazione di proprie esigenze (94). Sotto questo profilo, infatti e già a legislazione vigente, è doveroso tener conto di quella multiforme varietà di situazioni fattuali che possono in concreto verificarsi a prescindere dalla stabilità socio-ordinamentale del contesto in cui ciò si presume avvenire. Invero, in questo frangente non assume rilievo l’affidamento che la collettività ripone in determinate aggregazioni in punto di stabile soddisfazione delle esigenze dei propri membri, come invece avviene per istituti quali detrazioni, splitting e affini, ma il fatto concreto che, in alcune circostanze inevitabilmente rimesse alla prova da ricercare caso per caso, tale condivisa soddisfazione possa esservi anche al di fuori di forme tipizzate dall’ordinamento come intrinsecamente preordinate alla stabilità. Allo stesso modo, ai fini della configurazione di eventuali ipotesi di abuso di diritto, le considerazioni che possono essere
(93) F. Farri, Forma ed efficacia, cit., 463 ss. e 893 ss. (94) Così come può non esservi gratuità all’interno della famiglia fondata sul matrimonio. In questa prospettiva, appare coerente la decisione – pur attinente a un diverso comparto impositivo – della Corte Costituzionale n. 41 del 1999, su cui cfr. M. Cantillo, La dichiarazione di illegittimità costituzionale della presunzione assoluta di liberalità dei trasferimenti immobiliari fra congiunti: osservazioni sulla portata e sulle conseguenze di una sentenza discutibile nella motivazione, in Rass. trib., 1999, 1172 ss.; M.C. Fregni, In tema di regime fiscale dei trasferimenti immobiliari tra coniugi e tra parenti in linea retta: la Corte Costituzionale “declassa” la presunzione di gratuità da assoluta a relativa, in Giur. it., 1999, 2189 ss.
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svolte nella ricorrenza dei presupposti di legge e con il dovuto equilibrio con riferimento alla famiglia (95) valgono anche, e anzi a maggior ragione vista la minor rilevanza ordinamentale dell’interesse sostanziale extratributario di cui sono latrici, per altre tipologie di aggregazioni superindividuali. 4. La famiglia nelle imposte sui consumi e sui trasferimenti. – Spostando l’attenzione sulle altre imposte che l’ordinamento disciplina come caratterizzate in modo meno marcatamente ispirato a quella considerazione globale della situazione del soggetto che costituisce il proprium delle imposte cd. “dirette”, possono in questa sede essere esaminate (96) le imposte caratterizzate da un presupposto legato al consumo e le imposte caratterizzate da un presupposto legato al trasferimento di cespiti. Per quanto attiene alle prime, al cui novero possono – ai fini rilevanti in questa sede – ricondursi l’imposta sul valore aggiunto, i tributi doganali, le imposte di fabbricazione e consumo o accise e i monopoli fiscali, la considerazione del rilievo centrale della famiglia nel quadro del sistema di riparto assume caratteri semplificati (97) rispetto a quanto sopra illustrato per l’imposizione sui redditi. Ciò dipende anzitutto dal fatto che, allo stato attuale, questi tributi non prevedono forme di imposizione progressiva che rendano economicamente rilevante il problema della considerazione della famiglia nel suo complesso, anziché dei suoi singoli membri, come centro di imputazione unitario di posizioni tributarie; inoltre, ciò dipende dalla circostanza che la famiglia e i suoi membri, in queste vicende, si pongono generalmente come soggetti passivi in senso soltanto economico (quali destinatari della traslazione dell’onere economico di imposte al cui versamento sono tenuti i cedenti di beni o i prestatori di servizio), e non in senso giuridico di titolarità di obbligazioni patrimoniali o personali nei confronti degli enti pubblici. In questa condizione, pertanto, la necessità di valorizzazione della famiglia può
(95) Peraltro, la particolare diffidenza con cui l’amministrazione finanziaria guarda ai rapporti familiari, considerandoli come facili nidi di elusione, rappresenta un indice del disfavore dell’ordinamento verso la famiglia e, come tale, merita di essere valutata negativamente: sul punto A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, II, cit., 194-225. (96) Tributi come l’IRAP non possono venire in rilievo in relazione alla famiglia, ma assumono rilievo confermativo della necessità di interpretare il principio di capacità contributiva in un modo ampio e che permette di giungere alle conclusioni sopra esposte per la famiglia nelle imposte sui redditi. (97) Il minor grado di personalizzazione dei tributi sui consumi è posto in evidenza anche da R. Schiavolin, La capacità contributiva. Il collegamento soggettivo, cit., par. 4.
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tradursi essenzialmente nella previsione di trattamenti economici di favore (ad esempio, in punto di modulazione delle aliquote) dei consumi familiari o dei beni generalmente legati a un consumo in ambito familiare. Anche per quanto attiene al secondo ordine di imposte sopra considerate, al cui novero possono in questa sede ricondursi – sebbene con un certo grado di approssimazione – i tributi ispirati al modello dell’imposta di registro (imposta di registro, imposta ipotecaria e imposta catastale), l’imposta sulle successioni e sulle donazioni e l’imposta di bollo, l’assenza di meccanismi di progressività del prelievo limita il problema della considerazione della famiglia come centro di imputazione unitario dei rapporti tributari e pone al centro dell’esigenza di valorizzazione della famiglia la necessità di introduzione di istituti di favore legati alla scelta della misura fissa o proporzionale dell’imposizione e alla modulazione delle aliquote in questo ultimo caso. Al riguardo, tuttavia, meritano di essere svolte alcune considerazioni ulteriori e differenziate rispetto a quelle sopra illustrate per le imposte legate al consumo. Il primo ordine di considerazioni discende dalla particolare strettezza del legame che avvince questa tipologia di tributi con gli istituti civilistici che producono gli effetti di trasferimento che il legislatore tributario assume come presupposto dell’imposizione. Tale strettezza di legami giuridici comporta una minore flessibilità nel compimento di quelle valutazioni di “contabilità sociale” che presuppongono un discostamento tra dimensione economico-sociale e dimensione strettamente giuridica (98) e che risultano, invece, possibili in materia di imposte dirette (99) o in materia di imposte sul consumo (100). Ciò è conseguenza del carattere tipicamente “reale” delle imposte sui trasferimenti (101) e incide in modo essenziale sulla possibilità
(98) In tal senso sembrano da intendersi anche le considerazioni di A. Fedele, Profilo fiscale del patto di famiglia, in Riv. dir. trib., 2014, 526 ss., specie par. 1. (99) Si pensi allo splitting o al quoziente familiare, che può anche essere configurato in modo tale incidere unicamente sulla commisurazione del tributo senza incidere sulla permanenza di obblighi tributari formali distinti in capo ai singoli membri della famiglia, senza bisogno di ascrivere la famiglia al novero dei soggetti passivi IRES. Sul fatto che “i criteri di individuazione dei soggetti passivi nella imposta personale sul reddito diverso da quello fondato sulla ‘titolarità giuridica’ del reddito medesimo possono porsi, in ordine alla ratio delle norme relative, sul medesimo piano di quest’ultimo” cfr. A. Fedele, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, cit., 2166. (100) A. Fedele, Imposte reali ed imposte personali, cit., 455. (101) Come esattamente osservato da A. Fedele, Imposte reali ed imposte personali nel sistema tributario italiano, cit., 455, 459 e 463, infatti, “è la particolare configurazione della fattispecie imponibile” che caratterizza le imposte personali che “influenza, in certo qual modo,
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di valorizzare la famiglia come centro di imputazione unitario di rapporti tributari anche in quei casi in cui tale valorizzazione potrebbe in astratto avvenire. Fermo restando che, nei rapporti con terzi, il problema della valorizzazione unitaria della famiglia ai fini del presupposto delle imposte sui trasferimenti appare tendenzialmente sterilizzato visto il carattere non progressivo di queste imposte (102), tale concezione unitaria potrebbe infatti venire astrattamente in rilievo in caso di trasferimenti di cespiti tra membri della famiglia: sennonché, per quanto attiene ai tributi modellati sullo schema dell’imposta di registro, in tutti i casi in cui detto trasferimento tra membri della famiglia richieda civilisticamente la formazione di un atto scritto, a motivo della permanente autonomia di capacità giuridica dei membri stessi anche dopo la formazione della famiglia (situazione che si è vista in certa misura superabile ai fini dell’imposta sul reddito alla luce della peculiare conformazione del presupposto di essa), sono inevitabili sia la constatazione della ricorrenza del presupposto applicativo delle imposte sia l’individuazione dei soggetti passivi (in senso sia giuridico che economico) nelle parti dell’atto, nonostante esse siano membri di una stessa famiglia. La valorizzazione in questa prospettiva del legame familiare, invece, dovrebbe essere garantita sul piano degli strumenti civilistici (come ad esempio inizia ad avvenire in relazione ad istituti come il patto di famiglia o il fondo patrimoniale) e comunque tramite la previsione di imposte in misura fissa o di aliquote ridotte in caso di trasferimenti endofamiliari o propedeutici
gli stessi criteri definitori della soggettività passiva, tra i quali sembra talvolta assumere un maggior peso l’attitudine alla diretta fruizione di posizioni di vantaggio, rispetto alle quali le situazioni giuridiche a contenuto patrimoniale risultano solo strumentali”: ciò, invece, non avviene per i tributi reali. Infatti, caratteristica strutturale dei tributi personali è l’avvicinamento di una serie di indici di capacità contributiva differenti ma tutti riconducibili a una medesima categoria unitaria talché “la loro rilevanza possa essere complessivamente misurata” (ivi, 455): e in questo accostamento dei presupposti è insita una certa attenuazione del rigore giuridico che non può escludere un pari fenomeno nella identificazione del nucleo soggettivo cui imputare tale approssimato cumulo di presupposti. Niente di tutto ciò avviene, invece, nei tributi reali. (102) A parte il bollo, nel qual caso tuttavia conta strutturalmente la cointestazione del deposito titoli, che individua il centro di imputazione dei rapporti tributari in modo indipendente dal legame familiare che astringa i soggetti contitolari. Sotto questo profilo, pertanto, la tutela e la promozione della famiglia dovrebbe essere attuata mediante riduzione delle aliquote nel caso in cui i contitolari siano familiari, piuttosto che mediante valorizzazione della famiglia come centro di imputazione dei rapporti tributari. Per quanto attiene all’imposta sulle successioni o donazioni valgono le considerazioni svolte nel testo.
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alla costituzione della famiglia (103). Per quanto attiene all’imposta sulle successioni e donazioni, poi, l’autonoma capacità successoria di ciascun membro della famiglia renderebbe complessa la configurazione della famiglia come centro unitario di imputazione dei rapporti tributari anche nel caso in cui il tributo fosse (per ipotesi politicamente discutibile) improntato a criteri di progressività. Anche in questo frangente, pertanto, la valorizzazione del legame familiare deve essere garantita anzitutto sul piano della previsione di esenzioni (come avviene ad esempio per il passaggio interfamiliare gratuito dell’azienda ex art. 3, comma 4-ter del d.lgs. n. 346/1990), di franchigie più elevate e di aliquote ridotte in caso di trasferimenti endofamiliari, preferibilmente incrementando l’efficacia delle previsioni già in essere (104). Per concludere sul punto, merita osservare che, in questa sede, le previsioni di favore nei confronti della famiglia devono ritenersi collegate alla nozione di famiglia costituzionalmente tipizzata e ciò anche nella ipotesi in cui il legislatore ritenesse di estendere ad altre forme di aggregazione superindividuale il regime di successione legittima proprio del sistema matrimoniale. Invero, il trattamento fiscale considerato trova ancora una volta il presupposto, analogamente a quanto osservato nel precedente par. 3.2. e nonostante le possibili differenze tra i due casi, nella preordinazione alla stabilità che è costituzionalmente propria della famiglia e non di altre forme aggregative superindividuali come coppie di fatto o unioni civili. Invero, il trattamento diversificato dei trasferimenti endofamiliari è giustificato, nella imposta di registro o nella imposta sulle donazioni, dalla strutturale funzionalità di essi a una migliore organizzazione delle risorse entro un contesto aggregativo caratterizzato dall’accollo preordinatamente stabile di impegni altrimenti gravanti sulla collettività, situazione che non è consentito ritenere tipicamente ricorrente in contesti non costituzionalmente
(103) Come in passato avveniva ad esempio per le costituzioni di dote, di patrimonio familiare e per le donazioni in riguardo di matrimonio (art. 3 del d.lgt. n. 90 del 1945, che richiamava l’art. 3 del R.D. n. 3269 del 1923), ovvero in occasione del passaggio dal regime di separazione dei beni a quello di comunione legale in caso di riforma del 1975 (art. 228 della l. n. 151 del 1975). Sulla agevolazione prima casa cfr. la successiva nota 107. (104) C. Scalinci, La famiglia ‘community care’ nell’imposizione sul reddito, cit., 880, ad esempio, traccia una sorta di parallalismo della situazione della famiglia con quella delle ONLUS che potrebbe aprire spazi più ampi alle fattispecie di esenzione dei trasferimenti endofamiliari.
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dotati di preordinazione alla stabilità e in relazione ai quali sarebbe anzi più facile piegare il trattamento favorevole a finalità elusive. Analogamente, nel sistema dell’imposta sulle successioni il trattamento diversificato dei trasferimenti endofamiliari è giustificato dalla strutturale funzionalità di essi a garantire la continuazione della disponibilità dei mezzi necessari a far fronte a quella organizzazione del contesto aggregativo preordinato alla stabile soddisfazione di esigenze personali altrimenti gravanti sulla collettività e di cui il membro defunto ha beneficiato quando era in vita: situazione, questa, che non è consentito ritenere tipicamente ricorrente in contesti che la Costituzione non ritiene parimenti preordinati alla stabilità organizzativa. Il secondo ordine di considerazioni da svolgere attiene agli strumenti giuridici che agevolino fiscalmente lo scioglimento della famiglia. Una situazione del genere si verifica allo stato attuale in Italia nel comparto dei tributi cd. indiretti, laddove si rinviene una norma la quale testualmente afferma che “tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o la revisione degli assegni di cui agli articoli 5 e 6 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, sono esenti dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa” (art. 19 della legge n. 74 del 1987). Ora, alla luce delle considerazioni che precedono emerge con chiarezza la contrarietà al patto fondamentale di una norma di questo tipo (105). Anzitutto, la norma è contraria agli articoli 3 e 53 della Costituzione per intrinseca irrazionalità: invero, se l’ordinamento costituzionale ha considerato la famiglia alla stregua di un soggetto nel quale riporre affidamento al fine dell’alleggerimento degli oneri altrimenti ricadenti sulla collettività, non ha senso agevolarne fiscalmente l’interruzione (106). Inoltre, la norma in questione si pone in contrasto con
(105) Sul contesto complessivo della riforma entro la quale la norma in questione si colloca cfr. A. Trabucchi, Un nuovo divorzio: il contenuto e il senso della riforma, in Riv. dir. civ., 1987, II, 129 ss. (106) Correlativamente, la norma è contraria all’articolo 3 Cost. anche nella misura in cui apre la strada a un trattamento fiscale differenziato dei medesimi trasferimenti di cespiti in dipendenza della ricorrenza o meno di un fatto (la sospensione o lo scioglimento dei vincoli familiari) che a tutto concedere non manifesta alcuna rilevanza differenziale ai fini del presupposto del tributo indiretto (ma che, in realtà e come visto, manifesta in realtà una rilevanza differenziale in senso opposto a quello previsto dal legislatore, ossia in termini di necessità di aggravio del prelievo, piuttosto che di riduzione dello stesso).
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l’articolo 31 della Costituzione, che richiede all’ordinamento di agevolare “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia” di cui all’articolo 29 (107), e non lo scioglimento della stessa (108).
(107) A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, II, cit., 3 sottolinea al riguardo la necessità che il legislatore introduca misure di favore per la costituzione della famiglia anche nel settore delle imposte indirette. In proposito, l’agevolazione per l’acquisto della prima casa di abitazione può essere considerata solo indirettamente come una misura di sostegno alla famiglia, risultando applicabile anche a contribuenti non sposati: gli unici aspetti per i quali la famiglia viene tecnicamente in rilievo consistono nella verifica della presenza di altre abitazioni di proprietà nel Comune e di altre abitazioni che hanno beneficiato dell’agevolazione, per un verso, e nella verifica dello stabilimento della residenza nel Comune stesso, per altro verso. Tali aspetti, come evidente, si contrappuntano (determinando, il primo, un trattamento più restrittivo per i coniugi in comunione legale o convenzionale a seconda delle ipotesi e, il secondo, un trattamento estensivo prospettato dalla giurisprudenza nel riferire il concetto di “propria residenza” anche ai familiari: su punto cfr. A. Turchi, op. ult. cit., 93-107), non potendosi quindi considerare la fattispecie in esame una misura tecnicamente a sostegno della famiglia, ma della sola esigenza abitativa di cui all’art. 47, comma 2 Cost. Anzi, se non vi fosse stata l’interpretazione giurisprudenziale del secondo aspetto sopra menzionato (su cui cfr. anche E. Marello, Agevolazione prima casa per i coniugi in comunione legale: necessaria la residenza nel medesimo Comune, nota a Cass., sent. n. 13085/2003, in Fam. e dir., 2004, 261 ss.; M. Greggi, Abitazione principale e requisito di residenza a confronto nella disciplina tributaria di agevolazione del nucleo familiare, in Fam. e dir., 2010, 250), anche la norma in questione avrebbe in definitiva legislativamente penalizzato il matrimonio rispetto ad altre fattispecie, in violazione degli artt. 3, 29 e 31 Cost. (108) Peraltro, trattandosi di disposizione favorevole ai soggetti che ne fanno utilizzo, la questione di costituzionalità della norma stessa risulta processualmente difficile da sottoporre all’esame della Corte: tale difficoltà ha determinato, addirittura, l’estensione dell’ambito applicativo della norma da parte della Corte Costituzionale, oltre a un approccio interpretativo insolitamente estensivo da parte di giurisprudenza e prassi. Ciò non toglie che la questione di costituzionalità della norma in questione possa essere sollevata laddove la stessa sia invocata come tertium comparationis nel caso di impugnazione di atti impositivi relativi a operazioni che sarebbero state esenti nel caso in cui compiute nel contesto di vicende di sospensione o scioglimento della famiglia. Le sentenze della Corte Costituzionale n. 176 del 1992 e n. 154 del 1999, infatti, sono state formalmente delimitate alla questione della estensione delle agevolazioni previste dalla legge per il divorzio anche alla procedura di separazione e non hanno in alcun modo preso in esame la problematica della razionalità del fondamento della norma, con riferimento alla quale viene fugacemente soltanto affermato che alla base vi è una generica “esigenza di agevolare l’accesso alla tutela giurisdizionale” e che tale esigenza si manifesterebbe con “ancor più accentuata evidenza presente nel giudizio di separazione, ove la situazione di contrasto ..., cui occorre dare uno sbocco, esibisce, di regola, toni di ben maggiore asprezza e drammaticità di quelli che essa manifesta nella fase già stabilizzata dell’epilogo divorzile”. Tale motivazione non risulta dirimente, poiché l’esigenza di agevolare l’accesso alla tutela giurisdizionale e l’asprezza e drammaticità delle situazioni sottese all’accesso al giudice sussiste in una infinità di altre situazioni che, invece, non godono di alcune previsione di favore da parte del legislatore tributario. Quanto alla sent. n. 202/2003 valgono considerazioni analoghe, mentre nelle ordd. nn. 298/2005 e 303/2006 la Corte non ha espresso valutazioni di merito essendosi arrestata al livello
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5. Famiglia e diverse forme aggregative nei tributi locali, nelle tasse e nelle prestazioni pubbliche (I.S.E.E.). – Esaurito l’esame dei profili che l’istituto familiare richiede di valorizzare nel contesto delle principali imposte erariali, conviene adesso svolgere alcune considerazioni in ordine alla possibile rilevanza della famiglia e delle diverse forme di aggregazione superindividuale in ulteriori istituti rilevanti ai fini del riparto delle risorse e degli oneri collettivi. Tra questi, una prima considerazione merita di essere svolta relativamente ai tributi locali. Ponendosi nella prospettiva interpretativa di cui ai precedenti paragrafi 2 e 3, emerge come il profilo intrinseco del principio di capacità contributiva valorizzato in queste ipotesi identifichi nella maggior parte dei casi (109) come presupposti dei tributi vicende collegate al fatto stesso della dimora di un certo soggetto in un determinato contesto territoriale, fatto che può essere considerato integrativo del presupposto impositivo in sé e per sé (come avviene nel caso dell’ICI o dell’IMU) ovvero nella misura in cui si pone in relazione con oneri di riparto ad esso direttamente consequenziali (si pensi a TARSU, TIA, TARES, TARI, TASI, attinenti a servizi direttamente connessi alla disponibilità di un immobile nel contesto territoriale). A differenza di quanto sopra visto per il reddito e per i trasferimenti, che si sostanziano in situazioni fattuali che vengono ritenute dall’ordinamento idonee all’insorgenza di obblighi di contribuzione tributaria non soltanto per il fatto in sé che esse rappresentano da un punto di vista statico, ma anche e soprattutto per la progettualità complessiva che in esse strutturalmente ricorre da un punto di vista dinamico (progettualità di compiuto sostentamento, per il reddito; progettualità di organizzazione dei propri mezzi, per i trasferimenti), i fatti indice di capacità contributiva individuati come presupposto della maggior parte dei tributi locali denotano allo stato una attitudine alla contribuzione maggiormente statica e legata al dato fattuale contingente della presenza di un luogo atto alla dimora in un certo territorio (110), come del resto avveniva anche per istituti tradizionali quali l’imposta di famiglia o
della manifesta inammissibilità in rito delle questionni sollevate. (109) E salvi casi come le imposte di pubblicità o sulle pubbliche affissioni o simili, di scarso rilievo ai fini della presente indagine. (110) Tale impostazione è stata ritenuta non manifestamente irrazionale da Corte Cost., sent. n. 159/1985 e sent. n. 111/1997. In senso conforme L. Salvini, L’IMU nel quadro del sistema fiscale, in Rass. trib., 2012, 691; critico invece G. Marini, Ricchezza immobiliare e imposizione patrimoniale, in Corr. trib., 2013, 2973 ss.
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focatico o fumantaria (111). L’attuale prevalenza, nel disegno del presupposto della maggior parte dei tributi locali, del profilo fattuale e statico rispetto al profilo progettuale complessivo e dinamico determina un minor rilievo di quell’aspetto della preordinazione alla stabilità che, invece, si è visto costituire un fattore discriminante nell’individuazione dei centri di riparto e nella configurazione del prelievo nel contesto delle più rilevanti imposte erariali. Conseguentemente, nella misura in cui si sia di fronte a presupposti imponibili di questo tipo, non possono considerarsi sussistenti evidenti
(111) Sul punto, per tutti: E. De Mita, La definizione giuridica dell’imposta di famiglia, Napoli 1965; M. Morelli, voce Famiglia (imposta di), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 808 ss.; G. Provini, Le aggregazioni di individui come soggetti passivi dell’imposta di famiglia, in Dir. prat. trib., 1973, II, 328 ss.; Id., L’imposta di famiglia, Padova, 1965, 19 ss.; N. D’Amati, Le basi civilistiche della fattispecie soggettiva dell’imposta di famiglia, in Riv. dir. civ., 1971, II, 67 ss.; da ultimo, diffusamente, A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, I, cit., 13 ss., il quale sottolinea “le radicali differenze esistenti fra il concetto di famiglia adottato per un verso - agli effetti del tributo comunale ... (poi definito dal Testo Unico del 1931 ... ) e - per altro verso - ai fini dei tributi erariali ad esso coevi e successivi (imposta complementare sul reddito, ILOR e IPREF)”. Dal punto di vista del presupposto del tributo, alla luce della normativa di riferimento (da ultimo, gli artt. 112, 113 e 114 del Testo Unico della Finanza Locale di cui al R.D. n. 1175 del 1931, più volte modificati nel tempo e ispirati alla precedente normativa contenuta nell’art. 8 della legge n. 4513 del 1868), “la convivenza richiedeva, oltre a un’abitazione comune, una condivisione di vita ‘intesa soprattutto come manifestazione d’attività materiale (tetto e mensa) ...’, sussistente anche nell’ipotesi in cui padre a figlio, conduttori dello stesso appartamento in forza di distinti contratti, usassero insieme la cuciona e i servizi igienici” (Comm. Trib. Centr., dec. n. 77245/1945, in Riv. leg. fisc., 1946, 578; G. Provini, L’imposta di famiglia, cit., 19): in questo senso, molto chiaramente, A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, I, cit., 25-28. Appare coerente, quindi, che ricadessero nell’alveo applicativo delle imposte anche realtà più o meno lontane dalla famiglia fondata sul matrimonio (che del resto non era neppure contemplata espressamente nella lettera della legge: Comm. Trib. Centr., dec. n. 81773/1946, in Riv. leg. fisc., 1947, 342; Comm. Trib. Centr., dec. n. 6068/1970, in Boll. trib., 1970, 1785) ma pur sempre accomunate dalla comunanza di vita quotidiana e dalla normale condivisione (quanto meno) della economia domestica di base (“per ragioni affettive, di lavoro o religiose”: così, chiaramente, A. Giovannini, Famiglia e capacità contributiva, cit., par. 3). Quanto detto ai fini della ricorrenza del presupposto del tributo non è contraddetto dal fatto che la base imponibile del tributo, commisurata alla cd. “agiatezza” del nucleo, manifestasse aspetti di legame talora anche stretto con la normativa reddituale (A. Turchi, op. ult. cit., 33-34, il quale evidenzia peraltro come la giurisprudenza e lo stesso legislatore provvidero progressivamente a svincolare le due tipologie di tributi da elementi di comunanza anche attinenti al mero versante della base imponibile; A. Giovannini, op. ult. cit., parr. 2 e 3): semmai, va osservato che l’incoerenza tra presupposto del tributo e definizione della base imponibile (che Allorio ebbe modo di definire come un “guazzabuglio”, secondo quanto riportato da A. Turchi, op. ult. cit., 33) ha rappresentato uno degli elementi di maggiore incertezza della norma, che ne ha determinato il progressivo superamento.
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ostacoli costituzionali al fatto che una parte dei trattamenti favorevoli, che devono essere previsti in dipendenza di situazioni di gestione di esigenze personali che altrimenti farebbero carico all’intera collettività (112), siano dal legislatore ritenuti applicabile a prescindere dal livello di stabilità socioordinamentale caratterizzante l’aggregazione (sia essa costituzionalmente tipizzata, atipica o diversa dagli istituti promossi dalla Costituzione) che, di fatto, si trovi in un certo momento a gestire tali esigenze in una certa dimora sita in un determinato contesto territoriale (113). La seconda osservazione merita di essere svolta con riferimento a tutta quella serie di vicende in cui il membro della collettività è chiamato a trasferire risorse scarse a organizzazioni collettive in relazione a una vicenda di specifica gestione di esigenze del primo da parte delle seconde. Tali vicende possono inserirsi in un contesto in cui è possibile parlare di sinallagmaticità in senso tecnico tra gestione delle esigenze e trasferimento di risorse oppure in un contesto in cui la vicenda non può essere astretta in semplici categorie privatistiche: nel primo caso, si è di fronte a corrispettivi a tutti gli effetti qualificabili come contrattuali, per quanto richiesti da pubbliche amministrazioni o comunque da organizzazioni latrici di interessi della collettività; nel secondo caso, si è di fronte a istituti giuridici aventi pur sempre carattere tributario, ma che si distinguono dalle imposte per il più stretto legame con vicende specificamente riguardanti il membro della collettività e che vengono generalmente qualificati come tasse in senso tecnico (114). In questi contesti, appare compatibile con il principio di capacità contributiva (seppur non necessariamente implicata da esso) la valutazione che l’ordinamento può compiere circa la necessità di commisurare l’entità del
(112) Come ad esempio eventuali agevolazioni per il proprietario che assista un convivente portatore di handicap, previste da molti Comuni nei regolamenti dei tributi connessi ai rifiuti. (113) Discorso diverso, invece, dovrebbe farsi laddove gli elementi rilevanti ai fini della fattispecie denotino una strutturale rilevanza della preordinazione alla stabilità, come ad esempio con riferimento al concetto di abitazione principale di membri del nucleo familiare sita in Comune diverso da quello della abitazione principale del proprietario e prevista come valido presupposto di esenzioni, detrazioni o comunque riduzioni ai fini ICI (art. 8, comma 2 del d.lgs. n. 504/1992) e IMU (art. 13, comma 2 del d.l. n. 201/2011). Sul punto cfr. A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, II, cit., 120-131. In tali casi, valgono considerazioni analoghe a quelle già esposte nel precedente par. 3.2. (114) Una delle poche nozioni condivise in materia, come già detto alla precedente nota 38.
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trasferimento di risorse agli enti pubblici, in relazione a vicende di gestione di esigenze specifiche di un soggetto, all’entità dei mezzi che il soggetto stesso avrebbe a disposizione per farvi fronte autonomamente, come avviene ad esempio in Italia con gli istituti dei modelli I.S.E.E. Del resto, intendendo correttamente e in modo ampio il principio di capacità contributiva come “contabilità sociale”, secondo quando quanto già esposto nei precedenti paragrafi 1 e 2, è inevitabile prendere atto che esso possa contare nei propri tratti minimi ed estrinseci – e seppure con i necessari profili di diversità a seconda delle fattispecie, cui già si è fatto accenno supra ‑ anche al di fuori di rapporti impositivi in senso stretto e anche al di fuori di rapporti tributari in senso tecnico (115), purché vengano in rilievo valutazioni di meritevolezza (116)
(115) Come noto, la parte largamente prevalente della dottrina è ferma nel riferire il principio di capacità contributiva esclusivamente al comparto delle imposte, ma tale tesi deve considerarsi non condivisibile sul piano teorico (si rinvia, al riguardo, alle dimostrazioni offerte nel precedente par. 2) e contrastante con l’orientamento che talora la Corte Costituzionale ha mostrato di adottare (il riferimento è a Corte Cost., sent. n. 54 del 1980, ove si afferma, relativamente a taluni contributi di miglioria, che “è pacificamente riconosciuta, in giurisprudenza ed in dottrina, la natura tributaria di tali contributi, anche se più controversa è la loro caratterizzazione nei confronti delle imposte e delle tasse” e si conclude che, a prescindere dalla qualificazione come imposta o tassa, “non emergono, comunque, valide ragioni per escludere che ad essi si applichino i principi di cui all’articolo 53, primo comma, Cost. ed in particolare quelli relativi alla capacità contributiva, … per l’ampiezza della formula costituzionale (‘concorrere alle spese pubbliche’)”: la sentenza è stata di recente richiamata e valorizzata da L. Del Federico, Il concorso dell’utente al finanziamento dei servizi pubblici, tra imposizione tributaria e corrispettività, in Rass. trib., 2013, 1222, ove pure si è ritenuto di condividere sostanzialmente l’impostazione tradizionale in ordine alla delimitazione applicativa del principio di capacità contributiva alle sole imposte configurando il principio del costo e quello dell’equivalenza, che reggono la materia delle tasse, come estranei al nucleo essenziale dell’art. 53 Cost.). Al riguardo, inoltre, si sottolinea la correttezza dell’osservazione di A. Fedele, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, cit., 9, secondo cui in tal caso per una larga parte di istituti connotati da aspetti di commutatività (in particolare, quei tributi indicati come “tasse”) sarebbe lasciato “al legislatore ordinario un eccessivo margine di libertà decisionale circa le modalità di riparto delle spese pubbliche”. (116) Essendo evidente che tali valutazioni di meritevolezza vengono in rilievo per gli istituti tributari, con riferimento ai quali il principio di sinallagmaticità non opera (cfr. il precedente par. 2.), più complesso è affermare che valutazioni di meritevolezza, ulteriori rispetto alle leggi del mercato e della libera contrattazione, vengano in rilievo anche in presenza di rapporti privatistici e sinallagmatici. In tali ipotesi, il principio di capacità contributiva, di cui l’introduzione del modello I.S.E.E. rappresenta una manifestazione, può venire in rilievo laddove la collettività, tramite i propri rappresentanti politici, identifichi certi servizi come minimo indispensabile per la soddisfazione delle esigenze dei membri della collettività e decida di assicurarne la fruizione (sia gestendoli direttamente che incaricando soggetti privati
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di assegnazione di risorse scarse che trascendano le leggi del mercato per garantire la fruizione di servizi essenziali anche a chi non potrebbe altrimenti permetterseli. La già constatata centralità delle aggregazioni superindividuali nella prospettiva della soddisfazione delle esigenze dei loro membri fa sì che esse possano essere considerate rilevanti ai fini della commisurazione dell’entità del trasferimento di risorse nelle vicende di cui si discute: tale rilevanza, in particolare, può emergere in sede di valutazione dell’entità dei mezzi che il soggetto stesso avrebbe a disposizione per far fronte alla soddisfazione del proprio bisogno senza doversi rivolgere alla collettività. Siffatta valorizzazione delle aggregazioni superindividuali in tali contesti, peraltro e a differenza di quanto dimostrato avvenire in altri frangenti, per quanto politicamente possibile non risulta costituzionalmente necessaria: ciò in quanto tali aggregazioni superindividuali, nelle vicende considerate, si sono per definizione dimostrate in concreto inidonee al proprio fine fondamentale di soddisfare le esigenze dei propri membri senza bisogno che essi ricorrano all’intervento delle organizzazioni della collettività. In questo quadro, laddove sia deciso dalla collettività di valorizzare le
di farlo) anche a soggetti che non potrebbero permetterseli in un contesto di libero mercato (si pensi ai servizi sanitari o farmaceutici o ai servizi di trasporto pubblico locale o ai servizi scolastici), con conseguente distorsione del mercato al fine di permettere a taluno di fruire del servizio sotto costo (o gratuitamente) e ad altri di finanziarlo sopra costo. Sotto il profilo soggettivo, viene in rilievo la distinzione tra enti pubblici, organismi di diritto pubblico e incaricati di pubblico servizio (tutti idonei ad essere individuati come centri di imputazione del trasferimento di risorse necessarie ad erogare risorse a soggetti meritevoli: viene in gioco, al riguardo, la concezione ampia del concetto di “pubbliche spese” già sopra illustrata e su cui cfr. A. Fedele, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, cit., 6). Sotto il profilo oggettivo, vengono più in generale in rilievo il problema della povertà (su cui cfr. B.G. Mattarella, Il problema della povertà nel diritto amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2012, 359 ss.) e, più specificamente, quello delle modalità di finanziamento dei servizi pubblici, ovvero “lo sfruttamento, nell’interesse proprio, di beni di godimento pubblico, con conseguente riduzione dell’uso per gli altri consociati”: così A. Fedele, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, cit., 23; Id., Corrispettivi di pubblici servizi, prestazioni imposte, tributi, in Riv. dir. fin., 1971, II, 27 ss., la cui posizione sembra, per un verso, riprendere alcuni spunti ante litteram di F. Cammeo, Le tasse e la loro costituzionalità, in Giur. it., 1899, IV, 193 ss. e, per altro, riecheggiare indirettamente nelle posizioni di chi ritiene comunque rilevante nell’ambito dei servizi pubblici essenziali il principio di capacità contributiva nella misura in cui, non modulando i corrispettivi di essi, si correrebbe il rischio di intaccare il minimo vitale di alcune categorie di soggetti (F. Batistoni Ferrara, voce Capacità contributiva, in Enc. dir., agg. III, Milano, 1999, 347).
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aggregazioni superindividuali nelle quali il soggetto è inserito, si pone il problema di individuare quali siano quelle cui conferire rilevanza a tal fine tra le possibili molte aggregazioni superindividuali di cui un soggetto può contemporaneamente far parte. La valutazione più corretta da compiere sembra quella di valorizzare qui l’aggregazione individuale che sarebbe la più direttamente coinvolta nella gestione della specifica esigenza per il soddisfacimento della quale il soggetto si sta, invece, rivolgendo all’aiuto della collettività. In questa prospettiva, e ferma restando la necessità di compiere un discorso specifico per ogni specifica vicenda, sembra ragionevole affermare che, per molti dei servizi richiesti alla collettività e per i quali la collettività ha ritenuto di compiere giudizi di meritevolezza nell’assegnazione delle risorse, la forma aggregativa di riferimento possa essere quella individuata dai tratti caratterizzanti rappresentati congiuntamente dalla condivisione di spazi di vita quotidiana e dalla possibilità di condivisione dell’economia domestica di base che, per quanto non imposta dal diritto (come invece nella famiglia, nella quale il diritto impone peraltro una condivisione che va ben oltre l’economia domestica di base di cui qui si discute), neppure si rende contraria all’id quod plerumque accidit giuridicamente apprezzabile (come avverrebbe, ad esempio, per le situazioni di contingente convivenza carceraria o alberghiera o anche di stabile convivenza di lavoratori domestici) (117); in altri casi, invece, potranno divenire rilevanti specifici rapporti (come quello di genitorialità/ filiazione per il caso dei servizi scolastici, visto il disposto degli artt. 147 e 148 c.c.) a prescindere dalla condivisione degli spazi. Come si vede, si tratta di una valutazione complessa (118) e dai contorni sfuggenti, suscettibile di diversificarsi a seconda dei casi e dei servizi volta volta richiesti alla collettività (119): in linea di principio, tuttavia e a differenza di quanto
(117) A quest’ultimo riguardo si vedano gli spunti di riflessione offerti da A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, I, cit., 31. (118) La quale, peraltro, dovrebbe essere compiuta da soggetti rappresentativi ex art. 23 Cost. e non in via amministrativa. (119) Per questo, ad esempio, l’ordinamento (attualmente, cfr. il d.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159, emanato in base alla disposizione dell’art. 5 del d.l. n. 201/2011, che modifica e integra le disposizioni del d.lgs. n. 109/1998) prevede una molteplicità di modelli I.S.E.E.: uno ordinario avente valenza generale, uno sociosanitario, uno universitario e uno per le prestazioni agevolate rivolte ai minorenni. La migliore e più agevole illustrazione della complessa normativa appare quella contenuta nella circ. INPS n. 171 del 2014.
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attualmente previsto dall’ordinamento (120), è possibile affermare che non sussistono in generale e salvi casi specifici intrinsecamente caratterizzati da profili di stabilità (121) motivi specifici per conferire rilievo discriminante alla preordinazione alla stabilità o meno di tali centri di aggregazione e di tale condivisione di economia domestica di base. Invero, viene in queste vicende in rilievo una situazione puntuale (per quanto eventualmente destinata a reiterarsi nel tempo) in cui l’aggregazione superindividuale non ha per definizione raggiunto il proprio fine di soddisfare autonomamente le esigenze dei propri membri (122), talché si è di fronte a una vicenda in cui il proprium della progettualità complessiva, che giuridicamente si pone in relazione con la preordinazione alla stabilità di una certa aggregazione superindividuale, non si presta a venire sempre obbligatoriamente in rilievo. 6. L’attuale disfavor familiae dell’ordinamento e l’esigenza di razionalizzazione del sistema. – Tirando le fila del discorso, emerge come il patto fondamentale che la nazione italiana ha deciso di darsi, fondandosi sulla centralità delle esigenze della persona umana e sulla valorizzazione del principio di autorganizzazione e sussidiarietà orizzontale per soddisfarle, ed avendo posto al centro di tali principi la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, richieda come necessaria la valorizzazione della famiglia nel quadro del riparto delle risorse e degli oneri della collettività.
(120) Infatti, l’art. 3 del d.P.C.M. n. 159/2013 valorizza in modo generalizzato la famiglia anagrafica (con alcuni accorgimenti in talune ipotesi) ed esclude pressoché ogni rilievo al nucleo di convivenza anagrafica, che invece per taluni aspetti richiederebbe di essere valorizzato in questa prospettiva, se del caso previa disapplicazione del d.P.C.M. sopra citato anche in via incidentale ai sensi dell’art. 5 dell’allegato E della l. n. 2248 del 1865. (121) Come può essere ad esempio quello dell’I.S.E.E. Sociosanitario-residenze, specifica tipologia di I.S.E.E. sociosanitario che, essendo riferito alla contribuzione a un ricovero in RSA o altri istituti avente carattere continuativo, si presta più facilmente a conferire rilievo a rapporti socio-giuridicamente preordinati alla stabilità. (122) In ottica simile sembrano ragionare anche C. Scalinci, La famiglia ‘community care’ nell’imposizione sul reddito, cit., 881; L. Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, 421 nota 82, secondo il quale occorre far sì “che i destinatari dell’intervento pubblico in campo sociale siano messi in grado, prima di tutto, di bastare a se stessi”; ma anche in certo senso G. Amato, La Costituzione economica, in Aa.Vv., Dalla Costituente alla Costituzione, Roma, 1998, 185, ove si parla di un “dovere di chi non ha bisogno di non gravare sulla comunità”. Più in generale, sul meccanismo attualmente sotteso ai modelli I.S.E.E. cfr. R. Finocchi, L’istituzione del sistema integrato dei servizi sociali, in Giorn. dir. amm., 2001, 115.
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Le concrete modalità attraverso le quali tale valorizzazione deve realizzarsi si diversificano a seconda dei profili di riparto che sono oggetto di considerazione e, nel sistema tributario erariale, devono tradursi nella necessità – laddove tecnicamente possibile – di considerare la famiglia costituzionale come nucleo unitario di imputazione di posizioni tributarie, nonché e comunque nella necessità di introdurre specifiche misure di promozione di essa. Si tratta di punti fermi che l’attuale sistema tributario è molto lontano dal realizzare in modo costituzionalmente adeguato. Al contrario, il sistema tributario italiano presenta oggi, accanto ad alcuni istituti debolmente favorevoli alla famiglia, un approccio diffidente verso la stessa (123) e molteplici istituti che, anziché favorire la famiglia e la sua formazione, favoriscono in realtà le vicende legate allo scioglimento di essa: il riferimento è, in particolare, alla mancata attuazione di forme di splitting o quoziente familiare (che continua a indurre i contribuenti a ottenere la seperazione legale al fine di “ripartire” surretiziamente con il coniuge la materia imponibile godendo di deduzioni ed esclusioni dall’imponibile che possono ampiamente superare le detrazioni per il coniuge non formalmente separato che risulti a carico) e alle vere e proprie agevolazioni fiscali su separazione e divorzio che vigono in materia di imposte indirette. Guardato nel prisma della famiglia, quindi, l’attuale sistema tributario italiano presenta profili di irrazionalità e squilibri particolarmente gravi e meritevoli di rimozione. Ciò non solo nella prospettiva del ristabilimento della legalità costituzionale, ma anche e ancor prima nella prospettiva della rivitalizzazione di una cultura identitaria che è da sempre vissuta valorizzando l’autorganizzazione della società civile e che più di ogni altra ha esportato nel mondo tale modello di sussidiarietà. Una valutazione complessiva delle dinamiche delle “contabilità sociale”, inoltre, rende quanto mai opportuna una simile rivitalizzazione nell’attuale contesto di crisi finanziaria degli enti pubblici e di crescente affanno degli stessi nel reperire risorse per far fronte alla soddisfazione di esigenze personali che, in molti casi, non sarebbero sugli stessi scaricati laddove le famiglie fossero adeguatamente sostenute nella propria formazione e funzione. Il sostegno
(123) Si pensi alla troppo frequente impostazione delle amministrazioni che A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, II, cit., 194-225 indica con l’icastica espressione “membri della stessa famiglia, fratelli contro il fisco”.
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anche fiscale della famiglia, infatti, se nel breve periodo può comportare la riduzione di una parte del gettito tributario (riduzione comunque sotto alcuni profili già immediatamente compensabile con l’eliminazione delle agevolazioni fiscali allo scioglimento della famiglia), in una prospettiva di più ampio respiro si manifesta come uno degli istituti maggiormente efficaci a realizzare il progetto costituzionale, a liberare risorse e spazi per la creatività economica e a riequilibrare la stessa contabilità degli enti pubblici.
Francesco Farri
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
Corte Costituzionale, 15 maggio 2015 - 14 aprile 2015, n. 83, Presidente Criscuolo, redattore Amato. Accise – Sigarette elettroniche – Equiparazione ai tabacchi – Irragionevolezza – Incostituzionalità L’art. 62-quater del d. lgs. 26 ottobre 1995, n. 504 [nel testo originario, antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lett. f), del d. lgs. 15 dicembre 2014, n. 188], è costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 23 Cost., nella parte in cui sottopone ad imposta di consumo la commercializzazione dei prodotti non contenenti nicotina, idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati, nonché i dispositivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che ne consentono il consumo. (1)
(Omissis) Ritenuto in fatto. 1. Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con due ordinanze del 29 aprile 2014 (reg. ord. n. 164 e n. 165 del 2014), ha sollevato − in riferimento agli artt. 3, 23, 41 e 97 della Costituzione − questione di legittimità costituzionale dell’art. 62-quater del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 (Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative), nella parte in cui assoggetta alla preventiva autorizzazione da parte dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli la commercializzazione dei prodotti succedanei dei prodotti da fumo e sottopone, a decorrere dal 1° gennaio 2014, i medesimi prodotti ad imposta di consumo nella misura pari al 58,5 per cento del prezzo di vendita al pubblico. La disposizione impugnata è stata introdotta dall’art. 11, comma 22, del decreto- legge 28 giugno 2013, n. 76 (Primi interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di Imposta sul valore aggiunto – IVA – e altre misure finanziarie urgenti), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 99. In particolare i primi due commi dell’art. 62-quater, in vigore dal 23 agosto 2013, prevedono quanto segue: «1. A decorrere dal 1° gennaio 2014 i prodotti contenenti nicotina o altre sostanze idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati nonché i dispositivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che ne consentono il consumo, sono assoggettati ad imposta di consumo nella misura
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pari al 58,5 per cento del prezzo di vendita al pubblico. 2. La commercializzazione dei prodotti di cui al comma 1, è assoggettata alla preventiva autorizzazione da parte dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli nei confronti di soggetti che siano in possesso dei medesimi requisiti stabiliti, per la gestione dei depositi fiscali di tabacchi lavorati, dall’articolo 3 del regolamento di cui al decreto del Ministro delle finanze 22 febbraio 1999, n. 67». 2. Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a decidere in ordine ai ricorsi proposti da alcuni operatori del settore della produzione e commercializzazione delle sigarette elettroniche, al fine di ottenere l’annullamento del decreto emanato dal Ministero dell’economia e delle finanze il 16 novembre 2013, recante «Disciplina, ai sensi dell’articolo 62-quater, comma 4, del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, e successive modificazioni, del regime della commercializzazione dei prodotti contenenti nicotina o altre sostanze, idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati nonché i dispositivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che ne consentono il consumo». La disposizione dell’art. 62-quater viene censurata nella parte in cui, senza curarsi di specificare quali prodotti o sostanze possano essere considerati idonei a sostituire il consumo del tabacco, ha assoggettato a regime autorizzativo, tariffario e all’imposta di consumo qualsiasi sostanza liquida e vaporizzabile, anche non contenente nicotina; qualsiasi dispositivo atto a consentire la vaporizzazione, a prescindere dal fatto che essa abbia ad oggetto sostanze contenenti nicotina o, comunque, oggettivamente qualificabili come succedanee del tabacco; ed infine anche i prodotti accessori e strumentali, aventi uso promiscuo. Osserva il TAR Lazio che le disposizioni del d.m. 16 novembre 2013, impugnato dai ricorrenti, rappresentano la pedissequa riproduzione del contenuto della fonte primaria, ed in particolare dell’art. 62-quater del D.lgs. n. 504 del 1995. Peraltro, la contestuale entrata in vigore della disciplina dell’autorizzazione e dell’imposta sarebbe indicativa del fatto che l’unica finalità dell’autorizzazione, come strutturata dalla disposizione censurata, è rappresentata dalla vigilanza fiscale, in funzione strumentale al versamento, all’accertamento e alla riscossione dell’imposta. 3. Il giudice a quo denuncia, in primo luogo, la violazione dell’art. 3 Cost., per l’intrinseca irrazionalità della disposizione, che non individua in maniera oggettiva i prodotti succedanei dei prodotti da fumo, colpiti dall’imposta. Infatti, con la nozione di “bene succedaneo” si fa riferimento ad un bene idoneo a sostituirne altri per soddisfare un bisogno o un reimpiego. Si tratterebbe, pertanto, di un concetto di natura empirica ed economica, che riflette preferenze soggettive dei consumatori. Parimenti incerta ed opinabile sarebbe l’individuazione dei prodotti che «consentono» il consumo dei succedanei del tabacco, potendo, in tale generica nozione, essere ricompresa tutta una serie di beni di natura promiscua, il cui uso non sarebbe necessariamente ed esclusivamente strumentale al fumo elettronico e la cui commercializzazione, in altri settori, è del tutto libera.
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Tale situazione spiegherebbe quindi la contraddittorietà delle prime indicazioni operative contenute nelle circolari dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, le quali, pur escludendo che prodotti accessori, come caricabatterie e custodie, siano assoggettati all’imposta, hanno comunque stabilito che, qualora il prezzo di vendita del prodotto succedaneo comprenda anche gli accessori, esso concorre integralmente a formare la base imponibile. Dall’imprecisa formulazione della norma e dalla mancanza di criteri atti ad individuare con certezza le componenti della base imponibile, discenderebbe inoltre la previsione di un’aliquota indifferenziata, destinata a gravare con lo stesso peso su tutta la filiera del fumo elettronico e anche su prodotti ad uso promiscuo, in aperta violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza in materia tributaria. 3.1. In assenza di un contenuto sufficientemente determinato, e quindi di una valida base legislativa, l’amministrazione sarebbe sostanzialmente libera di includere (o meno) nella base imponibile qualsivoglia bene che, secondo il suo insindacabile apprezzamento, venga ritenuto idoneo a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati. Ciò determinerebbe la violazione dell’art. 23 Cost. e della riserva di legge in materia di prestazioni imposte, nonché dei principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 Cost. 3.2. L’indeterminatezza del precetto sarebbe inoltre lesiva dell’art. 41 Cost. e del diritto di libera iniziativa economica, in quanto gli operatori del settore si troverebbero nell’impossibilità di pianificare correttamente i propri investimenti e di adeguare le strutture aziendali alla nuova imposizione. 4. Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio relativo al reg. ord. n. 165 del 2014 con memoria depositata il 28 ottobre 2014, nella quale ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni sollevate dal TAR Lazio, per la mancata indicazione dei parametri costituzionali violati, nonché per l’omessa individuazione della disciplina di raffronto che consenta di ritenere irragionevole quella sospettata d’incostituzionalità. In particolare, il TAR rimettente non avrebbe motivato la denunciata irrazionalità della normativa primaria che sottopone ad autorizzazione il commercio dei prodotti succedanei, al pari dei tabacchi lavorati. 4.1. In punto di rilevanza, l’Avvocatura generale dello Stato esclude la sussistenza di un nesso di strumentalità necessaria tra il regime autorizzativo e l’obbligazione tributaria, in quanto l’imposta sarebbe comunque dovuta, a prescindere dall’autorizzazione al commercio. Si osserva, a questo riguardo, che il presupposto dell’imposta non è costituito dall’istituzione e dall’esercizio di un deposito fiscale, ma dall’immissione in consumo dei beni (art. 61, comma 1, lettera a), del D.lgs. n. 504 del 1995). Parimenti, la determinatezza del presupposto impositivo sarebbe del tutto slegata dal regime di autorizzazione. Pertanto, la questione di legittimità costituzionale relativa all’imposta in sé sarebbe irrilevante nel giudizio a quo, il quale ha ad oggetto la legittimità del regime autorizzatorio.
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4.1.1. L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce inoltre l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale per il mancato assolvimento dell’obbligo di interpretazione conforme della norma alla luce del diritto comunitario. In particolare, il TAR Lazio non avrebbe tenuto conto della direttiva n. 2014/40/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e alla vendita dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati e che abroga la direttiva 2001/37/CE. Si osserva in particolare che, nell’art. 2 della direttiva, vengono fornite le definizioni di «sigaretta elettronica» (numero 16), di «contenitore di liquido di ricarica» (numero 17), di «aroma» (numero 24) e di «aroma caratterizzante» (numero 25). Ne discenderebbe l’inammissibilità della questione formulata dal TAR rimettente, nella parte in cui viene denunciata l’indeterminatezza della definizione normativa nel diritto interno, dovendosi integrare la disposizione nazionale con la definizione comunitaria del prodotto. 4.2. Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene infondata la censura relativa alla violazione dell’art. 3 Cost. e del principio di ragionevolezza, in primo luogo per quanto riguarda la previsione dei prodotti contenenti nicotina, idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati. In particolare, laddove viene indicato ‒ quale caratteristica del prodotto ‒ il contenuto di nicotina, la determinatezza del precetto sarebbe evidente. Quanto all’altra parte della definizione normativa, relativa all’idoneità a sostituire il consumo dei tabacchi, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la stessa sarebbe altrettanto determinata, alla luce della definizione normativa comunitaria di sigaretta elettronica di cui all’art. 2, numero 16), della direttiva n. 40 del 2014, che chiarisce il concetto d’idoneità sostitutiva, indicando − quale caratteristica della sigaretta elettronica − il suo utilizzo per il consumo di vapore contenente nicotina. Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, l’idoneità sostitutiva dei prodotti succedanei dei prodotti da fumo sarebbe quindi determinata proprio dalla qualificazione impressa dal produttore o dal rivenditore, in ordine alla destinazione dei prodotti ad essere usati per il consumo di fumo o vapore. 4.2.1. La questione di legittimità costituzionale sarebbe infondata anche in riferimento ai prodotti contenenti altre sostanze idonee a sostituire il consumo di tabacchi lavorati. La disposizione impugnata avrebbe assoggettato ad imposta di consumo i prodotti che consentono di aspirare la sostanza rilasciata dal riscaldamento del prodotto, producendo fumo inteso in senso estensivo, ossia quale vapore avente apparenza del fumo da combustione. In definitiva, poiché il vapore da sigaretta elettronica è ragionevolmente assimilabile al fumo, per il principio di sostituzione equivalente, sarebbe ragionevole
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e proporzionata l’imposta di consumo sul commercio delle sigarette elettroniche, in quanto calibrata in maniera analoga a quella delle accise per le sigarette. La ragionevolezza si manifesterebbe infatti nel concetto giuridico di “sostituzione nel consumo”, contenuto nell’art. 62-quater in esame, che ha assoggettato consumi analoghi alla medesima imposizione, indipendentemente dal processo tecnico con cui il consumo è reso possibile. 4.2.2. L’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sarebbe rilevabile anche con riferimento ai dispositivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che consentono il consumo dei prodotti sostitutivi del consumo del tabacco. Al riguardo, si osserva che − per determinare gli elementi costitutivi dell’imposta − sarebbe rilevante non solo la natura del bene, ma anche la destinazione d’uso impressa allo stesso bene dal soggetto passivo d’imposta. L’idoneità sostitutiva non riguarderebbe, quindi, soltanto il prodotto vaporizzato, ma anche lo strumento che ne consente il consumo. Inoltre, l’assoggettamento ad imposta delle parti di ricambio svolgerebbe una chiara finalità antielusiva, allo scopo di evitare che la scomposizione dei dispositivi consenta di aggirare la norma impositiva. 4.2.3. D’altra parte, non sarebbe ravvisabile alcuna irragionevolezza nella previsione di un’aliquota indifferenziata per le sostanze, i dispositivi e le parti di ricambio, attesa la concorrente finalità della disposizione di disincentivare il consumo di prodotti succedanei dei prodotti da fumo, per obiettivi di tutela della salute umana e di lotta al tabagismo. Tali ragioni giustificherebbero l’assoggettamento ad imposta di consumo in misura analoga a quella prevista per i tabacchi lavorati. 4.3. Con riferimento alle censure relative alla violazione degli artt. 23 e 97 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che l’art. 62-quater impugnato non disponga alcuna delegificazione in materia fiscale. La norma di fonte primaria sarebbe infatti autosufficiente e non necessiterebbe di alcuna integrazione in sede attuativa. All’autorità amministrativa non sarebbe lasciata alcuna possibilità di ampliare arbitrariamente l’oggetto dell’imposta. Pertanto, anche la paventata violazione dell’art. 97 Cost. sarebbe infondata. 4.4. In riferimento all’art. 41 Cost., la determinatezza della norma censurata escluderebbe qualsivoglia violazione della libertà d’iniziativa economica privata. Data la chiarezza del quadro normativo, per gli imprenditori sarebbe piena la facoltà di pianificazione della loro attività nel settore. 5. Nel giudizio relativo all’ordinanza di rimessione n. 165 del 2014, con memoria depositata il 28 ottobre 2014, si sono costituite le parti ricorrenti nel giudizio a quo, le quali hanno chiesto che sia dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 62-quater del D.lgs. n. 504 del 1995. 5.1. Viene dedotta, in primo luogo, la violazione degli artt. 3, 11, 53 e 117 Cost., attesa l’irragionevolezza dell’equiparazione tra tabacchi e sigarette elettroniche sul piano della disciplina autorizzatoria e fiscale.
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Infatti, mentre il regime fiscale dell’accisa sui tabacchi sarebbe giustificato dal disfavore nei confronti di un bene universalmente riconosciuto come gravemente nocivo per la salute e del quale si cerca di scoraggiare il consumo, l’inesistenza di un tale presupposto in relazione alle sigarette elettroniche renderebbe manifestamente inapplicabile il medesimo regime amministrativo e tributario a beni che con il consumo del tabacco non hanno nulla in comune. L’irragionevolezza sarebbe evidenziata anche dal contrasto con la direttiva 2014/40/UE, adottata il 3 aprile 2014, la quale ha consentito l’assoggettamento della sigaretta elettronica alle disposizioni previste per la lavorazione, presentazione e vendita dei prodotti del tabacco solo nel caso in cui la sigaretta elettronica comporti consumo di nicotina. 5.1.1. Viene, inoltre, dedotto che, in realtà, la disposizione in esame non opera un intervento perequativo − volto cioè ad equiparare il trattamento fiscale della sigaretta tradizionale e di quella elettronica − ma un intervento assolutamente peggiorativo rispetto a quello riservato alle sigarette tradizionali. Tale conclusione discenderebbe da un duplice ordine di considerazioni. Da un lato, l’accisa del 58,5 per cento incide non solo sul quantitativo dei liquidi contenenti nicotina immessi in commercio, ma – indiscriminatamente − su tutto il complesso di beni (liquidi vaporizzabili, dispositivi elettronici e relativi accessori) che, nel loro insieme, costituiscono il kit comunemente denominato sigaretta elettronica. Dall’altro lato, l’imposta sui tabacchi lavorati è comunque strutturata in modo da garantire un sistema di aliquote differenziate per ciascuna tipologia di prodotto (sigarette, sigari e sigaretti, tabacco da fumo trinciato, tabacco da fiuto e da mastico). Viceversa, l’attuale imposta sulle sigarette elettroniche prevede l’applicazione di un’aliquota proporzionale, unica ed indifferenziata, pari al 58,5 per cento. 5.2. Con riferimento alla denunciata violazione del principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., si sottolinea che lo stesso, secondo la giurisprudenza della Corte, debba «essere inteso come espressione dell’esigenza che ogni prelievo tributario abbia causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza» (è richiamata la sentenza n. 120 del 1972). Viceversa, nel caso in esame, non si comprenderebbe quale sia il fatto indice di capacità contributiva considerato dal legislatore quale presupposto dell’imposta. Il vulnus sarebbe aggravato, inoltre, dalla duplicazione impositiva derivante dall’applicazione dell’aliquota sul prezzo di vendita dei prodotti al pubblico e, quindi, in riferimento ad un importo al lordo dell’IVA. Si osserva, d’altra parte, che la sigaretta elettronica rappresenta un valido strumento per la lotta contro il fumo e non sarebbe, pertanto, neppure invocabile un principio di precauzione, che giustifichi l’introduzione dell’imposta in funzione della finalità extrafiscale di ostacolare la produzione ed il consumo delle sigarette elettroniche.
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L’imposta sarebbe, inoltre, sproporzionata in relazione alla capacità contributiva delle singole aziende sulle quali grava, poiché la stessa si attesterebbe su un importo superiore all’intero utile aziendale di ciascuna annualità, essendo calcolata sul prezzo di vendita dal dettagliante al consumatore (e non già sul prezzo di vendita dal produttore al grossista). Il tributo non sarebbe commisurato ad alcun indice di capacità economica del produttore, ossia del soggetto passivo dell’imposta, in relazione al quale va valutato il rispetto del principio costituzionale di capacità contributiva. 5.3. Sotto un diverso profilo, la difesa delle parti private costituite ha, inoltre, denunciato la violazione del principio di riserva di legge in materia tributaria, di cui all’art. 23 Cost., del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., e del principio di certezza del diritto, di cui all’art. 3 Cost. Viene rilevato che l’ambito applicativo dell’art. 62-quater del D.lgs. n. 504 del 1995 sarebbe così ampio da non consentire una predeterminazione legislativa della concreta imposizione fiscale applicabile alle singole fattispecie, lasciando all’amministrazione, la decisione in ordine alla determinazione della base imponibile, in violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., atteso che quest’ultima non sarebbe posta nelle condizioni di operare legittimamente per il perseguimento degli interessi pubblici sottesi alla sua azione. L’indeterminatezza del precetto normativo comporterebbe inoltre l’impossibilità − per gli operatori economici − di comprendere quale sia la base imponibile, con conseguente violazione dei principi del legittimo affidamento e della certezza del diritto, il cui fondamento è individuato nell’art. 3 Cost. 5.4. Viene, inoltre, denunciata la violazione del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., poiché la normativa censurata, equiparando ai fini impositivi le sigarette tradizionali alle sigarette elettroniche, i liquidi e gli accessori alle stesse destinati, a prescindere dal loro contenuto, finirebbe per favorire il settore dei tabacchi tradizionali, concorrendo al suo sviluppo e proteggendolo dalle “turbative” determinate dalla diffusione delle sigarette elettroniche. 5.5. La difesa delle parti private denuncia infine la violazione del principio di libertà economica, di cui all’art. 41 Cost.; del principio della tutela del lavoro, di cui all’art. 35 Cost.; degli artt. 30, 34, 35, 110 e 119 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), fatto a Roma il 25 marzo 1957; dell’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000; dell’art. 1 della direttiva n. 118/2008/CE del Consiglio del 16 dicembre 2008, relativa al regime generale delle accise e che abroga la direttiva 92/12/CEE; dell’art. 401 della direttiva di rifusione n. 112/2006/CE, del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, anche in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost. L’illegittimità dell’imposizione fiscale in esame deriverebbe dalla violazione del principio di iniziativa economica privata e
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Parte seconda
del principio di libera concorrenza anche nell’ambito del mercato unico europeo. L’imposizione fiscale nazionale avrebbe l’effetto di deprimere il mercato italiano, indebolendo i suoi operatori, i quali si troverebbero a vendere lo stesso prodotto di un loro concorrente europeo ad un prezzo circa tre volte superiore. Ciò sarebbe in contrasto con gli artt. 34 e 35 del TFUE e rappresenterebbe un concreto pregiudizio per l’esercizio della libera concorrenza nell’ambito del mercato comune, determinando distorsioni tra discipline dei singoli Stati membri in ordine alle modalità di commercializzazione dei prodotti. Viene infine denunciata la violazione della normativa comunitaria in materia di accise. Al riguardo si evidenzia che – sebbene l’imposta di cui all’art. 62-quater non rientri nella categoria delle cosidette imposte armonizzate − la stessa debba comunque rispettare i criteri di cui all’art. 1 della direttiva n. 118/2008/CE, che esclude la possibilità di introduzione di imposte che abbiano il carattere di imposta sul volume d’affari o che possano creare formalità connesse all’attraversamento delle frontiere. Viceversa, tali parametri non sarebbero rispettati dall’art. 62-quater in esame. Considerato in diritto. 1. Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con due ordinanze del 29 aprile 2014 (reg. ord. n. 164 e n. 165 del 2014), ha sollevato − in riferimento agli artt. 3, 23, 41 e 97 Cost. − questione di legittimità costituzionale dell’art. 62-quater del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 (Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative), nella parte in cui assoggetta alla preventiva autorizzazione da parte dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli la commercializzazione dei prodotti succedanei dei prodotti da fumo e sottopone i medesimi, a decorrere dal 1° gennaio 2014, ad imposta di consumo nella misura pari al 58,5 per cento del prezzo di vendita al pubblico. 2. Le due ordinanze di rimessione pongono questioni identiche, o tra loro strettamente connesse, in relazione alla normativa censurata. Ed invero, lo stesso giudice rimettente − ravvisando la violazione dei medesimi parametri costituzionali − denuncia la disposizione sopra indicata, nella parte in cui assoggetta alla preventiva autorizzazione la commercializzazione dei prodotti succedanei dei prodotti da fumo e sottopongono i medesimi prodotti ad imposta di consumo. I giudizi, pertanto, vanno riuniti per essere congiuntamente esaminati e decisi con unica pronuncia. 3. In via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità delle deduzioni svolte dalla difesa delle parti private costituite nel giudizio iscritto al n. 165 del 2014, volte ad estendere il thema decidendum – come fissato nella ordinanza di rimessione – anche alla violazione degli artt. 11, 32, 35, 53 e 117 Cost.; degli artt. 30, 34, 35, 110 e 119 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) fatto a Roma il
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25 marzo 1957; dell’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000; dell’art. 1 della direttiva n. 118/2008/CE del Consiglio del 16 dicembre 2008, relativa al regime generale delle accise e che abroga la direttiva 92/12/CEE; dell’art. 401 della direttiva di rifusione n. 112/2006/ CE, del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, anche in relazione agli artt. 3 e 53 Cost. Tali questioni hanno formato oggetto di discussione nell’ambito del giudizio a quo e tuttavia non sono state recepite nell’ordinanza di rimessione che, dopo averle valutate, le ha espressamente disattese. Per costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione. Pertanto, non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (fra le molte, sentenze n. 271 del 2011, n. 236 e n. 56 del 2009, n. 86 del 2008 e n. 244 del 2005; ordinanza n. 174 del 2003). 4. L’eccezione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, per difetto del requisito della rilevanza nel giudizio a quo, è infondata. 4.1. L’Avvocatura generale dello Stato ritiene l’insussistenza di un nesso di strumentalità necessaria tra il regime autorizzativo e l’obbligazione tributaria, in quanto l’imposta sarebbe comunque dovuta, a prescindere dall’autorizzazione al commercio. Il presupposto dell’imposta, infatti, non è costituito dall’istituzione e dall’esercizio di un deposito fiscale, ma dall’immissione in consumo dei beni (art. 61, comma 1, lettera a), del D.lgs. n. 504 del 1995). Parimenti, la determinatezza del presupposto impositivo sarebbe del tutto slegata dal regime di autorizzazione. Pertanto, la questione di legittimità costituzionale relativa all’imposta in sé sarebbe irrilevante nel giudizio a quo, in cui si controverte della legittimità del regime autorizzatorio. Tuttavia, la necessità dell’autorizzazione che forma oggetto del provvedimento impugnato dinanzi al giudice amministrativo è prevista dalla medesima disposizione legislativa che – nel successivo comma dello stesso articolo − regola anche l’imposizione, evidenziando una connessione funzionale inscindibile tra la disciplina autorizzatoria e quella impositiva. Del resto, anche dall’esame dei lavori preparatori della disposizione censurata e dalla valutazione delle caratteristiche strutturali del regime autorizzatorio e di quello impositivo, emerge la preminenza dell’esigenza di carattere fiscale nell’insieme delle disposizioni impugnate. Da ciò la rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 62-quater del D.lgs. n. 504 del 1995 nel giudizio a quo, avente ad oggetto l’impugnazione del decreto ministeriale 16 novembre 2013, attuativo dell’art. 62-quater, comma 4, del D.lgs. citato.
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4.1.1. La questione conserva la sua rilevanza nel giudizio a quo, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 15 dicembre 2014, n. 188 (Disposizioni in materia di tassazione dei tabacchi lavorati, dei loro succedanei, nonché di fiammiferi, a norma dell articolo 13 della legge 11 marzo 2014, n. 23). Tale disposizione ha modificato l’art. 62-quater, con l’inserimento del comma 1-bis, il quale assoggetta i prodotti da inalazione senza combustione, contenenti o meno nicotina, e costituiti da sostanze liquide, a un’imposta modellata in termini radicalmente differenti rispetto a quelli della norma oggetto di censura. Peraltro, la disposizione originaria dell’art. 62-quater, che già aveva trovato attuazione con la normativa di carattere secondario, oggetto di impugnazione nel giudizio a quo, non è stata abrogata. Il citato art. 1, comma 1, lettera f), del D.lgs. n. 188 del 2014, dispone espressamente, all’ultimo capoverso, che dalla data di entrata in vigore della nuova disciplina (24 dicembre 2014) «cessa di avere applicazione l’imposta prevista dal comma 1, le cui disposizioni continuano ad avere applicazione esclusivamente per la disciplina delle obbligazioni sorte in vigenza del regime di imposizione previsto dal medesimo comma». L’operatività della precedente disciplina impositiva viene dunque circoscritta alle obbligazioni tributarie sorte nella vigenza di essa. Così delimitato l’ambito di efficacia della disposizione censurata, permane la rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 62-quater, nella formulazione in vigore sino al 23 dicembre 2014. Del resto, non forma oggetto di contestazione tra le parti − le quali, anzi, vi hanno fatto espressamente riferimento nel corso della discussione orale all’udienza del 14 aprile 2015 – la circostanza che le stesse abbiano avanzato richiesta di autorizzazione al commercio di prodotti succedanei dei prodotti da fumo e che tale attività sia stata effettivamente svolta nel corso dell’anno 2014, nella vigenza della precedente disciplina. La titolarità dell’autorizzazione in capo alle parti ricorrenti e lo svolgimento dell’attività autorizzata hanno quindi determinato l’insorgere dell’obbligazione tributaria nella vigenza della disciplina previgente, oggetto di censura da parte del rimettente. 4.2. Anche l’eccezione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale per il mancato assolvimento dell’obbligo di interpretazione conforme è infondata. L’Avvocatura generale dello Stato contesta il mancato esperimento del doveroso tentativo di interpretazione conforme alla luce del diritto comunitario, in particolare perché il TAR Lazio non avrebbe tenuto conto della direttiva n. 2014/40/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e alla vendita dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati e che abroga la direttiva 2001/37/CE.
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Tuttavia la direttiva richiamata, la cui pubblicazione è comunque successiva alla disposizione impugnata, non è stata ancora recepita nell’ordinamento interno e non è direttamente applicabile. Il termine fissato per il suo recepimento è il 20 maggio 2016. Va, inoltre, rilevato che la stessa direttiva, sebbene fornisca una analitica definizione della sigaretta elettronica, distingue tra i prodotti contenenti nicotina e gli altri prodotti aromatizzati, rimettendo agli Stati membri «la responsabilità di adottare norme sugli aromi», nonché di motivare e di notificare «qualsiasi divieto di tali prodotti aromatizzati» (considerando n. 47). Ne consegue che dalla stessa direttiva sono ricavabili principi e definizioni oggi non ancora vigenti in Italia e comunque non utilmente applicabili ai fini dell’interpretazione della disposizione censurata. 5. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 62-quater del D.lgs. n. 504 del 1995 è fondata. 5.1. La disposizione impugnata, introdotta dall’art. 11, comma 22, del decreto- legge 28 giugno 2013, n. 76 (Primi interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di Imposta sul valore aggiunto ‒ IVA ‒ e altre misure finanziarie urgenti), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 99, ha previsto una disciplina autorizzatoria ed impositiva per l’attività di commercio dei prodotti sostitutivi dei prodotti da fumo. Come emerge dall’esame dei lavori preparatori, essa trova primaria giustificazione nell’esigenza fiscale, di recupero di un’entrata erariale − l’accisa sui tabacchi, con particolare riguardo alle sigarette − la quale ha subito una rilevante erosione, per effetto dell’affermazione sul mercato delle sigarette elettroniche. Ma anche in materia tributaria, il principio della discrezionalità e dell’insindacabilità delle opzioni legislative incontra il limite della manifesta irragionevolezza, che nel caso in esame risulta varcato dalla indiscriminata sottoposizione ad imposta di qualsiasi prodotto contenente «altre sostanze», diverse dalla nicotina, purché idoneo a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati, nonché dei dispositivi e delle parti di ricambio, che ne consentono il consumo, e in definitiva di prodotti che non hanno nulla in comune con i tabacchi lavorati. La violazione del parametro di cui all’art. 3 Cost. va ravvisata nell’intrinseca irrazionalità della disposizione che assoggetta ad un’aliquota unica e indifferenziata una serie eterogenea di sostanze, non contenenti nicotina, e di beni, aventi uso promiscuo. Infatti, mentre il regime fiscale dell’accisa con riferimento al mercato dei tabacchi, trova la sua giustificazione nel disfavore nei confronti di un bene riconosciuto come gravemente nocivo per la salute e del quale si cerca di scoraggiare il consumo, tale presupposto non è ravvisabile in relazione al commercio di prodotti contenenti «altre sostanze», diverse dalla nicotina, idonee a sostituire il consumo del tabacco, nonché dei dispositivi e delle parti di ricambio che ne consentono il consumo.
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Appare quindi del tutto irragionevole l’estensione, operata dalla disposizione censurata, del regime amministrativo e tributario proprio dei tabacchi anche al commercio di liquidi aromatizzati e di dispositivi per il relativo consumo, i quali non possono essere considerati succedanei del tabacco. La sola indicazione dell’idoneità a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati − riferita ai prodotti non contenenti nicotina, e ai dispositivi che ne consentono il consumo – evidenzia, inoltre, l’indeterminatezza della base imponibile e la mancata indicazione di specifici e vincolanti criteri direttivi, idonei ad indirizzare la discrezionalità amministrativa nella fase di attuazione della normativa primaria. Discende da ciò il contrasto della disposizione in esame con la riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte, di cui all’art. 23 Cost. Ed invero, se è indubbio che la riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione, abbia carattere relativo, nel senso che lascia all’autorità amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie, va rilevato – in conformità al consolidato orientamento di questa Corte − che ciò «non relega tuttavia la legge sullo sfondo, né può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale ad un prescrizione normativa “in bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini» (sentenza n. 115 del 2011). Questa Corte ha inoltre ritenuto, sin dalle sue prime pronunce, che «l’espressione “in base alla legge”, contenuta nell’art. 23 della Costituzione», si deve interpretare «in relazione col fine della protezione della libertà e della proprietà individuale, a cui si ispira tale fondamentale principio costituzionale»; questo principio «implica che la legge che attribuisce ad un ente il potere di imporre una prestazione non lasci all’arbitrio dell’ente impositore la determinazione della prestazione» (sentenza n. 4 del 1957). Lo stesso orientamento è stato ribadito in tempi recenti, quando la Corte ha affermato che, per rispettare la riserva relativa di cui all’art. 23 Cost., è quanto meno necessaria la preventiva determinazione di «sufficienti criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa» (sentenze n. 350 del 2007 e n. 105 del 2003), richiedendo in particolare che «la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione» (sentenze n. 190 del 2007 e n. 115 del 2011). Viceversa, la norma dell’art. 62-quater del D.lgs. n. 504 del 1995, affida ad una valutazione soggettiva ed empirica − la idoneità di prodotti non contenenti nicotina alla sostituzione dei tabacchi lavorati – l’individuazione della base imponibile e nemmeno offre elementi dai quali ricavare, anche in via indiretta, i criteri e i limiti volti a circoscrivere la discrezionalità amministrativa nella definizione del tributo. Né l’elasticità delle indicazioni legislative è accompagnata da forme procedurali partecipative, già indicate da questa Corte come possibile correttivo (sentenze n. 180 e n. 157 del 1996; n. 182 del 1994; n. 507 del 1988).
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La disposizione in esame costituisce quindi violazione della riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost., che impone al legislatore l’obbligo di determinare preventivamente i criteri direttivi e le linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa. Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 62-quater del d.l.gs. n. 504 del 1995, nel testo originario, antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera f), del D.lgs. n. 188 del 2014, nella parte in cui sottopone ad imposta di consumo, nella misura pari al 58,5 per cento del prezzo di vendita al pubblico, la commercializzazione dei prodotti non contenenti nicotina, idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati, nonché i dispositivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che ne consentono il consumo. Restano assorbite le ulteriori censure. P.Q.M. La Corte Costituzionale riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 62-quater del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 (Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative), nel testo originario, antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 15 dicembre 2014, n. 188 (Disposizioni in materia di tassazione dei tabacchi lavorati, dei loro succedanei, nonché di fiammiferi, a norma dell’articolo 13 della legge 11 marzo 2014, n. 23), nella parte in cui sottopone ad imposta di consumo, nella misura pari al 58,5 per cento del prezzo di vendita al pubblico, la commercializzazione dei prodotti non contenenti nicotina, idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati, nonché i dispositivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che ne consentono il consumo.
(1) Sul contrasto con l’art. 3 Cost. della disciplina fiscale delle cd. sigarette elettroniche*. Nel presente scritto si suppone che la decisione in esame non rappresenterà, nel prossimo futuro, un termine di paragone imprescindibile in sede di valutazione della legittimità costituzionale di normative che istituiscano imposte indirette di consumo. Ciò in ragione di non trascurabili zone d’ombra presenti nella motivazione addotta dalla Corte costituzionale per sostenere il contrasto, da parte della disciplina legislativa che ha stabilito un’accisa sull’immissione in commercio delle cd. sigarette elettroniche, con l’art. 3 Cost. The Author expects that the decision does not become a persuasive precedent when it is necessary to evaluate the constitutionality of regulations that establish excise taxes on goods. This prediction results from the weakness of the arguments given by the Constitutional Court to support the opinion that the excise tax imposed on e-cigarettes by
(*) Lavoro sottoposto a revisione esterna.
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Italian law was both fully and intrinsically unreasonable, in violation of article 3 of the Constitution.
Sommario: 1. Premessa. – 2. I controlli svolti dalla Corte Costituzionale sub art. 3
Cost.. – 3. La manifesta irragionevolezza della disposizione impugnata. Osservazioni critiche. – 4. L’omessa motivazione sulla intrinseca irrazionalità della disposizione impugnata. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa. – Richiesta di giudicare la norma che assoggettava alla preventiva autorizzazione da parte dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli la commercializzazione di «prodotti contenenti nicotina o altre sostanze idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati nonché i dispositivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che ne consentono il consumo», sottoponendo l’immissione in commercio di detti beni a un’imposta nella misura pari al 58,5 per cento del prezzo di vendita al pubblico (1), la Corte costituzionale ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, ad eccezione della parte relativa a prodotti contenenti nicotina. Secondo la Consulta, le prescrizioni anzidette – inserite nel d.lgs. n. 504 del 1995 dal d.l. n. 76 del 2013, convertito con la l. n. 99 del 2013 – sarebbero state contrarie agli artt. 3 e 23 Cost. La sentenza n. 83 del 2015 è stata salutata con favore da autorevoli commentatori, che hanno prontamente elogiato la conclusione alla quale la Corte è pervenuta, così come gli argomenti spesi per giungervi (2). Le presenti note intendono approfondire quelle prime reazioni “a caldo”, analizzando la parte della motivazione che si è soffermata sui limiti che la Costituzione, così come interpretata dal suo garante più autorevole nella pronuncia in commento, detterebbe al potere del Legislatore di istituire accise. Più specificamente, è nostra intenzione indugiare sulle spiegazioni addotte dalla Corte per illustrare perché la norma sottoposta al suo sindacato sarebbe stata contraria all’art. 3 Cost. (3).
(1) Art. 62-quater del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, nel testo originario, antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, c. 1, lett. f), del decreto legislativo 15 dicembre 2014, n. 188 (Disposizioni in materia di tassazione dei tabacchi lavorati, dei loro succedanei, nonché di fiammiferi, a norma dell’art. 13 della legge 11 marzo 2014, n. 23). (2) Cfr. A. Giovannini, La Consulta dichiara illegittima l’imposta sulle sigarette elettroniche, in Corriere tributario, 30/2015, 2341 ss.; E. De Mita, Tar del Lazio: l’imposta dell’58,5% sulla sigaretta elettronica è irragionevole, in www.ilsole24ore.com. (3) Non saranno oggetto di riflessione, invece, gli argomenti offerti nella sentenza per
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Parte seconda
Volendo anticipare la conclusione alla quale si è giunti all’esito dell’analisi svolta, si può dire che le argomentazioni poste dal Giudice delle leggi a fondamento della sent. n. 83 del 2015 sono, contrariamente alle apparenze, non del tutto persuasive. Per l’effetto, la decisione in commento non sembra prestarsi a essere ricordata come fonte dalla quale attingere, in futuro, indicazioni rilevanti sul regime costituzionale delle imposte sui consumi in generale, e di quelle sul consumo delle cd. sigarette elettroniche in particolare. 2. I controlli svolti dalla Corte Costituzionale sub art. 3 Cost. – Lo scrutinio fondato sull’art. 3 Cost. è stato esercitato lungo due direttrici. Anzitutto, e principalmente, il Giudice delle leggi ha valutato la norma censurata andando a indagare la “non manifesta irragionevolezza” del rinvio, da essa operato, alla normativa amministrativa e fiscale che regola l’immissione in commercio dei tabacchi lavorati. In secondo luogo, e – come si documenterà – in modo quasi estemporaneo, la Consulta ha altresì giudicato della “intrinseca razionalità” dell’assoggettamento ad un’identica aliquota di una serie eterogenea di sostanze e di beni, così come stabilito da una delle disposizioni denunciate. Sembra corretto dare precedenza all’analisi della prima delle due direttrici sopra indicate, se non altro perché i giudici costituzionali hanno preferito esporre preliminarmente l’esito del controllo svolto in tale direzione. Per usare le parole della sentenza in commento (4), l’errore costituzionalmente rilevante del Legislatore sarebbe stato quello di avere determinato una «indiscriminata sottoposizione ad imposta di qualsiasi prodotto contenente “altre sostanze”, diverse dalla nicotina, purché idoneo a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati, nonché dei dispositivi e delle parti di ricambio, che ne consentono il consumo, e in definitiva di prodotti che non hanno nulla in comune con i tabacchi lavorati».
giustificare il giudizio di illegittimità, ex art. 23 Cost., della norma ricavabile dall’art. 62-quater del d.lgs n. 504 del 1995, la quale, secondo la Corte, non sarebbe stata conforme alla riserva di legge in materia di prestazioni imposte dacché avrebbe affidato «ad una valutazione soggettiva ed empirica − la idoneità di prodotti non contenenti nicotina alla sostituzione dei tabacchi lavorati – l’individuazione della base imponibile» (rectius, della fattispecie imponibile, nda), e non avrebbe offerto «elementi dai quali ricavare, anche in via indiretta, i criteri e i limiti volti a circoscrivere la discrezionalità amministrativa nella definizione del tributo» (p.to 5.1 del Considerato in diritto). (4) I passaggi della motivazione della sentenza citati nel testo sono stati tratti dal p.to 5.1 del Considerato in diritto, salvo che non sia espressamente indicato in modo diverso.
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Non ci si deve nascondere che si tratta di un’enunciazione di non immediata comprensione. La sola lettura della parte citata della sentenza non consente di sapere, infatti, se i giudici della Consulta abbiano inteso sanzionare l’imposizione dell’immissione in commercio di prodotti privi di nicotina e di dispositivi che ne consentono il consumo, in ragione della natura propria di tali beni; oppure se abbiano considerato illegittima la scelta legislativa perché realizzatrice di un trattamento impropriamente analogo a quello fissato per l’immissione in consumo dei tabacchi lavorati. In altri termini, la mancanza di discernimento imputata dalla Corte al Legislatore è stata riconnessa alla creazione di un’imposta indiretta sul consumo di beni che, per la loro natura, non avrebbero potuto essere assoggettati a quel genere d’imposizione? O la Corte ha giudicato illegittima la norma perché essa aveva istituito un identico trattamento fiscale tra beni disomogenei? Se si scorre il testo della motivazione, si può leggere la risposta a questo dilemma poche righe dopo il passaggio appena esaminato, laddove è stato sostenuto che «Appare […] del tutto irragionevole l’estensione, operata dalla disposizione censurata, del regime amministrativo e tributario proprio dei tabacchi anche al commercio di liquidi aromatizzati e di dispositivi per il relativo consumo, i quali non possono essere considerati succedanei del tabacco». Secondo la Corte, dunque, sarebbe stata manifesta l’irragionevolezza dell’estensione della disciplina giuridica prevista per l’immissione in commercio dei tabacchi lavorati, al caso dell’immissione in commercio di beni ritenuti non equiparabili a quelli. Questa precisazione sembrerebbe così implicare che il Legislatore, rispettato il limite anzidetto, avrebbe la facoltà di istituire un’autonoma accisa sull’immissione in commercio di prodotti non contenenti nicotina e di dispositivi che ne consentono l’uso (5). Occorre però che esso preveda
(5) Se la lettura del passaggio della sentenza in commento avanzata nel testo è corretta, si dovrebbe dunque escludere che con essa la Corte abbia inteso limitare la facoltà del Legislatore di istituire nuove accise imponendogli l’onere di provare che le stesse siano funzionali alla tutela di beni o valori di rango costituzionale. Anche dopo il pronunciamento della Corte, in altri termini, sembra corretto continuare a definire le accise come imposte indirette sui consumi stabilite dallo Stato per determinare un accrescimento delle risorse da destinare al proprio bilancio, senza che assuma alcuna rilevanza giuridica la loro idoneità, creduta e professata da chi se ne fa promotore a livello politico, a consentire il perseguimento di interessi extrafiscali. La Corte non pare perciò essersi avviata sulla strada, apprezzata da taluni studiosi, della valorizzazione giuridica dei fini extrafiscali delle imposte in esame. Cfr., per taluni spunti nel senso anzidetto, M. Miccinesi, Diritto doganale e delle accise secondo i principi costituzionali,
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aliquote differenti per gli uni (liquidi aromatizzati non contenenti nicotina) e gli altri (dispositivi per il relativo consumo). In un altro passaggio della decisione, di difficile comprensione non per il suo contenuto ma per la sua collocazione nell’economia della motivazione, la Corte ha infatti precisato che «La violazione del parametro di cui all’art. 3 Cost. va ravvisata nell’intrinseca irrazionalità della disposizione che assoggetta ad un’aliquota unica e indifferenziata una serie eterogenea di sostanze, non contenenti nicotina, e di beni, aventi uso promiscuo». Quest’ultima affermazione, se presa alla lettera, lascia intendere che la Corte avrebbe valutato la norma impugnata anche in una prospettiva qualitativamente diversa da quella incentrata sulla “non manifesta irragionevolezza” dell’uguale trattamento da essa riservato al commercio delle c.d. sigarette elettroniche e dei tabacchi lavorati. Così, tuttavia, non è. La seconda linea direttiva sub art. 3 Cost., sviluppata nel passaggio della motivazione da ultimo ricordato, si distingue dalla prima non per la natura della valutazione condotta, ma per l’oggetto della valutazione. La Corte, sebbene abbia evocato, invero infelicemente, un controllo sulla “intrinseca irrazionalità” della norma impugnata, in realtà ha attestato di avere indagato la non manifesta irragionevolezza di quest’ultima anche nella parte in cui essa aveva assoggettato a un’unica e indifferenziata aliquota l’immissione in commercio di una serie eterogenea di sostanze non contenenti nicotina e di beni aventi uso promiscuo. Ed ha precisato che la norma, considerata in quest’ottica, doveva considerarsi illegittima. 3. La manifesta irragionevolezza della disposizione impugnata. Osservazioni critiche. – Chiarita la direzione delle valutazioni compiute dalla Corte, occorre ora soffermarsi sugli argomenti che essa ha offerto nella sentenza per dimostrare la correttezza del risultato al quale è infine giunta, così da saggiarne la fondatezza. Come si è accennato in premessa, la motivazione della sentenza è connotata da una certa fragilità, dovuta al carattere eccessivamente sintetico, se non addirittura impreciso, di certi suoi passaggi. Tra questi, occorre richiamare anzitutto quello in cui il Giudice delle leggi ha dato conto di come ha effettuato il controllo sulla “non manifesta irragionevolezza” dell’art. 62-quater del d.lgs. n. 504/1995. Detta verifica
in M. Scuffi, G. Albezio, M. Miccinesi, Diritto doganale, delle accise e dei tributi ambientali, 2014, 15-16; A. Giovannini, La Consulta, cit.
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parrebbe essere stata conclusa negativamente in ragione della riconosciuta diversità dei beni la cui immissione in commercio avrebbe ricevuto analoga regolamentazione. La Corte, come si è già ricordato, sembrerebbe avere stigmatizzato il Legislatore per la sua scelta di aver esteso il regime fiscale e amministrativo già previsto per l’immissione in commercio di tabacchi lavorati, all’immissione in commercio di prodotti «che non hanno nulla in comune con i tabacchi lavorati» e che «non possono essere considerati succedanei del tabacco». Ora, è evidente che se si considerano la composizione, la natura, le qualità, le proprietà fisiche e chimiche dei beni in esame, la correttezza della conclusione dei giudici della Consulta è tale da rendere forse superfluo l’inserimento nel testo della sentenza di una qualunque spiegazione del perché i prodotti, non contenenti nicotina, idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati, nonché i dispositivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che ne consentono il consumo, non possano essere assimilati ai tabacchi lavorati. Dunque, sarebbe stato, probabilmente, fuori luogo esigere una motivazione sul punto. Il fatto è, però, che la Corte non ha esplicitato cosa abbia preso in considerazione per operare il confronto, lasciando all’interprete il compito di capirlo (6), ma soprattutto non ha spiegato perché abbia ritenuto necessario, per esprimere il proprio giudizio, focalizzarsi su quella (a noi sconosciuta) caratteristica e non su un’altra. Si tratta di omissioni su particolari tutt’altro che secondari. Se, ad esempio, il confronto tra i prodotti fosse stato condotto considerandone l’uso tipico, sarebbe stato difficile affermarne una sostanziale diversità: nell’un caso come nell’altro, infatti, si sarebbe potuto constatare l’attitudine del bene a consentire l’aspirazione o l’introiezione di elementi diversi dall’aria nell’apparato respiratorio dei consumatori. Il che sarebbe stato probabilmente sufficiente, si può ipotizzare, per dare alla controversia un esito
(6) La circostanza che la Corte abbia ristretto la portata oggettiva della sentenza ai soli prodotti, non contenenti nicotina, idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati nonché ai dispositivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che ne consentono il consumo, esimendosi dal valutare la legittimità della disciplina impugnata nella parte in cui si riferiva ai prodotti contenenti nicotina idonei a sostituire il consumo dei tabacchi, lascia supporre che il raffronto tra i beni la cui immissione in commercio era disciplinata dall’art. 62-quater del d.lgs. 504/1995 e i tabacchi lavorati, sia avvenuto confrontando le qualità naturali intrinseche degli uni e degli altri. Si tratta però di una mera supposizione, giacché la Corte non ha motivato espressamente in tale senso.
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differente, rendendo impraticabile un giudizio di manifesta irragionevolezza della scelta legislativa di fissare un regime fiscale e amministrativo analogo per l’immissione in commercio di categorie di beni riconosciute (e riconoscibili) come omogenee. A questa prima lacuna motivazionale sembrerebbe poi sommarsene una seconda. Anche ipotizzando, con la Corte, che i beni posti a raffronto fossero diversi, sarebbe stato in ogni caso auspicabile che la pronuncia desse conto, con maggiore impegno esplicativo, del perché al Legislatore sarebbe stato precluso prevedere un regime amministrativo e fiscale analogo per la loro immissione in commercio. Tale necessità derivava dal fatto che l’art. 3 Cost. non obbliga a prevedere discipline giuridiche differenziate in presenza di “oggetti” diversi, ma impone di trattare in modo diverso “situazioni” ragionevolmente diverse. Il primo principio, con tutta evidenza, non è equivalente al secondo, con conseguenze rilevanti in ordine sia al controllo che la Corte, se richiesta, dovrebbe esercitare sulla legislazione al fine di verificarne l’invocata incompatibilità con l’art. 3 Cost. sia alle motivazioni che essa dovrebbe dare per giustificare il risultato conseguito. Se inteso nel primo senso, infatti, il principio vieterebbe al Legislatore di dettare discipline normative analoghe per categorie di beni diversi, dovendo la Corte costituzionale pervenire alla declaratoria d’incostituzionalità per il solo fatto di avere accertato la diversità dei beni assoggettati alla medesima disciplina. Inteso invece nel secondo senso, il principio riconosce un maggiore margine di apprezzamento in capo al Legislatore, rendendo più complessa e aleatoria la valutazione dei giudici della Consulta sulle scelte compiute dalla politica. Alla Corte, infatti, spetterebbe valutare se le due situazioni coinvolgenti beni (pur riconosciuti come) diverse siano da considerarsi ragionevolmente uguali oppure diverse, e soprattutto dare conto dei motivi sottesi alla valutazione. Ebbene, com’è stato assolto l’onere motivazionale in questione nella pronuncia in esame? La Corte, dopo avere ricordato che la normativa impugnata, stando ai lavori preparatori, avrebbe trovato «primaria giustificazione nell’esigenza fiscale, di recupero di un’entrata erariale − l’accisa sui tabacchi, con particolare riguardo alle sigarette − la quale ha subito una rilevante erosione, per effetto dell’affermazione sul mercato delle sigarette elettroniche», ha considerato che «mentre il regime fiscale dell’accisa con riferimento al mercato dei tabacchi, trova la sua giustificazione nel disfavore nei confronti di un bene riconosciuto come gravemente nocivo per la salute e del quale si cerca di scoraggiare
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il consumo, tale presupposto non è ravvisabile in relazione al commercio di prodotti contenenti «altre sostanze», diverse dalla nicotina, idonee a sostituire il consumo del tabacco, nonché dei dispositivi e delle parti di ricambio che ne consentono il consumo». Poiché nella sentenza è stato sostenuto che non vi sarebbe stata nel caso di specie una diversificazione sufficientemente ragionevole tra la disciplina amministrativa e fiscale prevista per l’immissione in commercio dei tabacchi, da un lato, e quella dei liquidi aromatizzati e dei dispositivi per il relativo consumo, dall’altro, tenuto conto delle diverse cause che avrebbero giustificato la loro adozione, si sarebbe indotti a credere la Corte abbia adempiuto correttamente l’obbligo chiarificatore cui si è sopra accennato. Forse è così; si deve però ammettere che il passaggio motivazionale appena ricordato ha lasciato irrisolte numerose delicate questioni, che non hanno ricevuto risposta neppure in altre parti della sentenza in commento (7). Ne menzioniamo alcune: perché svolgere il giudizio sulla equivalenza o meno di due situazioni, alla luce della giustificazione posta alla base delle normative ad esse riferibili? Si deve andare alla ricerca della giustificazione storicamente data da chi ha proposto, discusso e approvato la normativa, come parrebbe avere fatto la Corte in questo caso, oppure ci si deve rivolgere alla giustificazione della normativa ricavabile dal testo del provvedimento? Perché una giustificazione che faccia leva sul disfavore nei confronti di un bene riconosciuto come gravemente nocivo per la salute, e del quale si cercherebbe di scoraggiare il consumo, imporrebbe di differenziare il regime fiscale e amministrativo riferito a tale bene rispetto a quello proprio di un bene diverso per il quale l’analogo regime sia stato giustificato con l’esigenza di «recupero di un’entrata erariale» prevista ma non realizzata? E in cosa dovrebbe consistere la differenziazione, perché non sia leso il principio ricavato dall’art. 3 Cost.? 4. L’omessa motivazione sulla intrinseca irrazionalità della disposizione impugnata. – Non occorre proseguire oltre per comprendere la debolezza della motivazione offerta dalla Corte a sostegno del giudizio espresso
(7) Va peraltro osservato che nel passaggio della motivazione ricordato nel testo la Corte ha invece considerato come risolta una questione scientifica altamente controversa, ossia la mancanza di nocività per la salute umana del consumo delle cd. sigarette elettroniche. Sul punto, v., criticamente, D. Servetti, Ragionevolezza dell’imposta sulle sigarette elettroniche, principio di precauzione e scienza privata del giudice costituzionale. Nota alla sentenza della Corte n. 83 del 2015, in www.rivistaaic.it, 4/2015.
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sull’irragionevole mancata differenziazione realizzata dal Legislatore. Si deve peraltro evidenziare che da analogo difetto è affetta anche la parte della pronuncia nella quale la Corte ha spiegato le ragioni che l’hanno spinta a sanzionare l’«intrinseca irrazionalità (rectius, stante quanto si è detto in precedenza, la manifesta irragionevolezza, nda) della disposizione che assoggetta ad un’aliquota unica e indifferenziata una serie eterogenea di sostanze, non contenenti nicotina, e di beni, aventi uso promiscuo». La Corte, infatti, ha meramente postulato l’esistenza del vizio di legittimità costituzionale, senza tuttavia dare alcuna indicazione nel merito. Eppure non sarebbe stata inutile una qualche spiegazione, se sol si pensi, ad esempio, che i prodotti e i dispositivi ora ricordati ben avrebbero potuto essere considerati in modo unitario ai fini fiscali, qualora si fosse presa in considerazione la loro comune utilizzazione nei processi di vaporizzazione. Con la rilevante conseguenza che, così ragionando, sarebbe stato difficile pervenire ad una valutazione nel senso della “manifesta irragionevolezza” della disposizione impugnata. 5. Considerazioni conclusive. – Le valutazioni sopra svolte potrebbero sembrare eccessivamente critiche nei confronti dell’operato della Corte costituzionale. Una simile impressione potrebbe però essere attenuata quando si recuperi una piena consapevolezza dell’elevata incidenza delle pronunce della Consulta sulle capacità degli operatori giuridici di creare, interpretare e applicare il diritto, oltreché della loro idoneità a conformare le relazioni che intercorrono tra i Poteri dello Stato. Sono, questi, temi che meriterebbero di essere approfonditi ben più di quanto si possa fare in questa sede. Qui, ci si può limitare a ricordare che l’importanza di una declaratoria d’incostituzionalità non risiede soltanto nel dispositivo, ma anche nelle motivazioni che lo supportano. Nell’uno, il Giudiziario, l’Amministrazione e i privati cittadini, trovano una statuizione imprescindibile in sede d’interpretazione del materiale normativo dal quale ricavare le regole da seguire nei casi della vita. Nelle altre, quei medesimi soggetti, e con essi il Legislatore, possono cogliere alcune radicali obiezioni – di rango costituzionale – a un determinato uso del potere legislativo, tanto da essere indotti ad astenersi dall’esercitarlo nel senso avversato dalla Corte oppure da opporvisi, una volta che invece quel potere sia stato esercitato non accogliendo le ragioni espresse nella sentenza d’incostituzionalità. Se però la Consulta argomenta in modo insufficiente o inadeguato, il suo intervento rischia di essere privo di una simile attitudine conformativa.
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Una conferma dell’attualità del rischio appena denunciato può essere tratta dall’evoluzione che sta interessando proprio il trattamento fiscale delle cd. sigarette elettroniche. Nel caso definito dalla sent. n. 83 del 2015, la Corte costituzionale aveva valutato la legittimità costituzionale dell’art. 62-quater del d.lgs. n. 504/1995, nel testo antecedente alle modifiche che nel frattempo erano state apportate dal decreto legislativo 15 dicembre 2014, n. 188 (Disposizioni in materia di tassazione dei tabacchi lavorati, dei loro succedanei, nonché di fiammiferi, a norma dell’art. 13 della legge 11 marzo 2014, n. 23). Quest’ultimo provvedimento ha mantenuto l’imposizione sull’immissione in commercio dei «prodotti da inalazione senza combustione costituiti da sostanze liquide, contenenti o meno nicotina, esclusi quelli autorizzati all’immissione in commercio come medicinali ai sensi del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219» (art. 1, c. 1, lett. f), pur modificando aliquota e base imponibile rispetto alla legislazione valutata dalla Corte, mentre l’ha eliminata per i «dispositivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che consentono il consumo dei prodotti di cui all’art. 62-quater, comma 1, del decreto legislativo n. 504 del 1995» (art. 1, c. 8). I giudici della Consulta, dopo avere costatato che la menzionata innovazione legislativa aveva istituito un’imposta «modellata in termini radicalmente differenti rispetto a quelli della norma oggetto di censura», hanno giustamente rilevato che essa non avesse ricadute sulla rilevanza della questione nei giudizi a quibus (8). Ed hanno perciò deciso di pronunciarsi nel merito lasciando inevitabilmente aperta, allo stato, la questione della compatibilità della nuova disciplina con l’art. 3 Cost. È ora inevitabile chiedersi se la nuova disciplina sia stata forgiata in termini non manifestamente irragionevoli (9). L’impressione di chi scrive è che solo la Corte costituzionale possa rispondere a questo quesito, sempre che vi siano giudici disposti a interpellarla. Ciò, si badi, non tanto perché essa ed
(8) V. considerato in diritto, p.to 4.1.1. (9) Con questa domanda si confronterà, probabilmente a breve, la giurisprudenza amministrativa. Da quanto riportato nell’ordinanza del TAR Lazio che ha accolto la richiesta, avanzata da diverse società del settore, di sospensione cautelare dei provvedimenti attuativi della normativa attualmente in vigore, i ricorrenti hanno infatti espressamente invocato la «rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale all’art. 62-quater, comma 1 bis, del D.Lgs. n. 504 del 1995 per violazione degli artt. 3, 35, 41, 53 e 97 della Costituzione». Cfr. Tar Lazio, ord. 9 luglio 2015, n. 3166, reperibile in https://www. giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/AmministrazionePortale/DocumentViewer/index. html?ddocname=HYXW7MZJ32RPTPPFUMDOHNZQ3E&q=flavourart.
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essa soltanto, avendo il potere di selezionare gli elementi caratterizzanti una certa situazione e di individuare le fattispecie normative da porre a confronto con la normativa che la riguarda, potrebbe sciogliere autoritativamente i dubbi dell’interprete. Quanto perché, per quanto si è sopra osservato, dal precedente costituito dalla sent. n. 83 del 2015 non sembra potersi ricavare nessuna seria indicazione al riguardo (10).
Andrea Rovagnati
(10) Non pare dunque criticabile la risposta fornita dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli, il 23 giugno 2015, a un quesito sull’applicazione della nuova imposta, nella quale è stato chiarito che le sostanze non contenenti nicotina debbano essere assoggettate all’imposta, a ciò non ostando la sent. n. 83 del 2015 della Corte costituzionale, non solo perché non riferibile al testo in vigore, ma anche perché quest’ultimo reca comunque disposizioni sostanzialmente diverse, rispetto al testo previgente, «sia sotto il profilo dell’oggetto e base imponibile, che della natura e misura dell’imposizione». Cfr. http://www.agenziadoganemonopoli.gov.it/wps/ wcm/connect/ab997e0048df46999d349dfc11709ab3/Quesito-Imposta+di+consumo+su+bas i+neutre+e+aromi+concentrati%2C+nonch%C3%A9+su....pdf?MOD=AJPERES&CA CHEID=ab997e0048df46999d349dfc11709ab3). Lasciando impregiudicata la questione di carattere generale circa la sussistenza o meno di un obbligo in capo agli organi amministrativi di applicare leggi che essi considerino incostituzionali, occorre dire che nel caso di specie la sentenza commentata non ha offerto all’Amministrazione finanziaria ragioni costituzionali che avrebbero potuto e dovuto spingerla ad andare oltre il mero dato formale della diversità delle discipline coinvolte, così da soppesare la compatibilità sostanziale della nuova normativa con i principi stabiliti nella Carta fondamentale.
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Cassazione, sez. V civ., 16 gennaio 2015 - 20 novembre 2014, n. 695, Pres. Merone, Rel. Chindemi. Disciplina delle agevolazioni tributarie – Agevolazioni per il settore del credito – Imposta sostitutiva sui finanziamenti – Operazioni di finanziamento a medio e lungo termine – Finanziamento destinato ad estinguere indebitamenti pregressi – Inapplicabilità dell’esenzione prevista dall’articolo 15 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 Le operazioni di finanziamento a medio e lungo termine, alle quali l’articolo 15 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 accorda un trattamento fiscale di favore, vanno individuate quelle che si traducono nella possibilità di attingere denaro da impiegare in investimenti produttivi. Al contratto di finanziamento destinato esclusivamente al ripianamento di debiti pregressi non si rende quindi applicabile la predetta agevolazione. (1)
(Omissis) Fatto. Con sentenza n. 119/27/09, depositata il 5.11.09, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia del Territorio avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano n.96/38/2008, respingendo i l ricorso della società E N S.r.l. avverso l’avviso di liquidazione con cui veniva richiesto il versamento delle imposte ipotecarie e di bollo quantificate in € 30.520.076,00, relativamente a un atto di costituzione di ipoteca relativa a un finanziamento concesso dalla D B. S.p.A. nei confronti della società, per un importo complessivo massimo di € 612.761,067, con una somma totale garantita di € 1.226.000.000,00, in relazione al quale la CTR ha ritenuto non sussistere le agevolazioni tributarie ex art. 1 5 d.p.r. 601/1973. Rilevava al riguardo la Commissione Tributaria Regionale che i l finanziamento per cui è stata richiesta l’agevolazione tributaria non coincide col mutuo o prestito bancario ma con la nozione di disponibilità finanziaria da destinare a investimenti produttivi, trattandosi di disponibilità finanziaria concessa al solo fine di consentire alla società il rientro da pregressi indebitamenti a breve e con espresso divieto di investire per il perseguimento dell’oggetto sociale. I giudici d’appello evidenziavano anche che l’Agenzia del Territorio non aveva espletato alcuna attività di accertamento e non avevo usurpato il potere di altri
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uffici. La sentenza della Commissione Tributaria Regionale veniva impugnata dalla società E N e dalla D B S.p.A. La prima deduce un unico motivo, dedotto anche quale primo dalla D B S.p.A. con cui lamenta violazione e falsa applicazione dell’articolo 15 del d.p.r. 60/1 1973, in relazione all’articolo 360, numero tre, c.p.c. rilevandosi da parte di entrambe, tra l’altro, come abbia errato la CTR nel non riconoscere l’agevolazione al finanziamento destinato anche indirettamente ad impieghi produttivi, osservando come sia stato confuso lo scopo del finanziamento, destinato al rimborso di debiti pregressi, con la natura e durata dell’operazione, ritenendo la legittimità dell’agevolazione richiesta, indipendentemente dall’utilizzo che verrà fatto delle somme mutuate, essendo sufficiente l’astratta idoneità, insita nella durata minima del finanziamento, alla realizzazione di investimenti in un’ottica di medio-lungo periodo. La D B S.p.A. deduceva anche i seguenti motivi: b) violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 62, comma primo, 63,64 D.lgs. 300/99, in relazione all’articolo 360, numero tre, c.p.c., rilevando la nullità dell’avviso di liquidazione per carenza di potere in capo all’Agenzia del Territorio di emettere avvisi di accertamenti in materia di imposte ipotecaria, essendo competente per l’accertamento l’Agenzia delle entrate; c) violazione degli artt. 112, 360, numero quattro c.p.c. e nullità della sentenza impugnata nella parte in cui non si è pronunciata sul motivo di appello incidentale afferente la nullità dell’avviso di liquidazione per difetto di motivazione; d) violazione degli artt. 112, 360, numero quattro c.p.c. e nullità della sentenza impugnata nella parte in cui non si è pronunciata sul motivo di appello incidentale afferente all’illegittimità dell’avviso di liquidazione impugnato perché recante una pretesa fiscale contraria ai principi di buona fede, collaborazione e tutela dell’affidamento. L’Agenzia del Territorio si è costituita con controricorso. D B presentava memoria, Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 20.11.2014, in cui il PG ha concluso come in epigrafe. Motivi della decisione. Vanno, preliminarmente, riuniti i ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., trattandosi di impugnazioni avverso la medesima sentenza Entrambi i ricorsi sono infondati. l. In relazione al primo motivo, comune ad entrambe le ricorrenti e al quarto motivo dedotto dalla D B. S.p.A., va osservato che l’art. 15, d.P.R. 29 settembre 1973 n. 60l, dispone un trattamento fiscale di favore per tutte le operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine e a tutti i provvedimenti, atti, contratti e formalità inerenti alle operazioni medesime, alla loro esecuzione, modificazione ed estinzione, oltre che alle garanzie di qualunque tipo da chiunque e in qualsiasi momento prestate e alle loro eventuali surroghe, sostituzioni, postergazioni, frazionamenti e cancellazioni anche parziali, ivi comprese le cessioni di credito stipulate in relazione a tali finanziamenti,
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effettuate da aziende e istituti di credito c da loro sezioni o gestioni che esercitano, in conformità a disposizioni legislative, statutarie o amministrative, il credito a medio e lungo termine. Nel caso di specie si tratta di stabilire se possano farsi rientrare nella nozione di finanziamento i contratti, per i quali è stata iscritta la garanzia ipotecaria, aventi ad oggetto i “rimborsi dei finanziamenti a breve termine”, garantiti dalle iscrizioni ipotecarie. Al riguardo si deve premettere che della nozione di finanziamento i l decreto citato non offre una definizione, e che, anche secondo le conclusioni alle quali è pervenuta la dottrina maggioritaria, il termine “finanziamento”, impiegato in contesti normativi diversi a fini diversi, non ha nell’ordinamento un significato univoco. La giurisprudenza di legittimità ha esplicitamente chiarito che “in tema di agevolazioni tributarie per il settore del credito, le operazioni di finanziamento, alle quali il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, an. 15, accorda un trattamento fiscale di favore, vanno individuate in base alla “ratio legis” ed al principio secondo cui le norme agevolative sono di stretta interpretazione – in quelle che si traducono nella provvista di disponibilità finanziarie, cioè nella possibilità di attingere denaro, da impiegare in investimenti produttivi” (Cass. del 29 marzo 2002 n. 4611; cfr anche Cass. 16 aprile 2008 n. 9930). La questione, quindi, deve essere risolta sulla base della ratio legis della norma di agevolazione, tenendo fermo il costante insegnamento di questa Corte, secondo cui le disposizioni che prevedono delle agevolazioni tributarie sono nonne di stretta interpretazione. Tale ratio è da ricercare nel favore che il legislatore intende accordare agli investimenti produttivi, nella previsione che essi possono creare nuova ricchezza, sulla quale potrà più adeguatamente applicarsi il prelievo fiscale. Sono questo profilo, pertanto, nel caso di specie, il negozio in questione non ha per oggetto un finanziamento, nel senso a cui la nonna si riferisce ma piuttosto le modalità ed i tempi di recupero del credito già erogato. esulando dall’ambito applicativo della disciplina agevolati va invocata. Lo scopo, per il quale il legislatore accorda un trattamento agevolato, dunque, qui non ricorre, perché per effetto del negozio l’accreditato non dispone di nuovo denaro, suscettibile di impieghi produttivi. Ne consegue, come già evidenziato, che esula dall’ambito applicativo della disciplina agevolativa in esame il finanziamento aventi ad oggetto i “rimborsi dei finanziamenti a breve termine” (così come contrattualmente previsto al par. 3, n. 3 del contratto riprodotto in ricorso) garantiti dalle iscrizioni ipotecarie. L’atto stesso non rientra fra le ipotesi previste dalla norma agevolativa perche non costituisce la provvista di nuove disponibilità finanziarie da impiegare in investimenti produttivi. La interpretazioneestensiva proposta dalle ricorrenti (ritenendo che l’agevolazione possa essere riconosciuta anche quando la destinazione delle somme mutuate per i l
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rimborso di precedenti debiti a breve termine consenta la realizzazione di investimenti in un’ottica di medio-lungo periodo) non può ritenersi legittima perché in evidente contrasto, oltre che con la ratio legis del citato articolo 15, con il principio generale secondo cui le norme agevolative in materia fiscale sono di stretta interpretazione. L’iscrizione quindi deve scontare l’imposta ipotecaria non garantendo nuovi finanziamenti, facendo riferimento a uno negozio di dilazione di pagamento di debiti, non utilizzabile per impieghi produttivi, dovendosi anche escludere, per le considerazioni già esposte, alcuna violazione dello statuto del Contribuente da parte dell’Agenzia del territorio con riferimento ai principi di buona fede, collaborazione e tutela dell’affidamento. 2. Anche il secondo motivo dedotto dalla D B S.p.A. è infondato. Ai sensi dell’articolo 32, comma tre, regolamento approvato con d.p.r. 27/3/1992, n. 287, all’epoca vigente, prima della riunificazione dell’Agenzia delle Entrate con quella del Territorio, quest’ultima era competente a svolgere i servizi per l’applicazione per la riscossione delle entrate relative ai settori di competenza, tra cui quello di riscossione delle imposte ipotecarie. Ai sensi dell’articolo 42 d.p.r. 287/ 1992, vengono attribuiti all’ufficio del territorio le attribuzioni già demandate agli uffici tecnici erariali e alle conservatorie dei registri immobiliari (ora servizi di pubblicità immobiliare) e ai sensi dell’articolo 64 D.lgs. 300/1999 l’imposta ipotecaria è di competenza dell’Agenzia del Territorio. Ai sensi dell’articolo 12 D.lgs. 347/90 rientrano nella competenza dell’Agenzia del Territorio, quali attribuzioni degli uffici dei registri immobiliari, le iscrizioni ipotecarie che hanno dato luogo al recupero delle imposte ipotecarie. 3. Il terzo motivo difetta di autosufficienza, non essendo stato allegato o riprodotto né indicato se il relativo documento fosse stato meno prodotto nel giudizio di merito, e, comunque, senza l’indicazione toponomastica del luogo e del numero della eventuale produzione documentale. Vanno, conseguentemente, rigettati entrambi i ricorsi con condanna in solido dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità a favore dell’Agenzia del territorio. P.Q.M. Riunisce ricorsi e li rigetta entrambi, condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, a favore dell’Agenzia del Territorio, che liquida in € 10.000 per compensi professionali, oltre alle spese prenotate a debito
(1) Lo “scopo di investimento” nell’imposta sostitutiva sui finanziamenti Nella sentenza 16 gennaio 2015, n. 695, la Corte di Cassazione ha affermato che per i finanziamenti aventi durata superiore a 18 mesi, contratti al fine di estinguere pregressi debiti finanziari, non si rende applicabile il regime agevolativo previsto nell’articolo 15 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601. Secondo la Corte, sarebbero invero agevolabili i
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soli finanziamenti contratti per essere impiegati in investimenti produttivi. La Corte di Cassazione riprende le conclusioni cui la stessa era pervenuta in precedenti sentenze, operando una lettura della norma che si pone in contrasto con l’interpretazione proposta dalla stessa Agenzia delle Entrate nella risoluzione 13 dicembre 2011, n. 121/E. In the judgment of 16 January 2015, no. 695, the Supreme Court stated that with reference to loans having a maturity of over 18 months for the purpose of paying off previous debt, the tax relief provided for in Article 15 of Presidential Decree September 29, 1973, no. 601, is not applicable. Under the interpretation proposed by the Supreme Court, the article 15 is applicable only in the case of loans for use in productive investments. The Supreme Court renews the conclusions reached in previous judgments, making for a reading of the provision that is in conflict with the interpretation proposed by the Italian Tax Agency in the resolution note no. 121/E dated Dec. 13, 2011.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il regime agevolativo previsto dall’articolo 15 e
l’interpretazione proposta dall’Agenzia delle Entrate. – 3. La sentenza della Corte di Cassazione 16 gennaio 2015, n. 695. – 3.1. L’interpretazione restrittiva e la ratio legis dell’articolo 15 del D.P.R. n. 601. – 4. Conclusioni.
1. Premessa. – Ai fini dell’applicazione del regime agevolativo disciplinato dall’articolo 15, primo comma, del d.P.R. n. 29 settembre 1973, n. 601 (di seguito, il “D.P.R. n. 601”), appare del tutto irrilevante la circostanza che il finanziamento sia destinato a delle specifiche finalità. A una differente interpretazione, in via del tutto inaspettata, perviene la Corte di Cassazione nella sentenza 16 gennaio 2015, n. 695, secondo cui possono beneficiare dell’agevolazione dell’imposta sostitutiva le sole operazioni di finanziamento impiegate in investimenti produttivi. La sentenza sorprende non poco perché riesuma quello che era considerato un orientamento giurisprudenziale oramai superato – e che rappresenta una sorta di leitmotiv nella giurisprudenza della Corte di Cassazione – che la stessa Agenzia delle Entrate in un proprio chiarimento ha espressamente ritenuto non condivisibile. 2. Il regime agevolativo previsto dall’articolo 15 e l’interpretazione proposta dall’Agenzia delle Entrate. – Il regime delineato dall’articolo 15 del D.P.R. n. 601 prevede l’applicazione di un tributo sostitutivo – in luogo dell’imposta di registro, dell’imposta di bollo, delle imposte ipotecaria e catastale e delle tasse sulle concessioni governative eventualmente dovute – per i finanziamenti a medio e lungo termine e per “tutti i provvedimenti, atti, contratti e formalità inerenti alle operazioni medesime, alla loro esecuzione,
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modificazione ed estinzione, alle garanzie di qualunque tipo da chiunque e in qualsiasi momento prestate e alle loro eventuali surroghe, sostituzioni, postergazioni, frazionamenti e cancellazioni anche parziali, ivi comprese le cessioni di credito stipulate in relazione a tali finanziamenti, nonché alle successive cessioni dei relativi contratti o crediti e ai trasferimenti delle garanzie ad essi relativi” (1). Ai fini dell’applicazione del regime sostitutivo, sulla base della predetta disposizione, è unicamente richiesta dalla legge la contemporanea sussistenza del presupposto soggettivo (2) e del presupposto oggettivo (3). È del tutto irrilevante la circostanza che il finanziamento sia destinato a delle specifiche finalità. La ratio sottesa al regime sostitutivo è invero da individuarsi nell’esigenza di favorire l’accesso al credito del soggetto richiedente affinché questi attinga a nuove risorse finanziarie. In presenza dei presupposti individuati nella normativa, il regime agevolativo previsto nell’articolo 15 appare dunque potersi applicare a qualsiasi contratto di finanziamento a medio e lungo termine (4), non rappresentando lo scopo del finanziamento un requisito di cui occorre ex lege tenere conto (5).
(1) Cfr. l’articolo 15, primo comma, del D.P.R. n. 601. (2) Il finanziamento deve essere necessariamente concesso: - da una banca, e cioè dal soggetto istituzionalmente preposto per legge all’esercizio dell’attività di raccolta del risparmio tra il pubblico e della concessione di credito; - dalla Cassa Depositi e Prestiti S.p.A., per le operazioni di cui all’articolo 5, comma 7, lettera b), del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326; - da enti, istituti, fondi e casse previdenziali, limitatamente ai mutui concessi ai propri dipendenti e iscritti per l’acquisto di abitazioni (a norma dell’articolo 2, comma 1-bis, del decreto legge 3 agosto 2004, n. 220, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 ottobre 2004, n. 257). (3) Deve trattarsi di un finanziamento avente una durata contrattuale superiore a diciotto mesi. (4) Cfr. le risoluzioni del Ministero delle Finanze 21 maggio 1979, n. 271937 e 2 giugno 1980, n. 250393. (5) Cfr. M. Di Siena, Finanziamenti di scopo e imposta sostitutiva: la (ragionevole) fine di un grande equivoco, in Corriere Tributario n. 7/2012, 500 e ss., secondo cui “Il quando ed il quomodo dell’impiego della liquidità conseguita rappresentano, perciò, elementi del tutto estranei al regime di imposizione sostitutiva. Il soggetto finanziato potrà, quindi, impiegare la liquidità ottenuta per l’estinzione di una pregressa passività (di qualsiasi genere essa sia) [12] e finanche per il sostenimento di spese voluttuarie (è il caso di un finanziamento al consumo concluso da un privato); tutto ciò senza che lo scopo perseguito sia suscettibile di un possibile giudizio (di stampo vagamente etico) da parte dell’Amministrazione finanziaria che
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Tale interpretazione, è da notare, è stata confermata dalla dottrina (6) e dalla stessa Agenzia delle Entrate nella risoluzione 13 dicembre 2011, n. 121/E. In tale chiarimento – resosi necessario a seguito di una sentenza della Corte di Cassazione (7) che aveva sollevato dubbi circa possibilità di applicare il regime agevolativo ai finanziamenti contratti per estinguere un precedente finanziamento – l’Agenzia delle Entrate ribadisce quella che difatti era una posizione interpretativa già espressa in passato (8), secondo cui non assume “rilievo, in linea generale, la circostanza che il finanziamento debba essere destinato a finalità specifiche. Il legislatore fiscale non ha, infatti, inteso specificare l’effettivo utilizzo cui devono essere destinate le somme messe a
abbia ad oggetto la presunta (in realtà, come detto, insussistente ex lege) finalità produttiva caratterizzante o meno il finanziamento. La soluzione prospettata dalla risoluzione appare, nella sua linearità, del tutto ragionevole; ciò che, invece, suscita perplessità è che sulla specifica tematica si sia sviluppata una prassi accertativa (e talvolta giudiziale) di segno antitetico”. (6) Cfr. sul tema V. Geretto, Finanziamenti a medio-lungo termine: irrilevanza dell’utilizzo delle somme accordate ai fini dell’applicazione dell’imposta sostitutiva, in Dialoghi Tributari, n. 6/2008, 146; M. Pulcini, Note critiche a margine dell’orientamento della Cassazione in tema di imposta sostitutiva sui finanziamenti e pegno sulle somme erogate in base al contratto di mutuo, in Boll. Trib. n. 13/2009, 1061 e ss.; F. Orazi - D. Guerrieri, Imposta sostitutiva sui finanziamenti a medio e lungo termine e destinazione del finanziamento, GT – Rivista di giurisprudenza tributaria, n. 8/2010, 733; F. Patti, Inapplicabilità dell’imposta sostitutiva ex art. 15 del D.P.R. n. 601/1973. Somma erogata dalla banca e concessa in pegno alla stessa mutuante, in Fiscalitax n. 9/2009, 1277; A. Busani, Imposta sostitutiva e destinazione del finanziamento a «investimento produttivo, in Corriere tributario n. 22/2010, 1801 e ss; S. Loconte, “Imposta sostitutiva sui finanziamenti”, Ipsoa, 2012, 38. (7) Cfr. la sentenza della Corte di Cassazione 5 maggio 2009, n. 5270. Sul punto si veda anche la sentenza sempre della Corte di Cassazione 25 febbraio 2009, n. 4501. In tale ultima sentenza – avente ad oggetto una operazione di mutuo nella quale, contestualmente all’erogazione della somma al soggetto finanziato, la somma stessa viene temporaneamente concessa in pegno alla banca mutuante a cautela del perfezionamento dell’iscrizione ipotecaria di primo grado – la Corte di Cassazione ha affermato che “la ratio legis della norma di agevolazione prevista dal D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15 la quale come tutte le disposizioni che prevedono delle agevolazioni tributarie è norma di stretta interpretazione, <è indubbiamente da ricercare nel favore che il legislatore intende accordare agli investimenti produttivi, nella previsione che essi possono creare nuova ricchezza, sulla quale potrà più adegxuatamente applicarsi il prelievo fiscale> (v. Cass., 16/4/2008, n. 9930; Cass., 29/3/2002, n. 4611). Le operazioni di finanziamento, alle quali il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, art. 15 accorda un trattamento fiscale di favore, vanno individuate in quelle che si traducono nella provvista di disponibilità finanziarie, cioè nella possibilità di attingere denaro, da impiegare in investimenti produttivi (v. Cass., 29/3/2002, n. 4611)”. (8) Cfr. la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 28 febbraio 2008, n. 68/E. Sul punto si vedano altresì dell’Agenzia del Territorio la circolare 22 dicembre 1999, n. 240/T e la risoluzione 24 marzo 2004, n. 2/T
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disposizione dall’istituto erogante. La ratio sottesa al regime dell’imposta sostituiva sui finanziamenti a medio e lungo termine può essere, infatti, individuata nella esigenza di favorire l’accesso al credito, incrementando la possibilità del soggetto richiedente di attingere a nuove risorse finanziarie” (9). Appare utile rammentare in questa sede che anche l’Avvocatura generale dello Stato, in un parere cui la stessa risoluzione fa menzione, si era espressa sulla possibilità di applicare il trattamento agevolativo di cui all’articolo 15 del D.P.R. n. 601 ai finanziamenti destinati all’estinzione di debiti pregressi, essendo irrilevante “la circostanza che il denaro posto a disposizione del cliente dell’istituto di credito sia finalizzato al conseguimento di uno scopo determinato, come quello di definire una precedente esposizione debitoria”. 3. La sentenza della Corte di Cassazione 16 gennaio 2015, n. 695. – Il dubbio interpretativo – che pareva essere stato definitivamente sciolto dalla risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 121/E del 2011 – si è nuovamente posto a seguito della sentenza in commento. La controversia trae origine da un avviso di liquidazione mediante il quale l’Agenzia del Territorio richiedeva al contribuente il versamento dell’imposta ipotecaria e dell’imposta di bollo, a seguito del disconoscimento del regime agevolativo previsto nell’articolo 15, primo comma, del D.P.R. n. 601 (10). La Corte, respingendo il ricorso del contribuente, ha affermato che “in tema di agevolazioni tributarie per il settore del credito, le operazioni di finanziamento, alle quali il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, art. 15, accorda un trattamento
(9) Per un commento alla risoluzione si vedano S. Ungaro, Risoluzione n. 121/E del 13 dicembre 2011 - L’imposta sostitutiva si applica anche ai finanziamenti per estinguere vecchi debiti, in IlFisco, n. 1/2012, 2; M. Di Siena, op. cit., 500. (10) È da evidenziare che la sentenza non si distingue per una chiara rappresentazione delle circostanze fattuali sulle quali la stessa si pronuncia, non essendo ben chiaro se il contribuente al quale venivano richieste l’imposta ipotecaria e l’imposta di bollo dall’Agenzia del Territorio si fosse limitato a stipulare un piano di rientro (in relazione a finanziamenti a breve o lungo termine già concessi) senza ricevere nuova liquidità e prestando nuove garanzie ovvero se avesse ricevuto un nuovo finanziamento a lungo termine (garantito da nuove garanzie) destinato al rientro del debito esistente. Leggendo la sentenza – cfr. la parte in cui si afferma che “il finanziamento per cui è stata richiesta l’agevolazione tributaria non coincide col mutuo o prestito bancario ma con la nozione di disponibilità finanziaria da destinare a investimenti produttivi, trattandosi di disponibilità finanziaria concessa al solo fine di consentire alla società il rientro da pregressi indebitamenti a breve e con espresso divieto di investire per il perseguimento dell’oggetto sociale” – la circostanza che nel caso esaminato sia stato effettivamente erogato un finanziamento non appare potersi porre in dubbio.
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fiscale di favore, vanno individuate – in base alla «ratio legis» ed al principio secondo cui le norme agevolative sono di stretta interpretazione – in quelle che si traducono nella provvista di disponibilità finanziarie, cioè nella possibilità di attingere denaro, da impiegare in investimenti produttivi (Cass. del 29 marzo 2002, n. 4611; cfr., anche Cass. 16 aprile 2008, n. 9930). La questione, quindi, deve essere risolta sulla base della ratio legis della norma di agevolazione, tenendo fermo il costante insegnamento di questa Corte, secondo cui le disposizioni che prevedono delle agevolazioni tributarie sono norme di stretta interpretazione”. Questa interpretazione non è immune da censure, in quanto la stessa conduce, proprio alla luce della ratio legis e dell’interpretazione restrittiva dell’articolo 15 del D.P.R. n. 601, a delle conclusioni differenti. Ciò lo si comprende esaminando il concetto di interpretazione restrittiva e il significato dell’accezione ratio legis. 3.1. L’interpretazione restrittiva e la ratio legis dell’articolo 15 del D.P.R. n. 601. – La Corte invoca un’interpretazione restrittiva delle norme di agevolazione. Per interpretazione restrittiva si intende quell’interpretazione in virtù della quale la disposizione interpretata si applica non a tutte le fattispecie letteralmente incluse nel suo riferimento, ma solo a una sottoclasse di esse. L’interpretazione restrittiva consiste nell’attribuire a un termine o a un sintagma un significato meno esteso di quello cui prima facie l’interprete intenderebbe attribuire allo stesso, escludendo dal campo di applicazione della disposizione fattispecie che sulla base dell’interpretazione letterale invece vi rientrerebbero (11). Secondo autorevole dottrina, l’interpretazione restrittiva altro non rappresenta che una forma di interpretazione correttiva, operata sulla base della ratio legis della disposizione interpretata (12). Quest’ultima è generalmente da intendersi come l’intenzione del legislatore all’emanazione di una determinata norma. Secondo autorevole dottrina, nella
(11) Cfr. R. Guastini, op. cit., 164. (12) Cfr. P. Chiassoni, L’interpretazione dei documenti legislativi. Nozioni introduttive, in M. Bessone (ed.), Interpretazione e diritto giurisprudenziale, I, Regole, metodi, modelli, Torino, 1999, 27, laddove chiarisce che “Mediante interpretazione correttiva, l’interprete, avendo accettato una discrepanza fra il testo della legge e la volontà del legislatore, rimedia alla (asserita) inadeguatezza dell’interpretazione letterale, sostituendola con un precetto il cui ambito di applicazione è, alternativamente, più ampio (lex minus dixit quam voluit) o più ristretto (lex magis dixit quam voluit), e rappresenta pertanto un’interpretazione estensiva, oppure un’interpretazione restrittiva di una certa disposizione”.
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ratio legis è da identificarsi segnatamente la ragione, il motivo, il risultato pratico, per cui una certa norma è stata emanata (13), identificando il principio che in concreto la legge intende realizzare (14). Ai fini della corretta individuazione della ratio legis di una norma, è al testo della stessa che occorre fare riferimento, perchè è partendo da esso che si riesce a definire il risultato razionale che la norma può perseguire nel momento in cui è stata emanata (15). Seguendo tale definizione, la ratio legis dell’articolo 15 del D.P.R. n. 601 appare diversa rispetto a quella desunta dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento. Un valido ausilio, ai fini della corretta identificazione della ratio legis sottesa all’articolo 15 del D.P.R. n. 601, può essere rappresentato dall’evoluzione normativa che ha interessato l’imposta sostitutiva sui finanziamenti. Nella legislazione previgente all’imposta sostitutiva – costituita dall’articolo 1, secondo comma, della abrogata legge 27 luglio 1962, n. 1228, il cosiddetto “regime di abbonamento” – il beneficio fiscale era riservato alle operazioni effettuate a scopo d’investimento, intendendosi per tali le operazioni destinate a fungere da volàno per il sistema economico. L’articolo 1, secondo comma, della abrogata legge 27 luglio 1962, n. 1228, stabiliva infatti che “Agli effetti della presente legge si considerano a medio o lungo termine le operazioni a scopo d’investimento di durata non inferiore a tre anni”. Il riferimento allo scopo d’investimento, presente nella previgente disciplina, non è stato riproposto nel D.P.R. n. 601. Se è dunque al testo che occorre riferirsi per identificarne la ratio legis, intesa, come sopra osservato, come il motivo sotteso all’emanazione di una determinata disposizione, la cancellazione del riferimento allo “scopo di investimento” non può che condurre alla soluzione interpretativa che considera irrilevante questa circostanza ai fini dell’applicazione del regime agevolativo contenuto nell’articolo 15 del D.P.R. n. 601. Se il legislatore avesse voluto attribuire una qualche valenza all’impiego del finanziamento, lo stesso avrebbe infatti mantenuto nel dato letterale dell’articolo 15 del D.P.R. n. 601 il riferimento “allo scopo d’investimento”. In definitiva, la ratio legis non consente di operare l’interpretazione restrittiva prospettata dalla Corte. Quest’ultima si risolve nel ripristino della formulazione testuale previgente, in evidente contrasto con la volontà
(13) Cfr. R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, 2004, 150. (14) Cfr. V. Colussi - P. Zatti, Lineamenti di diritto privato, Padova, 1995, 21. (15) Cfr. R. Guastini, op. cit., 151.
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espressa dal legislatore nella sua modifica, postulando la presenza di una condizione non espressa nella formulazione testuale vigente. Che nell’interpretare l’articolo 15 del D.P.R. n. 601 non si possa oltrepassare il dato letterale è stato del resto riconosciuto, di recente, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. La Corte, analizzando la disposizione sotto altro profilo, ha invero escluso che della stessa possa operarsi un’operazione ermeneutica che “si spinga oltre il limite del significato scaturente dalla lettera della legge” (16). 4. Conclusioni. – Le conclusioni cui è pervenuta la Corte di Cassazione nella sentenza 16 gennaio 2015, n. 695, destano forti perplessità. La soluzione proposta dalla Corte di Cassazione è irragionevole sul piano dell’ordinamento giuridico perché limita notevolmente l’operatività di un regime che sulla base della stessa interpretazione dell’Amministrazione Finanziaria ha come obiettivo quello di agevolare il più possibile l’accesso al credito. L’interpretazione proposta – secondo cui il finanziamento, ai fini dell’applicazione del regime agevolativo previsto nell’articolo 15 del D.P.R. n. 601, deve essere impiegato in un investimento produttivo – rischia di dare nuovamente origine a un evitabile contenzioso e di creare confusione tra gli operatori.
(16) Cfr. l’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 3 giugno 2015, n. 11373. In tale ordinanza, la Corte ha precisato che “Costituisce, dunque, caposaldo dell’ordinamento tributario il principio secondo cui le norme, che, come quella di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, riconoscono agevolazioni o benefici fiscali in deroga all’ordinario regime d’imposizione, sono norme ad interpretazione rigida ed anelastica, in quanto rigorosamente legata al dato letterale. Ed è la centralità stessa del criterio nel sistema dell’imposizione, al fine del perseguimento degli equilibri cui l’imposizione deve mirare in ottemperanza ai principi di cui agli artt. 23, 53 e 81 Cost., (cfr. C. cost. 10/2015), a rendere ineludibile la sua osservanza. Ne discende che, in relazione a dette norme, non può ritenersi ammessa operazione ermeneutica (quale quella attuata da Cass. 5845/11) che, quantunque in ottica di dichiarata interpretazione storico-adeguatrice e costituzionalmente orientata, si spinga oltre il limite del significato scaturente dalla lettera della legge, nella specie pretendendo di ridefinire il requisito soggettivo dell’agevolazione, riportando alla nozione di <banca>, testualmente riferibile al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, quella di <intermediario finanziario>, ontologicamente affatto eterogenea e nemmeno coincidente sul piano dell’operatività. Nei confronti di norma eccezionale e, comunque, di <stretta interpretazione>, anche l’interpretazione logico-evolutiva e quella costituzionalmente orientata sono, infatti, precluse, ove, operando in ottica non difforme da quella propria dell’applicazione analogica, inducano ad estendere la sfera di operatività della norma interpretata, in vista di pretesa ratio di norma sovraordinata, ad ipotesi non sussumibile nel relativo specifico significato testuale”.
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È infine da notare che sulla fattispecie oggetto della sentenza in commento la Corte di Cassazione non si sarebbe dovuta nemmeno pronunciare: l’ufficio dell’Amministrazione Finanziaria che aveva emesso gli atti impositivi da cui il giudizio aveva avuto origine avrebbe dovuto invero annullare in autotutela gli stessi, proprio a seguito della pubblicazione da parte dell’Agenzia delle Entrate della risoluzione n. 121/E del 2011. In tale scenario, oltre a una revisione organica della materia, già auspicata dalla dottrina (17), appare oltremodo necessario un intervento del legislatore, mediante una norma di interpretazione autentica volta a precisare il parametro applicativo dell’agevolazione in questione.
Salvatore Cameli
(17) Cfr. S. Loconte, op. cit., 41.
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Cassazione, Sez. VI-5, Sent. 10 aprile 2015 - 4 marzo 2015, n. 7339 – Pres. Cicala – Rel. Caracciolo Accertamento – Accertamento sintetico – Spese per incrementi patrimoniali – Art. 38, sesto comma, del D.P.R. 600/73, vigente “ratione temporis” – Prova contraria a carico del contribuente – Possesso di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte – Sufficienza – Dimostrazione del loro impiego per gli acquisti effettuati – Irrilevanza Qualora l’Agenzia delle Entrate accerti sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione a spese per incrementi patrimoniali, la prova documentale contraria ammessa a carico del contribuente, ai sensi dell’art. 38, comma 6, del D.P.R. 600/73, nel testo vigente ratione temporis, riguarda la sola disponibilità di risorse prive di rilevanza reddituale e non si estende anche alla dimostrazione del loro specifico impiego per l’effettuazione delle spese contestate. (1)
(Omissis) Svolgimento del processo. 1. Gli atti del giudizio di legittimità. La CTR di Milano ha respinto l’appello dall’Agenzia proposto contro la sentenza n. 167/46/2010 della CTP di Milano che aveva accolto il ricorso di G.G. contro avviso di accertamento per IRPEF 2005, avviso emesso a seguito di accertamento sintetico di genere presuntivo fondato sulla capacità di spesa desunta dall’acquisto di tre appartamenti intestati al coniuge (fiscalmente a carico) del contribuente e dall’acquisto di una autovettura di grossa cilindrata. L’Agenzia ha interposto ricorso per cassazione affidato a unico motivo. La parte intimata si è costituita con controricorso (e ricorso incidentale che è privo delle caratteristiche minime necessarie ai fini di consentire che lo si consideri tale, siccome manca la imprescindibile identificazione di uno dei motivi di impugnazione tra quelli tassativamente identificati dall’art. 360 c.p.c.). Il ricorso è stato esaminato dal relatore designato ai sensi dell’art. 380 c.p.c., e fatto oggetto di proposta di definizione con la procedura di cui all’art. 375 c.p.c., ma il collegio designato per la trattazione camerale ne ha disposto la rimessione in pubblica udienza, ritenuto che non sussistessero i presupposti per la trattazione camerale. Non sono state depositate memorie illustrative. La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 4.3.2015.
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2. La motivazione della sentenza impugnata. La CTR Lombardia ha motivato la decisione ritenendo che la documentazione agli atti di causa per il periodo dal 2003 al 2008 apparisse idonea a giustificare gli investimenti immobiliari effettuati nel periodo (si trattava di rimborsi di finanziamenti effettuati in precedenza a favore di due società, oltre ai redditi dichiarati in somme cospicue, per importi complessivi che risultavano congrui per giustificare gli investimenti), in ragione di movimentazioni bancarie desunte dagli estratti-conto allegati in copia all’appello incidentale di parte contribuente. 3. Il ricorso per cassazione. Il ricorso per cassazione è sostenuto con unico motivo e si conclude – previa indicazione del valore della lite in Euro 132.108,20 – con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con ogni consequenziale pronuncia anche in ordine alle spese di lite. Motivi della decisione. 4. Il motivo dell’impugnazione. Con il motivo unico di impugnazione (improntato alla violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, e dell’art. 2697 c.c.) la ricorrente si duole del fatto che il giudice del merito abbia ritenuto sufficiente da parte del contribuente – ai fini di vincere la presunzione di legge – la prova di percezione di adeguati redditi esenti o di redditi già soggetti a ritenuta alla fonte ai fini di giustificare gli incrementi patrimoniali, senza richiedere anche la necessaria prova del concreto impiego di detti redditi nell’effettuazione delle spese, mediante la specifica dimostrazione dell’impiego proprio di quelle somme che ne avevano costituito il frutto. La censura appare infondata e da disattendersi. La parte ricorrente menziona a sostegno della propria doglianza la pronuncia di questa Corte n. 6813/2009 (massimata come di seguito: “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la prova documentale contraria ammessa per il contribuente dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, non riguarda la sola disponibilità di redditi ovvero di redditi esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ma anche l’essere stata la spesa per incrementi patrimoniali sostenuta proprio con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, e non già con qualsiasi altro reddito dichiarato”), orientamento al quale hanno poi aderito Cass. sez. 5 n. 23785 del 24.11.2010, Cass. sez. 6-5, Ordinanza n. 2010 del 29.1.2014 e – solo come premessa argomentativa ai fini della reiezione dell’impugnazione proposta dall’Agenzia - Cass. sez. 5, Sentenza n. 3111 del 12.2.2014, orientamento che non può avere qui seguito e costituire condivisibile ricostruzione esegetica della disciplina normativa invocata a supporto del motivo di impugnazione. E ciò, non soltanto perché il testo del comma 6, del menzionato art. 38 (nella versione applicabile ratione temporis, antecedente alla recente novella introdotta dal
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D.L. n. 78 del 2010, art. 22) non contempla affatto un tale “contenuto necessario” dell’onere di prova che incombe a carico della parte contribuente per effetto dell’inversione disposta dalla norma (“Il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”), così che esso si estenda alla dimostrazione della stretta correlazione tra spese e somme derivanti da redditi esenti o già soggetti a ritenuta alla fonte, ma anche perché vi sono argomenti logici, a valenza di interpretazione sistematica, che depongono a sfavore di un così rigoroso tenore dell’onere di prova. Da un canto, la tesi che ha trovato accoglimento nella pronuncia dianzi menzionata finirebbe per spostare il baricentro della prova contraria addossata al contribuente dall’ambito della “astratta compatibilità” tra spese/tenore di vita e reddito fiscalmente non rilevante al vero e proprio nesso causale tra le due connesse entità, e ciò fino ad imporre al contribuente un rigore probatorio capace di confinare con la probatio diabolica: ed infatti, se il danaro è l’ente fungibile per eccellenza, riuscire a tenerne tracciati i percorsi, quasi alla stregua di quanto è imposto per i prodotti alimentari nel sistema di tutela delle denominazioni d’origine, appare davvero evenienza troppo ardua. Ciò appare immediatamente percepibile con riferimento alla modalità dell’accertamento redditometrico “puro” (non essendoci davvero modo per comprovare “come” sia stata sostenuto l’onere economico della disponibilità di beni o servizi a godimento perdurante nel tempo o periodicamente ricorrente, specie perché si tratta di una spesa presunta in ragione di dati di normalità economica e non necessariamente sostenuta in pecunia o valori correnti, e comunque non fisicamente identificata), ma non può risultare meno vero anche in riferimento alla modalità di accertamento redditometrico “sintetico”, atteso che è del tutto conforme alla logica che il contribuente possa avere adoperato per i suoi acquisti di beni e servizi proprio i redditi che sono stati puntualmente dichiarati, sapendo di poter poi contare (per affrontare le residue ed ordinarie esigenze della vita) su quelli fiscalmente irrilevanti o comunque già oggetto di prelievo alla fonte. D’altronde, anche a voler stare alla sola logica del sistema, non si può che rilevare la costruzione accusatoria, nell’accertamento sintetico, si incentra su presunzioni che, sono fondate sulla “incompatibilità” tra tenore di vita e reddito dichiarato (l’art. 38, comma 4, prevede: “L’ufficio... può, in base ad elementi e circostanze di fatto certi, determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze quando il reddito complessivo netto accettabile si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato”), sicché la prova contraria non può che tendere a dimostrare l’esatto opposto di questo assunto, e perciò la “compatibilità” tra tenore di vita e reddito dichiarato, compatibilità che non
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può che essere di genere astratto così da prescindere dalla esatta identificazione del nesso causale tra incassi ed esborsi. Inoltre, i destinatali dell’accertamento sintetico sono – per definizione – soggetti non obbligati alla tenuta delle scritture contabili, sicché ad essi non si può estendere la logica che presiede agli accertamenti fondati sui riscontri con i conti correnti bancari (tante operazioni, altrettanti riscontri documentali ci devono essere circa la provenienza o la destinazione) e non li si può gravare di fornire la puntuale dimostrazione della correlazione causale tra il loro tenore di vita e la disponibilità di risorse prive di rilevanza fiscale. D’altronde, più di recente (ma sempre in riferimento alle fattispecie soggette alla disciplina ante novella) questa Corte ha evidenziato che, anche con riferimento agli accertamenti sintetici fondati su spese sostenute per “incrementi patrimoniali”, la prova documentale contraria di cui è onerato il contribuente “riguarda la sola disponibilità di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte e non anche la dimostrazione del loro impiego negli acquisti effettuati”, essendo detta circostanza “idonea, da sola, a superare la presunzione dell’insufficienza del reddito dichiarato” (Cass. sez. 5 Sentenza n. 6396 del 19.3.2014). In un’ottica di interpretazione logico-sistematica, la predetta pronuncia giunge alla conclusione che al contribuente è richiesto di semplicemente vincere la presunzione “semplice o legale che sia” che il reddito dichiarato non sia stato sufficiente per realizzare gli acquisti o gli incrementi, con la qual cosa il fatto presuntivo esposto dall’Ufficio cessa di “produrre i propri effetti”. Per altro verso, ed in un’ottica esegetica di maggiore aderenza al dato letterale normativo, Cass. sez. 5 Sentenza n. 8995 del 18.4.2014 (poi ripresa da Cass. sez. 5 Sentenza n.17663 del 6.8.2014 e da Cass. sez. 5 Sentenza n.25104 del 26.11.2014) ha invece affermato che “la prova documentale contraria ammessa per il contribuente dall’art.38… non riguarda la sola disponibilità di redditi esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, ma anche l’entità di tali redditi e la durata del relativo possesso che costituiscono circostanze sintomatiche del fatto che la spesa contestata sia stata sostenuta con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta”. Tuttavia, affrontare qui la soluzione della questione – oggetto del dibattito intrapreso con i due orientamenti da ultimo menzionati – se la prova di entrambe siffatte “circostanze sintomatiche” sia oggetto di un onere necessario ed ineludibile con riferimento ad entrambe le tipologie di accertamento di tipo redditometrico, ovvero se competa al giudice del merito semplicemente fare adeguata e calibrata valutazione delle risultanze di causa (queste si, necessariamente documentali) – al fine di valutare se sia da ritenersi integrata, almeno grazie ad una delle due categorie di circostanza contemplate, la prova contraria che la disciplina di legge addossa alla parte contribuente – appare del tutto frustraneo, atteso che, per quanto rileva ai fini delle specie di causa, resterebbe argomentazione puramente teorica.
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Ai fini della soluzione della lite basta infatti ribadire la pura e semplice infondatezza della tesi prospettata dalla parte ricorrente, la quale propone una esegesi normativa che non trova – a parere di questa Corte – riscontro alcuno nella lettera e nella ratio della legge, per tutte le ragioni che sono state poste in evidenza nella presente pronuncia e che costituiscono anche i presupposti argomentativi dei due orientamenti da ultimo enunciati, seppure questi ultimi ne facciano poi derivare esiti parzialmente difformi. 5. Conclusioni. Non resta che concludere che l’apprezzamento del giudicante, radicato proprio sulla ritenuta idoneità della prova contraria addotta dal contribuente a dimostrare la compatibilità tra complessivi redditi maturati e le spese effettuate per incrementi patrimoniali, non merita cassazione per le ragioni postulate dalla parte ricorrente. L’infondatezza dell’unico motivo giustifica l’integrale rigetto del ricorso principale, con conseguente assorbimento di quello incidentale. La regolazione delle spese di lite è improntata al criterio della soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso.
(1) La prova contraria all’accertamento sintetico tra nesso eziologico e compatibilità tra spese e risorse prive di significanza reddituale. Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi della possibile prova contraria che il contribuente può opporre a fronte di un accertamento del reddito complessivo operato dall’Agenzia delle Entrate con metodologia sintetica. In particolare, la Corte ha confermato che ai fini del superamento della presunzione di equivalenza tra spesa per incrementi patrimoniali ed asserito reddito non dichiarato, è sufficiente che il contribuente provi il solo possesso di congrue risorse legittimamente escluse dalla formazione del reddito imponibile, senza dover anche dare dimostrazione del loro specifico impiego per le spese contestate. Il lavoro costituisce un approfondimento del tema dell’oggetto della prova contraria nell’accertamento sintetico anche alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza più recente della Corte nonché delle modifiche che hanno interessato l’art. 38 del D.P.R. 600/1973. With the commented decision, the Court of Cassation is examining again the possibility for the taxpayer to provide favourable evidence against income assessments formed by the Tax Authorities on the basis of the so-called “synthetic method”. In the situation under scrutiny, the Court confirmed that in order to overcome the presumption of correspondence between investments made and (presumably undeclared) taxable income, it is the sufficient that the taxpayer provided evidence of the possession of sufficient financial resources that are legitimately excluded from the taxable base, with no need to provide further evidence that the investment was made specifically with those resources. The essay is investigating therefore the topic of evidence favourably provided by the taxpayer against s.c. synthetic tax assessments, also in the light of the evolution of the case law of the Court of Cassation
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on such matter, and of the legislative modification that invested art. 38, Presidential Decree n. 600 of 1973.
Sommario: 1. Premessa. – 2. La controversia oggetto della sentenza e la problematica
individuazione dei confini della prova contraria del contribuente. – 3. Accertamento sintetico ed oggetto della prova contraria tra rigidità e recenti aperture nella giurisprudenza della Suprema Corte. – 4. La difficile prova del nesso eziologico tra modalità di circolazione della ricchezza, vincoli temporali e rischi di tassazione della spesa. – 5. La mera compatibilità tra spese e disponibilità redditualmente irrilevanti quale oggetto della prova contraria nell’accertamento sintetico anche dopo la modifica dell’art. 38 del DPR 600/73 ad opera del D.L. 78/2010.
1. Premessa. – Con la sentenza in rassegna, la Corte di Cassazione torna nuovamente ad affrontare il tema della possibile prova contraria opponibile a fronte di un accertamento del reddito complessivo della persona fisica operato dall’Agenzia delle Entrate con metodologia sintetica. La questione dirimente attiene, in particolare, all’oggetto della prova e segnatamente verte nello stabilire se ai fini del superamento della rilevanza presuntiva, sul piano reddituale, della spesa individuata dall’Amministrazione Finanziaria, debba assumersi o meno come sufficiente la sola documentazione del possesso di disponibilità prive di apprezzabile rilevanza reddituale. Trattasi di questione complessa che sconta l’estrema laconicità della disposizione di riferimento, nel dato testuale applicabile prima dell’ampio intervento di modifica operato con il D.L. 31.05.2010 n. 78, e che risulta essere stata oggetto di soluzioni interpretative tutt’altro che uniformi nella più recente giurisprudenza della stessa Corte. 2. La controversia oggetto della sentenza e la problematica individuazione dei confini della prova contraria del contribuente. – La controversia origina da un accertamento sintetico fondato sulla asserita capacità reddituale derivante dall’acquisto, da parte di una persona fisica, di alcuni immobili, ancorché successivamente intestati al coniuge fiscalmente a carico, nonché di un’autovettura di grossa cilindrata. Avverso la determinazione reddituale operata dall’Agenzia ai sensi dell’art. 38 del D.P.R. 600/73, il contribuente aveva prodotto in giudizio documentazione bancaria attestante la sussistenza di disponibilità finanziarie congrue per giustificare gli investimenti effettuati e costituite dal rimborso di precedenti finanziamenti nonché dal risparmio conseguente al possesso di rilevanti redditi regolarmente dichiarati. A fronte di un giudizio di merito che aveva statuito, sia in primo
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che in secondo grado, l’illegittimità del provvedimento impositivo impugnato per la sussistenza di adeguata prova contraria, l’Amministrazione Finanziaria aveva interposto ricorso per Cassazione lamentando la circostanza che il giudice d’appello avesse ritenuto sufficiente, al fine di giustificare gli incrementi patrimoniali contestati, la sola prova della percezione di adeguati redditi esenti o soggetti a ritenuta d’imposta, senza invece anche pretendere idonea dimostrazione del loro specifico impiego per l’effettuazione delle spese contestate. Con la sentenza in rassegna la Corte ha confermato la decisione dei secondi giudici statuendo, in particolare, che nel caso di accertamento sintetico del reddito complessivo della persona fisica fondato sulla capacità di spesa per incrementi patrimoniali, ai fini del superamento della presunzione di equivalenza tra spesa ed asserito reddito non dichiarato prevista dall’art. 38, comma 6, del D.P.R. 600/73, è sufficiente che il contribuente provi il solo possesso di congrue risorse legittimamente escluse dalla formazione del reddito imponibile, senza dover anche dare dimostrazione del loro specifico utilizzo per le spese contestate. Trattasi di arresto assai significativo perché sembra confermare, nella giurisprudenza della Corte, un sostanziale distacco da una precedente linea interpretativa che pareva invece consolidata e che risultava connotata da una oggettiva rigidità in ordine alla valutazione, non solo dei mezzi di prova ritenuti idonei, ma anche e soprattutto dell’oggetto della prova validamente opponibile avverso una ricostruzione del reddito operata con metodologia sintetica (1). Ancorché formulata con riguardo al solo caso delle spese per “incrementi patrimoniali”, la sentenza offre tuttavia lo spunto per alcune brevi riflessioni sul più generale tema della delimitazione della prova contraria nel caso degli accertamenti sintetici e sintetico-redditometrici, anche considerato che l’art. 38, nella versione applicabile ratione temporis, non distingueva affatto, proprio sul piano della prova contraria, tra reddito sinteticamente accertabile
(1) L’espressione metodologia di accertamento identifica lo schema logico ricostruttivo impiegato dall’Amministrazione Finanziaria per la determinazione dell’imponibile. Con riguardo alle persone fisiche non obbligate alla tenuta delle scritture contabili è noto che l’art. 38 del DPR 600/73 annoveri due metodi di accertamento del reddito complessivo, ovvero il metodo analitico che presuppone la conoscenza delle fonti e quello sintetico che prescinde, invece, da tale conoscenza, si fonda sulla spesa e risulta fortemente declinato sul fronte delle presunzioni.
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fondato su spese per incrementi patrimoniali e reddito invece fondato sulla mera disponibilità dei beni e servizi di matrice redditometrica (2). 3. Accertamento sintetico ed oggetto della prova contraria del contribuente tra rigidità e recenti aperture nella giurisprudenza della Suprema Corte. – È noto che l’accertamento sintetico costituisce una metodologia di accertamento in cui la determinazione del reddito complessivo della persona fisica prescinde dalla conoscenza delle sue fonti di produzione, ma si fonda, invece, sui suoi impieghi, ovvero sul suo utilizzo per consumi ed investimenti personali (3). L’accertamento sintetico poggia, infatti, sul semplice fondamento logico secondo cui il sostenimento di una spesa, sia essa per consumi o per incrementi patrimoniali, risulta sintomatico, fino a prova contraria, dell’esistenza di un reddito idoneo a consentirla (4).
(2) Il problema dei limiti dell’oggetto della prova contraria, in presenza della disciplina dell’art. 38 vigente prima della modifica operata con il D.L. 78/2010, di fatto sussisteva non solo con riguardo alle spese per incrementi patrimoniali ma anche per il reddito determinabile sinteticamente per effetto dell’applicazione dei coefficienti redditometrici. Infatti non era infrequente riscontrare nella prassi che l’Agenzia richiedesse prova del collegamento redditospese per qualunque tipologia di spesa, ivi comprese quelle di derivazione redditometrica, talvolta anche estendendo la suddetta richiesta al punto di pretendere una dimostrazione quasi millimetrica di corrispondenza, anche temporale, tra le disponibilità finanziarie ed il loro effettivo utilizzo. Sul più specifico problema della prova del nesso eziologico nel caso di accertamenti sintetico-redditometrici, tra le pronunce di merito si segnalano, tra le altre, Comm. Trib. Reg. Lombardia, 14.10.2014 n. 5311, in G.T., 2015, 446 ss., con nota di Procopio M., nonché Comm. Trib. Prov. di Reggio Emilia, 09.10.2012 n. 272, in Corr. trib., 2013, 287 ss., con nota di M. Beghin. (3) L’assunto è pacifico in dottrina. Sul punto, si vedano, tra gli altri, M. Beghin, Diritto tributario, Milano, 2015, 328; G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte generale, Padova, 2012, 427; A. Fantozzi, Corso di diritto tributario, Torino, 2003, 197 ss; S. La Rosa, Principi di diritto tributario, Torino, 2006, 195; R. Lupi, Diritto tributario, parte generale, 2005, 189; G. Marongiu - A. Marcheselli, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2009, 94 ss.; P. Russo, Manuale di diritto tributario, parte generale, 2007, 309; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, parte generale, Torino, 2011, 216; G. Tinelli, L’accertamento sintetico del reddito complessivo nel sistema dell’Irpef, Padova, 1993, 207 ss. (4) È stato rilevato come l’accertamento sintetico si concretizzi in un percorso a ritroso di determinazione del reddito che, anzichè muovere dalle fonti, come nel caso dell’accertamento analitico, parte dalla sua erogazione, ovvero dalla spesa che l’Amministrazione Finanziaria riesce ad individuare in relazione al singolo contribuente. Nello schema operativo sotteso all’accertamento sintetico assume, infatti, rilievo non tanto l’ammontare delle spese per consumi o per investimenti effettivamente ascrivibili ad un certo soggetto, quanto, invece, l’ammontare delle spese che il fisco riesca effettivamente a conoscere (in tal senso si veda M. Beghin, Profili
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Il rapporto di connessione tra spesa e reddito si fonda, quindi, su un’idea di gestione del patrimonio secondo cui, nella generalità dei casi, una spesa presuppone un preventivo incremento patrimoniale, mentre una spesa che ecceda le proprie possibilità costituisce una mera eccezione a siffatta regola (5). Il nesso inferenziale che lega direttamente la spesa al reddito nell’accertamento sintetico ordinario, si integra di un ulteriore passaggio nel caso dell’accertamento sintetico-redditometrico, laddove la disponibilità di beni e servizi presuppone, a monte, il sostenimento di una spesa per il loro mantenimento e la spesa, a sua volta, il possesso di un reddito adeguato a consentirla (6) (7). Anche è noto che il contribuente possa, comunque, evitare l’accertamento sintetico dimostrando il possesso di disponibilità non fiscalmente rilevanti. L’art. 38 del D.P.R. 600/73, nel testo applicabile alla fattispecie decisa con la sentenza in commento, richiede, più in particolare, il possesso di “redditi esenti” o “soggetti a ritenuta a titolo d’imposta”, ancorché il suddetto richiamo
sistematici e questioni aperte in tema di accertamento “sintetico” e “sintetico redditometrico”, in Riv. dir. trib., 2010, 720). (5) In questo senso L. Tosi, Commento all’articolo 38 del D.P.R. 600/73, in F. Moschetti (a cura di), Commentario breve alle leggi tributarie, Accertamento e sanzioni, Padova, 2011, 233 il quale in particolare sostiene che il rapporto di connessione tra spesa e reddito si fonderebbe su un’idea di gestione del patrimonio secondo i canoni normali di comportamento del buon padre di famiglia. (6) In realtà il D.M. 24.12.2012 che ha approvato il nuovo redditometro, dopo la modifica operata all’art. 38 del DPR 600/73, ha reso meno netta la distinzione tra accertamento sintetico ordinario ed accertamento sintetico redditometrico di fatto prevedendo, con riguardo a quest’ultimo, una metodologia in cui la determinazione presuntiva del reddito complessivo risulta ora fondata su spese certe, su spese per elementi certi, su incrementi patrimoniali nonché sulla quota del risparmio. Per un approfondimento dei contenuti del decreto si vedano, tra gli altri, A. Contrino - A. Marcheselli, Il “redditometro 2.0” tra esigenze di privacy, efficienza dell’accertamento e tutela del contribuente, in Dir. prat. trib., 2014, I, 688 ss.. (7) Entrambe le fattispecie hanno, quindi, a loro fondamento uno schema di natura presuntiva che, pur conducendo al medesimo risultato finale ovvero la determinazione del reddito complessivo sinteticamente accertabile, si qualifica tuttavia in modo diverso dal punto di vista giuridico, determinando anche un conseguente, diverso, riparto dell’onere probatorio tra contribuente ed amministrazione finanziaria. Sulla natura delle presunzioni che sostengono l’accertamento sintetico, anche per riferimenti bibliografici, ci permettiamo di rinviare a A. Modolo, L’accertamento sintetico redditometrico e la categoria degli accertamenti “standardizzati” tra esigenze di contrasto dell’evasione, ricerca del reddito normale e rischi di tassazione del reddito immaginario, in Riv. dir. trib., 2013, 492 ss, nonché in ordine invece alle presunzioni poste a base del nuovo redditometro si veda A. Contrino - A. Marcheselli, op. cit., 688 ss.
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sia stato spesso interpretato in modo estensivo da dottrina e giurisprudenza fino a comprendere qualsiasi disponibilità economica priva di rilevanza sul piano di applicazione dell’Irpef (8). La stessa disposizione impone, tuttavia, che debbano risultare da idonea documentazione l’entità dei citati redditi e la durata del loro possesso, ed è proprio in relazione al significato attribuibile a tale espressione che si riscontrano i profili di maggiore complessità ed incertezza sul piano interpretativo. La stessa giurisprudenza della Corte sembra riflettere ampiamente tale problematicità laddove solo si osservi che ad alcuni primi arresti connotati da una evidente rigidità nell’applicazione della norma, sono poi seguite significative più recenti aperture. Per lungo tempo l’orientamento della Corte è infatti sembrato fondarsi sui principi delineati da due sentenze del 2009, segnatamente le nn. 6813 e 6814, poi ripresi anche in altre pronunce, secondo cui la disposizione richiamata richiederebbe qualcosa in più della sola prova della disponibilità di somme prive di rilevanza sul piano reddituale. Invero, segnando in qualche modo l’inizio di un filone caratterizzato da una evidente e per certi versi ingiustificata rigorosità, la Corte ha sottolineato come nel caso dell’accertamento sintetico, la prova contraria del contribuente non possa essere limitata alla sola dimostrazione del possesso di redditi esenti o soggetti a ritenuta a titolo d’imposta, ma debba essere anche estesa alla dimostrazione che la spesa per incrementi patrimoniali sia stata sostenuta, non già con qualsiasi altro reddito ovviamente dichiarato, bensì proprio con i redditi esenti o soggetti a ritenuta d’imposta oggetto di dimostrazione. È questa la prova del cosiddetto nesso eziologico, in assenza della quale, a dire della Corte, siffatta spesa continuerebbe a produrre i suoi effetti presuntivi a danno del contribuente (9).
(8) Il contribuente può, quindi, provare che le spese siano state finanziate con risorse legittimamente escluse dalla formazione del reddito imponibile in quanto esenti, ovvero già tassate in forma sostitutiva ovvero ancora non aventi natura reddituale (come le liberalità). Le fattispecie che integrano le ragioni della non tassabilità non sono però assunte in numero chiuso dalla Cassazione; sul punto vedasi M. Basilavecchia, Sui limiti alla prova contraria nell’accertamento sintetico e redditometrico, in G.T.,2014, 594. La stessa Agenzia delle Entrate, con la circolare 9 agosto 2007 n. 49/E, ha di fatto attribuito rilevanza a prove diverse da quelle previste dall’art. 38, comma 6, del DPR 600/73, ancorché riferibili ad altri componenti il nucleo familiare. (9) Il principio di diritto delineato con le richiamate sentenze Cass., sez. 5, nn. 6813 e 6814 del 20.03.2009 è stato infatti ribadito con le successive sentenze Cass., sez. 5, 24.11.2010 n. 23785, 20.02.2013 n. 4138, 12.02.2014 n. 3111, con l’ordinanza Cass., sez. 6,
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Con alcuni recenti ed innovativi arresti la Corte sembra invece avere ripensato i confini dell’oggetto della richiesta prova contraria, giungendo ad affermare come sia possibile giustificare la spesa sostenuta per un incremento patrimoniale con la sola prova della sussistenza di disponibilità prive di rilevanza ai fini Irpef, senza dover necessariamente dimostrare anche il collegamento tra la suddetta spesa e le relative disponibilità (10). A dire della Corte, quindi, la sussistenza di risorse irrilevanti dal punto di vista reddituale e congrue sotto il profilo quantitativo, costituirebbe ex se circostanza idonea per superare la presunzione reddituale posta a fondamento della metodologia in parola. Anche la sentenza in rassegna segue, in modo pienamente condivisibile, questa evoluzione della linea interpretativa meno rigorosa della Corte relegando, quindi, il preteso nesso eziologico a requisito non essenziale ai fini della prova liberatoria. 4. La difficile prova del nesso eziologico tra modalità di circolazione della ricchezza, vincoli temporali e rischi di tassazione della spesa. – Estendere l’oggetto della prova contraria al piano del nesso eziologico significa assumere che, ai fini del superamento della presunzione di equivalenza tra spese sostenute ed asserito reddito non dichiarato, non sia sufficiente la sola dimostrazione della sussistenza di risorse prive di rilevanza
29.01.2014 n. 2010 nonché con la sentenza Cass., sez. 5, 18.04.2014 n. 8995. In particolare, con quest’ultimo arresto la Corte ha precisato che ai fini della prova contraria è necessaria la presenza di un ulteriore quid pluris rispetto alla mera documentazione probatoria offerta dal contribuente, dovendosi ritenere necessaria anche la prova della durata del possesso dei redditi. Dall’art. 38 emergerebbe la necessità di riferire la maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente proprio agli ulteriori redditi esenti o soggetti a titolo d’imposta, escludendo che detti redditi siano stati utilizzati per finalità non considerate ai fini dell’accertamento. Con la sentenza n. 12.02.2014 n. 3111 la Corte ha ulteriormente ribadito il principio introducendo tuttavia l’idea che, ai fini della prova del nesso causale esistente tra la provvista e l’impiego della disponibilità finanziaria conseguentemente acquisita, sarebbe sufficiente la contiguità temporale delle operazioni e la sostanziale equivalenza degli importi delle somme, rispettivamente disinvestite e reimpiegate. (10) Il riferimento è, in particolare, alle sentenze Cass., sez. 5, 19.02.2014 n. 6396 (in G.T., 2014 588 e ss. con nota di M. Basilavecchia) nonché Cass., sez. 5, 6.08.2014 n. 17763. Con quest’ultima sentenza la Corte ha espressamente affermato che nel caso della spesa per incrementi patrimoniali, ai fini della prova contraria del contribuente, non è richiesta la dimostrazione del nesso causale tra reddito o disinvestimento e spesa sostenuta ma è tuttavia necessario provare oltre l’entità delle disponibilità finanziarie anche il loro possesso per un periodo di tempo sufficiente.
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Irpef idonee a giustificarle, ma occorra anche collegare direttamente tali risorse con le spese. È sufficiente questa semplice enunciazione per comprendere subito che il nesso eziologico, ove preteso, determini un innalzamento rilevante ma, come vedremo, affatto giustificato della soglia di rigorosità nella valutazione della prova liberatoria richiesta al contribuente accertato. Provare la mera disponibilità di risorse finanziarie è, infatti, cosa assai diversa e certamente meno gravosa dal provare l’impiego delle stesse risorse per consumi o investimenti. La dimostrazione del nesso, a differenza della mera dimostrazione di una disponibilità di denaro, presuppone, infatti, di provare un duplice collegamento, da un lato, quello tra le singole spese e le singole movimentazioni finanziarie e, dall’altro, quello tra le suddette movimentazioni e le relative disponibilità prive di rilevanza sul piano reddituale. Ciò non significa che una prova siffatta non possa in astratto essere fornita dal contribuente. Ma la possibilità astratta di fornire la prova del nesso de quo è questione molto diversa e, comunque, assai meno rilevante rispetto alla effettiva fondatezza di tale preteso requisito alla luce del quadro normativo di riferimento. Sotto questo profilo, è indubbio che la possibilità teorica di fornire la prova del nesso dipenda in larga misura dalle modalità con cui la ricchezza circola abitualmente e, in alcuni casi, detta prova certamente non potrebbe essere assunta come impossibile. In particolare, nel caso di spese per investimenti, anche considerato l’obbligo di tracciabilità delle movimentazioni di denaro per importi superiori al limite di utilizzo del contante, non sarebbe in astratto così difficoltoso per il contribuente poterla produrre. Si pensi, ad esempio, all’operazione di vendita di un immobile o di titoli ed al successivo riacquisto di altro immobile o di un’autovettura che avvengano sempre con mezzi finanziari tracciati, per cui la prova dell’origine e della successiva destinazione della provvista potrebbe essere agevolmente fornita dal contribuente attraverso la produzione di semplice documentazione bancaria. Ovvero si pensi ancora alle stesse operazioni di acquisto realizzate, però, con l’utilizzo di risparmi di redditi già tassati affluiti sul conto corrente dello stesso contribuente. Nel caso di spesa per importi elevati, per operazioni recenti e di elementare inquadramento, la prova del nesso eziologico potrebbe, pertanto, assumersi almeno in linea teorica come possibile, ancorché detta prova imponga un inevitabile obbligo di conservazione documentale che tuttavia, come sarà
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meglio precisato infra, non risulta previsto da alcuna disposizione. Ma il quadro così semplificato cambia radicalmente, al punto da rendere la citata prova estremamente difficoltosa, qualora le operazioni siano ad esempio meno elementari, oppure siano state realizzate qualche anno prima con l’intervento di soggetti terzi che magari abbiano anche contribuito al sostenimento delle relative spese, ovvero ancora qualora il contribuente non abbia semplicemente poi conservato tutta la documentazione. Per le spese di importi più modesti, tipiche invece dell’accertamento redditometrico (segnatamente quelle sotto il limite di circolazione del contante) la prova del nesso eziologico potrebbe invece risultare, anche in linea teorica, assai difficoltosa se non addirittura impossibile. È il caso, ad esempio, del contribuente che, per abitudine consolidata, sia solito prelevare dal proprio conto, ove confluiscono i redditi dichiarati, per contanti ed in unica o più soluzioni, la provvista necessaria alle esigenze di mantenimento suo e della famiglia. In siffatta ipotesi è evidente che la prova del sostenimento di spese ricorrenti (ad es. le spese di manutenzione dell’auto, le rate del muto pagate allo sportello) utilizzando esattamente la suddetta provvista, potrebbe risultare oggettivamente impossibile. Ma anche qualora fosse agevole o anche solo possibile, la prova del nesso risulta comunque disattesa sulla base di significativi elementi, anche di carattere sistematico, che legittimano invece pienamente l’interpretazione assunta dalla Corte con la sentenza in rassegna. In primo luogo, il dato testuale della disposizione di riferimento: l’art. 38, comma 6, nel testo applicabile ratione temporis, richiedeva infatti solo la documentazione dell’entità e della durata del possesso delle disponibilità prive di rilevanza reddituale, mentre invece nulla disponeva quanto all’asserita dimostrazione del nesso tra le spese imputate dall’Agenzia e le suddette disponibilità (11). La disposizione, quindi, non richiedeva affatto, né tantomeno lo richiede nella versione attualmente applicabile, la dimostrazione dettagliata dell’impiego delle citate disponibilità per l’effettuazione delle
(11) L’art. 38, sesto comma, del D.P.R. 600/73 nel testo applicabile anteriormente alle modifiche apportate con l’art. 22 del D.L. 31.05.2010 n. 78, convertito con modifiche dalla legge 30.07.2010 n. 122, stabiliva: “Il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”.
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spese per incrementi patrimoniali o, più in generale, per il finanziamento del tenore di vita del contribuente, esigendo invece la mera dimostrazione della loro entità nonché della durata del loro possesso (12). Ma, anche a voler forzare in modo ingiustificato il dato letterale della norma, è evidente come tale asserita dimostrazione presupporrebbe, di fatto, un onere di conservazione documentale nonché di tenuta di una sorta di seppur elementare contabilità finanziaria che, tuttavia, né l’art. 38 né tantomeno altra disposizione in tema di accertamento imponevano ed impongono a carico delle persone fisiche non esercenti attività d’impresa o professionale (13). È, infatti, noto che l’accertamento sintetico, così come quello sintetico redditometrico, costituiscano metodologie accertative rivolte alle persone fisiche che non sono assoggettate ad alcun obbligo contabile (14). Ebbene, per soggetti che non hanno obblighi contabili o di conservazione documentale la pretesa prova del nesso appare chiaramente sproporzionata rispetto alla fattispecie della mera determinazione sintetica del reddito, anche considerato che potrebbe risultare assai difficoltoso, se non addirittura impossibile, ricostruire, a distanza di anni, singole movimentazioni in entrata e in uscita (15). In questo senso, la mancata prova del nesso, magari proprio per una mera omessa conservazione documentale, potrebbe addirittura comportare
(12) In senso conforme cfr, tra le altre, Comm. Trib. Reg. Lombardia, sent. 14.10.2014 n. 5311 in G.T., 2015, 446 ss., secondo cui l’art. 38, comma 4, del D.P.R. 600/73 non impone l’obbligo di fornire prova della tracciabilità delle spese sostenute, bensì solo quello di provare l’esistenza del reddito capiente e/o di una provvista patrimoniale utile a giustificare l’effettuazione di un investimento e/o il mantenimento di un bene indice. (13) In tal senso di veda M. Beghin, Accertamento sintetico dimostrazione del nesso eziologico e “probatio diabolica”, in Corr. trib., 2013, 279, il quale anche sostiene che nel caso in cui l’onere di conservazione documentale non sia imposto dalla legge, nessuna conseguenza dovrebbe discendere dalla mancata conservazione della citata contabilità e della ulteriore documentazione idonea a giustificare le spese sostenute nel periodo d’imposta e a collegarle, con criterio analitico, ad entrate e a disponibilità fiscalmente non rilevanti. (14) È stato rilevato che il metodo sintetico si rivolge alla determinazione del reddito complessivo delle persone fisiche e pertanto non può avere una base documentale simile a quella dei soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili, se non a costo di introdurre surretizziamente obblighi di archiviazione dei documenti non previsti dalla legge (così M. Basilavecchia, op. cit., 596). (15) Basti pensare al semplice caso della omessa conservazione degli estratti conto bancari, della documentazione attestante eventuali donazioni, ovvero smobilizzi di titoli o altri investimenti, oppure ancora al caso in cui la spesa sia stata sostenuta con disponibilità economiche appartenenti a soggetti diversi dal destinatario dell’accertamento.
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il rischio di consolidamento dell’accertamento e, quindi, di assoggettare ad Irpef, non già effettiva ricchezza imponibile occultata all’Amministrazione Finanziaria, bensì mere spese in quanto non adeguatamente giustificate in sede istruttoria o processuale (16). Non solo. Laddove anche si consideri che la maggior parte delle spese poste a base dell’accertamento sintetico si realizza, comunque, attraverso mezzi finanziari tracciabili, non si può non osservare come la pretesa prova del nesso di fatto altresì indurrebbe ad una sorta di trasformazione dell’accertamento e, prima ancora, dell’attività istruttoria, da mero controllo sul tenore di vita del contribuente a controllo sulle risultanze bancarie, senza tuttavia la preventiva attivazione dei poteri e delle garanzie previsti dall’art. 32, primo comma, nn. 2) e 7) del DPR 600/73 (17). Ma anche volendo ragionare secondo la logica del citato art. 32, si rileva che detta disposizione non richiede affatto la prova del nesso entrate – spese, limitandosi, invece, a specificare che sono poste a base delle rettifiche e degli accertamenti le movimentazioni bancarie in relazione alle quali il contribuente non ne abbia dimostrato la relativa irrilevanza fiscale. In particolare, sul versante delle entrate, solo stabilisce che le stesse sono poste a base delle rettifiche e degli accertamenti se il contribuente non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione del reddito ovvero che le stesse non hanno rilevanza nella suddetta determinazione, mentre su quello delle uscite, che sono qualificati come ricavi o compensi i prelevamenti o gli importi riscossi, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili. Oltretutto le presunzioni che l’art. 32 pone sul lato delle uscite riguardano i soli titolari di reddito d’impresa e non anche i soggetti titolari di redditi diversi da questo. Peraltro è evidente che qualora l’Ufficio decida di procedere nella logica dell’art. 38, non può poi fondare la rettifica, se non mutando anche metodologia di accertamento, sulla previsione e sulle conseguenti presunzioni dell’art. 32 che comunque, lo si ribadisce, non contemplano in alcun modo la necessità di provare il nesso tra spese ed entrate. Nei casi di accertamento sintetico e sintetico-redditometrico la prova contraria
(16) Al riguardo, attenta dottrina ha giustamente osservato che la prova impossibile innestata sull’art. 38 finirebbe per incidere sulla struttura dalla disposizione trasformando una regola dedicata alla prova in una regola sostanziale declinata sul piano di tassazione della spesa; così M. Beghin, Accertamento sintetico, cit., 280. (17) In tal senso, cfr ancora Beghin M., Accertamento sintetico, cit., 284.
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è esclusivamente quella prevista dall’art. 38, non già una combinazione distorta e forzata tra quella dell’art. 38 e quella contemplata da altra disposizione in materia di accertamento, ivi compresa quella che disciplina i cosiddetti controlli bancari. Gli elementi richiamati dimostrano, quindi, come la pretesa prova del cosiddetto nesso eziologico si configura quale risultato di una mera forzatura interpretativa della disposizione operata sul piano giurisprudenziale e della prassi amministrativa, ma tuttavia priva di una apprezzabile causa giustificatrice se non quella di tutelare, in modo del tutto sproporzionato, la sola ragione fiscale. In questo senso, la richiesta prova contraria dovrebbe pertanto essere spostata dal piano della ricerca di un rigido collegamento a quello, invece, della verifica di una mera compatibilità, così che l’accertamento sintetico potrebbe essere superato dal contribuente attraverso la dimostrazione che le risorse finanziarie irrilevanti dal punto di vista reddituale da lui possedute siano compatibili con le spese sostenute nel periodo d’imposta. Compatibilità da intendersi anzitutto in termini quantitativi, nel senso che le risorse irrilevanti devono configurarsi come congrue rispetto all’entità delle spese poste a base della determinazione reddituale. Ma compatibilità da intendersi anche in senso cronologico, e sotto questo profilo utile appare il richiamo all’inciso relativo alla “durata del possesso” contenuto nell’art. 38, comma 6 (nella versione applicabile ratione temporis) che, proprio con riferimento alle risorse irrilevanti dal punto di vista reddituale, ugualmente integra il profilo della prova contraria. La disposizione richiamata richiede, infatti, che risulti documentata l’entità e la durata del possesso delle risorse irrilevanti, senza tuttavia aggiunge altro. In particolare, nulla precisa in ordine alla data a cui dovrebbe essere riferito il suddetto possesso. Di fatto, la durata del possesso risulterebbe certamente assorbita dalla molto più impegnativa prova del nesso tra entrate e spese, laddove detta prova dovesse essere fornita, perché è evidente che collegare una spesa ad una specifica entrata già significa risolvere il problema della durata del possesso delle risorse. Laddove, invece, debba giustamente ritenersi che il profilo probatorio non possa comprendere anche la prova del nesso eziologico, si pone invece il problema del significato attribuibile all’espressione in parola, ancorché la sentenza in rassegna non abbia specificatamente affrontato la questione della sua necessarietà o meno ai fini della prova liberatoria. In questo senso, la durata del possesso sembra chiaramente richiamare un profilo statico e quindi evocare la permanenza delle disponibilità irrilevanti
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dal punto di vista reddituale quantomeno anche nel periodo d’imposta di sostenimento delle relative spese (18) (19). Certamente la suddetta prova non potrebbe includere la dimostrazione del collegamento analitico tra risorse e spese, né tantomeno la dimostrazione che le medesime risorse non siano state utilizzate per effettuare spese diverse rispetto a quelle ricostruite dall’Amministrazione Finanziaria (20). La richiamata compatibilità, sul piano cronologico, tra risorse redditualmente irrilevanti e spese dovrebbe pertanto ritenersi verificata laddove il contribuente dimostri che le risorse realmente esistano e che le stesse non siano state effettivamente consumate prima del sostenimento delle spese (21) (22).
(18) Così M. Basilavecchia, op. cit., 595, nonché F. Tundo, La corretta interpretazione estensiva sulla prova contraria del contribuente nell’accertamento sintetico, in Corr. trib., 2014, 2370. In particolare, sostiene il primo autore che ciò che il contribuente dovrebbe provare, al di là della disponibilità di risorse irrilevanti, non è tanto quello di aver attinto ad esse al momento di sostenimento delle spese quanto la permanenza di tali risorse nel periodo d’imposta in cui le spese sono state sostenute, così da rendere assai probabile che l’effettivo serbatoio che alimenta le spese è dato dalle disponibilità irrilevanti. Ritiene, invece, che nessuna altra prova debba essere data dalla parte contribuente circa l’effettiva destinazione del reddito esente o soggetto a tassazione separata, se non la dimostrazione dell’esistenza di tali redditi, M. Procopio, Redditometro e capacità contributiva: l’assurda pretesa dell’esistenza del nesso causale tra il reddito e le spese sostenute dal contribuente, in G.T., 2015, 448 ss. (19) Sembra, invece, adottare un’interpretazione della nozione di durata del possesso in senso assai restrittivo, G. Ferranti, La prova contraria in presenza di investimenti rilevanti ai fini del redditometro, in Il Fisco, 2015, 1710, il quale afferma che spetta in ogni caso al contribuente fornire la dimostrazione del possesso della disponibilità finanziaria a partire da una data anteriore all’effettuazione dell’investimento e fino al momento in cui quest’ultimo è posto in essere. (20) In tal senso, M. Basilavecchia, op. cit., nonché F. Tundo, op. cit., 2370. (21) La Cassazione, con alcune sentenze, sembra avere assunto in taluni casi un orientamento intermedio tra le pretesa prova del nesso eziologico e la sua non necessarietà, valorizzando proprio il profilo della durata del possesso delle risorse redditualmente irrilevanti. Il riferimento è, in particolare, alle sentenze Cass., sez. n. 5, 18.04.2014 n. 8995, 06.08.2014 n. 17763 e 26.11.2014, n. 25104 con le quali la Corte ha sottolineato come la prova contraria del contribuente non riguarderebbe la sola disponibilità di redditi esenti o soggetti a ritenuta a titolo d’imposta ma anche la loro entità e la durata del loro possesso. Entità e durata che, a dire della stessa Corte, costituirebbero circostanze sintomatiche del sostenimento delle spese proprio con disponibilità irrilevanti dal punto di vista reddituale. (22) Con riguardo, più in particolare, alla sentenza n. 8995 del 2014 vi è chi sostiene come secondo l’interpretazione della Corte la prova del possesso dei redditi sarebbe di fatto utilizzata per esigere, in capo al contribuente, la prova ulteriore rispetto a quella richiesta dalla norma ovvero che gli stessi redditi non siano stati utilizzati per effettuare investimenti o spese diverse da quelle ricostruite dall’Ufficio. Ciò equivarrebbe a dire, al contrario, che il contribuente
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5. La mera compatibilità tra spese e disponibilità redditualmente irrilevanti quale oggetto della prova contraria nell’accertamento sintetico anche dopo la modifica dell’art. 38 del DPR 600/73 ad opera del D.L. 78/2010. – L’individuazione dei confini dell’oggetto della prova contraria opponibile all’accertamento operato con metodologia sintetica costituisce, come sottolineato, questione spesso controversa soprattutto con riguardo alla disciplina dell’art. 38 antecedente all’ampio intervento di ristrutturazione operato con il D.L. n. 78/2010. Tale incertezza si coglie anzitutto, come anche rilevato, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione ove ad una rigidità interpretativa che ha connotato per lungo tempo le pronunce sul tema, si contrappongono arresti più recenti, tra i quali si inquadra certamente anche la decisione in rassegna, connotati da maggiori aperture. Non si può tuttavia non intravedere, nella giurisprudenza di legittimità più rigorosa in tema di prova contraria, una sorta di implicito sussidio all’attività dell’Agenzia delle Entrate per accertare quei contribuenti i cui redditi imponibili dichiarati risultino risibili o, comunque, del tutto sproporzionati rispetto al tenore di vita ed alle spese per investimenti effettivamente manifestati (23). Tuttavia, come è stato segnalato, detta rigorosità non appare conforme al tenore dell’art. 38 del DPR 600/1973, né tantomeno coerente rispetto agli elementi costitutivi della metodologia di accertamento in parola che, lo si ricorda, ha come destinatari soggetti che non hanno alcun obbligo di conservazione documentale, né di tenuta di una seppur minima contabilità familiare di matrice finanziaria. Infatti, tale preteso onere non era affatto richiesto dall’art. 38 del DPR 602/73 nel testo applicabile ratione temporis, né tantomeno poteva dirsi implicito in tale disposizione. Invero, pretendere la documentazione di un nesso quasi millimetrico tra spese e disponibilità prive di valenza reddituale significa piuttosto elevare l’asserita prova contraria ad una mera richiesta che, a ben vedere, parrebbe più naturalmente innestarsi nel genus degli accertamenti c.d. bancari, ancorché la relativa disciplina di riferimento contenuta nell’art. 32 del D.P.R. 600/73 non la contempli affatto quale fattispecie tipica, tantomeno sul piano proprio della possibile prova contraria.
dovrebbe dimostrare la relazione, seppure non in forma analitica, tra le risorse disponibili e non imponibili e le spese sostenute, nel senso che tali spese siano state sostenute proprio con le suddette risorse). Così F. Tundo, La corretta interpretazione “estensiva”, cit., 2368. (23) Ritiene che la prova del nesso eziologico da parte della Corte, più che fondarsi su ragioni giuridiche, abbia giustificazione di tipo sociologico coincidenti con la necessità di aumentare il rigore probatorio a fronte di situazioni caratterizzate da una evidente sproporzione tra spese e redditi dichiarati, M. Beghin, Accertamento sintetico, cit., 276.
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In questo senso, seguire l’iniziale rigida linea interpretativa assunta dalla Cassazione significherebbe quindi ulteriormente accentuare, pur tuttavia in assenza di una espressa previsione normativa in tale senso, un assetto già fortemente sbilanciato a favore dell’Agenzia delle Entrate. Anche in nome del seppur pregevole obiettivo di contrasto all’evasione, appare infatti evidente come non sia certamente possibile procedere con una metodologia di matrice presuntiva che agevola fortemente l’Agenzia sul piano istruttorio e che la esonera, non solo dalla prova specifica dell’evasione, ma anche dall’individuazione della categoria di reddito asseritamente non dichiarata dal contribuente, con la pretesa di una prova contraria che il sistema affatto non richiede e che potrebbe addirittura configurarsi come impossibile. E tale assetto risulta ancora più squilibrato laddove una prova così rigorosa venga pretesa a fronte di accertamenti sintetico redditometrici che, nella disciplina ante riforma, si connotavano per una quantificazione del tutto imprecisa dell’asserito reddito conseguente alla mera disponibilità di beni e servizi indicativi di capacità contributiva (24) (25). Infatti, il reddito complessivamente accertabile in via sintetico redditometrica era determinato non già sulla base delle spese effettive derivanti dalla disponibilità dei suddetti beni e servizi, bensì sulla base di una loro predeterminazione normativa che nella maggior parte dei casi non trovava alcun riscontro nella realtà. Nel caso degli accertamenti redditometrici, quindi, la ricerca di un così rigoroso collegamento andrebbe addirittura ad innestarsi in un sistema in cui la prova contraria presuppone ex se un confronto tra dati del tutto disomogenei, ovvero
(24) G. Falsitta, Redditometro: uno strumento debole, rozzo ed impreciso, in Per un Fisco civile, Milano, 1996, 321ss., sottolineava già la debolezza e l’imprecisione del redditometro quale strumento di lotta all’evasione, prima ancora della revisione dei coefficienti del 1992, rilevando come lo stesso potesse svolgere al più una funzione di segnalazione di possibili situazioni di evasione. (25) Il “vecchio” redditometro risultava, alla fine, uno strumento assai grossolano nell’individuazione degli elementi indicatori di capacità contributiva oltre che fortemente impreciso nell’attività estimativa del reddito, il più delle volte produttiva di risultanze del tutto inconferenti rispetto ai beni e servizi di cui il contribuente avesse effettiva disponibilità. Tra i vari elementi che contribuivano all’imprecisione della stima reddituale, certamente va segnalato il meccanismo di calcolo del D.M. 24.12.2012 che, come noto, prevedeva che il valore reddituale più elevato degli elementi indicatori di capacità contributiva rilevasse per intero, mentre gli altri fossero, invece, ridotti di una percentuale crescente; in questo modo, una diversa sequenza degli stessi indici, a parità di elementi, poteva condurre a risultati complessivi talvolta molto diversi. Sconosciuta era poi la derivazione dei coefficienti moltiplicatori che consentivano la trasformazione delle spese presunte in reddito.
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tra entrate effettive da un lato e reddito corrispondente a spese però non effettive dall’altro (26). Come è stato rilevato, certamente la prova del nesso eziologico potrebbe essere talvolta fornita. Si tratta però non già di una possibile regola, bensì di casi per lo più semplici e connotati anche da una oggettiva propensione alla raccolta ed alla conservazione della documentazione bancaria da parte del contribuente. In questo senso, poiché l’assunto accusatorio dell’accertamento sintetico, di matrice presuntiva, si fonda su una mera incompatibilità tra spese sintomatiche del tenore di vita e reddito dichiarato dal contribuente, anche la prova contraria inevitabilmente dovrebbe essere ricercata sullo stesso piano e, quindi, fondarsi sulla mera compatibilità tra le stesse spese e la disponibilità di risorse prive di rilevanza reddituale (27). Peraltro il problema della prova del cosiddetto nesso eziologico sembra essersi oggettivamente depotenziato, sul piano normativo, con riguardo agli accertamenti sintetici e sintetico-redditometrici relativi ad annualità d’imposta successive al 2008. Infatti, dopo la modifica operata dall’art. 22 del D.L. 31.05.2010 n. 78, l’art. 38 del D.P.R. 600/73 oltre a continuare a non richiedere la prova del nesso, non dispone più che, ai fini della prova contraria, debbano risultare da idonea documentazione l’entità dei redditi esenti o comunque esclusi da imposizione, nonché la durata del loro possesso. La nuova disposizione solo statuisce che il finanziamento del maggiore reddito sinteticamente accertabile e fondato sulle spese sia avvenuto con disponibilità irrilevanti redditualmente, in quanto già tassate, esenti ovvero escluse da imposizione (28) (29).
(26) In tal senso anche M. Beghin, Profili sistematici, cit., 726. (27) Così ancora M. Beghin, Diritto tributario, Padova, 2015, 365. (28) L’art. 38, quarto comma, del D.P.R. 600/73, nel testo risultante dopo le modifiche apportate dal D.L. n. 78/2010, stabilisce che il contribuente sottoposto ad accertamento sintetico “sulla base di spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d’imposta” possa dimostrare che “il relativo finanziamento è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o, comunque legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile”. Anche l’art. 4 del D.M. 24.12.2012, con cui è stato approvato il redditometro, non contiene alcun riferimento alla durata del possesso, stabilendo solo che il contribuente ha facoltà di dimostrare, oltre al diverso ammontare delle spese al medesimo attribuite, che il relativo finanziamento sia avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nel periodo d’imposta (con redditi esenti, soggetti a ritenuta a titolo d’imposta o esclusi) ovvero che siano state sostenute da parte di soggetti diversi. (29) In senso difforme si pone l’Agenzia delle Entrate, la quale ha infatti precisato, con la
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Con specifico riguardo proprio alle risorse irrilevanti ai fini dell’imposizione reddituale, della richiamata modifica normativa assume certamente maggiore rilievo, perlomeno ai fini della tematica in esame, l’eliminazione del riferimento alla c.d. “durata” del possesso, più che dell’inciso “da idonea documentazione”, dal momento che la prova contraria, perlomeno nella giurisprudenza consolidata della Corte e nella prassi degli Uffici, dovrebbe continuare ad avere sempre prevalente connotazione documentale (30). Il nuovo dato normativo sembra disattendere quella linea interpretativa definibile come intermedia nella giurisprudenza della Corte che, pur non richiedendo la prova stretta del nesso tra entrate ed uscite ma facendo leva sul richiamo alla “durata del possesso” contenuto nel precedente testo della disposizione, esigeva comunque la dimostrazione che le risorse irrilevanti ai fini Irpef fossero rimaste nella disponibilità del contribuente accertato fino al sostenimento delle relative spese, intendendosi tale circostanza come sintomatica del fatto che il sostenimento fosse avvenuto proprio con dette risorse. Considerato che il nuovo redditometro oramai si fonda, per la prevalenza, su spese effettive, deve ritenersi come anche la disposizione così riformata imponga solo di operare una verifica di mera compatibilità tra il maggiore reddito determinabile sinteticamente, sulla base delle spese individuate dall’Agenzia, e le corrispondenti risorse prive di significanza
Circ. n. 24/E del 2014 (par. 3.6.7), sia per il vecchio strumento sintetico che per quello nuovo attualmente in vigore in relazione alle spese per incrementi patrimoniali, che il contribuente ai fini della prova contraria dovrebbe sempre fornire la dimostrazione dell’utilizzo del reddito ulteriore rispetto a quello dichiarato proprio e specificamente per il sostenimento delle spese contestate (cfr Circ. n. 24/E del 2014, par. 3.6.7) (30) In tal senso E.M. Bagarotto, L’accertamento sintetico dopo le modifiche apportate dal D.L. n. 78/2010, in Riv. dir. trib., 2010, I, 975, il quale ritiene che l’eliminazione del riferimento alla “idonea documentazione” dovrebbe confermare la tesi secondo cui la prova contraria nell’accertamento sintetico potrebbe essere fornita anche per presunzioni. Contra, tuttavia, F. Amatucci (L’accertamento sintetico e il nuovo redditometro, in Dir. prat. trib., 2014, I, 462) il quale invece sostiene che l’eliminazione dell’inciso idonea documentazione dal possesso dei redditi che appariva dalla precedente versione dell’art. 38 non rappresenti affatto una sostanziale semplificazione o l’eliminazione di un ostacolo in sede difensiva per il contribuente, non essendo pensabile, a suo dire, che il contribuente possa difendersi con mere presunzioni da contestazioni specifiche su singole spese. Ritiene infatti ancora, il citato autore, che un sistema basato sulla contrapposizione di presunzioni sia in contrasto con i principi di specificità ed effettività della prova.
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reddituale possedute nel periodo d’imposta, senza che siano anche necessari ulteriori dimostrazioni di specifico nesso ovvero rigidi monitoraggi sul piano temporale (31) (32). Solo un’interpretazione così orientata potrà evitare che l’accertamento sintetico e quello sintetico-redditometrico degradino, nella loro applicazione pratica, da efficaci e condivisi mezzi di contrasto all’evasione a strumenti disequilibrati e talvolta iniqui.
Adriano Modolo
(31) Sostiene che l’eliminazione del riferimento alla “durata del possesso” nella nuova formulazione dell’art. 38 dopo la riforma della norma operata dall’art. 22 del D.L. 78/2010 sembra confermare l’interpretazione estensiva assunta dalla giurisprudenza della Cassazione in ordine alla norma, nella sua versione ante riforma, anche con la sentenza in commento, F. Tundo, op. cit., 2371. (32) In tal senso, M. Beghin, Accertamento sintetico, cit., 278, nonché, Diritto tributario, cit., 365.
Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli
Cassazione, sez. III pen., 15 settembre 2015 - 29 maggio 2015, n. 37094; Pres. Mannino, Rel. Aceto Reati tributari – Dichiarazione infedele e omessa dichiarazione – Determinazione imposta evasa – Costi in nero – Rilevanza – Condizioni Ai fini della determinazione dell’imposta evasa il giudice penale non può tenere conto dei costi sostenuti in nero se il contribuente affermi solo genericamente la loro esistenza, omettendo, tuttavia, di fornire gli elementi probatori di riscontro che consentano di ritenerli effettivi con certezza o quantomeno con ragionevole dubbio. (1)
1. Il sig. G.A. ricorre per l’annullamento dell’ordinanza del 23/10/2014 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che, accogliendo l’appello cautelare del Pubblico Ministero, ritenuta la sussistenza indiziaria del reato di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 4, ha ordinato il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, di beni mobili ed immobili, materiali ed immateriali in sua disponibilità fino alla concorrenza dell’importo di Euro 53.829,85. Secondo la contestazione provvisoria, il ricorrente, nella sua qualità di legale rappresentante della società “G. P.”, esercente attività di commercio all’ingrosso ed al dettaglio di articoli e materiali per le onoranze funebri, servizi e trasporti, al fine di evadere le imposte sui redditi, nella dichiarazione relativa all’anno d’imposta 2011, utilizzando fatture emesse per corrispettivi inferiori a quelli realmente percepiti da parte di sei clienti e omettendo di documentare operazioni attive poste in essere nei confronti di altri tre, aveva indicato elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, con imposta evasa pari ad Euro 53.829,85. 1.1. Con il primo motivo eccepisce inosservanza o erronea applicazione degli artt. 321 e 322-bis cod. proc. pen., art. 27 Cost. , D.lgs. n. 74 del 2000, art. 4. Deduce al riguardo che il tribunale avrebbe dovuto sottrarre i costi sopportati per la produzione dei maggiori ricavi, al fine di determinare l’ammontare effettivo dell’imposta evasa e quindi il risparmio economico conseguito dall’impresa. 1.2. Con il secondo motivo eccepisce inosservanza comunque erronea applicazione del D.lgs. n. 74 del 2000, art. 4, perché, al netto dei costi non calcolati, l’imposta evasa non è superiore ad Euro 103.291,38 e l’ammontare complessivo dell’evasione non è superiore al 10% di quanto realmente dichiarato.
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Parte terza
Motivi della decisione. 2. Il ricorso è inammissibile perché generico e manifestamente infondato. 3. Oggetto del provvedimento impugnato sono i beni del ricorrente per un valore corrispondente all’imposta evasa mediante la dichiarazione infedele di cui al D.lgs. n. 74 del 2000, art. 4, resa nei termini contestati nella rubrica provvisoria. 3.1. Ai sensi del D.lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. f), per “imposta evasa” si intende la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione. 3.2. Nel caso in esame tale differenza è stata ottenuta mediante l’imputazione a ricavi delle operazioni attive sottofatturate e di quelle non fatturate affatto. 3.3. Il ricorrente contesta che, nella determinazione dell’imponibile, non si è tenuto conto dei costi comunque sostenuti per ottenere i maggiori ricavi non contabilizzati. 3.4. Rileva preliminarmente il Collegio che nel caso di specie, secondo quanto risulta dal testo del provvedimento impugnato, l’accertamento del maggior reddito imponibile è stato effettuato in modo sintetico ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 2, lett. d). 3.5. Il Tribunale del riesame ha però disatteso l’ordinanza di rigetto del G.i.p. (che aveva attribuito valenza puramente indiziaria agli esiti dell’accertamento sintetico) rilevando che la quantificazione dell’imposta evasa è stata possibile grazie alla contabilità in nero rinvenuta presso la sede della società. 3.6. Il ricorrente lamenta tuttavia che il Tribunale ha ritenuto di poter individuare l’imponibile nell’”intero ammontare dell’imposta evasa, in quanto costituisce un risparmio economico correlato alla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, di cui certamente beneficia il reo” e che ai fini della quantificazione dell’imposta evasa non si è tenuto conto della percentuale di costo sostenuta per il conseguimento dei maggiori ricavi. 3.7. L’eccezione, così come formulata, è generica e totalmente infondata. 3.8. La frase virgolettata, riportata nel ricorso, è stata estrapolata dal contesto della motivazione del provvedimento impugnato ed è stata impropriamente accostata all’imponibile, come se il Tribunale avesse puramente e semplicemente affermato che l’imponibile è pari all’imposta evasa. 3.9. In realtà tale frase è stata utilizzata dal Tribunale per indicare il profitto confiscabile, giustamente corrispondente “all’intero ammontare dell’imposta evasa” autonomamente ricostruita, come detto, in base alla contabilità in nero rinvenuta nella sede societaria, circostanza quest’ultima dalla quale il ricorrente prescinde del tutto. 3.10. Questi lamenta, in aggiunta, che il Tribunale non ha considerato “tutte le risultanze processuali, tra cui (…) anche le tesi difensive”, ma omette di indicare quali siano queste risultanze processuali e tesi difensive e quale la loro rilevanza ai fini del giudizio, attesa la sua natura cautelare. 3.11. Tantomeno egli chiarisce le basi fattuali delle sue eccezioni. 3.12. Non è dato sapere, cioè, se in sede di accertamento sintetico, la Guardia di
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Finanza abbia totalmente prescisso o meno dalla risultanze di bilancio e dalle scritture contabili ricostruendo l’imponibile in base a presunzioni semplici oppure no. 3.13. Secondo la giurisprudenza delle Sezioni civili di questa Corte l’esistenza dei presupposti per l’applicazione del metodo induttivo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, lett. d), non esclude che l’amministrazione finanziaria possa servirsi, nel corso del medesimo accertamento e per determinate operazioni, del metodo analitico ex art. 39, comma 1, del D.P.R. n. 600 cit., oppure contemporaneamente di entrambe le metodologie (Cass. civ. Sez. 5, n. 13350 del 10/06/2009, Rv. 608513; Sez. 5, n. 27068 del 18/12/2006, Rv. 595882). 3.14. La questione non è di poco conto poiché se è vero che la determinazione sintetica del reddito, comportando la detrazione dai ricavi dei costi di produzione, necessariamente comprende questi ultimi (Cass. civ. Sez. 5, n. 23848 del 11/11/2009, Rv. 610276), è altrettanto vero che il metodo totalmente induttivo può avvalersi anche di semplici indizi sforniti dei requisiti necessari per costituire prova presuntiva che non possono perciò fornire di per sé soli la base di un giudizio in sede penale, nemmeno a fini cautelari. 3.15. Le precisazioni del Tribunale circa il rinvenimento della contabilità in nero e l’assunzione di dichiarazioni dai clienti dell’impresa sembrano deporre per la tesi negativa e comunque corroborano il giudizio con elementi fattuali niente affatto presuntivi. 3.16. In ogni caso il G. rifugge dallo specificare quale sia stato il criterio di giudizio adottato dai verificatori. 3.17. Ove, invece, il reddito fosse stato ricostruito incrociando la contabilità di impresa con quella “in nero”, sarebbe stato preciso onere del contribuente indicare gli ulteriori costi non contabilizzati effettivamente sostenuti per il conseguimento dei maggiori ricavi a loro volta non contabilizzati (Cass. civ., Sez. 5, n. 16198 del 27/10/2001, Rv. 551333; Cass. civ. Sez. 5, n. 11514 del 07/09/2001, Rv. 549206; Cass. civ. Sez. 5, n. 12330 del 08/10/2001, Rv. 549549; Cass. civ. Sez. 5, n. 1709 del 26/01/2007, Rv. 595661; Cass. civ. Sez. 5, n. 11205 del 16/05/2007, Rv. 599458; Cass. civ. Sez. 5, n. 21184 del 08/10/2014, Rv. 632824; Cass. civ. Sez. 6-5, ord. n. 27458 del 09/12/2013, Rv. 629460; cfr. altresì Cass. civ. Sez. 5, n. 5192 del 04/03/2011, 617112; Cass. civ. Sez. 5, n. 2935 del 13/02/2015, Rv. 634377; Cass. civ. Sez. 5, n. 20679 del 01/10/2014, Rv. 632502). 3.18. Non sussiste, infatti, alcuna automatica correlazione tra ricavi non contabilizzati ed eventuali costi anche essi (in tesi) non contabilizzati. La mancata contabilizzazione di ricavi, insomma, non necessariamente comporta che i costi sostenuti per ottenerli non siano stati a loro volta annotati nei registri. Le spese e gli altri componenti negativi, infatti, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza solo se certi o comunque determinabili in modo obiettivo (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 1); non possono essere puramente e semplicemente presunti. 3.19. Il giudice penale non è certamente vincolato ai risultati degli accertamenti effettuati ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, né ai criteri di giudizio previsti
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dalla legislazione fiscale e civilistica, essendo suo preciso dovere ricostruire in modo autonomo e con le regole proprie del processo penale i fatti che danno luogo a responsabilità penale (Sez. 3, n. 2246 del 01/02/1996, Zullo, Rv. 205395; Sez. 3, n. 7078 del 23/01/2013, Piccolo, Rv. 254852). 3.20. Ciò non significa che il giudice penale possa prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per determinare e quantificare l’imponibile dell’imposta sui redditi e quella sul valore aggiunto (e dunque l’imposta evasa): cambia la regola di giudizio, non la regola da applicare. La diversa regola di giudizio può condizionare l’ambito di applicabilità della norma tributaria, ma impone comunque al giudice penale di tenerne conto. 3.21. Sicché anche ai fini della ricostruzione dell’imposta evasa ai sensi del D.lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. f), è necessario attingere alle regole stabilite dalla normativa fiscale ma con le limitazioni che derivano dalla diversa finalità dell’accertamento penale, per cui i costi concorrono sì alla determinazione dell’imponibile purché ne sussista la certezza o, come si vedrà, anche solo il ragionevole dubbio circa la loro esistenza. 3.22. Poiché l’ammontare della “imposta evasa” è elemento costitutivo del reato di cui al D.lgs. n. 74 del 2000, art. 4, della relativa prova deve farsi carico il Pubblico Ministero il quale, dovendo svolgere accertamenti anche su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini, deve individuare i costi sostenuti per il conseguimento dei maggiori ricavi che siano stati comunque accertati, senza attendere che a ciò provveda la persona sottoposta alle indagini. 3.23. È necessario, però, che di tali costi non contabilizzati sussista la prova, diretta o indiziaria. 3.24. Sicché, ove a fronte dell’esistenza certa di ricavi non dichiarati la persona sottoposta alle indagini lamenti la mancata deduzione dei costi ad essi inerenti, deve provarne l’esistenza (artt. 187 e 190 cod. proc. pen.), o comunque allegare i dati dai quali l’esistenza di tali costi poteva essere desunta e dei quali né il Pubblico Ministero, né il Giudice hanno tenuto conto. 3.25. Non è perciò legittimo, nemmeno in sede penale, presumere l’esistenza di costi deducibili in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 37131 del 09/04/2013, Siracusa, Rv. 257678). 3.26. Il criterio di giudizio imposto dall’art. 533 c.p.p., comma 1, investe tutti gli elementi costitutivi del reato, sicché ove sussista il ragionevole dubbio circa il superamento delle soglie di punibilità indicate dal D.lgs. n. 74 del 2000, art. 4, (e dunque l’ammontare dell’imposta evasa), il giudice deve affermare l’insussistenza del fatto; purché si tratti di un dubbio “ragionevole”, fondato cioè su fatti verificabili, non su mere congetture, ipotesi, astrazioni ed automatismi. 3.27. Non costituisce, dunque, “violazione di legge” quantificare l’imposta evasa contabilizzando i maggiori ricavi conseguiti senza detrarre i costi che non siano
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stati contabilizzati in ordine alla sui esistenza effettiva (o anche solo al ragionevole dubbio in ordine alla loro esistenza) manchino specifiche deduzioni o allegazioni. Nessun criterio di giudizio legittima la deduzione di costi non contabilizzati in base a presunzioni sganciate da qualsiasi dato fattuale che renderebbe irragionevole il dubbio sulla loro esistenza e arbitraria persino la loro quantificazione. 3.28. La sede cautelare, inoltre, rende meno pregnante tale criterio di giudizio, tipico della plena cognitio essendo sufficienti gli indizi di sussistenza del reato e quindi dell’entità della somma sequestrabile in via preventiva (Sez. 3, n. 2006 del 02/10/2014, Scatena, Rv. 261928, secondo la quale le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal D.lgs. n. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale). 3.29. Occorre peraltro aggiungere che poiché in questa sede di legittimità è possibile eccepire il solo vizio di violazione di legge, era preciso onere del ricorrente indicare quali costi di impresa fossero stati offerti alla valutazione del Tribunale del riesame e totalmente negletti. 3.30. È vero che il riesame è un mezzo di impugnazione totalmente devolutivo, ma poiché l’ordinanza è censurabile solo sotto il profilo della violazione delle legge è necessario che comunque il ricorrente indichi in che modo il Tribunale sia stato investito di questioni sulle quali ha omesso del tutto di pronunciare. 3.31. È perciò generico il ricorso che si limiti puramente e semplicemente a lamentare l’omessa considerazione dei costi sostenuti per il conseguimento di ricavi non contabilizzati, senza contestualmente indicarne l’ammontare e dedurne l’omessa valutazione in sede di riesame. 3.32. Il criterio di giudizio proposto dal ricorrente, secondo il quale a ricavi non contabilizzati corrispondono sempre e comunque costi non contabilizzati, è manifestamente infondato ed è volto a supplire la genericità delle sue eccezioni. 3.33. Ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile perché generico e manifestamente infondato. 4. Alla declaratoria di inammissibilità consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 1000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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(1) I costi in nero sostenuti per ottenere ricavi non contabilizzati. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 37094 del 15.9.2015, in tema di reati di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione di cui agli artt. 4 e 5 del D.lgs. n. 74/2000, chiarisce che l’imputato può far valere i costi non contabilizzati ai fini della determinazione dell’imposta evasa e, in particolare, per dimostrare che la soglia di punibilità non è stata superata, solo allorquando fornisca elementi probatori di riscontro e non si limiti, dunque, ad affermarne genericamente l’esistenza. Più in particolare, i predetti elementi probatori di riscontro devono consentire al Giudice di ritenere esistenti i c.d. costi in nero con certezza o quantomeno con ragionevole dubbio. E così il giudice penale, ai fini della determinazione dell’imposta evasa, se da un lato non è vincolato alle presunzioni legali di natura tributaria, dovendo procedere ad un autonomo esame di tutti gli elementi in suo possesso, dall’altro lato non può, comunque, presumere l’esistenza di costi deducibili in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza. In its Decision no. 37094 of September 15, 2015, concerning the crimes of misrepresentation and non-declaration according to Articles 4 and 5 of Legislative Decree No. 74/2000, the Court of Cassation stated that the defendant may invoke the existence of any not-accounted cost for the assessment of the unpaid taxes, and, in particular, to give evidence that the criminality threshold has not been exceeded, but only in case he/she is in the position to give evidence of the existence of said costs, and not – merely – allege their existence. In particular, the abovementioned evidence must allow the Judge to consider as existing the so-called “out of pocket costs” (i.e., the not accounted costs) with certainty, or, at least, reasonable doubt. Therefore, the criminal Court, for the assessment of the unpaid taxes, while, on one hand, is not bound by the legal presumption of a fiscal nature, as it is required to carry out a self-examination of all evidences in its possession, on the other side cannot presuming the existence of deductible costs in the absence of, at least, factual allegations rendering -at least- legitimate the doubt of their existence.
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento (1), ribadisce (2) un importante principio in tema di reati di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione di cui agli artt. 4 e 5 del D.lgs. n. 74/2000: ai fini della determinazione dell’imposta evasa il giudice penale non può tenere conto
(1) I riferimenti contenuti nella sentenza annotata e nel relativo commento riguardano ovviamente le disposizioni del D.lgs. n. 74/2000 in vigore prima della novella di cui al D.lgs. n. 158/2015. (2) Ad analoghe conclusioni era infatti già giunta Cass. Pen., Sez. III, 7.6.2011 n. 38858, in Corr. Trib. n. 3/2012, 5943.
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dei costi sostenuti in nero se l’imputato affermi solo genericamente la loro esistenza, omettendo, tuttavia, di fornire gli elementi probatori di riscontro. La Suprema Corte, più in particolare, chiarisce che “ove a fronte dell’esistenza certa di ricavi non dichiarati la persona sottoposta alle indagini lamenti la mancata deduzione dei costi ad essi inerenti, deve provarne l’esistenza (artt. 187 e 190 cod. proc. pen.), o comunque allegare i dati dai quali l’esistenza di tali costi poteva essere desunta (…)” e che, dunque, “non è perciò legittimo, nemmeno in sede penale, presumere l’esistenza di costi deducibili in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza”. In altri termini, come efficacemente evidenziato in dottrina, grava sul contribuente-imputato l’onere di dimostrare l’esistenza e l’importo di tali elementi passivi “non potendo certo richiamare una massima di esperienza in base alla quale il maturare di utili presuppone comunque il previo sostenimento di costi” (3). È stato inoltre posto in rilievo che “non esiste alcuna correlazione automatica tra ricavi non contabilizzati ed eventuali costi anch’essi (in tesi) non contabilizzati: la mancata contabilizzazione di ricavi non comporta necessariamente che i costi sostenuti per ottenerli siano, a loro volta, non contabilizzati. E le spese e gli altri componenti negativi concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza solo se certi o comunque determinabili in modo obiettivo. Non potendo essere puramente e semplicemente presunti” (4). Il dictum della Suprema Corte è, evidentemente, in sintonia con i principi cardine del diritto processuale penale, nella misura in cui il giudice penale non può porre a fondamento della propria decisione mere presunzioni, ma, al contrario, deve pur sempre poggiare il proprio convincimento su elementi reali, potendo al massimo pronunciare sentenza di assoluzione allorquando residui il ragionevole dubbio circa la sussistenza dei medesimi. Sul punto alcuni autori hanno avuto modo di sottolineare che “il giudice è tenuto ad esaminare l’ammontare dei costi asseritamente sostenuti soltanto nel
(3) C. Santoriello, Costi non documentati esclusi dal calcolo delle soglie di punibilità del reato di omessa dichiarazione, in il Fisco n. 36/2015, 3478; in giurisprudenza, ancor più di recente, tale principio è stato ribadito da Cass. Pen., Sez. Fer., 20.8.2015 n. 35773, in il Fisco n. 36/2015, 3478. (4) M. Meoli, Anche i costi ‘dubbi’ escludono la dichiarazione infedele, in Eutekneinfo 16.9.2015.
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caso in cui ne sia stato messo a conoscenza attraverso il materiale probatorio fornito dall’imputato, cui fa carico tale onere” (5). Giova evidenziare che tale soluzione ermeneutica è, per così dire, controbilanciata da un ulteriore principio ormai consolidato in giurisprudenza, anch’esso aderente al codice di rito e, ancor prima, all’art. 27 Cost.: il giudice penale, ai fini della determinazione dell’imposta evasa, non è vincolato alle presunzioni legali di natura tributaria, dovendo procedere ad un autonomo esame di tutti gli elementi in suo possesso. La Corte di Cassazione ha infatti più volte puntualizzato che “in tema di reati tributari non possono applicarsi le presunzioni legali o criteri validi in sede tributaria, essendo onere dell’accusa fornire la prova della sussistenza di tutti gli elementi in questione” (6). I Giudici di legittimità hanno inoltre chiarito che “spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi o anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario” (7). Ed anche con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha ribadito che “il giudice penale non è certamente vincolato ai risultati degli accertamenti effettuati ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, né ai criteri di giudizio previsti dalla legislazione fiscale e civilistica, essendo suo preciso dovere ricostruire in modo autonomo e con le regole proprie del processo penale i fatti che danno luogo a responsabilità penale” (8). Il principio dell’autonomia tra procedimento amministrativo e tributario da un lato e processo penale dall’altro è, del resto, codificato all’art. 20 del D.lgs. n. 74/2000, posto che, come precisato da alcuni interpreti, “il legislatore ha inteso scartare il ritorno al modello della pregiudizialità nella relazione ministeriale ove afferma che ‘si è peraltro decisamente scartata qualsiasi soluzione che postulasse l’affermazione di un rapporto di pregiudizialità tra procedimenti nell’uno o nell’altro senso (pregiudiziale tributaria al processo penale o pregiudiziale penale al processo tributario)” (9).
(5) A. Traversi, Omessa dichiarazione iva in caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti, in Corr. Trib. n. 3/2012, 213. (6) Cass. Pen., Sez. III, 15.7.2014 n. 37335, in Dir. e Prat. Trib. n. 3/2015, 20542. (7) Cass. Pen. Sez. III, 26.2.2008 n. 21213, in www.leggiditaliaprofessionale.it. (8) Nello stesso senso cfr. Cass. Pen., Sez. III, 7.6.2011 n. 35858, in Corr. Trib. n. 3/2012, 216. (9) G. Cesari, Una nuova pronuncia della Corte di Cassazione sulle regole probatorie
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Si ritiene dunque opportuno evidenziare, anche in questa sede (10), che l’ormai granitico orientamento formatosi in materia di reati tributari è nel senso di ritenere che il giudice penale, in ossequio peraltro ai principi cardine in materia di prova, non può certamente fondare il proprio convincimento circa la sussistenza della responsabilità penale dell’imputato solo ed esclusivamente su di una presunzione tributaria. Ed infatti gli elementi sui quali si fonda una presunzione tributaria possono, al massimo, avere mero valore indiziario e, pertanto, ex art. 192 c.p.p., “potranno essere posti alla base dell’accertamento della responsabilità penale soltanto quando soddisfino i requisiti della gravità, precisione, concordanza, previsti dalla norma” (11). E così riteniamo doveroso ribadire che, in subiecta materia, com’è stato autorevolmente sostenuto in dottrina, il giudice penale non può riconoscere efficacia “a quegli strumenti presuntivi a cui ampiamente fa ricorso il legislatore fiscale (attraverso presunzioni semplici, parametri, coefficienti di congruità e coerenza, ecc.) per rendere più agile ed efficace l’azione di accertamento e di determinazione dell’imposta. Anche per questi si rileva come il giudice penale non possa far riferimento ad elementi presuntivi dovendo accertare l’effettività delle operazioni economiche” (12). Così come nessuna efficacia può essere attribuita alle limitazioni di prova che, invece, trovano largo utilizzo nel diritto tributario ai fini dell’accertamento dell’imposta, ossia “a quell’insieme di regole che, in presenza di certi presupposti in fatto, limitano solamente a determinati strumenti probatori il potere del contribuente di dare una prova contraria rispetto ai fatti emersi dall’accertamento. Limitazioni che non potranno fare ingresso nel processo penale, diretto ad accertare l’imposta effettivamente evasa, nel quale, allora, sarà consentito al contribuente/imputato di dare questa dimostrazione con
in materia di superamento delle soglie di punibilità nel reato di omessa dichiarazione, in Dir. e Prat. Trib. n. 3/2015, 20542. (10) L’argomento infatti è stato già trattato in V. Cardone - F. Pontieri, La limitata efficacia probatoria, anche in materia penal-tributaria, dell’operazione di prelevamento di somme di denaro dal conto corrente bancario del professionista, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 228/2014, in Riv. Dir. Trib. n. 10/2014, 217 e ss. (11) G. Cesari, Una nuova pronuncia della Corte di Cassazione sulle regole probatorie in materia di superamento delle soglie di punibilità nel reato di omessa dichiarazione, in op. cit., 20542. (12) G.L. Soana, I reati tributari, Milano, 2005, 68.
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altri mezzi, compresa ad esempio la testimonianza che non è, invece, prevista nel procedimento e nel processo tributario.” (13). Anche la giurisprudenza, del resto, non ha mai elevato le presunzioni tributarie al rango di prova, precisando, in più occasioni, che “mentre in ambito amministrativo-tributario l’organo accertatore, a certe condizioni, presume e il contribuente deve addurre delle giustificazioni, in sede penale (e, quindi, anche in quella penale-tributaria) vale l’opposta regola, spettando al giudice dover decidere sulla scorta di prove certe” (14) e che “le presunzioni legali previste nelle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa” (15). Ed allora, in campo penale, il principio del libero convincimento del giudice impone di attribuire alle presunzioni tributarie una limitata efficacia probatoria ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, atteso che le stesse possono, al più, rappresentare un mero indizio e, come tali, essere sottoposte alla rigida disciplina prevista dall’art. 192, 2° co., c.p.p. (16) a mente del quale “l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti”. Ciò chiarito, non può sfuggire che, in virtù dell’autonomia del giudice penale, per come delineata dalla Suprema Corte, riacquistano notevole rilevanza, ai fini della verifica della configurabilità dei reati di cui agli artt. 4 e 5 del D.lgs. n. 74/2000, proprio quei costi non contabilizzati di cui il contribuente-imputato vorrebbe avvalersi in sede penale per dimostrare il mancato superamento delle soglie di punibilità. Ed infatti, se è vero che tali costi in nero non possono essere meramente presunti, è però altrettanto vero che il giudice penale deve tener conto di tali poste passive anche quando non siano state annotate in contabilità. In dottrina è stato infatti sostenuto che “nella quantificazione dell’imposta
(13) G.L. Soana, op. cit., 68. (14) Cass. Pen., Sez. III, 4.4.2013 n. 19709, in www.leggiditaliaprofessionale.it. (15) Cass. Pen., Sez. III, 23.1.2013 n. 7078, in CED Cassazione 2013; conforme Cass. Pen., Sez. III, 8.4.2014 n. 37302, in il Fisco n. 36/2014, 3597; Cass. Pen., Sez. III, 6.2.2014 n. 10811, in il Fisco n. 14/2012, 1387; Cass. Pen., Sez. III, 28.6.2012 n. 37071, in il Fisco n. 40/2012, 6469. (16) I. Caraccioli, Indagini finanziarie, normativa antiriciclaggio e reati tributari, in il Fisco n. 9/2009, 1371 e ss.
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evasa, in assenza di dichiarazione, occorre naturalmente procedere anche alla valutazione degli eventuali elementi negativi di reddito o comunque degli oneri eventualmente deducibili o detraibili da parte del contribuente. Pur in presenza, infatti, di disposizioni fiscali che richiedono l’obbligatorietà della registrazione e della successiva dichiarazione al fine di ottenerne la deducibilità, non appare corretto sotto il profilo penale commisurare l’imposta evasa sulla base dei ricavi lordi. Ragionando contrariamente, invero, si legittimerebbe la sanzione penale anche per condotte che non presentino un’evasione d’imposta tale da non essere considera effettiva e significativa” (17). Ed anche la Suprema Corte ha di recente confermato l’assoluta irrilevanza delle mere irregolarità fiscali nella tenuta della contabilità ai fini della rilevazione dei costi effettivamente sostenuti e tuttavia non contabilizzati, precisando che “ai fini della configurabilità dei delitti di presentazione di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione previsti e puniti dagli artt. 4 e 5 del D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per il superamento della soglia quantitativa di punibilità fissata dalla legge si deve tenere conto dei costi occulti sostenuti in nero, cioè delle spese e degli oneri specificamente afferenti i ricavi e gli altri proventi che, pur non risultando imputati al conto economico, concorrono a formare il reddito se assistiti da elementi certi e precisi, circostanza che non è necessariamente esclusa dalla presenza di irregolarità, sia pure macroscopiche, nella tenuta delle scritture contabili né dal fatto che la produzione difensiva abbia per oggetto una quantità indiscriminata e scarsamente controllabile di fatture per acquisti” (18). La soluzione interpretativa alla quale è giunta la Corte di Cassazione è stata salutata con favore in dottrina, giacché alcuni autori hanno posto in rilievo che “al fine di procedere ad una valutazione ‘reale’ dei costi sostenuti al nero, il giudice ha l’onere di esaminare in maniera analitica i documenti, sulla scorta dei quali possano derivare i relativi costi: l’eventuale violazione di norme tributarie non rappresenta un elemento di prova per ipotizzare ‘la mancanza di elementi certi e precisi’ concernenti le spese’” (19). Non può comunque essere sottaciuto che la giurisprudenza da ultimo richiamata, tuttavia, pur riconoscendo la rilevanza dei costi in nero ai fini della
(17) G. Cesari, Una nuova pronuncia della Corte di Cassazione sulle regole probatorie in materia di superamento delle soglie di punibilità nel reato di omessa dichiarazione, in op. cit., 20542. (18) Cass. Pen., Sez. III, 9.4.2013 n. 37131, in il Fisco n. 38/2013, 5943. (19) F. Marrucci, Delitto di dichiarazione infedele e deduzione dei ‘costi neri’, in il Fisco n. 38/2013, 5943.
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determinazione dell’imposta evasa a prescindere dalle mere irregolarità fiscali, richiede però che tali costi non contabilizzati risultino con certezza e precisione. Ed infatti in tale arresto la Corte di Cassazione ha precisato che “il Legislatore, quindi, ha inteso consentire la deduzione dei costi in nero anche ove tali costi – com’è ovvio – non risultino dalle scritture contabili, ma da altri elementi, a condizione che questi siano ‘certi e precisi’. Ne consegue che per escludere l’applicabilità della disposizione non è sufficiente affermare che i costi riportati in deduzione non risultano dalla scritture contabili, perché, qualora si abbia contezza degli stessi, ad esempio desumendone l’esistenza dalle fatture di acquisto di beni e servizi acquisite nel corso dell’accertamento ispettivo, è necessario procedere comunque alla loro valutazione, quanto meno al fine di evidenziare la mancanza dei requisiti della certezza e della precisione nella documentazione dalla quale gli stessi emergono” (20). Si tratta di una opzione interpretativa che, a ben vedere, dal punto di vista dell’onere probatorio gravante sul contribuente-imputato, risulta essere molto più rigida rispetto all’orientamento espresso con la sentenza in esame, nella misura in cui quest’ultima, come già anticipato, ritiene sufficiente il ragionevole dubbio sull’esistenza dei costi medesimi e non già la loro certezza. Ad ogni buon conto, a prescindere dal grado di rigore probatorio richiesto, non può non evidenziarsi l’importante risultato cui sinora si è giunti, se è vero che la giurisprudenza, come efficacemente evidenziato in dottrina, “a far data dal 2008, è pervenuta ad una interpretazione ‘sostanzialistica’ dell’imposta evasa” (21), nella misura in cui i Giudici di legittimità hanno chiarito che “differentemente dall’ordinamento tributario, il cui metodo induttivo di determinazione del reddito contempla ipotesi di ricostruzione formale ed inversione dell’onere della prova a carico del contribuente – quale l’ipotesi prevista all’art. 32, D.P.R. n. 600/1973 in merito alle indagini sui rapporti e conti correnti intrattenuti con istituti di credito – la disciplina della repressione dei reati comporta l’obbligo del giudice di valutare autonomamente le circostanze ed i fatti costitutivi della fattispecie incriminatrice – all’uopo anche discostandosi dalle risultanze e conclusioni dell’accertamento prettamente tributario, per dare prevalenza alla realtà del reddito imponibile e della corrispondente imposta sottratta all’Erario, ovvero
(20) Cass. Pen., Sez. III, 9.4.2013 n. 37131, in il Fisco n. 38/2013, 5943. (21) L. Imperato, Modifiche alle definizioni generali nel diritto penale, in il Fisco n. 31/2015, 3035.
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procedendo ad autonoma indagine nel contesto del divieto di adozione delle presunzioni legali previste dalla normativa sull’accertamento” (22). La Corte di Cassazione ha dunque sottolineato che “per ‘imposta evasa’ deve intendersi l’intera imposta dovuta da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio fiscalmente detraibili, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale” (23). Il predetto orientamento, ormai consolidato, della giurisprudenza è certamente da apprezzare e, tuttavia, in subiecta materia non possono essere sottaciuti alcuni profili di criticità. Ed infatti se è vero che la giurisprudenza ha riconosciuto la piena autonomia del giudice penale rispetto agli accertamenti eseguiti dall’Amministrazione Finanziaria o dalle Commissioni Tributarie (24), è comunque altrettanto vero che siffatta autonomia “non significa ottusa impermeabilizzazione, giacché appare immaginabile come, nella pratica, il procedente abbia una umanissima attenzione nei confronti delle conclusioni cui giungono i funzionari del Fisco, certamente dotati di competenze specifiche a supporto di determinazioni che, se non automaticamente da assumere, possono rappresentare, perlomeno, validi spunti” (25) Non può poi essere sottovalutato un ulteriore aspetto critico rappresentato dal rilevante valore probatorio che le presunzioni tributarie in ogni caso mantengono in materia cautelare, tanto da poter fondare l’applicazione, ad esempio, di un sequestro per equivalente. Ed infatti la consolidata giurisprudenza ha ormai chiarito che “le presunzioni tributarie non costituiscono di per sé fonte di prova della commissione di un reato, ma, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto liberamente valutabili dal giudice, possono essere posti a fondamento di una misura cautelare reale” (26). Vincenzo Cardone, Fabrizio Pontieri
(22) Cass. Pen., Sez. III, 6.2.2009 n. 5490, in www.leggiditaliaprofessionale.it. (23) Cass. Pen., Sez. III, 26.2.2008 n. 21213, in www.leggiditaliaprofessionale.it. (24) Cfr. anche Cass. Pen., Sez. III, 27.3.2014 n. 36703, in il Fisco n. 36/2014, 3581. (25) C. Beccalli, Il superamento delle soglie di punibilità non necessita del dolo ed è oggetto di autonoma valutazione del giudice penale, in il Fisco n. 36/2014, 3581, il quale evidenzia inoltre che “è indubbio come sarebbe paradossale negare quel che, in definitiva, nessuno potrebbe impedire, cioè l’utilizzo, da parte del giudice penale, di quanto aliunde determinato”. (26) Cass. Pen., Sez. III, 23.1.2013 n. 7078, in CED Cassazione 2013; conforme Cass. Pen., Sez. III, 11.3.2014 n. 18715, in www.leggiditaliaprofessionale.it.
Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi
Profili critici dell’applicazione del comma 3 bis dell’art. 68, D.lgs. n. 546/92, in materia di riscossione delle risorse proprie dell’Unione Europea Sommario. 1. Introduzione. – 2. La contabilizzazione delle risorse proprie amministrate
dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. – 3. La riscossione in materia doganale ante Legge Europea 2013 bis. – 4. Le vicende che hanno condotto all’introduzione del comma 3 bis. – 5. Criticità e limiti dell’intervento normativo: perplessità relative agli effetti sullo svincolo delle garanzie e su rimborso e sgravio. – 6. Criticità e limiti dell’intervento normativo: perplessità relative alla possibilità di riscuotere le somme accertate nonostante l’intervento di una sentenza di annullamento non definitiva. – 7. Conclusioni. La Legge Europea 2013 bis (L. n. 161 del 30 ottobre 2014) ha modificato l’art. 68 del D.lgs. n. 546 del 1992 prevedendone la non applicabilità alla riscossione delle risorse proprie dell’Unione Europea in pendenza di giudizio. Intento dichiarato della modifica legislativa è quello di recepire le osservazioni della Commissione Europea (documento congiunto del 14/3/2012 n° 256812) che ha ritenuto la disposizione in rassegna incompatibile rispetto alle disposizioni comunitarie (1) in materia di garanzie doganali (di cui all’art. 199 Reg. n. 2913 del 1992). Tuttavia, la disposizione neo-introdotta presta il fianco alle critiche sia degli operatori sia dell’Amministrazione doganale e, a distanza di qualche tempo dall’entrata in vigore della novella, permangono molte perplessità in ordine alla sua applicazione e legittimità. The “European Law 2013” (Law no. 161 of 30 October 2014) amended Article 68 of Legislative Decree. N. 546 of 1992 establishing that limitations set by Art. 68 do not apply to the collection of own resources of the European Union. The stated intention of the legislative amendment is to accept the comments of the European Commission (joint document of 14.03.2012 No. 256 812) which considered the provision under review inconsistent with the art. 199 Reg. CEE no. 2913 1992. However, the amendment has been criticized by both operators and customs administration and even now, after some time after its entry into force, there are still many doubts concerning its application and its lawfulness.
(1) Nonostante l’avvenuta sostituzione, nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, del termine «comunitario» con quello «dell’unione», l’aggettivo in questione sarà utilizzato con riferimento a dati normativi anteriori al trattato di Lisbona.
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Parte quarta
1. Introduzione (Sabrina Ferrazzi). – La disciplina della riscossione delle risorse proprie dell’Unione Europea amministrate dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli è stata oggetto di sostanziali modifiche negli ultimi anni. Tali modifiche, sebbene in parte coeve a quelle che hanno riguardato il sistema della riscossione dei principali tributi erariali, non sono state dettate dalle medesime esigenze di razionalizzazione e velocizzazione, bensì dalla necessità di adeguamento alle previsioni comunitarie. Esse, inoltre, hanno riguardato sia la fase amministrativa della riscossione (D.L. n. 16 del 2 marzo 2012) sia, in tempi più recenti, la fase giudiziale (L. n. 161 del 30 ottobre 2014). È su quest’ultima interventa che ci si intende soffermare: sebbene esso si sia resa necessario a fronte di un preciso intervento della Commissione Europea – che, come vedremo, ha rilevato taluni profili di incompatibilità dell’art. 68 del D.lgs. n. 546 del 1992 rispetto all’art. 199 del Regolamento 12 ottobre 1992, n. 2913 (2) – non si può fare a meno di rilevare che la stessa, risultando priva della necessaria chiarezza e coerenza sistematica, presta il fianco a numerose critiche, in particolare in considerazione della portata applicativa attribuitale dall’Amministrazione doganale. A tal proposito, giova prendere le mosse dall’analisi delle disposizioni comunitarie che regolano la contabilizzazione (in special modo a posteriori) e la gestione delle risorse proprie, demandata all’Amministrazione doganale, essendo state le novità in rassegna introdotte essenzialmente per evitare che al nostro legislatore venisse contestata l’inosservanza di tali disposizioni. Ed invero, le differenze che caratterizzano il sistema della riscossione delle risorse proprie dell’Unione Europea rispetto a quello degli altri tributi sono giustificate altresì dall’esigenza, imposta da tali norme comunitarie, di garantire una stretta corrispondenza tra quanto contabilizzato e quanto materialmente riscosso. Restano, tuttavia, da valutare i limiti entro i quali tale esigenza possa consentire di derogare ai principi del nostro ordinamento ed alle disposizioni interne, nonché le modalità di coordinamento tra i due gruppi di norme in argomento.
(2) Codice Doganale Comunitario (C.D.C.). Dal 30 ottobre 2013, è entrato in vigore il Reg. n. 952/13 del Parlamento Europeo e del Consiglio (Codice Doganale dell’Unione), ad oggi parzialmente applicato e che vedrà piena applicazione dal 1° maggio 2016.
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Parte quarta
2. La contabilizzazione delle risorse proprie amministrate dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (Carlo Cosentino). – La contabilizzazione delle risorse proprie (3) dell’Unione Europea (e la successiva messa a disposizione delle stesse) rappresenta uno degli adempimenti più rilevanti cui gli Stati membri devono far fronte in ragione della loro appartenenza alla organizzazione comunitaria. Il Reg. n. 1150 del 2000 ed il recente Reg. n. 609 del 2014 (che abroga e sostituisce il primo) (4), nel dettare le modalità secondo le quali gli Stati membri mettono a disposizione della Commissione le risorse proprie dell’Unione Europea, sono chiari nell’affermare (5) che «La Comunità deve disporre delle risorse proprie … nelle migliori condizioni possibili» (6), circostanza che si
(3) I dazi della Tariffa doganale comune, insieme ai prelievi, premi, importi supplementari o compensativi, importi o elementi aggiuntivi, altri dazi fissati o da fissare da parte delle istituzioni dell’Unione sugli scambi con paesi terzi, dazi doganali sui prodotti che rientrano nell’ambito di applicazione del Trattato, ormai scaduto, che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nonché contributi e altri dazi previsti nell’ambito dell’organizzazione comune dei mercati nel settore dello zucchero, costituiscono le cosiddette “risorse proprie tradizionali” dell’Unione Europea. Si rammenta che il sistema di finanziamento basato sul meccanismo ownres (own resources), meccanismo che contribuisce a caratterizzare e distinguere la Comunità Europea (ed ora l’Unione Europea) dalle altre organizzazioni internazionali (le quali sono ordinariamente finanziate attraverso contributi volontari degli stati aderenti), comprende oltre alle risorse proprie tradizionali la “risorsa Iva” (costituita dalle entrate derivanti dall’applicazione di un’aliquota uniforme, valida per tutti gli Stati membri, agli imponibili IVA armonizzati, determinati secondo le regole dell’Unione.) e la “risorsa RNL” (costituita dalle entrate derivanti dall’applicazione di un’aliquota uniforme, fissata secondo la procedura di bilancio, tenuto conto del totale di tutte le altre entrate, alla somma degli RNL di tutti gli Stati membri). (4) Il Regolamento n. 609/2014 (come, del resto, il Reg. n. 608 del 2014) entrerà in vigore il giorno dell’entrata in vigore della citata Decisione n. 2014/335 (con applicazione retroattiva a partire dal 1° gennaio 2014). La “Decisione”, d’altro canto, entrerà a tutti gli effetti in vigore – in virtù di quanto disposto all’art. 11 – il primo giorno del mese successivo al ricevimento da parte del segretariato generale del Consiglio dell’ultima comunicazione pervenuta dagli Stati membri concernente l’intervenuto recepimento interno della Decisione medesima; questa sarà comunque applicabile, con effetto retroattivo, a decorrere dal 1° gennaio 2014. (5) Considerando (2) del Reg. (CE) 22 maggio 2000, n. 1150/2000 (Regolamento del Consiglio recante applicazione della Decisione 2007/436/CE/Euratom, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee). Di uguale tenore, il Considerando (3) del Reg. (CE) 26 maggio 2014, n. 609/2014, Regolamento del Consiglio concernente le modalità e la procedura di messa a disposizione delle risorse proprie tradizionali e delle risorse proprie basate sull’IVA e sull’RNL, nonché le misure per far fronte al fabbisogno di tesoreria (Rifusione). (6) Tale preoccupazione del legislatore comunitario è comprensibile ove si pensi alle finalità cui è preordinato il sistema delle risorse proprie il quale, ferma la necessità di una rigorosa disciplina di bilancio, deve garantire mezzi idonei al corretto sviluppo delle politiche dell’Unione. Così, Decisione 26-5-2014 n. 2014/335/UE/Euratom (Decisione del Consiglio
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Parte quarta
traduce, in caso di errori, omissioni o negligenze delle amministrazioni nazionali, nella forzosa messa a disposizione degli importi afferenti e nel pagamento di interessi moratori da parte dello Stato membro. Ragion per cui gli Stati membri, da un lato, non possono esimersi dall’accertare i crediti a titolo di risorse proprie (7) e, dall’altro, sono «tenuti a prendere tutte le misure necessarie affinché gli importi corrispondenti ai diritti accertati in conformità dell’articolo 2 siano messi a disposizione della Commissione alle condizioni previste dal presente regolamento» (8) (9).
relativa al sistema delle risorse proprie dell’Unione Europea). (7) Si vedano le sentenze 16 maggio 1991, causa C-96/89, Commissione/Paesi Bassi, Racc. pag. I-2461, punto 37; 15 giugno 2000, causa C-348/97, Commissione/Germania, Racc. pag. I-4429, punto 64; 15 novembre 2005, causa C-392/02, Commissione/Danimarca, Racc. pag. I-9811, punto 60, e Commissione/Spagna, cit., punto 28. (8) Art. 17 del Reg. cit. e corrispondente art. 13 del Reg. 609 del 2014. (9) Le uniche deroghe sono previste dallo stesso art. 17 e riguardano casi tassativi al verificarsi dei quali l’Esecutivo dell’Unione ammette che possa essere concessa una dispensa dalla messa a disposizione. Si tratta di rare ipotesi in cui è configurabile un’oggettiva irrecuperabilità degli importi accertati, dipendente: 1) da cause di forza maggiore, ovvero 2) da altri motivi comunque non imputabili agli Stati Membri. Gli importi relativi ai diritti accertati sono “dichiarati” irrecuperabili con decisione dell’autorità amministrativa competente nel momento in cui si concretizzano le condizioni di assoluta irrecuperabilità. Detti importi sono, invece, “considerati” irrecuperabili al più tardi dopo un periodo di cinque anni dalla data alla quale l’importo è stato accertato oppure, in caso di ricorso amministrativo o giudiziario, dalla pronuncia dalla notifica o dalla pubblicazione della decisione definitiva. In entrambi i casi (dichiarazione o considerazione di inesigibilità) si può procedere alla assunzione della decisione sempre che la mancata riscossione non sia imputabile a negligenze, errori od omissioni commessi dallo Stato membro (inteso come qualunque soggetto pubblico riconducibile direttamente o indirettamente all’autorità statuale). Al ricorrere di dette circostanze, i cui presupposti devono formare oggetto di dettagliata istruttoria da parte dell’autorità doganale nazionale, lo Stato membro interessato dovrà procedere al ritiro delle somme dalla contabilità separata e (per le partite di importo superiore a 50.000 €) all’invio alla Commissione di apposita comunicazione corredata di tutta la documentazione probante, al fine di consentire alla stessa un esame approfondito dei motivi che hanno impedito allo Stato membro interessato di mettere a disposizione gli importi in causa e le misure adottate da quest’ultimo per garantirne il recupero nel caso specifico. Da evidenziare come la Commissione sia estremamente rigida nella valutazione dell’operato delle autorità doganali nazionali e come non siano rari i casi in cui essa richieda comunque all’Amministrazione nazionale il versamento delle somme per le quali lo Stato membro aveva prospettato un’ipotesi di dispensa dalla messa a disposizione, oppure in cui intima il pagamento di interessi per ritardi nella messa a disposizione.
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Parte quarta
L’accertamento (10) (11) delle risorse proprie tradizionali e la successiva messa a disposizione delle stesse presuppongono che gli Stati membri provvedano alla loro contabilizzazione (o registrazione). È possibile individuare due distinti livelli di contabilità delle risorse proprie; per ciascuno di tali livelli, la contabilità è ripartita, secondo la natura delle risorse, in contabilità ordinaria e contabilità separata. Il primo livello è quello afferente alla contabilizzazione doganale ed è disciplinato dall’art. 217 CDC (e dal successivo art. 221); il secondo livello, relativo alla contabilizzazione effettuata per aggregato nazionale dalla Ragioneria Generale dello Stato, è quello contemplato dall’art. 6 del citato Reg. 1150 del 2000 (12). I due livelli di contabilizzazione, pur dovendo, come vedremo, essere necessariamente “allineati” per ciò che riguarda gli importi accertati e riscossi (13), operano su piani differenti (14) e si distinguono per la tipologia di adempimenti formali richiesti. Ai sensi dell’art. 217 CDC, per contabilizzazione dei dazi doganali si intende l’iscrizione del relativo importo «nei registri contabili [della dogana] o in qualsiasi supporto che ne faccia le veci»: l’autorità doganale deve calcolare l’importo dei dazi non appena sia in possesso degli elementi necessari e deve iscriverlo nei registri contabili. L’art. 217 (§ 2) lascia all’autorità doganale degli Stati membri ampia libertà di azione circa le concrete modalità di contabilizzazione, limitandosi a precisare che tali modalità potranno differire a seconda che la Dogana abbia certezza o meno del pagamento, da parte del
(10) L’art. 2 del Reg. 1150/2000 dispone al riguardo che “… un diritto delle Comunità sulle risorse proprie … è accertato non appena ricorrono le condizioni previste dalla normativa doganale per quanto riguarda la registrazione dell’importo del diritto e la comunicazione del medesimo al soggetto passivo”. Il rinvio alla normativa doganale è da intendersi fatto al Codice Doganale Comunitario ed alle relative Disposizioni di Attuazione. (11) I tre presupposti dell’accertamento si possono individuare: 1) nella preliminare quantificazione dell’importo daziario; 2) nella successiva registrazione dello stesso in contabilità (cd. contabilizzazione) e 3) nella comunicazione al debitore. Con la precisazione che la data di accertamento coincide con quella della registrazione prevista dalla normativa doganale. (12) Ora, art. 6 del nuovo Reg. (CE) n. 609/2014. (13) Tale allineamento avviene tramite una procedura informatizzata utilizzata dalla ragioneria per validare - attraverso il SIE (Sistema Informativo Entrate) - l’accertato delle risorse proprie da parte dei ricevitori doganali. (14) Come anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha avuto modo di precisare. Cfr., fra le altre, Ordinanza 9 luglio 2008 nella Causa C-477/07, Sentenza 28 gennaio 2010 nella Causa C-264/08.
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Parte quarta
debitore, degli importi accertati. Quindi, a differenza della contabilizzazione prevista dall’art. 6 del Reg. 1150 del 2000 (come detto, effettuata per dati aggregati dalla Ragioneria Generale dello Stato), l’art. 217 CDC non prescrive modalità pratiche per la contabilizzazione; il fine esclusivo è quello di «consentire che la contabilizzazione degli importi interessati sia effettuata con certezza, anche nei confronti del debitore» (15). Si tratta di una registrazione che attiene al rapporto Autorità doganaleimportatore in quanto ai sensi dell’art. 221 CDC la contabilizzazione dei dazi deve precedere la loro comunicazione al debitore (16). L’iscrizione nei registri contabili terrà conto delle diversa tipologia delle risorse proprie accertate: - quelle riscosse ovvero non riscosse ma garantite saranno iscritte nella contabilità A) (o “ordinaria”) del sistema AIDA (17); - quelle non riscosse e non garantite ovvero non riscosse, garantite ma contestate troveranno annotazione nella contabilità B) (o “separata”) di AIDA (18).
(15) Sentenza 28 gennaio 2010 nella Causa C-264/08. (16) Tuttavia, la consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia ha evidenziato: 1) non solo che l’adempimento dell’obbligo di preventiva annotazione dei dazi può essere soddisfatto dall’autorità doganale con l’iscrizione degli stessi su qualsivoglia supporto idoneo allo scopo ma, addirittura, 2) che la contabilizzazione si realizzi “mediante l’iscrizione di tale importo nel verbale emesso dalla competente autorità doganale in accertamento di un’infrazione della vigente normativa doganale” (Così, sentenza della Corte (Seconda Sezione) 16 luglio 2009 nella Causa C-126/08). Ed inoltre, 3) sarà sempre possibile, ove venga effettivamente accertato che la notifica del debito all’importatore non sia stata preceduta dalla prescritta contabilizzazione, che l’autorità doganale proceda ad una nuova comunicazione di tale importo nel rispetto delle condizioni previste dall’art. 221 CDC e delle norme sulla prescrizione in vigore alla data in cui è sorto il debito doganale (sent. cit. Causa C-264/08). Va, d’altro canto, evidenziato come, ai sensi dell’art. 221 CDC, la comunicazione al debitore possa essere sostituita, fisiologicamente, da una particolare tipologia di facta concludentia rappresentati dallo svincolo delle merci (dichiarate all’importazione) concesso dalla Dogana nei casi di effettiva corrispondenza tra l’importo daziario indicato in bolletta e quello accertato dagli ispettori doganali. Ne deriva che, ove detta corrispondenza non vi sia, la comunicazione al debitore (previa contabilizzazione dei maggiori importi accertati) riacquista carattere obbligatorio. (17) Le somme accertate mensilmente a titolo di risorse proprie presso gli Uffici doganali, ed aventi tali caratteristiche di certezza, sono riportate nella nota mensile di chiusura della contabilità ordinaria costituita dal mod. A66 bis, nota delle entrate accertate nel mese. In allegato al mod. A66 bis il sistema elabora il quadro A1 relativo alla situazione integrativa dell’accertato delle Risorse Proprie nel quale sono riportati: l’ammontare delle R.P. accertate nel mese; l’ammontare delle somme provenienti dalla contabilità separata; i rimborsi e i discarichi operati nel mese; la differenza da conferire all’erario UE. (18) Ove dette somme formino oggetto di successiva riscossione in Dogana, il passaggio dalla contabilità B alla A avverrà mediante l’emissione di una bolletta mod. A22 che recherà
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Parte quarta
Quest’ultima è una contabilità a chiusure trimestrali, tenuta dai contabili doganali (Ricevitori – Capi Area Gestione Tributi) attraverso un sistema informatico dedicato. Ciò che distingue la contabilità ordinaria da quella separata è il diverso grado di certezza relativo alla possibilità di riscossione da parte della Dogana degli introiti in argomento. Il CDC, inoltre, scandisce i tempi della iscrizione nei registri effettuata dagli Uffici doganali, che deve avvenire: - «non appena … [l’importo dei dazi] sia stato calcolato o, al più tardi, entro due giorni (19) dallo svincolo della merce» (art. 218 CDC); ovvero, - «dalla data in cui l’autorità doganale si è resa conto della situazione in atto ed è in grado di calcolare l’importo e di determinarne il debitore» (art.220 CDC). Si precisa che la previsione dell’art. 218 CDC riguarda l’ipotesi dell’obbligazione doganale che sorge, fisiologicamente, all’atto dell’accettazione della bolletta di importazione (20).
specifico riferimento alla partita di contabilità separata. In caso di riscossione coattiva, invece, il Concessionario verserà la somma sul conto di Tesoreria e la Ragioneria provvederà al successivo storno a favore del bilancio UE. (19) Il Regolamento Cee 1182/71 al capitolo 1 art. 2 comma 2 dispone che, nel calcolo dei termini dei giorni lavorativi, non devono essere tenuti in considerazione i giorni festivi, la domenica e il sabato. (20) In questo caso, l’esito dell’attività di verifica, eseguita dalla dogana in base alle indicazioni del cd. Circuito Doganale di Controllo attribuirà all’accertamento de quo i caratteri dell’accertamento definitivo e farà scattare l’obbligo della immediata contabilizzazione dei dazi afferenti (nella misura dichiarata dall’operatore o rettificata dall’Ufficio); tale adempimento, come sopra visto, potrà essere differito, al massimo, al secondo giorno successivo allo svincolo della merce. Come è noto, a seguito dell’accettazione e registrazione a sistema della dichiarazione doganale, il Circuito Doganale di Controllo per l’analisi dei rischi può prevedere le seguenti tipologie di controllo: - CA (controllo automatizzato): la merce viene immediatamente messa a disposizione dell’operatore; - CD (controllo documentale): la dichiarazione viene sottoposta a controllo documentale al termine del quale la merce sarà rilasciata all’importatore; - VM (visita merce): la merce viene sottoposta a controllo fisico al termine del quale sarà rilasciata all’importatore; - CS (controllo scanner): il mezzo di trasporto viene sottoposto a controllo scanner al termine del quale la merce sarà rilasciata all’importatore. In tutte le ipotesi appena descritte, la Dogana potrà confermare la correttezza della liquidazione dei diritti proposta dal dichiarante oppure procedere ad una eventuale rettifica in corso di accertamento: in entrambi i casi, al termine di dette attività, l’accertamento sarà divenuto definitivo.
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Parte quarta
Inoltre, a parte alcune ipotesi eccezionali e/o particolarissime di contabilizzazione contemplate negli artt. 218 e 219 (e nello stesso art. 217) CDC (21), va rilevato che l’art. 218 contiene una norma di chiusura per tutti i casi di obbligazioni doganali sorte in condizioni diverse (22) da quella fisiologica: in tali ipo-
(21) Il combinato disposto degli artt. 218 e 219 contempla, infatti, alcune ipotesi specifiche di contabilizzazione ritardata o prorogata (diverse, si badi, dalla contabilizzazione a posteriori che analizzeremo commentando l’art. 220 CDC), ed in particolare: - il caso della cosiddetta contabilizzazione unica, quando un operatore doganale specificamente individuato viene autorizzato, previa prestazione di idonea garanzia, al pagamento periodico degli importi daziari relativi a più operazioni entro un periodo massimo di 31 giorni. In tal caso, dette somme possono formare oggetto di un’unica contabilizzazione entro 5 giorni dalla scadenza del periodo. - il caso della contabilizzazione successiva ai due giorni dallo svincolo delle merci, quando quest’ultimo sia concesso dall’autorità doganale (di regola sub praestatione cautionis) in attesa che vengano soddisfatte talune condizioni previste dal diritto dell’unione al fine dell’esatta determinazione dei dazi afferenti all’operazione doganale o della relativa riscossione. In tale ipotesi, la contabilizzazione deve avvenire, al più tardi, entro due giorni dal verificarsi delle condizioni di cui sopra. - il caso della contabilizzazione dei dazi antidumping o compensativi, che devono essere contabilizzati entro due mesi dalla pubblicazione in GUUE del Regolamento che li istituisce in via definitiva. - il caso della contabilizzazione nei termini prorogati ex art. 219 CDC. Detta norma (che, comunque, fa salvi i casi fortuiti e di forza maggiore) prevede la possibilità che gli ordinari termini di contabilizzazione possano essere prolungati (senza eccedere, tuttavia, i quattordici giorni complessivi) per motivi legati al tipo di contabilità adottata dall’organizzazione amministrativa degli Stati membri ovvero quando, in seguito a circostanze particolari (da motivare di volta in volta), l’autorità doganale non sia in grado di rispettare i termini ordinari. Altre ipotesi che fanno eccezione alla regola stessa della contabilizzazione sono, poi, quelle contenute nell’art. 217 CDC e riguardano: - i casi dei dazi provvisori (antidumping e compensativi), per i quali, come detto, occorre attendere la loro istituzione in via definitiva (rectius, la pubblicazione del regolamento che ne determina la definitività); - il caso in cui sussista una differenza tra l’importo dei dazi dichiarato sulla base di una “informazione tariffaria vincolante” o di una “informazione vincolante in materia di origine” e quello dovuto a norma di legge, dovendosi far prevalere l’affidamento dell’operatore che abbia agito, appunto, in forza di informazioni rilasciate dall’autorità doganale; - il caso di importi daziari inferiori ad un dato ammontare ritenuto inesigibile in ragione della sua modesta entità. L’art. 868 delle DD.AA.C. prevede, al riguardo, che gli Stati membri possono dispensare dal contabilizzare gli importi daziari inferiori a 10 euro. (22) A mero titolo esemplificativo, si possono indicare: i casi delle revisioni dell’accertamento divenuto definitivo, ipotesi di diritti doganali cauzionati per i quali si verificano scoperti di garanzia, accertate deficienze di merce in magazzini non garantiti, irregolarità nelle operazioni di transito T1 o carnet TIR, etc. non coperti da sufficiente garanzia, diritti derivanti dall’esito di contenzioso, diritti derivanti da merce in contrabbando (nei casi in cui la merce non è stata sequestrata e confiscata).
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tesi, la contabilizzazione deve comunque avvenire entro due giorni da quando la dogana è in grado di calcolare l’importo dei dazi e di determinare il debitore. Tale norma, allora, introduce le ipotesi di cd. contabilizzazione a posteriori di cui si occupa l’art. 220 CDC. Si tratta di situazioni in cui si è verificata, per le ragioni più diverse, l’omessa contabilizzazione, in tutto o in parte, degli importi daziari legalmente dovuti al sorgere di un’obbligazione doganale. Tuttavia, una volta che l’autorità doganale abbia preso atto di tale circostanza, riassumono attualità gli ordinari presupposti in presenza dei quali diviene obbligatoria la contabilizzazione: ragion per cui, la Dogana è tenuta a procedervi una volta in grado di calcolare l’importo dovuto e di determinare il debitore (23). Passiamo ora alla contabilizzazione di secondo livello, disciplinata dall’art. 6, Reg. n. 1150 del 2000. Essa si fonda sulla previsione secondo cui «Presso il Tesoro di ogni Stato membro … viene tenuta una contabilità delle risorse proprie, ripartita secondo la natura delle risorse» ed è direttamente afferente al rapporto Stato membro - Commissione e, come accennato, nel nostro ordinamento, è di competenza della Ragioneria Generale dello Stato, che tratta in modo aggregato i dati provenienti dalle singole registrazioni effettuate (ai sensi degli artt. 217 e 221 CDC) dai vari uffici doganali.
(23) L’importanza di individuare tale momento è da ricollegarsi al ricordato obbligo generale che incombe sulle amministrazioni degli Stati membri di mettere a disposizione della Commissione gli importi costituenti le risorse proprie dell’Unione. Questo concetto di accertamento ha formato oggetto di un recente chiarimento nella disciplina nazionale a seguito della sentenza della Corte di Giustizia nella causa C-423/08 ai sensi della quale, “nei casi in cui le attività di controllo si concludano con la redazione di un processo verbale di constatazione, il dies a quo per la contabilizzazione nei registri doganali degli importi in questione sarà quello di redazione/consegna dell’atto alla parte, purché in esso siano individuati il potenziale debitore e il potenziale debito”. Invece, un tempo l’Agenzia delle Dogane era orientata nel senso di far coincidere l’accertamento medesimo con l’emanazione di un atto successivo al processo verbale di constatazione, rappresentato dall’avviso di rettifica, con conseguente applicazione della disposizione di cui all’art. 12, comma 7 della Legge n° 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente) che, nella formulazione originaria, contemplava un generale termine dilatorio di sessanta giorni dalla notifica del processo verbale di constatazione prima dell’emissione dell’avviso di rettifica dell’accertamento. Tale impostazione non è stata condivisa dalla Commissione, che ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, poi sfociata nel ricorso per inadempimento di cui alla citata causa C-423/08. Va da sé che, ove alla redazione del p.v.c. attengano Autorità diverse da quella doganale (ad es. la Guardia di Finanzia), il dies a quo medesimo dovrà farsi coincidere con quello in cui la Dogana riceva il verbale dell’Organo procedente (in tali termini si è espressa l’Agenzia delle Dogane con nota prot. n° 113235 del 21.9.2010).
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Disposizioni specifiche scandiscono i tempi (24) dei diversi adempimenti che le competenti autorità amministrative statali debbono porre in essere e che si differenziano a seconda del tipo di risorse proprie di volta in volta oggetto di accertamento: tradizionali, Iva e complementari. Per ciò che concerne le risorse proprie tradizionali (25), la Ragioneria Generale dello Stato dovrà seguire due diverse modalità di contabilizzazione a seconda che si tratti di somme: - accertate e riscosse oppure accertate, non riscosse ma garantite; o invece - accertate non riscosse e non garantite oppure accertate non riscosse, garantite ma contestate. Anche in questo caso, ciò che fa la differenza è il diverso grado di certezza relativo alla possibilità di riscossione degli introiti in argomento. I diritti per i quali sussiste evidenza di una sicura riscossione (perché già avvenuta o perché garantita senza contestazioni: caso sub a) saranno riportati nella contabilità ordinaria, detta anche contabilità A) (26) con conseguente messa a disposizione della somma a favore dell’Erario dell’Unione mediante accreditamento sul conto aperto a tale scopo a nome della Commissione presso la Ragioneria Generale dello Stato (art. 9 Reg. cit.). Invece, le risorse della seconda tipologia, per le quali non v’è certezza di riscossione, sono iscritte (27) in una contabilità separata o contabilità B) (28). La messa a disposizione di tali somme è, pertanto, solo eventuale (29). Si evidenzia come il necessario collegamento tra i due diversi livelli (Dogane – Ragioneria Generale dello Stato) sia assicurato da un meccanismo di
(24) Ad esempio, il paragrafo 2 dell’art. 6 stabilisce che “Per le esigenze della contabilità delle risorse proprie, la chiusura contabile è effettuata non prima delle ore tredici dell’ultimo giorno feriale del mese in cui è stato effettuato l’accertamento”. (25) Vale a dire i dazi. Le risorse Iva e Complementare sono iscritte/contabilizzate il 1° giorno feriale d’ogni mese, in ragione dei singoli dodicesimi calcolati sulla base delle pertinenti previsioni di bilancio, e annualmente per il saldo. (26) Ciò che avverrà, al più tardi, il primo giorno feriale dopo il 19 del secondo mese successivo a quello nel corso del quale ha avuto luogo l’accertamento. (27) Nello stesso termine di cui sopra. (28) Ciò, in conformità a quanto previsto dal considerando (11) del Reg. 1150/2000, ai sensi del quale “È opportuno prevedere una contabilità separata per quanto concerne in particolare i diritti non riscossi. Tale contabilità, con trasmissione di un estratto trimestrale, deve consentire alla Commissione di seguire più da vicino l’attività degli Stati membri nel campo della riscossione delle risorse proprie e in particolare di quelle compromesse da frodi e irregolarità”. (29) Si richiama, sul punto, quanto già evidenziato in nota 8.
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riepilogazione e trasmissione telematica delle registrazioni effettuate dai singoli uffici doganali che provvedono trimestralmente a validare i propri dati contabili. Questi ultimi, poi, vengono riepilogati per Direzioni territoriali dell’Agenzia delle Dogane, quindi aggregati a livello nazionale e trasmessi, entro il ventesimo giorno del mese successivo alla chiusura trimestrale, al Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, che li comunica alla Commissione nei termini previsti dall’art. 6 del Reg.1150 del 2000. Riassumendo, con particolare riferimento al caso in cui sia stato elevato un provvedimento di revisione dell’accertamento oggetto di ricorso da parte del contribuente, la contabilizzazione delle risorse proprie accertate avverrà: - dapprima, nella contabilità separata del sistema Aida (entro 2 giorni dalla chiusura del processo verbale di constatazione); - quindi, sulla scorta della prima, nella contabilità separata della Ragioneria Generale dello Stato. Gli importi così contabilizzati, in caso di intervento di una sentenza definitiva favorevole all’Amministrazione doganale, una volta riscossi, saranno discaricati dalla contabilità B per transitare nella contabilità ordinaria ed essere versati, a cura della Ragioneria Generale dello Stato, nelle casse dell’Unione Europea (30). Laddove lo Stato membro non riesca a riscuotere gli importi in questione e non ricorrano i citati (limitatissimi) casi di dispesa dalla messa a disposizione, sarà in ogni caso chiesto allo Stato membro di versare le risorse proprie a suo tempo accertate. In sostanza, pare evidente che le disposizioni in rassegna spingono ciascuno Stato membro a garantire (al fine di garantire se stesso) la riscossione delle risorse proprie accertate, se del caso con misure rafforzate rispetto a quelle applicate nel caso delle risorse interne, posto che esso sarà chiamato in ogni caso a giustificare all’Unione Europea la mancata riscossione delle stesse ed, eventualmente, a rimetterle di tasca propria.
(30) La riscossione avviene con bolletta A22 meccanizzata che, una volta acquisita al sistema informatico doganale, determina lo scarico dell’importo in questione dalla contabilità separata e la contestuale contabilizzazione dello stesso importo nella contabilità ordinaria con conseguente messa a disposizione della somma a favore dell’erario UE. Da evidenziare che la riscossione può determinare sia uno scarico totale, con conseguente chiusura della partita di carico, sia solo parziale, per cui la partita rimarrà in contabilità B per la rimanenza.
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3. La riscossione in materia doganale ante Legge Europea 2013 bis (Sabrina Ferrazzi). – Già prima del 2012, la disciplina della riscossione dei tributi doganali (31) si discostava rispetto a quella dei principali tributi erariali, prevedendo la stessa, anche in pendenza di ricorso alla Commissione tributaria provinciale, l’iscrizione a ruolo integrale (e non parziale ex art. 15 del D.P.R. n. 602 del 1973) delle maggiori imposte accertate (32) (33). A partire dal 28 marzo 2013 (34), anche per i tributi doganali è stata superata la riscossione mezzo ruolo ed è stata prevista l’immediata esecutività dei provvedimenti dell’Amministrazione doganale. Con una particolarità: nel caso dei tributi doganali, l’esecutività non decorre dalla data di scadenza dei termini per la proposizione del ricorso, bensì dal decimo giorno successivo alla notifica del provve-
(31) Ciò tuttavia per le sole risorse proprie dell’Unione Europea e per la connessa Iva all’importazione. Gli altri tributi amministrati da parte dell’Agenzia delle Dogana continuano ad essere riscossi a mezzo ruolo. (32) Ciò in quanto, in mancanza di una norma interna che prevedesse la riscossione frazionata del tributo (al pari dell’art. 15, D.P.R. n. 602 del 1973 per Iva, Irap ed Imposte dirette) l’inscrizione a ruolo dell’intera maggiore imposta accertata è consentita anche in pendenza di giudizio. Questo parrebbe ad oggi l’orientamento della Suprema Corte (cfr. Corte Cass., Sez. V, sent. n. 20669 del 2014). Tuttavia, si segnala una parte minoritaria della giurisprudenza di legittimità (cfr. Corte Cass., Sez. trib., sent. n. 7831 del 31 marzo 2010) che ha ritenuto che l’iscrizione a ruolo dei tributi per i quali non sia espressamente prevista la riscossione frazionata resterebbe comunque disciplinata dall’art. 68 cit. in corso di giudizio, anche di prime cure, con conseguente possibilità di iscrivere a ruolo le somme accertate ed oggetto di impugnativa nei limiti previsti dalla norma. Concordemente con tale ultimo orientamento, cfr. F. Randazzo, L’iscrizione provvisoria a ruolo del tributo è consentita anche nei casi in cui la legge d’imposta non prevede la riscossione frazionata?, GT – Riv. Giur. Trib., 2015, 219. (33) Si precisa che le sanzioni amministrative irrogate (al pari delle sanzioni amministrative irrogate a fronte di contestazione in materia di altri tributi), per il combinato disposto dell’art. 68, D.lgs. n. 546 del 1992 e dell’art. 19, D.lgs. n. 472 del 1997, laddove sia stato promosso ricorso avverso l’atto di irrogazione, non possono essere iscritte a ruolo prima della sentenza di prime cure che confermi, almeno in parte, la fondatezza del provvedimento impugnato. Tale diversa disciplina è attualmente in vigore e non è stata scalfita dalle modifiche normative in rassegna essendo le sanzioni amministrative doganali, quanto all’incasso, di competenza dell’Erario nazionale e, quanto alla disciplina, del legislatore nazionale (ovviamente nel rispetto dei principi comunitari di proporzionalità ed effettività, cfr. R. Rizzardi, Proporzionalità della sanzione: dalla Corte di giustizia alla circolare dell’Agenzia delle dogane, Corr. Trib., 2014, 3424). (34) Cfr. Nota prot. n. 23725 del 6 marzo 2013 sulla decorrenza della nuova disciplina. Le modifiche legislative in disamina sono state apportate dal D.L. n. 16 del 2 marzo 2012 convertito, con modificazioni ed integrazioni, dalla L. n. 44 del 26 aprile 2012. Le concrete modalità di affidamento della riscossione delle somme accertate sono state successivamente disciplinate con Provv. del Direttore dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di concerto con la Ragioneria generale dello Stato, prot. n. 3204 del 21 gennaio 2013.
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dimento accertativo. Trascorso questo termine (35), la riscossione delle somme è assegnata all’Agente, che procederà alla riscossione coattiva, previo sollecito del pagamento a mezzo raccomandata, delle intere maggiori imposte accertate. È evidente che, già con tale intervento, per la riscossione dei tributi doganali è stata prevista una procedura maggiormente spedita e di grande garanzia per l’Erario rispetto a quella applicabile ai tributi nazionali (36), posto che per questi ultimi la riscossione delle somme è inibita sino al decorrere del termine di presentazione dei ricorso (e resta peraltro sospesa in caso di differimento del termine per la presentazione del ricorso stesso) (37) e, inoltre, in caso di presentazione del ricorso, è esperibile solo per una parte delle maggiori imposte accertate (non per l’intero) (38). La previsione in esame, su espressa indicazione della Commissione Europea, è stata giustificata dalla necessità di uniformare le disposizioni interne a quanto già previsto dall’art. 222 CDC, a mente del quale “Ogni importo di dazi comunicato ai sensi dell’articolo 221 deve essere pagato dal debitore … questo termine non può eccedere dieci giorni dalla comunicazione al debitore dell’importo di dazi da pagare”. Già, dunque, a seguito dell’intervento legislativo del 2012, i contribuenti destinatari di provvedimenti accertativi erano stati messi nella difficile posizione di dover, prima di ogni altra cosa, preoccuparsi di gestire la riscossione (39).
(35) Per la precisione, la Nota prot. n. 23725 del 6 marzo 2013 ha stabilito che, trascorso il termine di dieci giorni previsto per legge, gli Uffici, prima di procedere alla annotazione del credito (vale a dire alla formazione e trasmissione telematica del flusso di carico al concessionario della riscossione), debbano attendere ulteriori quindici giorni per verificare se medio tempore non sia intervenuto il pagamento da parte del debitore. (36) Per una analisi critica delle circostanze che hanno determinato l’introduzione delle previsioni in rassegna, P. Massari, La nuova disciplina di esecutività degli accertamenti doganali, L’Iva, n. 6, 2012. (37) In questa materia, l’accertamento diviene esecutivo decorso il termine per la proposizione del ricorso, termine che resta sospeso dalla instaurazione dell’eventuale procedimento di accertamento con adesione e per tutta la durata dello stesso. Inoltre, decorso tale termine, l’Ufficio deve attendere ulteriori trenta giorni prima di avviare la fase esecutiva affidando la riscossione delle somme all’Agente. Per un approfondimento, F. Tundo, L’avviso di accertamento come titolo esecutivo e precetto, Corr. trib., 2011, 2672; C. Attardi, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito - Accertamento esecutivo e superamento del ruolo: profili sistematici, Il fisco, 2010, 1-6323. (38) Nella misura di un terzo delle maggiori imposte accertate (art. 15, co. 1, D.P.R. n. 602 del 1973), fatti salvi i casi in cui l’Ufficio, ai sensi e per l’effetto dell’art. 15 bis, D.P.R. n. 602 del 1973, proceda all’iscrizione a ruolo straordinaria delle intere somme accertate. (39) Difficoltà, invero, già marcate all’epoca da S. Armella - V. Baldi, La difficile tutela
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A questi, quale alternativa al versamento, rateale o integrale, dei maggiori tributi pretesi, restava solo la possibilità di chiedere la sospensione amministrativa oppure la sospensione giudiziaria della riscossione. La sospensione amministrativa della riscossione delle risorse proprie è disciplinata dall’art. 244 CDC, in virtù del quale la sospensione di una decisione dell’Amministrazione doganale può essere da questa concessa, alternativamente, “quando abbia fondati motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata alla normativa doganale, o si debba temere un danno irreparabile per l’interessato”. Essa è di regola “subordinata all’esistenza o alla costituzione di una garanzia” (40). In sostanza, il legislatore comunitario impone all’Ufficio doganale che intenda accogliere un’istanza di sospensione di verificare la sussistenza di uno dei presupposti menzionati e di ottenere una garanzia a copertura dei dazi per l’importo complessivamente accertato. La sospensione amministrativa, dunque, può consentire di ottenere con relativa celerità la sospensione della riscossione in atto, evitando azioni esecutive, ancorché sottostando all’onere di presentazione della garanzia. La sospensione giudiziale (41), invece, come noto, richiede la congiunta sussistenza dei presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora. Essa, normalmente, è accordata senza disporre a carico del richiedente la presentazione di una garanzia a favore dell’Amministrazione. Tuttavia, il comma 2 dell’art. 47, D.lgs. n. 546 del 1992 prevede che il Giudice, laddove lo ritenga opportuno, possa subordinare in tutto o in parte la sospensione “alla prestazione di idonea garanzia mediante cauzione o fideiussione bancaria o assicurativa, nei modi e termini indicati nel provvedimento” (42).
dall’esecutività degli atti di rettifica emessi dall’agenzia delle dogane, Corr. trib. 2013, 801. (40) Prosegue la norma prevedendo che “Tuttavia si può non esigere detta garanzia qualora, a motivo della situazione del debitore, ciò possa provocare gravi difficoltà di carattere economico o sociale”. In casi eccezionali, dunque, l’Amministrazione doganale deve esimersi dal pretendere la garanzia a fronte della concessione della sospensione amministrativa. (41) Ad oggi, pacificamente ottenibile sia in primo sia in secondo grado: la decisione assunta dalla Corte Cost. il 17 giugno 2010 n. 217, infatti, è stata recepita dal legislatore con L. 11 marzo 2014, n. 23, Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita. (42) Nei casi di motivata ed eccezionale urgenza è prevista la possibilità di chiedere la sospensione presidenziale ai sensi del co. 3 dell’art. 47 del D.lgs. n. 546 del 1992.
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La sospensione giudiziale, dunque, è nella maggior parte dei casi meno gravosa per il richiedente rispetto alla sospensione amministrativa (43). Quanto alla riscossione delle somme dopo la sentenza di prime cure, sino a qualche tempo addietro, anche in materia doganale trovava applicazione (44) l’art. 68 del D.lgs. n. 546 del 1992, che, nel disciplinare la riscossione in pendenza di giudizio, prevede che il tributo debba essere pagato: a) per i due terzi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale che respinge il ricorso; b) per l’ammontare risultante dalla sentenza della commissione tributaria provinciale, e comunque non oltre i due terzi, se la stessa accoglie parzialmente il ricorso; c) per il residuo ammontare determinato nella sentenza della Commissione tributaria regionale. Detta norma, inoltre, impone espressamente il rimborso da parte dell’Amministrazione finanziaria delle somme riscosse medio tempore in caso di soccombenza di quest’ultima (45). Come ci si appresta ad illustrare, tuttavia, il quadro normativo testé delineato, che prevedeva la applicabilità delle regole dettate dall’art. 68 del D.lgs. n. 546 del 1992 alla generalità dei tributi, è stato sensibilmente modificato dal legislatore con l’introduzione, in quest’ultima disposizione, del comma 3-bis.
(43) Quanto alle tempistiche, vero è che l’art. 7, comma 2, lett. gg-novies), D.L. 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, in vigore dal 13 luglio 2011, ha inserito all’art. 47, D.lgs. n. 546 del 1992 il comma 5 bis a mente del quale: “L’istanza di sospensione è decisa entro centottanta giorni dalla data di presentazione della stessa”. Tuttavia, tale termine, di natura ordinatoria, non sempre viene rispettato. (44) Risulta ormai superato l’orientamento che voleva applicato l’art. 68 cit. ai soli tributi per i quali fosse prevista la riscossione frazionata, a tal fine enfatizzando il primo comma della disposizione in rassegna dove è previsto che esso si applica “nei casi in cui è prevista la riscossione frazionata del tributo oggetto di giudizio davanti alle commissioni”. È stato ormai chiarito che la norma regola la riscossione del tributo accertato nella fase successiva all’emissione di qualsiasi decisione del giudice tributario (Corte Cass., sent. n. 733 del 13 maggio 2003) ed è, in questo frangente, applicabile a tutti i tributi, compresi quelli per i quali non sia disciplinata la riscossione frazionata. (45) La disposizione, in effetti, prevedrebbe l’automatica restituzione da parte dell’Ufficio delle somme in questione entro novanta giorni dal deposito della sentenza. L’esigenza di rispettare tale previsione è stata sottolineata dalla stessa Agenzia delle Entrate (Circ. n. 49 del 1° ottobre 2010) ma resta, tuttavia, non sempre osservata nella prassi. Tale circostanza pone la delicata questione circa della sussistenza di mezzi di tutela a favore del contribuente in caso di inerzia dell’Amministrazione. Su tale dibattuto tema, vd. per tutti F. Randazzo, in Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di C. Consolo e C. Glendi, Padova, 2008, 703. Problematica rispetto alla quale il legislatore è recentemente intervenuto con L. n. 23 del 2014 nel senso di garantire ad ambo le parti l’immediata esecuzione del dispositivo della sentenza.
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4. Le vicende che hanno condotto all’introduzione del comma 3 bis (Carlo Cosentino). – Proprio rispetto all’applicazione dell’art. 68 cit., qualche tempo addietro, l’Amministrazione doganale aveva a più riprese ritenuto di dover interrogare la Commissione Europea in merito alla compatibilità di tale norma con l’ordinamento comunitario. Inizialmente era stata adita la Direzione Generale Taxud; poco dopo, la Direzione Generale Bilancio. Esse hanno però assunto, rispetto alla questione prospettata, posizioni sostanzialmente opposte. Di qui, l’esigenza dell’Esecutivo dell’Unione di intervenire con nota congiunta, segnatamente con il documento congiunto TAXUD prot. n. 256812 del 14.3.2012 (46), per dirimere le incertezze sollevate. In particolare, le citate DD.GG. erano state specificamente interpellate, con due analoghi ma distinti quesiti dell’Amministrazione doganale italiana in merito alle modalità di ottemperanza da parte dell’Agenzia alle pronunce giurisdizionali di primo grado, in materia di risorse proprie, favorevoli al contribuente. E, mentre la Direzione Generale TAXUD si era pronunciata nel senso della immediata applicabilità della sentenza di prime cure (con tutte le conseguenze in termini di rimborso di somme e di svincolo di cauzioni) (47), la Direzione Generale BUDGET, all’opposto, aveva manifestato un diverso orientamento sostenendo che, a fronte di una decisione non definitiva sfavorevole all’Amministrazione doganale, non sarebbe stato possibile procedere a rimborsi o restituzioni senza violare le norme di matrice comunitaria in tema di risorse proprie. La divergenza tra le due Direzioni Generali è stata appianata, come detto, solo dal Servizio Giuridico, le cui conclusioni sono state recepite nel sopra citato documento congiunto del 14 marzo 2012 n° 256812. Nella nota in argomento la Commissione ha posto l’accento sulla portata applicativa dell’art. 199 CDC (48), ai sensi del quale la garanzia non può es-
(46) Nota n° BUDG/B3/MB-TAXUD/A1/HvK D(2012)256812 del 14/3/2012. (47) E con l’ulteriore effetto che una eventuale “reviviscenza” della pretesa tributaria all’esito delle ulteriori fasi di giudizio avrebbe comportato il diritto dell’amministrazione a porre in essere nuove iniziative di riscossione, posto che, a norma dell’art. 2945 c.c., in pendenza del giudizio si avrebbe, comunque, la sospensione della decorrenza del termine prescrizionale. (48) L’art. 199 del CDC dispone poi “La garanzia non può essere svincolata finché l’obbligazione doganale per la quale è stata costituita non si è estinta o non può più sorgere. La garanzia deve essere svincolata non appena l’obbligazione doganale è estinta o non può più sorgere”.
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sere svincolata finché l’obbligazione doganale non si è estinta, stigmatizzando l’incompatibilità dell’articolo 68, comma 2 (49), del D.lgs. n. 546 del 1992 rispetto all’articolo 199 CDC, laddove la predetta norma nazionale stabiliva che le sentenze delle Commissioni tributarie di primo grado sono provvisoriamente esecutive tra le parti e che, in conseguenza di una sentenza sfavorevole di primo grado, l’Autorità doganale è tenuta a rimborsare le eventuali somme corrisposte al debitore e a restituire le garanzie prestate, anche in presenza di gravame. Sulla scorta di tale documento, l’Agenzia delle Dogane ha dovuto attuare un revirement del proprio iniziale orientamento, formatosi a seguito dei due citati divergenti approcci interpretativi prospettati dalla Direzione Generale TAXUD e dalla Direzione Generale BUDGET della medesima Commissione UE. Pertanto, se in un primo tempo l’Agenzia delle Dogane aveva emanato istruzioni (50) coerenti con la prima risoluzione dell’esecutivo UE, successivamente ha dovuto procedere alla revoca delle medesime (51) ed alla definitiva affermazione dell’indirizzo alla stregua del quale, in presenza di sentenza di primo grado favorevole al contribuente soggetta a gravame, gli uffici doganali non avrebbero dovuto: 1) effettuare il rimborso di quanto eventualmente già corrisposto in eccedenza dal ricorrente a titolo di dazi ed iva all’importazione, da trattenere a garanzia; 2) concedere lo svincolo delle eventuali garanzie prestate dalla parte a tutela del credito contestato (52). Anzi, per le garanzie in commento, l’Agenzia delle Dogane ha avuto cura di precisare come le stesse debbano, in ogni caso, contenere (53) clausole dirette a garantire i diritti in contestazione fino
(49) Nella versione all’epoca vigente. (50) Nota 171956/RU/2009 del 12/01/2010. (51) Nota 40940 dell’11/4/2012, con la quale è stata disposta, invero, una revoca parziale delle precedenti istruzioni che conservano la loro attualità per ciò che concerne i provvedimenti di recupero di imposte diverse dalle ownres e per le sanzioni. (52) Secondo il più volte citato documento congiunto TAXUD, “la restituzione di una garanzia in presenza di una sentenza di primo grado favorevole all’interessato, oggetto di gravame da parte dell’Amministrazione, non garantisce il pagamento dei dazi e quindi la messa a disposizione delle risorse proprie, qualora, per esempio, il debitore dovesse fallire o fosse dichiarato in stato di fallimento dopo lo svincolo della garanzia e prima della sentenza di secondo grado”. (53) L’Amministrazione doganale ritiene che ciò possa valere non solo per le garanzie di nuova costituzione ma anche per quelle già in essere che andranno opportunamente integrate. Contra, S. Armella - V.Baldi, Diritti doganali: riscossione senza limiti, ma non retroattiva, L’Iva, n. 3, 2015, 37.
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al passaggio in giudicato della sentenza. Non solo. Dalla posizione della Commissione, l’Agenzia delle Dogane ha ritenuto discendesse una terza conseguenza e, segnatamente, che gli uffici doganali: 3) non avrebbero dovuto neppure sgravare il ruolo esattoriale eventualmente formato in relazione all’impugnato avviso di rettifica e, dunque, proseguire nella riscossione delle somme accertate. Tale impostazione, assunta dagli Uffici in sede contenziosa, è stata oggetto di dibattito nelle Commissioni tributarie sin da subito, posto che essa è stata con molte (e valide) argomentazioni avversata dagli operatori. 5. Criticità e limiti dell’intervento normativo: perplessità relative agli effetti sullo svincolo delle garanzie e su rimborso e sgravio (Sabrina Ferrazzi, Carlo Cosentino). – Recependo la citata nota congiunta della Commissione, il legislatore nazionale, con la Legge Europea 2013 bis, ha modificato l’art. 68 attraverso l’introduzione di un nuovo comma 3 bis (54), a mente del quale: “Il pagamento, in pendenza di processo, delle risorse proprie tradizionali [omissis], e dell’imposta sul valore aggiunto riscossa all’importazione resta disciplinato dal regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, [omissis], e dalle altre disposizioni dell’Unione europea in materia” (55). Con tale intervento normativo, secondo l’Agenzia delle Dogane, sarebbe stata codificata l’inapplicabilità della disposizione in commento alla riscossione in materia di diritti doganali. Per l’effetto, in caso di sentenza non definitiva favorevole al contribuente, l’Amministrazione doganale dovrebbe: 1) non svincolare eventuali garanzie ricevute medio tempore; 2) non restituire
(54) Comma aggiunto dall’art. 10, comma 2, L. 30 ottobre 2014, n. 161, che ha dettato disposizioni in materia di “riscossione coattiva dei debiti aventi ad oggetto entrate che costituiscono Risorse proprie ai sensi della decisione 2007/436/CE, Euratom del Consiglio”. (55) Da evidenziare che l’art.10 della citata legge n. 161/2014 è intervenuto anche su alcune disposizioni, in materia di riscossione coattiva, della Legge n. 228/2012 (finanziaria 2013) prevedendo che l’Agente della Riscossione, a fronte di iscrizioni relative a risorse proprie tradizionali e all’IVA all’importazione, indipendentemente dall’ammontare della somma iscritta a ruolo, debba attivare le attività esecutive e cautelari consentite senza attendere il decorso dei 120 giorni previsti dall’art. 1, comma 544, L. cit. Inoltre, lo stesso art. 10 prevede l’inserimento, dopo il comma 529, del comma 529 bis, il quale esclude l’applicabilità dei commi 527, 528 e 529 ai crediti iscritti a ruolo costituiti da risorse proprie ed Iva all’importazione che, sia inferiori che superiori a 2.000 euro, non possono essere “automaticamente annullati” ma restano in carico all’Agente della Riscossione e per essi restano valide le disposizioni previste dagli articoli 19 e 20 del D.lgs. n. 112 del 1999.
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le somme versate dal contribuente nelle more del processo; 3) in assenza di garanzie, proseguire con la riscossione delle somme accertate nonostante l’annullamento (non definitivo) del provvedimento impugnato. Molti sono i dubbi sulla legittimità di tale posizione (56). Nonostante il legislatore nazionale non abbia precisato le disposizioni comunitarie cui il nuovo comma rinvia, appare pacifico che esso intenda rinviare all’art. 199 CDC, essendo questa la norma rispetto alla quale, ad avviso della Commissione UE, si pongono in contrasto le disposizioni contenute nei primi commi dell’art. 68 in rassegna. Tuttavia, il campo applicativo dell’art. 199 CDC è circoscritto alla fase amministrativa del rapporto doganale, e non già a quella giudiziale (57). In sostanza, l’art. 199 CDC disciplina le condizioni alle quali una garanzia può essere svincolata nel (solo) caso in cui detta garanzia sia stata accettata dall’Amministrazione doganale come condizione della sospensione della riscossione da quest’ultima disposta. Tant’è che, ad una attenta lettura della citata Taxud, lo stesso Esecutivo comunitario si riferisce all’ipotesi in cui la sospensione (previa presentazione di garanzia) sia stata accordata dall’Agenzia delle Dogane (58) e non al diver-
(56) Vale evidenziare che il comma neointrodotto prevede espressamente la disapplicazione delle disposizioni di cui ai primi commi dell’art. 68 in rassegna anche all’Iva accertata e riscossa da parte dell’Agenzia delle Dogane. Alla dottrina tale previsione è parsa ingiustificata poiché l’Iva, non essendo una risorsa propria tradizionale, non può essere considerata un diritto di confine per il solo rinvio operato dall’art. 70, co. 1, D.P.R. n. 633 del 1972, S. Armella - V. Baldi, Dogane: dubbi sulla nuova disciplina della riscossione nel corso del giudizio, Corr. trib. n. 46, 2014, 3553; B. Santacroce - L. Lodoli - E. Sbandi, Esecutività dell’accertamento nel corso dei giudizi relativi ai tributi doganali, Il fisco, n. 45, 2014, 442. Sull’annoso tema della assimilabilità dell’Iva accertata in dogana ai diritti di confine, tra chi ne esclude l’assimilazione, per tutti, M. Peirolo, La natura dell’IVA all’importazione, Corr. Trib, n. 19, 2002, 1696. L’Agenzia delle Dogane da sempre (cfr. da ultimo Circolare 17/D 2014 dell’Agenzia delle Dogane, prot. 114248 del 20/10/2014) ritiene invece che i dazi doganali rientrino tra quei diritti che il Testo Unico Legge Doganale (D.P.R. n° 43 del 22 gennaio 1973) definisce, nell’art. 34 comma 2, alla stregua di “diritti di confine”, anche forte del fatto che tale impostazione è stata avallata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (da ultimo, Cassazione civile, sentenza n.10734 dell’8/5/2013 che richiama Cass. n. 12272 e n. 12263 del 2010; sentenza n.11642 del 15/5/2013 che richiama, inter alia, Cass. n. 15921/12, e sentenza n. 2254 del 3/2/2014). (57) Il punto, che appare pacifico stante la nitida formulazione della norma, è confermato dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. C.G.C.E., sent. 11 gennaio 2001, C-1/99, Kofisa Italia). (58) Nelle conclusioni del documento congiunto TAXUD prot. n. 256812 del 14.3.2012 si legge, infatti: “tuttavia, l’autorità doganale può sospendere in tutto o in parte l’esecuzione della decisione quando abbia fondati motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata alla normativa doganale, o si debba temere un danno irreparabile”. Parrebbe, dunque, siano
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so caso in cui questa sia stata disposta, nell’ambito della fase giudiziale, con ordinanza del Giudice tributario. Invece, in tale ultima evenienza, la sospensione è accordata dalla Commissione tributaria ai sensi dell’art. 47, D.lgs. n. 546 del 1992, il quale, come visto, conferisce al giudice il compito di valutare la sussistenza dei presupposti per concedere la sospensione (anche solo parziale) della riscossione delle risorse proprie, eventualmente subordinandola alla prestazione di garanzia. Al riguardo, non può non sottolinearsi come le modifiche apportate all’art. 68 cit. non incidano affatto su tale ultima disposizione, rispetto alla cui applicazione, a parere di chi scrive, non interferisce nemmeno l’art. 199 CDC (59). Dunque, una volta che il Giudice abbia disposto la sospensione subordinandola alla presentazione della garanzia, il contribuente è tenuto solamente a rispettare le condizioni stabilite con l’ordinanza, mentre l’Amministrazione, appurata la conformità a tali condizioni delle garanzie presentate, è tenuta a sospendere la riscossione, senza possibilità di sindacare le condizioni della sospensione decise dal Giudice stesso. Quanto alla durata della garanzia, l’art. 47 cit. prevede espressamente che “Gli effetti della sospensione cessano dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado”. Sicché, anche in relazione a tale aspetto, le garanzie disposte giudizialmente risultano regolate dall’art. 47 cit. e le stesse non potranno che dover essere osservate sino al deposito della sentenza del Giudice che le ha disposte. In definitiva, sembra corretto sostenere che la novella legislativa di cui si discute non comporti alcuna conseguenza sulle garanzie disposte giudizial-
le garanzie pretese dall’Autorità ai fini della sospensione ad essere oggetto dell’intervento de quo ed a non poter essere svincolate in presenza di sentenza non definitiva. D’altra parte, tale conclusione sarebbe del tutto coerente rispetto al campo applicativo dell’art. 199 CDC. (59) Si concorda, dunque, con la dottrina che, commentando proprio l’art. 199 CDC ed il precedente 198 CDC, ma anche l’art. 244 CDC per quanto attiene la sospensione, ha rilevato l’inadeguatezza del richiamo alle norme in questione nell’ambito della disciplina della riscossione in pendenza di giudizio (“Il richiamo effettuato dagli Uffici (e, prima ancora, dagli Organi di vertice dell’Agenzia, oltre che dalla Commissione) è infatti riferito agli artt. 199 e 244 del Reg. CE n. 2913 del 1992, recante il Codice Doganale Comunitario (CDC), in base ai quali la Dogana arriva addirittura alla disapplicazione della normativa nazionale, peraltro dopo che per anni tali disposizioni sono state ritenute estranee alla fase processuale, disciplinata da norme interne sulle quali non interviene la disciplina comunitaria”), B. Santacroce - L. Lodoli - E. Sbandi, Esecutività dell’accertamento nel corso dei giudizi relativi ai tributi doganali, Il fisco, 2014, 4429.
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mente a favore dell’Amministrazione doganale, le quali, per quanto detto, continuano ad essere oggetto di esclusiva pertinenza del giudicante (che ne stabilisce sia il quomodo sia il quantum e, prima ancora, l’an) ed il cui effetto cessa con il deposito della sentenza di prime cure (art. 47, co. 7, D.lgs. n. 546 del 1992) (60). Ma quand’anche si ammettesse l’operare in sede giudiziale dell’art. 199 CDC (che, invece e per quanto detto, non dovrebbe trovare spazio in materia di riscossione in pendenza di giudizio), si dovrebbe rilevare come tale disposizione preveda quali condizioni (non cumulative) per lo svincolo della garanzia il fatto che (i) l’obbligazione doganale sia estinta; oppure che (ii) la stessa non possa più sorgere. Con riguardo alla prima ipotesi, viene in rilievo il disposto dell’art. 233 dello stesso CDC, norma fondamentale in materia di estinzione dell’obbligazione doganale (61), il quale, stante l’intima connessione col citato art. 199, può essere di ausilio per risolvere la problematica del relativo ambito di operatività (solo amministrativa o anche giudiziale). Infatti, poiché l’art. 233 CDC si limita ad elencare ipotesi di estinzione dell’obligatio riconducibili tutte ad una decisione dell’Autorità doganale e non anche del giudice (62), ciò dovrebbe costituire argomento dirimente per affermare la portata meramente amministrativa dell’art. 199. Se, invece, si ritenesse di dover insistere (come fanno l’esecutivo UE e l’Autorità doganale) nel sostenere la denegata tesi della valenza extra amministrativa (e, quindi, giudiziale) della norma in commento, non potrebbe
(60) Di diversa opinione F. Del Torchio, La fase cautelare, in Diritto doganale, delle accise e dei tributi ambientali, a cura di M. Scuffi, G. Albezio, M. Miccinesi, Milano, 2014, 1016, stando alla quale il Giudice nazionale, nel disporre la sospensione giudiziale dell’esecuzione, ne ravvisa i presupposti alla luce di quanto previsto dall’art. 244 CDC e, sempre in ossequio a tale disposizione, dispone la presentazione delle garanzie alle condizioni ivi previste. (61) Il Capitolo IV del Titolo VII del CDC è dedicato alla Estinzione dell’obbligazione doganale e consta degli artt. 233 e 234 (quest’ultimo afferente ad ipotesi peculiare non rilevante ai nostri fini). L’art. 233 CDC contempla i seguenti casi di estinzione dell’obbligazione doganale: prescrizione, insolvibilità giudizialmente accertata del debitore, pagamento, sgravio, invalidazione della bolletta doganale, sequestro e confisca oppure distruzione o abbandono delle merci oggetto di importazione. (62) Non potendosi far rientrare il caso della insolvibilità giudizialmente accertata fra le decisioni giudiziali che hanno effetto estintivo diretto dell’obbligazione doganale, essendo in tale circostanza sempre l’Autorità doganale, con autonoma e distinta decisione, a disporre il venir meno del vincolo a seguito di appurata insolvenza.
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non ammettersi che le cause di estinzione dell’obbligazione doganale debbano essere trovate anche al di fuori dell’art. 233 cit., dovendo giocoforza ricomprendervi pure il caso in cui l’obbligazione doganale venga meno a seguito di una sentenza tributaria, anche non definitiva, favorevole al contribuente. Sarebbe palesemente irragionevole, infatti, affermare che l’art. 199 sia in grado di condizionare l’applicazione delle norme processual-tributarie nazionali, ma per converso negare che talune disposizioni interne (peraltro ispirate a fondamentali principi costituzionali quali quelli di cui agli artt. 111 e 113 Cost.) possano integrare il dettato del CDC imponendo all’Autorità doganale di adeguarsi ad esse. A parere di chi scrive, quindi, dall’annullamento giudiziale di un avviso di rettifica dichiarato illegittimo dal giudice tributario (ancorché in via non definitiva) dovrebbe discendere l’effetto estintivo dell’obbligazione tributaria (configurandosi, altrimenti, un’obbligazione fondata su un atto sottostante annullato) (63), la quale sarebbe tuttavia passibile di reviviscenza in forza delle vicende processuali successive, fino al formarsi del giudicato che, se favorevole al contribuente, andrebbe ad integrare l’altra ipotesi contemplata dall’art. 199 CDC (vale a dire quella in cui l’obbligazione doganale non può più sorgere) (64).
(63) In tal senso, F. Tesauro, Le sentenze del giudice tributario, in G. Gaffuri e M. Scuffi (coordinato da), Lezioni di diritto tributario sostanziale e processuale, Milano, 2009, 663675: “Se il giudice accoglie totalmente una domanda di annullamento integrale dell’atto, si ha una pronuncia di eliminazione dell’atto; cadendo l’atto, cadono anche i suoi effetti (l’obbligazione tributaria). Nella vicenda non vi è nulla di rescissorio: non c’è alcun bisogno che il giudice dichiari che l’obbligazione (costituita dall’atto annullato) cessa di esistere”. (64) Non può sottacersi come la questione sia, allo stato, controversa. Infatti, la corte di Cassazione ha affermato che la decisione che “accoglie il ricorso del contribuente e annulla l’atto impositivo priva, sia pure non in via definitiva (non essendosi ancora formato il giudicato), del supporto di un atto amministrativo legittimante la pretesa tributaria, che non può più formare oggetto di alcuna forma di riscossione provvisoria” (Cass. nr. 20526 del 2006), venendo “meno il titolo su cui si fonda la ‘ragione di credito’”. Secondo la S.C., cioè, “la legge vuole che la situazione patrimoniale del contribuente non sia pregiudicata da un atto amministrativo che il giudice competente ha valutato illegittimo”. Ciò discenderebbe dal principio della parità delle parti consacrato nell’art. 111 Cost. (Cass. nr. 20526 cit., e, nello stesso senso Cass. n. 19078/2008, n. 8417/2004, n. 13445/2012), Se, “invero nella fase amministrativa dell’accertamento e della riscossione dei crediti tributari, la legge riconosce alla Amministrazione Pubblica poteri sopraordinati rispetto alle controparti; ed in questo quadro si collocano i vari istituti che consentono alla Amministrazione di tutelare i propri crediti adottando direttamente misure cautelari che invece i privati debbono richiedere al giudice”, quando, tuttavia, “si entra nell’ambito del processo, le parti, debbono
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In base a tale prospettazione, quindi, le conclusioni formulate dalla Commissione Europea in ordine alla incompatibilità dell’art. 199 CDC rispetto alla disciplina contenuta nei primi tre commi dell’art. 68 cit. dovrebbero considerarsi superabili e tale disposizione, dunque, dovrebbe considerarsi del tutto in linea con l’art. 199 CDC (65). Peraltro, muovendo un’ulteriore critica alla novella in esame, si è rilevato che il rinvio operato dal nuovo comma dell’art. 68 cit. risulta privo di coordinamento con le norme sovranazionali cui genericamente si riferisce e, a ben vedere, andrebbe ad essere necessariamente connesso con quelle disposizioni interne delle quali, invece, l’Agenzia delle Dogane, in sede di prima interpretazione della novella, intendeva escludere l’applicazione, dando così luogo ad una sorta di assurda circolarità nei rinvii normativi (66) dalla quale è possibile (anzi, è doveroso) sottrarsi con un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata delle norme nazionali in questione. Per altro verso, giova evidenziare come nel CDC non vi sia alcuna norma che disciplini la riscossione in pendenza di processo e come, invece, il CDC
essere collocate “in condizioni di parità”, davanti a giudice terzo e imparziale. E questa “parità” sarebbe lesa ove la Amministrazione potesse continuare a godere di una garanzia che, lungi dall’essere avallata dal giudice, sia stata da questo disattesa e dichiarata illegittima”. Questa limpidezza di ragionamenti è stata però recentemente messa in dubbio da un successivo arresto della Cassazione (sentenza nr. 7320 del 28 marzo 2014) che ha affermato, invece, il principio “secondo cui la pronuncia, non passata in giudicato, che accerti la illegittimità di un avviso di accertamento non travolge tutti gli effetti dell’avviso stesso, ma lascia in piedi la possibilità di misure cautelari a tutela del possibile credito erariale”. Va detto, tuttavia, come precisato anche nella citata pronuncia, che nel caso di specie la sentenza di merito favorevole al contribuente non solo era stata già impugnata per cassazione ma che, “nel relativo giudizio, separatamente discusso nell’odierna udienza, la sentenza medesima è stata infine cassata da questa corte”. Ad avviso di chi scrive, pertanto, l’autorità del principio di effettività della tutela giurisdizionale non è stata intaccata dalla pronuncia da ultimo citata. (65) Si consideri, del resto, che nell’ipotesi più frequente di nascita dell’obbligazione doganale a seguito di revisione dell’accertamento, che è quella contemplata dall’art.203 CDC, si prevede che l’obbligazione sorge “quando si constati, a posteriori, che non era soddisfatta una delle condizioni stabilite per il vincolo della merce al regime…”, ragion per cui la sentenza, anche non definitiva che annulla l’avviso di rettifica, ponendo nel nulla l’accertamento suppletivo, può ben dirsi che abbia un effetto estintivo dell’obbligazione stessa. (66) Critiche sul punto S. Armella - V. Baldi, Dogane: dubbi sulla nuova disciplina della riscossione nel corso del giudizio, Corr. trib. 2014, 3553,che hanno evidenziato come “il rinvio operato dal nuovo disposto dell’art. 68, D.lgs. n. 546/1992, si limiti a innescare una sorta di circolo vizioso, dal momento che la normativa comunitaria, non disciplinando i poteri dei giudici nazionali e il versamento del tributo in pendenza del processo, non può che rinviare, a sua volta, alla normativa interna di ciascuno Stato membro”.
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stesso operi (67), a tal proposito, un richiamo alla disciplina nazionale e, dunque, al D.lgs. n. 546 del 1992. Il fatto che non si rinvengano, nelle disposizioni sovranazionali in questione, norme che regolino espressamente le problematiche afferenti allo sgravio del ruolo o al rimborso del tributo a seguito di una sentenza non definitiva favorevole al contribuente comporta il sorgere di ulteriori questioni circa la non rimborsabilità delle somme percette dall’Autorità doganale nelle more del giudizio. Pertanto, presta il fianco a non poche critiche l’orientamento interpretativo sposato da chi (68) afferma che, nelle fattispecie in questione, il legislatore ubi dixit voluit, ubi tacuit noluit, per cui non essendo contemplato nel codice doganale e nel Regolamento Cee Euratom n. 1150 del 2000 un rimborso non definitivo in presenza di giudizio pendente, detto rimborso non sarebbe effettuabile. Ad avviso di chi scrive, invece, sarebbe altrettanto degna di considerazione l’altra possibile esegesi della normativa in commento in base alla quale, in assenza di disposizioni specifiche, deve trovare applicazione la normativa generale di settore in base alla quale, nelle more di una pronuncia giurisdizionale definitiva, si perverrebbe a soluzioni più ragionevoli e rispettose delle esigenze di effettività della tutela contro gli atti della Pubblica Amministrazione, secondo un principio che, cristallizzato nell’art. 113 Cost., non dovrebbe mai essere ignorato nell’ottica di un’interpretazione sistematica della fattispecie che vede coinvolto un contribuente vittorioso nei gradi di merito. 6. Criticità e limiti dell’intervento normativo: perplessità relative alla possibilità di riscuotere le somme accertate nonostante l’intervento di una sentenza di annullamento non definitiva (Sabrina Ferrazzi). – Venendo, poi, agli effetti che la novella dovrebbe produrre in ordine alla possibilità di procedere alla riscossione delle somme accertate con provvedimento annullato con sentenza soggetta a gravame, l’Agenzia delle Dogane, come visto, ritiene che la norma abbia l’effetto di consentire la riscossione delle somme accertate nonostante una eventuale pronuncia di merito totalmente o parzialmente favorevole al contribuente.
(67) Art. 243 CDC. (68) In tal senso, anche l’Avvocatura Generale dello Stato nella nota prot. 7307P dell’8/01/2013. Orientamento seguito anche dall’Agenzia delle Dogane con foglio prot. 20878 del 20/02/2013.
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Si tratta di una posizione già a prima vista assai delicata, in quanto – sebbene giustificata dalla volontà dell’Amministrazione doganale di mantenere il parallelismo tra la contabilizzazione delle risorse proprie dell’Unione e la materiale percezione delle stesse – postulerebbe il mantenimento dell’efficacia di un provvedimento annullato (sia pure con sentenza non definitiva) da un Giudice. Al fine di risolvere gli anzidetti interrogativi in ordine all’applicazione del comma 3 bis dell’art. 68 del D.lgs. n. 546 del 1992, appare opportuno prendere le mosse dalla considerazione che detta norma recepisce un principio applicato nel processo civile, ovverosia quello della provvisoria esecutività tra le parti della sentenza di primo grado (69). Tale recepimento, peraltro, è avvenuto in una prospettiva tendenzialmente garantistica per il contribuente, in quanto la provvisoria esecutività delle sentenze di prime cure ha effetto “integrale” per l’Amministrazione soccombente – che è obbligata a restituire la totalità delle somme percette nelle more del giudizio – mentre per il contribuente ha effetto “parziale”, posto che quest’ultimo, in caso di soccombenza, è costretto alla corresponsione dei soli due terzi dell’accertato confermato dalla sentenza in argomento. D’altra parte, pur non essendovi unità di vedute in ordine all’effetto sostitutivo della sentenza nei casi di rigetto del ricorso e conferma della legittimità del provvedimento impugnato, non sembra che vi possano essere dubbi in ordine alla circostanza che la sentenza di accoglimento comporti l’annullamento del provvedimento gravato, ancorché in via non definitiva (70). E che tale
(69) “La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti” (art. 282 c.p.c.). L’applicazione di tale principio nel processo tributario è stata recentemente ribadita dal legislatore in occasione della L. 11 marzo 2014, n. 23, recante la Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale piu’ equo, trasparente e orientato alla crescita nel senso di prevedere “l’immediata esecutorieta’, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze delle commissioni tributarie” (art. 10). Con tale previsione, in particolare, il legislatore ha inteso prevedere la modifica dell’attuale art. 70, D.lgs. n. 546/92 in materia di giudizio di ottemperanza in ossequio al principio di immediata esecutività della sentenza tra le parti. (70) L’applicazione del principio dell’esecutività della provvisoria esecutività della sentenza tra le parti è stato peraltro ribadito dal legislatore: la L. 11 marzo 2014, n. 23, recante la Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita, ha infatti indicato la necessità di modificare la disciplina del processo tributario nel senso di prevedere “la previsione dell’immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze delle commissioni tributarie”. Previsione che, stando allo schema di Decreto nella versione messa a disposizione nel luglio 2015, andrebbe ad incidere, in particolare, sulle disposizioni in materia di giudizio di ottemperanza (art. 70 del D.lgs. 546/92), ma non rispetto al neo introdotto comma 3 bis dell’art. 68 in rassegna che, evidentemente, costituisce una deroga al principio in parola.
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annullamento rimuova dall’ordinamento giuridico (sia pure in via potenzialmente provvisoria) il provvedimento. Di qui, dunque, la chiara coerenza sistematica dell’art. 68, nella parte in cui stabilisce che, in caso di sentenza favorevole al contribuente, questi, non solo non debba proseguire ad essere assoggettato alla pretesa erariale, ma abbia altresì diritto a percepire quanto eventualmente versato medio tempore. Tale posizione, peraltro, è stata confermata dalla Corte di Cassazione, che ha più volte rimarcato come le sentenze dei Giudici tributari abbiano l’effetto di sostituire, in tutto o in parte, i provvedimenti impugnati e sottoposti al loro giudizio: “la sentenza che accoglie il ricorso del contribuente e annulla l’atto impositivo priva, sia pure in via non definitiva (non essendosi formato il giudicato), del supporto di un atto amministrativo legittimamente la pretesa tributaria che non può più formare oggetto di alcuna forma di riscossione provvisoria o di blocco provvisorio dei beni del debitore disposto in via amministrativa” (71). Tant’è che, su tale aspetto, prima dell’introduzione del comma 3 bis, la stessa Agenzia delle Dogane aveva avvertito l’esigenza di confrontarsi con l’Avvocatura dello Stato, alla quale era stato chiesto se simile interpretazione dell’art. 68 fosse compatibile con i principi del nostro ordinamento. Ebbene, è assai significativo che, in detta occasione l’Avvocatura dello Stato avesse escluso che la riscossione delle risorse proprie potesse proseguire anche a seguito dell’annullamento del titolo esecutivo sottostante (72). In questo contesto, si inserisce il neo-introdotto comma 3-bis, che deroga all’operatività della disposizione in commento. Sostenere l’inefficacia della sentenza di primo grado rispetto alla posizione del contribuente si porrebbe in grave tensione rispetto al già richiamato art. 113 Cost.
(71) Così, Corte Cass., Sez. trib., sent. n. 20526 del 22 settembre 2006. Similmente, Corte Cass., Sez. V, ord. n. 13445 del 27 luglio 2012. Da ultimo, Corte Cass., Sez. V, sent. n. 4574 del 6 marzo 2015, commentata da F. Pistolesi, La natura “sostitutiva” della sentenza tributaria rispetto all’atto impugnato”, Corr. Trib., n. 19, 2015, 1466. (72) In particolare, l’Avvocatura, dopo aver ricordato che l’art. 244 CDC, come precisato dalla stessa giurisprudenza comunitaria (sent. 11.1.2001, C-1/99, Kofisa Italia), attiene alla sola sospensione amministrativa di una decisione doganale – e che, pertanto, non può ritenersi in contrasto con l’art. 68 in rassegna – ha rilevato che “se un giudice nazionale può sospendere l’esecuzione dell’atto impugnato, a maggior ragione un tale effetto può (legittimamente) conseguire ad una decisione di merito (ancorché non definitiva) che annulli l’atto medesimo” (Risposta a Nota del 16.4.2012 n. 40951/RU).
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A tal proposito va considerato che la Corte Costituzionale ha da sempre ritenuto che la tutela giurisdizionale avverso gli atti illegittimi debba essere effettiva (73): ci si deve perciò chiedere se possa davvero considerarsi effettiva la tutela avverso un provvedimento, se per vedere cessare i relativi effetti sia necessario attendere – come deriverebbe dalla lettura data dall’Agenzia delle dogane – la sentenza definitiva di annullamento. Ammettere che un provvedimento esplichi effetti nonostante l’intervento di una sentenza (sia pure non definitiva) che ne ha rilevato l’illegittimità significherebbe accettare che la rimozione di tali effetti possa avvenire solo a seguito dell’ottenimento di una pronuncia definitiva. Una simile configurazione, evidentemente, ridurrebbe in modo sensibile l’effettività della tutela giurisdizionale, a maggior ragione se si considera la tempistica dei processi nel nostro Paese. Ancora, la rimozione degli effetti medio tempore prodotti dal provvedimento nel corso dei vari gradi di giudizio potrebbe non essere possibile: si pensi al caso in cui l’Amministrazione doganale abbia portato a termine azioni esecutive che abbiano condotto all’insolvenza del contribuente. Va da sé che in questi casi l’effettività della tutela giurisdizionale verrebbe meno. Ragion per cui, poiché ciascuno Stato membro è obbligato a garantire la riscossione effettiva delle risorse proprie comunitarie ma, al contempo, tale obiettivo deve essere perseguito nel rispetto dei limiti stabiliti dalla normativa interna – e, dunque, dai richiamati principi di rango costituzionale che, nel caso di specie, ad avviso di chi scrive, non risultano osservati – la disposizione in commento non può essere interpretata nel senso inteso dall’Amministrazione doganale. Peraltro, i limiti in parola (principio di effettività) non son posti solo dal nostro ordinamento interno. A ben vedere, la limitazione dell’efficacia della tutela giurisdizionale contrasta altresì con quanto disposto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che prevede che debba essere garantita una tutela effettiva avverso i provvedimenti che possono violare i diritti di un soggetto (74). Il principio di tutela effettiva costituisce altresì un “principio generale di diritto comunitario che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri che è stato sancito dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la
(73) Cfr. Corte Cost., sent. n. 522 del 6 dicembre 2002; sent. n. 333 del 5 ottobre 2001; 31 marzo 1961, n. 21. (74) Artt. 6 e 13 della Convenzione.
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salvaguardia dei diritti ” (75) e tale principio comunitario prevede che “in mancanza di una disciplina comunitaria in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza dell’efficacia diretta del diritto comunitario purché le dette modalità … non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario” (76). Come visto, l’ordinamento comunitario prevede espressamente il diritto di ricorrere avverso una decisione dell’Amministrazione doganale (77), ma demanda ai legislatori deli Stati membri il compito di stabilire le modalità mediante le quali tale diritto può essere esercitato (78). A ciò si aggiunga che la giurisprudenza comunitaria pone un ulteriore vincolo al legislatore nazionale, ovvero il principio di equivalenza in forza del quale “le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza), né devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)” (79). Ma la disposizione neointrodotta, come accennato, stabilendo una deroga alla regola dettata dal legislatore interno in materia di tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti impositivi, finisce col prevedere una disciplina di sfavore in materia di tutela avverso i provvedimenti accertativi in materia doganale. Di qui sembra riscontrarsi il contrasto della disposizione in commento rispetto a tale ulteriore principio.
(75) Cit. Sent. del 13 marzo 2007, C-432/05, Unibet; nello stesso senso, sent. del 14 dicembre 1994, C-312/93, Petroeck. (76) Cit. Sent. 11 settembre 2003, C-13/01, Salafero. (77) Cfr. art. 243 CDC. (78) Valutazione che deve essere fatta “tenendo conto del ruolo di detta norma nell’insieme del procedimento, dello svolgimento e delle peculiarità dello stesso, dinanzi ai vari organi giurisdizionali nazionali. Sotto tale profilo si devono considerare, se necessario, i principi che sono alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali la tutela dei diritti della difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento”. Cfr. sent. del 14 dicembre 1995, C-312/93, Peterbroeck. (79) Corte di Giustizia, 13 marzo 2007, C-432/05, Unibet; Corte di Giustizia, 11 settembre 2003, C-13/01, Safalero; cfr. anche sent. del 16 dicembre 1976, C-33/76, Rewe; sent. del 16 dicembre 1976, C-45/76, Comet; sent. del 15 settembre 1998, C-45/76, Edis.
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In questo contesto, allora, pare che l’intervento normativo in esame, in base alla lettura proposta dall’Agenzia delle Dogane, ecceda quanto necessario a garantire una effettiva, ma pur sempre equa, riscossione delle risorse proprie (80), dovendosi preferire la soluzione in base alla quale la sentenza di merito favorevole al contribuente inibisca la prosecuzione dell’attività di riscossione, essendo questa l’impostazione conforme ai principi di effettività della tutela giurisdizionale e di equivalenza in ambito comunitario. 7. Conclusioni (Carlo Cosentino). – Da quanto premesso, appare evidente che, in materia di risorse proprie, è sempre difficile individuare con certezza il punto di equilibrio tra le esigenze di salvaguardia dell’Erario comunitario e quelle di effettività della tutela (giurisdizionale ed amministrativa) del contribuente avverso gli atti rettifica dell’accertamento doganale ritenuti illegittimi. Ed infatti, da un lato, non può essere messo in dubbio il principio del primato del diritto dell’Unione sull’ordinamento nazionale, ragion per cui le disposizioni degli artt. 199 CDC, 235-242 CDC (ora, artt. 116 e ss. CDU) e 17, par. 1 e 2 Reg. CE/Euratom n° 1150 del 2000 devono ritenersi prevalenti rispetto alle norme interne e, dunque, laddove in contrasto con le prime, rispetto al più volte citato art. 68 D.lgs. n. 546 del 1992. D’altra parte, tuttavia, non ci si può non interrogare sulla compatibilità della novellata disposizione nazionale con la nostra Carta Fondamentale ed in particolare, come detto, con l’art. 113 Cost. i cui commi “pongono un principio costituzionale di carattere fondamentale, nel senso che riservano in ogni caso al giudice l’ultima parola nei rapporti tra i cittadini ed il potere […omissis…]; nessun tipo di provvedimento può fare da schermo tra il cittadino e l’ordinamento giuridico che spetta al giudice specificare nei suoi contenuti” (81).
(80) D’altra parte, non si può sottacere che l’intervento della Commissione, sotto questo profilo, appaia poco ponderato. Desta invero una certa perplessità il passaggio in cui si legge “nel prevedere la restituzione della cauzione, anche se la decisione è oggetto di ricorso, il decreto italiano 31 dicembre 1992, n. 546, non garantisce il pagamento dei dazi all’importazione o all’esportazione e quindi la messa a disposizione delle risorse proprie … per esempio l’Amministrazione doganale non sarebbe in grado di versare i dazi in questione qualora il debitore fallisse o fosse dichiarato in stato di fallimento dopo lo svincolo della cauzione e prima della sentenza di appello”. Si ritiene infatti che in simile situazione, laddove lo Stato Membro si sia attenuto alle disposizioni in materia, la mancata riscossione dei dazi dovrebbe essere imputabile a cause di forza maggiore e, pertanto, il mancato versamento di tali somme dallo Stato Membro alle casse comunitarie giustificato ai sensi dell’art. 17, par. 2, Reg. n. 1150 del 2000. (81) G. Abbamonte, Completezza ed effettività della tutela giudiziaria secondo gli articoli
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Vien da interrogarsi, quindi, sulla qualità normativa dell’intervento legislativo che ha condotto alla novella dell’art. 68 cit., apparso a molti volutamente generico nel rinvio alle norme comunitarie regolatrici della materia e, soprattutto, fondato sulle sole argomentazioni giuridiche (peraltro contrastanti, come si è visto supra) della Commissione senza attendere, invece, che la Corte di Giustizia avesse preso posizione sulla delicata questione. Una soluzione di compromesso potrebbe essere rappresentata dalla previsione legislativa di un adeguato sistema di tutela cautelare atipico, svincolato dal binomio sospensione-esecuzione dell’atto impugnato e ricalcato su quello previsto dal Codice del processo amministrativo, con la predisposizione di strumenti normativi idonei ad assicurare la reale efficacia della pronuncia giurisdizionale che dispone l’attribuzione di una posizione di vantaggio illegittimamente lesa (con la possibilità, ad esempio, di dar comunque corso al rimborso delle risorse proprie a favore del ricorrente che ottenga una decisione non definitiva favorevole, subordinando la restituzione di dette somme alla prestazione di idonea garanzia; oppure, con riguardo alla sorte dei ruoli, di prevedere una mera sospensione della procedura anziché lo sgravio) (82). Ciò, a tacer d’altro, si porrebbe in linea con l’elaborazione giurisprudenziale della stessa Corte di Giustizia che, a partire dalla metà degli anni ottanta del secolo scorso (83), non ha mai più dubitato sul fatto che il diritto all’effettività della tutela giurisdizionale sia “principio generale di diritto comunitario che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri” (84).
Carlo Cosentino*, Sabrina Ferrazzi
3, 24, 103 e 113 della Costituzione, in Studi in onore di F. Benvenuti, Modena, 1996, 37 e ss. (82) Singolare, sul punto, la recentissima decisione della Commissione tributaria regionale di Bologna, Decreto n° 424/1/15 pronunciato inaudita altera parte in data 25/05/2015 – che, nell’accogliere l’istanza cautelare presentata dall’importatore soccombente in primo grado, “manda … all’Agenzia delle Dogane e Monopoli-Ufficio di Ravenna, per la valutazione della possibilità di sospendere l’esazione successivamente all’esito del primo grado di giudizio; -dispone che nel caso di sospensione, l’appellante sia tenuta a prestare fideiussione bancaria a favore dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli-Ufficio di Ravenna per l’importo del debito fiscale…”. (83) Sentenza (causa 222/84) del 15 maggio 1986. (84) Così R. Leonardi, La tutela cautelare nel processo amministrativo, Milano, 2010, 49, sub nota n. 28, che riprende la sentenza 15 maggio 1986, causa 222/84, Johnston, in Raccolta 1986, 1651 ss. * Le conclusioni giuridiche espresse dall’Autore nel presente lavoro sono frutto delle sue opinioni personali e conseguentemente possono non coincidere con la prassi ufficiale dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.
Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto
Cassazione, sez. un., 19 giugno 2015 - 12 maggio 2015, nn. 12759 e 12760 (ordd.), Pres. Rovelli, Rel. Ragonesi. Processo tributario – Atti impugnabili – Diniego di accesso alla procedura convenzionale (Convenzione arbitrale europea) – Impugnabilità – Sussiste La presentazione dell’istanza di apertura della procedura amichevole prevista dalla Convenzione arbitrale europea consiste in una fase prodromica al confronto tra le Autorità competenti e, pertanto, si svolge tutta nell’ambito del diritto interno. Per questi motivi, il diniego di accesso alla procedura convenzionale è impugnabile avanti al giudice tributario in quanto munito di giurisdizione a carattere generale e competente ogni qualvolta la controversia sia su uno specifico rapporto tributario. La nota ministeriale del Ministero dell’Economia e delle Finanze -Direzione relazioni internazionali contenente il diniego, ancorché non compresa nell’elenco dell’art. 19 del D.lgs. n. 546/1992, nondimeno porta a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche su cui si basa. (1)
Svolgimento del processo. In data 17 novembre 2009 Basf Poliuretani Italia S.p.a. (già Elastogran Italia S.p.a.) e Basf Interservice S.r.l. (oggi BasfItalia S.p.a. con socio unico, già Bast Italia S.r.l.) - società appartenenti al Gruppo chimico internazionale Basf e che, a partire dal 2004, avevano optato per il regime del consolidato fiscale nazionale- ricevevano l’avviso di accertamento n. (OMISSIS) (c.d. di primo livello) notificato dall’Agenzia delle Entrate direzione regionale del Piemonte e contenente, tra l’altro, la contestazione di presunti costi non inerenti, D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 109, comma 5, per un ammontare di Euro 755.669,00, scaturenti da rapporti intersocietari instaurati tra l’allora Elastogran Italia S.p.a. e Basf AG, anch’essa avente sede in (OMISSIS). Alla notifica del suddetto atto, faceva seguito, in data 17 dicembre 2009, quella dell’avviso accertamento di “secondo livello” n. (OMISSIS), impugnato dalle predette società dinanzi alla Commissione Tributaria provinciale di Milano. Nei confronti della descritta rettifica fiscale, in data 8 gennaio 2010 Basf Poliuretani S.p.a. e l’allora Basf Interservice s.r.l., oggi Basf Italia S.p.a. presentavano istanza di accertamento con adesione e tale procedimento si concludeva con esito positivo, avendo le medesime società e l’ufficio, raggiunto un accordo sui rilievi contestati e, di
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conseguenza firmato l’atto di adesione, senza tuttavia, addivenire al perfezionamento dello stesso, atteso il mancato versamento di quanto pattuito. Nel frattempo, in considerazione del fatto che la rettifica fiscale sollevata determinava un fenomeno di doppia impostazione tra la Germania e l’Italia, il 23 dicembre 2009 Basf Poliuretani S.p.a. e, successivamente, l’8 marzo 2011, Basf Interservice s.r.l., presentavano apposita istanza al Ministero dell’economia e delle finanze – Direzione relazioni internazionali – di avvio della procedura amichevole ex art. 6 della Convenzione europea sull’arbitrato (n. 90/436/CEE del 23 luglio 1990), al fine di dirimere la situazione di doppia imposizione originatasi. Pertanto, con la presentazione, in data 28 gennaio 2010, di copia del pool partner agreement, richiesta dallo stesso Ministero, si avviava la citata procedura amichevole, confermata da una nota ministeriale che dava evidenza della tempestiva presentazione dell’istanza e, quindi, della corretta instaurazione della procedura. La Bsf Poliuretani Italia S.p.a. (già Elastogran Italia S.p.a.) e la Basf Interservice S.r.l. (oggi Basf Italia S.p.a., con socio unico, già Basf Italia S.r.l.) recependo le indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate, con istanza depositata all’udienza del 15 giugno 2011, celebrata dinanzi Commissione Tributaria Provinciale di Milano, e relativa al giudizio avverso il citato avviso di accertamento IRES di “secondo livello “ dichiaravano di rinunciare al ricorso e di optare per la procedura arbitrale prevista dalla Convenzione n. 90/436/CEE, evidenziando oltremodo che tale rinuncia non potesse essere considerata acquiescenza alle pretese impositive del Fisco, bensì come scelta di procedura alternativa al contenzioso tributario. Per queste ragioni, il giudice adito dichiarava – con sentenza n. 261/24/2011 depositata addì 27 luglio 2011 – l’estinzione del giudizio per cessata materia del contendere. In data 21 dicembre 2011, la società istante nonché la Basf Italia S.p.a. ricevevano la comunicazione di diniego/revoca della procedura arbitrale de qua prot. N. 10234/2011/DF/DRI da parte del Ministero dell’economia e delle finanze. Questi informava i predetti contribuenti dell’impossibilità di proseguire la procedura amichevole essendone venuti meno i presupposti, e ciò sull’assunto che sarebbe stato perfezionato l’accertamento con adesione nei confronti dell’atto impositivo per cui è causa. Di conseguenza, ad avviso del Ministero, sarebbe mutata la situazione originaria posta a base della richiesta di applicazione dell’art. 6 della citata Convenzione e la fattispecie in esame non avrebbe più potuto essere oggetto di controversia. La società BASF Poliuretani Italia spa odierna controricorrente impugnava innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma (RG4732/12) tale comunicazione, deducendo, in via preliminare, l’immediata impugnabilità della richiamata nota ministeriale, quale diniego di agevolazione o di rigetto di domanda di definizione agevolata di rapporti tributari. Di poi, nel merito, contestava la legittimità del provvedimento di diniego di attuazione della procedura amichevole, stante il mancato perfezionamento dell’accertamento di adesione. Con atto di controdeduzioni, deposito addì 2 luglio 2012, si costituiva in giudizio il Ministero dell’economia e delle finanze eccependo che la conclusione della pro-
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cedura di accertamento con adesione precludeva alla società la richiesta di apertura della procedura amichevole e, comunque, l’insussistenza della giurisdizione italiana in relazione alla predetta comunicazione in quanto emanata da esso Ministero nella sua vesta di autorità competente italiana nell’ambito della procedura amichevole. Proponeva, quindi, l’odierno ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, illustrato con memoria, cui ha resistito con controricorso la società BASF Poliuretani Italia S.p.a. Motivi della decisione. Con l’unico motivo di regolamento, il ricorrente Ministero deduce, in primo luogo, che la Convenzione europea di arbitrato non rientra nella nozione del “diritto derivato” dell’Unione europea, in quanto l’atto in questione è una convenzione internazionale multilaterale, soggetta alle regole proprie dei trattati internazionali, e non a quelle dell’ordinamento comunitario. Il Ministero ricorrente assume che la procedura amichevole di cui a detta convenzione si fonda su preminenti interessi pubblici degli Stati che vi partecipano in quanto investe la potestà impositiva degli stessi né la circostanza che l’accordo, una volta assunto, svolgerà specifici effetti nei confronti del contribuente può modificare tale situazione giuridica. I negoziati si svolgono infatti esclusivamente fra le autorità competenti degli Stati sottoscrittori, rimanendo in capo alle imprese coinvolte nel caso un mero diritto d’informazione sugli sviluppi della procedura. Non potrebbe, quindi, sussistere sindacato giurisdizionale interno, in quanto esso costituirebbe un’interferenza sulla sovranità degli Stati e violazione del ben noto principio dell’immunità. La nota oggetto di gravame, in conclusione, non costituirebbe un provvedimento amministrativo riconducibile ai moduli tipici di attuazione del tributo. Contesta tali affermazioni la società contro ricorrente sostenendo chela materia oggetto del contendere non riguarda atti adottati dallo Stato estero, bensì un provvedimento di diniego assunto dall’autorità amministrativa italiana competente, che esclude la possibilità di accedere alla “procedura amichevole” in ragione dell’asserita verificazione di una circostanza ostativa, quale l’intervenuto accertamento con adesione (a suo dire, comunque inefficace per mancata esecuzione). Invoca, a tale proposito, la normativa nazionale e sovranazionale che garantisce il diritto di difesa al soggetto privato e sostiene l’impugnabilità dell’atto de quo dinanzi al giudice tributario, in applicazione del D.lgs. n. 546 del 1992, art. 19. In particolare rileva che la tesi dell’Agenzia risulta incompatibile con il diritto UE ed in proposito prospetta anche l’opportunità di rinvio pregiudiziale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del T.F.U.E. alla Corte di giustizia dell’Unione europea, per violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, nonché del principio di leale collaborazione postulato all’art. 4, par. 3, commi 2 e 3 TFUE. Da ultimo, evidenzia come la tesi di parte ricorrente porterebbe alla conseguenza assurda che non vi sarebbe alcun organo giurisdizionale nazionale o internazionale deputato a valutare la legittimità dell’operato dell’autorità nazionale. Il ricorso appare infondato. La tesi del ricorrente secondo cui la “procedura amichevole” coinvolgerebbe
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esclusivamente gli interessi pubblici degli Stati nell’esercizio della loro sovrana potestà impositiva ed escluderebbe ogni possibile intervento dell’autorità giudiziaria nazionale appare infondata. La Convenzione Europea di Arbitrato, c.d. “Convenzione Arbitrale”, è stata conclusa dagli Stati membri dell’Unione Europea il 23 luglio 1990 con lo scopo precipuo di risolvere i casi di doppia imposizione internazionale “economica” connessi ad un solo particolare settore tributario: quello dei “prezzi di trasferimento”. Essa quindi ha un ambito di operatività specifico e ristretto rispetto alle Convenzioni contro le doppie imposizioni normalmente stipulate, che si applicano viceversa anche a tutte le altre forme di doppia imposizione riferibili alle varie tipologie di reddito. Si aggiunge che il Consiglio dell’Unione Europea, su proposta della Commissione, nell’ottobre del 2002 ha istituito il Forum congiunto sui prezzi di trasferimento GTPF Joint Transfer Pricing Forum) con il compito di fornire un supporto agli Stati Membri nello specifico settore e garantire la efficiente e fattiva applicazione della Convenzione arbitrale per la risoluzione dei casi di doppia imposizione scaturenti da rettifiche in materia di prezzi di trasferimento. Tra le iniziative più rilevanti del JPTF vi è stata l’adozione di un “codice di condotta” nel 2004, sostituito nel 2009 da una nuova versione, tuttora vigente, che reca talune indicazioni di dettaglio finalizzate ad uniformare ed a rendere efficiente l’applicazione della Convenzione Arbitrale. Fatte queste premesse, va rammentato che l’art. 6 della Convenzione attribuisce al contribuente l’iniziativa di reclamare l’osservanza dei principi stabiliti art. 4 della convenzione in materia di rettifica degli utili d’impresa, di fronte all’autorità competente dello Stato contraente indicata nell’art. 3 della Convenzione in cui è residente o ha stabile organizzazione. Tale richiesta impegna l’autorità competente a cercare un accordo con l’autorità dell’altro Stato al fine di evitare la doppia imposizione. La richiesta in questione può essere effettuata, indipendentemente dai ricorsi previsti dalla legislazione nazionale degli Stati contraenti interessati. In caso di mancato raggiungimento di un accordo entro due anni dalla richiesta, l’articolo 7, comma primo, della Convenzione prevede che le autorità competenti istituiscono una Commissione consultiva che deve dare un parere sul modo di evitare la doppia imposizione. L’art. 7 in questione disciplina poi nel dettaglio i rapporti con il contenzioso interno. In particolare il secondo paragrafo dell’art. 7, comma 1 prevede che le imprese possono avvalersi delle possibilità di ricorso previste dal diritto interno degli Stati contraenti interessati; tuttavia, quando un tribunale è stato investito del caso, il termine di due anni di cui al primo comma decorre dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione pronunciata in ultima istanza nell’ambito di tali ricorsi interni. Il comma 2 dell’art. in questione stabilisce poi che “il fatto che la commissione consultiva sia stata investita del caso non impedisce a uno Stato contraente di avviare o continuare, per il medesimo caso, azioni giudiziarie o procedure per l’applicazione di sanzioni amministrative.
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A sua volta il comma 3 statuisce che qualora la legislazione interna d’uno Stato contraente non consenta alle autorità competenti di derogare alle decisioni delle rispettive autorità giudiziarie, il par. 1 si applica soltanto se l’impresa associata di tale Stato ha lasciato scadere il termine di presentazione del ricorso o ha rinunciato a quest’ultimo prima che sia intervenuta una decisione. Questa disposizione lascia impregiudicato il ricorso, laddove questo riguarda elementi diversi da quelli di cui all’art. 6. Dalle disposizioni in esame si evince complessivamente il principio generale, salvo le eccezioni previste, secondo cui il procedimento di accordo amichevole tra gli Stati non impedisce il contemporaneo svolgimento delle azioni giudiziarie relative alle imposizioni innanzi agli organi giudiziari nazionali. Ciò posto, alla luce di quanto evidenziato, deve ritenersi che nell’ambito della procedura amichevole ai sensi dell’art. 6 della Convenzione Arbitrale i due Stati non agiscono “iure privatorum”, bensì nell’ambito della propria potestà d’imperio in materia tributaria. La Procedura Amichevole in esame si fonda infatti su preminenti interessi pubblici degli Stati che vi partecipano in quanto investe la potestà impositiva degli stessi ed i negoziati si svolgono esclusivamente tra le Autorità Competenti degli Stati sottoscrittori della Convenzione e l’accordo amichevole viene sottoscritto e adottato esclusivamente da questi. Ciò posto, resta però estranea alla presente controversia la questione prospettata dall’Amministrazione se possa essere riconosciuta al Giudice nazionale la cognizione e la delibazione del contenuto di tali atti e accordi, perché – secondo la sua tesi – ciò costituirebbe una interferenza della sovranità di uno Stato nei confronti dell’altro. Nel caso in esame infatti la procedura amichevole non ha in effetti avuto corso dal momento che con le due comunicazioni del Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento delle Finanze, Direzione Relazioni Internazionali, cioè la nota prot. 10234 del 21-12-2011,oggetto di gravame, nonché la precedente nota prot. 3474 del 21-4- 2011 oggetto dell’impugnazione innanzi alla Commissione tributaria, l’Autorità italiana ha negato alla società richiedente di poter dar corso alla procedura amichevole. Come rilevato dal Procuratore generale, le cui conclusioni queste Sezioni unite condividono, occorre tenere distinta la fase prodromica oggetto del ricorso relativa alla presentazione dell’istanza di apertura della procedura amichevole ed alla valutazione dei requisiti soggettivi ed oggettivi di ammissibilità, che si svolge tutta nell’ambito del diritto interno (come può chiaramente evincersi dai citati art. 6 e 7 della Convenzione e come confermato dalla circolare dell’Agenzia delle entrate 5/6/2012 n. 21 punto 5.8.) da quella successiva – il confronto fra le autorità competenti – nella quale il contribuente non svolge un ruolo attivo ma è tenuto a prestare la propria collaborazione descrivendo puntualmente il caso e fornendo sollecitamente le informazioni supplementari eventualmente richieste (art. 10 Conv. punto5.9 circolare).È di palese evidenza, quindi, che le questioni che possono insorgere nella prima fase – come nel caso di specie quella relativa agli effetti dell’istanza di adesione non attuata – non possono essere aprioristica-
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mente sottratte alla valutazione giurisdizionale di organo giudiziario. E questo non può che essere il giudice dello Stato ove l’istanza viene proposta, giacché la Commissione consultiva si limita a dare un parere sul modo di eliminare la doppia imposizione. Resta da dire che l’impugnabilità della nota in questione non risulta esclusa – come sostiene l’Amministrazione – dall’art. 7, comma3 della Convenzione che esclude la possibilità di ricorso innanzi al giudice nazionale qualora la legislazione interna d’uno Stato contraente non consenta alle autorità competenti di derogare alle decisioni delle rispettive autorità giudiziarie in quanto nel caso di specie la conclusione dell’accertamento con adesione risulta contestato onde sarà il giudice investito della controversia a valutare l’esistenza o meno di tale circostanza. Quanto al giudice italiano avente giurisdizione non è dubbio che sia quello tributario, vertendosi in materia di tributi. È ben nota la giurisprudenza di questa Corte che ha ripetutamente affermato che, l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nel D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19 ha natura tassativa, ma non preclude la facoltà di impugnare anche altri atti, ove con gli stessi l’Amministrazione porti a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, esplicitandone le ragioni fattuali e giuridiche, siccome è possibile un’interpretazione estensiva delle disposizioni in materia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), ed in considerazione dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la L. 28 dicembre 2001, n. 448. (Cass. 17010/12). Da ciò discende che ogni atto adottato dall’ente impositore che porti, comunque, a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche, è impugnabile davanti al giudice tributario, senza necessità che si manifesti in forma autoritativa, e tale impugnazione va proposta davanti al giudice tributario, in quanto munito di giurisdizione a carattere generale e competente ogniqualvolta si controversa di uno specifico rapporto tributario (Cass. 7344/12). Nel caso di specie non è dubbio che il diniego di dare corso alla procedura amichevole comporta che la società resistente sarebbe soggetta ad una doppia imposizione in Italia ed in Germania, venendo quindi a dovere versare nel nostro Paese un tributo maggiore di quanto altrimenti dovuto in caso di raggiungimento di un accordo tra i due Stati nell’ambito della procedura amichevole. Da qui l’impugnabilità delle note in questione. In ragione della decisione assunta, che investe prevalenti aspetti di diritto nazionale, non risulta necessario alcun rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E. restando quindi impregiudicata la questione se in materia sussista o meno la competenza della Corte di Giustizia in relazione alla esaminata Convenzione. Il ricorso va in conclusione respinto dovendosi dichiarare la giurisdizione del giudice italiano, nella specie della Commissione tributaria. Segue alla soccombenza la condanna al pagamento delle spese di giudizio liquidate come da dispositivo.
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P.Q.M. Rigetta il ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice italiano (Commissione tributaria) e condanna l’amministrazione al pagamento delle spese di giudizio (OMISSIS)
(1) Sull’impugnabilità dei provvedimenti di diniego d’accesso alla Convenzione arbitrale europea sul Transfer pricing* Le ordinanze n. 12759 e 12760 del 2015 della Corte di Cassazione sull’esistenza della giurisdizione italiana in merito ai provvedimenti di diniego di accesso alla Convenzione Arbitrale Europea sul Transfer Pricing rappresentano due decisioni fondamentali per il progressivo sviluppo di questa Convenzione verso un regime di risoluzione delle controversie fiscali internazionali sempre più emancipato dal controllo degli Stati. Al fine di illustrare l’estrema importanza di queste decisioni, si fornirà dapprima una sintesi del loro contenuto, poi verrà analizzato il dibattito in seno al Joint Transfer Pricing Forum in merito al diniego d’accesso alla Convenzione: questo dibattito fornirà l’occasione per riflettere sul ruolo che il libero accesso alla Convenzione riveste, insieme al potenziamento della sua fase arbitrale, nel processo volto a rendere il regime di risoluzione delle controversie previsto dalla Convenzione più efficiente ed, al tempo stesso, sempre più indipendente dal controllo degli Stati. The Court of Cassation’s orders n. 12759 and 12760 of 2015 acknowledging jurisdiction of the Italian tax judges on administrative acts denying access to the Arbitration Convention on Transfer Pricing represent two fundamental decisions for the development of this Convention towards a dispute resolution regime which is more and more independent of State control. In order to illustrate the extreme importance of these decisions, this article first provides a synthesis of their contents, then it analyses the debate within the Joint Transfer Pricing Forum on the denial of access to the Arbitration Convention: this debate will allow the possibility for some reflections on the role which the issue of denial of access to the Conventions plays, together with the improvement of the arbitral phase, in the process of rendering the dispute resolution regime envisaged by the Convention more efficient and, at the same time, ever more independent of State control.
Sommario: 1. Le Ordinanze della Corte di Cassazione. – 2. I fatti di causa. –
3. La decisione della Corte di Cassazione. – 4. Il dibatti sul diniego di accesso alla Convenzione. – 5. Accesso alla Convenzione e creazione di un sistema di risoluzione delle controversie fiscali indipendente. – 6. Osservazioni conclusive.
1. Le Ordinanze della Corte di Cassazione – Con le due ordinanze gemelle n. 12759 e 12760 del 19 giugno 2015, la Corte di Cassazione ha stabi* Stante l’identico contenuto delle due ordinanze in commento, si è ritenuto più conveniente riprodurre il testo di una sola delle due.
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lito la sussistenza della giurisdizione del giudice tributario italiano sui provvedimenti ministeriali di diniego di accesso alla Convenzione Arbitrale sul Transfer Pricing. Come verrà evidenziato nel prosieguo del presente articolo, si tratta di due decisioni di notevole importanza per lo sviluppo di questa Convenzione verso un regime di risoluzione delle controversie fiscali internazionali sempre più emancipato dal controllo degli Stati. 2. I fatti di causa – Due società italiane appartenenti al medesimo gruppo internazionale ricevevano un avviso di accertamento contenente, inter alia, rilievi in materia di prezzi di trasferimento. Nei confronti del predetto avviso, le due società presentavano istanza di accertamento con adesione: tale procedimento si concludeva con esito positivo, avendo le medesime società e l’ufficio raggiunto un accordo sui rilievi contestati e, di conseguenza, firmato l’atto di adesione, senza tuttavia, addivenire al perfezionamento dello stesso, atteso il mancato versamento di quanto pattuito. Nel frattempo, in considerazione del fatto che la rettifica fiscale contenuta nell’avviso di accertamento determinava una doppia imposizione tra la Germania e l’Italia, le due società presentavano due distinte istanze di avvio della procedura amichevole ex art. 6 della Convenzione Arbitrale Europea al Ministero dell’Economia e delle Finanze - Direzione relazioni internazionali. Successivamente, il Ministero emetteva due comunicazioni di diniego/ revoca della procedura amichevole per mancanza dei presupposti, e segnatamente per l’intervenuta circostanza ostativa del perfezionamento dell’accertamento con adesione sull’atto impositivo. In altri termini, il Ministero, ritenendo di dover aderire alla tesi dell’alternatività tra accertamento con adesione e procedura amichevole, aveva denegato alle società l’accesso a quest’ultima, stante l’intervenuta conclusione dell’atto di adesione. Con separati ricorsi di identico contenuto, le due società impugnavano dinnanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma le predette comunicazioni ministeriali, deducendone in via preliminare l’immediata impugnabilità, in quanto tali atti dovevano essere considerati alla stregua di dinieghi di agevolazione o di rigetto di domanda di definizione agevolata di rapporti tributari. Nel merito, contestavano la legittimità del provvedimento di diniego di avvio della procedura amichevole, in ragione del mancato perfezionamento dell’accertamento con adesione. Costituitosi in entrambi i giudizi, il Ministero eccepiva preliminarmente l’insussistenza della giurisdizione italiana in relazione alle predette comunicazioni, in quanto emanate dal Ministero stesso nella sua veste di autorità competente italiana nell’ambito della procedura amichevole. In altri termini, secondo la tesi prospettata dal Ministero, la comunicazione di diniego costituirebbe una fase della procedura amichevole prevista dalla
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Convenzione Arbitrale, la quale altro non è che una convenzione internazionale multilaterale soggetta alle regole proprie dei trattati internazionali; poiché tale procedura amichevole sarebbe in sostanza una negoziazione intergovernativa, che prevede come sole parti gli Stati e che coinvolge preminenti interessi pubblici degli stessi concernenti la loro potestà impositiva, non potrebbe sussistere un sindacato giurisdizionale interno, in quanto esso costituirebbe un’interferenza sulla sovranità degli Stati e violazione del ben noto principio dell’immunità. Nel merito, il Ministero eccepiva che la conclusione della procedura di accertamento con adesione precludeva alla società la richiesta di apertura della procedura amichevole. Al fine di risolvere la questione preliminare della giurisdizione del giudice nazionale, il Ministero proponeva ricorso alla Corte di Cassazione per regolamento preventivo di giurisdizione, la quale ha risposto con le ordinanze in commento. Tali ordinanze, dunque, essendo state emanate in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, prendono posizione sulla sola questione preliminare della giurisdizione del giudice italiano sulla comunicazione ministeriale di diniego all’accesso alla Convenzione Arbitrale. La spinosa e ben nota questione dell’alternatività tra definizione della controversia tramite accertamento con adesione e procedure amichevoli internazionali dovrà pertanto essere affrontata, relativamente al caso concreto, dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma, dinnanzi alla quale la controversia dovrà essere riassunta. 3. La decisione della Corte di Cassazione – Disconoscendo la tesi ministeriale, la Corte di Cassazione ha operato una distinzione tra la fase prodromica, relativa alla presentazione dell’istanza di apertura della procedura amichevole ed alla valutazione dei requisiti soggettivi ed oggettivi di ammissibilità, la quale si svolge tutta nell’ambito del diritto interno, e la fase successiva, cioè quella della procedura amichevole vera e propria, caratterizzata dal confronto tra le autorità competenti, la quale coinvolge preminenti interessi pubblici degli Stati che vi partecipano ed appartiene pertanto all’ambito del diritto internazionale. Per quanto riguarda le questioni che insorgono durante fase prodromica della procedura – tra le quali rientra appunto quella del diniego di accesso alla Convenzione per mancanza dei requisiti di ammissibilità – esse, ha concluso la Corte, poiché rimangono nell’ambito del diritto interno, non possono essere sottratte aprioristicamente alla valutazione giurisdizionale dell’organo giudiziario e, segnatamente, del giudice dello Stato dove l’istanza viene proposta. In particolare, il giudice competente – ha aggiunto la Corte – non può non essere quello tributario, in quanto dotato di giurisdizione di carattere generale ogni qualvolta la controversia riguardi uno specifico rapporto tributario.
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Infine, la Corte ha anche preso posizione sull’impugnabilità della nota ministeriale di diniego di accesso alla Convenzione Arbitrale, la quale non rientra nell’elenco degli atti impugnabili contenuto nell’art. 19 del decreto legislativo 546/1992. Confermando il suo orientamento più estensivo sul punto, essa ha affermato che “ogni atto adottato dall’ente impositore che porti, comunque, a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche, è impugnabile davanti al giudice tributario, senza necessità che si manifesti in forma autoritativa, e tale impugnazione va proposta davanti al giudice tributario, in quanto munito di giurisdizione a carattere generale e competente ogni qualvolta si controverta uno specifico rapporto tributario”. 4. Il dibatti sul diniego di accesso alla Convenzione – Per comprendere l’importanza di queste decisioni della Corte di Cassazione, i cui effetti si ripercuoteranno probabilmente oltre i confini nazionali, è necessario preliminarmente sintetizzare i termini del dibattito, svoltosi in seno al Joint Transfer Pricing Forum, sul tema del diniego di accesso alla Convenzione Arbitrale Europea. Secondo quanto dispone l’art. 6 comma 2 della Convenzione Arbitrale, l’autorità competente che riceve l’istanza di apertura della procedura amichevole deve preliminarmente valutare se tale istanza sia fondata, oltre a valutare se essa stessa sia in grado di risolvere unilateralmente la lamentata doppia imposizione. In altri termini, questa disposizione conferisce alle autorità competenti il potere di valutare l’ammissibilità dell’istanza e cioè la sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi previsti per l’apertura della procedura amichevole. Nonostante le statistiche sulle procedure amichevoli pendenti nel quadro della Convenzione Arbitrale abbiano rivelato che in pochissimi casi le autorità competenti hanno rigettato le richieste di accesso alla Convenzione Arbitrale (1), alcuni membri del JTPF hanno manifestato la loro preoccupazione che in taluni casi il diniego di accesso alla Convenzione possa risultare non giustificato (2).
(1) JTPF/011/REV2/2013, par. 2. Si vedano anche le più recenti statistiche sulla Convenzione Arbitrale, pubblicate in JTPF/008/2015 “Statistics on Pending Mutual Agreement Procedures under the Arbitration Convention at the end of 2014”: la Tabella 3 allegata a questo documento riporta che, nel 2014, solo 14 richieste di accesso alla Convenzione sono state rigettate su un totale di 506 casi iniziati nel medesimo anno. (2) Sono state ad esempio formulate le ipotesi in cui l’accertamento riguarda di fatto questioni attinenti al transfer pricing, ma le contestazioni sono formalmente basate su questioni formalmente escluse dall’ambito di applicazione della Convenzione Arbitrale, quali ad esempio
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Pertanto, nel corso del meeting del 6 giugno 2013, è stata suggerita l’istituzione di meccanismi che garantiscano i diritti del contribuente nell’ambito della Convenzione Arbitrale, ed in particolare che impediscano quelle situazioni in cui l’accesso alla Convenzione stessa viene bloccato dalle amministrazioni fiscali con argomenti secondo cui il caso non può essere soggetto a procedura arbitrale oppure esula dall’ambito della Convenzione (3). Nel dibattito che ne è scaturito all’interno del JTPF, alcuni Stati hanno sottolineato che nel loro ordinamento era già presente un rimedio (giurisdizionale o amministrativo) avverso il diniego d’accesso alla Convenzione e che tali misure dovevano considerarsi sufficienti per garantire i diritti del contribuenti; altri hanno osservato che nel loro sistema non era possibile ricorrere contro un provvedimento di diniego di accesso alla procedura amichevole, mentre un rappresentante non governativo ha addirittura proposto l’istituzione di una commissione arbitrale permanente nel quadro della Convenzione, alla quale i contribuenti possano sottoporre i loro ricorsi avverso i provvedimenti di diniego di accesso (4). A seguito di questo dibattito, è stata proposta l’inclusione di una nuova raccomandazione nel Codice di Condotta di prossima revisione, secondo cui “ gli Stati Membri considereranno la possibilità di predisporre rimedi giuridici per determinare se il diniego di accesso alla Convenzione Arbitrale da parte dei loro organi amministrativi sia giustificato” (5). Nei confronti di questa raccomandazione, tre Stati (tra cui l’Italia) hanno apposto una riserva, sulla base della comune motivazione che, secondo la loro legislazione nazionale, non è possibile ricorrere contro un provvedimento di diniego di accesso alla Convenzione Arbitrale. In particolare, l’Italia ha voluto precisare di voler mantenere la propria riserva “per chiarire meglio la situazione in Italia e non creare aspettative infondate sulla possibilità, non prevista dalla legislazione italiana, che in futuro le note di diniego dell’Autorità Competente potranno essere impugnate” (6). Va da sé, dunque, che, a seguito delle citate ordinanze della Corte di Cassazione, in sede di definitiva approvazione del Codice di Condotta da parte del Consiglio Ecofin, l’Italia si troverà con ogni probabilità a dover ritirare la propria riserva su questa raccomandazione. A seguito dunque dell’inter-
la violazione delle norme sull’abuso del diritto o sul disconoscimento dei costi relativi ai sevizi infragruppo, oppure ancora l’esistenza di una stabile organizzazione invece che l’allocazione dei profitti alla stabile organizzazione. Sul punto, si veda JTPF 02/2013 par. B.1. (3) JTPF /10/2013 par. 1. (4) JTPF/ 5/REV1/2014 (5) Codice di Condotta, nuovo punto 5, vedi JTPF /002/2015 par. 9. (6) JTPF7 001/2015
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vento della Corte di Cassazione, l’Italia si aggiunge alla già nutrita lista di Stati all’interno del cui ordinamento è presente un rimedio giuridico (giudiziario o amministrativo) contro i provvedimenti di diniego di accesso alla Convenzione da parte delle autorità competenti (7): questa constatazione potrebbe di conseguenza convincere anche gli ultimi due Stati recalcitranti (e cioè la Polonia e la Svezia) a rinunciare alla riserva sulla citata raccomandazione sul diniego di accesso. 5. Accesso alla Convenzione e creazione di un sistema di risoluzione delle controversie fiscali indipendente – Si è voluto descrivere nel dettaglio il dibattito sul diniego d’accesso alla Convenzione per evidenziare con la massima chiarezza il contrasto tra l’estrema attenzione data a questo problema in seno al JTPF e la scarsità di casi in cui effettivamente questo diniego di accesso si è verificato nella prassi. A meno che non si voglia concludere che i rappresentanti del Forum siano degli esperti che amino trascorrere il loro tempo dilettandosi in discussioni su questioni puramente teoriche e di scarsa rilevanza pratica, è necessario domandarsi quale siano le ragioni di questa apparentemente sproporzionata attenzione dedicata dal JTPF a questo tema. Queste ragioni appaiono immediatamente evidenti, se soltanto si analizza il sempre maggiore divario che contrappone da una parte l’impianto originario del sistema di risoluzione delle controversie della Convenzione, concepito dagli Stati membri in sede di negoziazione della Convenzione stessa, e dall’altra le profonde trasformazioni a questo sistema, progressivamente apportate dal JTPF durante le periodiche revisioni del Codice di Condotta. Come la tormentata gestazione della stessa Convenzione Arbitrale dimostra (8), gli Stati Membri hanno sin dall’inizio espresso un approccio estremamente cauto nel riconoscere il sistema di risoluzione amichevole delle controversie previsto dalla Convenzione Arbitrale. Questo perché, come anche confermato dalle argomentazioni del Ministero italiano nelle ordinanze sopra esaminate, la risoluzione delle controversie fiscali tramite procedura arbitrale comporta la cessione dell’aspetto più fondamentale e più difficilmente rinun-
(7) Come risulta dalle risposte inviate dagli Stati membri al Joint Transfer Pricing Forum, è presente un rimedio giuridico contro il diniego di accesso alla Convenzione nelle seguenti giurisdizioni: Francia, Regno Unito, Irlanda, Germania, Spagna, Danimarca, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania. (8) Un resoconto della tormentata gestazione della Convenzione Arbitrale lo si può leggere in A. Voegele - F. Forster, The Arbitration of Transfer Prices in Europe, in Practical European Tax Strategies, 2006, 8.1, 2.
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ciabile della sovranità statale quale è appunto la potestà impositiva. Di conseguenza, dopo un lungo negoziato, gli Stati membri hanno accettato di vincolarsi al sistema di risoluzione delle controversie fiscali previsto dalla Convenzione Arbitrale, sottoponendolo al tempo stesso a tutta una serie di significative limitazioni, attraverso le quali mantengono in sostanza il controllo su tutte le fasi e gli aspetti salienti della procedura. In primo luogo, infatti, gli Stati hanno fortemente limitato l’ambito di applicazione della Convenzione Arbitrale, in modo tale da ridurre al minimo la portata della cessione di sovranità impositiva che l’adesione alla Convenzione stessa comporta: essa non si applica a tutte le controversie fiscali internazionali, ma soltanto alla singola tipologia delle doppie imposizioni derivanti dalle rettifiche degli utili di imprese associate in materia di prezzi di trasferimento. In secondo luogo, essi hanno concepito il sistema di risoluzione delle controversie essenzialmente come una negoziazione intergovernativa, che non prevede la partecipazione del contribuente: la fase arbitrale, almeno nell’intenzione originaria degli Stati, dovrebbe rappresentare una sorta di “parentesi” all’interno della fase negoziale, una fase puramente eventuale che ha più lo scopo di spronare gli Stati a trovare un accordo in sede negoziale, che a risolvere effettivamente la controversia. La decisione della Commissione Consultiva, infatti, non è immediatamente vincolante per gli Stati, in quanto essi possono comunque raggiungere un accordo in maniera diversa da quanto deciso dalla Commissione entro sei mesi e soltanto se non riescono a raggiungere un accordo, tale decisione diviene vincolante. In terzo luogo, ed è questo l’aspetto che maggiormente interessa ai fini del presente lavoro, gli Stati mantengono un controllo anche sulla fase di accesso alla Convenzione: la procedura amichevole viene infatti avviata tramite apposita istanza da parte del contribuente; tuttavia, come già accennato sopra, alle autorità competenti spetta il sindacato sull’ammissibilità dell’istanza, poiché, secondo quanto dispone l’art. 6 comma 2 della Convenzione, esse possono negare l’accesso, se reputano l’istanza non fondata e se ritengono di poter risolvere unilateralmente la lamentata doppia imposizione. Pertanto, data l’estrema vaghezza dei criteri secondo cui gli Stati possono decidere di non iniziare la procedura amichevole e, soprattutto, in assenza di previsione nella Convenzione un rimedio contro il diniego di accesso, agli Stati viene conferito quasi un diritto di veto sulle istanze di procedura amichevole: essi ricoprono dunque il ruolo di “gatekeepers” della Convenzione, esercitando di fatto il pieno controllo su ogni singolo caso che i contribuenti vorrebbero sottoporre alla procedura amichevole. Se dunque da una parte gli Stati hanno accettato di vincolarsi alla procedura di risoluzione delle controversie fiscali prevista dalla Convenzione, soltanto a
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patto di introdurre tutta una serie di limitazioni che attribuissero loro un sostanziale controllo su tutte le fasi della procedura stessa, dall’altra l’attività del JTPF nell’ambito della redazione del Codice di Condotta e delle sue successive revisioni sembra essere essenzialmente volta ad allentare questi poteri di controllo, in modo tale da creare una procedura di risoluzione delle controversie fiscali sempre più indipendente dagli Stati. Per quanto riguarda infatti l’ambito di applicazione della Convenzione, il JTPF si è adoperato, nella redazione del Codice di Condotta, per estendere progressivamente l’oggetto della Convenzione dapprima ai casi triangolari intracomunitari ed ai fenomeni di thin capitalization (9), poi, nell’ultima versione del Codice di prossima approvazione, ai casi in cui la rettifica dei prezzi di trasferimento non comporta un effettivo pagamento d’imposta (ad esempio perché l’impresa può riportarsi le perdite che compensano la rettifica) o nei confronti di imprese che, al momento della presentazione dell’istanza, sono in liquidazione, fuse in altre imprese, o addirittura estinte (10). Per quanto riguarda la fase della procedura arbitrale, il JTPF è stato particolarmente attivo nell’inserire nel Codice di Condotta tutta una serie di raccomandazioni volte a potenziarne la trasparenza, l’efficienza e l’indipendenza dall’influenza degli Stati: nel corso del dibattito che ha portato nel 2009 alla prima revisione del Codice di Condotta, ad esempio, i rappresentanti della business community in seno al JTPF, ritenendo che l’assenza di previsione di un chiaro termine entro cui costituire la Commissione Arbitrale fosse uno dei maggiori difetti dell’intera Convenzione, sono riusciti ad inserire nel Codice di Condotta una raccomandazione secondo cui la costituzione della Commissione arbitrale deve avvenire non più tardi di sei mesi dopo lo spirare del periodo previsto dall’art. 7 della Convenzione (11). Ancora più significative appaiono quelle raccomandazioni che stabiliscono una serie di criteri per assicurare l’effettiva competenza e indipendenza dei membri della commissione arbitrale: la previsione che gli Stati membri inviino, oltre ai nominativi delle persone indipendenti da cui verranno selezionati i componenti della Commissione arbitrale, anche i loro curriculum vitae, in cui sono in particolare descritte le loro esperienze in materia giuridica e fiscale, con particolare riguardo al transfer pricing (12); la previsione che le persone indipendenti nominate dagli Stati non devono essere cittadini o
(9) Codice di Condotta, paragrafi 1.1 e 1.2 (10) Codice di Condotta, nuovo punto 1, vedi JTPF /002/2015 par. 5-6 (11) JTPF/002/2008, par. 2.4 (12) Codice di Condotta, paragrafo 7.1 b).
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residenti nello Stato che li nomina (13); la raccomandazione alle autorità competenti di stilare una dichiarazione di indipendenza relativa al particolare caso concreto, da far firmare dalle persone indipendenti all’atto della nomina a componenti della Commissione arbitrale (14). Alla luce di questo notevole sforzo da parte del JTPF volto a rendere più efficiente la fase arbitrale nell’ambito della procedura amichevole prevista dalla Convenzione, sembra sempre meno possibile considerare la fase arbitrale come una mera fase sussidiaria, quasi una parentesi all’interno della fase di negoziazione intergovernativa. Al contrario, la fase arbitrale sembra apprestarsi a divenire il fulcro del sistema di risoluzione delle controversie previsto dalla Convenzione. Per quanto infine riguarda l’accesso alla Convenzione da parte dei contribuenti, come già osservato sopra, durante il dibattito sulla redazione dell’ultima versione del Codice di Condotta di prossima pubblicazione, il JTPF ha discusso a lungo sulla predisposizione di misure che potessero estendere e facilitare questo diritto. Infatti, oltre alla già menzionata raccomandazione sulla predisposizione di rimedi contro il diniego di accesso, nel nuovo Codice di Condotta è stata inserita una raccomandazione volta a facilitare l’accesso alla Convenzione Arbitrale, ogniqualvolta la sua applicazione dipende direttamente dal risultato di una MAP prevista da un’altra Convenzione contro le Doppie Imposizioni (15); inoltre, sempre in materia di diniego di accesso, è stata inserita una raccomandazione secondo cui ciascuna autorità competente deve informare le altre autorità, quando ha negato l’accesso alla Convenzione, indicando anche i motivi per tale diniego; in tal caso, le autorità competenti coinvolte dovranno cercare, per quanto possibile, di raggiungere una posizione comune per stabilire se il diniego d’accesso debba ritenersi giustificato (16). Di tutte queste misure volte a rendere la procedura di risoluzione delle controversie fiscali prevista dalla Convenzione sempre più indipendente dal controllo degli Stati, le appena menzionate raccomandazioni volte a facilitare l’accesso alla Convenzione sono forse le più importanti, dato il forte impatto pratico che esse potrebbero potenzialmente produrre: è questa dunque la ragione che spiega la notevole attenzione che gli esperti del JTPF hanno voluto dedicare al tema, in sede di discussione sul nuovo Codice di Condotta.
(13) Codice di Condotta, paragrafo 7.1 f). (14) Codice di Condotta, paragrafo 7.1 g). (15) Codice di Condotta, nuovo punto 2, vedi JTPF /002/2015 par. 7-8 (16) Codice di Condotta, nuovo punto 7.3, vedi JTPF /002/2015 par. 10
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Come hanno infatti osservato gli studiosi delle relazioni internazionali che si sono occupati dei regimi di risoluzione delle controversie internazionali, “la chiave di volta per la costruzione di un sistema transnazionale di risoluzione delle controversie è l’accesso al sistema stesso” (17). Un’analisi comparata dei principali tribunali e corti arbitrali internazionali ha infatti rivelato che quanto maggiore e più agevole è l’accesso al sistema da parte degli individui, maggiore è il numero di casi decisi dall’istituzione (18). Questo perché, come gli stessi studiosi hanno fatto notare, gli organi giurisdizionali sono organi “passivi”, nel senso che, a differenza di quelli legislativi ed esecutivi, sono impossibilitati ad agire unilateralmente, prendendosi autonomamente carico delle controversie (19). Pertanto, in un sistema intergovernativo in cui soltanto gli Stati decidono se e quando attivare la procedura di risoluzione delle controversie, calcoli di opportunità politica possono influenzare tale decisione, limitando il numero di casi sottoposti alla giurisdizione dell’organo giudicante (20). Viceversa, in un sistema di risoluzione delle controversie a cui gli individui hanno facile e libero accesso, non solo aumenta il numero dei casi decisi dall’organo giudicante, ma è anche molto probabile che aumenti la sua indipendenza dal controllo degli Stati. Un flusso costante di casi può infatti creare un circolo virtuoso (21): può favorire lo sviluppo di precedenti giurisprudenziali che incrementano a loro volta l’autorità e il prestigio dell’organo giudicante e di conseguenza attrarre ulteriori nuovi casi; una volta che l’organo giudicante ha sviluppato una propria giurisprudenza e consolidato la propria autorità, è più difficile per gli Stati esercitare il proprio controllo, soprattutto se tale organo, nelle sue decisioni, si pone come difensore dei diritti individuali nei confronti dell’azione degli Stati. In questo senso, dunque, la raccomandazione sui rimedi giuridici contro il diniego d’accesso comporta un significativo allentamento dei poteri di controllo da
(17) R.O. Keohane - A. Moravcsik - A.-M. Slaughter, Legalized Dispute Resolution: Interstate and Transnational, International Organization, 2000, 54, 3, 481. (18) R.O. Keohane - A. Moravcsik - A.-M. Slaughter, Legalized Dispute Resolution, cit., 475. In particolare, questi studiosi hanno confrontato il numero di casi decisi da sei tra i più importanti tribunali e corti arbitrali internazionali: la Corte Permanente d’Arbitrato, La Corte Internazionale di Giustizia, il GATT, il WTO, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e la Corte di Giustizia Europea. (19) R.O. Keohane - A. Moravcsik - A.-M. Slaughter, Legalized Dispute Resolution, cit., 462. (20) R.O. Keohane - A. Moravcsik - A.-M. Slaughter, Legalized Dispute Resolution, cit., 463 (21) R.O. Keohane - A. Moravcsik - A.-M. Slaughter, Legalized Dispute Resolution, cit. 481-482.
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parte degli Stati sulla procedura prevista dalla Convenzione, in quanto elimina il loro sostanziale diritto di veto sulle istanze di procedura amichevole, sottoponendo la decisione sul diniego al vaglio di un organo terzo diverso da quello che ha adottato la decisione stessa. Parimenti, la raccomandazione che invita ciascuno Stato ad informare l’altro dell’avvenuto diniego di accesso e a trovare con esso una posizione comune limita la discrezionalità del singolo Stato sul diniego di accesso, in quanto lo invita a trovare una posizione comune con l’altra autorità coinvolta per stabilire se il diniego d’accesso debba ritenersi giustificato. Se dunque si volesse trovare un disegno unitario dietro l’operato del JTPF in sede di redazione delle varie versioni del Codice di Condotta, esso potrebbe essere la duplice idea di voler potenziare la fase arbitrale, rendendola quasi il fulcro dell’intera procedura di risoluzione delle controversie nell’ambito della Convenzione e congiuntamente facilitare l’accesso alla Convenzione stessa da parte degli individui; il tutto, con la finalità di produrre quel circolo virtuoso sopra menzionato, che conduce al flusso sempre più crescente di nuovi casi, all’incremento del prestigio dell’indipendenza e dell’autorità dell’organo giudicante e, in ultima analisi alla maggiore efficienza dell’intero sistema. 6. Osservazioni conclusive – Le due ordinanze della Corte di Cassazione italiana sopra commentate costituiscono un importante contributo alla realizzazione pratica del principio del libero accesso alla Convenzione Arbitrale Europea da parte degli individui. Alla luce delle considerazioni sinora esposte, appare dunque evidente che la notevole attenzione dedicata al tema del diniego di accesso alla Convenzione in seno al JTPF è giustificata dal fatto che la predisposizione di misure volte ad ampliare e facilitare l’accesso alla Convenzione costituisce, assieme al potenziamento della fase arbitrale, una tappa fondamentale per rendere il regime di risoluzione delle controversie previsto dalla Convenzione più efficiente ed, al tempo stesso, sempre più indipendente dal controllo degli Stati. Come sottolineato dalla Commissione UE sin dal 2007 (22), l’accumularsi sempre più crescente di casi arretrati che non riescono ad essere risolti nei tempi previsti è il segno più evidente che la Convenzione Arbitrale non è finora riuscita ad eliminare la doppia imposizione connessa ai fenomeni di transfer pricing come dovrebbe. La piena realizzazione del mercato interno,
(22) Communication from the Commission on the work of the Joint Transfer Pricing Forum, COM(2007) 71, paragrafo 28.
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osserva sempre la Commissione, richiede pertanto un meccanismo che assicuri l’eliminazione, in maniera più rapida ed efficace, di questi fenomeni di doppia imposizione (23). Proprio in accoglimento di questo suggerimento da parte della Commissione, il JTPF, nella redazione del Codice di Condotta, ha profuso, come abbiamo visto sopra, un notevole sforzo volto a rendere più efficiente la fase arbitrale nell’ambito della procedura amichevole prevista dalla Convenzione, tanto che non sembra più possibile ora considerare la fase arbitrale come una mera fase sussidiaria, quasi una parentesi all’interno della fase di negoziazione intergovernativa. Al contrario, la fase arbitrale sembra apprestarsi a divenire il fulcro del sistema di risoluzione delle controversie previsto dalla Convenzione. Tuttavia, una procedura arbitrale che sia in grado di risolvere le controversie in materia di transfer pricing in modo più rapido ed efficiente è necessariamente una procedura dotata di un certo margine di indipendenza dall’influenza statale, e ciò al fine di assicurare quegli standard di imparzialità e trasparenza indispensabili per il corretto funzionamento della stessa. L’effettivo successo della procedura arbitrale sarebbe comunque assai limitato, se tutte le misure volte ad aumentarne l’efficienza, l’indipendenza e la trasparenza non fossero accompagnate da altrettante misure volte ad assicurare un più ampio ed agevole accesso alla Convenzione da parte degli individui. Il facile accesso alla Convenzione, quanto più possibile sottratto al veto degli Stati, costituisce infatti l’elemento indispensabile per creare quel circolo virtuoso che permette di attrarre un numero sempre maggiore di casi e, di conseguenza, incrementare il prestigio, l’autorità e l’efficienza dell’organo giudicante, contribuendo così in maniera decisiva alla credibilità ed effettività dell’intero sistema.
Daniele De Carolis
(23) Nella successiva “ Communication On Double Taxation in the Single Market” del novembre 2011 (COM (2011) 712), la Commissione ha ribadito che la mancanza di uno strumento generale di risoluzione vincolante delle controversie concernenti i fenomeni di doppia esposizione in tutti gli ambiti della tassazione diretta è una questione che deve essere affrontata, in quanto connessa alla realizzazione del mercato unico, alla competitività dell’Unione e alla sua capacità di attrarre gli investimenti esteri. Nel corso degli ultimi incontri del JTPF, la Commissione ha riferito di stare attualmente procedendo ad una raccolta di dati sui fenomeni di doppia imposizione diversi da quelli di transfer pricing, in modo tale da poter valutare la fattibilità di un’iniziativa legislativa in materia. Benché i contorni di questa iniziativa legislativa siano ancora poco chiari, non sembra dunque che essa sia destinata a sostituirsi alla Convenzione Arbitrale. Sul punto, si vedano JTPF /003/2014, par. 3 e JTPF /009/2014 par. 3.