Rivista Diritto Tributario 2/2019

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Vol. XXIX - Aprile

Rivista di

Diritto Tributario Fondatori: Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi

2

Rivista bimestrale

www.rivistadirittotributario.it

Vol. XXIX - Aprile 2019

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Direzione scientifica Loredana Carpentieri - Angelo Contrino - Guglielmo Maisto - Franco Paparella Gaetano Ragucci - Roberto Schiavolin

2019

In evidenza: • Gli atti “innominati” a contenuto patrimoniale nell’imposizione di registro: profili

ricostruttivi Angelo Contrino • Prime considerazioni sul ruolo degli indicatori di affidabilità nel rapporto Fisco-contribuente

Giuseppe Ingrao • I principi di capacità contributiva e di uguaglianza alla prova della parziale indeducibilità

dell’IMU dal reddito d’impresa (nota a Comm. trib. prov. di Parma n. 271/2018) Francesco Farri

ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Rivista di Diritto Tributario

Componenti onorari: Francesco D’Ayala Valva - Andrea Fedele - Piera Filippi Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo

Pacini



Indici DOTTRINA

Fabio Antonacchio

Initial coin offering: riflessi fiscali, antiriciclaggio e di tutela dei mercati finanziari, connessi all’emissione di criptovalute (o cripto-asset)......................................... I, 231 Angelo Contrino

Gli atti “innominati” a contenuto patrimoniale nell’imposizione di registro: profili ricostruttivi............................................................................................................. I, 161 Francesco d’Ayala Valva e Licia Fiorentini

Il processo di “semplificazione” dei procedimenti di notificazione. Osservazioni e criticità (nota a Corte cost. n. 175/2018)................................................................. II, 42 Francesco Farri

I principi di capacità contributiva e di uguaglianza alla prova della parziale indeducibilità dell’IMU dal reddito d’impresa (nota a Comm. trib. prov. di Parma n. 271/2018).................................................................................................................... II, 56 Giuseppe Ingrao

Prime considerazioni sul ruolo degli indicatori di affidabilità nel rapporto Fiscocontribuente................................................................................................................. I, 189 Giuseppe Mercuri

Deducibilità degli oneri gravanti sui redditi degli immobili: lo strano caso dei canoni di concessione relativi ad immobili posti sugli arenili comunali................. I, 201 Mario Tenore

Il regime fiscale dei neo-residenti. Uno sguardo al settore dello sport professionistico.............................................................................................................................. V, 31 Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................ V, 31

Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.


II

indici

INDICE ANALITICO

QUESTIONI GENERALI COMUNICAZIONI E NOTIFICAZIONI Notificazioni – Cartella di pagamento – Procedura speciale – Legittimità (Corte Cost., 30 giugno 2018 - 23 luglio 2018, n. 175, con nota di Francesco d’Ayala Valva e Licia Fiorentini)............................................................................................. II, 29

IMPOSTE SUI REDDITI IRPEF (Imposta sul reddito delle persone fisiche) Residenza fiscale – Art. 2, comma 2, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 – Costi deducibili - Deducibilità parziale dell’IMU – Reddito lordo – Reddito netto – Forfetizzazione – Arbitrarietà – Violazione principio capacità contributiva – Non manifesta infondatezza (Comm. trib. prov. di Parma, sez. I, 17 aprile 2018 - 5 luglio 2018, n. 271, con nota di Francesco Farri)...................................................... II, 55

INDICE CRONOLOGICO Corte Cost. 30 giugno 2018 - 23 luglio 2018, n. 175.................................................................... II, 29 *** Commissione Tributaria Provinciale di Parma sez. I, 17 aprile 2018 - 5 luglio 2018, n. 271............................................................. II, 55


indici

III

Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Roberto Cordeiro Guerra - Adriano Di Pietro - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Franco Gallo - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Giuseppe Tinelli - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio



indici

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ERRATA CORRIGE INDICE DEGLI AGGIORNAMENTI ONLINE 2018

Paolo Arginelli, Italian Supreme Court rules that income received by fashion models falls outside the scope of article 17 OECD MC, 11/10/18 Paolo Arginelli, Riflessioni “a caldo” sulla nuova disciplina degli utili provenienti da paesi a fiscalità privilegiata, 22/2/18 Paolo Arginelli e Giulio Cuzzolaro, Sull’applicabilità delle convenzioni contro le doppie imposizioni in assenza di un’effettiva duplicazione d’imposta, 6/12/18 Paolo Arginelli e Giulio Cuzzolaro, “Vecchie ruggini” e mancate occasioni nell’ordinanza della Cassazione n. 16634/2018 sulla presunzione di residenza fiscale degli iscritti nelle anagrafi della popolazione residente, 09/8/18 Paolo Arginelli e Paolo Valacca, Brevi note in tema di conferimento d’azienda in società residente da parte di stabile organizzazione di società UE, 01/10/18 Paolo Arginelli e Paolo Valacca, Chiariti i limiti al riporto delle perdite in caso di fusioni transfrontaliere tra società non residenti, 31/1/18 Marco Edgardo Bartolazzi Menchetti, Il contributo della Cassazione al chiarimento della disciplina del trust nelle imposte indirette, 29/1/18 Edoardo Belli Contarini, Ravvedimento operoso e fatture false, 27/11/18 Edoardo Belli Contarini, Parametri da coordinare tra loro nella nuova “transazione fiscale”, 11/4/18 Cristina Caraccioli, Esercizio abusivo di una professione anche per il non abilitato che svolge atti in modo da creare l’apparenza di un’attività professionale regolamentata, 01/10/18 Ivo Caraccioli, Art. 2 D.lgs. 74/2000 e uso di documentazione medica mendace, 01/10/18 Ivo Caraccioli, Costi realmente sostenuti e fatture soggettivamente inesistenti, 02/8/18 Ivo Caraccioli, Processo penale e tributario che si svolgono nello stesso “tempo” non comportano il ne bis in idem., 31/5/18 Ivo Caraccioli, Infedele dichiarazione: spetta al giudice di merito l’applicazione dello ius superveniens sulle sanzioni, 23/3/18 Ivo Caraccioli, Causa di non punibilità della voluntary disclosure applicabile ai soli reati espressamente previsti, 12/3/18 Ivo Caraccioli, Omesso versamento IVA per crisi economica dell’impresa solo in presenza della piena dimostrazione dell’impossibilità di adempiere, 01/3/18 Ivo Caraccioli, Per il reato di omesse ritenute rispondono tutti gli amministratori della società, 09/2/18 Ivo Caraccioli, Biglietti gratis rilevanti per dichiarazione infedele, 18/1/18 Ivo Caraccioli, Per i reati fiscali commessi dall’amministratore di fatto risponde anche il “prestanome”, 16/1/18


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indici

Ivo Caraccioli, Nelle società di capitali è preventivamente necessario valutare la possibilità di procedere a sequestro diretto del profitto dell’evasione, 16/1/18 Ivo Caraccioli, La dichiarazione dei redditi va presentata anche per quelli di origine illecita, 16/1/18 Gabriele Colombaioni, Il contrasto ai fenomeni di doppio utilizzo delle perdite fiscali nel contesto del consolidato fiscale nazionale, 13/3/18 Giulio Cuzzolaro, La futura modifica al preambolo dei Trattati contro le doppie imposizioni per effetto della Convenzione Multilaterale BEPS, 15/1/18 Francesco d’Ayala Valva, È onere del notificante controllare il buon esito della notifica, 21/12/18 Francesco d’Ayala Valva e Licia Fiorentini, Come etichettare i “campioni gratuiti, 11/12/18 Francesco d’Ayala Valva e Licia Fiorentini, Può il giudice rimettere in termini il destinatario di una notifica, ritualmente perfetta?, 22/11/18 Francesco d’Ayala Valva e Licia Fiorentini, Agevolazioni fiscali da prendere al volo per le “zone franche urbane”, 17/5/18 Barbara Denora, Simulazione assoluta, decadenza agevolazioni prima casa e “mutuo dissenso”, 19/10/18 Barbara Denora, Lettere di patronage e transfer pricing: una combinazione poco felice, 18/7/18 Barbara Denora, Competenza fiscale dei fatti intervenuti prima della chiusura di bilancio: nessuna deducibilità “anticipata”, 15/6/18 Barbara Denora, Quando la royalty va in dogana, 12/6/18 Barbara Denora, Le Sezioni Unite riconoscono la detrazione IVA in caso di spese incrementative su immobili altrui, 28/5/18 Barbara Denora, Operazioni erroneamente sottoposte a IVA: quid iuris per la detrazione?, 27/4/18 Barbara Denora, Dichiarazione rettificativa “a favore” solo per le manifestazioni di scienza, 28/2/18 Barbara Denora, Perdite “non utilizzabili” e opzioni “non ritrattabili”: qual è il fil rouge?, 19/2/18 Francesco Farri, Dalla Corte di Giustizia UE nessuna novità sostanziale in tema di esenzione ICI per gli enti non commerciali, 09/11/18 Francesco Farri, Imposta di soggiorno alla Corte dei Conti?, 12/9/18 Francesco Farri, L’indeducibilità parziale dell’IMU dal reddito d’impresa contrasta con l’art. 3 cost., 30/7/18 Francesco Farri, Nullità degli accertamenti cartacei firmati digitalmente, 19/6/18 Francesco Farri, Statuto dei contribuenti e contraddittorio “europeo”, 31/5/18 Francesco Farri, Termini di decadenza e solidarietà tributaria: dalla Cassazione un passo indietro e uno avanti, 09/4/18 Francesco Farri, Tremonti ambiente e incentivi al fotovoltaico: errori del GSE e aporie fiscali, 27/3/18


indici

VII

Francesco Farri, Liquidazione delle dichiarazioni, obbligatorietà dell’avviso bonario e conseguenze della sua omissione, 16/3/18 Francesco Farri, Le novità fiscali del codice del terzo settore: 2. Il regime fiscale per gli enti benefici iscritti al registro, 02/3/18 Francesco Farri, Le novità fiscali del Codice del Terzo Settore: 1. il regime fiscale per gli enti benefici non iscritti al registro, 21/2/18 Francesco Farri, Le modifiche strutturali al quadro normativo del “terzo settore”, 16/2/18 Andrea Fedele, La Cassazione e l’interpretazione delle norme di agevolazione tributaria: primi segnali di un nuovo orientamento?, 20/11/18 Guglielmo Fransoni, La Cassazione e i contratti conclusi mediante scambio di corrispondenza: una soluzione di buon senso che enfatizza le criticità dell’imposta di registro, 01/8/18 Guglielmo Fransoni, Il principio della prevalenza della sostanza sulla forma nel nuovo Conceptual Framework for Financial Reporting, 23/4/18 Guglielmo Fransoni, La web tax: miti, retorica e realtà, 5/4/18 Guglielmo Fransoni, Una bella sorpresa: la nouvelle vague della Corte di Cassazione in tema di inerenza, 19/3/18 Guglielmo Fransoni, Il ritorno dell’esistenza certa e dell’obiettiva determinabilità per i soggetti IAS adopter, 06/3/18 Guglielmo Fransoni, L’elusione e la qualificazione degli atti negoziali ai sensi dell’art. 20 t.u.r. fra le vane speranze e il van dolore (del contribuente), 26/2/18 Guglielmo Fransoni, Fusione per incorporazione e prosecuzione del consolidato nazionale: considerazioni a margine di una recente risposta a interpello, 12/2/18 Guglielmo Fransoni, La Cassazione e l’art. 20 del Testo Unico dell’Imposta di Registro: fra contorsioni argomentative, moniti e scelte di campo, 01/2/18 Guglielmo Fransoni, I decreti ministeriali di coordinamento della disciplina i.re.s. e i.r.a.p. con i principi contabili internazionali: profili di legittimità, 19/1/18 Alberto Fuccio e Raffaele Villa, Spunti critici sul regime fiscale applicabile al conferimento di azienda effettuato da “stabile organizzazione” italiana, 12/11/18 Simone Ghinassi, Il chiamato all’eredità è soggetto passivo dell’imposta sulle successioni?, 20/9/18 Simone Ghinassi, Polizze assicurative ed imposta di successione, 24/5/18 Daniele Majorana, Ritenute sui dividendi distribuiti ai fondi esteri: dalla sentenza della Corte di Giustizia dubbi di compatibilità europea, 25/7/18 Vitaliano Mercurio, Sulla legittimazione del consumatore-utente finale al rimborso dell’accisa sull’energia elettrica indebitamente versata dal proprio fornitore, 06/8/18 Francesco Morra e Mirko Severi, I rapporti tra contenzioso interno e procedura arbitrale con riferimento alle rettifiche dei prezzi di trasferimento, 18/4/18 Francesco Nicolosi, Brevi osservazioni sulla nuova disciplina CFC recata dallo schema di decreto ATAD, 17/9/18 Francesco Odoardi, Il “bonus pubblicità” e il parere del Consiglio di Stato sulla bozza


VIII

indici

di decreto interministeriale: quando una “svista matematica” rischia di far emergere un aiuto di Stato, 28/6/18 Fabio Romano, Uguale validità per le firme digitali PAdES e CAdES, 07/6/18 Costantino Scalinci, Nelle liti tributarie il contributo unificato “raddoppia” soltanto in Cassazione, 16/11/18 Costantino Scalinci, La tariffa integrata ambientale, la CD. TIA 2, non sarebbe un tributo ma un corrispettivo soggetto a IVA, 26/7/18 Costantino Scalinci, Dal divieto di opporsi all’esecuzione tributaria «a valle» della cartella di pagamento emerge un incostituzionale vuoto di tutela, 06/6/18 Mario Tenore, Riflessioni sull’applicabilità del regime dei neo residenti agli sportivi professionisti, 13/7/18


In ricordo del Prof. Francesco Tesauro Con la scomparsa di Francesco Tesauro la comunità scientifica degli studiosi del diritto tributario ha perso uno dei suoi più illustri rappresentanti. Lo ricorderanno generazioni di studenti, che nel corso di decenni ne hanno seguito l’insegnamento nelle Università di Parma, Cattolica di Milano, Modena, Statale di Milano e Milano-Bicocca. Lo ricorderanno gli studiosi, che nella sua ampia e articolata Opera avranno un punto di riferimento indispensabile per le ricerche in tutti gli ambiti del diritto tributario sostanziale, procedimentale, e processuale. Lo ricordano i componenti della Direzione della Rivista, per esprimere vicinanza a familiari e allievi, e rimpianto per la perdita di un collega e amico di valore. Difficile dire in poche parole dei suoi meriti di uomo e di studioso. Il principale è da riconoscere nel tentativo di ancorare la teoria giuridica del tributo alle dottrine generali del diritto, compiuto nei suoi lavori monografici sul processo tributario (Profili sistematici del processo tributario, 1980; Lineamenti del processo tributario, 1991; Manuale del processo tributario I edizione, 2009). Oggi non è facile immaginare quanta dottrina e quanta fede nei principi ci siano volute per conquistare alle regole della giurisdizione una funzione, che occorreva liberare dai condizionamenti di una origine storica che la affidava a organi dell’amministrazione. Francesco Tesauro lo ha fatto con ferma volontà, profondendo doti che tutti gli hanno riconosciuto di limpidezza di pensiero, rigore e originalità di risultati. Della sua vasta e ricchissima produzione scientifica, e dell’apporto dato agli studi anche come direttore di collane scientifiche e di riviste, come curatore e autore, come promotore di studi e di convegni, spetterà ad altri dire, e non mancheranno occasioni. Chi ne proseguirà l’Opera, contribuirà al progresso del diritto tributario come strumento di civiltà e migliore convivenza; occorre che non vi sia giorno senza frutto e senza memoria, perché sulla disciplina giuridica dei tributi ancora molto deve essere detto. I Fondatori e la Direzione della Rivista



Dottrina

Gli atti “innominati” a contenuto patrimoniale nell’imposizione di registro: profili ricostruttivi Sommario: 1. Evoluzione della disciplina e attuale spettro applicativo della fattispecie.

– 2. Collocazione sistematica (interna ed esterna) e una prima definizione. – 3. Atti tipici rientranti nella fattispecie legale. – 4. Su alcuni, importanti atti tipici estranei alla fattispecie (fondo patrimoniale, riconoscimento di debito e promessa di pagamento). – 5. Atti di volontaria giurisdizione. – 6. Finanziamenti dei soci a favore di società. - 7. Atto di trust. – 8. Altre fattispecie concrete scrutinate da prassi e giurisprudenza. – 9. Conclusioni: dalla prima definizione alla delimitazione finale dei confini.

Nel saggio, muovendo dalle origini storiche e dal dato testuale odierno, si ricostruisce la nozione di “atti diversi da quelli altrove indicati a contenuto patrimoniale”, di cui all’art. 9, Tariffa, Parte I della legge di registro, testandola attraverso il vaglio critico di una serie di atti tipici e atipici – scrutinati, e non, da prassi e giurisprudenza – per giungere, anche alla luce dei risultati di tali disamina, a delimitarne il perimetro interno e i confini esterni. This article explores and defines the internal and external limits of the notion “atti diversi da quelli altrove indicate a contenuto patrimoniale” provided by article, 9, Tariff, Part I of the Italian registration tax code. More specifically, starting from an overview of its historical origins and of its wording, the provision at hand is examined in light of a careful and original analysis of a series of acts (both standard and non-standard) that may fall within its scope of application.

1. Evoluzione della disciplina e attuale spettro applicativo della fattispecie. – Nell’ambito dell’imposizione di registro, gli atti aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale diversi da quelli già individuati e disciplinati in specifici articoli della Tariffa o della Tabella – che, per semplicità, possiamo etichettare come atti “innominati” – trovano attualmente regola-


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Parte prima

mentazione nell’art. 9, Tariffa, Parte I, del d.p.R. n. 131/86 (1). Tale disposizione riproduce il contenuto della disciplina previgente (art. 9 del d.p.R. n. 634/72) e conserva, insieme all’art. 11 della Tariffa, Parte I (2), il carattere di fattispecie residuale attribuito alla precedente disposizione in occasione del passaggio dal r.d. n. 3269/23 al d.p.R. n. 634/73: in sede di riclassificazione per categorie di effetti giuridici degli atti elencati negli allegati al vecchio T. U., secondo i tipi previsti dal codice civile (3), i pregressi articoli 9 e 11 erano stati infatti chiamati a disciplinare, partitamente in ragione della natura patrimoniale o meno delle prestazioni pattuite, gli atti diversi da quelli già oggetto di specifica regolamentazione. Ancorché il carattere residuale determini uno spettro applicativo ampio, per non dire indefinito, la disposizione in esame non è suscettibile di accogliere gli atti societari non previsti espressamente dall’art. 4 della Tariffa, Parte I, perché, quali atti interni delle società, essi non sono soggetti ad alcuna tassazione in forza dell’art. 9 della Tabella (4), che esonera, in via generale, dall’obbligo di chiedere la registrazione gli “atti propri delle società ed enti di cui all’art. 4 della parte prima della tariffa diversi da quelli ivi indicati”. Rimangono comunque assoggettati all’art. 9 della Tariffa, con susseguente tassazione al 3 per cento, gli atti societari a contenuto patrimoniale che, in quanto realizzati da enti non commerciali o non agricoli, si collocano al di fuori del citato art. 4 (5). Ad analoghe conclusioni si dovrebbe giungere per gli atti giudiziari estra-

(1) Su tale disposizione, nella letteratura tributaria più recente, V. Mastroiacovo, Sub art. 9, Tariffa, Parte I, D.P.R. 26.4.1986, n. 131, in A. Fedele, G. Mariconda e V. Mastroiacovo (a cura di), Codice delle leggi tributarie, Torino, 2014, 518 ss. e A. Contrino, Art. 9, Tariffa, Parte I, Imposta di registro, in G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu e F. Moschetti (coordinato da), Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo IV – Iva e imposte sui trasferimenti, Padova, 2011, 1044 ss. (2) Su cui, per tutti, A.Renda, Art. 11 Tariffa, Parte I, Imposta di registro, in G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu e F. Moschetti (coordinato da), Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo IV – Iva e imposte sui trasferimenti, Padova, 2011, 1056 ss. (3) Cfr. A. Berliri, Le leggi di registro, Milano, 1961, 26 ss., nonché, per i motivi di tale cambiamento, V. Uckmar - R. Dominici, Registro (imposta di), N. Dig. It. 86, 10 ss. (4) Cfr., sul punto, Circ. Min. 10 giugno 1986, n. 37, in costanza della pregressa disciplina la questione era invece dubbia: per una rassegna delle fattispecie controverse, A. Uricchio, in N. D’Amati, La nuova disciplina dell’imposta di registro, Torino, 1989, 541 ss. (5) V. Ris. Ag. Entr. 15 aprile 2008, n. 152/E, avente ad oggetto la fusione per incorporazione tra due enti religiosi, e Ris. Ag. Entr. 18 aprile 2008, n. 162/E, riguardante un’aggregazione, assimilabile a una fusione per incorporazione, tra enti per il diritto agli studi superiori.


Dottrina

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nei all’elenco contenuto nell’art. 8 della Tariffa, Parte I, che è ritenuto tassativo dalla stessa prassi (6), ricadendo gli atti in questione – anche se a contenuto patrimoniale – all’interno dell’art. 2 della Tabella, che, con formula ampia, esclude la registrazione per gli “atti, diversi da quelli espressamente contemplati nella prima parte della tariffa, dell’autorità giudiziaria (…) e dei relativi procedimenti” (ma – come si vedrà infra – di opinione opposta è la prassi amministrativa). 2. Collocazione sistematica (interna ed esterna) e una prima definizione. – Nella sistematica del prelievo di registro l’art. 9 della Tariffa funge – come si è anticipato – da clausola residuale, con funzione di chiusura, deputata ad accogliere tutti gli atti, non previsti specificamente in altre voci, “aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”, a complemento del successivo art. 11 della Tariffa, Parte I, che attrae gli atti parimenti estranei ma “non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”. Il ruolo di chiusura di tale disposizione è presto spiegata. Si è inteso verosimilmente e condivisibilmente evitare che gli atti diversi da quelli enumerati in modo espresso, sia tipici sia atipici (7), potessero in qualche modo sfuggire al prelievo proporzionale di registro, così evitandosi una discriminazione che sarebbe stata del tutto ingiustificata sotto il profilo della ragionevolezza (artt. 3 e 53 Cost.). E ciò perché le voci della tariffa, che dovevano ritenersi “a fattispecie esclusiva” già in costanza del precedente assetto normativo, non sono suscettibili di integrazione analogica: è stata infatti espunta la vecchia norma, contenuta nell’art. 8 del r.d. n. 3269/23, che prevedeva, in caso di atto non nominativamente indicato nella tariffa, l’applicazione della “tassa stabilita dalla tariffa per l’atto col quale per la sua natura e per suoi effetti ha maggiore analogia” (8). Pur se ricadenti sotto il dominio dell’art. 9 in esame, gli atti compresi nel campo di applicazione dell’Iva sono tuttavia percossi non con l’aliquota del 3

(6) V. Circ. Ag. Entr. 9 maggio 2001, n. 45. (7) Cfr. L. Nastri, L’imposta di registro e le relative agevolazioni, Milano, 1993, 624, che parla di atti non facilmente ipotizzabili nella prassi comune, nonché M. Scarlata Fazio, Delibera concernente il compenso degli amministratori e sindaci – trattamento tributario, in Boll. trib., 1985, 1641, che fa specifico riferimento ai contratti atipici. (8) V., in merito, G. Avezza, Fondamenti di diritto positivo in tema di imposta di registro, Milano, 1939, 35.


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Parte prima

per cento, ivi prevista, bensì con l’imposizione fissa (9), in ossequio al principio di alternatività iva-registro (10). L’applicazione dell’imposta proporzionale non è invece obliterata, ma soltanto rinviata a un momento non previamente definito, per gli atti a contenuto patrimoniale ex art. 9 conclusi mediante scambio di corrispondenza, applicandosi in tale ipotesi l’art. 1 della Tariffa, Parte II, che prevede (anche) per tali atti la registrazione – e, conseguentemente, la tassazione con l’aliquota del 3 per cento – soltanto “in caso d’uso”, siccome definito nell’art. 6 del T.U.R. (11). Alla luce di quanto finora osservato – e, dunque, tenendo conto anche dello spettro applicativo e della collocazione sistematica supra delineati – è possibile fornire una prima definizione di atti “innominati” a contenuto patrimoniale sussumibili nell’art. 9, Tariffa, Parte I. Il riferimento, in tale disposizione, agli atti “diversi da quelli altrove indicati” e “aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale” – che, in modo del tutto coerente col ruolo assegnato all’art. 9 nella sistematica del tributo, è volutamente generico – risulta tale da attrarre a tassazione tutti, e solo, gli atti non nominativamente individuati né nella Tariffa (nella parte seconda l’art. 4 fa riferimento solo a taluni atti “non aventi contenuto patrimoniale”) né nella Tabella (l’espressione “altrove indicati” allarga il compasso fino a ricomprenderla), purché non rientranti nel campo di applicazione dell’Iva, che sono diretti alla realizzazione di un interesse finale (come si evince dal termine “prestazione”) (12) e suscettibili di provocare una modificazione nella sfera patrimoniale dei soggetti coinvolti che abbia una valenza economica (connotazione, questa, ritraibile dal riferimento al “contenuto patrimoniale”). 3. Atti tipici rientranti nella fattispecie legale. – In base alla definizione fornita è possibile individuare una serie di atti tipici, non menzionati espressamente in altre voci, con le caratteristiche necessarie per accedere alla qualifi-

(9) Sul punto, ancorché molto risalente, Ris. Min. 29 novembre 1973, n. 301407. (10) Su cui, nella manualistica, F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Torino, 2012, 266 e, per approfondimenti, M.P. Nastri, Il principio di alternatività tra imposta sul valore aggiunto e imposta di registro, Torino, 2012, 18 ss. (11) Nella manualistica, per tutti, P. Boria, Il sistema tributario, Torino, 2008, 750-751 (12) Cfr. A. Checchini, Prestazione, Enc. giur., 1 ss., e M. Giorgianni, Obbligazione (diritto privato), N. Dig. It. 65, 581 ss. Questo profilo non sembra valorizzato, quanto meno in modo espresso, da S. Lanzillotti - F. Magurno, Il notaio e le imposte indirette, Roma, 2004, 65 e 326.


Dottrina

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cazione di atti a contenuto patrimoniale ai sensi dell’art. 9 della Tariffa: donde l’assoggettamento al relativo prelievo proporzionale, sempreché non integrino gli estremi di un’operazione rilevante ai fini Iva. È questo il caso dell’accollo (art. 1273 c.c.), nell’ipotesi in cui sia pattuizione autonoma, rientrando invece nell’art. 21 del T.U. se costituisce clausola di un contratto più complesso, con tassazione della disposizione che dà luogo all’imposizione più onerosa (13); dell’espromissione (art. 1272 c.c.) e della delegazione di pagamento (art. 1268 c.c.), qualora non siano clausole accessorie di un più ampio contratto, nel qual caso vale quanto detto a proposito dell’accollo (14); della novazione (art. 1230 c.c.), se è di tipo soggettivo, posto che in caso di novazione per integrazione o mutamento dell’oggetto, il tributo dovrebbe essere applicabile in ragione della sua natura (15); del mutuo (art. 1813 c.c.), sempreché – diversamente da quanto accade di norma – il mutuante non sia soggetto passivo dell’Iva, nel qual caso l’imposta di registro va in misura fissa, a meno che in tale ipotesi il mutuo sia gratuito (16); la surrogazione per volontà del debitore (art. 1202 c.c.), relativamente al nuovo negozio di mutuo, che insieme a quello di quietanza (17), scaturisce dalla citata surrogazione. Ed ancora, il caso della transazione (art. 1965, 1° co., c.c.), se non vi è un trasferimento della proprietà o di diritti reali di godimento, ma solo quando

(13) Secondo Comm. trib. II grado di Bolzano 9 gennaio 2007, n. 36, gli atti con cui un soggetto si accolla a titolo gratuito un debito altrui rientrano fra le donazioni indirette. (14) V., per un caso analizzato dalla prassi, Ris. Min. 21 marzo, 1978, n. 360396. Non si condivide, pertanto, l’affermazione di L. Nastri - M. Nastri, Manuale applicativo delle imposte indirette, Milano, 1996, 242, secondo cui nei casi considerati la tassazione dipenderebbe dai rapporti che a tali figure sono connesse, che qualificherebbero la fattispecie complessa rilevante ai fini dell’attuazione del prelievo. (15) Cfr. anche S. Lanzillotti - F. Magurno, op.cit., 327. Contra A. R. Sercia - A. M. Mastrogiacomo, Manuale dell’imposta di registro, Milano, 1984, 240, che ricomprendono nella fattispecie in esame le novazioni oggettive. (16) Anche se erogato da un soggetto passivo del tributo, il mutuo gratuito non ricade nella sfera dell’Iva per difetto del presupposto oggettivo, divenendo assimilabile, quanto al trattamento ai fini dell’imposta di registro, a un mutuo concluso tra privati. Limitano l’applicabilità del regime in esame ai mutui onerosi, A. Ghini, Imposta di registro: i prestiti in denaro, in Il fisco, 1983, 942; V. Mastroiacovo, Sub. art. 9, Tariffa, Parte I, D.P.R. 26.4.1986, n. 131, cit., 522; ma in senso conforme alla conclusione raggiunta v. A. Busani, op.cit., 909, e L. Nastri, op.cit., 625. (17) Sottoposto a prelievo di registro in modo autonomo nella misura dello 0,50 per cento.


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da essa discendono obblighi di pagamento diversi dalla mera restituzione (18) e con esclusione, in ogni caso, di quelle in materia di lavoro, che sono esenti ai sensi dell’art. 10 della Tabella; della clausola penale (art. 1382 c.c.), con debenza solo se, e quando, si verifichi l’inadempimento, posto che è soltanto in tale momento che diviene efficace e produttiva dell’obbligazione assunta (19); della caparra penitenziale (art. 1386 c.c.), che è esclusa dal campo iva ai sensi dell’art. 2, 3° co., lett. a), del d.p.R. 633/72, se, e quando, avviene il recesso (20); del mandato (art. 1703 c.c.), ma solo se oneroso e, dunque, se non è contemplata una deroga all’art. 1709 c.c., ivi compreso il caso di mandato irrevocabile con obbligo di rendiconto (21); dell’adempimento del terzo di obbligo altrui (art. 1180 c.c.), salvo che l’atto negoziale non palesi gli elementi costitutivi di una donazione indiretta (22). Possono, inoltre, essere ricondotte nella fattispecie in esame: la locazione di beni mobili e unità da diporto, se non posta in essere da soggetti passivi Iva (23); la dilazione di pagamento a mezzo di rilascio di cambiali ipotecarie, laddove sia rilasciata quietanza del pagamento relativo al negozio principale, configurandosi in tale caso come un’obbligazione autonoma (24); gli acconti di prezzo non soggetti all’Iva previsti nell’ambito di un contratto preliminare

(18) Conf. Ris. Min. 14 novembre 1977, n. 251084, e, ancorché in modo non diretto, Circ. Min. 10 giugno 1986, n. 37; nonché Comm. trib. centr. 29 novembre 1993, n. 3419 e Comm. trib. centr. 5 maggio 1987, n. 4763. (19) Cfr. Ris. Ag. Entr. 16 luglio, 2004, n. 91, in applicazione analogica della disciplina degli atti sottoposti a condizione sospensiva, seguendo l’orientamento espresso in Ris. Min. 18 giugno 1990, n. 310388. (20) V., sul punto, Comm. trib. centr. 15 gennaio 1986, n. 3095, che colloca la clausola inserita in un preliminare di vendita fra gli atti soggetti a condizione sospensiva e, pertanto, soggetta all’imposta in misura fissa. Per la dottrina, R. Braccini, Caparra (dir. trib.), in Enc. Giur., 3 ss. (21) Sulle problematiche di tassazione indiretta del c.d. mandato ad alienare, v. V. Mastroiacovo, Il mandato ad alienare tra limiti ordinamentali e pregiudizi fiscali, in Riv. Trim. dir. Trib., 2018, 95 ss. (22) Su cui, nella dottrina civilistica, v., per tutti, L Gatt, Le liberalità, II, Torino, 2005, passim, e, in quella di settore, D. Stevanato, Donazione e liberalità indirette nel tributo successorio, Padova, 2000, 120 ss.; ma, anche per il rapporto con il registro come alternatività, v. A. Fedele, Le innovazioni nella legge n. 342 del 2000, le definizioni della ratio del tributo. I rapporti con l’imposta di registro, in AA.VV., L’imposta sulle cessioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, 80 ss.; e, dopo la reintroduzione del tributo successorio (in precedenza abrogato) con il D.l. n. 262/2006, convertito con modifiche dalla L. n. 286/2006, G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, Padova, 2008, 449 ss. (23) Cfr., fra gli altri, S. Gabrovec, L’imposta di registro, Verona, 2009, 128. (24) V. S. Lanzillotti - F. Magurno, op.cit., 242.


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(v. Nota all’art. 10 della Tariffa, Parte I), tanto quelli versati contestualmente quanto quelli da versare a scadenze successive; le convenzioni stipulate a vario titolo (25); il contratto di procacciamento d’affari, se stipulato per atto pubblico o scrittura privata autenticata, con tassazione al momento della conclusione dell’affare e del pagamento della somma convenuta a titolo di provvigione (26). Meritano di essere menzionati, infine, l’atto di affitto dell’unica azienda da parte dell’imprenditore individuale, dei suoi eredi o di enti non commerciali, che, determinando la perdita dello status di soggetto passivo Iva, comporta la fuoriuscita dell’operazione dalla sfera di quest’ultimo tributo e l’ingresso in quella dell’imposta di registro, con riconduzione anche di quest’atto negoziale nella fattispecie residuale in esame (27); e, per altro verso, la rinuncia a un’azione giudiziale già promossa o agli effetti di una sentenza che ha pronunciato a favore di una delle parti (ad esempio, la revocazione di un atto ai sensi dell’art. 2901 c.c.), qualora oggetto di una specifica pattuizione tra le parti che preveda, a fronte della rinuncia, il pagamento di un corrispettivo. 4. Su alcuni, importanti atti tipici estranei alla fattispecie (fondo patrimoniale, riconoscimento di debito e promessa di pagamento). – Vi sono taluni atti tipici, non contemplati da altre voci, che non sembrano invece collocabili – attingendo sempre alla definizione tratteggiata all’inizio – tra gli atti “innominati” aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale, con conseguente riconducibilità nella complementare fattispecie residuale di cui all’art. 11 della Tariffa.

(25) Come quelle relative, ad esempio, a costruzione su fondo altrui (v. Cass., sez. I, 1 marzo 1988, n. 2139); a lottizzazioni edilizie (cfr. Comm. trib. centr. 21 gennaio 1987, n. 2331, ma v. anche Nastri, op. cit., 626, secondo cui si applica l’art. 11 della Tariffa, Parte I, se l’asservimento del terreno è vantaggio di altro terreno dello stesso proprietario, o l’art. 1 della medesima Tariffa, quale servitù di non edificare, se a favore di terreni di proprietà di terzi); a rinnovazione di titoli cambiari (v. Cass. sez. trib., 26 marzo 2003, n. 4431); ad assunzione di un obbligo di permettere l’istallazione di antenne telefoniche a fronte di un corrispettivo (v. Ris. Ag. Entr. 8 maggio 2007, n. 90); a costruzione di sottovie pedonali (v. Ris. Min. 5 maggio 1982, n. 251214); a gestione di scuole parificate (v. Ris. Min. 31 marzo 1977, n. 250141); a esercizio di ferrovie e rinuncia a titolo oneroso a un diritto di natura obbligatoria (v. Ris. Min. 9 agosto 1982, n. 251015, e, in precedenza, Ris. min. 5 giugno 1975, n. 300087). (26) V., ancora, S. Lanzillotti - F. Magurno, op.cit., 342. (27) Salvo che, come correttamente puntualizzato da M.P. Nastri, L’affitto d’azienda, Milano, 2010, 78, siano pattuiti canoni distinti per i beni immobili, nel qual caso tali canoni sconteranno l’aliquota del 2 per cento.


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Parte prima

È questo il caso della costituzione del fondo patrimoniale (art. 167 c.c.), fattispecie per cui l’applicabilità dell’art. 9 in esame va esclusa sia nell’ipotesi in cui il costituente non si riservi la proprietà dei beni conferiti sia in quello in cui il costituente se la riservi, con riconduzione in ogni caso all’interno della categoria residuale degli atti di cui all’art. 11 della medesima Tariffa, Parte I, con tassazione in misura fissa (28). Ed infatti, nella prima ipotesi vi è l’assenza di uno scambio di prestazioni tra i coniugi in un sinallagma economicamente rilevante, meramente vincolandosi i beni conferiti, con l’atto di costituzione, al soddisfacimento dei bisogni della famiglia; nella seconda ipotesi, poi, al mutamento di regime giuridico non si accompagna un’attribuzione patrimoniale a favore di altri, continuando i beni ad appartenere ai costituenti e configurando gli eventuali effetti economici un riflesso indiretto del mutamento del regime giuridico del bene e non la prestazione dovuta. Dovendosi escludere in entrambe le ipotesi, ancorché per ragioni diverse (29), l’applicabilità dell’art. 3 della Tariffa, Parte I, la costituzione del fondo patrimoniale va in ogni caso incasellata nell’art. 11 della Tariffa, Parte I, tenendo presente che per la prassi amministrativa si applica il tributo successorio alla costituzione del fondo con effetto anche traslativo (prima ipotesi) e a quella effettuata da un terzo che si riservi la proprietà dei beni (30). Nonostante talune opinioni di segno contrario (31), e nel silenzio dell’attuale normativa (32), non dovrebbero essere sussumibili nell’art. 9 della Tariffa,

(28) Cfr. A. Contrino, Note sulla nozione di “atto di natura dichiarativa” nel tributo di registro, in Rass. trib., 2011, 662 ss.; sul tema, più di recente, V. Mastroiacovo, Sub art. 3, Tariffa, Parte I, D.P.R. 26.4.1986, n. 131, in A. Fedele - G. Mariconda - V. Mastroiacovo (a cura di), Codice delle leggi tributarie, op.cit., 465 ss. (29) In ispecie perché: nella prima ipotesi la vicenda modificativa non presenta affatto natura meramente dichiarativa, trattandosi di atto che – lungi dall’essere privo di effetti modificativi, estintivi o costitutivi di una situazione giuridica preesistente – configura una destinazione oggettivamente e teleologicamente vincolata di un complesso di beni a un fine specifico; nella seconda ipotesi l’effetto dell’atto di costituzione del fondo non è apprezzabile quale mero rafforzamento, affievolimento o mera specificazione della situazione giuridica preesistente, essendo istitutivo di un regime giuridico diverso dal precedente. (30) Cfr. Circ. Ag. Entr. 22 gennaio 2008, n. 3, e Circ. Min. 30 novembre 2000, n. 221. (31) V. Ris. Min. 30 marzo 1984, n. 241239 e, più di recente, B. Iannello - A. Montesano, Imposte di registro, ipotecaria e catastale, Milano, 2010, 558, e S. Lanzillotti - F. Magurno, op.cit., 326, ma senza argomentare. Su questo specifico tema, anche per le diverse soluzioni possibili, cfr. V. Pappa Monforte, La ricognizione del debito nell’imposta di registro, in Notariato, 2011, 232 ss., nonché, più di recente, P. Puri, Evoluzioni giurisprudenziali in tema di tassazione ai fini del registro del riconoscimento del debito, CNN – Studio n. 118-2018/T. (32) La legge di registro del 1923 ne prevedeva, invece, l’espressa tassazione nella


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Parte I, neanche la ricognizione del debito (art. 1988 c.c.) e la promessa di pagamento, che appaiono preferibilmente da inquadrare, ancora una volta, nella complementare clausola residuale, con funzione parimenti di chiusura, recata dall’art. 11 della Tariffa, Parte I, ovvero, se veicolate in “scritture private non autenticate non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”, nell’art. 4 della Tariffa, Parte II, che prevede la registrazione “in caso d’uso” e, analogamente al citato art. 11, l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa. Nel prevedere che la promessa di pagamento o la ricognizione di un debito dispensi colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale, l’art. 1988 c.c. presuppone l’esistenza di una situazione incerta che il debitore intende eliminare, con effetto retroattivo, mediante un atto che non costituisce fonte di obbligazione, poiché l’obbligazione sottostante alla dichiarazione del debitore è già esistente, né modifica o estingue tale obbligazione, limitandosi a dispensare il creditore dall’onere di provare il rapporto sottostante (c.d. astrazione processuale) (33). Ma se è così, la ricognizione del debito non pare riconducibile in seno all’art. 9, della Tariffa, Parte I, non foss’altro perché l’atto in questione non determina una modificazione nella sfera patrimoniale delle parti coinvolte economicamente apprezzabile (34), configurando, in sostanza, una mera dichiarazione di scienza che, in quanto tale, va ricompresa tra gli atti di cui all’art. 11, della Tariffa, Parte I, da tassare

misura dell’1,5 per cento, sempreché – come chiosava A. Berliri, Le leggi del registro, cit., 224 – il debito non fosse stato oggetto di precedenti atti sottoposti a registrazione, nel qual caso si doveva applicare la misura fissa per evitare duplicazioni di imposta. (33) Nella giurisprudenza di legittimità, v., fra le altre, Cass., 13 giugno 2014, n. 13506 e Cass. 14 febbraio 2012, n. 2014. (34) Cfr. Cass. sez. trib., 20 giugno 2008, n. 16829, Cass., sez. trib., 28 maggio 2007, n. 12432 e Comm. trib. prov. di Alessandria, 7 luglio 2010, n. 119; ma, in precedenza, anche Comm. trib. Reg. Puglia, 27 giugno 2006, n. 36. Va, dunque, respinta la diversa conclusione cui è pervenuta la Cass., sez. trib., 12 novembre 2014, n. 24107, annotata criticamente, sotto questo e altri profili, da M. Basilavecchia, Tassabilità della ricognizione del debito: dubbi e risvolti processuali, in GT - Riv. giur. trib., 2015, 212, la quale, senza approfondire più di tanto, ha concluso a favore della riconducibilità dell’atto ricognitivo nell’art. 9 in esame sulla base della mera e presunta difficoltà di escludere un contenuto patrimoniale all’atto di ricognizione del debito. La soluzione qui sostenuta è, invece, accolta dalla recente ordinanza Cass. sez. trib., 11 gennaio 2018, n. 481, ove i giudici di legittimità hanno escluso l’applicabilità dell’art. 9 della Tariffa, Parte I, e ritenendo applicabile l’imposta in misura fissa di Euro 200, ai sensi dell’art. 4 della Tariffa, a una ricognizione di debito enunciata in un decreto ingiuntivo, la cui operazione sottostante era già stata assoggettata a Iva (quest’ultima circostanza – come si dirà subito nel testo – non è determinante ai fini della soluzione sostenuta); nella giurisprudenza di merito, nel medesimo senso, fra le altre, Comm. trib. Reg. Lazio, 13 maggio 2014, in Notariato, 2015, 443 ss.


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solamente con imposta fissa (35), consentendo una tassazione razionale al cospetto del principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost. Si consideri, peraltro, che, in chiave sistematica, l’art. 30, comma 1, della legge di registro prevede l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa per gli atti di “ratifica”, di “convalida” e di “conferma”, locuzione, questa, che – secondo la migliore dottrina – va intesa non in un’accezione ristretta e, dunque, riferibile soltanto alle ipotesi marginali in cui la legge ammetta la confermabilità dell’atto nullo (art. 590 e art. 799 cod. civ.), bensì in un’accezione lata e tale da ricomprendere “tutti i casi in cui gli effetti di un atto sono esplicitamente ribaditi e confermati attraverso un secondo atto, sussista o meno una ragione di invalidità o inefficacia del primo atto” (36). Nella prospettiva considerata, inoltre, è irrilevante la circostanza che l’operazione sottostante sia già stata assoggettata a Iva (da cui, in ragione del principio di alternatività, l’obbligatoria applicazione dell’imposta di registro in misura fissa), in quanto il riconoscimento alla ricognizione di debito della natura di mera dichiarazione di scienza, produttiva di effetti soltanto sul piano processuale e probatorio, è condizione necessaria e sufficiente per escludere anche nei predetti casi la tassazione in misura proporzionale ex art. 9 della Tariffa, Parte I: donde, ad esempio, l’applicabilità del tributo di registro in misura fissa anche nei casi di riconoscimento di debito nell’ambito degli accordi predisposti in esecuzione degli strumenti di composizione della crisi d’impresa, e ciò senza dubbio alcuno nel caso di rapporti creditizi esenti Iva ma comunque soggetti al principio di alternatività Iva-Registro (37). La stessa conclusione, mutuando le predette argomentazioni, dovrebbe valere per la promessa di pagamento, che, al pari della ricognizione di debito,

(35) Conf. V. Uckmar - R. Dominici, op. cit. 106, A. Busani, op. cit., 972; e L. Nastri - M. Nastri, op. cit., 241, quando affermano che, “qualora si tratti di atto di natura puramente dichiarativa, potrà essere assoggettato ad imposta fissa”. Non dovrebbe essere equiparabile a una ricognizione di debito l’atto notarile che preveda esclusivamente l’assenso alla iscrizione di una ipoteca, configurando un’ipotesi non tanto di creazione o di rafforzamento della prova relativamente all’esistenza di una obbligazione quanto di rafforzamento della garanzia di una obbligazione già esistente. (36) Così, M. Basilavecchia, Art. 30, Imposta di registro, in G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu e F. Moschetti (coordinato da), Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo IV – Iva e imposte sui trasferimenti, op.cit., 823 ss. (37) Cfr., a quest’ultimo proposito, Ris. Min., 7 ottobre 1998, n. 152/E. Al termine della sua indagine conclude nello stesso senso anche P. Puri, Evoluzioni giurisprudenziali, cit., 7.


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è scevra di conseguenze sul piano sostanziale e latrice soltanto della c.d. astrazione processuale (38), e, più in generale, per tutti gli atti o negozi di stampo “ricognitivo”, ove si confermi la sussistenza di una situazione giuridica preesistente, e non incerta, che non viene, dunque, oltre che innovata, neanche modificata o estinta per effetto dell’atto ricognitivo (39). 5. Atti di volontaria giurisdizione. – Gli atti di volontaria giurisdizione non sono sussumibili nell’art. 8 della Tariffa, Parte I, fuoriuscendo dalla sfera applicativa di tale disposizione tutti gli atti che non sono riconducibili alla giurisdizione contenziosa in materia civile (40), da cui esulano – appunto – quelli in esame (41). Come conseguenza, i suddetti provvedimenti dovrebbero ricadere nella fattispecie di cui all’art. 2 della Tabella, che fa riferimento, con formula ampia, agli “atti, diversi da quelli espressamente contemplati nella prima parte della tariffa, dell’autorità giudiziaria in sede civile e penale (…) e dei relativi procedimenti” (42), con esclusione dell’obbligo di registrazio-

(38) Osserva A. D’Angelo, Le promesse unilaterali, Dig. It. 97, 427, che l’assimilazione delle due figure e l’identità degli effetti previsti dall’art. 1998 c.c. suggerisce di considerarle come differenti formule verbali dell’affermazione del vincolo che entrambe esprimono. Più in là nel tempo, v., anche, C. Furno, Promessa di pagamento e ricognizione di debito (a proposito dell’art. 1988 cc.), in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 1950, 91 ss. (39) Come, ad esempio, nei casi di avvenuta verificazione di una condizione o del suo definitivo mancamento; l’avvenuta compensazione ex art. 1243 cod. civ., di una reciproca situazione di credito/debito; l’avvenuta surrogazione ex lege ai sensi dell’art. 1203 cod. civ.; l’avvenuta risoluzione di un contratto per inadempimento di uno dei contraenti; l’elencazione delle proprietà immobiliari di una società incorporata o scissa alla fine dell’esecuzione della pubblicità dell’atto di fusione o di scissione nei registri immobiliari; la venuta ad esistenza del “bene futurp” che, come tale, era stato fatto oggetto di compravendita; l’atto ricognitivo di un pegno su quote di società che acclari il trasferimento del pegno in caso alla società risultante dalla fusione in caso di fusione c.d. propria; l’atto ricognitivo di ipoteca che acclari l’iscrizione dell’ipoteca a nome della soceità risultante dalla trasformazione: cfr., anche per i riferimenti giurisprudenziale e di prassi, A. Busani, La tassazione degli atti “dichiarativi”, “ricognitivi” e “di accertamento”, in Corr. Trib., 2017, 3705-3706. Alla luce della definizione generale fornita nel testo, e della casistica appena riportata, non può configurare un’ipotesi di atto meramente ricognitivo il riconoscimento di debito finalizzato all’estinzione dell’obbligazione mediante datio in solutum e, più in generale, con modalità diverse dall’adempimento (come, ad esempio, la compensazione), perché in tali casi l’atto non è neutro, ma – come giustamente evidenziato da P. Puri, Evoluzioni giurisprudenziali, cit., 5-6 – funzionale alla produzione di altri effetti giuridici. (40) Cfr. V. Uckmar - R. Dominici, op. cit., 121. (41) V., per tutti, le tradizionali, autorevoli osservazioni di G. A. Micheli, Per una revisione della nozione di giurisdizione volontaria, Riv. dir. proc., 1947, I, 43 e S. Satta, Diritto processuale civile, Padova, 1959, 597. (42) Conf. A. Uricchio, op. cit., 541, e B. Iannello - A. Montesano, op.cit.,, 564;


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ne e di susseguente tassazione (a meno che non intervenga la registrazione volontaria) (43). Diverso, in merito, è l’orientamento della prassi amministrativa, che, facendo leva sul carattere lato ed estensivo della sua formulazione, ha ritenuto che l’art. 9 sia suscettibile di ricomprendere anche gli atti giudiziari che hanno un oggetto patrimoniale, limitando l’ambito di applicazione dell’art. 2 della citata Tabella ai soli provvedimenti giudiziari che, oltre a non essere specificamente previsti nell’art. 8 della Tariffa, Parte I, non hanno nemmeno per oggetto prestazioni di carattere patrimoniale. È così giunta a sancire la tassabilità con aliquota del 3 per cento del provvedimento di concessione di un’equa indennità al tutore, previsto dall’art. 379, 2° co., c.c., e dell’atto di liquidazione del compenso al curatore dell’eredità giacente (44), nonché, ripercorrendo lo stesso iter argomentativo, i provvedimenti relativi alle procedure di opposizione al decreto di pagamento del compenso al difensore e agli ausiliari del magistrato che hanno prestato la loro opera nell’interesse del procedimento giudiziario, sempreché si tratti – naturalmente – di prestazioni di servizio non rese nell’esercizio di un’attività lavoro autonomo ai sensi dell’art. 5 del decreto iva (45). Tale ricostruzione, con la conseguente conclusione, va respinta. Occorre rilevare innanzitutto che – come evidenziato all’inizio – la lettera dell’art. 9 menziona gli atti a contenuto patrimoniale “diversi da quelli altrove indicati”, mostrando di non limitare il riferimento, ai fini della definizione del perimetro applicativo della disposizione, agli atti non nominati in altre voci della tariffa, ma di accogliere – si deve ritenere – anche quelli non indicati nella tabella: ergo, gli atti menzionati nelle voci della tabella, e dunque anche quelli individuati dall’art. 2 della stessa, sono esclusi dalla sfera di applicazione dell’art. 9 ma anche del complementare art. 11. E la prassi amministrativa erra nel ritenere che l’art. 2 sia passibile di accogliere solo i provvedimenti giudiziari estranei all’art. 8 e privi di contenuto patrimoniale, postulando la riconduzione di quelli aventi tale contenuto nell’art. 9, in ragione del suo carattere residuale: se tale ragionamento fosse vero, i provvedimenti giudiziari estranei all’art. 8 e privi di contenuto patrimo-

contra L. Nastri, op. cit., 625. (43) V., sul punto, R. Dominici, Brevi note sulla registrazione volontaria, in Dir. prat. trib., 1985, II, 78 ss. (44) Cfr. Ris. min. 7 giugno 1988, n. 220660. (45) V. Ris. Ag. Entr. 21 settembre 2007, n. 260.


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niale dovrebbero rientrare nell’art. 11, che – come più volte ripetuto – reca la fattispecie residuale complementare rispetto a quella dell’art. 9, con la conseguenza assurda di svuotare di contenuto il citato art. 2 della tabella. A ciò – se ve ne fosse bisogno – si può ulteriormente aggiungere che la stessa prassi amministrativa ha riconosciuto che “l’articolo 8 della tariffa parte prima del testo unico, alle lettere dalla a) alla g), reca un’elencazione tassativa degli atti soggetti a registrazione” (46): orbene, se la si legge linearmente a contrario, l’affermazione permette di ricavare che tutti gli atti diversi da quelli tassativamente indicati nell’art. 8 non sono soggetti a obbligo di registrazione, conclusione, questa, che è niente altro se non il contenuto correttamente interpretato della disposizione recata dall’art. 2 della tabella. 6. Finanziamenti dei soci a favore di società. – In costanza dell’assetto normativo recato dal d.p.r. n. 634/73, il tema dei versamenti soci a favore della società è stato oggetto di accese dispute quanto trattamento ai fini dell’imposizione di registro, non essendo nettamente definiti i rapporti fra l’art. 4 della Tariffa, Parte I, relativa agli atti societari, e la disposizione residuale di cui all’art. 9 (47). Tali dispute si sono in parte sopite con l’avvento del d.p.r. n. 131/86, col quale è stato chiarito che tutti gli atti societari non specificamente indicati nell’art. 4 della Tariffa, Parte I (la cui prima nota esplicativa considerava espressamente conferimenti di denaro, in quanto tali sottoposti a prelievo proporzionale di registro con aliquota dell’1 per cento, i versamenti in conto capitale o a fondo perduto fatti dai soci) non erano soggetti, quali atti interni della società, ad alcuna tassazione (48), prevedendo adesso l’art. 9 della Tabella l’esclusione dell’obbligo di registrazione per gli atti diversi da quelli indicati nel summenzionato art. 4. Non sono, tuttavia, mancate distinzioni da parte della dottrina, che ha considerato, ad esempio, atto di natura societaria estraneo all’art. 4, e in quanto

(46) V. Circ. Ag. Entr. 9 maggio 2001, n. 45. (47) V., fra gli altri, S. Dus, I versamenti in conto capitale ai fini del tributo di registro, in Rass. trib., 1978, III 616 ss.; F. Carbonetti, I versamenti dei soci a copertura di perdite e la deliberazione prevista dall’art. 64, ult. comma, del decreto Irpef, in Dir. prat. trib., 1979, II, 1611 ss.; P. Ferro-Luzzi, I versamenti in conto capitale, in Giur. Comm., 1981, II, 895 ss., e P. Pacitto, Società di capitali: profili applicativi dell’imposta di registro sui versamenti a copertura di perdite di esercizio, in Riv. dir. fin, 1985, I, 302 ss. (48) Cfr. Circ. Min. 10 giugno 1986, n. 37.


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tale non tassabile in forza del citato art. 9 della Tabella, la delibera che dispone versamenti da parte dei soci non imputati a capitale, con obbligo di restituzione e proporzionali alle quote possedute da ciascuno (49); e atto non societario, conseguentemente escluso dalla sfera dell’art. 9 della Tabella, il versamento effettuato solo da alcuni soci o comunque in misura non proporzionale alle quote rispettivamente possedute, con conseguente collocazione di tale fattispecie nella categoria residuale di cui all’art. 9 della Tariffa, Parte I (50). Invero, l’attuale assetto normativo non sembra legittimare l’effettuazione di alcuna distinzione, configurando il finanziamento soci, fruttifero o meno, nient’altro che un mutuo, il quale – come già detto – è un negozio tipico che si colloca all’interno del perimetro applicativo dell’art. 9 della Tariffa, Parte I, con conseguente applicazione della relativa aliquota del 3 per cento. Ciò – s’intende – a condizione che il socio finanziatore non agisca nell’esercizio di un’impresa, arte o professione ai sensi degli artt. 4 e 5 del d.p.R. 600/73, dovendosi in caso contrario sceverare in funzione dell’onerosità o meno del finanziamento. Se fruttifero, il finanziamento rientrerà tra le operazioni esenti di cui all’art. 10, 1° co, n. 1, del decreto Iva, con applicazione, in forza del principio di alternatività, dell’imposta di registro nella misura fissa; se infruttifero, il finanziamento continuerà invece a soggiacere al tributo di registro nella misura del 3 per cento, non potendosi nella specie configurare, pur trattandosi di un prestito di denaro, una prestazione di servizi rilevante ai fini iva (perché non effettuata verso un corrispettivo e neanche per finalità estranee all’esercizio dell’impresa) (51). Non sono naturalmente finanziamenti, ossia prestiti di denaro, i versamenti dei soci in conto capitale o a fondo perduto, che, determinando un incremento del patrimonio della società al di fuori di una delibera di aumento di capitale sociale, si collocano nella sfera dell’art. 9 della Tabella e non sono conseguentemente sottoposti a prelievo di registro. Un orientamento conforme a tale ricostruzione è riscontrabile nella giurisprudenza di merito e di legittimità. Per la prima, “i finanziamenti dei soci non sono atti societari propri, perché non rientrano nella tassativa elencazione della legge (art. 4 della Tariffa). Nella sostanza sono prestiti di denaro, per i

(49) Cfr. A. Uricchio, op. cit., 543. (50) V. G. Ossola - A. Calcagni, Testo Unico dell’imposta di registro. I versamenti fruttiferi e infruttiferi dei soci, in Il fisco, 1986, 652 ss. (51) In argomento, con riguardo ai finanziamenti tra imprese consociate, v. S. Paci, I finanziamenti tra imprese consociate: gli obblighi fiscali e le possibili conseguenze della mancata esibizione dei contratti nel corso di ispezione fiscale, in Il fisco, 2005, 6168 ss.


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quali è previsto l’obbligo della restituzione (…); essi vanno quindi distinti dai versamenti dei soci in conto capitale o a fondo perduto (…); ai finanziamenti dei soci, onerosi o meno, si applica invece l’imposta proporzionale con l’aliquota del 3 per cento (…) come previsto dall’art. 9” (52). La seconda ha sancito, seppur in applicazione dell’istituto dell’enunciazione (art. 22, 1° co.), l’applicabilità del tributo di registro nella misura del 3 per cento ai sensi dell’art. 9 della Tariffa, Parte I, a un finanziamento soci, già inserito tra le poste passive del bilancio, che era stato enunciato in un atto di ripianamento delle perdite mediante abbattimento del capitale sociale e sua ricostituzione mediante rinuncia dei soci ai finanziamenti effettuati in precedenza, e ciò a prescindere dall’effettivo uso dello specifico finanziamento enunciato (53), in quanto ritenuto irrilevante, una volta constatata la sussistenza degli elementi costitutivi della enunciazione di cui al citato art. 22, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro (54). 7. Atto di trust. – La questione delle imposte indirette applicabili all’atto di trust (intendendo con tale espressione il documento che racchiude contemporaneamente i negozi costitutivo e dispositivo, circostanza, questa, che non è sempre vera; anzi, è più frequente l’ipotesi di autonomi negozi dispositivi che seguono l’altrettanto autonomo negozio istitutivo; vi è sempre coincidenza, invece, nel caso di trust mortis causa o autodichiarati) è stata una delle più dibattute e controverse sia in dottrina che in giurisprudenza, insieme a quella della tassabilità dei redditi prodotti dai beni costituiti in trust (55), ciò almeno

(52) Così, Comm. trib. prov. di Salerno, 2 febbraio 2010, n. 4. (53) V. Cass. sez. trib., 30 giugno 2010, n. 15585, e, in precedenza, Comm. trib. I grado di Bolzano, 1 febbraio 2002, n. 5. (54) Su cui, se si si vuole approfondire, v. G. Fransoni, Appunti sull’enunciazione nell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., 2017, 175 ss. (55) V., per tutti, A. Fantozzi, La soggettività del trust, in E. Barla De Guglielmi (a cura di), Trust: opinioni a confronto, Milano, 2006, 159, e, in precedenza, V. Ficari, Il trust nelle imposte dirette (IRPEG ed IRAP): un articolato modulo contrattuale oppure un autonomo soggetto passivo?, in Boll. trib., 2000, 1526 e F. Paparella, Trust e interposizione fittizia nella disciplina delle imposte sui redditi, in Il fisco, 1996, 4812; dopo l’introduzione – con la “Finanziaria 2007” (art. 1, co. da 74 a 76, l. n. 296/2006) – della nuova disciplina in materia di imposizione su redditi, G. Fransoni, La disciplina del trust nelle imposte dirette, in Riv. dir. trib., 2007, I, 227 ss. e E. Della Valle, Luci e ombre della Circolare sui trust: le imposte sui redditi, in Riv. dir. trib., 2007, II, 724 ss.; più di recente, T. Tassani, I Trusts nel sistema fiscale italiano, Pisa, 2012, 41 ss.; S. Buttus, Il trust nel sistema dell’imposizione sui redditi, in Inn. Dir., 2012, 60 ss. e A. Contrino, Trust (imposte dirette), in Dig. disc. priv. sez. comm.,


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fino alla reintroduzione – con l’art. 2, commi da 47 a 50, del d.l. n. 262/06 – del tributo successorio nell’attuale, rinnovata veste, che ricomprende tra i presupposti applicativi la costituzione dei “vincoli di destinazione”. In una prima fase, anteriore alla l. n. 383/2001, vi era una contrapposizione non soltanto fra i sostenitori della tesi a favore dell’imposta sulle donazioni (56) e quelli a favore dell’imposta di registro (57), ma anche, in seno a ciascun gruppo, quanto all’inquadramento e al conseguente trattamento da riservare alla fattispecie. All’interno del primo, alcuni ritenevano dovuto il tributo nella misura proporzionale, a prescindere dalla natura dei beni o diritti trasferiti col trust, in quanto atto rientrante nella fattispecie residuale di cui all’art. 9 della Tariffa, Parte I (58) ovvero in quanto assimilabile per effetti a un mandato senza rappresentanza (59); altri ritenevano invece dovuto il registro nella misura fissa (60). All’interno del secondo gruppo, è stata esplorata la possibilità di applicare estensivamente le disposizioni in materia di donazione modale o condizionata (61), di fare ricorso alle figure del mandato a donare o della donazione fiduciaria (62), con finale affermazione dell’orientamento interpretativo che ravvisava nei trust liberali inter vivos una vera e propria “liberalità diversa

Agg.********, Torino, 2017, 492 ss. (56) V., fra gli altri, G. Gaffuri - F. M. Albertini, Disciplina fiscale dei trusts: costituzione e trasferimento dei beni, in Boll. trib., 1995, 1704, e, in giurisprudenza, Comm. trib. prov. di Treviso, 29 marzo 2001, n. 27. (57) V., per tutti, A. Fedele, Visione d’insieme della problematica interna, in I. Beneventi (a cura di), I trusts in Italia oggi, Milano, 1996, 284, e, in giurisprudenza, Comm. trib. prov. di Lodi, 5 novembre 2001, n. 135. (58) Cfr. A. Fedele, op.loc.ult.cit.; F. Gallo, Trusts, interposizione ed elusione fiscale, in I Beneventi (a cura di), op. cit., 298, e M. Lupoi, Trusts, Milano, 2002, 617-618, nonché Comm. trib. prov. di Lodi, 5 novembre 2001, n. 135, cit. (59) Cfr. A. Giovannini, Trust e imposte sui trasferimenti, in Rass. trib., 2000, 1111. (60) V. L. De Angelis, Questioni di diritto sostanziale e tributario connesse al riconoscimento del trust nell’ordinamento italiano: lacune normative e prospettive di regolamentazione, in V. Uckmar (coordinato da), Corso di diritto tributario internazionale, Padova, 2002, 581-582. (61) V., per la prima, G. Gaffuri - F. M. Albertini, op.ult.cit., 1706, e G. Palumbo, Profili tributari dei “common law trusts”, in Riv. dir. trib., 1995, I, 210; per la seconda, A. Giovannini, op. cit., 1118. (62) Ma tale possibilità è stata esclusa: v. D. Stevanato, Donazioni e liberalità indirette nel tributo successorio, cit., 178-179, e F. Pistolesi, La rilevanza impositiva delle attribuzioni liberali realizzate nel contesto dei trusts, in Riv. dir. fin., 2001, I, 151-152.


Dottrina

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dalla donazione” o – detto in altri termini – una “donazione indiretta” (63), orientamento poi confermato – con risoluzione a favore del tributo sulle donazioni del contrasto dianzi esplicitato – dall’art. 69 della l. n. 342/00 (64), che aveva elevato espressamente a presupposto dell’imposta anche le c.d. “liberalità indirette”, a prescindere dalla formalizzazione in un atto scritto (65). In una seconda fase, quella successiva alla l. n. 383/01, che ha sancito la soppressione del tributo successorio ma mantenuto – in certi casi e a determinate condizioni – il prelievo sulle donazioni con applicazione mediante rinvio delle imposte indirette applicabili agli atti onerosi, si è registrata una nuova contrapposizione. Alcuni, ritenendo comunque espunte le “liberalità indirette”, propendevano per un apprezzamento isolato dei negozi posti in essere nell’ambito del trust e l’applicabilità del registro in misura diversa in ragione della specifica tipologia del bene trasferito e, in via residuale, l’aliquota del 3 per cento prevista dall’art. 9 della Tariffa, Parte I (66). Altri, sul contrario presupposto della persistenza delle “liberalità indirette”, ritenevano le vicende negoziali del trust apprezzabili in termini unitari e applicabile il tributo successorio soltanto all’atto del trasferimento finale del patrimonio dal trustee ai beneficiari, con pagamento nel primo passaggio dal settlor al trustee dell’imposta di registro ai sensi dell’art. 11 della Tariffa, Parte I (67): per questi ultimi, in sostanza,

(63) Cfr. D. Stevanato, op. ult. cit., 187; F. Pistolesi, op. cit., 153-154, e A. Giovannini, Problematiche fiscali del trust, in Boll. trib., 2001, 1126. (64) Su questa prima riforma del tributo, v., per tutti, G. Marongiu, La riforma dell’imposta sulle successioni e donazioni, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, 2001, 14 ss. (65) V. R. Lupi, Le liberalità non formalizzate nella riforma del tributo successorio, in Rass. trib., 2001, 330; G. Gaffuri, Le liberalità informali, in AA.VV., L’imposta sulle successioni, op. ult. cit., 285 – 287. (66) V. E. Nuzzo, E fu luce sul regime fiscale del trust, in Banca e Borsa, 2002, 266 e, limitatamente ai trust discrezionali, C. Monaco, Trust: fattispecie ed effetti fiscalmente rilevanti, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2002, I, Riv. dir. fin., 2002, 697-698 e S. Cipollina, I confini giuridici nel tempo presente. Il caso del diritto fiscale, Milano, 2003, 195. (67) Cfr. R. Dominici, Brevi note sull’incidenza della soppressione dell’imposta sulle successioni e donazioni con riguardo alle imposte indirette gravanti sui conferimenti in trust, in Fiducia e Trust, 2002, 26; F. Montanari, Trusts interni disposti inter vivos e imposte indirette: considerazioni civilistiche e fiscali a margine di un rilevante dibattito dottrinale, in Dir. prat. trib., 2002, I, 384; A. Contrino, Trusts liberali e imposizione indiretta sui trasferimenti dopo le modifiche (L. n. 383/2001) al tributo sulle donazioni, in Rass. trib., 2004, 434, e A. Contrino – R. Lupi, Il trust “liberale” e l’imposta sulle donazioni, in Dialoghi di dir. trib., 2004, 457 ss.; più di recente, anche per una ricognizione generale, v. T. Tassani, Il trust nel sistema fiscale


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sussisteva non un trasferimento “a perfezionamento progressivo”, con un duplice momento di rilevanza ai fini dell’imposizione di registro, bensì una vera e propria “liberalità indiretta” assoggettabile all’imposta sulle donazioni (68). La prima tesi è stata accolta dalla giurisprudenza di merito (69), ma con una motivazione priva di argomenti circa la portata della fattispecie delle “prestazioni a contenuto patrimoniale”, di cui all’art. 9 in esame, che ne avrebbe dovuto giustificare l’applicazione a un trust di stampo liberale come quello oggetto di giudizio: nella specie, a prescindere dal requisito della “patrimonialità”, mancava invero una “prestazione” rilevante ai sensi della citata disposizione. La seconda tesi è stata accolta – oltre che nelle due pronunce della commissione provinciale vicentina riformate dalla summenzionata sentenza e in altra decisione della commissione provinciale bresciana (70) – in altre due sentenze tributarie di appello, temporalmente precedenti, con argomentazioni lucide e chiare (71): nell’ultima, in particolare, valorizzando l’assenza del connotato della “patrimonialità” (nella specie si trattava di un trust discrezionale) è stata negata la pretesa riconduzione dell’atto di trust nel novero delle “prestazioni a contenuto patrimoniale” di cui all’art. 9 della Tariffa, Parte I, sull’ineccepibile premessa che “né dall’atto è dato rilevare un qualsiasi altro trasferimento di ricchezza ai beneficiari” e altrettanto ineccepibile conclusione che “nessuna operazione avente carattere patrimoniale può dirsi effettuata con l’atto in questione” (72). Quanto all’Amministrazione finanziaria, l’orientamento è stato ondivago. Ed infatti, la prassi favorevole all’applicazione del tributo nella misura del 3 per cento, ai sensi dell’art. 9 della Tariffa, Parte I (73), si è affermata nella seconda delle due fasi dianzi esplicitate, ossia quando – per effetto dell’art. 13

italiano, op.cit., 137 ss. (68) Cfr. A. Contrino, Il trasferimento di immobili in un trust liberale è soggetto a imposizione proporzionale di registro: note critiche su un recente arresto giurisprudenziale veneto (e sull’ondivaga posizione del fisco), in Riv. dir. trib., 2009, 500. (69) Cfr. Comm. trib. reg. di Venezia, 9 giugno 2008, n. 20. (70) Cfr. Comm. trib. prov. di Brescia, 11 gennaio 2006, n. 205. (71) Cfr. Comm. trib. reg. di Venezia, 23 gennaio 2003, in Trusts, 2003, 253 e Comm. trib. reg. di Milano, sez. staccata di Brescia, 22 maggio 2007, n. 130. (72) Per approfondimenti, v. A. Contrino, L’atto di trust fra presunta costituzione di “rendita” e rilevanza nel tributo successorio, in Corr. trib., 2007, 2507. (73) V. Circ. Ag. Entr., 26 novembre 2003, in Trusts, 2006, 482; Circ. Ag. Entr., 28 settembre 2004, in Trusts, 2005, 294; Dir. Reg. Entr. Emilia Romagna, 2 novembre 2005, in Trusts, 2006, 324.


Dottrina

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della l. n. 383/2001 – l’imposta sulle successioni non esisteva più e il tributo sulle donazioni si applicava in casi molto limitati e con le aliquote dell’imposta di registro, argomentando semplicemente che “la misura proporzionale trova giustificazione nella considerazione che il trasferimento in trust di un bene (…) è atto avente per oggetto una prestazione a contenuto patrimoniale”. Anteriormente, quando queste due ultime imposte trovavano invece piena applicazione e con aliquote progressive molto elevate, l’Amministrazione finanziaria aveva accolto e inesorabilmente applicato la tesi del Secit secondo cui nel caso di “costituzione del trust per atto inter vivos (…), il relativo trasferimento di beni connotato dalle caratteristiche della liberalità e comportante l’effetto della decurtazione del patrimonio del disponente, sarebbe attratto dalla disciplina sulle donazioni prevista dall’art. 809 del codice civile e, sotto il profilo fiscale, si renderebbe applicabile l’imposta sulle donazioni” (74); e nello stesso senso, qualche anno più tardi, si era espressa la Dir. Reg. dell’Emilia Romagna (75). Oggi, dopo la reintroduzione del tributo successorio in precedenza abrogato (art. 2, commi 47-50, d.l. n. 262/06, convertito con modificazioni dalla l. n. 286/06, e succ. mod.), l’Amministrazione finanziaria continua ad accertare gli atti di trust posti in essere sotto il vigore della l.n. 383/2001 o a proseguire le relative liti fiscali in base all’apprezzamento isolato dei negozi posti in essere, pretendendo l’imposta di registro in misura proporzionale, e nel contempo, in modo invero contradditorio, afferma che “il trust si sostanzia in un rapporto giuridico complesso che ha un’unica causa fiduciaria. Tutte le vicende del trust (istituzione, dotazione patrimoniale, gestione, realizzazione dell’interesse del beneficiario, il raggiungimento dello scopo) sono collegate dalla medesima causa. Ciò induce a ritenere che la costituzione del vincolo di destinazione avvenga sin dall’origine a favore del beneficiario (naturalmente nei trust con beneficiario) e sia espressione dell’unico disegno volto a consentire la realizzazione dell’attribuzione liberale”, postulando l’applicabilità del tributo successorio (76).

(74) Così, Secit, Delibera 11 maggio 1998, n. 37 – La circolazione dei trusts in Italia, in Guida normativa, 6 ottobre 1998, n. 179, 14. (75) V. Dir. Reg. Entr. Emilia Romagna, Il trust riconosciuto in Italia. Profili civilistici e tributari, in Fisco, 2002, 12713-1214, la quale – dopo l’entrata in vigore della l. n. 383/2001 – ha tuttavia mutato orientamento con la già citata Dir. Reg. Entr. Emilia Romagna, 2 novembre 2005. (76) Così, Circ. Ag. Entr. 6 agosto 2007, 48.


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In questa terza fase, l’applicabilità dell’imposta da ultimo menzionata all’atto di trust (come definito all’inizio) potrebbe sembrare pacifica, posto che la figura in esame è sì priva di autonoma rilevanza nel contesto del tributo successorio ma suscettibile di realizzare una destinazione vincolata di uno o più beni a un fine predeterminato, donde la configurabilità del nuovo presupposto della costituzione del “vincolo di destinazione”. Invero non è così. Secondo la prassi, la costituzione del trust rientrerebbe sic et simpliciter tra i vincoli di destinazione e il tributo successorio sarebbe applicabile in modo immediato e a qualunque species di trust (77). Trattasi di tesi insostenibile nella sua assolutezza. Ed infatti, il tributo successorio ha subito un ampliamento della sfera applicativa – che copre, adesso, anche gli atti gratuiti di trasferimento e, appunto, i vincoli di destinazione – ma non un mutamento del suo assetto strutturale. Con la conseguenza che la locupletazione del soggetto passivo senza sacrificio alcuno, pur se diversamente apprezzata in ragione dei vincoli relazionali col disponente, continua a rappresentare l’oggetto dell’imposta sulle successioni e donazioni, ossia la forza economica che legittima il prelievo: il tributo è pertanto applicabile solo se, e quando, si verifica un effettivo arricchimento da parte di un soggetto diverso dal costituente (78). Non ogni costituzione di un “vincolo di destinazione” comporta pertanto l’applicazione del tributo successorio, ma solo quella che determina un effettivo accrescimento della sfera patrimoniale di un soggetto diverso dal disponente; se è così, per i trust appartenenti al genus dei trust commerciali (quali sono quelli con finalità liquidatoria o a scopo di garanzia o i trust finanziari, ecc.) non è possibile ravvisare alcun vincolo di destinazione e non è pertanto

(77) V. Circ. Ag. Entr. 6 agosto 2007, n. 48, cit., e Circ. Ag. Entr. 22 gennaio 2008, n. 3, che sono state oggetto di disamina da parte di G. Gaffuri, La nuova manifestazione di pensiero dell’Agenzia delle entrate sulla tassazione indiretta dei trusts, in G. Fransoni e N. de Renzis Sonnino (a cura di), Teoria e pratica della fiscalità dei trust, Milano, 2008, 21 ss. ed E. Della Valle, Luci e ombre della Circolare sui trust: le imposte sui redditi, cit., 724 ss. (78) Cfr., in tale senso, D. Stevanato, Trust e imposta sulle donazioni: prime reazioni giurisprudenziali alle forzature della prassi amministrativa, in GT- Riv. giur. trib., 2009, 540 ss.; Id., La reintroduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni: prime riflessioni critiche, in Corr.trib., 2007, 247 ss.; Id., Alla ricerca della capacità economica nella “nuova” imposta sulle successioni e donazioni, in Dialoghi di dir.trib., 2006, 1657 ss.; F. Montanari, I trust liberali alla luce della nuova “imposta sulla gratuità”, in Trust, 2007, 547 ss. e A. Contrino, Riforma del tributo successorio, atti di destinazione e trusts familiari, in Riv.dir.trib., 2007, I, 529 ss.,


Dottrina

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applicabile l’imposta sulle donazioni; per i trust di stampo liberale è, invece, ravvisabile un vincolo di tal fatta ma il tributo è dovuto solo nel momento in cui si concretizzi un trasferimento di ricchezza a favore di un soggetto terzo, con conseguente pagamento, nella fase iniziale di trasferimento dei beni in trust, della imposta di registro nella misura fissa (79). Per tali ragioni, è da rigettare in toto la tesi prospettata dalla Suprema Corte in quattro ordinanze del 2015 e una sentenza del 2016 (80) – pronunciamenti, questi, tutti fermamente e unanimemente criticati dalla dottrina di settore (81), il cui esito è stato la piena legittimazione dell’assoggettamento immediato al nuovo tributo di ogni species di trust, ivi compresi quelli commerciali e autodichiarati, la cui costituzione non comporta arricchimento alcuno – secondo cui il nuovo art. 2, comma 47 (con cui è stato reintrodotto il tributo successorio contenente la nuova fattispecie della “costituzione dei vincoli di destinazione”) avrebbe creato una nuova imposta, “l’imposta sulla costituzione di vincolo di destinazione (…), accomunata solo per assonanza alla

(79) V., in giurisprudenza, Comm. trib. prov. di Lodi, sez. I, 12 gennaio 2009, n. 12; Comm. trib. prov. di Firenze, sez. VIII, 12 febbraio 2009, n. 30, in GT- Riv.giur.trib., 2009, 540 ss., con commento adesivo di D. Stevanato, Trust e imposta sulle donazioni: prime reazioni giurisprudenziali alle forzature della prassi amministrativa, e Comm. trib. prov. di Bologna, sez. II, 30 ottobre 2009, n. 120, in Riv. not., 2010, II, 438 ss., con commento adesivo di A. Contrino, Imposizione sui vincoli di destinazione (trust commerciali e liberali) tra rilevanza sostanziale della capacità economica e legittimazione processuale del notaio. Ma v., altresì, Comm. trib. prov. di Caserta, sez. XV, 11 giugno 2009, n. 481; Comm. trib. prov. di Treviso, sez. I, 30 aprile 2009, n. 47 e n. 48 (ancorché sui generis nell’iter argomentativo); Comm. trib. prov. di Pesaro, sez. I, 9 agosto 2010, n. 287; Comm. trib. prov. di Perugia, sez. I, 27 gennaio 2011, n. 35 e Comm. trib. reg. di Bologna, 4 febbraio 2011, n. 16 (che ha respinto l’appello dell’Agenzia delle Entrate e confermato la già citata sentenza della Comm. trib. prov. di Bologna n. 120/2/2009). In dottrina, oltre agli autori citati nelle note precedenti, v. A. Fedele, Il trasferimento dei beni al trustee nelle imposte indirette, in G. Fransoni e N. de Renzis Sonnino (a cura di), op. cit., 14, e G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, cit., 473 ss. (80) Cass., sez. VI, ord. 24 febbraio 2015, n. 3735, n. 3737 e n. 3886, e Cass., sez. VI, 7 marzo 2016, n. 4482. (81) Cfr. G. Bizioli, La creazione, irrazionalmente estensiva, di un tributo autonomo, in Dial. trib., 2015, 108 ss.; T. Tassani, Sono sempre applicabili le imposte di successione e donazione sui vincoli di destinazione?, in Il fisco, 2015, 1957 ss.; D. Stevanato, La “nuova” imposta su trust e vincoli di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione, in GT – Riv. giur.trib., 2015, 400 ss.;; G. Corasaniti, Vincoli di destinazione, trust e imposta sulle successioni: la (criticabile) tesi interpretativa della Corte di Cassazione e le conseguenze, in Dir. prat. trib., 2015, 20688, ss.; A. Contrino, Sulla nuova (ma in realtà inesistente) imposta sui vincoli di destinazione “creata” dalla Suprema Corte: osservazioni critiche, in Rass. trib., 2016, 30 ss. e L. Salvini, L’imposta sui vincoli di destinazione, in Rass. trib., 2016, 925 ss.


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gratuità delle attribuzioni liberali, altrimenti gratuite e successorie; essa riceve disciplina mediante un rinvio, di natura recettizio-materiale, alle disposizioni del D. Lgs. n. 346 del 1990 (in quanto compatibili: F.L. n. 262 del 1006, art. 2, comma 50, come convertito), ma conserva connotati peculiari e disomogenei rispetto a quelli dell’imposta classica sulle successioni e donazioni”. In questa nuova imposta – continua la Suprema Corte – “non rileva affatto la mancanza di arricchimento, giacché il contenuto patrimoniale referente della capacità contributiva è ragguagliato all’utilità economica, che, in quanto indirizzata ad altri, si colloca al di fuori del patrimonio del disponente (oltre che di quello del gerente)”; e poiché l’effetto immediato e diretto del vincolo di destinazione si produce nella sfera giuridica del disponente, per la Suprema Corte è il disponente che realizza il presupposto impositivo e che deve essere elevato a soggetto passivo (ancorché il conferente dei beni in trust non rientri tra coloro espressamente indicati come soggetti passivi), con applicazione dell’aliquota massima dell’8 per cento prevista in via residuale. In realtà, lungi dal prevedere – come sostiene la Suprema Corte – un nuovo e diverso tributo, il citato art. 2, comma 47, ha soltanto reintrodotto l’imposta sulle successioni e donazioni con una sfera applicativa più ampia rispetto alle normative previgenti (risalenti al ’72 e ’90), e ciò per effetto dell’inserimento tra le fattispecie rilevanti degli atti gratuiti di trasferimento (in origine contemplati) e degli atti di destinazione (un’assoluta novità) Per effetto del primo innesto, il presupposto del nuovo tributo non è più incentrato sul concetto di “liberalità” ma su quello più ampio di “gratuità”, per cui l’animus donandi del disponente – quale causa dell’attribuzione patrimoniale – non è più determinante ai fini dell’integrazione del presupposto: viene così meno uno dei due elementi che consentiva, in passato, la selezione degli atti gratuiti rientranti nella sfera del tributo successorio e di quelli assoggettabili a imposta di registro. In ragione del secondo, anche il “trasferimento di beni e diritti” non rappresenta più condizione indefettibile della definizione normativa del presupposto: il negozio di destinazione può avere struttura unilaterale (unipersonale o pluripersonale) ed essere, in quanto tale, privo di effetti traslativi (ciò accade, ad esempio, nei casi di destinazione ex art. 2645ter cod. civ. attuata con dichiarazione del disponente, di fondo patrimoniale costituito da entrambi i coniugi o, ancora, di trust autodichiarato). Orbene, l’elemento comune ai trasferimenti mortis causa, a titolo gratuito (ivi compresi quelli liberali) e alla nuova fattispecie della costituzione di vincoli di destinazione in grado di giustificare, in termini di attitudine contributiva, l’applicazione del tributo successorio è l’accrescimento patrimoniale


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ricevuto, senza sforzo alcuno, dal beneficiario del trasferimento (a qualunque titolo realizzato, purché gratuito) o del vincolo di destinazione (82). Questo profilo è, infatti, presente negli atti traslativi mortis causa, costituisce la causa dell’attribuzione negli atti liberali, è riscontrabile in taluni atti a titolo gratuito (83) e connota, infine, gli atti di destinazione, ove – a seconda dei casi – può concretizzarsi nelle utilità prodotte dal patrimonio vincolato o nello stesso patrimonio vincolato (per tutti i beneficiari o soltanto alcuni). Ed il profilo dell’arricchimento si coglie, altresì, nella prevista differenziazione delle aliquote d’imposta in funzione del grado di parentela tra disponente e beneficiario, che imprime una connotazione “soggettiva” al presupposto e “baricentra” il prelievo sulla persona del beneficiario: l’attitudine alla contribuzione non dipende dalla mera espansione che si verifica nella sua sfera patrimoniale, bensì dalla collocazione di tale arricchimento nel contesto dei legami di parentela più o meno stretti esistenti con il disponente. Al termine del 2016, la Suprema Corte è tornata sui propri passi con una nuova sentenza – confermata, poi, sul piano dei principi dal primo pronunciamento sul tema del 2018 (84) –, che ha confutato in modo puntuale e argomentato la ricostruzione effettuata nelle quattro ordinanze precedenti, negando l’esistenza di un’autonoma imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione, applicabile per effetto della mera segregazione e del correlato impoverimento del costituente, e accogliendo l’orientamento – concorde e pressoché unanime

(82) Anche nella nuova figura generale introdotta dall’art. 2645-ter il beneficiario è elemento indefettibile. (83) Per i quali, com’è noto, non rappresenta connotato essenziale. Vanno dunque sottoposti al nuovo tributo successorio tutti, e solo, gli atti di trasferimento a titolo gratuito che determinano un arricchimento del beneficiario, donde – sussistendo e continuando a sussistere de facto un rapporto di alternatività o complementarietà tra i due tributi – il corrispondente restringimento dei confini operativi dell’imposta di registro. (84) Il riferimento è Cass., sez. trib., 26 ottobre 2016, n. 21614 (annotata da A. Fedele, Vincoli di destinazione: scelte legislative inadeguate determinano un conflitto interpretativo tra le sezioni della Suprema Corte, in Riv. Dir. Trib., 2017, II, 48 ss.; C. Scalinci, Dalla “pigra macchina” legislativa al dietrofront della Cassazione sull’esistenza di una imposta “sulla costituzione dei vincoli di destinazione”in Riv. Dir. Trib., 2017, II, 63 ss. e D. Stevanato, Il new deal della Suprema Corte sull’imposizione diretta del trust: giù il sipario sull’imposta sui vincoli di destinazione?, in GT – Riv. giur.trib., 2017, 31 ss.), che ha ripreso la precedente sentenza Cass., sez. trib., 18 dicembre 2015, n. 25478, con la quale vi era stato già un primo tentativo di superare l’errata ricostruzione delle prime tre ordinanze del 2015, ma tale sentenza era stata poi smentita dalla successiva Cass., sez. VI, 7 marzo 2016, n. 4482; come anticipato nel testo, essa ha trovato però conforto nella successiva Cass., sez. trib, 18 gennaio 2018, n. 975, ancorché riguardante una fattispecie risalente al 2003.


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– della dottrina e della giurisprudenza di merito, copiosissima (85), secondo cui la devoluzione dei beni in trust è assoggettabile al tributo successorio solo al momento dell’effettiva locupletazione del beneficiario, sempreché via sia, con conseguente rinvio della tassazione al momento del suo effettivo arricchimento. La parola fine non è stata tuttavia ancora messa. E ciò perché, sempre nell’anno 2018, vi sono state altre sentenze e ordinanze della Cassazione, (86) che – pur correttamente rifiutando, in continuità con il nuovo orientamento, la tesi dell’esistenza, dopo il 2006, di un’autonoma imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione – hanno cercato di trovare una soluzione diversa e innovativa, forse di mediazione, rispetto a quelle affermate dai due orientamenti pregressi, facendo tuttavia più confusione che chiarezza: si è giunti infatti a ravvisare, errando, l’esistenza di una donazione indiretta tassabile anche nel caso di trust onerosi, come, ad esempio, quelli di garanzia o liquidatori, ove invero non c’è alcun arricchimento effettivo da parte dei beneficiari, e addirittura anche in talune ipotesi di trust autodichiarato, valorizzando l’asserita, contemporanea esistenza, anche in tali casi, di un effetto traslativo e di beneficiari del trust stabilmente individuati. Nelle more della pubblicazione del presente articolo sono intervenute altri due pronunciamenti, ancora una volta, di segno opposto (87): col primo è stato avallato l’ultimo orientamento di mediazione del 2018, non condivisibile – per le ragioni indicate – nella sua assolutezza; col secondo, e più recente, è stata invece data continuità al precedente orientamento, avviato nel 2016 e consolidato sempre nel 2018, ritenendo inesistente una capacità contributiva immediatamente percuotibile con il tributo successorio nel caso di un trust di scopo costituito da una fondazione e da alcuni enti pubblici, mediante l’appor-

(85) Per una compiuta e recentissima rassegna, v. P. Mastellone, Il defatigante “moto perpetuo” del pendolo giurisprudenziale sugli apporti in trust, in Trusts, 2019, 65. (86) Quanto alle prime, si tratta di Cass., sez. trib., 30 maggio 2018, n. 13626 (ma v. anche Cass., sez. trib., 25 maggio 2018, n. 13141, sostanzialmente nello stesso senso, ancorché, riguardando una fattispecie anteriore alla reintroduzione nel 2006 del tributo successorio, essa abbia concluso per l’applicabilità dell’imposta di registro nella misura proporzionale del 3 per cento) e Cass., sez. trib., 13 giugno 2018, nn. 15468 e 15469 (per un primo commento, v. T. Tassani, La “terza via” interpretativa della Cassazione su trust e vincoli di destinazione, in Trusts, 2018, 624 ss); le altre sono le ordinanze Cass., sez. trib., 5 dicembre 2018, n. 31445 e n. 31446. (87) Si tratta delle recentissime ordinanze Cass., sez. trib, 15 gennaio 2019, n. 734 e Cass., sez. trib., 17 gennaio 2019, n. 1131.


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to di denaro, al fine di provvedere alla manutenzione, riqualificazione e allo sviluppo di un aereoporto. La crisi della funzione nomofilattica della sezione tributaria della nostra Suprema Corte (ma anche – è il caso di dire – della Cassazione pin generale) è, oramai, conclamata, e ci accompagnerà anche nel 2019, rendendo (quasi) un miraggio la certezza del diritto in materia tributaria. 8. Altre fattispecie concrete scrutinate da prassi e giurisprudenza. – Pare opportuno, a questo punto, completare la disamina con una rassegna di fattispecie, diverse dalle precedenti, vagliate dalla prassi e dalla giurisprudenza, distinguendo tra quelle che sono state ritenute estranee all’art. 9 della Tariffa, Parte I, e quelle reputate invece comprese. Fuoriescono, in ispecie, dal perimetro applicativo della disposizione: i contratti di locazione di unità immobiliari arredate, essendo stato chiarito che, “ove il rapporto contrattuale di locazione, relativo ad un immobile arredato, fosse scisso in due distinti contratti, riguardanti rispettivamente l’immobile e l’arredo in esso contenuto”, il secondo sarebbe sottoposto, ricorrendone le condizioni, all’aliquota proporzionale del 3 per cento ai sensi dell’art. 9 (88); la sentenza di riconoscimento della prelazione ipotecaria di un credito già ammesso allo stato passivo con decreto del giudice delegato e già sottoposto a imposta proporzionale di registro (89); il contratto estintivo degli effetti di un precedente contratto senza alcuna attribuzione patrimoniale (90); gli atti portanti prestazione di consenso per l’iscrizione di ipoteche a garanzia delle obbligazioni assunte attraverso il rilascio di cambiali (91); la cessione al distributore dei proventi relativi all’utilizzazione di un film, in quanto non costituisce cessione di crediti soggetta a registro (92); l’atto con cui gli eredi del defunto, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, si accordano al fine di reintegrare i diritti dei legittimari lesi dal testamento del defunto, determinandosi nella specie una mera “modificazione con effetto retroattivo del rapporto successorio che costituisce anche per i legittimari (in forza dell’inderogabile riserva di legge) il titolo giustificativo del trapasso di beni” (93);

(88) (89) (90) (91) (92) (93)

Cfr. Circ. Ag. Entr. 13 gennaio 1999, n. 15. V. Cass. sez. trib., 09 maggio 2007, n. 10588. Cfr. Ris. Min. 23 marzo 1988, n. 250475. Cfr. Ris. Min. 14 giugno 1991, n. 260146, e Nota Min. 2 agosto 1985, n. 200453. V. Comm. trib. centr. 13 marzo 2001, n. 1916. Così, Comm. trib. prov. di Aosta, sez. III, 31 ottobre 2011, n. 18.


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i conferimenti in denaro deliberati contemporaneamente alla riduzione del capitale sociale per perdite, quando siano necessari a riportare il capitale alla preesistente alla riduzione, non configurandosi in tale ipotesi un mutuo “atipico” tassabile nella misura del 3 per cento ai sensi dell’art. 9 della Tariffa (94). Ricadono, invece, nella sfera applicativa della disposizione: gli atti propri di società ed enti diversi non aventi quale oggetto esclusivo o principale lo svolgimento di attività commerciali o agricole, in quanto atti esclusi dall’ambito di applicazione dalla disciplina dettata dall’articolo 4 della Tariffa, Parte I (95); le indennità di occupazione senza titolo, corrisposte dal locatario dopo la scadenza del contratto di locazione o in assenza di un contratto tra le parti, qualora abbiano carattere risarcitorio (96); la promessa di versare una somma a titolo di mutuo, costituendo, rispetto alla successiva erogazione della somma promessa, un atto autonomo avente a oggetto una prestazione a contenuto patrimoniale, tanto più, secondo la giurisprudenza, “che nella specie non ricorre l’ipotesi dell’obbligazione unilaterale, ma un vero e proprio negozio contrattuale” (97); le scritture private non autenticate aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale, argomentandosi, in mancanza di una espressa menzione, in base all’art. 4 della Tariffa, Parte II, che esclude la registrazione solo per le scritture private non autenticate non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale (98); l’atto unilaterale di costituzione di rendita a

(94) Cfr. Cass., sez. trib., 11 febbraio 2011, n. 3345, ove anche il richiamo di copiosa giurisprudenza di legittimità in termini. Nella fattispecie in esame l’imposta di registro è dovuta solo se, e nella misura in cui, il conferimento determini un incremento del capitale rispetto alla sua misura originaria. (95) Cfr. Cass. sez. trib., 27 febbraio 2009, n. 4763, relativa a una fusione tra associazioni, e, quanto alla prassi, le già citate Ris. Ag. Entr. 15 aprile 2008, n. 152/E, avente ad oggetto la fusione per incorporazione tra due enti religiosi, e Ris. Ag. Entr. 18 aprile 2008, n. 162/E, riguardante un’aggregazione, assimilabile a una fusione per incorporazione, tra enti per il diritto agli studi superiori, con cui è stata data continuità all’opinione espressa nella precedente Ris. Min. 14 maggio 1976, n. 250419. (96) Se l’indennità presenta natura corrispettiva – perché il rapporto tra le parti prosegue dopo la scadenza del contratto o comunque, anche in mancanza, per l’assenza di azioni volte al rilascio dell’immobile –, le relative somme sono assimilate ai corrispettivi pattuiti per i contratti di locazione. Cfr. Circ. Ag. Entr. 9 luglio 2007, n. 43; Ris. Ag. Entr. 1 marzo 2004, n. 22; Ris. Ag. Entr. 21 luglio 2003, n. 154, e Ris. min. 17 gennaio 1991, n. 260293; in argomento, v. inoltre L. Galeazzi - L. Colli, Indennità di occupazione relativa a beni immobili: disciplina ai fini dell’imposta di registro, in Il fisco, 2004, 526 ss. (97) Cfr. Cass. sez. trib., 20 luglio 2007, n. 16126, e Cass., sez. trib., 20 luglio 2007, n. 16125. (98) V. Cass. sez. trib, 28 marzo 2003, n. 4728.


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tempo indeterminato (99); l’atto di risoluzione del contratto di mezzadria che prevede la corresponsione di un’indennità a fronte della cessazione del contratto (100); l’atto di quantificazione di un compenso fisso per la prestazione d’opera resa da soci nell’esercizio in comune di attività professionale (101); il contratto di cessione a titolo oneroso di diritti di opzione (102), con soluzione che non appare tuttavia accettabile (103). 9. Conclusioni: dalla prima definizione alla delimitazione finale dei confini. – Secondo la definizione fornita all’inizio, estratta dalla lettera dell’art. 9 e dalla collocazione nel sistema della relativa clausola in esame, la fattispecie degli “Atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale” è suscettibile di accogliere, palesando il suo carattere residuale e di chiusura del sistema unitamente al complementare art. 11 della Tariffa, tutti atti estranei al campo di applicazione dell’Iva e rientranti nella sfera dell’imposizione di registro che si contraddistinguono per la contemporanea presenza di tre connotati: non sono espressamente considerati in altre disposizioni sia della Tariffa sia della Tabella (l’espressione “altrove indicati” non pone limiti); sono diretti alla realizzazione di un interesse finale (come si evince dal termine “prestazione”) e sono suscettibili di provocare una modificazione nella sfera patrimoniale dei soggetti coinvolti misurabile in termini economici (connotazione, questa, ritraibile dal riferimento al “contenuto patrimoniale”). Si tratta – com’è emerso dall’indagine condotta – di tutti gli atti non menzionati in altre voci e contraddistinti dall’elemento economico, che comportano l’assunzione di un’obbligazione o comunque la modificazione soggettiva od oggettiva, dal lato sia attivo che passivo, di un rapporto obbligatorio, ossia, per dirla in altre parole, l’assunzione, la costituzione, la modificazione, il trasferimento e l’estinzione di diritti e obblighi relativamente a uno o più sogget-

(99) Cfr. Comm. trib. II grado di Bolzano 12 dicembre 1989, n. 210. (100) V. Comm. trib. centr. 6 aprile 1988, n. 3119. (101) Cfr. Comm. trib. centr. 12 novembre 1984, n. 9653. (102) Cfr. Cass. sez. V, 26 aprile 2017, n. 10240. (103) Fra le altre, per una semplice e assorbente ragione: con l’eliminazione della tassa sui contratti di borsa, che percuoteva anche il negozio in esame, la cessione onerosa dei diritti di opzione ricade, oggi, sotto il dominio applicativo dell’art. 8 della Tabella, che esonera da registrazione, fra gli altri, i negozi aventi ad oggetto la movimentazione, a qualunque titolo, e la compravendita di titoli, valori e azioni, prevedendo l’assoggettamento a prelievo in misura fissa ex art. 11 della tariffa, parte I, in caso di registrazione.


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ti. Con l’ovvio corollario, alla luce della complementarietà evidenziata, della necessitata riconduzione nell’art. 11 della Tariffa, Parte I (o nell’art. 4 della Tariffa, Parte II, se si tratta di “scritture private non autenticate non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”) di ogni altra fattispecie negoziale e non, estranea ad altre voci, che non dovesse essere sussumibile nell’art. 9 per difetto di alcuno dei requisiti esplicitati. La base imponibile è, in tutti i casi, costituita dal valore dell’operazione (art. 43) e l’aliquota proporzionale è indifferente alla species di forma scritta (atto pubblico, scrittura privata autenticata o non) utilizzata; in mancanza, fuoriuscendosi dal campo di applicazione del tributo (art. 3, 1° co.), la tassazione è subordinata all’eventuale “enunciazione” in un atto presentato alla registrazione (art. 22, 2° co.).

Angelo Contrino


Prime considerazioni sul ruolo degli indicatori di affidabilità nel rapporto Fisco-contribuente Sommario: 1. Premessa. – 2. La struttura degli indici sintetici di affidabilità. – 3. L’assegnazione di premialità ai contribuenti affidabili. – 4. La possibilità di incrementare in dichiarazione dei componenti positivi risultanti dalla contabilità per migliorare il giudizio di affidabilità. - 5. Conclusioni. L’applicazione degli indicatori di affidabilità ad imprese e professionisti ed il contestuale superamento degli studi di settore segna un punto di svolta nel procedimento di accertamento dei tributi, caratterizzato dall’abbandono di strumenti presuntivi di rettifica della dichiarazione. La classificazione dei contribuenti in affidabili e non affidabili è finalizzata rispettivamente ad assegnare premialità, ovvero ad aumentare l’indice di rischio di evasione fiscale. Da un lato, però, le premialità previste hanno una rilevanza modesta e difficilmente indurranno piccole imprese e professionisti ad incrementare i componenti positivi di reddito contabilizzati per migliorare il livello di affidabilità. Dall’altro, la possibilità di subire controlli fiscali resta limitata dalle concrete capacità operative degli Uffici. The application of the reliability indicators to companies and professionals and the contextual overcoming of the sector studies marks a turning point in the tax assessment procedure, characterized by the abandonment of presumptive instruments for rectification of the declaration. The classification of taxpayers in reliable and unreliable is aimed at awarding bonuses, or to increase the risk of tax evasion. On the one hand, however, the expected awards are of modest importance and will hardly lead small businesses and professionals to increase the positive components of income accounted for in order to improve the level of reliability. On the other hand, the possibility of undergoing fiscal controls remains limited by the concrete operational capabilities of the Offices.

1. Premessa. – L’imminente applicazione degli indicatori di affidabilità fiscale (1) ad imprese e professionisti ci induce a svolgere alcune prime con-

(1)

L’approvazione dei primi sessantanove indicatori di affidabilità fiscale relativi


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siderazioni sul funzionamento di questi strumenti, anche al fine di appurare gli elementi di discontinuità e di continuità rispetto ai soppressi studi di settore (2), i quali hanno rappresentato una risposta sul piano legislativo al problema della determinazione degli imponibili per quella ampia platea di imprese e professionisti, privi di un affidabile impianto contabile/documentale; risposta caratterizzata dalla predeterminazione delle stime di ricavi e compensi (3). Gli indicatori di affidabilità fiscale sono stati inizialmente introdotti dall’art. 7 bis del decreto legge n. 193/2016 atto a fissare “Disposizioni urgen-

ad attività economiche dei comparti delle manifatture, dei servizi, del commercio e delle attività professionali, è avvenuta con il Dm 23 marzo 2018, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 12 aprile 2018, n. 18, supplemento ordinario n. 18. Con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate n. 93467 del 7 maggio 2018 sono state individuate ulteriori 105 attività economiche per le quali gli indicatori di affidabilità fiscale sono stati approvati con il Dm 28 dicembre 2018, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 4 gennaio 2019, n. 3. Come disposto dall’articolo 1, comma 931, legge 27 dicembre 2017, n. 205, a partire dall’annualità di imposta in corso al 31 dicembre 2018, coloro che svolgono attività economiche e professionali, non subiranno l’applicazione né dei parametri di cui all’art. 3, commi 181-189, L. n. 549/199, né degli studi di settore previsti dagli art. 62 bis e 62 sexies del Dl. n. 331/1993, dovendo essere assoggettati esclusivamente agli indicatori di affidabilità fiscale. Atteso che i termini di decadenza per la notifica degli avvisi di accertamento relativi alle dichiarazioni per il periodo di imposta 2017 maturano il 31dicembre del 2023, è evidente che ci avviamo verso una stagione in cui imprenditori, professionisti e consulenti fiscali potrebbero essere chiamati a “misurarsi” sia con i vecchi studi di settore (per accertamenti su periodi pregressi), sia con i nuovi indicatori di affidabilità fiscale (in sede di adempimento dichiarativo per le annualità a venire). (2) Sull’argomento cfr. L. Tosi, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999; F. Gallo, Gli studi di settore al bivio tra la tassazione del reddito normale e di quello effettivo, in Rass. trib., 2000, 1495; M. Beghin, L’accertamento in base a studi di settore, Padova, ed. provv. 2005; A. Fantozzi, Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, in Diritto tributario e Corte Costituzionale, Napoli, 2006, 383; M. Versiglioni, Prova e studi di settore, Milano, 2008; M. Giorgi, L’accertamento basato sugli studi di settore: obbligo di motivazione ed onere della prova, in Rass. trib., 2001, 659 ss.; C. Garbarino, Aspetti processuali degli studi di settore, in Rass. trib., 2002, p. 226; M. Beghin, Illegittimità dell’avviso di accertamento carente di specifica motivazione quanto alle “gravi incongruenze” previste dall’art. 62-sexies, comma 3, del DL n. 331/93: un’adeguata reazione alla connotazione statistico probabilistica degli studi di settore, in Riv. dir. trib., 2005, II, 452 ss. (3) Cfr. R. Lupi, Diritto amministrativo dei tributi, Roma, 2017, 300, per il quale gli studi di settore ripercorrono, formalizzandole numericamente, le tradizionali stime valutative dei ricavi basate sulle caratteristiche economiche dell’attività; essi sono, infatti, stime in cui manca la componente umana che seleziona gli indizi in concreto più rilevanti e quelli secondari. Ciascun elemento indiziante porta ad un ricavo presunto e successivamente occorrerebbe calcolare un ricavo medio, tenendo conto della maggiore portata indiziante di alcuni parametri nel caso di specie; ma non c’è traccia di come negli studi di settore venga effettuata questa ponderazione tra indizi, con il rischio di un appiattimento aprioristico di tutti i profili di stima.


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ti in materia fiscale e per il finanziamento di esigenze indifferibili”, con cui si è esclusivamente prevista l’assegnazione di premialità a soggetti ritenuti “affidabili”. Questa norma è stata abrogata dal successivo art. 9 bis del decreto legge n. 50/2017 che ha disciplinato ex novo gli indici di affidabilità, dando un quadro ben più completo delle modalità di funzionamento rispetto a quanto emergeva dalla originaria disciplina. Vi è, infatti, una regolamentazione sia delle premialità per i soggetti “affidabili”, sia delle conseguenze negative per quelli “non affidabili”. In sostanza, gli effetti della norma del 2016 sono stati esclusivamente quelli di annunciare (4) l’introduzione di una novità sul fronte del “contrasto all’evasione fiscale”, che avrebbe reso il Fisco meno aggressivo e più “umano”, mediante la promozione dell’osservanza spontanea degli obblighi fiscali. Per passare dagli “annunci” alle regole concrete, si è resa necessaria una nuova regolamentazione contenuta appunto nel D.l. n. 50/2017 (5). 2. La struttura degli indici sintetici di affidabilità. – Dopo circa vent’anni di applicazione degli studi di settore – i quali hanno svolto efficacemente la funzione di determinare l’innalzamento spontaneo dei ricavi e compensi dichiarati da imprese e professionisti – come accennato si è deciso repentinamente di abolirli per introdurre “indici di affidabilità fiscale” che, da un lato, mirano a selezionare più efficacemente imprese e professionisti da sottoporre a controllo e, dall’altro, assegnano “premialità” ai soggetti ritenuti “virtuosi” (6). Gli indici in questione, in base a quanto previsto dall’art. 9 bis, comma 1, D.L. n. 50/2017, “rappresentano la sintesi di indicatori elementari tesi a verificare la normalità e la coerenza della gestione aziendale o professionale”. Ogni indicatore elementare concorre, quindi, alla determinazione dell’indice sinte-

(4) È anche sostenibile che l’effetto del D.L. n. 193/2016 sia stato più semplicemente quello di dare un messaggio politico (nell’imminenza del noto referendum costituzionale del 2016) che dava ascolto ad una tendenza di opinione diffusa nella società, a prescindere dalla concreta attuabilità tecnica della norma. (5) Si segnala l’esistenza di iniziative politiche tese a sopprimere gli Isa, adottate in sede di esame della proposta di legge sulla semplificazione fiscale in discussione presso la Commissione finanze (Ruocco-Gusmeroli). (6) La regolamentazione di questi nuovi indicatori, a differenza degli studi di settore, non contiene un diretto aggancio alla normativa sull’accertamento tributario di imprese e professionisti.


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tico, espresso su una scala da 1 (ridotta affidabilità) a 10 (elevata affidabilità). Né la normativa citata, né i decreti ministeriali 23 marzo 2018 e 28 dicembre 2018 di approvazione degli Isa, tuttavia, precisano in che modo gli indicatori elementari incidano sul punteggio finale. Nel prospetto informativo elaborato dalla società che si è occupata della costruzione degli Isa - la So.se. spa (7) - si evidenzia che l’indice sintetico è frutto della media degli indicatori elementari di affidabilità e di anomalie. Gli indicatori elementari di affidabilità e di anomalie sono stati elaborati con una metodologia basata su analisi di dati e informazioni ricavabili dalle dichiarazioni tributarie e dalle fonti informative disponibili presso l’anagrafe tributaria, le Agenzie fiscali, la Guardia di finanza, l’Inps, nonché da altre generiche fonti. Va poi considerato che i soggetti interessati dagli Isa saranno chiamati, all’atto della presentazione della dichiarazione tributaria, a comunicare i dati economici, contabili e strutturali rilevanti per l’applicazione degli indicatori degli stessi (8). Gli indicatori elementari valutano la plausibilità dei “redditi” dichiarati, movendo da una serie di parametri quali - ad esempio - il valore aggiunto per addetto, i ricavi per addetto, il reddito per addetto, il valore dei beni strumentali per addetto, la durata delle scorte, l’incidenza sui ricavi dei costi residuali di gestione, etc. A seconda della posizione di affidabilità raggiunta con l’indice sintetico, le imprese ed i professionisti potranno non beneficiare di alcuna premialità, goderne una parte limitata, ovvero ottenerle tutte. La normativa demanda ad un provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate – che non è stato ancora emanato – l’individuazione di quante e quali premialità verranno assegnate in relazione al punteggio conseguito; dovrebbe trattarsi di un’assegnazione automatica correlata appunto al differente posizionamento sulla scala dell’affidabilità. Occorre notare che il procedimento di costruzione degli indici potrebbe presentare criticità qualora, per un verso, per la stima dei coefficienti delle equazioni, sia stato utilizzato un ristretto numero di imprese e professionisti ritenuti “normali” (9) e, per altro verso, si dia la possibilità ai contribuenti di

(7) Tale società ha curato anche l’elaborazione degli studi di settore. (8) Dall’esame della modulistica sembra che la quantità di dati da comunicare sia pari o addirittura superiore a quella prevista per gli studi di settore. (9) Sul punto cfr. la Relazione della Commissione c.d. Rey del 31 gennaio 2008, in tema di applicazione degli studi di settore, paragrafo 2.2, secondo cui sarebbe necessario definire


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manipolare i dati da comunicare annualmente in dichiarazione (10). Si riproporrebbero, in sostanza, le anomalie evidenziate con riguardo agli studi di settore. D’altra parte, però, posto che il riferimento temporale delle informazioni che stanno alla base del calcolo non è limitato ad un singolo periodo di imposta, ma si estende sino ad otto periodi di imposta, consentendo in particolare di valutare con precisione la stratificazione temporale di costi e ricavi, gli indicatori in questione dovrebbero fornire un responso ancor più puntuale rispetto a quello elaborato dagli studi di settore. In ogni caso, nonostante la meticolosità delle note tecniche e metodologiche allegate ai citati decreti ministeriali di approvazione (11), per esprimere un giudizio sul funzionamento degli indicatori, occorre attendere l’elaborazione da parte dell’Agenzia delle entrate del programma informatico, menzionato nel comma 5 dell’art. 9 bis, DL n. 50/2017, che sostituirà il software Ge.ri.co., utilizzato per gli studi di settore. Il nuovo applicativo evidenzierà, oltre il punteggio finale, anche quello relativo ai singoli indicatori elementari, dando peraltro la possibilità al contribuente di indicare l’inattendibilità delle informazioni desunte dalle banche dati dell’Agenzia e di inserire i dati ritenuti corretti. Da questa breve analisi, si trae l’impressione che gli indicatori di affidabilità presentino molti elementi di continuità con gli studi di settore (12). I termini usati nella costruzione degli Isa, cioè “normalità” e “coerenza” della gestione aziendale, evocano, infatti, forme di ricostruzione degli imponibili con procedimenti paracatastali al pari degli studi di settore.

procedure di selezione maggiormente controllabili e fondate su considerazioni che separino gli aspetti di qualità dei dati da quelli relativi alle condizioni prevalenti di funzionamento economico delle imprese inserite nei diversi cluster. (10) Cfr. R. Lupi, Studi settore al capolinea? Anzi, forse no, in Guida ai controlli fiscali, 2018, 8, secondo cui l’elevata percentuale di contribuenti congrui è probabilmente dovuta al fatto che la possibilità data ai contribuenti di selezionare i dati rilevanti riduce spesso gli studi di settore a una specie di “videogioco per commercialisti”. (11) La metodologia statistico-economica utilizzata per la costruzione degli ISA si basa, tra l’altro, sui seguenti parametri: analisi dei dati dichiarati dai contribuenti ai fini degli studi di settore nei periodi di imposta dal 2008 al 2015; definizione dei gruppi omogenei (cluster) in base ai fattori che denotano e definiscono il relativo modello di business (MoB); modelli di regressione basati su panel data. (12) Nel senso che gli indicatori rappresentano una evoluzione degli studi di settore cfr. M. Cedro, Dagli studi di settore agli indici sintetici di affidabilità, in Innovazione e diritto, 2017, 58.


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Ciò che differenzia i due strumenti, però, è la finalizzazione: strumento di accertamento con valenza presuntiva per gli studi di settore; strumento di assegnazione di premialità e di selezione dei contribuenti da sottoporre a controllo per gli Isa. In questa misura, sul fronte dell’accertamento tributario, l’ingresso degli Isa segna un netto punto di rottura rispetto al passato. È segnatamente venuto meno l’utilizzo del valore di ricavi e compensi risultante dagli studi di settore, previo adattamento al caso concreto alla luce delle evidenze emerse in sede di contraddittorio procedimentale, per la rettifica presuntiva della dichiarazione del contribuente. 3. L’assegnazione di premialità ai contribuenti affidabili. – Soffermiamoci ora sull’attribuzione dei “livelli di premialità” ai contribuenti affidabili. Il termine premialità in ambito giuridico evoca, in linea generale, l’assegnazione ad una categoria di soggetti di un trattamento differenziato e più favorevole rispetto a quello riservato in via ordinaria per la generalità dei soggetti dell’ordinamento giuridico. Tali premialità vengono disciplinate nell’ambito delle c.d. leggi di incentivazione (13); se le premialità riguardano il settore tributario, è pacifico che si fa immediato riferimento alle leggi di agevolazione fiscale, che compendiano quei provvedimenti con cui si mitigano gli adempimenti formali (soprattutto contabili), e quelli con cui, incidendo sull’aliquota d’imposta, sulla base imponibile, ovvero concedendo crediti d’imposta, si riduce l’onere tributario (14). Nel caso degli indicatori di affidabilità si utilizza il termine “premialità” senza alludere a riduzione degli oneri fiscali. L’affidabilità di un contribuente non può, infatti, giustificare un trattamento tributario differenziato. Come è noto, un’agevolazione fiscale è legittima solo se intende realizzare interessi che trovano copertura in una norma costituzionale o in una legge ordina-

(13) Cfr. G. Guarino, Sul regime costituzionale delle leggi di incentivazione e di indirizzo, in Scritti di diritto pubblico dell’economia e di diritto dell’energia, Milano, 1962, 125. (14) Cfr. S. La Rosa, Eguaglianza tributaria e agevolazioni fiscali, Milano, 1968; Id., Le agevolazioni fiscali, in Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci, Padova, 1994, 401; C. Preziosi, Il condono fiscale, Milano, 1987; F. Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992; M. Basilavecchia, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni, in Rass. trib., 2002, 421.


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ria (15). Potrebbero, però, concedersi mitigazioni degli adempimenti formali. Al proposito, il comma 11 dell’art. 9 bis, D.l. n. 50/2017, stabilisce innanzitutto che le “premialità” per i contribuenti affidabili consistono: a) nell’esclusione degli accertamenti basati su presunzioni semplici, cioè gravi precise e concordanti; b) nell’anticipazione di almeno un anno dei termini di decadenza dell’attività di accertamento; c) nell’esclusione dalla determinazione sintetica del reddito complessivo, a condizione che il reddito complessivo non ecceda i due terzi il reddito dichiarato. Tali “premialità” – già previste per i contribuenti congrui e coerenti con gli studi di settore, nonché per coloro che utilizzano il regime di fatturazione elettronica o di trasmissione telematica delle fatture cartacee ed attivano sistemi di pagamento tracciabili – comportano (e come detto non poteva essere diversamente) un affievolimento dei poteri degli Uffici in sede di accertamento. A prescindere dal giudizio di proporzionalità della misura rispetto alla tutela dell’interesse fiscale al pieno svolgimento della procedura di accertamento (16), è sostenibile che tali premialità abbiano un impatto poco significativo per chi, essendo affidabile, ha con elevata probabilità adempiuto puntualmente agli obblighi fiscali: l’utilizzo di presunzioni semplici non dovrebbe, comunque, consentire l’emersione di materia imponibile. Può considerarsi, invece, un vantaggio il fatto di limitare la possibilità di subire il controllo dell’Ufficio (attività ex se gravosa) in relazione alla riduzione di un anno dei termini dell’accertamento. Anche l’ulteriore “premialità” rappresentata dalla non applicabilità della disciplina sulle società di comodo sembra di poco momento. Se una società risulta fiscalmente affidabile, la non applicabilità della normativa in questione dovrebbe derivare, con elevata probabilità, dal superamento del test di operatività ivi previsto (17). Le restanti premialità rappresentano, invece, un embrione di agevolazione

(15) Quest’ultima teoria è quella da tempo accolta dalla Corte costituzionale, come risulta ad esempio dalla recente pronuncia con cui si è affermata la legittimità delle agevolazioni fiscali concesse ai titolari di beni immobili sottoposti a vincolo diretto, in quanto ritenuti di interesse culturale (sent. n. 111/2016). (16) Cfr. G. Moschetti, Il principio di proporzionalità come “giusta misura” del potere nel diritto tributario, Padova, 2017. (17) Sul tema cfr. R. Miceli, Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, Pisa, 2017.


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fiscale in senso formale: si tratta dell’esonero dall’apposizione del visto di conformità altrimenti necessario per la compensazione di crediti superiori a determinati importi, ovvero dell’esonero dalla prestazione della garanzia per i rimborsi Iva superiori a € 50.000. Quest’ultima premialità dovrebbe avere una applicazione contenuta se si considera la modesta percentuale di contribuenti che hanno necessità di attuare compensazioni orizzontali di importi rilevanti, ovvero richiedere rimborsi superiori alla predetta cifra. Va, infine, ribadito che non è stato ad oggi emanato il provvedimento dell’Agenzia delle entrate, con cui si fisseranno i criteri di assegnazione delle predette premialità. 4. La possibilità di incrementare in dichiarazione i componenti positivi risultanti dalla contabilità per migliorare il giudizio di affidabilita. – L’introduzione degli indicatori di affidabilità ha determinato, come detto, il superamento dell’utilizzo di predeterminazioni astratte di ricavi e compensi quali prove presuntive nell’ambito dell’accertamento tributario (18); utilizzo che

(18) Autorevole dottrina G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, vol. I, Padova, 2015, 552, afferma che gli studi di settore non sono qualificabili come mezzi di prova, ossia fonte di presunzione, in quanto manca la regola di esperienza (id quod plerumque accidit) che consente di risalire da fatti noti a fatti ignoti; sono meri strumenti escogitati per attribuire un reddito standard (e perciò fittizio) ad alcune categorie di soggetti. Essi invero possono fungere soltanto da strumento segnaletico e da filtro per individuare aree e posizioni soggettive (di sospetta evasione) da sottoporre al controllo e non già ad automatica rettifica, salvo che il contribuente abbia posto in essere comportamenti illegittimi (omessa dichiarazione, dichiarazione non analitica, etc.). Contra cfr. A. Fantozzi, Gli studi di settore, cit., 396, per il quale il fatto noto è costituito dalle caratteristiche strutturali dell’attività d’impresa, rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi, ed il fatto ignoto è costituito dall’ammontare dei ricavi conseguiti nel periodo d’imposta; la regola di esperienza è quella per cui “se attività analoghe hanno mediamente un certo ammontare di ricavi, anche l’attività di verificata ha quell’ammontare di ricavi” e l’applicazione di detta regola non è rimessa all’Ufficio prima ed al giudice poi, ma è automatizzata, cioè assorbita in una funzione statistico-matematica stabilita in appositi decreti ministeriali. In questa prospettiva, la prova contraria del contribuente atterrebbe all’esistenza di fatti che rendono inapplicabile la presunzione, senza che l’Ufficio debba adeguare al caso concreto le risultanze dell’automatismo. Anche A. Marcheselli, Accertamenti tributari e difesa del contribuente, Milano, 2010, 275, afferma che “è facile riconoscere nella fattispecie un meccanismo di tipo presuntivo. Il fatto ignoto del reddito viene provato risalendovi dal fatto noto costituito dai fattori indicativi di ricchezza”. L’autore assegna agli studi di settore natura di presunzione semplice e non legale. Va evidenziato che in merito agli studi di settore, oltre alle tesi secondo cui rivestono natura giuridica di presunzione semplice, altra dottrina (M. Versiglioni., Prova e studi di settore, cit., 183 ss. e specialmente 212) ritiene che costituiscono fatti di mera conoscenza, essendo


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risulta comunque compatibile sia con l’art. 53 Cost. (19), sia con i principi del diritto europeo che impattano specificamente sull’Iva (20). Il mutamento di prospettiva è testimoniato dal fatto che il D.L. n. 50/2017 si limita a stabilire che l’Agenzia delle entrate e la Guardia di finanza, nel definire le strategie di controllo basate sull’analisi del rischio di evasione fiscale, tengano anche conto del livello di affidabilità fiscale dei contribuenti. Nei confronti dei soggetti non affidabili, quindi, aumenta fortemente il rischio di subire una procedura ordinaria di accertamento. Scorrendo la normativa in esame ci si accorge, però, che il contribuente può “sventare” l’incremento del rischio di subire i controlli: il comma 9 prevede, infatti, che imprese e professionisti possano indicare in dichiarazione

frutto di una rigorosa e scientifica formazione di medie statistiche di dati storici, contabili e strutturali, che nulla hanno a che fare con un passaggio dal noto all’ignoto, difettando di un passaggio inferenziale; in questa prospettiva essi avrebbero una funzione concorrente rispetto alla formazione di una presunzione semplice. E ciò sarebbe giustificato dal fatto che “la legge, lungi dal preconfezionare un risultato presuntivo dotato di gravità precisione e concordanza, impone un giudizio di valutazione circa la grave incongruenza; pertanto la prova va cercata al di fuori della logica degli studi di settore, pur potendo questi essere utili alla valutazione della prova (cfr. op. cit., 228-230)”. Infine altra autorevole dottrina (L. Tosi, Le predeterminazioni normative, cit., 14 ss.) sostiene che gli studi di settore sarebbero qualificabili come predeterminazioni normative del reddito, e pertanto non involgono percorsi logico-argomentativi della funzione di accertamento, ma la determinazione della base imponibile in base a criteri prefissati da strumenti di fonte normativa, destinati a sostituire, ai fini della tassazione, i dati effettivi. L’Amministrazione, quindi, in sede di accertamento applica la predeterminazione normativa, in luogo di svolgere una ricognizione della realtà economica effettiva. (19) Non vi sono pronunce della Corte costituzionale in merito agli studi di settore, ma può richiamarsi l’orientamento relativo al redditometro, secondo cui lo strumento presuntivo di ricostruzione del reddito rappresenta un mezzo per l’attuazione del principio di capacità contributiva, essendo ragionevole il ricorso ad indicatori idonei a dare concreto fondamento alla corrispondenza tra imposizione fiscale e capacità contributiva; si è aggiunto, peraltro, che non viene violato il diritto di difesa, in quanto la norma non pone limiti alla possibilità di dimostrare l’insussistenza degli elementi su cui si fonda la rettifica (Corte Cost. sent. n. 283/1987). (20) Cfr. Corte di giustizia europea 21 novembre 2018, Fontana, C-648/16. Secondo i giudici europei la normativa sugli sudi di settore non è in contrasto con la direttiva Iva e risulta proporzionata all’obbiettivo di prevenire l’evasione fiscale nonostante l’imposta pretesa sia quantificata non sulle singole operazioni effettuate ma sul ricalcolo del volume di affari con criteri statistico matematici. Tale conclusione dipende dal fatto che la normativa italiana consente di contestare le risultanze del calcolo presuntivo degli imponibili, di esercitare il diritto di detrazione per gli acquisti correlati ai maggiori imponibili attestati sulla base di tutte le prove di cui dispone, nonché di poter agire in via di rivalsa per la maggiore imposta versata in sede di accertamento.


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ulteriori componenti positivi di reddito non risultanti dalle scritture contabili, passando da una situazione di inaffidabilità ad una di affidabilità, o semplicemente incrementando il livello di affidabilità “naturalmente” raggiunto. Questa previsione testimonia l’esistenza di una finalità di fondo degli Isa, che è quella di indurre il contribuente all’incremento spontaneo delle basi imponibili; finalità che era prevista già dagli studi di settore. Non vi sarà un livello “puntuale” di ricavi a cui allinearsi, ma presumibilmente sarà praticabile un “adeguamento a gradini”, nel senso che più si innalzano i componenti positivi di reddito e minori saranno le possibilità di subire l’accertamento, ovvero maggiori saranno le premialità cui si avrà diritto. Detto in modo esplicito, anche l’affidabilità (al pari della congruità con gli studi di settore) e le premialità finiscono per essere “acquistate” da imprese e professionisti attraverso il pagamento di maggiori imposte. Occorre, peraltro, tenere a mente che l’elemento di discontinuità tra studi di settore e Isa, riconducibile al fatto che i primi legittimano l’utilizzo automatico delle risultanze per la rettifica della dichiarazione, mentre i secondi sono strumenti di selezione dei contribuenti da sottoporre a controllo fiscale (per coloro che hanno una modesta affidabilità), seppur chiaro a livello normativo, in concreto è destinato ad affievolirsi. Dai dati diffusi dall’Agenzia delle entrate risulta, infatti, che solo una modesta parte dei contribuenti non congrui abbia subito la procedura di rettifica con gli studi di settore. Lungi dall’essere una procedura di accertamento automatizzata, quindi, questi ultimi strumenti sono stati applicati “selettivamente” solo ad una piccola platea di soggetti non congrui, appositamente individuati sulla base di un’attenta ponderazione della situazione concreta, tenendo anche conto delle cause di giustificazione comunicate dai contribuenti. Rileviamo, infine, che nel corso del 2016, in sede di presentazione degli indicatori di affidabilità, la società incaricata della loro elaborazione aveva rilevato che essi sarebbero stati messi a disposizione dei contribuenti sul c.d. “cassetto fiscale”, nel quale sarebbero confluiti anche report di audit e benchmark, per verificare la propria posizione rispetto ad imprese operanti nel medesimo settore. L’induzione all’emersione spontanea delle basi imponibili, quindi, avrebbe dovuto rappresentare un obbiettivo collaterale a quello di erogare una sorta di servizio di consulenza aziendale. Di tutto ciò, però, non vi è traccia nella legislazione in esame. 5. Conclusioni. – L’introduzione degli indicatori di affidabilità ha, a nostro avviso, una portata rilevante, ma meno dirompente di quel può sembrare


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di primo acchito. Il significato che evoca il responso “affidabile” o “non affidabile” è molto vicino a quello “congruo” e “non congruo” che emergeva dagli studi di settore: esso presuppone sempre il rispetto di quelle logiche di normalità economica che regolano lo svolgimento delle attività imprenditoriali e professionali. L’affidabilità fiscale, d’altra parte, è una diretta conseguenza del livello delle basi imponibili dichiarate ai fini dell’Imposta sui redditi e dell’Imposta sul valore aggiunto. Pertanto, è sostenibile che si è di fronte ad una ripresentazione “buonista” o, se si preferisce, “sotto la veste di un fisco amico” degli studi di settore. Va, però, rimarcato che è venuto meno l’automatismo scostamento/accertamento che caratterizzava gli studi di settore (con valenza presuntiva del risultato degli studi medesimi), in quanto con i nuovi indicatori la modesta affidabilità si riflette sull’indice di rischio di evasione fiscale e quindi sull’incremento della possibilità di subire un controllo ordinario. In ogni caso, l’abbandono degli studi di settore – che avevano dato notevoli risultati in termini di allargamento delle basi imponibili (21) – non dovrebbe determinare una contrazione dei volumi di ricavi e compensi dichiarati dai contribuenti (22), in quanto gli accertamenti sulla base delle caratteristiche e condizioni di svolgimento dell’attività (art. 62 sexies, D.l. n. 331/1993) continueranno ad essere svolti; per stimare i redditi e i ricavi in base alla caratteristiche esterne dell’attività, è ipotizzabile che gli Uffici utilizzeranno alcuni indicatori elementari di affidabilità, a cui però non può assegnarsi natura di presunzione semplice (23). Peraltro, le verifiche sui soggetti non affidabili po-

(21) Cfr. la Relazione della citata Commissione c.d. Rey ove si evidenzia che i maggiori ricavi spontaneamente dichiarati dai contribuenti sono complessivamente cresciuti dai 750 milioni di euro del 1998 ai quasi 4,7 miliardi di euro del 2006. (22) Cfr. R. Lupi, Studi settore al capolinea?, cit., p. 8, secondo cui il passaggio agli indici di affidabilità non affronta nessuno dei nodi concettuali che caratterizzavano gli studi di settore. (23) In argomento cfr. G. Fransoni, Sulle presunzioni nel diritto tributario, in Rass. trib., 2010, 609, il quale, al fine di conciliare la contraddittorietà tra la fissazione di una presunzione in una norma e la sua “dequotazione” a presunzione semplice, supera quella tradizionale divisio tra le presunzioni semplici, che devono essere valutate con prudenza ai sensi dell’art. 116 c.p.c. e sono ammissibili solo se gravi precise e concordanti, il cui utilizzo in sede di decisione deve essere ampiamente motivato, e quelle legali relative, che, in mancanza di prova contraria, possono essere utilizzate senza bisogno di motivazione. In questa linea di pensiero, possono individuarsi “presunzioni intermedie”, i cui fatti indizianti sono previsti dal legislatore, ma il giudice, da un lato, non subisce il vincolo delle presunzioni legali relative (e cioè che fatti ignoti devono essere automaticamente assunti senza prova contraria), e, dall’altro,


tranno andare oltre la mera rideterminazione dei ricavi e compensi, riguardando qualsiasi componente positivo e negativo del reddito di impresa o di lavoro autonomo, con conseguente necessità di fornire adeguata motivazione e prova dell’atto impositivo. È da notare ancora che il nesso di continuità tra gli strumenti abrogati e quelli di recente istituiti può ravvisarsi nel fatto che si persegue il medesimo obiettivo di incentivare l’emersione spontanea delle basi imponibili mediante l’innalzamento dei valori dichiarati e così conquistare “a pagamento” un maggior livello di affidabilità. In conclusione, per verificare se questi nuovi strumenti avranno effettivamente la capacità di promuovere l’osservanza degli obblighi fiscali, dobbiamo necessariamente attendere qualche anno di applicazione, auspicando che le effettive capacità operative degli Uffici impositori consentano di far sentire concretamente la presenza del Fisco ai contribuenti non affidabili.

Giuseppe Ingrao

non può disattenderle liberamente, al pari delle presunzioni semplici. Il giudice, pertanto, può utilizzarle motivandone la loro credibilità in modo meno rigoroso delle presunzioni semplici, ma più rigoroso di quelle legali.


Deducibilità degli oneri gravanti sui redditi degli immobili: lo strano caso dei canoni di concessione relativi ad immobili posti sugli arenili comunali Sommario: 1. Introduzione. – 2. Natura e contenuto del diritto costituito dalla concessione su bene demaniale: il diritto amministrativo viene in soccorso. – 3. Personalità dell’imposta sui redditi, tassatività e interpretazione delle disposizioni sugli oneri deducibili. – 4. Oneri gravanti sui redditi degli immobili: norma tributaria desueta oppure ancora viva? – 5. Riconducibilità dei canoni di concessione degli arenili demaniali alla categoria degli oneri gravanti sugli immobili. – 6. Conclusioni. I Comuni costieri spesso consentono ai privati l’utilizzo degli arenili mediante concessione, compatibilmente con ragioni di pubblico interesse. Nel caso in cui il concessionario sia una persona fisica che non versa in regime di impresa, ci si può chiedere se il relativo canone possa essere dedotto ai sensi dell’art. 10 lett. a) del TUIR, quale onere gravante sul reddito degli immobili. Recentemente la giurisprudenza di merito si è occupata della quaestio iuris, giungendo tuttavia a conclusioni che sollevano molteplici dubbi. Si richiede, quindi, un approfondimento del tema, muovendo, in prima battuta, da una lettura interdisciplinare della vicenda e, dipoi, volgendo l’attenzione ai concetti tributari che vengono in rilievo nella fattispecie. Coastal Municipalities often allow individuals to use the sandy shore by concession, compatibly with reasons of public interest. In the event that the concessionaire is a natural person who is not in the business tax regime, it may be asked whether the concession fee can be deducted by tax base according to article 10, lett. a) of the TUIR, such as a burden on the income of the real estate property. Recently the Italian Courts have dealt with the quaestio iuris, however, reaching findings that raise many doubts. Therefore, an in-depth analysis of the topic seems appropriate. In this regard, we shall to move, in first instance, from an interdisciplinary reading of the phenomenon and then paying attention to the tax concepts that are emphasized in this case.

1. Introduzione. – Il tema della effettività delle norme (e, in specie, di quelle tributarie) è obiettivamente ampio e complesso. Comprendere l’esatto


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momento in cui una norma perde il proprio effetto utile (cadendo in desuetudine in ragione del mutato contesto) risulta un procedimento nient’affatto semplice. A tal proposito, si impone l’individuazione di strumenti che consentano di individuare la ratio e la portata della norma: sotto il profilo del metodo, ciò richiede di dover muovere dal testo, passare al contesto e, per tale via, giungere allo spirito della norma, ripercorrendo una fenomenologia diretta alla risoluzione dei problemi “linguistici” che si celano dietro gli enunciati. Tale processo vieta di fermarsi ai dettagli delle disposizioni. Anzi la troppa attenzione per le minuzie rischia di limitare il focus su aspetti non determinanti, così ingenerando confusione nella ricostruzione dell’unità del diritto. Solo la capacità di creare collegamenti fra la rete di istituti e concetti rende possibile il raggiungimento della conoscenza. E solo in tal modo è possibile perseguire la chiarezza di contenuti delle norme rispetto a ciò che apparentemente risulta disorganico e privo di funzione. Dalla legge scritta si può ritrarre solo il significante, ma per arrivare al significato occorre un ulteriore processo di elaborazione teso a cogliere le relazioni di oggetti. Il dato normativo non è il mezzo, ma l’obiettivo del giurista (1), in quanto esso non è qualcosa di preesistente, ma è qualcosa da elaborare secondo le meta-norme esegetiche. La trama su cui poggia la “rete” dei concetti è data dall’argomentazione. L’elevato livello di articolazione e di connessioni all’interno del ragionamento è direttamente proporzionale al grado di accettabilità della conclusioni cui giunge l’esegeta (2).

(1) F. Viola, Metodologia, teoria ed ideologia del diritto in F. Carnelutti, Estratto dalla Rivista di diritto processuale, Anno XXII, 1967, p15, là dove l’Autore nel rammentare l’opera del Maestro riporta che Carnelutti distingueva lo studio della funzione dallo studio della struttura. Il primo attiene alla scoperta delle regole dell’esperienza giuridica. Ma, quanto alla struttura, il giurista deve percorrere una strada “scientifica” «per il raggiungimento e l’appropriazione conoscitiva dell’oggetto giuridico». Al riguardo, «la prima tappa della scienza giuridica è – a detta del C. – quella dell’osservazione del dato. Qual è per la giurisprudenza il dato, cioè l’elemento primo su cui costruire la scienza stessa ? Per il C. la norma giuridica non è in realtà il dato da osservare, ma già il risultato dell’elaborazione di un dato diverso. Ciò che costituisce realmente il dato, in base ad una concezione empirica della scienza, è ciò che cade sotto i sensi del giurista : cioè l’atto umano, si tratti pure dell’atto di chi comanda come anche di chi obbedisce o disobbedisce. Per atti si intende tutto il campo degli atti giuridici e quindi non soltanto gli atti legislativi (6). Il fine della scienza non è quello di registrare passivamente i dati, bensì di elaborarli. Ciò vuol dire innanzi tutto stabilire i rapporti tra i fenomeni giuridici attraverso l’uso della comparazione, che costituisce così la seconda tappa della scienza e la prima nella elaborazione del dato». (2) Al riguardo, R. Guastini, Manifesto di una filosofia analitica del diritto, in Riv. fil. Dir., 1, 2012, là dove l’Autore nel rimarcare la contrapposizione fra enunciati distintivi


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Il diritto tributario acuisce un’esigenza sincretistica volta a conciliare concetti e temi di altri settori giuridici, trattandosi – come si suole dire – di un diritto di secondo grado e, come tale, presupponendo la conoscenza di buona parte del diritto comune. Calando tali considerazioni nella concretezza delle questioni giuridiche, negli ultimi anni si è assistito ad una forma di isomorfismo giurisprudenziale verso soluzioni che talvolta risultano manchevoli dei predetti collegamenti, con l’ineludibile conseguenza di giungere ad approdi ermeneutici non del tutto coerenti con il sistema (3). Si fa quivi riferimento, in specie, alla trattazione di un tema che ha occupato molto le Commissioni toscane (4) negli ultimi tempi e cioè la questione della deducibilità (o meno) dei canoni corrisposti per la concessione dell’arenile comunale a persone fisiche. A tal riguardo, la giurisprudenza di merito – almeno per il momento e in attesa di un chiarificatore intervento nomofilattico dei Supremi Giudici – si attesta prevalentemente sul diniego della deducibilità di siffatti canoni. Dallo studio delle sentenze de quibus, è dato riepilogare le ragioni comuni poste a suffragio della reiezione delle istanze dei contribuenti. Anzitutto, il punto di partenza da cui muove la rammentata giurisprudenza è la tassatività degli oneri deducibili. Da qui, si ritiene che l’art. 10, lett.

e prescrittivi rammenta che «la distinzione tra questi due tipi di enunciati è connessa alla distinzione tra due tipi di controversie: controversie relative a fatti (come stanno le cose?) e controversie relative a norme e/o valori (che cosa si deve fare? Che cosa e bene?). Le controversie intorno a fatti, in linea di principio, possono sempre essere risolte, e la soluzione va cercata nell’estensione o nell’approfondimento delle conoscenze. Le controversie normative o di valore non sempre possono essere risolte, e comunque la soluzione, se mai e possibile, dipende dall’argomentazione e dalla persuasione». L’argomentazione si pone, quindi, al centro delle questioni interpretative in ordine alle norme. (3) Al riguardo, anche alla luce degli artt. 53, 117, 119 Cost., si può ritrarre il convincimento che «vi è una nozione di sistema tributario – e di tributo – in qualche modo “a monte” della disciplina positiva, anche delle norme costituzionali, che la presuppongono, pur conformando il complesso di istituti giuridici ordinati al “concorso alle pubbliche spese” e ponendosi quale parametro di legittimità delle scelte legislative in materia» (in termini, A. Fedele, Concorso alle pubbliche spese e diritti individuali, in Riv. dir. trib., fasc. 1, 2002, 31). (4) C.T.R. di Firenze, sent. 9 aprile 2018, n. 684; C.T.R. di Firenze, sent. 16 gennaio 2018, n. 41; C.T.R. di Firenze, sent. 19 dicembre 2016, n. 2243; C.T.R. di Firenze, sent. 20 maggio 2016, n. 957; C.T.R. di Firenze, sent. 4 aprile 2014, n. 721; C.T.R. di Firenze, sent. 9 marzo 2016, n. 468. A favore del contribuente si registrano, C.T.R. di Firenze, sent. 10 luglio 2018, n. 1377; C.T.R. di Firenze, sent. 18 ottobre 2017, n. 2236; C.T.R. di Firenze, sent. 1° febbraio 2016, n. 143; C.T.R. di Firenze, sent. 29 aprile 2015, n. 805; C.T.R. di Firenze, sent. 21 aprile 2015, n. 725.


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a) del TUIR faccia riferimento solo ai gravami posti sugli immobili caratterizzati dalla realità (e non già dalla personalità) del rapporto. Sulla base di tale premessa maggiore, i giudici fiorentini danno per assodato che la concessione dell’arenile comunale sia costitutiva di un «rapporto sinallagmatico», ottenendo «il godimento del suolo pubblico da cui gli immobili di proprietà privata traggono un beneficio non potendo diversamente gli stessi insistere sull’area demaniale senza un titolo che lo legittimi». La conclusione, quindi, è di ritenere indeducibile i canoni corrisposti dal concessionario, siccome – secondo tale ricostruzione – l’erogazione avrebbe titolo in un rapporto personale in base al quale il privato può trarre beneficio dal suolo demaniale. Tale essendo in estrema sintesi il percorso seguito a sostegno della tesi erariale, non si può fare a meno di rilevare molteplici profili di criticità ritraibili da quel ragionamento. Prima di scendere in medias res, un adeguato riesame della vicenda richiede, sotto il profilo metodologico, un approccio interdisciplinare, essendo necessario indagare quale sia l’esatto contenuto dei diritti scaturenti dalla concessione dell’arenile comunale. Più nel dettaglio e sotto il profilo del diritto amministrativo, si tratta di comprendere se la concessione comunale possa costituire uno ius in re aliena sul demanio marittimo e, là dove tale indagine dia esito positivo, occorre conoscere quale sia l’oggetto del diritto, ovvero se si tratti del suolo demaniale oppure del fabbricato che ivi si erge. Ciò posto occorrerà recuperare il “manico” dei concetti tributari. In particolare si tenterà di definire il senso e la funzione degli “oneri deducibili” nel sistema delle imposte sui redditi. Ciò si combina con l’estrazione del significato da attribuire agli “oneri gravanti sui redditi degli immobili” alla luce delle categorie “nominate” di cui all’art. 10, lett. a) (ossia i canoni, i censi, i livelli e i contributi consortili). Al riguardo, occorre capire se la voce deducibile richieda effettivamente un onere reale oppure se sia sufficiente un rapporto personale di godimento. Una volta sciolto questo nodo, si pone il quesito circa l’individuazione del soggetto che produce il reddito immobiliare. 2. Natura e contenuto del diritto costituito dalla concessione su bene demaniale: il diritto amministrativo viene in soccorso. 2.1. Rimanendo fedeli all’ordine che ci siamo dati nel percorso argomentativo, occorre affrontare un primo tema di indagine e cioè cosa sia l’arenile comunale. Nel corso del tempo non vi è stata uniformità di vedute circa l’inquadramento giuridico di tale elemento morfologico. E difatti, si discuteva se l’arenile potesse rientrare nel concetto di «spiaggia», quale enucleato dall’art.


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822 c.c. e dall’art. 28 c.n. nel novero dei beni assoggettati al regime dei beni del demanio marittimo. L’elencazione proposta dalle citate disposizioni, tuttavia, non è affatto esaustiva e non annovera le molteplici varietà morfologiche connotanti oggettivamente l’essenza del litorale. E del resto, né il codice civile, né il codice della navigazione si preoccupano di esplicitare le caratteristiche distintive dei singoli beni demaniali marittimi, riservando all’interprete l’esatta definizione dell’idea di spiaggia (o di quella di “lido”). Al riguardo, in dottrina si è assistito ad un tormentato dibattito circa la figura di “spiaggia”, con l’elaborazione di molteplici e variegate ricostruzioni, ma tutte prive di reale pregio giuridico per via della tendenza ad enunciazioni di carattere empirico (5). Un’attenta lettura del fenomeno, però, ha contribuito all’individuazione di alcuni caratteri distintivi e segnatamente: (1) dal punto di vista geografico, la spiaggia è il tratto di terra, contiguo al lido, che una volta era toccato dal mare, con conseguente mutevolezza dei propri confini in base alla natura dei luoghi; (2) la natura geologica del terreno è priva di rilevanza (potendo trattarsi di un terreno sabbioso, ghiaioso, roccioso, argilloso, ecc); (3) dal punto di vista giuridico, occorre che il tratto di terra sia suscettibile di soddisfare i pubblici usi del mare: tale elemento attribuisce qualificazione giuridica al dato geografico, imprimendone il carattere di demanialità alla spiaggia (6). In questo dibattito, si è posto anche il problema degli “arenili” che, come detto, non sono nominati espressamente dai codici. Sicché, ci si è chiesti se essi (arenili) possano ritenersi acclusi nel concetto di “spiaggia” oppure se debbano considerarsi beni pubblici, non rientranti nel demanio marittimo. Dal punto di vista morfologico, gli arenili sono quelle porzioni originariamente facenti parte di una spiaggia che si è naturalmente allargata verso il mare. Secondo una prima chiave di lettura giuridica, l’arenile non è nient’altro che la spiaggia, siccome si forma in ragione del naturale ritrarsi del mare e al conseguente allargamento della spiaggia, con la conseguenza che essa avrebbe carattere della demanialità (7). Chi invece enfatizza l’elemento della necessaria subiezione ai pubblici usi marittimi rileva l’attitudine dell’arenile a distinguersi dalla spiaggia sotto il profilo funzionale. Si rimarca, invero, che fra l’idea di

(5) F.A. Querci, Demanio marittimo (voce), in Enc. dir., vol. V, 1959, Milano. (6) D. Gaeta, Lido e spiaggia (voce), in Nov. Dig. It., vol. IX, Torino, 1963, 919; F.A. Querci, ult. op. cit. (7) F.A. Querci, ult. op. cit.


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spiaggia e quella di arenile si instaura un rapporto direttamente proporzionale secondo cui «non vi può essere un arenile tuttora usato per usi pubblici, che altrimenti sarebbe ancora una spiaggia» così come «non v’è spiaggia che non sia più soggetta a tali usi, perché allora si tratterebbe di arenile» (8). Sul punto è intervenuta anche la giurisprudenza di legittimità che ha acclarato la riconducibilità dell’arenile al demanio marittimo, assieme al lido del mare e alla spiaggia. In particolare, la stessa disciplina giuridica della spiaggia va riferita all’arenile, atteso che quest’ultimo viene definito come il «tratto di terraferma che risulti relitto dal naturale ritirarsi delle acque». Come tale, i caratteri essenziali della spiaggia e dell’arenile convergono dal punto di vista morfologico (trattandosi di zone dalle quali il mare si è ritirato) e giuridico (in ragione della comune destinazione – anche soltanto allo stato potenziale – agli usi pubblici marittimi, quali l’accesso, l’approdo, tirata in secco dei natanti, operazioni attinenti alla pesca da terra, ecc.) (9). 2.2. Assodato, quindi, il carattere demaniale dell’arenile, è dato chiedersi quali siano gli effetti e le modalità di sfruttamento del suolo demaniale (id est, l’arenile). Al riguardo, le Commissioni tributarie – in qualche pronuncia – sembrano confondere l’inalienabilità e la non usucapibilità (art. 823 c.c.) con la possibilità per la Pubblica Amministrazione di costituire diritti reali di godimento sui beni del demanio marittimo. Sul punto si apre un ampio capitolo, sul quale sono stati profusi fiumi di inchiostro, ma che dobbiamo sintetizzare per far emergere ciò che quivi maggiormente interessa. Secondo il nostro codice civile, contrariamente a quanto talvolta è stato asserito dai giudici tributari (10), i beni demaniali possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, seppur «nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano». È vero che l’art. 823 c.c. utilizza una formula testuale negativa,

(8) G. Righetti, Lido del mare e spiaggia, in Dig. comm., IX, Torino, 1993, il quale comunque riconosce come la ricostruzione non sia determinante sul regime demaniale del bene, in quanto sulla scorta di una norma speciale (art. 35 c.n.) occorre all’uopo un atto particolare di «esclusione» della demanialità. (9) Cass. civ. Sez. II, sent., 11 maggio 2009, n. 10817. (10) Ci si riferisce quivi alla C.T.R. di Firenze, sentenza 9 aprile 2018, n. 684, là dove si nega che «possa qualificarsi di natura reale la facoltà di insistenza che scaturisce dall’atto di concessione tra Ente concedente e concessionario. Escluderebbe, peraltro, tale ipotesi l’insensibilità dei beni demaniali a qualsiasi diritto reale rivendicabile da un soggetto terzo, essendo i beni demaniali, per loro natura, inalienabili, inusucapibili e sottratti alla costituzione di diritti reali di godimento e a qualsiasi azione o iscrizione pregiudizievole da parte di terzi».


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ma il senso complessivo non può che essere il seguente: i diritti su tali beni, di regola, non possono essere attribuiti a soggetti diversi dagli enti pubblici territoriali (cui spetta la pienezza della titolarità proprietaria); tuttavia, tali diritti possono essere assegnati ai privati in via eccezionale e secondo quanto prescritto delle leggi speciali. Nel caso degli arenili, ciò è possibile alla stregua della disciplina del demanio marittimo (art. 30 c.n.). La differente lettura in sede tributaria risulta parziale rispetto all’esatto contenuto dell’art. 823 c.c., con la conseguenza che – volendo richiamare le parole di Celso – «incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliqua particula eius proposita, iudicare vel respondere». Già questo aspetto disvela un primo profilo critico dell’orientamento giurisprudenziale toscano. E difatti, secondo il tradizionale insegnamento della giurisprudenza di legittimità (11), esistono tre differenti modalità di uso dei beni demaniali: 1) quello comune, che è conforme alla generale destinazione del bene e riconosciuto indifferentemente a tutti i cittadini (e.g. fare una passeggiata lungo il lido del mare); 2) l’uso speciale, che è coerente con la destinazione, ma è consentito solo ad alcuni in ragione di apposito titolo (ad esempio il pagamento del pedaggio autostradale); 3) l’uso eccezionale che trasmoda la normale destinazione del bene e richiede un provvedimento ad hoc della Pubblica Amministrazione. 2.3. Orbene, occorre soffermarci più diffusamente su tale ultima categoria di uso, siccome nella presente trattazione essa massimamente rileva ai fini dei risvolti tributari della vicenda. E difatti, occorre chiedersi quale sia la natura del rapporto che scaturisce dal provvedimento amministrativo. La risposta può dipendere dal concreto contenuto della concessione costitutiva. E invero, l’effettiva consistenza del diritto riconosciuto al privato dev’essere desunta dall’interpretazione del titolo (i.e. la concessione) secondo le meta-norme (12) esegetiche previste per i contratti (artt. 1362 ss. c.c.) e per gli atti amministrativi (13).

(11) Cass. civ., sent. 19 luglio 1969, n. 2707. (12) Sulla definizione di meta-norme, quali norme di secondo grado aventi ad oggetto altre norme v. E, Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici. Teoria generale e dogmatica, Milano, 1971, 238 ss.; G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 28. (13) Al riguardo, si rammenta che l’interpretazione degli atti amministrativi segue le medesime regole recate dall’art. 1362 e ss. c.c.. Fra tali criteri è preminente il criterio letterale, in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo. Gli effetti degli atti amministrativi


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Il procedimento ermeneutico sull’atto, semplice o complesso che sia, deve pur sempre essere seguito. Ma è pur sempre lecito domandarsi (ai fini che qui vengono in rilievo) se, in astratto, la concessione sia suscettibile di dar luogo a diritti reali su beni del demanio marittimo. Al riguardo, sono molteplici gli elementi che depongono per un riscontro positivo. Anzitutto, la disciplina del codice della navigazione fa un generico richiamo al diritto civile «ove manchino disposizioni del diritto della navigazione e non ve ne siano di applicabili per analogia» (art. 1 c.n.). Tale disposizione è importante per ciò che concerne l’individuazione della disciplina applicabile in materia di costruzioni autorizzate sul suolo demaniale rispetto alla quale fattispecie manca una disposizione speciale recata dal codice della navigazione. Sicché, già dal punto di vista delle fonti risultano invocabili le norme sulla superficie previste dal codice civile (art. 952 ss. c.c.). Tale ius in re aliena – come è noto – si pone in relazione antitetica rispetto al principio dell’accessione, quale consacrato nella massima secondo cui omne quod inaedificatur solo cedit. Tutto ciò che viene costruito al di sopra (oppure al di sotto) del suolo è oggetto di un acquisto a titolo originario della

devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può «ragionevolmente intendere», anche alla luce del principio costituzionale di buon andamento, secondo cui la P.A. deve operare in modo chiaro e lineare, fornendo ai cittadini regole di condotte certe e sicure, a maggior ragione là dove da esse possano discendere conseguenze negative (cfr. Cons. Stato Sez. V, sent. 12 settembre 2017, n. 4307; Cons. Stato, sez. III, sent. 10 giugno 2016, n. 2497; Cons. Stato, V, sent. 13 gennaio 2014 n. 72). Sol ove esista un dubbio circa l’esatto contenuto semantico delle parole impiegate nel provvedimento amministrativo, sarà possibile ricorrere in ausilio ad altri “elementi esterni” al testo (quali le circostanze storiche o il comportamento tenuto dall’Amministrazione). Oltre al tenore letterale del provvedimento, il giudice deve ricostruire, in ogni caso e per un verso, l’intento perseguito dall’amministrazione (art. 1362 c.c.), nonché il potere concretamente esercitato sulla base del contenuto complessivo dell’atto (c.d. interpretazione sistematica ex art. 1363 c.c.); per altro verso, gli effetti dell’atto devono essere individuati, alla stregua del canone di buona fede (art. 1366 c.c.), solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere (cfr. Cons. Stato, sez. V, sent. 9 ottobre 2015, n. 4684; Cons. Stato, sez. III, sent. 2 settembre 2013, n. 4364; Cons. Stato, sez. V, sent. 27 marzo 2013, n. 1769). In dottrina, v. M.S. Giannini, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria giuridica generale dell’interpretazione, Milano, 1939; G. Miele, Interpretazione dei contratti ed interpretazione degli atti amministrativi, in Giur. Cass. civ., 1955, IV, 207 ss.; E. Cannada Bartoli, Interpretazione giudiziaria degli atti amministrativi, in Foro amm., 1956, II, 1, 175 ss., i quali Autori concordano con l’applicazione delle tecniche di interpretazione del codice civile, siccome l’atto rientra nel più ampio concetto di negozio giuridico. Sull’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale del tema, vedasi S. Vasta, Alcune riflessioni sull’interpretazione nel diritto amministrativo, in Dir. amm., 2, 2009, 473 ss.


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proprietà da parte del proprietario del suolo (art. 934 c.c.). Viceversa, la disciplina della superficie attribuisce il diritto su un bene immobile, mantenendolo separato dal diritto di proprietà del suolo su cui l’immobile si erge (14). In tal modo, la superficie opera come una sorta di fatto-diritto impeditivo dell’acquisto della proprietà dell’opera, limitando il diritto del proprietario del suolo. Lo stesso fenomeno lo si ritrae, a contrario, dall’art. 49 c.n., là dove si prevede che, al termine della concessione (e salvo che non sia disposto diversamente dallo stesso provvedimento amministrativo), le costruzioni sul suolo demaniale che non siano amovibili restano definitivamente acquisite allo Stato (15). Ciò assume un triplice significato dal punto di vista giuridico e cioè: 1) che l’ente territoriale può concedere un diritto di superficie a costruire o a mantenere il diritto su un immobile esistente sul demanio marittimo (qual è l’arenile); 2) che al termine della concessione (e, quindi, alla scadenza del diritto in re aliena) si rinnova l’applicazione del principio gaiano superficies solo cedit, con la conseguenza che il diritto di proprietà del suolo si espande, ipso iure, sul diritto di proprietà sulla costruzione. Tale effetto non è niente di più e niente di meno di ciò che accade al momento di estinzione del diritto di superficie rispetto alla costruzione di edifici stabili (art. 953 c.c.). A riprova della natura reale del diritto del concessionario depone, altresì, l’art. 41 c.n. che è diretto corollario di quanto si può ritrarre dall’art. 49 c.n.. E invero, il concessionario può costituire ipoteca sulle opere da lui costruite

(14) È interessante notare la contiguità fra le origini romanistiche dell’istituto e la normativa attuale. A chi edificava su suolo altrui, il diritto pretorio riconosceva tutela processuale (ossia l’interdictus de superficiebus) rispetto alle turbative del godimento dell’immobile edificato da parte del superficiario. Si narra che, allorquando Tarquinio Prisco (VII secolo a.C.) pavimentò l’area del Foro, artigiani e commercianti ottennero la concessione di edificare su suolo pubblico, onde evitare che diventassero res in patrimonio populi (ciò che, nell’età del principato, veniva chiamata res in patrimonio fisci, o Caesaris). Sul tema, v. amplius A. Schiavone, Diritto privato romano – un profilo storico, Torino, 2013, 332-335. (15) Cfr. in dottrina, vi è un generale accordo nell’affermare che il concessionario di opere su beni demaniali acquista la proprietà della stessa, seppur nei limiti derivanti dalla concessione, cfr. G. Pasetti Bombardella, voce Superficie (diritto privato), in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990; G. Pugliese, Superficie, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Libro terzo. Della proprietà (Art. 810-1172), Bologna-Roma, 1976, 581; R. Albano, Della superficie, in Commentario del Codice civile, lb. III. Della proprietà, 2, Torino, 1968, 629; G. Balbi, Il diritto di superficie, Torino, 1947, 94. Secondo A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, II, Napoli, 1982, 704, è corretto configurare il fenomeno come diritto pieno e incondizionato del concessionario nei confronti della generalità dei soggetti e di un diritto affievolito nei confronti della P.A. (nello stesso senso, A. Guarnieri, Superficie (voce), in Digesto, XIX, Torino, 1999, 206-227).


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sui beni demaniali (previa autorizzazione dell’autorità concedente). Ma sono suscettibili di ipoteca – secondo l’elenco tassativo recato dall’art. 2810 c.c. – solo «1) i beni immobili che sono in commercio con le loro pertinenze; 2) l’usufrutto dei beni stessi; 3) il diritto di superficie; 4) il diritto dell’enfiteuta e quello del concedente sul fondo enfiteutico». Sicché, con riguardo alla fattispecie prevista dall’art. 41 c.n. il concessionario può costituire ipoteca su un bene costruito su suolo demaniale sol ove egli possa vantare un diritto di superficie, atteso che le altre figure enucleate dalla norma riguardano immobili commerciabili (ossia il n. 1 e il n. 2) e, come tali, non si addicono alle caratteristiche proprie dei beni demaniali. Tutti questi dati rendono possibile l’emersione di un diritto reale di superficie sul demanio marittimo e, quindi, anche sugli arenili. Ma ciò viene talvolta frainteso dalla giurisprudenza tributaria che tende a negare la costituzione del diritto reale in ragione della “precarietà” del diritto vantato dal concessionario (16). Si ritiene, al riguardo, che, nei rapporti con la P.A., il concessionario abbia una mera facoltà e non già un vero e proprio diritto reale di godimento in ragione della revocabilità ad nutum della concessione. È vero che l’Amministrazione può esercitare il potere di revoca «a giudizio discrezionale». Ma ciò discende dal regime speciale del suolo su cui si erge l’immobile, ossia la regolamentazione che ammette diritti a favore di terzi «nei modi e nei limiti» previsti dalla legge. Questa (asserita) instabilità del rapporto non pare affatto decisiva sulla qualificazione del rapporto in termini reali. Si deve tener conto, infatti, della circostanza che anche la proprietà superficiaria (come la concessione) può soggiacere ad un termine prestabilito, la cui scadenza produce l’effetto dell’accessione (art. 953 c.c.). Tant’è che la scissione della proprietà della

(16) In tal senso parrebbe leggersi la già citata C.T.R. di Firenze, sent. 9 aprile 2018, n. 684, secondo cui «all’interno dell’istituto della concessione delle aree demaniali occorre distinguere il rapporto che lega il concessionario con l’Amministrazione proprietaria del bene demaniale e il rapporto che può intercorrere fra il concessionario e i terzi. Infatti, mentre nel primo è configurabile solo la facoltà del privato di mantenere sul proprio suolo demaniale il proprio immobile dietro pagamento di un canone che è la controprestazione per la concessione di tale facoltà, sempre revocabile (donde la posizione del concessionario nei confronti dell’Ente concedente è di diritto interesse legittimo), data al proprietario del bene e non all’immobile di proprietà dello stesso; è solo nell’esercizio di tale facoltà nei confronti dei terzi che può configurarsi la rivendicazione esclusivamente nei confronti degli stessi terzi, di un diritto soggettivo assimilabile a un diritto reale di godimento».


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costruzione da quella del suolo, per un tempo determinato, è stata classificata in dottrina come una delle fattispecie di “proprietà temporanea” (17). Quindi, dal punto di vista della limitazione temporale non sussistono delle differenze particolari in ordine agli effetti. Quanto poi ai rapporti con la Pubblica Amministrazione, vale la pena di rammentare che l’interesse pubblico costituisce un limite anche alla pienezza della proprietà privata. Il privato subisce gli effetti del provvedimento autoritativo sulla propria sfera giuridica senza che possa assumere alcun rilievo la propria volontà. Sicché, ove venga in rilievo la pubblica utilità, la P.A. può adottare provvedimenti ablatori che estinguono il diritto reale (e.g. l’espropriazione per pubblica utilità). Allo stesso modo, il diritto reale costituito con il provvedimento di concessione si estingue al venir meno del titolo. Ma ciò non può certo incidere sulla natura del diritto del concessionario nel tempo intercorso fra il rilascio della concessione e la relativa revoca. Si rientra pur sempre nello schema di produzione degli effetti giudici “norma–potere–effetto”, in cui l’Amministrazione ha costituito il diritto reale (mediante l’emanazione del provvedimento di concessione) e, in una fase successiva, lo ha estinto (mediante l’esercizio del potere di revoca). L’effetto che discende dall’esercizio del potere non incide “retroattivamente” sulla natura del diritto vantato dal concessionario. E del resto, il concessionario che è titolare di un diritto reale sul bene demaniale può agire, là dove subisca un pregiudizio per il fatto illecito di altra Amministrazione dello Stato, sempreché ciò avvenga anteriormente alla revoca da parte dell’Amministrazione concedente. Detto in altri termini, il concessionario può far valere il proprio diritto erga omnes, esperendo – se del caso e al ricorrere delle relative condizioni – l’azione di spoglio (art. 1145 c.c.) (18). Allo stesso modo, il concessionario può ottenere la trascrizione della proprietà superficiaria nei registri immobiliari (19), nonché la voltura catastale con menzione dei relativi intestatari (20). A ciò aggiungasi

(17) U. Natoli, La proprietà. Appunti delle lezioni, I, 2a ed., Milano, 1976, 219. (18) Cfr. Cass., sez. II, 30 maggio 1994 n. 5281; Cass. civ., sent. 19 luglio 1969, n. 2707, là dove si rimarca che, in caso di uso eccezionale di un bene demaniale, la concessione amministrativa «ha l’effetto di far sorgere nel privato una facoltà del tutto nuova e per di più diversa da quella spettante alla P.A. concedente, è ritenuta costitutiva di diritti di carattere privato, che ben possono farsi rientrare nella categoria di diritti su cose altrui (diritti reali)». (19) Cass. civ., sent. 22 novembre 1969, n. 3805. (20) Cfr. circolare Agenzia Demanio – Agenzia del Territorio – Ministero dei Trasporti


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che il titolare della concessione potrebbe costituire un diritto personale di godimento, dando in locazione l’immobile sul quale esercita il proprio diritto reale, oppure dare in sub-concessione il bene, previa autorizzazione dell’Amministrazione (21). 2.4. Dall’ampia digressione “amministrativistica” relativa alla vicenda, è dato ritrarre alcuni punti fermi dai quali occorre muovere prima di scendere nel dettaglio nella disciplina tributaria. E invero, l’operatore del diritto (sia esso un giudice oppure un funzionario di una P.A.) dovrà procedere al seguente esame per comprendere quale sia la natura del rapporto costituito con il provvedimento amministrativo: 1) in primo luogo, si deve interpretare la concessione secondo il suo contenuto letterale e sistematico delle disposizioni in esso contenute, facendo ricorso alla buona fede e tenendo conto di ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere. Ciò passa per una preliminare verifica circa la qualifica demaniale (o meno) del bene oggetto di concessione. Solo eventualmente si potrà fare ricorso ad elementi estrinseci rispetto al medesimo provvedimento amministrativo; 2) occorre verificare se il titolo attribuisce un uso eccezionale del bene demaniale, consentendo un uso che esorbita la normale destinazione; 3) inoltre, si deve accertare se la concessione ammetta la costruzione oppure il mantenimento di manufatti di carattere permanente, scindendo la proprietà del suolo da quella dell’immobile per tutta la durata della concessione e riconoscendo l’espansione del principio di accessione al termine del rapporto (ossia in caso di revoca, scadenza o decadenza della concessione); 4) infine, è da indagare se il potere attribuito al concessionario si estrinseca direttamente sulla cosa che ne costituisce l’oggetto immediato e se tale potere può essere fatto valere erga omnes, ancorché nei limiti delle peculiarità posti dal regime speciale dei beni demaniali. È chiaro che nel caso in cui sussista la surricordata separazione fra il diritto sul suolo (che rimane e non potrà che rimanere in capo all’ente pubblico in ragione della demanialità) e il diritto sull’opera (che viene costituito in capo

del 4 marzo 2008 n. 2592, secondo cui le concessionarie devono provvedere all’accatastamento delle opere fisse realizzate sul demanio marittimo. (21) L’art. 45-bis cod. nav. recita che «il concessionario, previa autorizzazione dell’autorità competente, può affidare ad altri soggetti la gestione delle attività oggetto della concessione. Previa autorizzazione dell’autorità competente, può essere altresì affidata ad altri soggetti la gestione di attività secondarie nell’ambito della concessione».


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al concessionario) ricorrerà un diritto reale di superficie. In caso contrario, il rapporto sarà di carattere personale, quale a seconda dei casi una locazione (se oneroso) oppure un comodato (se gratuito). Tale ricostruzione pare avere anche dei riscontri nella giurisprudenza di legittimità in materia di tributi (22). 3. Personalità dell’imposta sui redditi, tassatività e interpretazione delle disposizioni sugli oneri deducibili. – Ferme le prime conclusioni sulle modalità necessarie per procedere nell’indagine, è dato ora passare a trattare di questioni più tipicamente tributarie. Sotto questo profilo, la giurisprudenza di merito rammentata sovente nega la deducibilità dei canoni corrisposti sulla scorta della tassatività degli oneri deducibili. Ma sembra opportuna una maggiore ponderazione sul tema. 3.1. Come è ben noto, con la riforma fiscale degli anni ’70, si è assistito ad un ripensamento del sistema delle imposte in Italia, passando da un sistema basato su quattro imposte reali ad un’imposta personale e progressiva (l’IRPEF). Ciò che, tuttavia, risultava solo in apparenza, in quanto la frantumazione del presupposto (il reddito) in classi o categorie rimarcava un metodo cedolare ai fini della determinazione della base imponibile. Tutti i singoli indici di capacità contributiva erano (e sono, a tutt’oggi) ricavati per singole categorie reddituali e, quindi, con un riferimento alla “fonte”, come tipicamente avviene per i regimi di imposizione reale, là dove il reddito assume rilievo in ragione della produzione da parte di un cespite. Ciononostante il rapporto fra il soggetto passivo e il presupposto evidenzia come il regime – seppur fondato su regole proprie di ciascuna classe – racchiuda in una categoria unitaria (il reddito) tutti gli elementi di una data tipologia di forza economica, quali riferibili ad un unico contribuente. L’IRPEF dà luogo ad una forma di sincretismo nel

(22) Cfr. Cass., sez. trib., sent. 17 maggio 2017, n. 12331; Cass. civ. Sez. V, sent. 9 marzo 2004, n. 4769; Cass., sez. I, sent. 4 maggio 1998, n. 4402 secondo cui «al fine di stabilire se una concessione amministrativa su di un bene appartenente al demanio marittimo sia costitutiva di diritti aventi natura reale o meramente obbligatoria, risulta decisiva la complessiva interpretazione - di competenza del giudice di merito - del “titolo” costitutivo del diritto e, cioè, dell’atto di concessione, con particolare riferimento alla disciplina relativa alla destinazione delle opere costruite dal concessionario al momento della cessazione del rapporto». Gli arresti citati riguardavano imposte (nell’ordine di esposizione di cui sopra, ICI, INVIM, imposta di registro) in relazione alle quali il possesso a titolo di un diritto reale sul bene in concessione costituiva presupposto impositivo (nei primi due casi) oppure incideva sull’aliquota applicabile (nel caso del registro).


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racchiudere plurime forme di imposizione reale (a livello di presupposto e di base imponibile per ciascuna categoria reddituale), ma assume carattere personale dal punto di vista strutturale, in quanto recupera i vari indici espressivi di capacità contributiva in una determinazione unitaria della base imponibile (operando quindi in termini di misurazione dell’imposta). Il soggetto passivo assume preminente rilievo in relazione alle molteplici situazioni giuridiche suscettibili di valutazione economica e ad esso attribuibili. La struttura del tributo in senso personale, però, imporrebbe un regime di tassazione al “netto”, tenuto conto del fatto che tale tipologia di imposta corrisponde a criteri di imposizione “globali”. Sarebbe coerente con la prospettiva secondo cui l’Irpef pone in relazione il soggetto passivo al presupposto unitario che vi sia una considerazione complessiva della vicenda mediante una somma algebrica di componenti attive (incrementi patrimoniale) e negative (decrementi patrimoniali). In altri termini, l’imposizione personale (al netto) dovrebbe evitare di distinguere i costi di produzione del reddito dalle erogazioni necessarie all’esistenza del soggetto (riconducibili al c.d. minimo vitale). L’esistenza di limiti alla giuridica rilevanza di tali componenti negative snatura, per certi versi, la natura personale dell’IRPEF in termini di una strutturale considerazione unitaria degli indici di forza economica (23). Tuttavia, non si può negare nemmeno come risulti in concreto difficile considerare tutto ciò che costituisce decurtazione delle classi o categorie reddituali. Le limitazioni relative agli oneri deducibili discendono da ulteriori rilievi di carattere strettamente giuridico. E difatti, la discrezionalità del legislatore si deve muovere nella proporzionalità delle scelte in termini di idoneità, necessità e bilanciamento di interessi. L’operare di tale principio è riscontrabile anche in relazione all’attribuzione di giuridica rilevanza a costi (o spese) in termini di oneri deducibili o detrazioni. In quest’ambito, secondo l’insegnamento del Giudice delle Leggi (24), il legislatore deve considerare il «collegamento con la produzione del reddito»: sicché occorre che la misura fiscale (in specie, l’abbattimento dell’imponibile) sia un mezzo conforme al fine (qui, l’attribuzione di rilevanza al rapporto fra il soggetto passivo e il presupposto) e sia necessaria (nel senso che non vi debbono essere

(23) Cfr. A. Fedele, Imposte reali ed imposte personali nel sistema tributario italiano, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2002, 3, I, 450 ss. (24) Corte Cost., sent. 27 luglio 1982, n. 143; sent. n. 108 del 1983 e 239 del 1993; ord. nn. 948 del 1988 e 556 del 1987.


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duplicazioni nell’attribuzione di rilevanza al medesimo fatto-onere per il soggetto passivo). A ciò aggiungasi che deve ricorrere un «nesso di proporzionalità con il gettito generale» dei tributi per ciò che l’interesse del privato a vedersi riconosciuta la rilevanza di determinati costi (siccome riferibili al cespite) oppure di spese strettamente personali (seppur rilevanti ai fini dell’effettività della capacità contributiva in termini di minimo vitale) deve trovare un giusto equilibrio con le esigenze finanziarie dello Stato e, quindi, con la necessaria copertura della spesa pubblica. Lo stesso bilanciamento di interessi deve sempre operare anche in relazione a quello stesso interesse del soggetto passivo rispetto a quello legalistico-statuale della prevenzione di illeciti fiscali, dovendo il legislatore esercitare la propria discrezionalità alla luce dell’«esigenza fondamentale di adottare le opportune cautele contro le evasioni di imposta». 3.2. Questo giudizio relazionale fra fini e mezzi conduce all’elaborazione delle condizioni di deducibilità di taluni oneri (art. 10 TUIR) che possono riassumersi come segue: 1) indeducibilità delle componenti negative già considerate nelle singole categorie reddituali; 2) effettività (e prova); 3) tassatività. Dal reddito complessivo si deducono gli oneri che non sono oggetto di deduzione secondo la regolamentazione “cedolare” prevista per ciascuna categoria reddituale. La deduzione dev’essere unica (e, quindi, necessaria) rispetto al medesimo fatto che costituisce decurtazione redditualmente rilevante in relazione alla fonte di produzione. L’indeducibilità di detti oneri pone un divieto di doppia deduzione sulla classe reddituale e sul reddito complessivo del soggetto passivo. E difatti, sembra quasi superfluo osservare che, se non vi fosse tale limite, si verificherebbe un insopportabile sbilanciamento a favore del contribuente, con sproporzione rispetto all’esigenza di finanziamento della spesa pubblica. Ma, oltre a ciò, non avrebbe veramente senso consentire una discriminazione qualitativa nella singola voce reddituale attribuendo rilevanza all’onere e, al contempo, riconoscerne rilevanza in termini “globali” rispetto alla determinazione della base imponibile unitaria del soggetto passivo. Effettività significa che gli oneri devono essere effettivamente sostenuti dal soggetto passivo nel periodo di imposta e devono essere rimasti a suo


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carico (25). Sicché, la regola generale è, tendenzialmente (26), quella propria del principio di cassa. A ciò si aggiunge l’inevitabile onere probatorio a carico del contribuente mediante idonea documentazione (onus probandi incubit ei qui dicit) (27). Se solo il legislatore può porre in essere una valutazione proporzionale fra le istanze di finanziamento pubblico e l’esigenza del privato a vedersi riconoscere la rilevanza della decurtazione reddituale, ciò non può che voler dire che le spese o i costi enucleati nelle disposizioni relative ad oneri deducibili sono racchiusi in un numerus clausus. La natura personale dell’imposta, difatti, non ha come inevitabile corollario quello di attribuire al soggetto passivo un diritto (quale situazione soggettiva attiva nei confronti del Fisco) in relazione a qualsiasi componente negativa. E ciò ancorché la rilevanza in termini complessivi dell’indice di forza economica (il reddito) dovrebbe condurre ad una tassazione “al netto”. Le erogazioni che incidono sulle condizioni personali del contribuenti e quelle che presentano un nesso con la fonte di produzione del reddito possono assumere rilevanza solo se superano il test di proporzionalità posto in essere dal legislatore. Sicché, se è vero che il contribuente non può vantare un diritto soggettivo alla riduzione dell’imponibile in relazione a qualsiasi spesa o costo, è anche vero che, là dove il legislatore riconosca la rilevanza di un fatto incidente (in negativo) sull’indice di forza economica, il contribuente – ricorrendone i requisiti richiesti – può vantare un vero e proprio diritto nei confronti dell’Erario (28).

(25) Cfr. F. Crovato, Gli oneri deducibili, in L’imposta sul reddito delle persone fisiche, V. Ukmar - F. Tundo (a cura di), 2, Milano, 2003, 47; M. Beghin, La determinazione dell’imponibile e dell’imposta, in L’imposta sul reddito delle persone fisiche, I, in Giur. sist. dir. trib., F. Tesauro (a cura di), Torino, 1994, 154-155; A.d.E., ris. n. 77/E/2007. (26) Al riguardo, si segnala la possibilità di “riporto a nuovo” , nella misura non dedotta nel periodo di imposta, degli oneri deducibili relativi a somme tassate e restituite al soggetto erogante (art. 10, co. 1 lett. d-bis, TUIR). Si tratta di una sorta di “sopravvenienze passive” che assumono rilievo in relazione ai redditi di lavoro dipendente oppure di lavoro autonomo. L’ammontare non dedotto dal contribuente nel periodo d’imposta di restituzione può essere portato in deduzione nei periodi d’imposta successivi fino a capienza dei relativi redditi complessivi. In alternativa, il contribuente può chiedere il rimborso di imposta secondo le modalità recate dal D.M. 5 aprile 2016. (27) Sotto il profilo probatorio, in origine, era previsto l’onere di allegazione della documentazione in parola alla dichiarazione. Attualmente, i contribuenti devono conservare i documenti probatori degli oneri deducibili fino alla scadenza del termine previsto per l’accertamento, ossia fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (art. 3, d.P.R. n. 600/1973, come sostituito dall’art. 1, d.lgs. n. 241/1997). (28) Al riguardo, la Corte Costituzionale, con sentenza 14 luglio 1982, n. 134, ha


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La tassatività ha delle implicazioni sotto il profilo delle regole ermeneutiche, in quanto le relative disposizioni – caratterizzandosi per essere eccezionali – non possono ricomprendervi fattispecie non espressamente previste (29) e non possono essere oggetto di applicazione analogica. È tuttavia ben possibile un’interpretazione estensiva, allorquando il senso ritraibile dal testo può essere ampliato secondo i canoni della logica. Ciò non accade nell’interpretazione analogica per una triplice ragione: 1) manca del tutto una disposizione di legge (lacuna); 2) l’analogia è un procedimento conoscitivo che consente di ritrarre quale sarebbe stato l’assetto prescelto dal legislatore se fosse stato previsto il caso, quand’invece nell’interpretazione estensiva, si fa ricorso alla logica per scoprire quale fosse il senso voluto dal legislatore nel momento in cui ha posto il testo legislativo; 3) l’analogia pone una regolamentazione prima non esistente, mentre l’interpretazione estensiva consente di individuare uno dei possibili sensi che possono ritrarsi dal testo legislativo (30). L’elenco dell’art. 10 appare molto eterogeneo e caratterizzato da un elevato grado di empiricità (31), dovuto in parte all’utilizzo legislativo della leva fiscale per ragioni di politica economica e, segnatamente, per incentivare determinate erogazioni ritenute socialmente rilevanti (si pensi alle deduzioni per erogazioni in favore di ONG, dell’Istituto per il sostentamento del clero o di altre religioni ecc.). Qui, la valutazione proporzionale fra il gettito e l’interesse del contribuente viene eseguita in ragione di valori costituzionali meritevoli di tutela attraverso modalità di destinazione della ricchezza privata (32).

chiarito che «la detraibilità non è secondo Costituzione necessariamente generale ed illimitata, ma va concretata e commisurata dal legislatore ordinario secondo un criterio che concili le esigenze finanziarie dello Stato con quelle del cittadino chiamato a contribuire ai bisogni della vita collettiva, non meno pressanti di quelli della vita individuale. Il punto di incontro e di contemperamento di tali esigenze varia a seconda dell’evoluzione economica, finanziaria e sociale del Paese e, come si è detto, spetta al legislatore ordinario di determinarlo, tenendo conto di tutti i dati del problema». (29) Cass. n. 795/2000; M. Leo - F. Monacchi - M. Schiavo, Imposta sul reddito delle persone fisiche, Torino, 2010, 122; F. Petrucci, La tassatività degli oneri deducibili ai fini dell’irpef, in Riv. dir. trib., 2, 2000, 117. (30) A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 2010, 62 . (31) E. De Mita, Fisco e Costituzione – Questioni risolte e questioni aperte, I, 19571983, Milano 1983; E. De Mita, La deduzione degli oneri e il principio di personalità dell’Irpef, in Corr. trib., 1981, 1003; E. De Mita, Oneri deducibili: fiscalismo assoluto, in Corr. trib., 1992, 1179. (32) M. Miccinesi, Reddito delle persone fisiche (imposta sul), in Dig. disc. priv., Sez. comm., VI, Torino, 1991, 181.


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Oltre a tali fattispecie, le altre ipotesi riguardano spese che incidono sulla situazione strettamente personale del soggetto passivo (33) (come nel caso delle spese mediche, dei contributi previdenziali, degli assegni di mantenimento o alimentari). In linea con la surricordata necessità di individuare un collegamento con la fonte reddituale, un’ulteriore categoria ritraibile dall’art. 10 è quella relativa alle spese di produzione del reddito (34): si tratta di fattispecie in cui è evidente il collegamento fra il presupposto e il soggetto passivo. È il caso dei «canoni, censi e livelli» (sui quali ci soffermeremo amplius nel prosieguo) rispetto ai redditi fondiari secondo il nesso fra il possesso dell’immobile e il relativo possessore (art. 10, lett. a). Tale nesso si ripropone rispetto alle “somme tassate e restituite all’erogante” (art. 10, lett. d-bis), là dove l’instabilità del reddito assume rilievo mediante una componente negativa che riequilibra il venir meno dell’indice economico: ciò che è certamente necessario e idoneo (rispetto all’effettività della capacità contributiva) nelle categorie dei redditi di lavoro autonomo e quelli di lavoro dipendente, là dove mancava uno strumento tecnico che funzionasse analogamente a quanto accade per le sopravvenienze passive nei redditi di impresa. E ancora, sono costi di produzione del reddito le indennità per perdita di avviamento al conduttore di immobili non abitativi (art. 10, lett. h) oppure le somme erogate ai propri dipendenti che sono chiamati ad assolvere funzioni elettorali. Si tratta di fattispecie in cui l’erogazione segna il legame fra il cespite (o, più in generale, la fonte) e il soggetto passivo dell’IRPEF. 3.3. Alla luce di tale excursus normativo, si può arrivare a concludere che per “onere deducibile” si può intendere quella spesa strettamente personale oppure quel costo collegato alla fonte reddituale (non considerato a livello cedolare) che, pur rispecchiando l’attitudine del soggetto ad assolvere il tributo (35), assume rilevanza se e in quanto è stato fatto oggetto di una preliminare valutazione in termini di proporzionalità fra mezzi e fini e nel rapporto fra l’interesse del soggetto passivo (a vedersi riconoscere, nella maggior misura, le componenti negative incidenti sulla globalità dei redditi) e l’interesse dello Stato ad un equilibrato sostegno della spesa pubblica.

(33) Come richiesto dalla legge delega di riforma, art. 2, n. 6, l. n. 825/1971. F. Uricchio, Gli oneri deducibili nel T.U.I.R., in Boll. Trib., 8, 1990, 573. (34) M. Miccinesi, ult. op. cit., 181; Ferlazzo Natoli, Diritto Tributario, Torino, 2010. (35) M. Maccarone, Persone fisiche (imposta sulle), in Enc. Dir., XXXIII, Milano, 1983, 451; M. Maccarone, Teoria e tecnica delle imposte sui redditi, Milano, 1990, Vol. I, 87; M. Miccinesi, ult. op. cit., 181.


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4. Oneri gravanti sui redditi degli immobili: norma tributaria desueta oppure ancora viva? 4.1. È ricorrente leggere nei commenti relativi all’art. 10, lett. a) che «gli oneri, censi e livelli» sono degli istituti ormai scomparsi dall’attuale contesto giuridico ed economico, con la conseguenza che la previsione della deducibilità in relazione a tali oneri avrebbe senso solo in relazioni a remote ipotesi di sopravvivenza fino ai giorni nostri (36). Ciò può essere anche condivisibile, ma non bisogna dimenticare Celso e leggere interamente la disposizione (incivile est, nisi tota lege perspecta). E difatti, alle figure dei canoni, censi e livelli (le quali indubbiamente non possono che essere recessive allo stato attuale) si affiancano quelle dei «contributi obbligatori per legge o in dipendenza di un provvedimento di una pubblica amministrazione», nonché quella più ampia degli «oneri gravanti sui redditi degli immobili». In queste ultime due fattispecie è dato cogliere l’attuale vitalismo della norma. La latitudine della categoria degli “oneri sui redditi immobiliari” è più ampia rispetto a quella delle altre figure, tant’è che la residualità delle altre tipologie di erogazione impone di ritenere che sussista un rapporto di species a genus. In tal senso, vengono in rilievo due indici testuali: il primo risiede nella circostanza che l’art. 10 evoca il concetto di “altri oneri gravanti sui redditi degli immobili” rispetto a quelli già nominati (giustappunto, i canoni, censi e livelli); il secondo dato concerne il fatto che anche i contributi consortili sono “compresi” negli “altri oneri”. Tali aspetti costituiscono l’addentellato testuale per fondare l’assunto secondo cui la categoria degli “oneri gravanti sui redditi degli immobili” è desumibile dagli elementi che accomunano le figure nominate, pur esistendo un rapporto di continenza fra il primo concetto e il novero degli istituti espressamente menzionati. Sicché, il corretto modo di procedere per comprendere quale sia la natura di siffatti oneri è anzitutto quello di esaminare il contenuto delle specifiche categorie menzionate dal citato art. 10 cit. 4.1.1. Il canone riguardava una prestazione periodica, prevalentemente fondiaria (siccome gravante direttamente sul fondo) che trovava titolo, talvolta, in un rapporto contrattuale (rapporto di diritto privato), talaltra, invece era dovuto ad una autorità, quali la Chiesa o il principe o il sovrano, o l’Erario, in

(36)

M. Leo - F. Monacchi - M. Schiavo, ult. op. cit., 166.


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ragione di un potere di supremazia (rapporto di diritto pubblico) (37). 4.1.2. Il livello è un contratto agrario rispetto al quale il proprietario terriero (livellante) concedeva al livellario il godimento in perpetuo previo versamento di un canone annuo (giustappunto, il livello), da assolvere in misura fissa (38). 4.1.3. Il censo è una prestazione annua perpetua che il proprietario si riservava nel momento della cessione del terreno. Detto in altri termini, si trattava di una rendita perpetua (39). Rispetto a tali tipi di prestazioni si può discutere se si tratti di oneri reali oppure di rapporti personali: rispetto ai primi, il rapporto con il bene è l’unico titolo dell’obbligo di prestazione e l’adempimento è garantito dal bene cui l’onere reale si riconnette, nel senso che il creditore può sempre ricavare forzatamente dal fondo gravato la prestazione dovutagli (40); nei secondi l’obbligo di fare, dare o non fare si riferisce ad un determinato soggetto passivo del rapporto obbligatorio. Tradizionalmente si ritiene che canoni, censi e livelli siano riconducibili fra gli oneri reali proprio in ragione del rapporto esistente fra la cosa e il soggetto passivo: ciò è particolarmente evidente per il censo c.d. riservativo che corrisponde alla rendita fondiaria, secondo cui il cessionario della proprietà di un fondo era obbligato a pagare al cedente una prestazione annua (i.e. censo). Il concedente conservava sul fondo un onere reale: data l’inerenza reale della rendita al fondo, il beneficiario della rendita aveva diritto ad ottenere la prestazione da chiunque poi diventasse proprietario del fondo (41). 4.1.4. L’altra figura che viene in rilevo riguarda i contributi consortili, che – secondo la formulazione del testo dell’art. 10, lett. a) – sono «compresi» nel concetto di «oneri gravanti sul reddito degli immobili». La disposizione fa riferimento a quelle prestazioni pecuniarie imposte dalla legge oppure da un provvedimento dell’Amministrazione. Si tratta di contributi obbligatori (e non meramente volontari) aventi titolo nel beneficio che i fondi (inseriti nel peri-

(37) C.A. Funaioli, Canoni, censi e livelli, in Enc. Dir., V, Milano, 1959, 1082 ss.; più di recente, vedasi M.A. Casino, Prescrittibilità di censi e livelli, in Notariato, 2017, 4, 407. (38) Sotto il profilo del regime giuridico, l’istituto è stato assimilato all’enfiteusi (art. 957 c.c.). (39) C.A. Funaioli, ult. op. cit. (40) A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 2010, 607; L. Bigliazzi Geri, Oneri reali e obbligazioni propter rem, Milano, 1984. (41) B. Gardella Tedeschi, Rendita perpetua, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVI, Torino, 1997, 615.


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metro territoriale interessato) ritraggono dalle opere di bonifica e di miglioria (art. 864 c.c.). Alla luce di tale contenuto, si ritrae il convincimento che i contributi evidenziano un nesso diretto fra i fondi e i relativi proprietari in ragione del beneficio sul fondo che è «elemento costitutivo dell’obbligo contributivo e criterio per la ripartizione dell’onere» (42). 4.1.5. Per completezza, occorre altresì rammentare che sono esclusi «in ogni caso» dagli oneri deducibili «i contributi agricoli unificati». Il che non deve destare stupore. E difatti, si tratta di contributi previdenziali che l’imprenditore agricolo può comunque dedurre ai sensi della lett. e) dell’art. 10 del TUIR, là dove si annoverano «i contributi previdenziali e assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge» (43). Quindi, l’espressa esclusione sembra essere posta dal legislatore con l’obiettivo di far chiarezza fra le categorie di oneri deducibili. 4.2. Orbene, alla luce delle surricordate caratteristiche è dato ritrarre un concetto di onere rilevante ai sensi dell’art. 10, lett. a) che sembra andare oltre alla categoria degli oneri reali. In primo luogo, infatti, l’art. 10 fa genericamente riferimento ad «altri oneri» senza aggiungervi alcuna connotazione (quali oneri reali, personali, fondiari, finanziari ecc.). A ben vedere, le figure rappresentate nella disposizione sono una commistione di elementi di carattere reale e personale. In questo senso, l’interpretazione dell’Amministrazione finanziaria – inaugurata con la nota Min. n. 8/912 del 5 agosto 1981 – secondo cui la deduzione è ammessa solo rispetto ad oneri reali sembra eccessivamente restrittiva (44).

(42) Cass. civ. Sez. Unite, sent. 26 luglio 2007, n. 16428; in dottrina, v. G. Guarino, Natura giuridica dei contributi di bonifica, in Arch. Civ., 1998, 1; G. Manfredi, Giurisdizione e competenza in tema di azioni per l’accertamento negativo e la restituzione dei contributi pretesi dai consorzi di bonifica, in Arch. Locazione, 1997; Moschella, Bonifica (voce), in Enc. dir., V, Milano, 1959. (43) Al riguardo, l’esclusione espressa dei contributi agricoli unificati è stata introdotta nell’art. 10, lett. a) del TUIR ad opera dell’art. 1, 1° comma, lett. a) del D. L. 27 aprile 1990, n. 90 - convertito, con modificazioni, nella L. 26 giugno 1990, n. 165. Con circ. n. 137/E del 15 maggio 1997, l’Amministrazione finanziaria ha chiarito che «considerata la collocazione dell’esclusione della deducibilità di tali oneri nella predetta lettera a) anziché nella lettera e) del medesimo articolo – in base al quale sono deducibili “i contributi previdenziali e assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge” - si ritiene, conformemente al parere dell’Avvocatura generale dello Stato n. 63/91-195 dell’8 maggio 1991, che i contributi versati all’Inps – Gestione ex SCAU per costituire la propria posizione previdenziale e assistenziale siano deducibili, mentre resta confermata in ogni caso l’indeducibilità della parte dei contributi che si riferisce ai lavoratori dipendenti». (44) Cfr. nota Min. n. 8/912 del 5 agosto 1981 secondo cui «la disposizione di cui


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La categoria appare più ampia, in quanto, per un verso, quelle figure contengono un potere immediato sulla cosa come i diritti reali in capo al debitore e, in termini di garanzia, anche in capo al creditore: lo è nel caso dei censi in cui il creditore può ricavare dal fondo (forzosamente) la prestazione inadempiuta, ma anche per i contributi consortili, giacché trattasi di crediti dotati di privilegio sugli immobili che ritraggono beneficio dalle opere (art. 2775 c.c.). Per altro verso, tali oneri recano obblighi personali per il possessore della cosa e, come tali, sono suscettibili di essere estinti mediante una prestazione (proprio come le obbligazioni) (45). In relazione alla fattispecie (ampia) dell’art. 10 del TUIR, ciò significa che il soggetto – tenuto ad un obbligo di tal fatta in ragione del nesso con l’immobile – patisce una riduzione del reddito fondiario (dominicale, agrario o di fabbricati). Tale decurtazione assume rilievo, quale componente negativa, nei limiti in cui non viene già considerata in sede di determinazione delle singole categorie reddituali sugli immobili (i.e. divieto di doppia deduzione). È così rispetto ai canoni, censi e livelli che non sono considerati nella definizione degli estimi (46), nonché rispetto ai contributi consortili. Appare

alla lettera b) dell’art. 10 ... [oggi lett. a dell’art. 10 TUIR] “ed altri oneri gravanti sui redditi degli immobili che concorrono a formare il reddito complessivo” , alla quale dovrebbe essere ricondotta la fattispecie in esame, sembra riferirsi ad oneri di natura sostanziale (in particolare, obbligazioni “propter rem” od oneri reali), e non anche agli oneri tributari (specie se costituiti da imposte indirette), per i quali il legislatore ha previsto tassativamente i casi in cui la deduzione è ammessa [artt. 10, lettera a) e 85 del D.P.R. n. 597; cfr. per i tributi soppressi l’art. 136, lettera b), del T.U. 29 gennaio 1958, n. 645]». (45) Addirittura questa duplicità di carattere viene riferita, secondo una posizione minoritaria della dottrina, proprio agli oneri reali. Ferma la contrapposizione fra chi valorizza la realità del rapporto (A. Pertile, Storia del diritto italiano, IV, Torino, 1893; C. Calisse, Storia del diritto italiano, 1891, III, 275) e chi, invece, rimarca la natura di diritto di credito cui si accompagna una garanzia reale (E. Duranti, Della necessità d’un nuovo concetto delle così dette obbligazioni reali nel diritto civile italiano, Sassari, 1916; G. Salvioli, Manuale di storia del diritto italiano, Torino, 1903), è stata rimarcata la natura “ibrida” degli oneri reali, secondo un’impostazione germanica tendente al superamento della distinzione fra diritti reali e personali (v. Förster, Theor. Und Prax. d. h. Preus. Pr. R., III, § 188). Sull’evoluzione storica delle varie teorie, v. amplius, M. Rinaldo, Obbligazioni propter rem e onere reale (voce), in Digesto, 2013. (46) Cfr. R.D. 12 ottobre 1933, n. 1539, “Approvazione del regolamento per l’esecuzione delle disposizioni legislative sul riordinamento dell’imposta fondiaria”, là dove – ai sensi dell’art. 96 – si stabilisce che la parte dominicale del reddito alla quale devono riferirsi le tariffe di estimo, è la porzione del prodotto annuo totale spettante al proprietario come tale, ossia la rendita padronale lorda, depurata di tutte le spese riferibili al capitale fondiario. Tuttavia, «non si fanno deduzioni per decime, canoni enfiteutici o livellari, diritti di pascolo e di legnatico,


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condivisibile l’osservazione secondo cui tali oneri sono un costo per chi è tenuto all’erogazione (quale decurtazione riferibile al reddito ricavabile dalla fonte fondiaria) e sono un reddito per chi li riceve (47). Alla luce di quanto sopra, è dato concludere che gli oneri gravanti sui redditi immobiliari è una categoria ampia che abbraccia tutte quelle spese dovute in ragione del rapporto fra la fonte di produzione del reddito (l’immobile) e il soggetto passivo che è tenuto alla prestazione per poter mantenere la relazione con il bene. La cosa oggetto di tale relazione assume una particolare qualificazione in ragione dell’appartenenza a un dato territorio (i.e. il comprensorio di bonifica nel caso dei contributi consortili) oppure in ragione di un antico vincolo di supremazia (nel caso dei canoni o dei livelli dovuti alla Chiesa) oppure di un vantaggio connotato in termini reali (come nel caso del censo equivalente ad una rendita fondiaria che è costituita in occasione della cessione del fondo in favore del cedente). Tali caratteristiche non si rinvengono in tutti i rapporti personali di godimento in cui le parti non costituiscono un diritto reale sull’immobile (contratto di locazione) oppure rispetto ai tributi in cui il contribuente impegna lo Stato con un servizio rispetto al quale l’immobile viene in rilievo solo in via incidentale (e.g. tributo sullo smaltimento dei rifiuti) (48). Entro questi confini è possibile riconoscere l’attuale vitalismo della norma sulla deducibilità degli oneri gravanti sul reddito degli immobili. 5. Riconducibilità dei canoni di concessione degli arenili demaniali alla categoria degli oneri gravanti sugli immobili. 5.1. Una volta enucleato il raggio applicativo del concetto centrale della deduzione accordata dall’art. 10, lett. a) (ripetesi, quello di onere gravante sul reddito degli immobili), è dato chiedersi se possa rientrare in quel concetto il canone di concessione versato all’ente territoriale in ragione dell’esercizio del diritto reale di superficie su un immobile eretto sull’arenile demaniale. Preliminarmente, come già rammentato nel § 2, occorre interpretare la

debiti e pesi ipotecari, compensi e prestazioni in genere». (47) M. Maccarone, Persone fisiche (imposta sulle), ult. op. cit., 451; M. Maccarone, Teoria e tecnica delle imposte sui redditi, ult. op. cit., 93; M. Miccinesi, ult. op. cit., 181. (48) A tal proposito, appaiono condivisibili le conclusioni cui è approdata la giurisprudenza di legittimità, secondo cui tassa di smaltimento dei rifiuti è una «tassa sulla “fruizione” dell’immobile e ne individua infatti il contribuente non nel proprietario ma in chiunque occupi o conduca locali a qualsiasi uso adibiti» (Cass. sent. 13 febbraio 2002, n. 2054)


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concessione per chiarire se vi è o meno un diritto reale di godimento riconosciuto eccezionalmente al privato sull’immobile. Al riguardo, è difficile (se non impossibile) generalizzare. 5.2. Sicché, per ragioni di semplicità e in stretta correlazione con il luogo di scaturigine del contenzioso cui si riferisce la giurisprudenza di merito quivi esaminata, si può richiamare come case study proprio il regolamento del Comune di Viareggio (49), che costituisce il modello per il rilascio delle concessioni. Ivi si esplicita expressis verbis che gli immobili insistenti sugli arenili demaniali «sono stati costruiti ed attualmente esistono come proprietà superficiarie» (art. 1). Tutti gli atti di concessione devono contenere la previsione che «[…] il manufatto realizzato (esclusa comunque l’area di sedime), verrà ad appartenere alla proprietà superficiaria del concessionario, il quale diverrà dunque titolare di tutti i diritti, di tutte le posizioni di vantaggio e di tutti gli obblighi che sono previsti nel presente regolamento per il concessionario proprietario» (art. 9). Il concessionario decade dalla concessione, in specie e fra l’altro, per «morosità nel pagamento dei canoni, protratta per oltre due mesi dalla costituzione in mora» (art. 14). Una volta divenuta esecutiva la pronuncia di decadenza della concessione, i manufatti esistenti sull’area sono acquisiti ipso iure in proprietà del Comune di Viareggio (con il pagamento di una indennità pari al 50% del costo di costruzione dell’opera) e possono essere oggetto di una nuova concessione. Gli immobili aventi destinazione abitativa possono essere concessi in locazione a terzi dal proprietario superficiario (concessionario) oppure previa autorizzazione comunale, in caso di diversa destinazione (art. 16). In sede di espropriazione delle costruzioni di proprietà del concessionario, l’aggiudicatario – oltre a dover offrirle in prelazione al Comune – dovrà riconoscere alla Municipalità la somma dei canoni pregressi e di tutti i tributi comunali non versati dal precedente concessionario, comprensiva di maggiorazione ed interessi legali (art. 18). I canoni sono determinati per categorie di beni in proporzione al valore dell’area in concessione, distinto da quello del fabbricato, con possibili aumenti derivanti da «necessità del bilancio comunale connesse a spese correnti

(49) Cfr. Capitolato Concessioni Comunali, approvato con deliberazione C.C. n. 42 del 28 giugno 2011, modificato con deliberazione C.C. del 19 marzo 2018, n. 18.


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che abbiano origine in specifiche esigenze delle aree in concessione, quali il particolare potenziamento di servizi finalizzato al sostegno della funzione turistica delle stesse» (art. 22). 5.3. Sulla scorta di tali dati, si può ritrarre il convincimento che la concessione è costitutiva di un diritto reale (superficie) avente ad oggetto l’immobile (da costruire o esistente) sul suolo demaniale (di proprietà del Comune). Questo è un punto molto importante da chiarire, in quanto frutto di equivoci nella giurisprudenza di merito (50). Il corrispettivo per l’esercizio del diritto di godimento è parametrato direttamente al valore della cosa, tenuto conto delle spese che il Comune deve sostenere per servizi che ridondano a vantaggio del bene (nella sua vocazione turistica). Ciò che appare del tutto assimilabile al beneficio che ritrae il fondo dalle opere del consorzio. In caso di mancato versamento dei canoni, trova applicazione il principio superficies solo cedit, con acquisizione della proprietà delle opere al Comune. Se il contribuente non paga, il diritto di superficie si estingue ipso iure in ragione della decadenza della concessione. Sicché, il versamento del canone e l’esercizio del diritto reale sono due aspetti che devono sussistere congiuntamente. Se il primo viene meno, il concessionario perde il diritto sui fabbricati posti sul suolo demaniale. La prevalenza della cosa rispetto alla posizione personale del concessionario emerge soprattutto in caso di espropriazione, là dove l’aggiudicatario non solo deve consentire al Comune di esercitare la prelazione, ma rimane inciso anche per l’ammontare dei canoni ancora dovuti in relazione al bene dato in concessione. Qui, emerge che la prestazione è dovuta proprio in ragione del rapporto reale esistente con il bene, tant’è che chi avrebbe titolo nel soddisfare il proprio credito mediante esecuzione forzata sulla proprietà degli immobili costruiti deve comunque assolvere quanto dovuto dal concessionario esecutato. 5.4. Tutti questi elementi sono del tutto univoci in ordine alla prevalenza della realità del rapporto rispetto al diritto di credito che il Comune può conseguire in ragione dell’esercizio del diritto reale sul bene. Ciò collima perfettamente con la nozione di onere deducibile ex art. 10 del TUIR, là dove

(50) In particolare, la già citata C.T.R. di Firenze, sentenza 9 aprile 2018, n. 684, là dove sembra che si confonda il diritto reale costituito sull’immobile (esistente sull’arenile) con l’inusucapibilità e inalienabilità del bene demaniale.


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l’onere individua un nesso che connette la fonte reddituale al soggetto passivo in ragione di un diritto reale. Non appare decisivo in senso contrario l’assunto – presente in una parte della giurisprudenza toscana – secondo cui l’arenile sarebbe suscettibile di produrre reddito solo in favore del Comune e non già nei confronti del concessionario (51). Tale affermazione risulta priva di pregio per due ragioni: la prima è che si confonde l’oggetto dei diritti reali dati in concessione (gli immobili da costruire o esistenti) e il suolo demaniale che, invece, rimane (e non può che rimanere) di proprietà del Comune; la seconda discende dall’inesatta interpretazione delle norme sui redditi di fabbricati. Al riguardo, come rammentato nel § 2.3, gli immobili esistenti sugli arenili sono suscettibili di accatastamento con intestazione dei proprietari superficiari (ossia il concessionario). Posto ciò, anche il proprietario superficiario è tenuto a dichiarare il reddito del fabbricato, essendo ben noto che trattasi di un reddito fondiario attribuito – indipendentemente dalla percezione – a chi possiede a titolo di proprietà o altro diritto reale (art. 29 del TUIR). Anche in relazione ai fabbricati si tiene conto di una redditività presunta del valore dell’immobile: e invero, il reddito medio ordinario viene ritratto dall’applicazione delle tariffe d’estimo (art. 37 del TUIR) secondo norme che non considerano i canoni di concessione in riduzione. Nel caso in cui il canone di locazione sia superiore al reddito medio ordinario, rileva il canone al netto di un abbattimento forfettario pari al 5 % (art. 37, comma 4-bis del TUIR) previsto per tenere conto delle spese di manutenzione e riparazione dell’immobile (52). Sicché, proprio come per gli altri “oneri” dell’art. 10 del TUIR, l’erogazione (il canone) è un costo rispetto alla fonte di produzione del reddito (medio ordinario oppure locativo) che viene attribuito al proprietario superficiario (ossia il concessionario); allo stesso tempo, si tratta di un reddito di fabbricato per l’ente territoriale, ancorché sia esentato in ragione della destinazione del bene ad usi o servizi di pubblico interesse (art. 5 del d.P.R. n. 601/1973). Ne deriva che non può certo affermarsi la violazione della tassatività dell’elenco degli oneri deducibili, in quanto i canoni in discorso risultano perfettamente coincidenti con l’ampia categoria degli “oneri gravanti sul reddito

(51) C.T.R. di Firenze, sent. 16 gennaio 2018, n. 41. (52) Cfr. R. Lupi, Manuale di diritto tributario – Parte speciale, Torino, 1998, 61; R. Schiavolin, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Corso istituzionale di diritto tributario a cura di G. Falsitta, Padova, 2014, 471.


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degli immobili”. E difatti, vi è la costituzione di un diritto reale (quello di superficie); vi è la particolare qualificazione del bene sulla scorta di un vincolo (ossia la demanialità del suolo su cui si erge l’immobile dato in concessione); ricorre altresì una sorta di garanzia sul bene in ipotesi di inadempimento della prestazione pecuniaria (in quanto l’aggiudicatario prima deve offrire l’immobile costruito al Comune e, comunque, è tenuto a riconoscere tutti i canoni che il concessionario esecutato non ha versato all’ente territoriale); la determinazione del canone si fonda direttamente sul valore del bene qualificato (il suolo demaniale), nonché – eventualmente e per ragioni di copertura della spesa comunale – si tiene conto dei benefici che l’immobile è suscettibile di ritrarre dal «potenziamento dei servizi»; si tratta di un costo che dovrà sostenere chiunque acquisisca il diritto di superficie degli immobili in concessione, senza che se ne possa riconoscere rilevanza in sede di determinazione degli estimi. Tutti questi elementi attestano la perfetta congruenza della fattispecie concreta con il concetto recato dall’art. 10, lett. a) e, come tali, sanciscono la deducibilità del canone, quale costo correlato alla fonte di produzione del reddito di fabbricati. 5.5. Né pare sufficientemente fondata l’obiezione sollevata dalla giurisprudenza di merito quivi esaminata secondo cui ammettere la deducibilità di tale onere finirebbe per condurre alla violazione del divieto di doppia deduzione. Ciò discenderebbe dalla duplice circostanza che gli immobili adibiti ad abitazione principale beneficiano di una deduzione pari all’importo della rendita catastale (art. 10, comma 3-bis del TUIR) oppure della riduzione forfettaria del 5 % prevista per gli immobili dati in locazione (art. 37, comma 4-bis del TUIR) (53). L’argomento, sebbene possa apparire prima facie suggestivo, si rivela fallace, sol ove si consideri che il divieto di doppia deduzione si pone là dove il diritto del contribuente ad ottenere l’abbattimento dell’imponibile scaturisca dal medesimo fatto (i.e. esborso) riconosciuto come spesa rilevante sia in generale (ossia nell’art. 10 del TUIR) sia in sede di determinazione dell’imponibile secondo le singole categorie reddituali. A tal proposito, non pare che sussista identità fra i fatti assunti dalle due disposizioni. La deduzione per la prima casa si riconnette ad un fatto determinato, ossia il possesso a titolo di diritto reale dell’immobile, utilizzato in modo durevole, quale luogo in cui dimorano il titolare del diritto o i suoi familiari.

(53)

In termini, C.T.R. di Firenze, sent. 9 aprile 2018, n. 684.


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Diversa è la circostanza assunta a fondamento della deduzione dell’art. 10, lett. a), in quanto si tratta di un esborso – non considerato nell’elaborazione degli estimi catastali – che incide sulla fonte reddituale in negativo. Quindi, già in astratto, vi è totale difformità in relazione alle due fattispecie considerate; per non parlare del fatto che, in concreto, l’immobile posto sull’arenile difficilmente viene adibito ad abitazione principale del concessionario, essendo piuttosto concesso a sua volta in locazione a terzi. A tale ultimo riguardo, non risulta predicabile nemmeno la duplicazione di beneficio rispetto alla riduzione forfettaria prevista sui canoni di locazione (54). È stato, infatti, rammentato che – secondo autorevole dottrina (55) – il legislatore ha ritenuto di dover riconoscere il beneficio in ragione delle spese di manutenzione e riparazione dell’immobile locato che il locatore potrebbe sostenere. Invece, la riduzione riconosciuta dalla lett. a) riguarda un onere che è sostenuto dal locatore. Nel primo caso, la riduzione si ricollega ad un beneficio forfettario in relazione ad una categoria di spesa che, secondo la comune esperienza, costituisce tendenzialmente un esborso da sostenere. Ma a beneficiare della riduzione sono sia i locatori che sopportano effettivamente quelle spese, sia quelli che per le ragioni più varie non li sostengono. Per converso, il concessionario/locatore deve versare il canone al Comune per poter esercitare il proprio diritto reale (a pena di decadenza). Sicché, l’esborso riconosciuto in deduzione dalla lett. a) riguarda un fatto certo (i.e. versamento dell’onere in ragione di un vincolo sul bene) e non già un fatto meramente presunto. 6. Conclusioni. – In attesa di un intervento della giurisprudenza di legittimità, si è evidenziato come le Commissioni abbiano sovente omesso di considerare la natura reale dei diritti costituiti dalla concessione amministrativa e il peculiare rapporto che si crea fra soggetto passivo (ossia il concessionario) e la fonte di produzione del reddito (ossia quello di fabbricati). La deducibilità del canone di concessione – oltre ad essere allineata al principio di tassatività dell’art. 10 – risponde maggiormente al carattere per-

(54) Tale abbattimento era stabilito in misura pari al 15 % fino al periodo di imposta 2012 e, successivamente, per effetto delle modifiche apportate ai sensi dell’art. 4, comma 74 del d.l. n. 92/2012, ascende attualmente al 5 %. (55) Cfr. R. Lupi, Manuale di diritto tributario – Parte speciale, Torino, 1998, 61; R. Schiavolin, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Corso istituzionale di diritto tributario a cura di G. Falsitta, Padova, 2014, 471.


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sonale dell’imposta, essendo un esborso rispetto al quale il concessionario/ persona fisica rimarrebbe definitivamente inciso. Diverso sarebbe nel caso in cui la concessione fosse ottenuta in regime di impresa. Rispetto a tale ipotesi non vi sarebbe alcun dubbio circa la rilevanza del canone, quale componente negativa del reddito di impresa, in ragione dell’inerenza. Anche tenuto conto di ciò occorre realizzare un equilibrio e recuperare armonia nel sistema fiscale, riconoscendo che la corrispondenza del costo alla fonte-cespite è l’elemento necessario (anche se non esclusivo) per realizzare un’imposizione sui redditi che sia effettivamente rispondente al carattere della personalità. Nella ricerca del dato normativo che – secondo la teoria generale di Carnelutti (56) – non è il mezzo, ma il fine da raggiungere secondo un procedimento di elaborazione poggiante sull’argomentazione giuridica, lo studio del diritto tributario impone la raccolta dei dati ricorrendo necessariamente ad un approccio interdisciplinare (o multidisciplinare). Il richiamo ad altri settori giuridici (nel nostro caso, il diritto amministrativo e il diritto civile) consente di cogliere l’unità del tutto, seppur nelle differenze che discendono dalle peculiarità del diritto tributario. Il distacco temporale e spaziale fra il pensiero di chi ha emesso la formulazione legislativa e quello di chi deve applicarla dà luogo ad un mutamento che l’Autore definisce «vita della legge». Tale fenomeno ha come vantaggio quello di «correggere gli inconvenienti della durata delle leggi che debbono durare se hanno da fornire la certezza, ma se non si evolvessero non potrebbero durare» (57). Creare collegamenti ed armonia nel sistema conduce a quell’estetica del diritto vagheggiata da Carnelutti.

Giuseppe Mercuri

(56) F. Carnelutti, Metodologia del diritto, Padova 1939, 57. (57) F. Carnelutti, ult op. cit., 388.



Initial coin offering: riflessi fiscali, antiriciclaggio e di tutela dei mercati finanziari, connessi all’emissione di criptovalute (o cripto-asset) Sommario: 1. Premessa: il fenomeno delle initial coin offering tra potenziali rischi e nuove opportunità d’investimento e sviluppo tecnologico. – 2. Valute virtuali, criptovalute, blockchain e smart contract. – 3. I soggetti operanti, a vario titolo, nel comparto delle criptovalute. – 4. Le diverse tipologie di criptovalute, emesse tramite Initial Coin Offering. – 5. Ricadute di carattere fiscale. – 6. La disciplina applicabile in ambito antiriciclaggio. – 7. Disciplina applicabile a tutela dei mercati finanziari. – 8. Conclusioni. Dalle criptovalute ai cripto-asset: prospettive future, tra possibili divieti e protezione dal bail-in. Il fenomeno delle initial coin offering e, più in generale, la diffusione delle criptovalute (o cripto-asset) come strumento di pagamento e forma di investimento alternativo, stanno assumendo una crescente rilevanza nell’ambito del panorama finanziario internazionale, facendo emergere numerose criticità di carattere applicativo in ambito fiscale, antiriciclaggio e di tutela dei mercati finanziari. Difatti, allo stato, la legislazione vigente in tali comparti appare, in larga parte, inidonea a regolamentare il comparto e a sanzionare potenziali abusi. Pertanto, nell’ambito del presente contributo, dopo un inquadramento generale del fenomeno, si procederà a individuare le numerose questioni ancora aperte, tentando di prospettare possibili soluzioni interpretative, in attesa del necessario intervento del legislatore. The phenomenon of initial coin offerings and, more generally, the diffusion of crypto-currencies (or crypto-assets) as a means of payment and an alternative financial instrument, are taking on increasing importance in the international financial environment, bringing out several critical issues in the tax area, the anti-money laundering regulation and the protection of financial markets. In fact, the current legislation in these sectors largely appears inadequate for regulating the sector and effectively contrasting potential abuses. Therefore, in the described context, after the description of the overall framework, the numerous unsolved questions will be analyzed, trying to elaborate on possible scenarios, even if it certainly urges an effective regulatory intervention.


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1. Premessa: il fenomeno delle initial coin offering tra potenziali rischi e nuove opportunità d’investimento e sviluppo tecnologico. – L’initial coin offering (sovente indicata con l’acronimo “ICO”) si qualifica come l’offerta di una criptovaluta di nuova emissione (anche definita, in ambito nazionale, come “valuta virtuale”), distribuita sotto forma di token (1) o coin (moneta), in cambio di valute aventi corso forzoso, ovvero di altre criptovalute (2). Generalmente, tale schema viene utilizzato come forma innovativa di crowdfunding per reperire risorse finanziarie da destinare allo sviluppo di progetti imprenditoriali o di beneficenza (3). La crescente diffusione di tale fenomeno, favorita dalla capillarità della rete internet e dei nuovi social network, nonché dalla costante richiesta di più efficaci e convenienti strumenti di pagamento e investimento, ha consentito di metterne a fuoco i potenziali rischi, mettendo d’accordo tutti gli attori istituzionali coinvolti, circa la necessità di regolamentarlo, all’interno dei singoli Stati, per evitare la diffusione di frodi, a danno di investitori o meri utilizzatori, ma anche l’impiego delle nuove criptovalute per finalità di riciclaggio dei proventi derivanti da attività delittuose (4). Nel mese di novembre 2017, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) ha emanato due comunicati, con cui ha messo in guardia gli investitori sugli elevati rischi connessi all’adesione alle ICO e

(1) Come rilevato in dottrina (ex pluribus, G. Lemme - S. Peluso, Criptomoneta e distacco dalla moneta legale: il caso bitcoin, in Rivista di Diritto Bancario, n. 11/2016), la moneta di tipo token (gettone) prende il nome dai British token, gettoni metallici, generalmente coniati in rame, diffusi in Gran Bretagna per far fronte alla carenza di monete circolanti di piccolo taglio; successivamente, la pratica de qua si diffuse in altri contesti, esaurendosi gradualmente solo alla fine del XIX secolo; per eventuali approfondimenti, si rinvia alle informazioni contenute nel portale web The Copper Corner, dedicato a monete e token emessi negli Stati Uniti e in Inghilterra. (2) Nella prassi, i finanziatori inviano un importo in moneta virtuale a un indirizzo generato su una blockchain dall’organizzatore della initial coin offering ricevendo, come contropartita, token o coin sempre basati su blockchain, che presentano una correlazione diretta con un determinato progetto o con l’impresa dell’emittente della nuova criptovaluta. (3) In ambito internazionale, per tali operazioni vengono utilizzati anche i concetti di “token sale” e “token generating event”. (4) Cfr. AA.VV., The ICO Gold Rush: It’s a scam, it’s a bubble, it’s a super challenge for regulators, Université du Luxembourg, 16 febbraio 2018. All’interno di tale documento sono stati riepilogati gli esiti dell’analisi che ha riguardato un campione di 450 initial coin offering perfezionate a livello internazionale, facendo emergere la concentrazione degli emittenti in talune giurisdizioni (sovente, off-shore), che hanno esercitato una significativa forza attrattiva per gli operatori interessati all’emissione di nuovi token o coin.


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ha invitato gli operatori coinvolti nelle procedure di emissione criptovalute a ponderare, attentamente, la loro possibile ricaduta nel perimetro di attività regolamentate (5). In seguito, al termine dei lavori del G-20 tenutosi nel mese di marzo 2018, la task force FATF/GAFI è stata incaricata della predisposizione di specifici alert antiriciclaggio, da applicare ai cripto-asset (6), nella consapevolezza che il loro impiego solleva questioni relative alla protezione dei consumatori e degli investitori, all’integrità del mercato, all’evasione fiscale, al riciclaggio di denaro e al finanziamento al terrorismo, nonché in considerazione della mancanza, in capo ai cripto asset, di requisiti chiave insiti nelle valute sovrane, ragion per cui dalla loro diffusione potrebbero discendere implicazioni sulla stabilità dei mercati finanziari (7). Invero, già alcuni anni orsono, Banca Centrale Europea, pur mettendo in guardia gli Stati membri circa i rischi connessi alla diffusione delle criptovalute, non ha potuto sottacere le potenzialità di tale strumento, che in futuro potrebbe affermarsi come valido mezzo di pagamento, in sostituzione di banconote e monete aventi corso legale, ovvero della moneta elettronica (8). Tuttavia, prima di approfondire le caratteristiche comuni alle ICO e gli elementi di differenziazione che assumono rilievo, sul piano giuridico, ai fini dell’applicazione della disciplina fiscale, anti-riciclaggio e di tutela dei mercati finanziari, appare opportuno fornire brevi cenni circa le principali definizioni utilizzate nel mondo delle criptovalute.

(5) European Securities and Markets Authority Statement, ESMA alerts firms involved in Initial Coin Offerings (ICOs) to the need to meet relevant regulatory requirements, 13 novembre 2017. (6) Termine preferito, nell’ambito del G-20, a quello di criptovalute, in ragione della discussione in corso sulla loro effettiva riconducibilità alla categoria delle valute. (7) Cfr. Fatf, FATF Report to the G20 Finance Ministers and Central Bank Governors, luglio 2018; in tale rapporto il GAFI ha sottolineato, tra l’altro, la necessità di uniformare la legislazione antiriciclaggio vigente, in questo comparto, nei diversi Paesi. Successivamente, nel mese di ottobre 2018, il FATF/GAFI, nell’ambito degli “international standards on combating money laundering and the financing of terrorism & proliferation”, ha provveduto ad aggiornare la Raccomandazione 15 (nuove tecnologie), inserendo le nuove definizioni di “virtual asset” e “virtual asset service providers”. Infine, durante il summit del 22-23 febbraio 2019, il medesimo organismo ha comunicato che avrebbe pubblicato, entro il mese di giugno, una nuova nota interpretativa della medesima Raccomandazione, al fine di chiarire come gli standard FATF debbano essere applicati nel contesto dei cripto-asset. (8) European Central Bank Report, Virtual Currency schemes – a further analysis, febbraio 2015, 32.


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2. Valute virtuali, criptovalute, blockchain e smart contract. – Innanzitutto, come esposto dalla task force FATF/GAFI all’interno di un rapporto pubblicato nel 2014 (9), la valuta virtuale è una rappresentazione di valore che, pur non avendo corso legale in alcuna giurisdizione, può essere scambiata attraverso canali digitali e, in linea astratta, potrebbe funzionare come: - unità di conto, essendo l’oggetto-moneta impiegabile come un metro comune per misurare il valore, ad esempio, nell’ambito di transazioni commerciali (10); - riserva di valore, laddove risulti capace di conservare il suo valore nel tempo ed essere conservata per uso futuro, senza pericolo di deterioramento (11); - mezzo di scambio, caratteristica dei beni che possono essere accettati in cambio di altri, con l’aspettativa di poterli utilizzare in analoghe operazioni successive (12);

(9) Fatf Report, Virtual Currencies Key Definitions and Potential AML/CFT Risks, giugno 2014, 5 ss. (10) Molti addetti ai lavori non riconoscono tale caratteristica alle criptovalute, atteso che, per assolvere la funzione di unità di conto, al pari di qualsiasi altra valuta avente corso legale, dovrebbero essere in grado, al decorrere del tempo, di “misurare” il valore di scambio e di mercato di beni e servizi, nonché di misurare il valore di tutte le transazioni economiche mediante la fissazione dei prezzi e la contabilizzazione dei debiti e dei crediti associati al passaggio di proprietà di beni o servizi, senza un contestuale regolamento in moneta. (11) In dottrina (cfr. ex pluribus, G. Lemme - S. Peluso, Criptomoneta e distacco dalla moneta legale: il caso bitcoin, in Rivista di Diritto Bancario, n. 11/2016), è stato osservato che, a differenza delle valute aventi corso legale, per le criptovalute la stabilità del potere d’acquisto non può poggiare sulla garanzia fornita dalla gestione anti-inflazionistica della politica monetaria, condotta da una banca centrale. Ancora, ai fini dell’assolvimento di tale funzione, da parte delle criptovalute, non si può prescindere dalla capacità di preservare il proprio sistema di sicurezza. Invero, sovente, proprio la sicurezza ha rappresentato una rilevante criticità per numerose criptovalute, tra cui i bitcoin, come emerso in occasione dei numerosi episodi di furto, che hanno generato ingenti perdite per gli user, titolari di criptovalute memorizzate nei propri wallet; tuttavia, la vulnerabilità delle criptovalute dal punto di vista della sicurezza informatica indebolisce non poco la loro capacità di funzionare come riserva di valore e costituisce un punto a sfavore rispetto alle valute aventi corso legale, poiché inibisce il loro impiego diffuso da parte degli utenti, almeno fin quando continueranno ad essere percepite come strumenti rischiosi. (12) È stato osservato che, oltre alla forte volatilità delle quotazioni, che influisce sulla capacità delle criptovalute di essere qualificate come valido mezzo di scambio, una delle principali differenze tra criptovalute e valute aventi corso legale, in tale ambito definitorio, si rinvenga in relazione ai limiti riscontrati in tema di risoluzione delle controversie; nello specifico, è stato sostenuto che le transazioni regolate in bitcoin, ovvero tramite altre criptovalute, siano irreversibili e una volta eseguite non possano essere in alcun modo contestate, in ragione


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- mezzo di pagamento, funzione riconosciuta allo strumento che consente di estinguere un debito contratto, che si sovrappone alla precedente, insita nel potere liberatorio del mezzo di pagamento, riconosciuto da una struttura socio-economica-giuridica, a prescindere dall’esistenza di una sanzione (13); - asset d’investimento, anche in ragione delle caratteristiche che consentono di assimilare le valute digitali a talune commodity, tra cui l’oro, in ragione di caratteristiche condivise, quali la scarsità, la fungibilità, l’incorruttibilità e l’omogeneità, assicurate, nel caso delle criptovalute, al ricorso alla nuova tecnologia della blockchain (14). Inoltre, non viene emessa, né garantita, da alcuna Autorità centrale, ragion per cui svolge le sopra indicate funzioni esclusivamente in ragione della fiducia, all’interno delle comunità di utilizzatori della singole valute virtuali. Tant’è che secondo taluna dottrina, a garantire il valore delle valute virtuali sia proprio la blockchain, ossia la tecnologia su cui si basano i relativi scambi, a cui verrebbe attribuita la qualificazione di “nuovo oro digitale” (15).

dell’assenza di strumenti di risoluzione delle controversie a tutela delle parti; ciò comporta che, dalle transazioni commerciali così regolate sul piano finanziario, derivi, inevitabilmente, l’assunzione di un rischio, in parte mitigato dall’immunità dal controllo statale e all’eventuale confisca da parte di un’autorità centrale. Invero, su tali aspetti, vale la pena rilevare che in diversi Stati, tra cui l’Italia, le autorità competenti sono ben consapevoli delle dimensioni che sta assumendo tale fenomeno; pertanto, pur non potendo obiettare le evidenti difficoltà pratiche connesse all’applicazione di misure di aggressione patrimoniale su pacchetti di criptovalute, è noto che già sono stati sviluppati adeguati strumenti di monitoraggio del comparto in esame, nonché adeguate procedure operative applicabili per eseguire il sequestro e la confisca di criptovalute. (13) È stato sostenuto che, sempre in ragione della forte volatilità delle quotazioni, alle criptovalute non possa essere riconosciuta tale funzione, essendo considerate “inefficienti”. Per un approfondimento, cfr. V. Carlini, Criptovaluta vuol dire moneta?, in Bitcoin Generation. La rivoluzione delle criptovalute, Il Sole 24 Ore, 2018, 65 ss. (14) È opinione condivisa che alle criptovalute possa essere, effettivamente, riconosciuta tale funzione (tant’è che il bitcoin è stato definito come il nuovo “oro digitale”), anche in ragione dell’uso fattone nella prassi, a seguito della sua recente diffusione, essendo stato per lo più acquistato per investimenti speculativi. (15) Per un approfondimento sulle potenzialità di questa nuova tecnologia, aldilà del mondo delle criptovalute, si rinvia al rapporto del Parlamento Europeo, How blockchain technology could change our lives. In depth analysis, febbraio 2017; con riferimento al settore delle assicurazioni, KPMG, Blockchain accelerates insurance transformation, 2017.


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Ancora, occorre distinguere la criptovaluta dalla valuta avente corso legale (16) e, soprattutto, dalla moneta elettronica, che si qualifica come rappresentazione digitale di quest’ultima (17). Come noto, le criptovalute possono essere convertibili in valute aventi corso legale (c.d. fiat currency), ma la conversione non è garantita ex lege, quanto piuttosto dalla presenza di utilizzatori disposti ad acquistarle sul mercato (18), pagando con una valuta tradizionale. A loro volta, le valute convertibili possono essere gestite a livello centralizzato (19) o decentralizzato (20); ad esempio, la rete Bitcoin è stato il primo sistema di pagamento decentralizzato, basato sul concetto di distributed led-

(16) C.d. “fiat currency”, emessa dal singolo Stato ed ivi, ordinariamente, utilizzata come mezzo di scambio. (17) Utilizzata per effettuare pagamenti tramite canali digitali, regolati in fiat currency e disciplinata, in ambito comunitario, dalla Direttiva 2009/110/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 settembre 2009, concernente l’avvio, l’esercizio e la vigilanza prudenziale dell’attività degli istituti di moneta elettronica, recepita nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 16 aprile 2012, n. 45. Per un approfondimento, si rinvia a O. Calzone, Bitcoin e distributed ledger technology, in Gnosis, 28 febbraio 2017, disponibile sul portale del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica (www.sicurezzanazionale.gov.it); l’autore ha sottolineato come il legislatore europeo abbia sentito l’esigenza di giungere a una definizione precisa di moneta elettronica, che avesse valenza sia se detenuta su un dispositivo di pagamento in possesso del detentore di moneta elettronica, sia se memorizzata a distanza su un server e gestita dal detentore tramite un conto specifico per la moneta elettronica. Tenendo conto dell’innovazione tecnologica, è stata condivisa l’adozione di una definizione generale, applicabile anche ai prodotti che potrebbero essere sviluppati in futuro. Per completezza, si segnala che il Gafi ha specificato che, convenzionalmente, la valuta virtuale e la moneta elettronica vengono ricomprese tra le valute digitali (c.d. “digital currency”). Per un approfondimento sulle valute digitali, si rinvia, altresì al Rapporto pubblicato dalla Bank for International Settlements, Digital Currencies, novembre 2015. (18) Mediante scambi diretti, ovvero attraverso piattaforme di scambio denominate “exchanger”, come di seguito esposto. (19) Le valute virtuali centralizzate sono gestite da soggetti che ne possono controllarne l’emissione, la circolazione e la contabilità, risultando valorizzate sulla base di un’utilità attuale ed essendo, in taluni casi, convertibili in valuta corrente. (20) Solitamente si fanno coincidere i concetti di valuta virtuale decentralizzata e criptovaluta, fondati sull’assenza di un emittente, di un amministratore ovvero di un gruppo di controllo, posto che il loro funzionamento: - avviene, come esposto, attraverso registrazioni all’interno di una catena di blocchi; - si fonda sulla crittografia e su un algoritmo open source. Il valore di tali criptovalute si fonda sull’utilità attuale che viene riconosciuta dai suoi utilizzatori, che si assumono il rischio di minusvalenze, nel caso in cui si verifichino eventuali perdite di consenso generalizzato.


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ger technology o blockchain, ossia una rete di scambi in cui non vi è un’autorità incaricata di validare e registrare le transazioni (21). In sintesi, la blockchain viene definita come catena di blocchi, che funziona come registro distribuito e trasparente, all’interno del quale vengono trascritte, in modo immodificabile, le transazioni in criptovalute, sotto forma di blocchi (22). All’interno di una catena di blocchi come quella dei bitcoin, la transazione può essere disposta solo da chi possiede la chiave privata, abbinata a una chiave pubblica (23). Nella blockchain è racchiusa l’intera serie storica di transazioni, che può essere consultata per rinvenire tracce delle operazioni effettuate da ogni uti-

(21) Invece, nella categoria delle “altcoin” vengono generalmente, censite le valute virtuali che presentano degli aspetti innovativi rispetto ai summenzionati bitcoin. (22) Per un approfondimento, sul funzionamento della blockchain, cfr. M. Krogh, Transazioni in valute virtuali e rischi di riciclaggio. Il ruolo del notaio, Notariato 2/2018, 155 ss; O. Calzone, op. cit., 28 febbraio 2017; per esemplificare il funzionamento della catena di blocchi, tale ultimo autore ha proposto un interessante esempio, ricorrendo al comportamento delle formiche che, nella ricerca del cibo eseguono, singolarmente, azioni semplici, quali girovagare, verificare di aver trovato il cibo, tornare al nido, lasciare una scia di feromone lungo il ritorno, seguire una traccia di feromone già esistente; le formiche che casualmente si trovano vicino ad un percorso indicato con il feromone tenderanno a seguirlo e, ritornando al nido con il cibo, lasceranno a loro volta del feromone lungo la strada; il percorso sarà, così, rafforzato e, con il passare del tempo, tutte le formiche convergeranno lungo la traccia che porta al cibo; anche se non vi è un’autorità di controllo, nessuna formica può da sola creare un percorso falso, perché è il comportamento della maggioranza a stabilire la via migliore. Orbene, come osservato dall’autore, ad esempio nella rete Bitcoin, al posto delle formiche ci sono dei nodi collegati fra loro via internet per scambiarsi informazioni sui trasferimenti della valuta virtuale bitcoin con comunicazioni peer-to-peer (nodo a nodo). Ogni nodo ha una copia del registro contabile dove memorizza i trasferimenti di valuta di tutta la rete, a partire dal primo avvenuto nel 2009. Pertanto, le transazioni sono pubbliche, note a tutti i nodi e conservate in una catena di blocchi (blockchain) in cui quelle avvenute nello stesso momento si trovano nello stesso blocco; come per il percorso verso il cibo delle formiche, non vi è un’autorità incaricata di stabilire le registrazioni contabili da effettuare, ma è il comportamento semplice dei singoli nodi a determinare il funzionamento della rete nel suo complesso. Un funzionamento tale che tutte le copie del registro si aggiornano automaticamente e in breve tempo. (23) Difatti, la chiave privata permette di calcolare la sequenza di caratteri consistente nella chiave pubblica, univocamente associata alla prima, nonché di autorizzare i pagamenti in uscita. Invece, la chiave pubblica è una differente stringa alfanumerica, parimenti necessaria al fine di autorizzare la transazione, da cui è ricavabile l’indirizzo da utilizzare per ricevere denaro; a differenza di quella privata, la chiave pubblica e l’indirizzo possono essere comunicate; l’indirizzo è visibile all’interno della catena di blocchi.


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lizzatore, attraverso uno o più indirizzi, la cui titolarità risulta, tuttavia, celata dietro una stringa alfanumerica. Proprio dall’apparente anonimato (24) deriva il principale profilo di criticità connesso alla diffusione delle nuove criptovalute, giacché i principali attori istituzionali hanno, in più occasioni, rilevato i rischi di infiltrazioni criminali di tali circuiti, che potrebbero essere impiegati per regolamentare, sul piano finanziario, operazioni commerciali illecite, oppure per ripulirne i proventi (25). D’altronde, come osservato dal GAFI, in ragione dell’anonimato circa la titolarità dei portafogli digitali, denominati “wallet” (26), anche ex post, può

(24) Come osservato in dottrina (M. Krogh, op. cit.) “l’anonimato è una qualità neutra nella circolazione di una valuta (virtuale o legale), nel senso che può essere strumento di transazioni lecite o di transazioni illecite”. Nel mondo delle valute virtuali, l’anonimato può essere accentuato ricorrendo a: - carte prepagate per acquistare valute virtuali direttamente da altri utenti, contattabili tramite piattaforme di trading, riducendo così al minimo la comunicazione dei propri dati personali; - servizi come VPN e TOR, che consentono di navigare anonimamente sul web; - servizi di mixing. Per un approfondimento, O. Calzone, Servizi di mixing e Monero, in Gnosis, 28 luglio 2017, disponibile sul portale del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica (www.sicurezzanazionale.gov.it). (25) European Central Bank Report, Virtual Currency schemes – a further analysis, febbraio 2015, 22. (26) Con tale denominazione vengono, comunemente, indicati i portafogli digitali che non memorizzano, né contengono le criptovalute, qualificandosi, piuttosto, come software o hardware che creano e tengono memoria della chiave privata, associata alla chiave pubblica (da cui è ricavabile il summenzionato indirizzo), necessarie per disporre le operazioni in criptovaluta. Quantomeno con riferimento alle più note blockchain “permissionless” l’attivazione del wallet non comporta la stipula di alcun rapporto contrattuale di deposito o credito, rimanendo lo stesso, sempre, nella disponibilità dell’utente. In particolare, esistono due macro-categorie di wallet, ossia i software wallet e i cold wallet. Nella prima categoria rientrano i: - desktop wallet, che operano come portafogli installati su un singolo computer, per cui, ai fini del loro impiego, occorre tenere in considerazione i rischi connessi al potenziale danneggiamento dello stesso, ovvero all’intrusione di pirati informatici; - mobile wallet, che si installano su smartphone, risultando esposti agli stessi rischi dei desktop wallet; - online wallet, attivati presso operatori specializzati, cosicché le chiavi di accesso (necessarie per la movimentazione delle criptovalute) sono conservate sui server degli stessi, anche in questo caso potenzialmente esposte a furti. Invece, i summenzionati cold wallet (a cui viene riconosciuto un maggior grado di sicurezza,


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risultare più complessa qualsivoglia attività investigativa finalizzata a ricostruire i flussi di criptovalute, anche perché, per le reti decentralizzate, non esiste neanche un amministratore centrale a cui rivolgere eventuali richieste di informazioni (27). Comunemente, gli scambi di valute virtuali, gestite attraverso blockchain sono protetti da crittografia, ragion per cui le stesse vengono, comunemente, denominate criptovalute. La sicurezza e l’integrità delle transazioni viene assicurata dal coinvolgimento, nella registrazione delle stesse, di una moltitudine di soggetti (28), che svolgono la propria attività all’interno della blockchain, generalmente in cambio di una commissione (29). Ancora, le blockchain possono essere definite “permissionless”, nei casi in cui sono pubbliche, essendo appoggiate alle catene di blocchi di criptovalute preesistenti (quali, ad esempio, quella dell’Ethereum) e che operano in assenza di un’autorità centrale. Diversamente si qualificano come “permissioned” le catene private, che replicano il meccanismo della blockchain in relazione ad attività specifiche che riguardano un singolo operatore o un gruppo di soggetti (anche aldilà del mondo delle valute virtuali), il cui funzionamento è regolato da un’autorità centrale. Infine, nel contesto in rassegna la nozione di smart contract è coessenziale ai concetti di token e blockchain, identificando un programma informatico progettato per facilitare, verificare o rendere eseguibile una negoziazione o una o più prestazioni contrattuali, cosicché la sua esecuzione comporta che, al ricorrere di certe azioni, condizioni o eventi iniziali predefiniti, diventa automatico, sicuro e ripetibile un certo risultato.

atteso che i fondi sono detenuti off-line, per cui non possono essere sottratti mediante intrusioni perpetrate tramite la rete internet) si distinguono in: - hardware wallet, generalmente consistenti in chiavette USB, che contengono le chiavi di accesso al portafoglio e che devono essere collegate al computer, per disporre il trasferimento delle criptovalute; - paper wallet, consistenti in fogli su cui sono trascritte le chiavi pubbliche e private, necessarie per disporre transazioni in criptovalute. (27) Fatf Report, Virtual Currencies Key Definitions and Potential AML/CFT Risks, giugno 2014, 9. (28) I quali, con riferimento alla criptovaluta denominata bitcoin, vengono comunemente chiamati “minatori”. (29) Sempre in relazione ai bitcoin, rappresentata da un quantitativo di “monete” di nuova emissione (denominato “block reward”) e, in taluni casi, da una fee pagata dagli utenti coinvolti nella transazione registrata nel nuovo blocco della blockchain.


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Orbene, posto che i token hanno la funzione di automatizzare i trasferimenti di fondi o di generare altre conseguenze, al verificarsi di taluni eventi predeterminati, ai medesimi vengono riconosciute le funzioni tipiche degli smart contract (30). 3. I soggetti operanti, a vario titolo, nel comparto delle criptovalute. – Tra gli attori che, a vario titolo, operano nel comparto delle valute virtuali, occorre distinguere: - l’inventore (c.d. “inventor”), che crea una nuova criptovaluta e sviluppa, sul piano tecnologico, il network di scambi; - l’emittente (c.d. “issuer”), ossia che genera le singole “monete”, immesse all’interno del “virtual currency scheme” (VCS); in circuiti centralizzati, solitamente l’emittente coincide con l’operatore che regolamenta anche la movimentazione (e l’eventuale ritiro dal mercato) delle criptovalute, mentre negli schemi decentralizzati, l’emissione di nuove monete può avvenire anche automaticamente, con assegnazione di un quantitativo di criptovalute di nuova emissione al minatore che ha provveduto alla registrazione, in un nuovo blocco, di una serie di transazioni; - il minatore (c.d. “miner”), che è il vero cuore della catena, giacché – svolgendo il ruolo di intermediario - si occupa della registrazione degli scambi, agganciando nuovi blocchi alla catena e prevenendo, con la sua attività, la doppia spendita della valuta, ovvero l’immissione nella catena di criptovalute “contraffatte”; - l’utilizzatore (c.d. “user”) che, attraverso l’accensione del summenzionato wallet, acquista criptovalute, utilizzabili per effettuare pagamenti, oppure detenute a titolo di investimento; vale la pena specificare che gli utenti possono attivare e gestire, autonomamente, un numero indefinito di wallet, anche senza ricorrere, necessariamente, a wallet provider (31); - il wallet provider, che offre agli utenti servizi di attivazione dei summenzionati portafogli, nonché servizi di custodia delle chiavi pubbliche e private necessarie per autorizzare lo scambio di criptovalute tra wallet diversi; - la piattaforma di scambio, che mette in contatto potenziali acquirenti e

(30) Cfr. S. Loconte - A. Negri della Torre, La FINMA si pronuncia in materia di ICO. Quali le conseguenze sul piano giuridico e fiscale delle dichiarazioni della FINMA?, in Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2018. (31) European Central Bank Report, Virtual Currency schemes – a further analysis, febbraio 2015, 8.


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venditori di criptovalute (c.d. “trading platform”), che eseguono autonomamente l’operazione, solitamente in cambio di valute aventi corso forzoso, ovvero di altre criptovalute: - l’operatore che svolge l’attività di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso forzoso (32) (c.d. “exchanger”); - il mixer, ossia l’operatore che offre servizi di “anonimizzazione” degli scambi (33), all’interno della catena di transazioni registrate nella blockchain, attraverso il raggruppamento di transazioni diverse e tra loro indipendenti, all’interno di un’unica operazione, che alla fine si conclude con l’invio delle risorse verso indirizzi indicati dai singoli clienti destinatari delle somme detenute in criptovalute (34). Inoltre, nel mondo delle criptovalute operano ulteriori soggetti che svolgono, a vario titolo, attività di intermediazione, soprattutto per facilitare l’impiego delle criptovalute come mezzo di pagamento in rete, nonché l’investimento in crypto-currency (35), numerosi sviluppatori software, attivi nella realizzazione di applicazioni per lo scambio e la detenzione di valute virtuali, nonché produttori di hardware e di installazioni ATM destinate alla conversione di criptovalute in fiat currency (36). Lo sviluppo di gran parte del mercato delle criptovalute in ambiente digitale ha, altresì, comportato la formale localizzazione di numerosi operatori in Paesi non compliant con la disciplina a tutela dei risparmiatori e dei mercati finanziari e, soprattutto, antiriciclaggio, fattore che ha ulteriormente acuito i rischi connessi alla diffusione, su scala globale, delle criptovalute (37). A tale elemento di criticità occorre aggiungere quanto osservato dall’Au-

(32) Ovvero in altre criptovalute. (33) Che, come detto, di base risultano registrati, ragion per cui, essendo il registro pubblico, lasciano una traccia utilizzabile, all’occorrenza, per risalire all’identità dei soggetti intervenuti nello scambio. (34) Cfr. O. Calzone, op. cit.; per un approfondimento sui rischi connessi all’impiego di tali servizi con finalità di riciclaggio di proventi illeciti, si rinvia, altresì, a S. Familiari, Criptovalute: i sistemi di mixaggio per il riciclaggio di denaro, in C.R.S.T., 1° marzo 2018; A. Dori, A Complex Web: Bitcoin Mixing Services, 2016, pubblicato sul portale della società israeliana Check Point Software Technologies Ltd. (35) Ad esempio, attraverso la costituzione di exchange traded funds (c.d. “ETFs”) o l’emissione di strumenti derivati. (36) European Central Bank Report, Virtual Currency schemes – a further analysis, febbraio 2015, 8. (37) Fatf Report, Virtual Currencies Key Definitions and Potential AML/CFT Risks, giugno 2014, 10.


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torità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA), dall’Autorità bancaria europea (EBA) e dall’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali (EIOPA) nel comunicato congiunto emanato nel mese di marzo 2018. In sintesi, le tre Autorità europee di vigilanza hanno rilevato che se, come già capitato in passato, una piattaforma per la negoziazione di criptovalute o un provider di portafogli digitali falliscono, cessano l’attività, sono vittima di un attacco informatico, sono accusati di appropriazione indebita di fondi o sono sottoposti a confisca dei beni come misura di contrasto, allo stato attuale la legislazione comunitaria non prevede alcuna tutela giuridica specifica volta alla copertura delle perdite subite dall’investitore, né gli offre alcuna garanzia circa la possibilità di poter accedere, nuovamente, alle proprie riserve di criptovaluta (38). 4. Le diverse tipologie di criptovalute, emesse tramite Initial Coin Offering. – Gli obiettivi e le finalità delle singole ICO possono essere variegati, in quanto taluni token o coin di nuova emissione possono essere utilizzati per acquistare, in futuro, prodotti o servizi, nell’ambito di progetti (39) al cui sviluppo è funzionale la raccolta di risorse finanziarie. In altri casi, le valute virtuali di nuova emissione assicurano diritti di voto, ovvero di partecipazione ai profitti futuri dell’emittente, alla stregua di titoli azionari. In taluni casi, le criptovalute emesse attraverso ICO possono essere convertite in fiat currency, per il tramite di servizi di exchange, mentre in altri casi sono inserite in circuiti chiusi, cosicché la loro spendita è consentita, esclusivamente, all’interno dello stesso. Alla classificazione dei token, in base alle specifiche caratteristiche assunte, è stata attribuita rilevante importanza, specie a partire dal pronunciamento della Security Exchange Commission statunitense, del 25 luglio 2017, nel cui ambito è stato affrontato il caso della initial coin offering dell’emittente The Dao (40).

(38) È stato osservato che, sovente, si sono registrati casi di interruzione dell’operatività di piattaforme di wallet custodian o di exchange, che hanno generato gravi disservizi e pesanti perdite per i detentori di criptovalute. (39) Sovente, basati sullo sviluppo di piattaforme il cui funzionamento si basa sulla tecnologia della catena di blocchi. (40) Cfr. Securities and Exchange Commission, Securities Exchange Act of 1934,


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Nell’occasione, l’Authority americana ha equiparato il token The Dao a un vero e proprio asset finanziario, rilevando una violazione della normativa che regola l’offerta sul mercato di titoli, che prevede apposite procedure di registrazione, nonché il giudizio delle autorità circa le adeguate garanzie per i sottoscrittori, censurando qualsivoglia potenziale aggiramento della normativa che regola l’offerta di strumenti finanziari (41). Sulla materia si è, successivamente, pronunciata anche l’Autorità finanziaria tedesca (BaFin), all’interno della advisory letter pubblicata il 28 marzo 2018, con la quale, pur rimarcando le significative differenze riscontrabili dall’analisi dei diversi token (42), è stata sottolineata la potenziale ricomprensione dei medesimi nella categoria degli strumenti finanziari, con conseguente applicazione della relativa regolamentazione, a tutela dei mercati nonché, in presenza di comportamenti patologici, delle vigenti sanzioni penali (43). Appare evidente che tali pronunciamenti hanno avuto il pregio di fissare dei paletti nel collocamento di token su importanti mercati finanziari, come quello statunitense e tedesco, rappresentando, nel contempo, importanti precedenti anche per le altre autorità di vigilanza competenti. Tuttavia, i medesimi non hanno, certamente, rallentato la diffusione di ICO in ambito internazionale, anche in ragione della contemporanea apertura registrata, in altre giurisdizioni, in favore dei potenziali emittenti di nuove

Release No. 81207 / July 25, 2017, Report of Investigation Pursuant to Section 21(a) of the Securities Exchange Act of 1934: The DAO, 25 luglio 2017. Per un ulteriore approfondimento, si rinvia, altresì, a J. Clayton (SEC Chairman), Statement on Cryptocurrencies and Initial Coin Offerings, 11 dicembre 2017. Sulla potenziale qualificazione dei token come strumenti finanziari (in particolare, con riguardo ai token che garantiscono diritti finanziari o di voto) si è espressa anche l’Autorità francese dei mercati finanziari (AMF), nel documento Amf, Summary of replies to the public consultation on Initial Coin Offerings (ICOs) and update on the UNICORN Programme, 22 febbraio 2018. (41) Cfr. A. Franceschi, Il Far West dell’offerta di nuove valute, in Bitcoin Generation. La rivoluzione delle criptovalute, Il Sole 24 Ore, 2018, 74 ss. (42) Tali da richiedere un’analisi caso per caso delle singole operazioni di emissione di nuove criptovalute, al fine di verificare la classificazione del token come strumento finanziario, ai sensi della: - legislazione finanziaria tedesca, contenuta nel Wertpapierhandel, nel Wertpapierprospektgesetz, contenente la disciplina domestica relativa al prospetto per le offerte pubbliche o l’ammissione alla negoziazione di strumenti finanziari; - Direttiva europea 15 maggio 2014, n. 2014/65/UE, che disciplina i mercati degli strumenti finanziari (c.d. MiFid II). (43) Un richiamo alla posizione già espressa dalla BaFin in una precedente decisione vincolante è contenuto anche nel contributo di L. D’Agostino, op. cit., 16.


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criptovalute, come testimoniato dall’esperienza registrata nella Confederazione elvetica, che ha pioneristicamente tentato di regolamentare il settore. Prendendo spunto proprio dalle linee guida emanate tra il 2017 e il 2018 dalla FINMA (44), l’autorità di vigilanza su mercato finanziario svizzero, per regolamentare il fenomeno delle ICO effettuate od offerte nella Confederazione elvetica, è possibile classificare le criptovalute di nuova emissione nelle seguenti categorie: - token di pagamento (c.d. “payment token”), tra cui rientrano le criptovalute che, nell’intenzione dell’emittente, devono essere accettate come mezzi di pagamento per l’acquisto di beni o servizi oppure sono finalizzati al trasferimento di denaro e di valori (45); - token di utilizzo (c.d. “utility token”), che consentono di acquisire beni o servizi forniti mediante accesso a un’infrastruttura blockchain, ovvero di sfruttare la tecnologia sviluppata nell’ambito del progetto finanziato; - token d’investimento (c.d. “asset”, “security” o “investment token”), che rappresentano veri e propri valori patrimoniali, sotto forma di credito nei confronti dell’emittente, con diritto alla percezione futura di interessi (in tal caso, essendo assimilabile ad un’obbligazione) (46); alternativamente, dalla detenzione di tale criptovaluta, potrebbe derivare il diritto alla percezione di dividendi, ovvero di una quota di ricavi o flussi finanziari futuri, in tal caso qualificandosi come quote azionarie o strumenti derivati (47). Invero, la FINMA non ha escluso la possibilità di promuovere ICO per l’emissione di valute virtuali ibride, aventi le caratteristiche di più categorie tra quelle sopra indicate. La stessa Autorità di vigilanza ha chiarito che, a seguito di una ICO, la nuova criptovaluta può essere immessa in circolazione su una blockchain preesistente, già al momento della raccolta dei capitali, oppure può essere

(44) Cfr. Comunicazione Finma sulla vigilanza 04/2017, Trattamento secondo il diritto in materia di vigilanza delle initial coin offering, 29 settembre 2017; Finma, Guida pratica per il trattamento delle richieste inerenti all’assoggettamento in riferimento alle initial coin offering (ICO), 16 febbraio 2018. (45) Senza conferimento di diritti nei confronti dello stesso emittente. (46) Per completezza, al riguardo, si segnala che il 26 luglio 2018, la Finma ha comunicato di aver avviato un procedimento nei confronti dell’emittente di una nuova criptovaluta, assimilabile a un’obbligazione, al fine di accertare possibili violazioni del diritto bancario domestico, connesse all’eventuale accettazione illecita di depositi del pubblico. (47) Secondo la Finma, in tale categoria rientrano anche i token che mirano a rendere negoziabili sulla blockchain oggetti di valore materiali (quali ad esempio, lingotti d’oro).


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previsto il rilascio futuro di token agli investitori, dopo la loro creazione, ovvero lo sviluppo di una blockchain dedicata; infine, nei casi di prevendita, gli investitori ricevono i token con la possibilità di ottenerne dei nuovi in una fase successiva di sviluppo del progetto (48). 5. Ricadute di carattere fiscale. – Occorre premettere che, allo stato, non esiste una disciplina tributaria specifica, applicabile ai soggetti e alle operazioni in criptovalute e che le peculiarità esclusive di tale comparto dovranno, necessariamente, portare il nostro legislatore ad assumere idonee iniziative al riguardo, per evitare il proliferare di incertezze e abusi. Al momento, in base alla legislazione vigente, occorre distinguere il profilo dei prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, che offrono a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di criptovalute e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale, rispetto agli investitori in criptovalute. Alla prima categoria appartengono, tra l’altro, gli emittenti nell’ambito di ICO, i minatori, gli exchange, le piattaforme di trading e i wallet custodian, potenzialmente interessati da profili che investono sia l’imposizione diretta che indiretta. Con riguardo alla disciplina ai fini delle imposte sui redditi, ferma restando l’applicabilità delle ordinarie regole impositive in tema di residenza e stabile organizzazione dei soggetti formalmente costituite in Paesi esteri (49), l’Agenzia delle Entrate ha fornito un primo contributo sul tema all’interno della nota Risoluzione n. 72/E del 2 settembre 2016. In tale contesto è stata approfondita l’operatività di un soggetto attivo nella compravendita di criptovalute (bitcoin) per conto terzi, stabilendo che dovesse assoggettare a imposizione i componenti di reddito derivanti dall’attività di intermediazione nell’acquisto e vendita, al netto dei relativi costi inerenti a detta attività, rilevanti ai fini della formazione della base imponibile Ires e Irap. Ancora, è stato chiarito che le disponibilità finanziarie in criptovalute, detenute al termine dell’esercizio, debbano essere valutate secondo il cambio in

(48) Per un’analisi più ampia sull’approccio assunto dalla Confederazione elvetica per avvantaggiarsi della diffusione della nuova tecnologia della blockchain, si rinvia a Deloitte, The Blockchain (R)evolution – The Swiss Perspective, White Paper, febbraio 2017. (49) Che assumono particolare rilievo, in tale comparto, in ragione dell’attuale conformazione del mercato, nel cui ambito operano, principalmente, soggetti economici formalmente non residenti, spesso con sede ubicata in Paesi a fiscalità privilegiata.


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vigore alla data di chiusura dell’esercizio, secondo le regole di determinazione del “valore normale”, e che tale valutazione assuma rilievo ai fini fiscali ai sensi dell’art. 9 del D.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 (T.U.I.R.) (50). Orbene, se è vero che tali indicazioni assumono rilievo in relazione a gran parte degli operatori professionali attivi nel mercato delle criptovalute, dovendosi attribuire rilevanza, ai fini della formazione della base imponibile in Italia, all’ammontare delle commissioni attive applicate ai clienti (51), a titolo di corrispettivo per le operazioni rese (attivazione e gestione di wallet, conversione di valute virtuali in fiat currency e viceversa, ecc.), rimangono da chiarire i profili fiscali connessi, ad esempio, all’emissione di token e coin, anche tenendo in considerazione la loro diversa qualificazione (di pagamento, di utilizzo o di investimento). Relativamente alla disciplina applicabile in materia di imposta sul valore aggiunto, nello stesso provvedimento di prassi l’Agenzia delle Entrate si è uniformata alla posizione assunta dalla Corte di Giustizia europea nella sentenza 22 ottobre 2015, causa C-264/14, laddove è stato affrontato il tema della qualificazione Iva delle operazioni di conversione di valute virtuali in fiat currency e viceversa. Nell’occasione il legislatore comunitario ha stabilito che tali operazioni si qualificano come prestazioni di servizi (52) a titolo oneroso, classificandole tra le operazioni esenti Iva, “relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio” di cui all’art. 135, paragrafo 1, lettera e), della Direttiva 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE, posto che “un’interpretazione di tale disposi-

(50) In tal senso, è stato specificato che potrebbe ben farsi riferimento alla media delle quotazioni ufficiali rinvenibili sulle piattaforme on line in cui avvengono le compravendite di bitcoin. (51) Ai fini dell’imposizione diretta, a condizione che siano quivi fiscalmente residenti ex art. 73 T.U.I.R., oppure operino sul territorio dello Stato per il tramite di una stabile organizzazione, ex art. 162 T.U.I.R., nella nuova configurazione assunta a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1010, lett. b), L. 27 dicembre 2017, n. 205 (Legge di bilancio 2018), in attuazione delle indicazioni fornite dall’OCSE al termine dei lavori del Progetto BEPS che, relativamente alla riperimetrazione del concetto di stabile organizzazione, anche alla luce delle novità derivanti dallo sviluppo dell’economia digitale, erano confluiti nel rapporto OECD (2015), Preventing the Artificial Avoidance of Permanent Establishment Status, Action 7 - 2015 Final Report, OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, OECD Publishing, Paris. (52) Ex art. 24 della Direttiva, non potendo essere classificate tra i “beni materiali” ex art. 14 della summenzionata Direttiva Iva, come osservato anche dall’Avvocato generale al paragrafo 17 delle sue conclusioni.


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zione secondo la quale essa disciplina le operazioni relative alle sole valute tradizionali si risolverebbe nel privarla di parte dei suoi effetti”. Tale orientamento si fonda sulla qualificazione delle valute virtuali come mezzo di pagamento (53), ragion per cui le operazioni che consistono nel cambio di valuta tradizionale contro unità della valuta virtuale e viceversa (54) costituiscono operazioni esenti dall’imposta sul valore aggiunto. A tale impostazione ha aderito anche l’Agenzia delle Entrate, confermando che le commissioni percepite dall’exchange italiano debbano essere considerate, ai fini Iva, quali prestazioni di servizi esenti ai sensi dell’art. 10, primo comma, n. 3), del D.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633. Invero, anche con riferimento ai sopra esposti profili Iva, occorre chiarire che: - l’ipotesi di esenzione Iva prevista dall’art. 135 della Direttiva U.E., che fa riferimento a operazioni “relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio”, appare, certamente, più estesa rispetto a quella adottata dal legislatore nazionale in sede di recepimento, laddove rientrano nel campo di esenzione le sole “operazioni relative a valute estere aventi corso legale”, tra le quali appare, obiettivamente, più difficile, ricomprendere le valute virtuali; - il pronunciamento dell’Amministrazione finanziaria si riferisce ad un’operatività specifica, relativa ad un’impresa attiva nella conversione di criptovalute in fiat currency e viceversa. Ad ogni modo, in prospettiva futura, rimarrà, ad esempio, da chiarire l’inquadramento Iva di prestazioni non riferite alla conversione di valuta, tra cui: - le cessioni di nuove criptovalute riconosciute ai miner, per le quali sembrerebbe condivisibile l’inquadramento all’interno del medesimo art. 10, primo comma, n. 3), del Decreto Iva; - l’attivazione e gestione di wallet, che secondo taluna dottrina non presenta un collegamento funzionale rispetto a operazioni relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio, ragion per cui sarebbe giustificabile l’applicazione dell’ordinario regime di imposizione Iva. Da ultimo, anche ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, occorrerà ap-

(53) Qualificazione giuridica che, come sopra esposto, non risulta per niente pacifica. (54) Effettuate a fronte del pagamento di una somma corrispondente al margine costituito dalla differenza tra, da una parte, il prezzo al quale l’operatore interessato acquista le valute e, dall’altra, il prezzo al quale le vende ai suoi clienti.


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profondire i risvolti connessi all’emissione, nonché alla successiva attività di trading, delle varie tipologie di token e coin oggetto di recenti initial coin offering atteso che, mentre le operazioni aventi a oggetto i summenzionati investment token potrebbero essere agevolmente inquadrate all’interno dell’art. 10, 1 comma 1, n. 3), del D.p.r. n. 633/1972 (55), maggiori dubbi potrebbero sussistere circa l’applicazione del summenzionato regime di esenzione con riguardo alle transazioni riguardanti gli utility token, consistenti in un contratto che prevede l’acquisto futuro di un bene o l’erogazione di un servizio (sia pure non immediato) in cambio di un pagamento (regolato in criptovalute) (56). Passando all’esame della posizione della persona fisica che non svolge attività d’impresa e investe in criptovalute, l’Agenzia delle Entrate si è, recentemente, pronunciata sul trattamento fiscale delle componenti reddituali derivanti dalla loro negoziazione, nonché sull’applicabilità degli obblighi in materia di monitoraggio fiscale, disciplinati dal Decreto Legge 28 giugno 1990, n. 167, in ipotesi di titolarità di wallet contenenti criptovalute. Con la risposta all’interpello n. 956-39/2018, riferita all’operatività in bitcoin di un investitore privato, è stato chiarito che, ai fini dell’imposizione diretta, si applicano alle operazioni di conversione di valuta virtuale i principi generali che regolano le operazioni aventi a oggetto valute tradizionali, ragion per cui le: - cessioni a pronti (57) di valuta virtuale non danno origine a redditi imponibili (né a minusvalenze deducibili) mancando la finalità speculativa;

(55) Laddove risultano classificate come esenti Iva le operazioni relative ad azioni, obbligazioni o altri titoli non rappresentativi di merci e a quote sociali. (56) Cfr. S. Capaccioli, La «Ico» può essere soggetta al Codice del Consumo, Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2018; A. Franceschi, Il Far West dell’offerta di nuove valute, in Bitcoin Generation. La rivoluzione delle criptovalute, Il Sole 24 Ore, 2018, 74 ss. Un primo riscontro, in tal senso, è stato fornito dall’Agenzia delle Entrate in risposta a un interpello (n. 14 del 28 settembre 2018), seppur con gli dovuti limiti legati all’approfondimento di una specifica operatività, sostenendo che “la cessione degli utility token sia riconducibile ad una mera movimentazione finanziaria, non rilevante agli effetti dell’IVA” per cui “l’imposta si renderà esigibile solo al momento in cui i beni saranno ceduti o i servizi prestati con la spendita dei token”. Tuttavia, in tale ambito, è stato altresì rilevato che, a partire dal 1° gennaio 2019, gli Stati membri sono chiamati a trasporre nel proprio ordinamento le norme della Direttiva UE 2016/1065 (Direttiva recante modifica della Direttiva 2006/112/CE per quanto riguarda il trattamento dei buoni), ragion per cui si rende necessario verificare, in prospettiva, la possibilità di ricondurre le cessioni di utility token alla specifica disciplina attuata dalla citata Direttiva. (57) Ossia l’operazione che si perfeziona mediante lo scambio immediato di valute, anche nei casi in cui un quantitativo di criptovalute sia stato impiegato per acquistare un’altra tipologia di valuta virtuale e non una fiat currency.


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tuttavia, qualora la giacenza media nei wallet superi un controvalore di euro 51.645,69 (58) per almeno sette giorni lavorativi continui nel periodo d’imposta, l’eventuale plusvalenza è qualificabile come reddito diverso, ai sensi dell’art. 67, comma 1-ter del T.U.I.R. (59); - cessioni a termine di valuta virtuale generano sempre redditi diversi, ex art. 67, comma 1, lettera c-ter) del T.U.I.R.; - operazioni aventi ad oggetto contratti differenziali aventi come sottostanti valute virtuali (60), generano plusvalenze qualificabili sempre come redditi diversi ai sensi della successiva lettera c-quater) dell’art. 67, comma 1, del T.U.I.R.; - operazioni riguardanti utility token, la cui titolarità da diritto ad acquistare a termine (ossia, allorquando saranno disponibili) determinati beni o servizi pattuiti in sede di adesione all’ICO, sono parimenti inquadrabili come redditi diversi ai sensi della medesima lettera c-quater) (61). Orbene, come indicato dall’Agenzia delle Entrate, i redditi diversi di natura finanziaria scaturenti dalle summenzionate operazioni devono essere assoggettati a imposta sostitutiva, ex art. 5 del Decreto Legislativo 21 novembre 1997, n. 461, attualmente con aliquota del 26 per cento (62). Invero, allo stato non può escludersi che, quantomeno con riguardo alle criptovalute detenute con finalità d’investimento (c.d. asset, investment e se-

(58) Tenendo in considerazione l’entità complessiva di valute virtuali, ancorché detenute all’interno di più wallet. (59) Ai sensi della Circolare 24 giugno 1998, n. 165 (Dir. AA.GG. e cont. trib.), il valore in euro della giacenza media in valuta virtuale deve essere determinato in base al cambio di riferimento all’inizio del periodo di imposta, e cioè al 1° gennaio dell’anno in cui si verifica il presupposto d’imposta; con riferimento alle criptovalute, secondo le indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate, tale valore può essere acquisito sul portale dove l’investitore ha acquistato la valuta virtuale o, in mancanza, sul sito dove effettua la maggior parte delle operazioni. Peraltro, specie in presenza di forti oscillazioni di valore, il riferimento al cambio all’inizio del periodo di imposta (qualora molto distante, in positivo o negativo, rispetto alla quotazione effettiva) potrebbe generare un trattamento fiscale poco equo, come osservato da D. Deotto - P.L. Burlone, La tassazione dei bitcoin e i paradossi delle Entrate, in Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2018, 19. (60) Si pensi alle operazioni perfezionate sui mercati FOREX, ovvero attraverso la stipula di contract for difference (c.d. “CFD”), aventi ad oggetto valute virtuali, per i quali si registra una sempre crescente diffusione. (61) M. Dattilo - S. Barsalini, Più equità fiscale per i token, in Italia Oggi, 9 maggio 2018, 36. (62) Per un approfondimento, si rinvia alla Risoluzione 25 ottobre 2011, n. 102/E, dell’Agenzia delle Entrate.


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curity token), in costanza del rapporto finanziario, i relativi redditi (63) possano, in futuro, essere meglio inquadrati all’interno dell’art. 44, comma 1, lett. h) del T.U.I.R., in quanto derivanti dall’impiego di capitale, lasciando nell’alveo dei redditi diversi di natura finanziaria – di cui all’art. 67, comma 1, lettera c-quinquies) del T.U.I.R. – le sole plusvalenze e altri proventi, realizzati all’atto della mera cessione delle altre valute virtuali. Ancora, le operazioni in valute virtuali rilevano anche ai fini dell’applicazione della disciplina in materia di monitoraggio fiscale contenuta nel Decreto Legge 28 giugno 1990, n. 167 (64), giacché, come previsto dall’art. 1, a seguito delle modifiche apportate dal Decreto Legislativo 25 maggio 2017, n. 90, sono previsti specifici obblighi di comunicazione in favore dell’Agenzia delle Entrate, in capo agli intermediari bancari e finanziari, nonché agli operatori finanziari e non (65) che intervengono nei trasferimenti da o verso l’estero di mezzi di pagamento, di importo pari o superiore a 15.000 euro, ora anche se effettuati in valuta virtuale. Secondo l’Amministrazione finanziaria, anche ai fini del monitoraggio fiscale, le valute virtuali devono essere assimilate alle fiat currency e, segnatamente, a valute estere, cosicché risulta applicabile la disciplina contenuta nel successivo art. 4, laddove è previsto – in capo al detentore e al titolare effettivo dell’investimento (66) – l’obbligo di compilazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi, da parte delle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato che, nel periodo d’imposta, detengono investimenti all’estero e attività estere di natura finanziaria (67), suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia (68).

(63) Ad esempio, derivanti dall’incasso di dividendi o interessi. (64) Convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1990, n. 227 e successive modificazioni. (65) Come verrà meglio esposto in seguito, per effetto delle modifiche apportate all’art. 3, comma 5 del Decreto Legislativo 21 novembre 2007, n. 231, in quest’ultima categoria sono stati inseriti anche i prestatori di servizi nel comparto delle valute virtuali. (66) Da individuarsi in base alla disciplina anti-riciclaggio, contenuta nel D.Lgs. n. 231/07. (67) Tra cui, appunto, rientrano le valute estere, come chiarito nel paragrafo 1.3.1. della Circolare 23 dicembre 2013, n. 38/E; invero, potrebbe essere messa in discussione la qualificazione delle valute virtuali tra le altre attività finanziarie, quantomeno nei casi in cui le stesse non attribuiscano al possessore alcun diritto, ma solo l’aspettativa di essere accettate da una controparte in cambio di altri valori. (68) Ai fini della determinazione del valore in euro della valuta virtuale detenuta al 31 dicembre del periodo d’imposta di riferimento, occorre far riferimento ai sopra esposti criteri,


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Orbene, anche in questo ambito, l’esposto orientamento espresso dall’Agenzia delle Entrate sconta l’attuale inadeguatezza della nostra legislazione tributaria ai fini del corretto inquadramento del fenomeno delle criptovalute, in quanto: - notoriamente, le stesse non vengono detenute in territorio estero, né sul territorio dello Stato, quanto piuttosto in ambiente digitale, all’interno della blockchain, ragion per cui, quantomeno nei casi in cui l’investitore detenga le criptovalute all’interno di portafogli gestiti autonomamente (69), oppure nei casi in cui ricorra a wallet custodian stabiliti in Italia (70), in base alla legislazione vigente, appare, obiettivamente, forzata l’estensione dell’obbligo dichiarativo nel quadro RW (71); - se si considerano le diverse tipologie di coin e token oggetto di emissione nell’ambito di ICO, in taluni casi possono sussistere più che fondati dubbi anche in relazione alla loro assimilazione, tout court, a valute tradizionali; - richiamando i principi contenuti nell’art. 10 della Legge 27 luglio 2000, n. 212 (recante lo Statuto dei diritti del contribuente), tale incertezza (72) potrebbe incidere sulla concreta applicabilità della sanzione amministrativa pecuniaria, compresa nel range tra il 3 e il 15 per cento, dell’ammontare degli importi non dichiarati, prevista dall’art. 5 del succitato Decreto Legge (73). Occorre osservare che l’Agenzia delle Entrate ha specificato di ritenere estensibili al mondo delle criptovalute le disposizioni fornite con la Circola-

rilevando il dato sul portale dove l’investitore ha acquistato la valuta virtuale o, in mancanza, sul sito dove effettua la maggior parte delle operazioni. (69) In particolare, disponendo in via esclusiva della chiave privata del wallet, abbinata all’indirizzo (ricavabile dalla chiave pubblica) attraverso cui vengono disposte le operazioni in criptovalute. (70) Diversamente, il ricorso ad un wallet custodian estero potrebbe giustificare l’indicazione nel quadro RW dello Stato in cui il medesimo ha sede, quale luogo di detenzione delle valute virtuali. (71) Per un approfondimento, S. Capaccioli - D. Deotto, Bitcoin in RW, il bivio della “chiave”, in Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2018, 17. (72) In senso conforme, G. Falsitta - D. Sencar, Sanzioni verso la disapplicazione, in Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2017, 17. (73) A maggior ragione, secondo la dottrina (cfr. ex pluribus S. Capaccioli – D. Deotto, op. cit.), dovrebbe escludersi l’applicabilità delle sanzioni raddoppiate previste nei casi di mancata dichiarazione della detenzione di investimenti all’estero ovvero di attività estere di natura finanziaria negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato.


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re 23 dicembre 2013, n. 38/E, laddove era stata confermata la vigenza degli obblighi dichiarativi in materia di monitoraggio fiscale, anche in relazione alle attività finanziarie estere detenute in Italia, al di fuori del circuito degli intermediari residenti (74). Tuttavia, in dottrina si registrano fondati dubbi anche in relazione all’assimilazione delle criptovalute alle valute estere (75), non essendo le stesse emesse da Stati esteri (76), né risultando convertibili per legge (77). Ad ogni modo, dovrebbe escludersi l’assimilazione dei portafogli digitali ai conti correnti e depositi bancari esteri, in relazione ai quali si applica la soglia minima di 15.000 euro, ai fini della dichiarazione annuale delle disponibilità estere nel quadro RW (78), anche se tale impostazione risulterebbe penalizzante rispetto a chi detiene all’estero valute tradizionali (79). Infine, è stata esclusa la rilevanza dei portafogli in criptovalute ai fini dell’imposta sul valore dei prodotti finanziari, dei conti correnti e dei libretti di risparmio detenuti all’estero dalle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato (c.d. IVAFE), disciplinata dall’art. 19, comma 18 e seguenti, del Decreto Legge 6 dicembre 2011, n. 201 (80), posto che tale tributo risulta applicabile esclusivamente sui depositi e conti correnti di natura bancaria (81). In realtà, come chiarito nella Circolare 2 luglio 2012, n. 28/E, dell’Agenzia delle Entrate, tale imposta si applica in relazione alle valute estere e a tutte le attività da cui possono derivare redditi di capitale o redditi diversi di natura finanziaria di fonte estera ragion per cui, qualora si considerassero, effettivamente, detenute all’estero le valute virtuali, quantomeno nei casi in

(74) Come specificato nel medesimo paragrafo 1.3.1. del già richiamato provvedimento di prassi. (75) In quanto tali rientrando tra le attività estere di natura finanziaria, rilevanti ai fini del monitoraggio fiscale. (76) Fatta eccezione per le criptovalute di cui è stata decisa l’emissione da parte di alcuni Stati, quali il Venezuela e la Svezia. (77) Cfr. M. Piazza, Per i bitcoin assimilazione in bilico, in Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2018, 23. (78) In senso Cfr. M. Piazza, Per i bitcoin assimilazione in bilico, in Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2018, 23. (79) Proprio in ragione dell’applicabilità della soglia prevista dall’art. 4 del D.Lgs. n. 167/90; sul punto, cfr. F. Cancelliere – A Tardini, Fisco-bitcoin, partita aperta, in Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2018, 15. (80) Convertito, con modificazioni, dalla Legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni. (81) Come chiarito nella Circolare 2 luglio 2012, n. 28/E, dell’Agenzia delle Entrate.


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cui i portafogli digitali risultano gestiti da wallet custodian stranieri, l’IVAFE potrebbe trovare corretta applicazione (82). In conclusione, vale la pena segnalare che le indicazioni finora fornite dall’Agenzia delle Entrate si riferiscono, nella stragrande maggioranza dei casi, a operatività in bitcoin, ragion per cui, per il tratto a venire, occorrerà formulare più approfondite riflessioni circa le ricadute fiscali connesse all’applicazione della disciplina vigente ai fini dell’imposizione diretta e indiretta, relativamente alle operazioni aventi a oggetto le variegate categorie di criptovalute emesse negli ultimi anni, ovvero di prossima emissione, sovente non assimilabili a valute estere (basti pensare, al riguardo, ai già menzionati utility token), valutando anche la possibilità di introdurre una disciplina tributaria ad-hoc, in ragione delle obiettive peculiarità già emerse con riferimento al mondo delle criptovalute (83). 6. La disciplina applicabile in ambito antiriciclaggio. – In anticipo rispetto all’introduzione, all’interno della legislazione europea, di una disciplina ad hoc dedicata al comparto in esame, il D.Lgs. n. 90/2017, ha avuto il pregio di introdurre, all’interno della disciplina antiriciclaggio, contenuta nel

(82) In senso parzialmente difforme, con riguardo al bitcoin, si sono espressi S. Massarotto - V. Maiese, I bitcoin e le altre valute virtuali: regime fiscale e orientamenti interpretativi in ambito comunitario e nazionale, in Rivista della Guardia di Finanza, n. 2/2018, 438; tali autori hanno osservato che: - l’IVAFE si applica ai “prodotti finanziari”, la cui definizione è contenuta nel Testo Unico della Finanza ed include gli “strumenti finanziari” e “ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”; - dalla categoria degli strumenti finanziari sono espressamente esclusi gli strumenti di pagamento. Tuttavia, con riferimento all’ambito oggettivo dell’IVAFE, deve registrarsi anche il pronunciamento risalente dell’Agenzia delle Entrate che, all’interno della Circolare 2 luglio 2012, n. 28/E (par. 2.2.), aveva incluso, espressamente, nel perimetro delle attività finanziarie rilevanti ai fini IVAFE, anche le valute estere detenute fuori dal territorio italiano. (83) Sul tema si sono soffermati anche il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti contabili e la Fondazione Nazionale dei Commercialisti, nel documento di ricerca La fiscalità internazionale nell’economia digitale. Problematiche e scenari economici, 28 maggio 2018, 15 ss. In tale documento, è stato ipotizzato un possibile revirement ufficiale, da parte della nostra Amministrazione finanziaria, con riferimento all’inquadramento fiscale delle criptovalute, eventualmente anche sull’onda degli orientamenti emergenti in sede estera. A riguardo, è stata richiamata la posizione assunta dal Consiglio di Stato francese, che ha equiparato i guadagni derivanti dalla compravendita di criptovalute alle plusvalenze su “beni mobili”, modificandone, radicalmente, il regime impositivo.


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Decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231 (84), i nuovi riferimenti alle valute virtuali, avendo fornito la definizione di prestatore di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale (85) e perimetrato la nozione di valuta virtuale (86). Inoltre, all’art. 3, comma 5, per ora sono stati inseriti, tra gli operatori non finanziari, i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, limitatamente allo svolgimento dell’attività di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso forzoso. Invero, già prima dell’introduzione della novella, l’Unità di Informazione Italiana (U.I.F.), uniformandosi alla posizione assunta dal GAFI, dall’Autorità Bancaria Europea e dalla Banca Centrale Europea, in apposita comunicazione pubblicata il 30 gennaio 2015 aveva inteso sottolineare i rischi connessi all’utilizzo anomalo delle valute virtuali, sottolineando che il loro impiego può esporre a rischi di riciclaggio e finanziamento del terrorismo. Più recentemente, sempre in relazione al comparto delle valute virtuali, la Banca d’Italia, anche in attuazione degli Orientamenti emanati congiuntamente dalle Autorità di Vigilanza europee (EBA, ESMA e EIOPA) sulle misure semplificate e rafforzate di adeguata verifica della clientela e sui fattori di rischio, emanati il 4 gennaio 2018, ha pubblicato le nuove Disposizioni attuative in materia di adeguata verifica della clientela, già oggetto di consultazione pubblica, all’interno delle quali, tra i fattori di rischio elevato relativi a prodotti, servizi, operazioni o canali di distribuzione ha, espressamente, menzionato i prodotti od operazioni che potrebbero favorire l’anonimato ovvero l’occultamento dell’identità del cliente e/o del titolare effettivo, tra cui rientrano le carte prepagate anonime emesse da intermediari esteri, le azioni al portatore, nonché le operazioni riconducibili a servizi connessi alla conversione di valuta legale in valuta virtuale e viceversa.

(84) Avvenuta con la Direttiva n. 2018/843/UE del 30 maggio 2018 (c.d. “V Direttiva antiriciclaggio). (85) Ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. ff), rientra in tale categoria ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale. (86) In linea con la definizione contenuta all’interno del Rapporto della European Central Bank, Virtual Currency schemes – a further analysis, febbraio 2015, 25, l’art. 1, lett. qq), ha qualificato la valuta virtuale come la rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente.


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Le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 90/2017 hanno avuto un impatto significativo sui singoli presidi, anche in ragione delle ricadute derivanti dall’espressa menzione della valuta virtuale e dei prestatori di servizi operanti nello specifico comparto all’interno del Decreto antiriciclaggio. Con riguardo agli obblighi di inoltro di segnalazioni per operazioni sospette, previsti dagli articoli da 35 a 41 del D.Lgs. n. 231/2007, occorre evidenziare che, allo stato, non hanno subito variazioni gli indicatori di anomalia già emanati dalla Banca d’Italia, dal Ministero della Giustizia e dal Ministero dell’Interno, in relazione alle diverse categorie di soggetti obbligati, che pertanto risulteranno applicabili anche in relazione alle operazioni in criptovalute. Tra l’altro, in merito si rammenta che, come già accennato in premessa, nel mese di marzo 2018, il G-20 ha dato mandato al GAFI di predisporre specifici alert dedicati alle criptovalute, anche in ragione dei pericoli per la protezione dei consumatori e degli investitori, l’integrità dei mercati, l’evasione fiscale, il riciclaggio e il contrasto del finanziamento al terrorismo. Evidentemente, anche per tale motivo, non sono stati emanati schemi rappresentativi di comportamenti anomali, specificamente dedicati al mondo delle criptovalute. Invero, si stima utile segnalare la pubblicazione di apposita comunicazione dell’U.I.F., risalente al 5 febbraio 2010, con cui sono stati definiti schemi rappresentativi di comportamenti anomali nel comparto delle frodi informatiche, che potrebbero integrarsi anche tra gli operatori e utilizzatori di valute virtuali. D’altronde, i punti di contatto tra valute virtuali e criminalità online appare confermata anche dal Rapporto dell’Europol intitolato The Internet Organised Crime Threat Assessment (IOCTA) e pubblicato nel 2017; in tale documento, la summenzionata agenzia europea ha analizzato, dettagliatamente, le minacce della criminalità organizzata sulla base dei riscontri delle Forze dell’Ordine operanti negli Stati membri dell’Unione Europea, sottolineando l’affermazione delle criptovalute (e in particolare del bitcoin) come fattore chiave di agevolazione delle attività criminali online. Nelle more dell’emanazione di disposizioni di prassi che affrontino, con un approccio sistematico, le criticità emergenti dall’applicazione della disciplina antiriciclaggio al comparto delle criptovalute, appaiono significative le indicazioni fornite dal Notariato, con la risposta al Quesito Antiriciclaggio n. 3-2018/B laddove, nel valutare una compravendita immobiliare regolata in bitcoin, è stato consigliato al notaio rogante di valutare l’opportunità di


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procedere all’inoltro di una segnalazione di operazione sospetta; ciò in quanto, come osservato dal Notariato, a fronte della prospettata compravendita, le operazioni in bitcoin o in altre criptovalute: - risultano certamente tracciabili in senso informatico, ma non consentono l’identificazione del soggetto che effettua l’operazione ai fini antiriciclaggio (87), garantendo, di fatto, l’anonimato (88); - potrebbero essere meramente apparenti, posto che vengono regolate mediante un trasferimento da un “conto” che l’acquirente dichiara essere proprio, a un altro conto del quale, parimenti, il venditore asserisce la titolarità, ma il tutto senza che possa esservi il benché minimo riscontro della veridicità di tali dichiarazioni da parte del professionista; - fanno emergere criticità anche in relazione all’analitica indicazione nell’atto di compravendita immobiliare dei mezzi di pagamento utilizzati per la regolamentazione finanziaria dell’operazione (89), imposta dall’art. 35, comma 22, del Decreto Legge 4 luglio 2006, n. 223. Ancora, alle medesime criticità circa l’effettività della transazione, oltre che alla mancata identificabilità dei titolari dei portafogli digitali utilizzati per transazioni in valute virtuali, in sede di stipula di atti societari, quali ad esempio operazioni di conferimento (90), è legata l’esigenza, da parte delle competenti autorità di controllo, di riscontrare, nei casi di specie, la potenziale integrazione di fattispecie di fittizia costituzione del capitale sociale, peraltro sanzionata penalmente, ex art. 2632 del Codice Civile (91).

(87) Ciò in quanto l’impiego di un sistema informatico non può mai garantire l’identità del soggetto che effettua un accesso, essendo tale sistema unicamente programmato per abilitare determinate funzioni qualora l’utente sia provvisto delle corrette informazioni di sblocco (pin, codici, etc.). (88) Per le medesime ragioni, neanche chi effettua il pagamento è in condizione di identificare il destinatario del pagamento in valute virtuali. (89) Posto che l’indicazione, nell’atto, delle chiavi pubbliche e private non soddisferebbe, comunque, il requisito della tracciabilità, in quanto non consente di risalire al titolare del portafoglio virtuale; inoltre, renderebbe pubblico lo strumento per disporre della valuta virtuale associata all’indirizzo dell’utente. (90) Ad ogni modo, qualificabili come conferimenti in natura e non in denaro, posto che nella definizione di denaro rientrano, esclusivamente, le valute aventi corso legale; in tal senso, M. Krogh, Transazioni in valute virtuali e rischi di riciclaggio. Il ruolo del notaio, Notariato 2/2018, 155 ss. (91) Proprio sulle criticità connesse alla consistenza del conferimento in criptovalute si è soffermato il Tribunale di Brescia nel recente decreto n. 7556/2018, successivamente confermato dalla locale Corte d’Appello, laddove sono state valutate le modalità adottate per perfezionare l’aumento di capitale di una società a responsabilità limitata; per un approfondimento, cfr. A.


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Inoltre, occorre segnalare che, in sede di recepimento della IV Direttiva antiriciclaggio, non ha subito rilevanti modifiche la disciplina contenuta nell’art. 49 del D.Lgs. n. 231/2007, che limita l’uso del contante, per importi pari o superiori a 3.000 euro, al di fuori del canale degli intermediari bancari e finanziari, ridotti a 1.000 euro, in caso di ricorso a servizi di rimessa di denaro (c.d. “money transfer”) (92). Tuttavia, allo stato, in assenza di un intervento legislativo, tali limiti non appaiono applicabili ai trasferimenti di valute virtuali al di fuori del canale degli intermediari bancari e finanziari, attesa l’impossibilità di assimilare le stesse al denaro contante (93). Ciò pur nella consapevolezza che l’impiego di valute virtuali consente, ad oggi, di bypassare il limite all’uso del contante, presidio avente la finalità di garantire la tracciabilità delle operazioni al di sopra di una certa soglia, attraverso la canalizzazione dei flussi finanziari presso banche, Poste Italiane S.p.A., istituti di pagamento e istituti di moneta elettronica. La mancata previsione di limiti alla circolazione di valute virtuali appare ancor più irrazionale se si considera che per l’emissione di assegni bancari e circolari è imposto l’obbligo di apporre la clausola di non trasferibilità per importi superiori ad euro 999 allo scopo di verificare non solo l’emittente ed il primo prenditore, ma per evitare che i suddetti mezzi di pagamento possano essere scambiati tra soggetti non identificati dall’intermediario bancario o finanziario (94).

Busani, Veto sull’aumento di capitale di Srl con conferimento di criptovaluta, in Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2018, 18; A. Galimberti - R. Morone, Altro stop dei giudici ai conferimenti in Srl in criptovaluta, in Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2018, 16.. (92) A tale limite è collegato l’obbligo, previsto dall’art. 51 e ricadente in capo ai soggetti destinatari dei presidi antiriciclaggio, di comunicare al Ministero dell’economia e delle finanze le infrazioni alle disposizioni che pongono limitazioni alla circolazione del contante di cui vengano a conoscenza nell’esercizio della propria attività. (93) L’art. 1, comma 2, lett. o), perimetra il concetto di denaro contante, ricomprendendo le banconote e le monete metalliche, in euro o in valute estere, aventi corso legale, escludendo pertanto le monete non aventi corso legale, tra cui sono classificabili le valute virtuali. Neanche la Direttiva n. 2018/843/UE del 30 maggio 2018 (c.d. “V Direttiva antiriciclaggio), con cui è stata modificata la già recepita Direttiva n. 2015/849/UE del 20 maggio 2015 (c.d. “IV Direttiva antiriciclaggio”), contiene disposizioni innovative dell’attuale assetto. In senso conforme si è espresso il Notariato all’interno della risposta al Quesito Antiriciclaggio n. 3-2018/B, laddove è stato sostenuto che pur volendo riqualificare il bitcoin come “contante digitale”, un’eventuale interpretazione evolutiva delle norme in parola, con sostanziale equiparazione della valuta virtuale al denaro contante, ai fini antiriciclaggio, non appare sostenibile. (94) Per un approfondimento, M. Krogh, Transazioni in valute virtuali e rischi di


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Infine, anche nel comparto delle valute virtuali, è destinata a produrre un rilevante impatto l’espressa previsione dell’utilizzabilità, ai fini fiscali dei dati e delle informazioni acquisite nell’ambito delle attività svolte ai sensi dell’art. 9 del D.Lgs. n. 231/2007, ossia le ispezioni antiriciclaggio e l’approfondimento investigativo delle segnalazioni di operazioni sospette. L’inserimento di tale novità legislativa tra le disposizioni di carattere generale recate dal “Titolo I” del novellato D.Lgs. n. 231/2007 appare giustificato dalla frequente interferenza tra i fenomeni di evasione fiscale e money laundering, come rilevato dal G.A.F.I., nelle raccomandazioni riviste ed aggiornate nel 2018, e dal legislatore U.E., all’interno della IV Direttiva antiriciclaggio, laddove i reati connessi alle imposte dirette e indirette sono stati, per la prima volta, menzionati nella definizione di “attività criminosa”, i cui proventi possono costituire oggetto di operazioni di riciclaggio (95). Ad ogni modo, tali informazioni continueranno a poter essere utilizzate, da parte dell’Amministrazione finanziaria, esclusivamente nel rispetto delle cautele previste a tutela della riservatezza del segnalante. Ebbene, con riguardo al comparto in esame, l’utilizzabilità ai fini fiscali di informazioni acquisite in ambito anti-riciclaggio, afferenti ad operatività in valute virtuali, in ragione delle loro peculiarità, potrà consentire, almeno prima facie, di acquisire significativi elementi probatori con riferimento, ad esempio, a fenomeni di: - occultamento totale o parziale di operatività “in nero” che, facendo leva sulla (presunta) garanzia di anonimato, potrebbe indurre taluni soggetti economici a ricorrere alle nuove criptovalute, in luogo del tradizionale denaro contante; - mancato assoggettamento a imposizione diretta di redditi di capitali, ex art. 44 del T.U.I.R., o redditi diversi di natura finanziaria, ai sensi del successivo art. 67, da parte dei privati investitori in valute virtuali; - omessa dichiarazione della detenzione di attività finanziarie all’estero, in applicazione della già citata disciplina sul monitoraggio fiscale, contenuta nel D.L. n. 167/1990, rispetto alle quali potrebbe trovare applicazione anche la presunzione di cui all’art. 12 del Decreto Legge 1° luglio 2009, n. 78, in materia di redditi sottratti a tassazione;

riciclaggio. Il ruolo del notaio, Notariato 2/2018, 155 ss. (95) Come espressamente rilevato all’interno del considerando 11 della IV Direttiva antiriciclaggio.


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- esterovestizione e stabile organizzazione occulta, rispettivamente in applicazione degli articoli 73 e 162 del T.U.I.R., specie in relazione all’attività svolta, sul territorio dello Stato, da prestatori di servizi nel comparto delle valute virtuali; - interposizione fittizia, ex art. 37 del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600. La rilevanza, in sede fiscale, delle informazioni acquisite in ambito antiriciclaggio, appare vieppiù confermata dalla necessità, per i soggetti obbligati, di identificare i titolari effettivi di disponibilità finanziarie e asset immobiliari e mobiliari, secondo la procedura prevista dagli articoli 20, 21 e 22 del D.Lgs. n. 231/07, in aggiunta ai formali intestatari, procedura da cui potrebbero emergere rilevanti discrasie, meritevoli di approfondimento in ambito tributario. Il D.Lgs. n. 90/2017 ha avuto anche il pregio di inserire, pioneristicamente, tra gli operatori non finanziari, la nuova categoria dei prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, che svolgono l’attività di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso forzoso (c.d. “exchanger”) (96), anticipando, di fatto, l’iniziativa del legislatore europeo. Tuttavia, il legislatore ha scelto di non includere tra i soggetti obbligati i prestatori di servizi di portafoglio digitale (c.d. “custodial wallet”), il cui inserimento tra i destinatari dei presidi antiriciclaggio è stato rinviato alla data di

(96) Devono ritenersi compresi in tale categoria gli operatori che gestiscono sportelli ATM, installati anche sul territorio dello Stato, attraverso i quali è possibile acquistare o vendere valute virtuali, in cambio di valute tradizionali; diversamente, non svolgendo alcuna attività di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso forzoso, tra i soggetti obbligati non rientrano, allo stato: - gli emittenti di nuove valute virtuali, nell’ambito delle innovative procedure di raccolta di finanziamenti in rete, comunemente definite “initial coin offering”; - gli operatori che gestiscono piattaforme di trading, qualora si limitino a mettere in contatto gli acquirenti e i venditori di valute virtuali, fornendo loro una piattaforma su cui possono acquistare e vendere tra loro, posto che, a differenza degli exchanger, le piattaforme di trading non acquistano, né vendono in proprio; - i minatori (c.d. “miner”), che svolgono il ruolo di intermediari, occupandosi della registrazione degli scambi, agganciando nuovi blocchi alle catene delle blockchain decentralizzate e prevenendo, con la loro attività, la doppia spendita della valuta, ovvero l’immissione nella catena di valute virtuali “contraffatte”; - gli ulteriori operatori del comparto delle criptovalute che non svolgono attività regolamentate, tra cui gli sviluppatori software, attivi nella realizzazione di applicazioni per lo scambio e la detenzione di valute virtuali, nonché i meri produttori di hardware e installazioni ATM, ancorché destinate alla conversione di criptovalute in fiat currency (in tal senso, cfr. European Central Bank, Virtual Currency schemes – a further analysis, febbraio 2015, 8).


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Parte prima

recepimento della nuova Direttiva 30 maggio 2018, n. 2018/843/UE (c.d. “V Direttiva antiriciclaggio” (97)). Difatti, solo con tale provvedimento, il legislatore europeo ha introdotto, formalmente, nella legislazione antiriciclaggio la definizione di valuta virtuale, specificando che non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita e non possiede lo status giuridico di valuta o moneta (98). Con l’occasione, oltre ai cambiavalute virtuali, sono stati inseriti tra i soggetti destinatari degli obblighi antiriciclaggio, i prestatori di servizi di portafoglio digitale, ossia “i soggetti che forniscono servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali”. Invero, anche all’esito del recepimento della V Direttiva antiriciclaggio, a meno di iniziative unilaterali del nostro legislatore, continueranno a non essere destinatari della disciplina in esame gli emittenti di nuove valute virtuali nell’ambito di initial coin offering. Tuttavia, considerate le dimensioni che sta assumendo il fenomeno de quo, tale lacuna andrebbe colmata imponendo, quantomeno, l’identificazione dei sottoscrittori e la verifica della provenienza dei fondi (99). Il più volte citato decreto delegato emanato nel 2017 ha, altresì, introdotto rilevanti novità in seno al Decreto Legislativo 13 agosto 2010, n. 141 che, in attuazione della Direttiva 23 aprile 2008, n. 2008/48/CE, disciplina i contratti di credito ai consumatori, nonché l’attività dei soggetti operanti nel settore finanziario, degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi. In dettaglio all’interno dell’art. 17-bis, dedicato all’attività dei cambiavalute, sono stati aggiunti i commi: - 8-bis, con cui l’applicazione della relativa disciplina è stata estesa ai prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, rientranti nella definizione contenuta nel Decreto antiriciclaggio, per i quali è stata prevista all’iscrizione in una sezione speciale del registro tenuto dall’Organismo degli Agenti e dei Mediatori (c.d. “OAM”); - 8-ter, con cui è stato previsto, in capo ai medesimi soggetti, l’obbligo di comunicazione al Ministero dell’Economia e delle Finanze della pro-

(97) Da recepire, a cura degli Stati membri, entro il 10 gennaio 2020. (98) In senso difforme rispetto alla posizione assunta, con riguardo al bitcoin, dalla Corte di Giustizia europea, nella citata sentenza del 22 ottobre 2015, relativa alla causa C-264/14. (99) In tal senso, cfr., altresì, Amf, Summary of replies to the public consultation on Initial Coin Offerings (ICOs) and update on the UNICORN Programme, 22 febbraio 2018, 15.


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pria operatività sul territorio nazionale, da disciplinarsi mediante apposito decreto, quale condizione essenziale per l’esercizio legale dell’attività in Italia. Nella bozza di Decreto Ministeriale successivamente oggetto di consultazione pubblica e non ancora approvato in via definitiva, sono contenute le disposizioni specifiche in relazione all’attuazione di tali obblighi di comunicazione, applicabili anche ai soggetti già operativi e coordinate con la summenzionata disciplina antiriciclaggio. Deve segnalarsi che tale obbligo di comunicazione si applica a una categoria di soggetti, i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, ancorché con sede in territorio estero, più ampia rispetto a quella, già destinataria dei presidi antiriciclaggio, che attualmente ricomprende, come sopra esposto, i soli cambiavalute virtuali, in attesa del recepimento della summenzionata V Direttiva (100). In particolare, l’obbligo di registrazione assolve alla funzione primaria e imprescindibile di consentire l’esercizio del controllo da parte delle Autorità pubbliche di vigilanza; in tal senso, l’art. 5 prevede che il Ministero dell’Economia e delle Finanze inoltri le informazioni fornite dagli operatori alla Guardia di Finanza e alla Polizia Postale e delle comunicazioni, per i profili di rispettiva competenza. Con riguardo alle possibili conseguenze derivanti dall’inottemperanza agli obblighi di iscrizione e comunicazione previsti dall’art. 17-bis del D.Lgs. n. 141/2010 e dal Decreto Ministeriale di prossima emanazione, occorre, preliminarmente, rilevare che non appaiono applicabili, nei confronti dei prestatori di servizi operanti nel comparto delle criptovalute, le sanzioni previste dall’art. 22 del Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (c.d. legge sul commercio), destinate a punire il mancato rispetto delle disposizioni concernenti il preventivo rilascio dell’autorizzazione o della comunicazione di inizio dell’attività, da parte degli esercenti il commercio all’ingrosso e al dettaglio in sede fissa, nonché di coloro che esercitano l’attività su aree pubbliche. A tale conclusione si giunge anche considerando che, all’art. 21 del medesimo provvedimento, il legislatore ha previsto che le imprese dell’e-commerce

(100) In particolare, tra i soggetti destinatari degli obblighi rientrano anche le piattaforme di trading, i minatori, gli emittenti di nuove valute virtuali, nonché, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della bozza di Decreto, gli operatori commerciali che accettano valuta virtuale quale corrispettivo di qualsivoglia prestazione avente ad oggetto beni, servizi o altre utilità, attualmente non destinatari dei vigenti presidi antiriciclaggio.


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sarebbero state destinatarie di iniziative regolamentari specifiche, effettivamente assunte con l’emanazione del Decreto Legislativo 9 aprile 2003 n. 70 (c.d. Codice del commercio elettronico), adottato in attuazione della Direttiva 8 giugno 2000, n. 2000/31/CE, laddove ha inteso regolamentare la materia favorendo, per quanto possibile, la liberalizzazione del mercato dei servizi della società dell’informazione, nel cui ambito rientrano tutte “le attività economiche svolte in linea – on line”, tra le quali potrebbero essere, in astratto, classificate anche le attività svolte dagli operatori professionali sul mercato delle valute virtuali. Tra l’altro, come condivisibilmente rilevato da taluna dottrina (101), se meramente collocate nel quadro della disciplina relativa al commercio elettronico, le attività in esame non necessiterebbero di alcun provvedimento autorizzatorio. Comunque, a seguito della piena entrata in vigore della summenzionata disciplina, l’omessa registrazione sarà, certamente, sanzionabile, sul piano amministrativo, ai sensi dell’art. 17-bis, comma 5, del D.Lgs. n. 141/2010, compresa tra 2.065 euro e 10.329 euro. Inoltre, tali operatori potrebbero rendersi responsabili dell’adozione di condotte potenzialmente idonee a rendere il sistema di scambio di valute virtuali permeabile a fenomeni di trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e reimpiego di proventi illeciti, facendo leva sull’anonimato insito nelle stesse, ovvero mediante l’assunzione di un ruolo pro-attivo nell’esecuzione di operazioni della specie, idonee ad assumere rilievo anche in ambito penale. 7. Disciplina applicabile a tutela dei mercati finanziari. – Alla fine del 2017, l’ESMA ha emanato due dichiarazioni, indirizzate agli operatori coinvolti nell’esecuzione di Initial Coin Offering e ai consumatori interessati all’adesione a tali forme di investimento, sottolineando i plurimi profili di criticità connessi alla diffusione di tale fenomeno sui mercati finanziari. In tale ambito, è stato osservato che la tutela dei risparmiatori nazionali è messa a rischio dalla presenza di aree non regolamentate, nelle quali potrebbero ricadere talune ICO, a seconda delle strutture adottate, come sopra descritte.

(101) L. D’Agostino, Operazioni di emissione, cambio e trasferimento di criptovaluta: considerazioni sui profili di esercizio (abusivo) di attività finanziaria a seguito dell’emanazione del D.Lgs. 90/2017, in Rivista di Diritto Bancario, 1/2018, 17.


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D’altronde, i richiamati schemi d’investimento potrebbero sottendere meccanismi di frode e riciclaggio e, conseguentemente, gli investitori potrebbero essere esposti a potenziali rischi di insolvenza da parte degli emittenti di nuove valute virtuali, tenuto conto che i medesimi operatori si trovano, spesso, in fase di start-up. L’ESMA ha, anche, sottolineato che i token emessi in sede di ICO sono privi di valore intrinseco, non essendo garantiti da investimenti sottostanti, effettuati dagli emittenti con le risorse finanziarie raccolte sul mercato. Queste considerazioni appaiono, vieppiù, condivisibili per i token di utilizzo, impiegabili per l’acquisto di beni e servizi, in futuro prodotti (ottimisticamente) dagli issuer. L’assenza di opzioni d’uscita dall’investimento garantite ex lege rappresenta, senz’altro, un ulteriore fattore di criticità, ragion per cui il risparmiatore che aderisce ad una ICO potrebbe trovarsi a detenere criptovalute illiquide, senza possibilità di conversione in fiat currency, ovvero in altre valute virtuali. Neanche la pubblicazione dei documenti di presentazione della ICO, il cui contenuto minimo non è regolamentato ex lege, appare sufficiente a garantire adeguati standard informativi per i consumatori interessati all’acquisto di nuove valute virtuali, che potrebbero non essere messi adeguatamente al corrente dei potenziali profili di rischio connessi all’investimento (102). Inoltre, considerato che l’emissione di nuove valute virtuali si sta, generalmente, poggiando sulle potenzialità della blockchain, la menzionata Autorità centrale europea ha sottolineato come le ICO nell’attuale stadio di sviluppo della medesima tecnologia, siano esposte a rilevanti rischi connessi alla sua possibile inaffidabilità. Sull’opposto fronte degli operatori coinvolti nelle ICO, l’ESMA ha rilevato la possibile qualificazione di token e coin come strumenti finanziari, da cui potrebbe discendere la necessità, per le imprese che raccolgono fondi presso investitori ubicati negli Stati membri dell’Unione europea, di rispettare la disciplina contenuta nella: - Direttiva 4 novembre 2003, n. 2003/71/CE (103), che regolamenta la redazione, l’approvazione e la diffusione del prospetto da pubblicare per

(102) Cfr. G. D’Adamo - K. Amodio, Bitcoin, i rischi di legalità nell’utilizzo della moneta virtuale nell’economia reale, in Rivista 231, maggio 2016. (103) Che ha modificato la Direttiva 28 maggio 2001, n. 2001/34/CE ed è stata recepita, nel nostro ordinamento, dal Decreto Legislativo 28 marzo 2007, n. 51.


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l’offerta al pubblico di strumenti finanziari o la loro ammissione alla negoziazione in un mercato regolamentato che ha sede o opera in uno Stato membro (104); - Direttiva 21 aprile 2004, n. 2004/39/CE, relativa ai mercati degli strumenti finanziari (c.d. MiFID), la cui disciplina è stata in parte rifusa nella Direttiva 15 maggio 2014, n. 2014/65/UE (c.d. MiFID II) e in parte sostituita dal regolamento (UE) 15 maggio 2014, n. 600/2014 (c.d. MiFIR) (105) e che ha avuto il pregio di creare un mercato unico dei servizi d’investimento, in ambito europeo, armonizzando le misure poste a protezione degli investitori (106); - Direttiva. 8 giugno 2011, n. 2011/61/UE (107), sui gestori di fondi di investimento alternativi (c.d. AIFMD), nei casi in cui la raccolta di capitali sia finalizzata al loro investimento in base a specifiche strategie di investimento, da cui deriverebbe l’obbligo di rispettare requisiti di capitalizzazione, nonché regole di funzionamento e trasparenza, da parte degli emittenti; - Direttiva 20 maggio 2015, n. 2015/849/UE (ossia, la già citata “IV Direttiva anti-riciclaggio”) (108), che già imponeva il rispetto di presidi antiriciclaggio per le banche e gli operatori finanziari e che, come sopra esposto, a seguito dell’ulteriore aggiornamento della disciplina, ad opera della V Direttiva antiriciclaggio, sarà applicabile, direttamente, a tutti prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, compresi i wallet provider e gli exchanger. Con riferimento all’ambito domestico, occorre premettere che, in linea generale, l’acquisto, l’utilizzo e l’accettazione in pagamento delle valute vir-

(104) Per completezza, si segnala che, a decorrere dal 21 luglio 2019, tale Direttiva sarà abrogata; la nuova disciplina è contenuta nel Regolamento 14 giugno 2017, n. 2017/1129/UE. (105) Nell’ordinamento nazionale, il processo di recepimento delle summenzionate fonti europee si è concluso con l’emanazione del 3 agosto 2017, n. 129, che ha modificato e integrato il Decreto Legislativo 24 febbraio 1998 n. 58, recante il Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (c.d. “TUF”). (106) L’ESMA ha chiarito che qualora token e coin si qualifichino come strumenti finanziari, l’attività dell’emittente di valute virtuali possa rientrare nel perimetro della disciplina MiFID, segnatamente con riguardo alle attività di collocamento, distribuzione e consulenza su strumenti finanziari. (107) Recepita con la L. 6 agosto 2013, n. 96 (Legge di delegazione europea del 2013) e con il D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 44. (108) Recepita dal Decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 90, che ha modificato il Decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231 (c.d. Decreto anti-riciclaggio).


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tuali non risulta assoggettato a divieti (109), per cui le stesse possono essere, liberamente, impiegate come mezzi di pagamento. In realtà, le osservazioni formulate dalle succitate authority europee lumeggiano le criticità potenzialmente emergenti dall’emissione di nuove valute virtuali, in capo agli operatori coinvolti in tali attività di fund raising, oltre che dalla conversione di moneta legale in valute virtuali e viceversa e dalla gestione dei relativi schemi operativi (110), da cui potrebbe discendere, a titolo esemplificativo, la violazione di norme che riservano lo svolgimento dell’attività bancaria e finanziaria ai soli soggetti vigilati, sanzionata penalmente, in applicazione della disciplina contenuta nel Decreto Legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (T.U.B.) e nel Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (c.d. T.U.F.) (111). Invero, occorre, preliminarmente, precisare che, esaminando le appendici sanzionatorie dei suddetti Testi Unici, in nessuno degli illeciti contemplati possa essere, immediatamente, inquadrata l’attività svolta dagli emittenti e dagli intermediari sul mercato delle valute virtuali, anche se, a ben vedere, l’analisi delle caratteristiche sostanziali di talune criptovalute può portare a sostenere la riconduzione delle stesse all’interno delle fattispecie disciplinate all’interno dei richiamati decreti delegati (112). Innanzitutto, gli articoli 130 (abusiva attività di raccolta del risparmio) e 131 (abusiva attività bancaria) del T.U.B. sanzionano, rispettivamente, chi svolge l’attività di raccolta del risparmio tra il pubblico in violazione dell’art. 11 e chi, svolgendo a monte tale attività, “esercita il credito”. Sul punto, vale la pena, preliminarmente, chiarire che, ai sensi dell’art. 11, comma 1, T.U.B. l’attività di raccolta del risparmio è definita come “l’acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, sia sotto forma di depositi sia sotto altra forma”.

(109) Come confermato dalla Banca d’Italia nella Comunicazione denominata “Avvertenza sull’utilizzo delle cosiddette ‘valute virtuali’”, emanata il 30 gennaio 2015, laddove è stato specificato che “in Italia, l’acquisto, l’utilizzo e l’accettazione in pagamento delle valute virtuali debbono allo stato ritenersi attività lecite”. (110) Cfr. M. Krogh, Transazioni in valute virtuali e rischi di riciclaggio. Il ruolo del notaio, Notariato 2/2018, 167. (111) In tale direzione si è espressa anche la Banca d’Italia, con la citata Comunicazione del 30 gennaio 2015. (112) L. D’Agostino, Operazioni di emissione, cambio e trasferimento di criptovaluta: considerazioni sui profili di esercizio (abusivo) di attività finanziaria a seguito dell’emanazione del D. Lgs. 90/2017, in Rivista di Diritto Bancario, 1/2018, 13.


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Per un verso, pare doversi escludere, dall’ambito operativo della norma, i cambiavalute virtuali, che offrono servizi di conversione di valute virtuali in fiat currency e viceversa, senza alcun obbligo di rimborso, nonché le piattaforme di trading, che mettono in contatto utenti interessati a scambiarsi valute virtuali, fungendo come meri intermediari tra domanda e offerta di criptomoneta. A contrariis, sulla base delle caratteristiche assunte da talune “initial coin offering”, allo stato pare non potersi escludere, quantomeno in linea astratta, la configurabilità del reato di cui all’art. 130 T.U.B., in capo ai soggetti emittenti di nuove valute virtuali, qualora, nell’ambito di operazioni di emissione, venga previsto, a loro carico, l’obbligo di rimborso del capitale investito, sotto forma di depositi, ovvero sotto altra forma. La configurabilità del reato previsto dal successivo art. 131 T.U.B. appare, invece, più complessa, posto che l’attività svolta dai soggetti emittenti di nuovi token o coin non risulta, generalmente, diretta all’esercizio del credito. Ancora, potenzialmente idonea a sanzionare l’attività degli emittenti di valute virtuali potrebbe, prima facie, risultare anche la fattispecie di abusiva emissione di moneta elettronica (113), prevista dal successivo art. 131-bis T.U.B., anche se, a ben vedere, la condotta definita dal legislatore fa riferimento al complesso delle disposizioni del Testo Unico Bancario che definiscono, in modo dettagliato, i limiti e le condizioni di emissione della moneta elettronica – utilizzata per effettuare pagamenti tramite canali digitali regolati in fiat currency – disciplinata, in ambito europeo, dalla Direttiva 2009/110/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 settembre 2009, concernente l’avvio, l’esercizio e la vigilanza prudenziale dell’attività degli istituti di moneta elettronica, recepita nel nostro ordinamento dal Decreto Legislativo 16 aprile 2012, n. 45 (114).

(113) La definizione domestica di moneta elettronica – in linea con quella contenuta nell’art. 2, comma 1, n. 2 della Direttiva 2009/110/CE – è contenuta nell’art. 1, comma 2, lett h-ter), del T.U.B.. Per completezza, si rappresenta che il Gafi ha rilevato come, convenzionalmente, la valuta virtuale e la moneta elettronica possano essere ricomprese tra le valute digitali (c.d. “digital currency”). Per un approfondimento sulle valute digitali, si rinvia, altresì al Rapporto pubblicato dalla Bank for International Settlements, Digital Currencies, novembre 2015, nonché al Capitolo V del Rapporto annuale pubblicato, nel 2018, dalla medesima istituzione finanziaria internazionale (intitolato “Cryptocurrencies: looking beyond the hype”). (114) Cfr. O. Calzone, Bitcoin e distributed ledger technology, in Gnosis, 28 febbraio 2017; il contributo è disponibile sul portale del Sistema di informazione per la sicurezza della


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Orbene, secondo taluna dottrina, all’interno della definizione di moneta elettronica non appare inquadrabile la valuta virtuale, posto che il valore memorizzato nel supporto elettronico è rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente, pari al controvalore della somma di denaro precedentemente conferita, mentre la valuta virtuale, come già esposto, si qualifica come unità di conto puramente digitale, priva di valore intrinseco o autoritativamente stabilito, fondata unicamente sulla fiducia nella sua spendita e accettazione tra i suoi utenti, al di fuori di qualsiasi forma di controllo centralizzato (115). Condividendo tale impostazione, la previsione di limiti all’emissione di moneta elettronica, la cui violazione è penalmente sanzionata, non appare in alcun modo idonea ad arginare la libera iniziativa degli emittenti che “generano” nuove criptovalute, nell’ambito di initial coin offering e, sulla base dei medesimi presupposti, men che meno la fattispecie sanzionata dall’art. 131bis T.U.B. risulterebbe integrabile in capo alle altre categorie di operatori del comparto. Per ragioni analoghe, in base all’attuale configurazione, nei confronti di emittenti di valute virtuali e degli altri prestatori di servizi operanti nel comparto, non risulterebbe integrabile neanche la fattispecie di abusiva attività di prestazione di servizi di pagamento, prevista dal successivo art. 131-ter T.U.B., la cui condotta si estrinseca nell’inosservanza delle disposizioni contenute negli articoli 144-sexies e seguenti del Testo Unico; in tale ambito, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b) del Decreto Legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, in combinato disposto con l’art. 1, comma 2, lettera h-septies.1), del T.U.B., rientrano nella classificazione dei “servizi di pagamento” una serie di attività, tra le quali, tuttavia, non può essere agevolmente inquadrata l’o-

Repubblica (www.sicurezzanazionale.gov.it); l’autore ha sottolineato come il legislatore europeo abbia sentito l’esigenza di giungere a una definizione precisa di moneta elettronica, che avesse valenza sia se detenuta su un dispositivo di pagamento in possesso del detentore di moneta elettronica, sia se memorizzata a distanza su un server e gestita dal detentore tramite un conto specifico per la moneta elettronica. (115) Cfr. N. Vardi, “Criptovalute” e dintorni: alcune considerazioni sulla natura giuridica dei Bitcoin, in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 1/2015; cfr., altresì, G. Gasparri, Timidi tentativi giuridici di messa a fuoco del Bitcoin, in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 1/2015; l’autore ha rilevato che in un circuito virtuale come, ad esempio, la rete bitcoin non può essere assolta la condizione di costante rimborsabilità richiesta dall’art. 11 della Direttiva 2009/110/CE (c.d. EMD2) secondo cui “gli Stati membri assicurano che, su richiesta del detentore di moneta elettronica, gli emittenti di moneta elettronica rimborsino, in qualsiasi momento e al valore nominale, il valore monetario della moneta elettronica detenuta”.


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peratività di emittenti e prestatori di servizi connessi all’utilizzo di valute virtuali, posto che, alla base della circolazione delle stesse vi è l’idea di una radicale “disintermediazione” della gestione, tale per cui – quantomeno nelle blockchain permissionless - le transazioni sono effettuate tra gli utenti e vidimate “democraticamente” dalla rete, attraverso l’attività dei miner. Diversamente, i servizi di pagamento permettono di depositare il contante su un “conto di pagamento” e di effettuare tutte le operazioni richieste per la gestione del conto medesimo. Relativamente all’attività dei wallet custodian, che mettono a disposizione dell’utente un software di gestione della valuta virtuale, è stato osservato che non appare agevole l’assimilazione alla gestione di un conto di pagamento posto che: - nel primo caso, la valuta virtuale presente nel portafoglio digitale rimane nell’esclusiva disponibilità del titolare delle chiavi pubbliche e private a cui la stessa è associata, - in ipotesi di accensione di un conto di pagamento, il denaro risulta nella disponibilità del fornitore del servizio (116). Pertanto, pare doversi condividere la posizione di chi ritiene una forzatura anche l’inquadramento delle valute tra gli “strumenti di pagamento” (117), qualificati all’interno del D.Lgs. n. 11/2010 come “qualsiasi dispositivo personalizzato e/o insieme di procedure concordate tra l’utente e il prestatore di servizi di pagamento e di cui l’utente di servizi di pagamento si avvale per impartire un ordine di pagamento”, posto che, quantomeno con riguardo alle più diffuse blockchain permissionless l’impiego della tecnologia a registro diffuso fa venir meno la necessità di ricorrere a un intermediario a cui impartire l’ordine di pagamento, posto che la catena di blocchi verifica, autonomamente, l’autenticità e la validità della transazione intercorsa tra soggetti privati che, mediante l’utilizzo delle chiavi crittografiche asimmetriche associate all’indirizzo di portafoglio, gestiscono i flussi di valuta virtuale. Il successivo art. 132 T.U.B. (abusiva attività finanziaria) punisce, invece, “chiunque svolge nei confronti del pubblico una o più attività finanziarie

(116) L. D’Agostino, Operazioni di emissione, cambio e trasferimento di criptovaluta: considerazioni sui profili di esercizio (abusivo) di attività finanziaria a seguito dell’emanazione del D.Lgs. 90/2017, op. cit., 14. (117) Definiti dall’art. 1, comma 1, lett. s), come modificata dall’art. 2, comma 1, lett. o), D.Lgs. 15 dicembre 2017, n. 218, a decorrere dal 13 gennaio 2018, ai sensi di quanto disposto dall’ art. 5, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 218/2017.


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previste dall’articolo 106, comma 1 in assenza dell’autorizzazione (…) o dell’iscrizione (…)”; il richiamato art. 106, comma 1, del T.U.B. contiene l’espresso riferimento all’“attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma”, a sua volta definita, attualmente, dall’art. 2 del Decreto Ministeriale 2 aprile 2015, emanato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (118). Sulla scorta della rigida classificazione dei soggetti attivi, indirettamente derivante dall’applicazione della summenzionata disciplina, devono ritenersi, generalmente, esclusi dal campo di applicazione di tale norma penale sia gli emittenti di nuove criptovalute, attraverso initial coin offering, che i prestatori di servizi operanti in questo comparto che, pur offrendo servizi di custodia o cambiavalute, non erogano alcuna forma di finanziamento, in quanto le attività svolte da tali operatori del comparto delle criptovalute non appaiono classificabili nelle voci previste dall’art. 2 del D.M. 2 aprile 2015. Passando all’esame delle norme contenute nel Testo Unico della Finanza, in linea astratta applicabili nei confronti degli emittenti di token e, più in generale, nei confronti di operatori attivi nel settore delle criptovalute, occorre evidenziare il potenziale impatto della legislazione domestica vigente nel settore finanziario al comparto delle criptovalute e, in prospettiva, all’offerta di token nell’ambito di programmi di nuova emissione di criptovalute. In tal senso, si possono trarre utili spunti da alcuni interventi della CONSOB che hanno avuto, seppur indirettamente, ad oggetto investimenti in valute virtuali, giacché tali pronunciamenti hanno avuto il pregio di porre dei limiti, o comunque di suggerire la potenziale applicazione di alcune regole, in un settore in forte espansione, nel quale operano soggetti che propongono investimenti in criptovalute che, secondo taluna dottrina, può essere considerato totalmente libero da vincoli normativi. Invero, per ragioni di chiarezza, occorre specificare che la Commissione non ha ancora affrontato, espressamente, l’ipotesi di offerta pubblica di investimenti attraverso initial coin offering; ciò nonostante, si ritiene che, per le

(118) Il richiamato Decreto individua, espressamente, le attività regolate, di cui all’art. 106, comma 1, del T.U.B., che riserva l’esercizio nei confronti del pubblico dell’attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, agli intermediari finanziari autorizzati, iscritti in un apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia; inoltre, determina in quali circostanze ricorre l’esercizio delle suddette attività nei confronti del pubblico, definendo l’attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma “concessione di crediti, ivi compreso il rilascio di garanzie sostitutive del credito e di impegni di firma”.


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ragioni di seguito esplicitate, taluni i principi espressi siano mutuabili quantomeno ai casi di emissione e trading di token d’investimento. Innanzitutto, con la delibera 20 aprile 2017, n. 19968, la CONSOB ha affrontato il caso dell’offerta di pacchetti di estrazione di criptovalute ad opera di una società estera, mentre nella successiva delibera n. 20207, adottata il 6 dicembre 2017, la Commissione si è pronunciata sul conto di un operatore che offriva ai potenziali clienti la possibilità di effettuare investimenti di natura finanziaria nel settore delle criptovalute. Nel primo caso, la criticità rilevata dalla CONSOB afferiva all’offerta di partecipazione ad uno “schema di vendita di tipo piramidale”, nel cui ambito veniva prospettato all’investitore un rendimento estremamente elevato, compreso tra il 17,7 per cento e il 29,7 per cento del capitale investito, su base mensile, mentre nell’ambito del secondo caso esaminato, l’offerta strutturata dalla società proponente aveva modalità tali, in taluni casi, da prospettare agli utenti “la possibilità di conseguire un profitto del 50 per cento” su base annua e consentire agli aderenti anche la partecipazione ai profitti futuri che sarebbero stati realizzati dalla stessa. Orbene, per quanto d’interesse ai fini della presente disamina, la CONSOB ha verificato il rispetto della disciplina vigente, da parte degli operatori esteri destinatari di approfondimento, ritenendo applicabile la disciplina delle offerte al pubblico di prodotti finanziari, contenuta all’interno del Testo Unico della Finanza. Innanzitutto, sono stati richiamati i concetti di: - “offerta al pubblico”, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. t), del T.U.F.; - “prodotti finanziari”, in cui rientrano sia gli “strumenti finanziari” che le “altre forme di investimento di natura finanziaria”, ai sensi della successiva lett. u) dell’art. 1, comma 1. Richiamando la Comunicazione CONSOB del 16 aprile 2008, n. DEM/8035334, è stato, altresì, specificato che gli “investimenti di natura finanziaria” richiedono, congiuntamente: - un impiego di capitale; - un’aspettativa di rendimento di natura finanziaria; - l’assunzione di un rischio, direttamente connesso e correlato all’impiego di capitale. Nella medesima Comunicazione era stato anche affermato che, con riguardo al secondo requisito, ossia all’aspettativa di rendimento, occorre che quest’ultimo abbia natura “finanziaria”. Al riguardo, secondo un risalente criterio interpretativo elaborato dalla Commissione, un rendimento ha carattere finanziario laddove l’impiego di


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capitale è determinato “da un’aspettativa di profitto, vale a dire di accrescimento delle disponibilità investite” e che, diversamente, ove il conferimento di somme di denaro è “finalizzato alla trasformazione delle proprie disponibilità in beni reali idonei a soddisfare immediatamente i propri bisogni”, possa escludersi la “finanziarietà” dell’impiego. Ancora, la CONSOB ha sottolineato che la finanziarietà del rendimento connota la stessa causa negoziale, rendendola determinante nel riconoscimento di un investimento di natura finanziaria. Orbene, ancorché tale provvedimento di prassi abbia avuto ad oggetto un’operatività totalmente estranea al mondo delle criptovalute, sulla scorta di tale impostazione, pare doversi, definitivamente, escludere la riconducibilità alla categoria “investimenti di natura finanziaria” dei meri utility token, acquistati dal consumatore nella prospettiva di ottenere beni reali (o servizi) idonei a soddisfare le proprie esigenze, mentre diverse possono essere le conclusioni, in presenza di token d’investimento, anche denominati “asset”, “security” o “investment token”. Difatti, tornando alla disamina delle indicazioni fornite in tema di offerte al pubblico, la CONSOB ha stabilito che, ai fini della loro configurazione, l’offerente debba aver effettuato una comunicazione, diretta a far acquistare o sottoscrivere prodotti finanziari che contenga quantomeno “la rappresentazione delle principali caratteristiche degli stessi”. In aggiunta, per assumere rilievo ai fini dell’applicazione della disciplina rassegnata, secondo la CONSOB tale comunicazione deve essere rivolta “al pubblico residente in Italia”. Approfondendo il caso esaminato nella delibera n. 20207, del 6 dicembre 2017, si rileva come la Commissione abbia osservato che l’elemento causale del contratto proposto dall’operatore oggetto di indagine era riconducibile alla produzione di un rendimento finanziario quale corrispettivo dell’impiego di capitale conferito dal percettore del rendimento medesimo che, quindi, investiva il proprio denaro con un’aspettativa di profitto, vale a dire di accrescimento delle disponibilità investite, cosicché, al ricorrere di tali presupposti, l’offerente era tenuto: - alla preventiva pubblicazione di un prospetto informativo, da approvarsi a cura della stessa CONSOB, ai sensi dell’art. 94 del T.U.F.; - al rispetto del Regolamento adottato con delibera CONSOB del 14 maggio 1999, n. 11971 (c.d. “Regolamento Emittenti”). Ciò a meno che non si verifichi uno dei casi di esenzione dall’applicazione della disciplina in materia di “appello al pubblico risparmio”, prevista dal


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combinato disposto degli articoli 100 del T.U.F. e 34-ter del summenzionato Regolamento emittenti (119). L’assenza del prospetto comporta che, in applicazione della disciplina contenuta nel precedente art. 99, la Commissione possa vietare l’offerta, peraltro segnalando la condotta anche all’Autorità Giudiziaria per i profili connessi all’applicazione delle sanzioni penali previste dalla legge per questo tipo di violazioni; peraltro, tale circostanza pare essersi verificata, in concreto, con riferimento all’operatività dell’intermediario estero destinatario della delibera CONSOB n. 20207, del 6 dicembre 2017, a seguito di mancato adeguamento alle prescrizioni fissate dalle autorità, posto che il relativo portale web è stato, successivamente, attinto da misura cautela reale, in violazione dell’art. 166 T.U.F., essendo lo stesso risultato privo di autorizzazione all’esercizio professionale verso il pubblico italiano di servizi e attività di investimento, in difetto dell’iscrizione nell’elenco allegato all’albo delle imprese di investimento comunitarie ed extra-comunitarie autorizzate ad operare in Italia in regime di libera prestazione di servizi (120). Per approfondire l’estensione applicativa di tale fattispecie sanzionatoria occorre leggerla in combinato disposto con la definizione di “servizi e attività di investimento”, contenuta all’interno dell’art. 1, comma 5, del T.U.F., nel cui ambito risultano incluse una serie di attività rilevanti, allorquando hanno per oggetto strumenti finanziari. Le categorie di strumenti finanziari, da intendersi quale sotto-categoria dei prodotti finanziari, sono espressamente individuate, dal legislatore, nella Sezione C dell’Allegato 1 al T.U.F., includendovi, tra gli altri, i c.d. “valori mobiliari”; l’art. 1, comma 1-bis del T.U.F. include, a sua volta, tra i valori mobiliari, tutti i valori che possono essere negoziati nel mercato dei capitali, nel cui ambito sono classificabili azioni, obbligazioni e altri titoli di debito, nonché qualsiasi altro valore mobiliare che permetta di acquisire o di vendere i summenzionati valori mobiliari o che comporti un regolamento a pronti determinato con riferimento a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, merci o altri indici o misure.

(119) Peraltro, l’art. 101, comma 2, del T.U.F. prevede, espressamente, che “prima della pubblicazione del prospetto è vietata la diffusione di qualsiasi annuncio pubblicitario riguardante offerte al pubblico di prodotti finanziari diversi dagli strumenti finanziari comunitari”. (120) Per un approfondimento, si rinvia a N. Borzi, Criptovalute nel mirino dei magistrati, in Il Sole 24 Ore Plus, 24 marzo 2018, 6.


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Per un verso, quantomeno in linea di principio si può condividere l’osservazione di taluna dottrina, laddove ha rilevato che, nella classificazione dei valori mobiliari non risultano, espressamente, menzionate le criptovalute e i cripto-asset (121), pur non potendosi omettere di rilevare che le caratteristiche di taluni token d’investimento, emessi nell’ambito di recenti initial coin offering, aldilà della formale denominazione, appaiono, invece, idonee a giustificare l’assimilazione degli stessi, ad esempio, ai tradizionali titoli azionari (nei casi in cui venga riconosciuto, al titolare del token, il diritto futuro di percezione di dividendi) o obbligazionari (qualora attribuiscano al medesimo il diritto alla percezione futura di interessi, oltre che al rimborso del capitale investito). Concludendo, per le suesposte ragioni, pur nel rispetto del principio di tassatività vigente in sede penale, quantomeno con riferimento ai “servizi e attività di investimento” aventi ad oggetto tali tipologie di token d’investimento, sostanzialmente qualificabili come valori mobiliari, anche sulla scorta delle valutazioni formulate dalla CONSOB nei casi sopra richiamati, si ritiene possa, in realtà, configurarsi il reato di cui all’art. 166 T.U.F., nei confronti: - degli emittenti dei medesimi token, collocati tramite ICO, laddove questi ultimi siano qualificabili come “investimenti di natura finanziaria”, in ipotesi di mancata pubblicazione del prospetto informativo approvato dalla Commissione, ex art. 94 del T.U.F.; - dei prestatori di servizi che gestiscono portafogli digitali, a cui gli stessi possono essere associati, potenzialmente assimilabili alla gestione di portafogli (122), attività espressamente indicata nella lista di cui all’art. 1, comma 5, del T.U.F.; - ai prestatori di servizi che offrono servizi di mixing, che ricevono, trasmettono o eseguono ordini per conto dei clienti; - ai cambia valute virtuali che negoziano per conto proprio, ovvero ricevono e trasmettono ordini finalizzati alla loro monetizzazione, mediante conversione in valute aventi corso forzoso. Certamente meno agevole appare, invece, la riconduzione delle attività svolte dai medesimi operatori nella “gestione collettiva del risparmio”, che

(121) Ex pluribus, L. D’Agostino, Operazioni di emissione, cambio e trasferimento di criptovaluta: considerazioni sui profili di esercizio (abusivo) di attività finanziaria a seguito dell’emanazione del D.Lgs. 90/2017, op. cit., 15-16. (122) Con tutte le riserve del caso, considerato che, generalmente, il wallet custodian si limita a conservare le chiavi pubbliche e private del titolare delle criptovalute, che tuttavia rimangono nella diretta e immediata disponibilità del medesimo.


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si realizza attraverso la gestione di OICR e dei relativi rischi, disciplinata dal Titolo III del T.U.F. Pertanto, la rassegna delle disposizioni potenzialmente applicabili agli emittenti di nuove valute e ai prestatori di servizi operanti in tale comparto, a tutela dei mercati finanziari, consente di apprezzare gli innumerevoli profili di criticità che emergono dalla potenziale applicazione della legislazione vigente al fenomeno in rassegna, in assenza di una disciplina specifica. L’ordinamento nazionale sembra aver mosso i primi passi verso la regolamentazione del fenomeno delle valute virtuali, ma per completare il quadro è certamente necessario un intervento legislativo organico, che disciplini in modo più preciso lo svolgimento dell’attività nei confronti del pubblico, ponendo a carico dei professionisti obblighi di adeguata e trasparente informazione sui rischi a tutela del consumatore/investitore, in ossequio alle indicazioni fornite dall’Autorità Bancaria Europea (EBA) che, nella oramai datata Opinion on virtual currencies, aveva considerato i rischi per gli investitori e gli utilizzatori di valute virtuali tra quelli maggiormente elevati in termini di impatto e probabilità di verificazione (123). 8. Conclusioni. Dalle criptovalute ai cripto-asset: prospettive future, tra possibili divieti e protezione dal bail-in. – Come accennato, nel mese di marzo 2018, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA), l’Autorità bancaria europea (EBA) e l’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali (EIOPA) hanno emesso un comunicato congiunto, per mettere in guardia i consumatori circa i rischi legati all’acquisto a alla detenzione di criptovalute, anche a seguito di adesione ad una delle numerose ICO proposte a potenziali investitori in rete. Le tre Autorità europee di vigilanza hanno inteso ribadire i plurimi rischi a cui si espongono gli investitori e utilizzatori di valute virtuali, connessi, tra l’altro: - all’elevata volatilità delle loro quotazioni, che le espongono a potenziali rischi di bolla speculativa (124); secondo le autorità di vigilanza europee, tale fattore rende le criptovalute poco idonee a investimenti di lungo termine quali, ad esempio, quelli gestiti attraverso fondi pensionistici; - alla mancanza di tutele efficaci per i consumatori, nell’attuale quadro regolato-

(123) Eba Opinion on virtual currencies, 4 luglio 2014. (124) Tale fenomeno è, in parte, generato dalla mancata trasparenza sui meccanismi di formazione dei prezzi delle singole cripto-currency.


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rio, che non consente l’automatica applicabilità delle garanzie e salvaguardie normalmente associate, in sede unionale, ai servizi finanziari regolamentati. In verità, è in corso un più ampio dibattito che, aldilà dell’inquadramento delle ICO, è attualmente concentrato sulla corretta qualificazione giuridica di tutte le valute virtuali, come testimoniato dalla posizione assunta dal legislatore europeo all’interno della V Direttiva antiriciclaggio, laddove è stato specificato che le valute virtuali non possiedono lo status giuridico di valuta o moneta, pur essendo accettate da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio. Tale indicazione, non ancora presente all’interno della nostra legislazione antiriciclaggio (laddove risulta, esclusivamente, specificato che le valute virtuali non sono emesse da banche centrali o da autorità pubbliche e non risultano necessariamente collegate a valute aventi corso legale), appare in linea con l’impostazione adottata in sede di G-20 in Argentina, nel 2018, posto che al termine “criptovaluta” è stato sempre preferito quello di “cripto-asset” proprio al fine di marcarne la differenza rispetto alle fiat currency. Invero, dalla loro condivisa classificazione come beni, anziché come valute o monete, discenderebbero ricadute assai rilevanti, posto che, peraltro, gli scambi nel cui ambito vengono utilizzate si riqualificherebbero come veri e propri baratti. Peraltro, la mancata classificazione come valute, oltre ad avere un immediato impatto in sede fiscale, ambito nel quale, in prospettiva, dovrebbe essere totalmente riscritta la disciplina sia ai fini delle imposte dirette che I.V.A., potrebbe portare anche a ricadute più drastiche, specie nel caso in cui permangano forti limiti, imposti dall’attuale tecnologia utilizzata per lo scambio delle criptovalute, al superamento dell’anonimato, che le rende totalmente incompatibili con l’attuale assetto assunto dal sistema di prevenzione dei fenomeni di riciclaggio e finanziamento al terrorismo. Pertanto, in prospettiva futura, non può escludersi che le Autorità internazionali competenti dispongano, addirittura, il divieto di conversione delle valute virtuali con le principali valute aventi corso legale, sancendo l’inevitabile scomparsa delle prime (ovvero, il loro forte ridimensionamento), quantomeno nell’accezione finora conosciuta, per la quale ai cripto-asset si riconosce la funzione principale di investimento speculativo, più che di vero e proprio strumento di pagamento. Alternativamente, quantomeno in ambito europeo, le autorità comunitarie potrebbero studiare l’imposizione di un termine temporale di adeguamento tecnologico delle blockchain sottostanti allo scambio di valute virtuali, al fine di garantire il superamento dell’anonimato, assicurando la piena identificabilità dei titolari delle chiavi private e pubbliche, nonché dei portafogli digitali, a pena dell’imposizione del divieto di conversione in euro delle singole criptovalute


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appartenenti a circuiti non compliant al termine di un periodo transitorio. D’altronde, da una ricerca dello SWIFT Institute (125), nel cui ambito è stato approfondito l’uso della principale valuta virtuale, ossia il bitcoin, è emerso che la stessa è stata, di fatto, in via prioritaria, impiegata come asset da detenere piuttosto che come mezzo di scambio in quanto considerato da molti trader come una riserva temporanea di valore a differenza di altri asset che si deprezzano facilmente (126). A maggior ragione, tale valutazione assume rilievo se si tiene conto del fatto che le disponibilità in criptovalute non appaiono aggredibili nell’ambito di eventuali procedure di risanamento e risoluzione di enti creditizi e delle imprese di investimento (127), che trovano ora fondamento nel meccanismo di c.d. “bail-in”, consistente nella riduzione o nella conversione in capitale dei diritti degli azionisti e dei creditori. Difatti, ai fini della definizione del campo di applicazione di tale disciplina, occorre tener presente che tra i depositi rilevanti ai fini dell’applicazione di tale disciplina rientrano i crediti relativi ai fondi acquisiti dalle banche con obbligo di rimborso, quando non appare in discussione che le criptovalute (o cripto-asset) non risultano depositate presso tradizionali conti correnti bancari, essendo associate a indirizzi, all’interno di una blockchain, gestiti, come osservato, attraverso portafogli digitali denominati wallet (128). Pertanto, sulla base di tali presupposti, per gli investitori la conversione di fiat currency in criptovalute potrà, in futuro, anche rappresentare una possibile soluzione per mettere al riparo la liquidità tradizionalmente depositata su conti correnti bancari accesi presso istituti in crisi e a rischio bail-in.

Fabio Antonacchio

(125) Cfr. D. G. Baur - K. Hong - A.D. Lee, Virtual Currencies: Media of Exchange or Speculative Asset?, Working, Paper No. 2014-007, SWIFT Institute, Londra 2016. (126) Ciò nonostante l’EBA, come osservato, abbia messo in guardia dai rischi connessi al detenere valuta virtuale e scoraggi le banche e gli altri intermediari vigilati dall’acquistare, detenere o vendere valute virtuali; per un approfondimento, Eba, Opinion on ‘Virtual Currencies’, EBA/Op/2014/08, Londra, 2014. (127) Disciplinate dalla Direttiva 15 maggio 2014, n. 2014/59/UE, recepita nell’ordinamento giuridico italiano con il Decreto Legislativo 16 novembre 2015, n. 180. (128) Conseguentemente, la loro detenzione è totalmente estranea al sistema bancario tradizionale, ragion per cui le norme sul bail-in, nell’attuale formulazione non appaiono, in alcun modo, applicabili alle disponibilità finanziarie detenute sotto forma di criptovalute.


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Corte Costituzionale, 30 giugno 2018 - 23 luglio 2018, n. 175; Presidente Lattanzi, Relatore Amoroso Notificazioni – Cartella di pagamento – Procedura speciale – Legittimità La Corte Costituzionale ha ritenuto valida, e non lesiva delle garanzie del destinatario delle notifiche degli atti tributari, la riduzione degli adempimenti, rispetto ad altre modalità di notifiche degli atti, in quanto giustificata dalla necessità di maggiore semplificazione delle procedure e della esigenza di una più celere riscossione dei tributi. (1)

(Omissis) Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 22 novembre 2016 (reg. ord. n. 59 del 2017), la Commissione tributaria regionale (di seguito: CTR) della Lombardia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 26, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), come modificato dall’art. 12 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337) e dall’art. 1, lettera c), del decreto legislativo 27 aprile 2001, n. 193 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 26 febbraio 1999, n. 46, e 13 aprile 1999, n. 112, in materia di riordino della disciplina relativa alla riscossione), in riferimento agli artt. 3, primo comma; 24, primo e secondo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, «nella parte in cui abilita il Concessionario della Riscossione alla notificazione diretta, senza intermediario, mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento, della cartella di pagamento» nonché «nella parte in cui non prevede che la notifica di cartella di pagamento tramite il servizio postale avvenga con l’osservanza dell’art. 7 legge n. 890/82, così come modificato con la legge n. 31 del 2008 di conversione del decretolegge n. 248/2007». Il primo comma della disposizione censurata, rubricata «Notificazione della cartella di pagamento», così dispone (nel testo vigente alla data dell’ordinanza di rimessione): «La cartella è notificata dagli ufficiali della riscossione o da altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge ovvero, previa eventuale


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convenzione tra comune e concessionario, dai messi comunali o dagli agenti della polizia municipale. La notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento; in tal caso, la cartella è notificata in plico chiuso e la notifica si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto da una delle persone previste dal secondo comma o dal portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda». La CTR rimettente sottolinea la «assoluta anomalia» dell’avere il legislatore abilitato un soggetto di diritto privato − l’agente della riscossione (nella specie Equitalia Nord spa) − ad esercitare una funzione eminentemente pubblicistica, quale è quella dell’esercizio delle funzioni di notificazione diretta delle cartelle di pagamento, tipici atti di natura tributaria. La mancanza di alcun intermediario nella notificazione comporterebbe – secondo la CTR − «seri pregiudizi» all’esercizio del diritto di difesa (art. 24, primo e secondo comma, Cost.) e alla regola di «parità delle armi» congiuntamente al canone del giusto processo (art. 111, primo e secondo comma, Cost.) e ridonderebbe in un «anacronistico» ed «ingiustificabile privilegio» (art. 3, primo comma, Cost.). In particolare, le regole di recapito della cartella di pagamento, in quanto semplificate, determinerebbero una diminuzione di tutela per il notificatario sotto più profili: non è richiesta la relata di notifica; non è rispettato l’ordine preferenziale nella consegna del plico, prescritto dall’art. 7, secondo e terzo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari); non è previsto l’obbligo dell’invio della raccomandata informativa dell’avvenuta notifica nel caso, come nella specie, di avvenuta consegna del plico al portiere. 2.– La parte costituita e l’Avvocatura generale dello Stato hanno preliminarmente eccepito l’inammissibilità delle questioni di costituzionalità perché formulate in modo alternativo ed ancipite. L’eccezione è infondata. Il dispositivo dell’ordinanza di rimessione, che indica come disposizione indubbiata unicamente l’art. 26, primo comma, citato, presenta però un duplice capo perché la censura è mossa: a) nella parte in cui tale disposizione abilita il concessionario della riscossione alla notificazione diretta, senza intermediario, mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento, della cartella di pagamento; b) nella parte in cui non prevede che la notifica della cartella di pagamento tramite il servizio postale avvenga con l’osservanza dell’art. 7 legge n. 890 del 1982, così come modificato dal decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 2008, n. 31. Se anche, in generale, l’ordinanza di rimessione delle questioni di legittimità costituzionale non necessariamente deve concludersi con un dispositivo recante altresì un petitum, essendo sufficiente che dal tenore complessivo della motivazione emerga con chiarezza il contenuto ed il verso delle censure, questa Corte ritiene però inam-


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missibili le questioni sollevate con una formulazione contraddittoria ed ambigua o con una conclusione ancipite (ex plurimis, sentenze n. 22 del 2016 e n. 248 del 2014; ordinanza n. 221 del 2017). Tale sarebbe, in ipotesi, la prospettazione alternativa di una censura diretta, al contempo, ad ampliare o a restringere il campo di applicazione della disposizione indubbiata. L’alternatività irrisolta della prospettazione della questione non consentirebbe a questa Corte di identificare il verso della censura e ridonderebbe nella sua inammissibilità. Ma ben può, invece, il giudice rimettente prospettare in termini gradatamente sequenziali, e quindi subordinati, i possibili esiti dello scrutinio di costituzionalità pur senza una formale e testuale qualificazione di ciascuna conclusione rispettivamente come «principale» e «subordinata» (sentenze n. 127 del 2017 e n. 280 del 2011). Ed è ciò che ha fatto la CTR rimettente che ha ipotizzato, in via principale, la radicale caducazione della notificazione diretta ad opera del concessionario, poi agente della riscossione, e, in via subordinata, la sua (asserita) reductio ad legitimitatem con l’innesto delle prescrizioni previste per l’ordinaria notifica a mezzo del servizio postale dall’art. 7 legge n. 890 del 1982. 3.– Le questioni sono ammissibili anche sotto il profilo della loro rilevanza. La CTR della Lombardia è chiamata a decidere l’appello proposto da una contribuente che si era vista dichiarare inammissibile, in primo grado, il suo ricorso cumulativo con cui aveva impugnato, oltre al preavviso di fermo amministrativo (atto ritenuto non impugnabile dalla commissione tributaria provinciale, giudice di primo grado), anche tre cartelle di pagamento poste a fondamento di tale misura cautelare. La nullità della notifica delle cartelle di pagamento, dedotta dall’appellante, inciderebbe, in particolare, sulla decorrenza del termine per l’impugnazione delle cartelle stesse. Nella specie, dall’ordinanza di rimessione risulta che l’appellante non si è limitata a censurare la pronuncia di primo grado nella parte in cui ha ritenuto valide le notifiche “dirette” delle cartelle di pagamento (ai sensi dell’art. 26, primo comma, censurato) – ciò che avrebbe altrimenti fatto dubitare della rilevanza dell’incidente di costituzionalità in ragione della possibile inammissibilità di una censura in ipotesi non estesa anche al merito della legittimità delle cartelle di pagamento − ma, sul presupposto dell’allegata nullità di tali notifiche, ha sostenuto la tempestività dell’impugnazione delle cartelle stesse deducendo, tra l’altro, la decadenza del potere impositivo e comunque la prescrizione del credito tributario. Sussiste quindi la rilevanza della questione incidentale di costituzionalità perché la parte appellante sostiene la illegittimità della notificazione delle cartelle di pagamento eseguita secondo la disciplina della corrispondenza ordinaria in plico raccomandato (nella specie, con consegna dello stesso al portiere), come la disposizione censurata facoltizza il concessionario, poi agente della riscossione, a fare; disposizione che quindi la CTR è chiamata ad applicare e della cui legittimità costituzionale dubita nella parte in cui le modalità semplificate di tale forma di notificazione sarebbero in contrasto con gli evocati parametri.


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Non rileva invece, sul piano del sindacato di legittimità costituzionale della disposizione, la circostanza di fatto – menzionata nell’ordinanza di rimessione − della dedotta illeggibilità della firma del portiere, apposta sull’avviso di ricevimento del plico, costituendo questo, invece, un ordinario profilo di legittimità, o no, della notifica, prospettato dalla parte appellante come motivo di impugnazione per violazione di legge. 4.– Nel merito le questioni non sono fondate. 5.– La disposizione censurata (art. 26, primo comma, citato) prevede una disciplina specifica della notifica delle cartelle di pagamento, che – estesa (dal successivo art. 49) anche alla notifica di tutti gli atti dell’espropriazione forzata − è speciale rispetto a quella dettata dall’art. 60 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), per gli avvisi di accertamento ed altri atti di natura tributaria indirizzati al contribuente. Sia l’art. 26 del d.P.R. n. 602 che l’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 sono fatti espressamente salvi dall’art. 14 della legge n. 890 del 1982 che, con riferimento all’utilizzo, nella materia tributaria, del servizio postale (in generale consentito dall’art. 149 del codice di procedura civile), detta prescrizioni specifiche per la notificazione degli «atti che per legge devono essere notificati al contribuente». Il reticolo normativo delle regole che governano la notificazione degli atti in materia tributaria risulta complesso e stratificato, anche diacronicamente. La stessa disposizione censurata, introdotta dal d.P.R. n. 602 del 1973 per la notifica delle cartelle di pagamento, è stata modificata più volte ed in particolare, per quanto qui rileva, in occasione del riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, dapprima dall’art. 12 del d.lgs. n. 46 del 1999, ed in seguito dall’art. 1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 193 del 2001. Nella sua originaria formulazione, il primo comma dell’art. 26 censurato aveva un duplice contenuto normativo. Stabiliva da una parte chi era legittimato alla notifica delle cartelle di pagamento (i messi notificatori dell’esattoria, gli ufficiali esattoriali, gli ufficiali giudiziari, i messi comunali e i messi di conciliazione). D’altra parte introduceva una speciale forma di notificazione “diretta” prevedendo che essa poteva essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Questa parte della disposizione si saldava con quello che era l’originario comma successivo, in tal modo prevedendosi altresì che la notificazione si aveva per avvenuta alla data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto da una delle persone legittimate a ricevere l’atto: destinatario o persone di famiglia o addette alla casa, all’ufficio o all’azienda. Siffatta notificazione “diretta” era altresì “semplificata”, nel senso che trovavano applicazione le disposizioni ordinarie del d.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni» (d’ora in avanti: codice postale), e non già quelle della citata legge n. 890 del 1982 sulla notificazione a mezzo del servizio postale.


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Peraltro, nella materia tributaria una forma di notificazione “diretta”, senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario, era – ed è tuttora – prevista in generale dal citato art. 14 legge n. 890 del 1982, secondo cui la notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente può eseguirsi anche a mezzo del servizio postale «direttamente dagli uffici finanziari». In particolare, quindi, per le cartelle di pagamento si aveva che, in forza dell’art. 26, primo comma, l’esattore aveva a disposizione, oltre alle forme ordinarie per il tramite di un intermediario (quale innanzi tutto l’ufficiale giudiziario), anche uno strumento agile per la loro notificazione: l’invio di una lettera raccomandata con avviso di ricevimento e con consegna, da parte dell’agente postale, vuoi direttamente al destinatario (raggiungendo così il risultato della conoscenza effettiva dell’atto), vuoi a soggetti il cui rapporto (familiare, di lavoro, di collaborazione) con il destinatario fosse tale da fondare una ragionevole presunzione di consegna dell’atto a quest’ultimo, realizzando in tal modo la conoscenza legale dell’atto, stante – secondo la giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione, sezione terza civile, sentenza 29 luglio 2016, n. 15795) – il generale canone di presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 del codice civile. Questa modalità di notificazione “diretta” delle cartelle di pagamento (e degli atti dell’espropriazione forzata) per lungo tempo non ha dato luogo, per i giudici che si sono trovati ad applicare la disposizione che la prevedeva, a dubbi di legittimità costituzionale. 6.– L’art. 26, primo comma, d.P.R. n. 602 del 1973, pur conservando la stessa struttura nel suo contenuto essenziale, muta in occasione del riordino della riscossione mediante ruolo e viene riformulata nel testo di cui è chiamata a fare applicazione la CTR rimettente. Da una parte, viene aggiornato il catalogo dei soggetti abilitati a procedere alla notifica delle cartelle di pagamento nelle forme ordinarie: ufficiali della riscossione o altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge, messi comunali, agenti della polizia municipale. Dall’altra parte, è ribadita − nel secondo periodo, che è quello specificamente attinto dalle censure mosse dalla CTR rimettente − la facoltà della notificazione “diretta” senza intermediazione dei menzionati soggetti abilitati alla notifica; si precisa, inoltre, che la notifica della cartella di pagamento deve avvenire in plico chiuso e, altresì, viene aggiunto, tra i possibili consegnatari del plico, il portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda del contribuente. Ma soprattutto non viene ripetuto testualmente che la facoltà della notificazione “diretta” è attribuita al concessionario (poi agente) della riscossione, diversamente da quanto prevedeva l’originario primo comma dell’art. 26 citato, che invece espressamente riferiva tale facoltà all’esattore. Sicché, la giurisprudenza, soprattutto, si è interrogata se tale possibilità di notificazione “diretta” permanesse, come in passato, o invece dovesse ritenersi riservata agli stessi soggetti abilitati alla notificazione secondo l’indicazione del parimenti novellato primo periodo dell’art. 26. La questione ha poi assunto maggiore rilievo ed importanza dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale (sentenza n. 280 del 2005) dell’art. 25 d.P.R. n. 602 del


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1973, come modificato dal d.lgs n. 193 del 2001, nella parte in cui non prevedeva un termine, fissato a pena di decadenza, entro il quale il concessionario dovesse notificare al contribuente la cartella di pagamento delle imposte; sicché, dalla legittimità, o no, della notifica “diretta” ad opera del concessionario (poi agente) della riscossione dipendeva la stessa facoltà dell’amministrazione finanziaria di agire in executivis. Per lungo tempo i dubbi interpretativi hanno visto divisa la giurisprudenza di merito, ma alla fine, in epoca peraltro relativamente recente (ex plurimis, Corte di Cassazione, sezione quinta civile, ordinanza 13 luglio 2017, n. 17248), sono stati risolti da un costante e ripetuto orientamento della giurisprudenza di legittimità, di cui dà conto l’ordinanza di rimessione. Si è riconosciuto, in linea di continuità con quanto in passato ritenuto nella vigenza dell’originario primo comma dell’art. 26 citato, che la notificazione “diretta”, anche dopo la riforma della riscossione coattiva, continua ad essere una facoltà del concessionario, poi divenuto agente, della riscossione. Occorre, quindi, muovere da questo presupposto interpretativo, radicato ormai in una situazione di diritto vivente, come riconosce la stessa ordinanza di rimessione. Del resto, questo approdo interpretativo della giurisprudenza di legittimità appare più coerente con il riordino (d.lgs. n. 46 del 1999) e poi con la riforma della riscossione coattiva ex art. 3 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 2 dicembre 2005, n. 248, che hanno accentuato il ruolo pubblicistico dell’agente della riscossione, ben più di quello che in passato aveva l’esattore, avvicinandolo all’attività di amministrazione diretta degli uffici finanziari. 7.– Tutto ciò premesso in ordine al presupposto interpretativo e al quadro normativo di riferimento, venendo ora alle censure di incostituzionalità mosse dalla CTR rimettente alla disposizione indubbiata, è innanzi tutto non fondata quella consistente nella denunciata mancanza di giustificazione (ex art. 3, primo comma, Cost.) del regime differenziato della notificazione “diretta”, quale asserito privilegio in favore dell’agente della riscossione. La disciplina speciale recata dalla disposizione censurata, per cui attualmente l’agente per la riscossione può procedere alla notificazione diretta ex art. 26, primo comma, delle cartelle di pagamento, come per anni ha fatto l’esattore, trova, ancor più che in passato, giustificazione nella natura sostanzialmente pubblicistica della posizione e dell’attività del primo, il quale, secondo l’espressa previsione dell’art. 24 del d.P.R. n. 602 del 1973, è depositario del ruolo formato dall’amministrazione finanziaria e, per conto di quest’ultima, procede per legge alla riscossione coattiva. Si tratta, quindi, di un organo indiretto dell’amministrazione finanziaria, cui è delegato l’esercizio di poteri pubblicistici funzionali alla riscossione delle entrate pubbliche. Ciò è tanto più vero a seguito dell’istituzione del sistema nazionale della riscossione, secondo la previsione dell’art. 3 del d.l. n. 203 del 2005, con l’attribuzione delle relative funzioni all’Agenzia delle entrate che le ha esercitate, fino ad epoca recente, mediante una


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società a capitale interamente pubblico (Riscossione spa, poi divenuta Equitalia spa). Le società facenti parte del gruppo Equitalia sono, quindi, soggetti pubblici, ancorché aventi la struttura privatistica della società per azioni, tant’è che, coerentemente, risultano inserite nell’elenco delle amministrazioni centrali del cosiddetto “conto economico consolidato”, predisposto in attuazione dell’art. 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica). Dal 1º luglio 2017 le società del gruppo Equitalia sono state sciolte – in forza del decreto-legge 22 ottobre 2016, n. 193 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e per il finanziamento di esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella legge 1º dicembre 2016, n. 225 – e l’esercizio delle funzioni relative alla riscossione è ora demandato all’Agenzia delle entrate-Riscossione per i contribuenti e gli enti creditori, nuovo ente pubblico economico strumentale dell’Agenzia delle Entrate; ente che ha connotazioni ancora più marcatamente pubblicistiche. Questa Corte ha più volte evidenziato come il regime differenziato della riscossione coattiva delle imposte risponde all’esigenza, di rilievo costituzionale, di assicurare con regolarità le risorse necessarie alla finanza pubblica, affermando che «la disciplina speciale della riscossione coattiva delle imposte non pagate risponde all’esigenza della pronta realizzazione del credito fiscale a garanzia del regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato» (sentenze n. 90 del 2018 e n. 281 del 2011). In questo contesto, l’agente per la riscossione svolge una funzione pubblicistica finalizzata al raggiungimento di questo scopo. È questa particolare funzione svolta dall’agente per la riscossione a giustificare un regime differenziato, qual è la censurata previsione della speciale facoltà del medesimo di avvalersi della notificazione “diretta” delle cartelle di pagamento. Deve, quindi, ritenersi non fondata, sotto questo primo profilo, la sollevata questione di legittimità costituzionale della disposizione censurata, in riferimento essenzialmente all’art. 3, primo comma, Cost., nella parte in cui facoltizza l’agente della riscossione alla notifica “diretta” delle cartelle esattoriali. 8.– Parimenti non fondate – ma con una puntualizzazione in chiave di interpretazione adeguatrice di cui si dirà oltre − sono le censure che riguardano la denunciata diminuzione di garanzie per il soggetto notificatario quando l’agente per la riscossione procede alla notifica “diretta” delle cartelle di pagamento, senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario (o di altro soggetto abilitato) e nel rispetto delle prescrizioni del codice postale, piuttosto che alla notifica ordinaria a mezzo del servizio postale. Anche se, come pone in rilievo la CTR rimettente, la semplificazione insita nella notificazione diretta comporta, in quanto eseguita nel rispetto del citato codice postale, uno scostamento rispetto all’ordinario procedimento notificatorio a mezzo del servizio postale ai sensi della legge n. 890 del 1982, non di meno – per quanto si viene ora a rilevare – è comunque garantita al destinatario un’effettiva possibilità di conoscenza della cartella di pagamento notificatagli ai sensi dell’art. 26, primo comma, d.P.R. n. 602 del 1973.


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9.– Un primo tratto della semplificazione che connota la notificazione “diretta” consiste nella mancanza della relazione di notificazione di cui agli artt. 148 cod. proc. civ. e 3 legge n. 890 del 1982, relazione deputata ad attestare i dati significativi dell’avvenuta notificazione. Però, d’altro canto, nella forma della notificazione “diretta” ex art. 26, primo comma, d.P.R. n. 602 del 1973 c’è il completamento dell’avviso di ricevimento da parte dell’operatore postale che, in forma sintetica, fornisce la prova dell’avvenuta consegna del plico al destinatario o al consegnatario legittimato a riceverlo; plico recante, di norma, l’originale della cartella di pagamento, estratta dal ruolo formato da parte dell’amministrazione finanziaria e consegnato all’agente della riscossione per essere notificato al contribuente quale atto di avvio del procedimento di riscossione coattiva, assimilabile all’atto di precetto nell’ordinaria esecuzione forzata. La notifica – come prescrive l’art. 26 nella formulazione del 1999 – è effettuata in plico chiuso e rilevano le disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati. Prescrive l’art. 8 del d.P.R. 29 maggio 1982, n. 655, recante «Approvazione del regolamento di esecuzione dei libri I e II del codice postale e delle telecomunicazioni (norme generali e servizi delle corrispondenze e dei pacchi)» che l’agente postale, il quale consegna il plico con avviso di ricevimento, fa firmare quest’ultimo dal destinatario; se il destinatario rifiuta di firmare, è sufficiente, ai fini della prova dell’avvenuta consegna, che l’agente postale apponga sull’avviso stesso la relativa dichiarazione. L’avviso di ricevimento, così completato, viene rispedito subito all’interessato. Analogamente dispone l’art. 33 del decreto del Ministro delle comunicazioni 15 febbraio 2006, n. 134 (Modifiche ed integrazioni al regolamento recante disposizioni in materia di autorizzazioni generali nel settore postale, adottato con decreto del Ministro delle comunicazioni 4 febbraio 2000, n. 75), che prevede la sottoscrizione dell’avviso di ricevimento da parte del destinatario del plico. Come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità, alle indicazioni contenute nell’avviso di ricevimento non può essere riconosciuta fede privilegiata, nella parte non riconducibile all’agente postale, posto che l’art. 6 d.P.R. n. 655 del 1982 prescrive che gli avvisi di ricevimento, di cui all’art. 37 codice postale, sono predisposti dagli interessati. Tuttavia l’avviso di ricevimento è avviato all’indirizzo del destinatario insieme all’oggetto cui si riferisce (art. 7 d.P.R. n. 655 del 1982) e l’agente postale, che consegna il plico, fa firmare l’avviso di ricevimento al destinatario o al consegnatario (art. 8, primo comma, del suddetto d.P.R.), provvedendo a spedire subito all’interessato la ricevuta così completata (art. 8, secondo comma, dello stesso d.P.R.). Tale formalità comporta che le indicazioni dell’avviso, ritualmente prodotto agli atti del giudizio tributario, debbano essere valutate sul piano presuntivo, al fine dell’assolvimento dell’onere della prova della ricezione del plico e della presunzione di conoscenza ex art. 1335 cod. civ. A seguito della più recente modifica introdotta dall’art. 19-octies, comma 2, del decreto-legge 16 ottobre 2017, n. 148 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella legge 4 dicembre 2017,


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n. 172 – l’art. 26, primo comma, d.P.R. n. 602 del 1973 ora stabilisce, nel suo primo periodo, che quando ai fini del perfezionamento della notifica sono necessarie più formalità, le stesse possono essere compiute, in un periodo di tempo non superiore a trenta giorni, e va distintamente certificata l’attività svolta mediante relazione datata e sottoscritta. Tale modifica ha in sostanza un valore confermativo, perché viene espressamente prevista la relazione di notifica solo nel primo periodo, con riferimento ai soggetti legittimati ad eseguire la notificazione in via ordinaria, e non già nel secondo periodo, che riguarda la notificazione diretta ad iniziativa dell’agente della riscossione, rimasta invariata. Vi è poi che per la consegna del plico l’operatore postale segue l’ordine previsto dal decreto del Ministero delle comunicazioni 9 aprile 2001 (Approvazione delle condizioni generali del servizio postale), il cui art. 39 prevede che sono abilitati a ricevere gli invii di posta presso il domicilio del destinatario anche i componenti del nucleo familiare, i conviventi ed i collaboratori familiari dello stesso e, se vi è servizio di portierato, il portiere. Tale ordine, anche se non è pienamente sovrapponibile a quello dell’art. 7 della legge n. 890 del 1982, ha una fonte legale (la citata normativa subprimaria) ed assicura che il plico sarà consegnato dall’operatore postale allo stesso destinatario o a persona legittimata a riceverlo in ragione del rapporto (familiare, di lavoro o di collaborazione) che lo lega al destinatario. 10.– Ma il tratto differenziale più significativo attiene alla mancata previsione della comunicazione di avvenuta notifica (cosiddetta CAN). L’operatore postale, dopo aver consegnato il plico e completato l’avviso di ricevimento facendolo sottoscrivere al destinatario o consegnatario dell’atto, provvede ad inviarlo all’agente della riscossione notificante, ma – come ritiene la CTR rimettente secondo un’interpretazione testuale, nonché conforme alla giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione, sezione quinta civile, sentenza 11 maggio 2017, n. 11619) – non spedisce al notificatario alcuna comunicazione dell’avvenuta notificazione, a differenza di quanto in generale prescritto (alla data dell’ordinanza di rimessione) dall’art. 7 legge n. 890 del 1982 per le notifiche a mezzo del servizio postale. L’obbligo della comunicazione informativa è stato introdotto nel citato art. 7 (dopo il quinto comma) dal comma 2-quater dell’art. 36 d.l. n. 248 del 2007; disposizione questa che, in un’ottica di rafforzamento delle garanzie del notificatario, ha previsto che se il piego non viene consegnato personalmente al destinatario dell’atto, l’agente postale dà notizia a quest’ultimo della sua avvenuta notificazione a mezzo di lettera raccomandata. In precedenza era l’art. 139 cod. proc. civ. a prevedere – come prevede tuttora – un’ipotesi di comunicazione di avvenuta notifica, operando però una distinzione: l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione, a mezzo di lettera raccomandata, solo se l’atto sia stato consegnato al portiere o ad un vicino di casa che accetti di riceverlo, non anche se consegnato a una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, sul presupposto che l’effettiva possibilità


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di conoscenza dell’atto sia maggiore in questi ultimi casi – e quindi non bisognevole della comunicazione di avvenuta notifica – e minore nei primi, che invece richiedono l’approntamento di una garanzia ulteriore. In termini più ampi, ma in una fattispecie ben più limitata, l’art. 660, ultimo comma, cod. proc. civ. prevede che se l’intimazione di licenza o di sfratto non è stata notificata in mani proprie, l’ufficiale giudiziario deve spedire avviso all’intimato dell’effettuata notificazione a mezzo di lettera raccomandata, e allegare all’originale dell’atto la ricevuta di spedizione. Nella materia tributaria, la comunicazione di avvenuta notifica continua ad essere prevista dall’art. 60 d.P.R. n. 600 del 1973, come modificato dall’art. 37, comma 27, lettera a), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248, che, in materia di notificazioni degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, prescrive in generale che «se il consegnatario non è il destinatario dell’atto o dell’avviso» l’agente notificatore, oltre a svolgere una serie di formalità che condizionano l’integrazione della conoscenza legale e quindi il perfezionamento della notifica, dà notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto o dell’avviso a mezzo di lettera raccomandata, rafforzando così la tutela del destinatario dell’atto. In queste fattispecie, l’obbligo dell’invio della comunicazione di avvenuta notifica, con un contenuto più o meno esteso, vale a integrare le formalità del procedimento notificatorio e, se violato, comporta la nullità della notifica, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione, sezioni unite civili, ordinanza interlocutoria 31 luglio 2017, n. 18992), mentre un precedente orientamento affermava esservi solo una mera irregolarità del procedimento notificatorio. Tale obbligo vale indubbiamente a rafforzare il diritto di azione e di difesa (art. 24, primo e secondo comma, Cost.) del destinatario dell’atto. Ma non costituisce, nella disciplina della notificazione, una condizione indefettibile della tutela costituzionalmente necessaria di tale, pur fondamentale, diritto. Prima della ricordata novella del 2008, il citato art. 7 legge n. 890 del 1982 non contemplava affatto la comunicazione di avvenuta notifica e questa Corte, pronunciandosi in riferimento a tale disposizione nella sua formulazione originaria, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della stessa, nella parte in cui non prevedeva che, avvenuta la consegna del piego al portiere dello stabile, fosse data notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata. Ha affermato questa Corte che «non è irragionevole non prevedere l’invio di una lettera raccomandata da parte dell’ufficiale postale che ha proceduto alla consegna dell’atto al portiere in quanto tale raccomandata avrebbe le medesime caratteristiche “postali” dell’atto del quale dovrebbe dare notizia al destinatario» (ordinanza n. 131 del 2007).


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Con riferimento alle cartelle di pagamento è poi stata introdotta al secondo comma dell’art. 26 d.P.R. n. 602 del 1973 la possibilità di notificazione mediante posta elettronica certificata ad opera dell’art. 38, comma 4, lettera b), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, che parimenti – come la disposizione attualmente censurata − non contiene l’obbligo della comunicazione informativa. Recentemente, il citato art. 7 legge n. 890 del 1982 è stato nuovamente riformulato dall’art. 1, comma 461, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), e non contiene più la comunicazione dell’avvenuta notificazione, evidentemente ritenuta non essenziale dal legislatore in un’ottica di semplificazione ed anche di allineamento alla notificazione mediante posta elettronica certificata, che parimenti non prevede siffatta formalità ulteriore. Neppure la disposizione censurata (art. 26, primo comma), pur modellando la fattispecie della notificazione diretta ad iniziativa dell’agente della riscossione in termini non dissimili da quelli dell’art. 7, prevede la comunicazione dell’avvenuta notificazione al destinatario nel caso in cui il plico non sia consegnato direttamente a quest’ultimo dall’operatore postale e neppure nel caso più specifico di consegna del plico al portiere. Anche in ciò sta la semplificazione che il legislatore ha voluto per la notificazione “diretta”, ad opera dell’agente della riscossione, delle cartelle di pagamento al fine di accelerare e snellire le operazioni della riscossione coattiva. 11.– Considerati nel loro complesso, i rilevati scostamenti della disposizione censurata rispetto al regime ordinario della notificazione a mezzo del servizio postale, che costituiscono il proprium della semplificazione insita nella notificazione “diretta” ex art. 26, primo comma, d.P.R. n. 602 del 1973 segnano sì un arretramento del diritto di difesa del destinatario dell’atto, ma non superano il limite di compatibilità con i parametri evocati dalla CTR rimettente. Va infatti considerato che − venendo in rilievo l’ordinaria disciplina del servizio postale quanto alle ipotesi di effettiva reperibilità del destinatario dell’atto o di altro soggetto legittimato a riceverlo − la notificazione “diretta” delle cartelle di pagamento ad opera dell’agente della riscossione, della cui legittimità costituzionale la rimettente CTR dubita, costituisce una forma semplificata di notificazione, di cui è predicato il normale buon esito con la consegna del plico al destinatario o al consegnatario. A questa ipotesi si riferisce l’ordinanza di rimessione della CTR che è chiamata a pronunciarsi in ordine alla validità, o no, di una notifica “diretta” ex art. 26, primo comma, effettuata con consegna del plico al portiere, con le modalità semplificate del servizio postale ordinario ed in particolare senza comunicazione dell’avvenuta notifica. Con riferimento, quindi, alla forma di notificazione “diretta”, con consegna del plico al destinatario o a chi sia legittimato a riceverlo, può dirsi che le modalità pur


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semplificate del procedimento notificatorio soddisfano il requisito – richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte − della «effettiva possibilità di conoscenza» dell’atto (sentenze n. 346 del 1998 e n. 360 del 2003). La disposizione censurata non viola i parametri evocati dalla CTR rimettente, sotto il profilo della ipotizzata violazione del diritto di azione e di difesa del notificatario (art. 24, primo e secondo comma, Cost.) e del principio della “parità delle armi” integrato dal canone del giusto processo (art. 111, primo e secondo comma, Cost.) perché non è superato quel «limite inderogabile» che la giurisprudenza di questa Corte pone alla discrezionalità che ha il legislatore nel regolare il procedimento notificatorio, in particolare prevedendo ipotesi di conoscenza legale dell’atto da notificare. Questa Corte ha infatti affermato in proposito che rientra nella discrezionalità del legislatore la conformazione degli istituti processuali e, quindi, la disciplina delle notificazioni, con il «limite inderogabile» derivante dal diritto di difesa del notificatario, al quale deve essere assicurata una «effettiva possibilità di conoscenza» dell’avvenuto deposito dell’atto. E ha, altresì, precisato che la discrezionalità del legislatore deve comunque assicurare il «fondamentale diritto del destinatario della notificazione ad essere posto in condizione di conoscere, con l’ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità, il contenuto dell’atto e l’oggetto della procedura instaurata nei suoi confronti, non potendo ridursi il diritto di difesa del destinatario medesimo ad una garanzia di conoscibilità puramente teorica dell’atto notificatogli» (sentenza n. 346 del 1998). Ma le ipotesi di insufficienti garanzie per il notificatario, ritenute tali da questa Corte, sono relative a prescrizioni formali del procedimento notificatorio, integranti la conoscenza legale dell’atto, senza che l’atto sia stato consegnato a chi, per ragioni varie (riferibili a rapporti familiari, di convivenza, di servizio, di lavoro), sia chiamato a notiziarne il destinatario così realizzando una ragionevole presunzione di «effettiva conoscenza» dell’atto. Tra tali ipotesi − che hanno richiesto la correzione del procedimento notificatorio mediante pronunce di illegittimità costituzionale − può ricordarsi quella della cosiddetta irreperibilità relativa (id est evenienze riconducibili a quelle previste dall’art. 140 cod. proc. civ.) sia nell’ordinario procedimento notificatorio a mezzo posta (sentenza n. 346 del 1998), sia nel regime del codice di rito ex art. 140 cod. proc. civ. (sentenza n. 3 del 2010); nonché quella della temporanea irrilevanza delle variazioni anagrafiche del contribuente (sentenza n. 360 del 2003) e quella della notificazione al contribuente residente all’estero (sentenza n. 366 del 2007). Anche con più specifico riferimento alla notifica di cartelle di pagamento relative a debiti previdenziali secondo l’ordinario procedimento di notifica a mezzo del servizio postale ex lege n. 890 del 1982, questa Corte − nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del terzo comma (corrispondente all’attualmente vigente quarto comma) dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 − ha affermato che non è «riconducibile ad alcuna ragionevole ratio, con violazione dell’art. 3 della Costituzione» che la notificazione di una cartella di pagamento nei casi di irreperibilità relativa, previsti dall’art. 140 cod. proc. civ., possa avvenire (ex art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973) con la sem-


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plice affissione nell’albo del Comune, secondo «modalità improntate ad un criterio legale tipico di conoscenza della cartella», anziché secondo il «criterio dell’effettiva conoscibilità dell’atto» (sentenza n. 258 del 2012). Rispetto a tali ipotesi si ha invece che, nella fattispecie della notificazione “diretta” ex art. 26, primo comma, qui in esame, vi è un più elevato livello di conoscibilità – ossia di possibilità che si raggiunga, per il notificatario, l’effettiva conoscenza dell’atto − stante l’avvenuta consegna del plico (oltre che allo stesso destinatario, anche alternativamente) a chi sia legittimato a riceverlo, sicché il «limite inderogabile» della discrezionalità del legislatore non è superato e non è compromesso il diritto di difesa del destinatario della notifica, non diversamente – mutatis mutandis – da quanto accade nell’ipotesi di una notificazione, che anch’essa può dirsi semplificata, eseguita per posta elettronica certificata, ritenuta da questa Corte compatibile con il diritto di difesa del notificatario (sentenza n. 146 del 2016). 12.– A questa conclusione – che predica il mancato superamento, nella fattispecie in esame, del «limite inderogabile» della «effettiva possibilità di conoscenza» dell’atto notificato − può pervenirsi anche perché dall’art. 6 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente) – che prevede espressamente che, ferme le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari, l’amministrazione finanziaria deve assicurare la «effettiva conoscenza» da parte del contribuente degli atti a lui destinati – è possibile ricavare un canone interpretativo che vale a compensare, su un piano diverso − quello della rimessione in termini − lo scarto tra conoscenza legale e conoscenza effettiva. Anche la citata sentenza n. 146 del 2016 di questa Corte ha evidenziato in via interpretativa un “correttivo” della modalità semplificata della notificazione mediante PEC del ricorso per la dichiarazione di fallimento riconoscendo al notificatario più ampie facoltà di contestazione in sede di reclamo avverso la successiva sentenza dichiarativa di fallimento. Analogamente, nella fattispecie della notifica “diretta” delle cartelle di pagamento, lo scarto tra conoscenza legale e conoscenza effettiva è suscettibile di essere riequilibrato per soddisfare l’esigenza di assicurare l’effettiva conoscenza degli atti. Si ha, infatti, che il richiamato canone generale, recato dall’art. 6 citato, influenza, in termini di interpretazione costituzionalmente orientata, la portata della rimessione in termini, nel senso che la mancanza, in concreto, di «effettiva conoscenza» dell’atto, per causa non imputabile, può legittimare il destinatario a richiedere la rimessione in termini ai sensi dell’art. 153, secondo comma, cod. proc. civ. – disposizione la cui applicabilità al giudizio tributario è riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità, anche con riferimento alle decadenze ad esse esterne, come l’impugnazione degli atti impositivi (Corte di Cassazione, sezione sesta civile, sottosezione-T, ordinanza 20 gennaio 2017, n. 1486) − per poter ricorrere avverso la cartella di pagamento, fermi restando gli effetti derivanti dal perfezionamento della notifica per il notificante – agente della riscossione per conto dell’amministrazione finanziaria − in ragione dell’osservanza delle formalità della notificazione “diretta” ex art. 26, primo comma, d.P.R. n. 602 del


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1973, con conseguente rispetto del termine di decadenza per la notifica della cartella di pagamento al contribuente dopo l’iscrizione a ruolo. Altrimenti detto, come la disposizione censurata agevola, con la (finora esaminata) notificazione “diretta” in forma semplificata, l’agente della riscossione nella notifica della cartella di pagamento perché sia rispettato, per l’amministrazione finanziaria, il termine di decadenza di cui all’art. 25 d.P.R. n. 602 del 1973, e l’attività di riscossione coattiva non subisca ritardi, così l’art. 6 dello statuto dei diritti del contribuente legittima un’applicazione estensiva dell’istituto della rimessione in termini, sì da tutelare il contribuente che non abbia avuto «effettiva conoscenza» dell’atto restituendolo nel termine di decadenza, di cui all’art. 19 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), per impugnare l’atto. È rimesso al prudente apprezzamento del giudice della controversia valutare ogni comprovato elemento presuntivo (art. 2729 cod. civ.), offerto dal destinatario della notifica “diretta” della cartella di pagamento − il quale, pur essendo integrata un’ipotesi di conoscenza legale in ragione del rispetto delle formalità (tanto più che semplificate) dell’art. 26, primo comma, secondo periodo, assuma di non aver avuto conoscenza effettiva dell’atto per causa a lui non imputabile − al fine di accogliere, o no, la richiesta di rimessione in termini. P.Q.M. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 26, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma; 24, primo e secondo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia con l’ordinanza indicata in epigrafe.

(1) Il processo di “semplificazione” dei procedimenti di notificazione. Osservazioni e criticità. Sommario: 1. Procedimenti notificatori e garanzie di difesa delle parti. – 2. Le esigen-

ze di “semplificazione” delle procedure. – 3. La “rimessione in termini”, quale rimedio alla mancata tempestiva conoscenza dell’atto. – 4. La evidente necessità di un coordinamento delle procedure notificatorie.

La Consulta prende atto del difforme regime di notificazione, previsto dall’art. 26, comma 1, Dpr 602/1973 (notificazione “diretta” da parte dell’Agente della riscossione), rispetto ai comuni procedimenti notificatori, per l’assenza di alcuni adempimenti, tra cui la comunicazione di avvenuta notificazione (cosiddetta “CAN”), ritenuti essenziali, in relazione a questi ultimi. Pur tuttavia, per ragioni di “semplificazione”, ovvero per ragioni di rapidità della riscossione, la stessa afferma la validità dello “speciale” procedimento legale


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di notificazione e, a fronte di questo evidente vulnus, inserisce un “correttivo” giudiziale, qual è la “rimessione in termini”, che mal si adatta ad una effettiva tutela del destinatario. The constitutional court adapts to the swaying wishes of the legislator, justifying the reduction of the protections of the addressee of the notification.

1. procedimenti notificatori e garanzie di difesa delle parti. – Un rapido focus sullo stato delle “garanzie” approntate dall’ordinamento, in relazione ai procedimenti notificatori riguardanti atti tributari, non può che intercettare uno degli ultimi pronunciamenti della Consulta in tema di notifiche “dirette”, effettuate dall’Agente della riscossione, ex art. 26 Dpr 602/1973 (1). Il punto d’indagine del Rimettente si può enucleare in una rilevata diminuzione delle normali garanzie che accompagnano i comuni procedimenti notificatori ed, in specie, come sintetizzato dalla Consulta in sentenza, nel fatto che nella disposizione censurata “non è richiesta la relata di notificazione; non è rispettato l’ordine preferenziale nella consegna del plico, prescritto dall’art. 7 secondo e terzo comma, della legge 20 novembre 1982 n. 890 (notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), non è previsto l’obbligo dell’invio della raccomandata informativa dell’avvenuta notifica nel caso, come nella specie, di avvenuta consegna al portiere”. Si può cominciare proprio con il segnalare, che la Consulta ha escluso la violazione dei parametri costituzionali di cui agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dichiarando non fondata la proposta questione di costituzionalità dell’art. 26, comma 1, Dpr 602/1973. La Corte si è concentrata, in particolare, sul “tratto differenziale più significativo” tra la notifica “diretta” ex art. 26 Dpr 602/1973 ed altre forme di notificazione, consistente nella “mancata previsione della comunicazione di avvenuta notifica (cosiddetta CAN)”, per il caso concreto portato dal Rimettente, di consegna del plico a mani del portiere. La stessa ha tratteggiato, all’uopo, le caratteristiche proprie di ogni disposizione regolatrice dei procedimenti notificatori disciplinati dalla legge, con-

(1) F. d’Ayala Valva, “Notificazione”, in Dizionario di Diritto Pubblico, Volume IV, Torino, 2006, 3819.


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frontando l’art. 26 citato, con l’art. 7 L. n. 890/1982, così come modificato dal comma 2 quater dell’art. 36 D.L. 248 del 2007, “in un’ottica di rafforzamento delle garanzie del notificatario” (2); e con l’art. 139 cpc. Ha sottolineato la distinzione tra le due disposizioni di confronto citate, laddove, rispettivamente, mentre la prima (l’art. 7 L. 890/1982 nella versione del 2008) garantisce l’invio della “CAN” ogni qualvolta il plico non venga consegnato personalmente al destinatario dell’atto, la seconda (l’art. 139 cpc) prevede l’adempimento notificatorio de quo, solo se l’atto sia stato consegnato al portiere o ad un vicino di casa che accetti di riceverlo, “sul presupposto che l’effettiva possibilità di conoscenza dell’atto sia maggiore in questi ultimi casi - e quindi non bisognevole della comunicazione di avvenuta consegna e minore nei primi, che invece richiedono l’approntamento di una garanzia ulteriore”. Ha richiamato le garanzie del procedimento notificatorio, ai sensi dell’art. 660 cpc. Si è soffermata sulle peculiarità dell’art. 60 Dpr 600/1973 che, in materia di atti tributari, come modificato dall’art. 37, comma 27, lettera a) del D.L. n. 223/2006, prescrive una serie di adempimenti notificatori, ma, soprattutto, “in generale che ‘se il consegnatario non è il destinatario dell’atto o dell’avviso’ l’agente notificatore, oltre a svolgere una serie di formalità che condizionano l’integrazione della conoscenza legale e quindi il perfezionamento della notifica, dà notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto o dell’avviso a mezzo di lettera raccomandata, rafforzando così la tutela del destinatario dell’atto”. La Consulta ha anche preso atto del “diritto vivente”, secondo cui la “CAN”, laddove prescritta, è unanimemente intesa come adempimento fondamentale ai fini dell’integrazione del procedimento notificatorio, a pena di nullità (3). Con alcune sfumature tra l’ipotesi di invio della “CAN”, per ogni circostanza di mancata consegna personale del plico, e quella in cui quest’ultimo sia recapitato a mani del portiere o vicino di casa, tutte le descritte norme con-

(2) Prima della sua integrale sostituzione ad opera dell’art. 1, comma 97-bis, lett. f), L. n. 190/2014, inserito dall’art. 1, comma 461, L. n. 205/2017. (3) In specie, la Consulta ha richiamato la Cass. SS. UU., 31 luglio 2017, n. 18992, in cui la Corte conferma l’impostazione acquisita, che l’omissione della CAN costituisce causa di nullità della notificazione, in quanto “… un tale minor grado di conoscibilità … esige però almeno di essere colmato con quel quid pluris costituito dalla spedizione dell’ulteriore avviso …”. In proposito anche Cass., 03 febbraio 2017, n. 2868, in CED, www.italgiure.giustizia.it.


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vergono nel prescrivere la garanzia notificatoria de qua, per l’ipotesi di consegna del plico al portiere o al vicino di casa, non potendosi ipotizzare alcun vincolo immediato e diretto con il notificatario, di luogo e personale - come per l’ipotesi di persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda - atto a far presumere la possibilità di conoscenza effettiva del plico da parte di quest’ultimo. In particolare, l’id quod plerumque accidit pare sfumare, laddove la consegna venga effettuata a soggetti terzi, legati al destinatario della notifica da rapporti del portiere con il condominio, ovvero da rapporti di solidarietà sociale nascenti da regole di buon vicinato. Da qui, il maturare del “diritto vivente” sulla natura integrativa della “CAN” ai fini del valido procedimento notificatorio, da non intendersi, contra, come una mera irregolarità (4). 2. Le esigenze di “semplificazione” delle procedure. – Sennonché il successivo richiamo della Consulta ad una sua precedente ordinanza, la n. 131 del 2007, in relazione al citato art. 7 legge n. 890 del 1982, nella versione antecedente la novella del 2008 (ove non era previsto l’invio della “CAN” nell’ipotesi di consegna al portiere o al vicino di casa del plico postale) fa

(4) Si segnalano, comunque, ancora contraddizioni, a seconda delle disposizioni notificatorie evocate, nel riconoscere natura integrativa, ai fini di una valida notificazione, alla mera spedizione, ovvero alla consegna della raccomandata informativa. La sola spedizione, né assicura la garanzia di possibilità di conoscenza effettiva, né assicura l’arco temporale di azione, in capo al destinatario. In proposito, si rimanda a Cass., 07 giugno 2018, n. 14722, in CED, www.italgiure.giustizia.it, secondo cui “è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 l. n. 890 del 1982, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non richiede, per il perfezionamento della notifica a mezzo posta effettuata mediante consegna dell’atto a persona diversa dal destinatario, la ‘ricezione’ della raccomandata cd. informativa, come invece previsto nel caso di notifica a persone irreperibili ex artt. 140 c.p.c. ed 8, comma 2, l. n. 890 del 1982, atteso che la mancata estensione alla notifica, eseguita ai sensi del citato art. 7, degli interventi additivi richiesti dalla Corte costituzionale (sent. n. 3 del 2010), al fine di equiparare i procedimenti notificatori di cui agli artt. 140 c.p.c. ed 8, comma 2, l. n. 890 del 1982, trova ragione nella evidente diversità fenomenica contemplata dalle norme in comparazione – nell’un caso essendo stata eseguita la consegna dell’atto a persona abilitata e riceverlo, nell’altro difettando del tutto la materiale consegna dell’atto notificando – cui consegue la diversità degli adempimenti necessari al perfezionamento delle rispettive fattispecie notificatorie, nella prima ipotesi costituiti dalla sola ‘spedizione’ della raccomandata, nell’altra occorrendo un ‘quid pluris’ inteso a compensare il maggior deficit di conoscibilità, costituito dalla effettiva ricezione della raccomandata, ovvero, in assenza di ricezione, dal decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento”.


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sfumare repentinamente l’impostazione acquisita in merito alle necessarie garanzie notificatorie in capo al destinatario del plico, cancellando gli anni del formarsi di quel “diritto vivente”, poco prima dalla stessa richiamato, sulla natura integrativa della “CAN”, quindi non catalogabile come dato normativo aggiuntivo, atto a costituire una mera irregolarità ove non rispettato. In particolare, il “diritto vivente” sulla natura della “CAN” pare contraddetto dalla affermazione della Corte che “non è irragionevole non prevedere l’invio di una lettera raccomandata da parte dell’ufficiale postale che ha proceduto alla consegna dell’atto al portiere in quanto tale raccomandata avrebbe le medesime caratteristiche postali dell’atto del quale dovrebbe dare notizia al destinatario”. La Consulta, dunque, convalida una sua precedente affermazione, secondo cui la “CAN” rappresenterebbe un “duplicato postale”. Non evidenzia alcun momento di riflessione sulla garanzia offerta dalla “CAN”, in quanto astrattamente idonea a raggiungere personalmente il destinatario, laddove invece il plico venga consegnato a persona, non legata da alcun vincolo diretto, di luogo e personale, al destinatario (5). Nell’assunto di “duplicazione postale” pare esservi, in sostanza, il disco-

(5) Occorre osservare, tra l’altro che la Consulta smentisce anche i propri sedimentati principi sulla funzione della CAN, nell’ottica di garantire il diritto di difesa del destinatario della notifica, espressi sin dalla sentenza 26 giugno 1974, n. 189, in Riv. dir. proc., 690 ss., con nota di F. Lucifero. In specie, la Corte ivi dichiarava la fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, lettera e, Dpr 645/1958, laddove “secondo il detto articolo, le notificazioni degli avvisi ed altri atti che la legge dispone siano notificati al contribuente, è eseguita secondo le norme stabilite dagli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile, ma con alcune modificazioni. Tra esse è compresa quella contenuta nella lettera e, in cui si dispone che in tutti i casi in cui la notificazione non è fatta in mani proprie del destinatario, il messo è esonerato dall’obbligo di darne notizia al destinatario medesimo. Per ragioni di semplificazione e di celerità si è inteso con ciò omettere l’invio della lettera raccomandata, con o senza avviso di ricevimento, quando la notifica non è effettuata in mani proprie, ma ai sensi di cui agli artt. 139, quarto comma, e 140 del codice di procedura civile”. La Consulta reggeva la declaratoria di incostituzionalità su un punto giustificativo fondamentale, ovverosia sull’argomento, che “non può dubitarsi che l’omissione di una formalità di semplice esecuzione, come la spedizione di una lettera raccomandata ad un indirizzo che sia già noto, non trovi una giustificazione razionale. Come non può dubitarsi che il recapito di una comunicazione raccomandata in un luogo idoneo a realizzare la conoscenza da parte del contribuente, aumenti assai notevolmente la possibilità del destinatario di pervenire alla conoscenza effettiva del contenuto di ciò che l’Amministrazione finanziaria ha inteso dovergli notificare, ed è ovvio che tale possibilità di una mancata conoscenza compromette, almeno potenzialmente, il diritto di difesa del contribuente”.


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noscimento della sussistenza, ove prevista, di una garanzia di legge, atta ad eliminare il gap tra “conoscenza legale” e “possibilità di conoscenza effettiva” del plico. L’immagine astratta della natura della “CAN”, richiamata dalla Corte, con il riferimento alla sua precedente sentenza n. 131 del 2007, però, cozza con il “diritto vivente” e, quindi, con il condiviso superamento dell’interpretazione della “CAN” quale mera prescrizione aggiuntiva; ma cozza anche con la novella del 2008, con cui il Legislatore aveva inteso, subito dopo la stessa sentenza della Consulta, colmare il rilevato vuoto di garanzie per il destinatario, connesse al procedimento notificatorio, con la previsione della “CAN” anche per l’ipotesi di cui all’art. 7 L. n. 890/1982. Questo intervento del Legislatore del 2008 non è stato altrettanto valorizzato dalla Consulta. La conseguenza implicita dell’iter espositivo ed argomentativo, è che si è passati a riaffermare la natura di “duplicazione postale” della “CAN”, con conseguenze sul piano, tanto normativo, che interpretativo. Per quanto concerne il primo aspetto, è facile rilevare che la Consulta non ha stigmatizzato la riformulazione dell’art. 7 L. 890/1982, ad opera dell’art. 1, comma 461 L. 205/2017, che, come dalla stessa rappresentato, “non contiene più la comunicazione dell’avvenuta notificazione, evidentemente ritenuta non essenziale dal Legislatore in un’ottica di semplificazione ed anche di allineamento alla notificazione mediante posta elettronica certificata, che parimenti non prevede siffatta formalità ulteriore”. Da qui la conclusione della Consulta su una volontà di “semplificazione” anche per la notificazione “diretta” ex art. 26 dpr 602/1973, ad opera dell’Agente della riscossione, “al fine di accelerare e snellire le operazioni di riscossione coattiva”. Ci si può chiedere come la notificazione tramite posta elettronica certificata presso la casella del destinatario, possa essere paragonata alla notificazione cartacea a mani di terzi. Alla informatizzazione di particolari procedure di notifica seguono, difatti, proprie regole, che non possono fungere da elemento di paragone per le notifiche cartacee. Soprattutto, non pare vi possano essere punti di contatto atti ad “allineare” le due differenti procedure. Tanto più che, mentre l’informatizzazione delle procedure può entrare in un programma di semplificazione, non altrettanto può dirsi per le garanzie del


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destinatario della notificazione (6). Equiparare il programma di informatizzazione ad una riduzione degli adempimenti connessi ad una corretta notificazione cartacea pare, dunque, una sovrapposizione concettuale foriera di distorsioni delle garanzie notificatorie (7). Eppure, dall’iter interpretativo della Consulta, pare proprio emergere che la volontà ed il programma di “semplificazione” del Legislatore abbiano condizionato il vaglio di ragionevolezza ed il grado di garanzie del destinatario dell’atto oggetto del procedimento di notificazione e, quindi, l’indagine di rispondenza delle disposizioni in materia di notificazione ai parametri di costituzionalità. Si percepisce, in particolare, una contraddizione, forte, tra il riconoscimento dell’impostazione acquisita sulla natura fondamentale della “CAN” ai fini dell’integrazione di una valida notificazione al destinatario, “in quanto tale obbligo vale indubbiamente a rafforzare il diritto di azione di difesa (art. 24, primo e secondo comma, Cost.) del destinatario dell’atto”, e l’adeguamento della pronuncia alle scelte del Legislatore, tanto da degradare la “CAN” ad una prescrizione jolly, la cui assenza, a parità di condizioni, si assume non costituire “nella disciplina della notificazione, una condizione indefettibile della tutela costituzionalmente necessaria di tale, pur fondamentale, diritto”.

(6) F. d’Ayala Valva, Germi di incostituzionalità nel nuovo contenzioso tributario: le notifiche a mezzo posta, in Riv. dir. trib., 1992, II, 891 ss. (7) Inadeguato pare il richiamo della Consulta alla sua sentenza 16 giugno 2016, n. 146, pubblicata in G.U. 22/06/2016, in cui, nell’ambito del procedimento fallimentare, è stata affermata la sussistenza di un duplice meccanismo di ricerca della società, che viene “notiziata prima presso il suo indirizzo PEC, del quale è obbligata a dotarsi, ex art. 16 del D.L. 29 novembre 2008, n. 185 … ed è tenuta a mantenere attivo durante la vita dell’impresa; dunque, in forza di un sistema che presuppone il corretto operare della disciplina che regola le comunicazioni telematiche da parte dell’ufficiale giudiziario e che, come tale, consente di giungere ad una conoscibilità effettiva dell’atto da notificare, in modo sostanzialmente equipollente con i meccanismi ordinari (ufficiale giudiziario e agente postale). Solo a fronte della non utile attivazione di tale primo meccanismo segue la notificazione presso la sede legale dell’impresa collettiva; ossia presso quell’indirizzo da indicare obbligatoriamente nell’apposito registro ex l. 29 dicembre 1993 n. 580 … e successive modifiche, la cui funzione è proprio quella di assicurare un sistema organico di pubblicità legale, sì da rendere conoscibili – e perciò opponibili a terzi, nell’interesse dello stesso imprenditore – i dati concernenti l’impresa e le principali vicende che lo riguardano. Per cui in caso di esito negativo di tale duplice meccanismo di notifica, il deposito dell’atto introduttivo della procedura fallimentare presso la casa comunale ragionevolmente si pone come conseguenza immediata e diretta della violazione, da parte dell’imprenditore collettivo, dei descritti obblighi impostigli dalla legge. […]”.


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La frizione concettuale tra proposizioni si avverte anche laddove la Consulta ribadisce la propria impostazione, secondo cui “considerati nel loro complesso, i rilevati scostamenti della disposizione censurata rispetto al regime ordinario della notificazione a mezzo del servizio postale, che costituiscono il proprium della semplificazione insita nella notificazione diretta ex art. 26, primo comma, Dpr 602 del 1973 segnano sì un arretramento del diritto di difesa del destinatario dell’atto”; pur tuttavia la stessa assume che “non superano il limite di compatibilità con i parametri evocati dalla CTR rimettente”. La riconosciuta deminutio del diritto di difesa del destinatario dell’atto e, quindi, a monte, della stessa “possibilità di conoscenza effettiva” della notifica, è, dunque, la riprova della volontà della Consulta di non discostarsi dal “diritto vivente” circa la funzione fondamentale della “CAN”, d’altra parte prevista nel comune procedimento notificatorio (artt. 139 cpc; 140 cpc (8); art. 8 L. 890/1982), a pena di nullità e non di mera irregolarità. Al contempo, però, con la cancellazione della “CAN” dall’art. 7 L. 890/1982, voluta dal Legislatore nel 2017, la stessa ha valorizzato la discrezionalità del Legislatore nell’alterare, a piacimento, gli adempimenti notificatori e, quindi, cancellando o inserendo la “CAN”, o altri incombenti già riconosciuti essenziali nel comune procedimento notificatorio, al fine di ridurre il più possibile lo scarto tra “conoscenza legale” e “possibilità di conoscenza effettiva” da parte del destinatario dell’atto, quali garanzie aggiuntive miranti alla “conoscenza effettiva” della notifica. Non si può che osservare, d’altra parte, come quest’ultima non sia null’altro che una constatazione fenomenica, a posteriori, che la legge non può che tutelare attraverso incombenti notificatori, volti a salvaguardare il piano della “possibilità della conoscenza”, come riconosciuto in via consolidata dalla Corte di Cassazione, laddove quest’ultima non coincide necessariamente con il piano della “conoscenza legale”; specie ove il plico venga consegnato ad un terzo, non direttamente vincolato da legami di luogo e personali al destinatario della notifica. Inoltre, sotto il profilo interpretativo, l’affermata indifferente espansione o riduzione degli elementi di una valida notificazione da parte del Legislatore, è atta ad influenzare anche la funzione della “CAN”, ove prevista, degradandola nuovamente ad un mero “duplicato postale” e, quindi, inidonea comunque ad influire sulla validità della notificazione.

(8) F. d’Ayala Valva, Sulla notificazione di un avviso di accertamento a società, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., II, 1982, 133.


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Le contraddizioni concettuali si intrecciano lungo l’iter argomentativo e si infrangono contro un malinteso concetto di “semplificazione”, inteso come un taglio alle condivise garanzie di “possibilità di conoscenza” dell’atto da parte del destinatario, ed idoneo malamente ad orientare, oltre alle scelte del Legislatore, anche i parametri costituzionali. Tanto più che ci si deve chiedere se il mero invio di una raccomandata informativa sia idonea ad intralciare il programma di snellimento delle procedure di notificazione, o se, piuttosto, si tratti di un semplice atto notificatorio, il cui peso è stato mal ponderato con riferimento alle esigenze di maggiore rapidità delle procedure di notificazione, a tutela del favor fisci, in evidente disequilibrio rispetto all’interesse del destinatario ad una garanzia di possibilità di conoscenza del plico consegnato a terzi. Il risultato opinabile dell’iter interpretativo è che la Consulta, invece di disapprovare le scelte del Legislatore non “in forma” con le garanzie del comune procedimento notificatorio, registra ed avalla una inversione di tendenza “a-garantista”, ove la legittimazione a ricevere il plico, anche di terzi non legati da vincoli diretti, di luogo e personali con il destinatario dell’atto, valga ad integrare i requisiti di una valida notificazione. Prevale, dunque, il concetto di “conoscenza legale” sul concetto di “possibilità di conoscenza”, laddove il Legislatore pare l’unico soggetto deputato a decidere, a seconda dei procedimenti notificatori, se le garanzie di legge poste a presidio della “possibilità di conoscenza” del plico siano o meno fondamentali. 3. La “rimessione in termini”, quale rimedio alla mancata tempestiva conoscenza dell’atto. – Ancor più offuscata è la sovrapposizione della Consulta tra i concetti di “effettiva possibilità di conoscenza” ed “effettiva conoscenza” dell’atto notificato. Il primo attiene, difatti, agli strumenti di garanzia approntati dalla legge al fine di diminuire lo scarto tra “conoscenza legale” e “conoscenza effettiva”; il secondo attiene ad una realtà fenomenica, la cui indagine è successiva alla integrazione di una valida notificazione di legge. In tal senso, è opinabile lo sforzo della Consulta di appianare le lacune del procedimento notificatorio, richiamando l’istituto della “rimessione in termini” (9).

(9) Si segnala che l’impostazione della Consulta è stata già recepita dalla Suprema Corte. Si rimanda, al riguardo, a Cass., 22 ottobre 2018, n. 26580, in CED, www.italgiure.giustizia.it.


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In particolare, è foriero di critica il riempimento del gap notificatorio, invocando una indagine di fatto particolare sulla mancata conoscenza effettiva del plico da parte del destinatario. La “rimessione in termini” soppianta, quindi, nella procedura notificatoria ex art. 26 citato, un fondamentale presupposto legale, che è la garanzia di legge della “possibilità di conoscenza” dell’atto, non essendo quest’ultima presumibile ex se, in mancanza di un legame diretto, di luogo e personale, tra il terzo estraneo (vicino di casa o portiere) ed il destinatario del plico. L’effetto ottenuto dell’impostazione della Corte, dunque, è che la notifica, a chiunque effettuata tra i soggetti formalmente legittimati dal Legislatore, anche se terzo estraneo al destinatario, si intenda sempre perfezionata, integrando una ipotesi di “conoscenza legale” del plico. È bene osservare, difatti, che nell’iter interpretativo della Consulta, la “rimessione in termini” non incide sulla regolarità della notifica, una volta approntate tutte le formalità notificatorie; incide, invece, bruscamente sul destinatario dell’atto, il quale, dinanzi al perfezionarsi del procedimento formale, è soggetto ad una rigorosa indagine giudiziale, di fatto, sulla causa, a sé non imputabile, di mancata conoscenza effettiva dell’atto. Il “correttivo” interpretativo della Consulta, allontana, in realtà, le prerogative di difesa del notificatario, non potendosi ammettere un aggravio della posizione particolare di quest’ultimo, in ragione di una assunta ragionevole assenza di garanzie di legge, volte a colmare il divario tra “conoscenza legale” e “possibilità di conoscenza” della notifica da parte del destinatario, specie laddove l’atto venga consegnato a soggetto terzo, estraneo (ovvero non direttamente legato al destinatario da legami diretti ed immediati, di luogo e personali con il destinatario). In particolare, non pare ammissibile una indagine fenomenica sulla “causa non imputabile” della mancata conoscenza effettiva del plico, laddove non si possa neanche presumere una “possibilità di conoscenza” dello stesso da parte del destinatario, non informato mediante raccomandata “CAN” della consegna del plico al terzo, estraneo. Manca, in specie, quel ponte di collegamento, atto a far presumere una possibilità di conoscenza della notifica da parte del destinatario, ove avvenuta a mani di soggetto terzo, estraneo. Occorre, quindi, osservare, che, mancante la “CAN”, la causa di non imputabilità, al destinatario della notifica, della mancata conoscenza effettiva del plico risiederebbe, paradossalmente, proprio in via generale, nella assenza di presunzione di “possibilità di conoscenza” del plico, laddove consegnato a


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soggetto terzo, privo di legami diretti, di luogo e personali, con il destinatario. L’ipocrisia interpretativa è, dunque, un artifizio a salvaguardia dell’integrità dell’art. 26, comma 1, Dpr 602/1973, inidoneo, però, a tutelare la posizione del destinatario della notifica, proprio alla stregua dei parametri costituzionali invocati. In altri termini, la Corte ha volutamente eluso il problema sollevato, in relazione al dubbio di incostituzionalità della differente e ridotta procedura notificatoria, esclusivamente prevista per gli atti dell’Amministrazione finanziaria. Anche sotto questo profilo, sembrerebbe che il peso della parte pubblica, a favore della quale è stata prevista ed attuata una normativa semplificata, abbia orientato le scelte della Consulta. Sul notificatario ricadrà, difatti, il peso del boomerang interpretativo, in quanto sullo stesso incomberà una prova presuntiva sulla mancata “conoscenza effettiva” del plico, che non potrà che risiedere nel generale divario tra “conoscenza legale” e “conoscenza effettiva”, volutamente non colmato dalla Consulta, con il riferimento alla garanzia legale della “CAN”. In questo contesto, il richiamo all’art. 6 L. 212/2000 è, quindi, una farsa, trasformandosi in un improprio manifesto, privo di significato, laddove il procedimento notificatorio per dirsi valido, espunte le garanzie di legge intermedie di “possibilità di conoscenza effettiva” del plico, sia quello concluso con la consegna a mani di terzi, estranei (10). L’istituto della rimessione in termini è, dunque, un palliativo ad una evidente disparità tra procedimenti notificatori, alcuni dei quali non si attengono alle comuni regole, riconosciute tanto dal Legislatore, quanto dal “diritto vivente” e dalla stessa Consulta, atte a garantire un collegamento tra la conoscenza legale e la conoscenza effettiva del plico, attraverso strumenti aggiuntivi funzionali a rendere effettivamente possibile la conoscenza della notifica, anche se effettuata a mani di terzi. 4. La evidente necessità di un coordinamento delle procedure notificatorie. – Si auspica, quindi, in un ripensamento dei procedimenti “speciali” di

(10) Sulle garanzie di conoscenza effettiva della notificazione degli atti tributari, M. BruGaranzie di “conoscenza effettiva” nella notificazione di atti tributari a contribuenti residenti all’estero ed iscritti all’AIRE, in GT, 2013, 633; M. Nardelli, La notifica tra conoscenza effettiva e conoscibilità legale, nota a Cass., 20 febbraio 2018, n. 4049, in Corr. trib., 2018, 1564. zzone,


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notificazione, atteso che, una volta consolidata in via generale per i comuni procedimenti, la necessità delle garanzie di legge tendenti ad assicurare la “possibilità di conoscenza” del plico, non può ritenersi recessiva la tutela del notificatario per ragioni di “semplificazione”, ovvero per ragioni di speditezza e celerità nella riscossione, come argomentato sul finire dell’iter espositivo. In particolare, pare non in linea con i principi acquisiti di tutela del diritto di difesa ed azione, l’immagine distorta, che le garanzie legali, comuni, di “possibilità di conoscenza effettiva” della notifica, da parte del destinatario, possano intralciare la speditezza della riscossione. Si può osservare che la Corte avalla una azione dell’Agenzia delle Entrate nei confronti di un destinatario, non necessariamente consapevole dell’aggressione patrimoniale, con evidente stravolgimento dei canoni costituzionali esaminati e di quelli condivisi CEDU; avalla una sproporzione tra i poteri di azione rapida, addirittura esecutiva, riconosciuti in capo all’Amministrazione finanziaria, rispetto a quello di difesa del contribuente; avalla, più in generale, una idea di “semplificazione” che contrasta con la necessità di tutelare, tramite gli strumenti di legge, la “possibilità di conoscenza effettiva” della notifica, una volta che questi ultimi siano stati riconosciuti necessari in via ordinaria. L’istituto della “rimessione in termini” non può, dunque, essere la risposta alla assenza delle garanzie notificatorie previste in via ordinaria, in quanto, dinanzi ad una notifica perfetta, si pone il contribuente in una condizione di prova, tanto particolare, quanto impossibile, di non aver avuto conoscenza di una notifica, perfezionatasi per legge; non si garantisce, quindi, allo stesso la sicura opponibilità della pretesa tardivamente conosciuta. A ciò si aggiunga la stringente discrezionalità del Giudice, dinanzi ad una istanza di parte. Significativa, in tal senso, la conclusione della Consulta, che rimette “al prudente apprezzamento del giudice della controversia valutare ogni comprovato elemento presuntivo (art. 2729 cod. civ.), offerto dal destinatario della notifica “diretta” della cartella di pagamento – il quale, pur essendo integrata un’ipotesi di conoscenza legale in ragione del rispetto delle formalità (tanto più che semplificate) dell’art. 26, primo comma, secondo periodo, assuma di non aver avuto conoscenza effettiva dell’atto per causa a lui non imputabile – al fine di accogliere, o no, la richiesta di rimessione in termini”. In capo al contribuente non è, dunque, riconosciuto alcun diritto di difesa ed azione, per il fatto in sé che non sia stato possibile, in assenza della “CAN”, conoscere la notifica consegnata a mani di terzo estraneo. Tutt’altro a dirsi, sullo stesso incombe – nonostante il vulnus della mancanza di un tassello necessario a rendere per lo meno possibile, prima ancora


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che effettiva, la conoscenza del plico consegnato a terzo estraneo – un onere impossibile, essendo richiesto di provare un quid pluris, in punto di fatto, idoneo a superare una notifica perfetta e valida. Il diritto di difesa e di azione, garantiti dall’art. 24 della Costituzione e dall’art. 6 CEDU, degrada, dunque, ad una mera ed aleatoria possibilità. Al riconosciuto vuoto della disposizione speciale non corrisponde, quindi, alcun adeguato “correttivo”, che non potrà che essere normativo, al fine di riallineare le comuni garanzie di legge, anche in relazione ai procedimenti “speciali”. In particolare, il “mito” della “semplificazione” viola la comune posizione delle parti alla corretta e rapida realizzazione dei rispettivi interessi, sottesi alla procedura di notificazione, laddove la mancata possibilità di conoscenza effettiva del plico è atta a minare il risultato finale della notificazione, falsando il procedimento, rallentando o distorcendo il corretto consolidarsi delle rispettive posizioni.

Francesco d’Ayala Valva, Licia Fiorentini


Commissione Tributaria Provinciale di Parma, sez. I, 17 aprile 2018 - 5 luglio 2018, n. 271 - Pres. Cavani, rel. Volpi Imposte sui redditi – IMU – Deducibilità parziale – Reddito lordo – Reddito netto – Forfetizzazione – Arbitrarietà – Violazione principio capacità contributiva – Non manifesta infondatezza Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 del d.lgs. n. 14/2011, per violazione del principio di capacità contributiva e per arbitrarietà, nella parte in cui prevede che l’IMU versata sugli immobili strumentali all’impresa e alla professione sia deducibile dall’imponibile reddituale nella misura del 20%: tale disposizione, infatti, determina l’assoggettamento a imposizione di un reddito lordo e fittizio e dà luogo a una forfetizzazione arbitraria siccome priva di collegamento aritmetico o logico con la realtà che vuole forfetizzare. (1)

(Omissis) Premesso che questo Collegio ritiene che la questione di illegittimità costituzionale sollevata dalla difesa ricorrente per contrasto tra l’art. 14 del D.Lgs. n. 23/2011, che prevede la deducibilità parziale al 20% dell’IMU dal reddito rilevante ai fini IRES/IRPEF, con l’art. 53 Cost. sia rilevante e non manifestamente infondata; Quanto alla sommaria delibazione di fondatezza della questione di legittimità costituzionale, questo Collegio ritiene che la questione non sia manifestamente infondata. Infatti, la parziale indeducibilità dell’IMU dalla base imponibile ai fini IRES/ IRPEF confligge, con tutta evidenza, con il principio di capacità contributiva espresso dall’art. 53 Cost. atteso che l’IRES/IRPEF finisce per gravare, non già su di un reddito netto e realmente indicativo della capacità contributiva, bensì su di un reddito lordo e fittiziamente attribuito al contribuente, per effetto della mancata deduzione dell’IMU già versata; la forfetizzazione dei costi “può essere uno strumento per consentire al fisco e al contribuente di accertarli con maggiore correttezza e facilità, nel rispetto del principio di certezza del diritto”, ma “non consente al legislatore di allontanarsi in misura rilevante dalla realtà reddituale”; la parziale deduzione dall’imponibile IRES/IRPEF del 20% dell’IMU pagata, in-


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trodotta dal legislatore con l’art. 14 del D.Lgs. n. 23/2011 al fine di evitare le censure di illegittimità costituzionale, non fondandosi su alcun collegamento aritmetico o logico, diretto o indiretto, sia pur vago, fra deduzione forfetaria e deduzione analitica non vale a dissipare i dubbi di legittimità costituzionale ma anzi fa cadere in sospetto di incostituzionalità anche la norma sopravvenuta, in quanto il forfait operato dal legislatore pare arbitrario, mancando qualsiasi collegamento con la realtà che si vuole forfetizzare; la rilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale appare evidente atteso che la decisione della presente controversia non può prescindere dall’applicazione dell’art. 14 del D.Lgs. n. 23/2011; P.Q.M. Sospende il presente giudizio e contestualmente; dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Manda alla segreteria per la notifica della presente ordinanza alle parti in causa, al Presidente del Consiglio dei ministri e la comunicazione ai presidenti delle due Camere. (Omissis)

(1) I principi di capacità contributiva e di uguaglianza alla prova della parziale indeducibilità dell’IMU dal reddito d’impresa Sommario: 1. L’ordinanza di rimessione. – 2. I principi costituzionali rilevanti. – 2.1. Il principio di capacità contributiva. – 2.2. Il principio di uguaglianza. – 2.3. I rapporti tra tali principi. – 3. L’applicazione dei predetti principi nel caso di specie. –3.1. La probabile infondatezza della q.l.c. basata sulla nozione di “reddito netto”. – 3.2. La probabile infondatezza della q.l.c. basata sul requisito di effettività della capacità contributiva. – 3.3. La probabile fondatezza della q.l.c. basata sull’arbitrarietà della disposizione. – 4. Conclusione. Lo scritto esamina il tema dei rapporti tra principio di capacità contributiva e principio di uguaglianza, alla luce della giurisprudenza costituzionale. I risultati della disamina vengono utilizzati per vagliare la fondatezza dell’ordinanza della Commissione Tributaria Provinciale di Parma che rimette alla Corte Costituzionale la valutazione della costituzionalità della norma che dispone la limitazione alla deducibilità dell’IMU dalle imposte sui redditi; si conclude che i dubbi del giudice rimettente meritano di essere considerati fondati e che la norma in questione merita di essere dichiarata incostituzionale. The essay examines the issue about the relationships between the principle of contributory capacity and the principle of equality, at the light of the Italian constitutional jurisprudence. The results of the analysis are used to assess the correctness of the ordinance of the Tax Court of Parma which assigns to the Constitutional Court the assessment of constitutionality of the rule that establishes a deductibility limit of IMU (real estate local


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tax) from income tax; the conclusion is that the ordinance is correct and that the aforementioned rule should be declared unconstitutional.

1. L’ordinanza di rimessione. – Con ordinanza n. 271/I/2018 del 5 luglio 2018, la Commissione Tributaria Provinciale di Parma ha rimesso alla Corte Costituzionale la decisione della questione della legittimità dell’art. 14 del d.lgs. n. 23/2011 nella parte in cui consente la deduzione dal reddito d’impresa (o professionale) soltanto di una percentuale dell’IMU pagata sugli immobili strumentali d’impresa (o professionali), anziché della integralità di essa. In particolare, secondo la Commissione parmense la parziale indeducibilità dell’IMU stabilita dalla predetta norma confliggerebbe “con il principio di capacità contributiva espresso dall’art. 53 Cost., atteso che l’IRES/IRPEF finisce per gravare, non già su di un reddito netto e realmente indicativo della capacità contributiva, bensì su di un reddito lordo e fittiziamente attribuito al contribuente, per effetto della mancata deduzione dell’IMU già versata”: e ciò considerato che “la forfetizzazione di costi può essere uno strumento” ammesso dall’ordinamento tributario “ma non consente al legislatore di allontanarsi in misura rilevante dalla realtà reddituale” e che “il forfait operato dal legislatore pare arbitrario, mancando qualsiasi collegamento… aritmetico o logico, diretto o indiretto, sia pur vago, fra deduzione forfetaria e deduzione analitica” nonché “con la realtà che si vuole forfetizzare”. Come si vede, l’ordinanza risulta particolarmente stringata, ma non per questo difetta dei requisiti di ammissibilità. In specie, pur menzionando espressamente come parametro di costituzionalità esclusivamente l’art. 53 Cost., essa non manca di operare riferimento anche a un principio – quello della non arbitrarietà delle previsioni normative – che chiaramente rimanda al parametro di cui all’art. 3 Cost. Sembra dunque possibile affermare che, stante il potere/dovere di interpretazione dell’ordinanza di rimessione facente capo alla Corte Costituzionale, il giudizio di costituzionalità relativo all’art. 14 del d.lgs. n. 23/2011 dovrà essere condotto sia con riferimento all’art. 53 Cost., sia con riferimento all’art. 3 Cost. 2. I principi costituzionali rilevanti. – In questa prospettiva, la questione che si presenta offre, per un verso, l’occasione di cercare di tracciare una linea di demarcazione teorica tra principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. ed ambito applicativo in materia tributaria dei principi desumibili dall’art. 3 Cost. (in particolare, uguaglianza, ragionevolezza e razionalità),


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così spesso accoppiati (anche nella giurisprudenza costituzionale) da poter apparire sovrapposti, e, per altro verso, un utile banco di prova concreto per verificare la demarcazione tracciata. 2.1. Il principio di capacità contributiva. – Il principio di capacità contributiva espresso dall’art. 53 Cost. può dirsi caratterizzato da un versante estrinseco e da un versante intrinseco. Il versante estrinseco attiene alla individuazione dei fatti suscettibili di assurgere a presupposto di concorso alle pubbliche spese, richiedendo che essi abbiano carattere economicamente apprezzabile (1), al collegamento di essi con la tax unit appropriata (2) nonché alla ordinata strutturazione complessiva del riparto dei carichi pubblici, anche sotto il profilo procedimentale (che incide sulle modalità di attuazione del riparto stesso) (3). Il versante intrinseco individua, per ciascuna categoria di presupposti di concorso alle pubbliche spese, contenuti specifici necessari che

(1) “Per capacità contributiva, ai sensi dell’art. 53 Cost., deve intendersi l’idoneità del soggetto all’obbligazione d’imposta, desumibile dal presupposto economico al quale la prestazione risulta collegata, presupposto che consiste in un qualsiasi indice rivelatore di ricchezza”: così, per tutte, Corte Cost., n. 400/1987, par. 5, anche con riferimento a Corte Cost., n. 178/1986. Il profilo risulta fermo nella giurisprudenza precedente (cfr., a titolo esemplificativo, Corte Cost., n. 120/1972, par. 3, ove si specifica che il principio di capacità contributiva “deve essere inteso come espressione della esigenza che ogni prelievo tributario abbia causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza”; Corte Cost., n. 54/1980, par. 2) e successiva. Prendendo atto che il comma 1 dell’art. 53 Cost. non circoscrive il proprio ambito applicativo alle imposte, appare possibile specificare che i fatti indice di capacità contributiva possono consistere tanto in vicende fronteggiate da determinati interventi pubblici a favore di specifici soggetti, come la richiesta di una concessione amministrativa, quanto in vicende non collegate a interventi del genere, come il possesso di un reddito. (2) Il profilo della “personalità” della capacità contributiva è stato preso in esame, ad esempio, da Corte Cost., n. 92/1972, n. 120/1972, n. 68/1985, n. 219/1988, n. 184/1989, n. 557/2000, n. 27/2018, parr. 4.4. e 4.5., nonché dalla nota sentenza della Corte Cost., n. 179/1976, che ha dichiarato illegittimo il cd. “cumulo” dei redditi coniugali muovendo, peraltro, da presupposti (e giungendo a risultati) non del tutto condivisibili. Per approfondimenti sui profili di non condivisibilità di tale sentenza e sulle potenzialità che il principio di capacità contributiva mostra sotto il profilo della individuazione della tax unit più appropriata cfr. F. Farri, Un fisco sostenibile per la famiglia in Italia, Padova, 2018, 33 ss., 69 e 112. (3) Sulla dimensione procedurale del principio di capacità contributiva cfr. F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2015, 643 ss.; in giurisprudenza, tra le ultime, Corte Cost., n. 139/2015, par. 3.2. (la quale ha confermato l’ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale di norme procedimentali sollevate con riferimento all’art. 53 Cost.), n. 181/2017, par. 4; naturalmente, la dimensione procedurale si distingue dagli aspetti propriamente processuali, pacificamente estranei all’alveo applicativo del principio di capacità contributiva (cfr., tra le molte, Corte Cost., n. 181/2007, n. 18/2000, n. 172/1986).


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il legislatore è chiamato a soddisfare in coerenza con le caratteristiche interne proprie di ciascuna categoria: ad esempio, e come noto, per i fatti suscettibili di assurgere a presupposto di concorso alle pubbliche spese a prescindere da interventi pubblici specifici (in sintesi, per i presupposti di prelievi di carattere impositivo) il principio di capacità contributiva richiede che il presupposto sia idoneo a indicare una forza economica effettiva (4) ed attuale (5) nonché, secondo un originario orientamento della giurisprudenza costituzionale, recepito dalla dottrina largamente prevalente, tale da fornire all’obbligato i mezzi per far fronte al pagamento senza privarlo dei mezzi necessari per vivere (6) e senza spogliarlo integralmente della forza economica del fatto stesso (7).

(4) Corte Cost., n. 50/1965 (“per capacità contributiva deve intendersi l’idoneità soggettiva alla obbligazione d’imposta, deducibile dal presupposto al quale la prestazione è collegata ... Il riferimento di quel presupposto alla sfera dell’obbligato deve risultare da un collegamento effettivo, e che ad un indice effettivo deve farsi capo per determinare la quantità dell’imposta che da ciascun obbligato si può esigere”), n. 92/1972, n. 200/1976 (il cui par. 3 evidenzia come l’art. 53 richieda di “garantire il diritto del contribuente ad essere chiamato a concorrere alle pubbliche spese, solo in quanto in possesso di effettiva capacità contributiva e di idoneità effettiva, quindi, al pagamento delle imposte”), n. 178/1986, n. 103/1991, ed echi nella sentenza n. 240/2017, par. 6.3. (5) Corte Cost., n. 45/1964, n. 44/1966 (par. 6), n. 75/1969 (parr. 3 e 4), n. 129/1973 (par. 3), n. 54/1980 (par. 2). (6) “La capacità contributiva costituisce presupposto di legittima imposizione e, solo ove sia presente, diventa metro di determinazione della quantità di imposta dovuta. Da ciò deriva che essa non coincide affatto con la percezione di un qualsiasi reddito e che vi è soggezione all’imposizione solo quando sussista una disponibilità di mezzi economici che consenta di farvi fronte. Di tal che l’esenzione dall’imposta complementare dei soggetti che godano di un reddito minimo appare pienamente legittima, collegata come essa è ad una razionale presunzione del difetto di una qualsiasi capacità contributiva. Deve anzi affermarsi che, oltre che legittima, essa è addirittura doverosa, perché il legislatore, se può discrezionalmente stabilire, in riferimento a complesse valutazioni economiche e sociali, quale sia la misura minima al di sopra della quale sorge la capacità contributiva, non può non esentare dall’imposizione quei soggetti che percepiscano redditi tanto modesti da essere appena sufficienti a soddisfare i bisogni elementari della vita: se così non disponesse, la legge finirebbe con l’imporre un obbligo di imposta anche là dove una capacità contributiva è inesistente”: così, chiaramente e per tutte, Corte Cost., n. 97/1968. (7) Il principio di capacità contributiva “condiziona la misura massima del tributo nel senso che questo non può essere mai fissato ad un livello superiore alla capacità dimostrata dall’atto o dal fatto economico”: così Corte Cost., n. 200/1972, n. 285/1985. Sul tema cfr. G. Falsitta, Il principio della capacità contributiva, Milano, 2014, 128 ss. e 195 ss.; A. Giovannini, Capacità contributiva e imposizione patrimoniale: discriminazione qualitativa e limite quantitativo, in Rass. trib., 2012, 1131 ss., par. 6; Id., Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 30 ss. La questione risulta, peraltro, assai controversa in dottrina, essendo da una parte autorevole di essa messo in discussione tanto che il principio di capacità contributiva attenga alla sussistenza delle disponibilità economiche per far fronte al pagamento del tributo, quanto


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2.2. Il principio di uguaglianza. – Nel settore del concorso alle pubbliche spese, e in particolare nel comparto tributario, i principi desumibili dall’art. 3 Cost. si combinano e contrappuntano in più modi con i profili sopra evidenziati come inerenti al principio di capacità contributiva (8). Anzitutto, anche nel settore tributario il principio di uguaglianza richiede di non trattare in modo differenziato situazioni uguali e di trattare in modo differenziato situazioni diverse così da tener conto degli elementi di diversità che le caratterizzano: tali profili di diversità, ad esempio, possono essere individuati in chiave agevolativa, ma non di diverso momento di effettuazione del versamento di un tributo (9). Inoltre, anche nel comparto tributario l’art. 3 Cost. richiede che le disposizioni risultino intrinsecamente razionali (10) e coerenti con il contesto normativo in cui si inseriscono (11).

che esso sia idoneo a fissare limiti quantitativi al prelievo (per tutti cfr. A. Fedele, voce Diritto tributario - principi, in Enc. dir., Annali, II, Milano, 2008, 453 ss.; Id., La funzione fiscale e la “capacità contributiva”, in L. Perrone - C. Berliri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, parr. 8.2. ss.; L. Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, 284 ss.). (8) Si tiene a mente, per la delineazione sistematica dei principi desumibili dall’art. 3 Cost., la schematizzazione di A. Celotto, Art. 3, 1° co., Cost., in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, Torino, 2006, 77, secondo cui “sulla base dell’art. 3 Cost. si sono sviluppate due forme di controllo: l’uno, a carattere ternario, secondo le più usate terminologie, di ‘coerenza’ o di ‘razionalità’ ,volto a sindacare le disparità di trattamento; l’altro, a carattere binario, più ampio e pervasivo, detto di ‘ragionevolezza’“, quest’ultimo a sua volta concettualmente diversificabile in “due ipotesi-base ...: quando la contraddittorietà della legge emerga dalla sua stessa interpretazione, senza necessità di ricorrere ad elementi estranei ... assumono una valenza tipica figure quali la intrinseca irragionevolezza ...; quando l’irragionevolezza della legge – cioè la sua non pertinenza o la incongruità rispetto al fine – discenda da elementi estrinseci di interpretazione; questa figura ricorre, ad es., quando si hanno deroghe alla disciplina generale, prive di giustificazione adeguata ... oppure quando si valuta la razionalità estrinseca della legge rispetto ai principi e valori costituzionali, anche in bilanciamento tra essi, in una sorta di sindacato di proporzionalità”. Tale traccia è seguita, in materia tributaria, anche da G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2017, 156 ss. (9) Corte Cost., n. 155/1963 (par. 2), n. 120/1972 (par. 3), n. 126/1979 (par. 10), n. 54/1980 (par. 3), n. 239/1983 (par. 10), n. 33/1981 (par. 3), n. 172/1986, n. 178/1986 (par. 15), n. 400/1987 (par. 7), n. 289/1994, n. 14/1995, n. 473/1995, n. 73/1996, n. 157/1996, n. 171/2001, nn. 345 e 346 del 2003, n. 275/2005, n. 270/2007, n. 36/2009, n. 227/2009 (par. 4), n. 223/2012 (par. 12.4 e par. 13.3.1.), n. 142/2014 (parr. 4 e 5), n. 201/2014, n. 83/2015, n. 111/2016, n. 17/2018 (par. 4.2.). (10) Cfr., a titolo esemplificativo, Corte Cost., n. 167/1976 (par. 3), n. 42/1980 (par. 6), n. 482/1987, n. 495/1993 (par. 6); di recente, n. 269/2017, par. 10. (11) Sembra, infatti, da ricondurre più all’ambito applicativo dell’art. 3 che non dell’art.


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Infine, anche in campo fiscale il principio di ragionevolezza deve permeare tutte le scelte del legislatore, ivi comprese quelle coinvolgenti profili attinenti al versante estrinseco e al versante intrinseco della capacità contributiva, e presidia il bilanciamento tra tali principi e l’interesse dello Stato all’acquisizione di pubbliche entrate sufficienti a mantenere in equilibrio il bilancio pubblico (12). 2.3. I rapporti tra tali principi. – Come si vede, dunque, tra principio di capacità contributiva e principi desumibili dall’art. 3 Cost. non vi è sovrapposizione, bensì combinazione e sinergia. Non vi è sovrapposizione, in quanto i contenuti del principio di capacità contributiva – sia sotto il profilo estrinseco che intrinseco – non necessariamente potrebbero essere ricavati nella loro integralità e possibile forza espansiva dal solo art. 3 Cost.: e in ciò sta un primo profilo di autonomia concettuale e di “utilità” della costituzionalizzazione del principio di capacità contributiva. Ma vi è una stretta correlazione e sinergia, perché i principi desumibili dall’art. 3 Cost. devono costituire costante parametro per applicare in modo appropriato i contenuti del principio di capacità contributiva. Né, d’altra parte, si pone in contrasto con quanto sopra dedotto l’assunto, costituente ormai diritto vivente, per cui il principio di capacità contributiva

53 la verifica della “coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione”, cui opera riferimento Corte Cost., n. 10/2015, par. 6.2. e che alcune pronunce precedenti (v. sent. n. 111/1997, con nota di E. Marello, Sui limiti costituzionali dell’imposizione patrimoniale, in Giur. it., 1997, I, 476 ss.) riconducevano direttamente all’art. 53, ancorché poi si sia specificato (v. sent. n. 223/2012, par. 13.3.1., sent. n. 116/2013, par. 7.3.) che ciò avviene soltanto in quanto “specificazione del fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.”. (12) Sul punto, per tutti, P. Boria, Art. 53, in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, cit., parr. 2.3. - 2.8. È sotto tale profilo che le decisioni della Corte Costituzionale italiana hanno testo a manifestare, forse, la massima deferenza nei confronti della discrezionalità del legislatore, rivelandosi spesso abilissime nel trovare un “buon motivo” per sostenere che il bilanciamento effettuato dal legislatore, a cominciare dalla determinazione dell’entità e proporzionalità dell’onere tributario imposto, non può essere sindacato perché non sarebbe manifestamente irrazionale o arbitrario (cfr., tra le molte, Corte Cost., n. 92/1972, n. 159/1985, par. 5.1., n. 336/1992, par. 3, n. 355/1995). Va rilevato, comunque, che nella giurisprudenza degli ultimi anni sembrano tornati ad avere un peso specifico nel predetto bilanciamento anche i principi che con l’interesse dello Stato all’acquisizione di entrate vanno composti, a cominciare dal principio di capacità contributiva (cfr., ad esempio, Corte Cost., n. 7/2017, il cui par. 4.1. opera peraltro precipuo riferimento all’art. 3 Cost.; lo stesso dicasi per la sent. n. 192/2015, par. 5.1.; n. 10/2015, i cui parr. 8 e 9 introducono il rilievo di un elemento temporale in tale bilanciamento; n. 142/2014).


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costituisce “specificazione settoriale del più ampio principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.” (13). In via preliminare, è dato osservare che ciò vale in certo senso per tutti i principi costituzionali (14), poiché il principio di uguaglianza “condiziona tutto l’ordinamento nella sua obbiettiva struttura” (Corte Cost., n. 25/1966) e, così, è normale constatare che esso “orienta in maniera decisiva l’interpretazione delle altre disposizioni costituzionali” e che la portata delle “numerose disposizioni costituzionali che attribuiscono diritti [o assegnano doveri] indistintamente a ‘tutti’ o ai ‘cittadini’… va intesa, ovviamente come rafforzamento e specificazione del principio di eguaglianza formale nei diversi settori” (15). Sotto altro profilo, il carattere di specificazione del principio di uguaglianza rivestito dal principio di capacità contributiva rappresenta un portato della correlazione e sinergia particolarmente stretta intercorrente tra i due principi e del maggior ambito di estensione del primo rispetto al secondo (che induce a ritenere il secondo alla stregua di una specificazione del primo, piuttosto che viceversa). In particolare, sotto il profilo dell’assetto del riparto delle pubbliche spese, la combinazione tra detti principi fa sì, per un verso, che l’individuazione di un presupposto di concorso (eminentemente attinente al profilo estrinseco della capacità contributiva) richieda la selezione di una situazione sociale suscettibile di differenziare la posizione del relativo titolare in termini di manifestazione dell’attitudine alla contribuzione (ciò che si traduce in un tipica valutazione della uguaglianza o diseguaglianza tra situazioni) (16) e, per altro verso e correlativamente, che le situazioni assunte a presupposto del riparto rappresentino il primo parametro con riferimento al quale condurre i giudizi di uguaglianza e ragionevolezza in materia, in quanto per stabilire quando vi è uguale contribuzione occorre verificare se essa è ugualmente commisurata rispetto a (ossia “in ragione del”) l’indice di capacità contribu-

(13) Così, tra le moltissime, Corte Cost., n. 10/2015, par. 6.2., anche con riferimento a Corte Cost., n. 258/2002, n. 341/2000, n. 120/1972, n. 155/1963. (14) Trattasi, in effetti, di insegnamento tradizionale quello per cui “il principio di eguaglianza ... sembra avere un valore amplissimo, quasi di sfondo e di chiusura rispetto a tutti gli altri articoli della Costituzione” (così, icasticamente, A.S. Agrò, Art. 3, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, I, Bologna-Roma, 1975, 129). (15) A. Celotto, op. cit., 68 e 76. (16) Il concetto è espresso con particolare chiarezza da G. Fransoni, Discorso intorno al diritto tributario, Pisa, 2017, 68 ss.


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tiva prescelto. È in questo senso che può affermarsi come la stessa individuazione dei presupposti di concorso alle pubbliche spese rappresenti una forma di specificazione del principio di uguaglianza; analogamente, il carattere economico che tali presupposti devono assumere in base al principio di capacità contributiva appare necessitato alla luce dello stesso principio di razionalità, parendo discutibile la ragionevolezza di un sistema che imponga prestazioni preordinate a una funzione economica (quali sono i tributi, preordinati al finanziamento della spesa pubblica) in relazione a presupposti privi di tale connotazione. Ragionando in questi termini, dunque, i contenuti del principio di capacità contributiva (tanto estrinseci, quanto intrinseci) vengono a costituire gli aspetti specifici e indefettibili sui quali deve concentrarsi in materia tributaria ogni giudizio di ragionevolezza delle decisioni legislative (17), giudizio che, altrimenti, potrebbe assumere anche nel comparto tributario – e, purtroppo, di fatto assume nonostante l’art. 53 Cost. (18) – quei contorni eccessivamente vaghi e incerti che il Costituente ha in questo settore voluto specificamente scongiurare (19). In questa prospettiva, peraltro, la constatazione che ordinamenti le

(17) Per questa via, ad esempio, il requisito della effettività può essere valutato in termini di id quod plerumque accidit o comunque di possibilità di fornire prova contraria (cfr., Corte Cost., n. 228/2014, par. 4, n. 225/2005, n. 346/2003, n. 41/1999, n. 263/1994, par. 7.1., n. 22/1992, n. 131/1991, par. 2, n. 528/1989, n. 982/1988, n. 298/1988, n. 21/1988, n. 586/1987, n. 431/1987, par. 6, n. 334/1987, n. 283/1987, par. 14, n. 103/1983, n. 107/1971, n. 99/1968, nn. 103/1967 e 109/1967, par. 4, n. 77/1967, par. 2, n. 16/1965 sul sistema catastale) e il requisito di attualità in termini anche di prevedibilità della misura di prelievo e di ragionevolezza del lasso temporale intercorrente tra manifestazione di capacità contributiva e istituzione del prelievo (cfr. Corte Cost., n. 75/1969, par. 3, n 143/1982, par. 10, n. 315/1994, par. 4, n. 14/1995, par. 2, n. 410/1995, par. 5, n. 21/2015). (18) Lo riconosce anche la dottrina che maggiormente svaluta l’autonomia concettuale del principio di capacità contributiva rispetto al principio di uguaglianza (L. Paladin, Il principio di eguaglianza tributaria nella giurisprudenza tributaria italiana, in Riv. dir. trib., 1997, I, 314, il quale parla di strutturale “inadeguatezza dei rimedi forniti dalla giurisprudenza costituzionale” ed evidenzia che la Corte Costituzionale italiana in materia tributaria “ha talvolta concorso nell’esasperarli o nel consolidarli”). (19) Sottolinea la vaghezza e incertezza, per non dire il carattere confusionario, del sindacato di ragionevolezza eseguito dalla Corte Costituzionale italiana A. Celotto, op. cit., 83 e 81, il quale afferma che “la giurisprudenza costituzionale sulla ragionevolezza appare ormai del tutto ingovernabile” e osserva che “la Corte fa un uso ... spesso impreciso, anche terminologicamente ... dei principi di ragionevolezza, razionalità e affini nelle motivazioni delle proprie decisioni, senza aver mai fatto emergere - a differenza di altri Tribunali costituzionali - quegli ‘schemi’ e ‘standard’ di giudizio, che contribuiscono in maniera decisiva alla chiarezza e alla intelligibilità delle decisioni e alle esigenze di auto - e di etero - controllo”. Per quanto attie-


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cui Carte costituzionali non positivizzano il principio di capacità contributiva (ma soltanto quello di uguaglianza) giungano a offrire – grazie all’opera delle Corti Costituzionali incentrate sull’interpretazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza – tutele e garanzie equivalenti e anche maggiori rispetto a quelle garantite in Italia (20), non dovrebbe indurre soltanto al rammarico per l’orientamento riduttivo portato avanti dai giudici di Palazzo della Consulta, ma anche alla constatazione che tale lettura svalutativa non dipende di per sé dall’affermazione della strettissima correlazione esistente tra il principio di capacità contributiva e quello di uguaglianza, quanto piuttosto da una tendenza a far prevalere le ragioni erariali rispetto a quelle dei contribuenti (21)

ne alla materia tributaria, un esempio di confusione, anche terminologica e concettuale, nelle decisioni della Corte può essere individuato nella nota sent. n. 179/1976, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il cd. “cumulo” dei redditi familiari e con riferimento alla quale è possibile affermare che dietro a una motivazione basata su una certa lettura dell’art. 53 Cost. vi siano in realtà ragioni chiaramente attinenti all’art. 3 Cost. in termini di irragionevolezza del trattamento IRPEF deteriore di chi era sposato rispetto a quello di chi non lo era (per più approfondite considerazioni cfr., se si vuole, F. Farri, Un fisco sostenibile per la famiglia in Italia, cit., 69, con riferimento a A. Fedele, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, in Giur. cost., 1976, I, 2164-2166; F. Gallo, Regime fiscale della famiglia e principio di capacità contributiva, in Riv. dir. fin., 1977, I, 94). In senso analogo, la nota sent. n. 42/1980, che ha dichiarato parzialmente incostituzionale la disciplina dell’ILOR, ha provveduto alla riunione di ben tredici ordinanze di rimessione, le cui motivazioni si fondavano tanto sulla base dell’art. 3 che dell’art. 53 Cost. e i cui argomenti si presentavano “duplici e di segno apparentemente opposto”, e con riferimento alle quali essa ha pragmaticamente agito considerando (par. 3) che sostanzialmente esse “si risolvono, in realtà, nei diversi aspetti di un’unica questione di legittimità costituzionale”, talché non è possibile distinguere concettualmente gli aspetti attinenti al principio di uguaglianza e quelli attinenti al principio di capacità contributiva. (20) Cfr., ad esempio e con riferimento al sistema tedesco, G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 240 e 254 ss.; Id., I divergenti orientamenti giurisprudenziali in Italia e in Germania sulla incostituzionalità delle imposte dirette che espropriano l’intero reddito del contribuente, in Riv. dir. trib., 2010, I, 139 ss. (21) Tendenza che può essere determinata dalle più disparate cause, che possono spaziare da una cultura giuridica di fondo a una particolare attenzione al precario equilibrio dei conti pubblici, che caratterizza la Repubblica Italiana rispetto ad altre realtà. In proposito, può essere utile osservare come la correlazione del principio di capacità contributiva al principio di uguaglianza in termini di criterio di riparto delle pubbliche spese non postuli, di per sé, l’affermazione di una preminenza assiologica delle pubbliche spese rispetto alla capacità della persona di farvi fronte. Nel rapporto tra spese pubbliche e tributi, invero, appare come strutturale il semplice riconoscimento alle prime di una priorità di carattere logico (in mancanza di spese pubbliche, infatti, priva di senso logico risulterebbe l’imposizione di tributi, fermo restando che la solidarietà interpersonale potrebbe, e anzi dovrebbe, comunque manifestarsi in termini di oblatività interpersonale), mentre l’assegnazione ad esse di una priorità di carattere


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che sbilancia a favore delle prime la conduzione del giudizio di uguaglianza e ragionevolezza a prescindere dai punti fermi che la stessa Costituzione ha voluto ad esso imprimere in materia. Peraltro, l’osservazione dello stretto legame sussistente tra principio di capacità contributiva e principio di eguaglianza non toglie che il principio di capacità contributiva si correli strettamente anche ad altri principi costituzionali. Al riguardo, è anzi possibile affermare che gli specifici contenuti estrinseci ed intrinseci del principio di capacità contributiva, i quali come si è detto danno vita a specifici vincoli che il giudizio di ragionevolezza deve rispettare in materia tributaria, costituiscono a loro volta riflessi di ulteriori principi del tessuto costituzionale e, in particolare, dei principii personalistici, di sussidiarietà e di solidarietà espressi dall’art. 2 della Costituzione (22).

assiologico e valoriale appare come il frutto, per un verso, di possibili scelte costituzionali (in Italia, la garanzia di diritti sociali di prestazione che, per loro natura, richiedono il sostenimento di qualche forma di spesa pubblica, non foss’altro sotto il profilo regolativo, appare idonea a porre questa parte di spesa pubblica su un piano assiologicamente centrale) e, per altro verso, delle scelte politiche che ne presiedono l’attuazione. Queste ultime, peraltro, non possono dirsi integralmente necessitate, scontando appunto la diversa impostazione politica e filosofica dei relativi autori: con riferimento ai diritti sociali nel sistema italiano, ad esempio, a potersi dire costituzionalmente necessitata è solo la garanzia dei livelli minimi essenziali dei diritti sociali costituzionalmente garantiti (e non tutti i diritti sociali attualmente riconosciuti dal legislatore possono dirsi tali: cfr., al riguardo, le chiare parole di A. Baldassarre, voce Diritti sociali, in Enc. giur., Roma, 1989, 12; Id., Diritti della persona e valori costituzionali, Torino, 1997, 159), mentre interventi pubblici che vadano oltre tale minimo e si dirigano in una direzione piuttosto che nell’altra non possono che essere considerati eventuali e dipendenti dalle scelte politiche e filosofiche dei relativi autori. Ne consegue che la qualificazione del principio di capacità contributiva come criterio di riparto delle pubbliche spese non implica di per sé di assumere come dato fisso quello della spesa pubblica da finanziare (salvo, come si è detto, l’eventuale minimo costituzionalmente imposto) né di giustificare, conseguentemente, il reperimento a ogni costo (e, quindi, anche al costo di non rispettare le effettive possibilità economiche dei contribuenti) di risorse per finanziarla: se la capacità economica complessiva della collettività di riferimento non consente di finanziare un certo tenore di spesa pubblica, la soluzione più ragionevole è inevitabilmente quella di limitare la spesa pubblica, non quella di rastrellare finanziamenti in situazioni nelle quali essi non siano ragionevolmente pretensibili. Il problema, come evidente, si pone laddove la capacità economica complessiva della collettività non sia sufficiente neppure a coprire il minimo di spesa pubblica da considerarsi costituzionalmente imposto: ed è in tali casi che più delicata sarà l’opera di bilanciamento rimessa alla Corte Costituzionale, venendo in gioco un problema di equilibrio tra principi supremi dell’ordinamento. Per alcuni spunti di riflessione sul tema cfr. E. De Mita, Il conflitto tra capacità contributiva ed equilibrio finanziario dello Stato, in Rass. trib., 2016, 561 ss. (22) Sia consentito rinviare, per una più diffusa dimostrazione, a F. Farri, Un fisco sostenibile per la famiglia in Italia, cit., 32 ss. L’assunto appare conforme alla tesi di F. Batistoni


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3. L’applicazione dei predetti principi nel caso di specie. – Occorre adesso calare le predette considerazioni di carattere generale nella vicenda specifica della limitazione alla deducibilità dell’IMU dal reddito d’impresa disposta dall’art. 14 del d.lgs. n. 23/2011, al fine di verificare se essa sia rispettosa dei principi di uguaglianza e capacità contributiva, ovvero se contrasti con alcuno di essi o addirittura con entrambi. 3.1. La probabile infondatezza della q.l.c. basata sulla nozione di “reddito netto”. – Per quanto attiene al principio di capacità contributiva, occorre anzitutto prendere atto che, sotto il profilo estrinseco, quello specifico fatto suscettibile di assurgere a presupposto di concorso alle pubbliche spese e consistente nel possesso di un reddito è stato dalla Corte pressoché sempre inteso – come si sta per dire – in senso nominalistico, ossia come consistente in ciò che il legislatore indica come tale. Non essendo, per la verità, generalmente contestata negli Stati moderni (23) l’idoneità del possesso di un reddito a legittimare l’imposizione di obblighi di concorrere alle pubbliche spese indipendenti da specifici interventi pubblici nei confronti del contribuente, ed essendo del resto le teorie che prospettano oggi l’abrogazione dell’imposta sul reddito collegate a valutazioni squisitamente politiche scevre da problematiche di ordine costituzionale (24), la definizione di cosa debba intendersi per reddito è stata

Ferrara, voce Capacità contributiva, in Enc. dir., agg. III, Milano, 1999, par. 4 nella parte in cui rileva che “la capacità contributiva costituisce, in materia tributaria, applicazione e sviluppo del principio di eguaglianza correlato al principio solidaristico” nel senso che “se il punto di partenza è costituito dalla ‘forza economica’ del soggetto, l’attitudine desumibile da tale forza rispetto al concorso nelle spese pubbliche deve essere valutata alla luce dei principi costituzionali che esprimono i fini che la collettività assume come propri, in relazione ai quali il giudizio può e deve essere articolato. Questi principi, alla luce del principio di solidarietà, forniscono, per così dire, l’oggetto sul quale si esercita la valutazione in base al principio di eguaglianza ... I principi costituzionali, alla luce del principio di solidarietà, danno quindi corpo all’eguaglianza nel suo aspetto sostanziale, che impone non solo di trattare in modo eguale situazioni eguali, ma anche di dettare diverso regime per situazioni diverse”. (23) L’eccezione più importante, in tal senso, è quella degli Stati Uniti d’America, per i quali la questione inerente alla legittimità di una imposta personale sul reddito giunse addirittura fino alla Corte Suprema (cfr. Pollock v. Farmers’ Loan & Trust Company, 157 U.S. 429, 1895) e richiese l’adozione di uno specifico emendamento costituzionale (il XVI) al fine di essere risolta definitivamente. Per approfondimenti al riguardo, in una prospettiva di carattere di generale, è d’obbligo il rinvio quanto meno a E.R.A. Seligman, The Income Tax: A Study of the History, Theory and Practice of Income Taxation at Home and Abroad, New York USA, 1914. (24) Per tutti, M.J. Graetz, 100 Million Unnecessary Returns: a Simple, Fair, and Competitive Tax Plan for the United States, New Haven USA, 2010.


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infatti tanto studiata dalla dottrina – che ha elaborato raffinate ricostruzioni dei concetti di reddito prodotto, di reddito entrata, di reddito spesa, di cash flow – quanto trascurata dalla Corte, la quale – come si diceva – ha senza mezzi termini affermato che costituisce reddito ciò che il legislatore indica come tale (25). L’agnosticismo di tale approccio non risulta certo apprezzabile, ma occorre prenderne atto: e l’occasione per metterlo in discussione appare, probabilmente, più semplice e propizia da un punto di vista pratico (e pur riconoscendo ovviamente la parità del problema sotto il profilo teorico) nel caso di contestazione della riconducibilità di un componente positivo al presupposto reddituale piuttosto che in un caso – come quello di specie – in cui si contesta la non piena valorizzazione di una componente negativa che dovrebbe abbattere componenti positivi pacificamente riconducibili al presupposto (quali sono i componenti positivi del reddito d’impresa). Diversamente da quanto ritenuto dalla giurisprudenza costituzionale di altri Paesi, pertanto, non sembra possibile sostenere con sicurezza che in Italia, allo stato, l’assunzione a indice di capacità contributiva del “reddito netto” (rectius: l’assunzione del criterio del reddito netto per la formazione dell’imponibile di alcune categorie reddituali, quali in particolare il reddito d’impresa) (26) costituisca regola tale da rendere incostituzionale ogni previsione che, negando la deduzione di un componente negativo, metta in discussione l’assoluta “nettezza” del dato reddituale (27). E

(25) “Per la nozione di reddito occorre fare riferimento a ciò che, nei limiti della ragionevolezza, è dal legislatore qualificato tale”: così, icasticamente, Corte Cost., n. 395/2002, con specifico riferimento anche a Corte Cost., n. 410/1995 (la quale, al par. 4, specificamente risolveva in maniera negativa la questione se “dal sistema fiscale, sia desumibile una nozione di reddito che, in quanto espressiva in sé del principio di capacità contributiva, possa costituire una sorta di archetipo al quale raffrontare le varie ipotesi di tassazione che il legislatore viene mano a mano introducendo, qualificandole come fattispecie di imposizione sul reddito”), n. 452/1995, n. 109/2002, e riecheggiando una prospettiva già tratteggiata da A. Berliri, Il testo unico delle imposte dirette, Milano, 1960; R. Rinaldi, L’evoluzione del concetto di reddito, in Riv. dir. fin., 1981, I, 439; C. Glendi, La nozione di reddito fiscale, in AA.VV., Il reddito d’impresa nel testo unico, Padova, 1988, 127. (26) Cfr., sul tema, R. Schiavolin, Prime osservazioni sull’affermata legittimità costituzionale dell’imposta regionale sulle attività produttive, in Giur. it., 2001, 1979 ss., par. 1; Id., Sulla dubbia conformità dell’Irap al principio di capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 1998, I, 737 ss.; F. Moschetti, Profili costituzionali dell’Irap, imposta disattenta alla persona e alla tutela del lavoro, in Riv. dir. trib., 1999, I, 751; G. Falistta, Aspetti e problemi dell’irap, in Riv. dir. trib., 1997, I, 508. (27) Guardando alle categorie reddituali diverse dal reddito d’impresa, del resto, è arduo affermare che il legislatore attualmente assuma a fatto indice di capacità contributiva un reddito “netto”, visto che per alcune di esse (in specie, i redditi di lavoro dipendente e i redditi di capi-


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ciò sebbene sia stato acutamente osservato che, considerando quella forma di manifestazione di capacità contributiva rappresentata da “disponibilità attuale di reddito nella sua fase di erogazione”, la ricchezza che i contribuenti hanno “già previamente impegnato per altri” non possa considerarsi costituire “loro capacità contributiva” – come recita l’art. 53 Cost. – bensì ricchezza ormai di pertinenza di terzi e, come tale, strutturalmente non più imponibile in capo ai primi (28). Considerato lo stato attuale della giurisprudenza della Corte, pertanto, appare presumibile che la valutazione si sposti piuttosto sul piano della ragionevolezza (29) e, pertanto, su un terreno più specifico rispetto a quello dell’affer-

tale; quanto ai redditi fondiari, il loro carattere meramente figurativo mette in discussione ancor più alla radice la riconducibilità a una nozione non meramente nominalistica di reddito) “la legge tributaria italiana dispone la indeducibilità di qualunque spese di produzione” (lo riconosce, peraltro, la stessa dottrina citata alla nota precedente: cfr., per tutti, G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova 2016, 13). Il discorso non cambia nella sostanza considerando la categoria del reddito d’impresa, laddove la medesima dottrina prende atto che alcune forme di limitazione alla deducibilità di componenti negativi non pongono problemi di costituzionalità e, sul piano generale, osserva che il collegamento con il bilancio civilistico (nel quale il principio della “nettezza” si applica in modo pieno) non può intendersi come principio assoluto a valenza ontologica e inderogabile (G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, cit., 32-33). Si vedano, in proposito, anche le approfondite considerazioni di G. Zizzo, Abuso di regole volte al “gonfiamento” della base imponibile ed effetto confiscatorio del prelievo, in Rass. trib., 2010, 39 ss. Sul piano della giurisprudenza costituzionale, cfr. sul tema Corte Cost., n. 404/1998, n. 293/1993 (par. 4), nn. 52 e 54 del 1988, n. 143/1982 (par. 7) e, incidentalmente, n. 160/1970, nonché, con riferimento alla idoneità del mancato rispetto degli oneri formali e procedurali a legittimare l’indeducibilità di costi (e, più in generale, alla dimensione procedurale del principio di capacità contributiva), anche Corte Cost., n. 201/1970 e n. 186/1982. (28) Così F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, 373-375, il quale osserva come ciò valga specificamente per “tutte le imposte”, ma non nasconde che “le difficoltà nascono quando si tratta di tradurre questo principio generale in norma concreta”. (29) Esplicito, in tal senso, G. Zizzo, op. cit., passim, specie parr. 5 ss.: “le variazioni al risultato d’esercizio previste dalla normativa tributaria non sono dunque di per sé irragionevoli, né di per sé ragionevoli. Dipende dai motivi che ne hanno determinato la configurazione. Sono ragionevoli laddove sono provviste di validi motivi. Sono irragionevoli laddove ne sono sprovviste, ed appaiono perciò ‘dettate dal miope scopo di gonfiare la base imponibile e di ottenere un maggior gettito, costi quel che costi’”, ovvero comunque laddove, pur essendo provviste di un motivo valido, lo perseguano con mezzi incongrui o sproporzionati (ivi, par. 6, anche con riferimento a G. Falsitta., L’imposizione delle imprese in Italia tra corretti principi contabili ed “estrogeni tributari”, in Boll. trib., 1997 e ora in Id., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., 397 ss.). Nello stesso senso anche R. Schiavolin, La tassazione della capacità economica disponibile e l’indeducibilità di ICI ed IRAP dal reddito, in F. Moschetti - R. Schiavolin - M. Beghin - L. Tosi - G. Zizzo (a cura di), Atti della giornata di studi in onore di


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mazione della violazione del principio di capacità contributiva per il sol fatto di derogare al principio del “reddito netto”. 3.2. La probabile infondatezza della q.l.c. basata sul requisito di effettività della capacità contributiva. – Consapevole di ciò, la Commissione rimettente approfondisce dunque la questione e ritiene di farlo anzitutto spostando il discorso sul versante “intrinseco” della capacità contributiva, evidenziando come esso impedisca di assoggettare a imposizione “un reddito lordo e fittiziamente attribuito al contribuente”, non “realmente indicativo della capacità contributiva” e che si caratterizza per “allontanarsi in misura rilevante dalla realtà reddituale”. La terminologia utilizzata dall’ordinanza, sul punto (30), non appare chiara, rendendo il ragionamento circolare nella misura in cui, ritenendo il reddito lordo non “realmente indicativo della capacità contributiva” e non corrispondente alla “misura rilevante dalla realtà reddituale”, viene di fatto a sovrapporre i concetti di capacità contributiva e di reddito senza, quindi, offrire parametri utili alla verifica del rapporto tra i due. Il richiamo ai concetti di attribuzione fittizia e di allontanamento rilevante dalla realtà effettiva, tuttavia, inducono a ritenere che la Commissione si ponga qui il problema sotto il profilo della effettività della forza economica assoggettata a imposizione. In questa prospettiva, al fine di rendere incostituzionale una norma che precluda la deduzione di una parte dell’IMU dal reddito d’impresa occorrerebbe tuttavia poter sostenere che tale preclusione impedirebbe di poter assumere la reale presenza in capo all’imprenditore di una forza economica qualificata, ovvero che essa produrrebbe la concreta prospettiva di trasformare

Gaspare Falsitta, Padova, 2012, 34, il quale osserva che “la questione non è se si possa derogare ad una ‘regola indefettibile’ di deducibilità, bensì se sia irragionevole una specifica regola di indeducibilità, in quanto rende incoerente la disciplina del prelievo sul reddito”. Trattasi di parametri di giudizio che, come ben si vede, corrispondono in pieno al paradigma dell’art. 3 Cost. (30) Le espressioni sembrano tratte da un obiter dictum di Corte Cost., sent. n. 69/1965, par. 1 (cui conferiscono rilievo anche L. Tosi, Il requisito di effettività, in F. Moschetti et al. (a cura di), La capacità contributiva, Padova, 1993, 128 e A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, cit., 39 nota 39): in tale contesto, tuttavia, il concetto di “reddito netto” non fu posto a base del dictum della Corte, il quale si concentrò specificamente su aspetti attinenti alla violazione del principio di uguaglianza e, in specie, alla disparità di trattamento. Più pregnante appare il riferimento a “ovvie esigenze” di considerare il reddito contenuto nel par. 7 della sent. n. 42/1980, nel quale tuttavia esso sembra attenere più alle modalità di determinazione dell’imponibile che non alla individuazione del presupposto e, sotto tale profilo, si presta più propriamente ad essere considerato sotto un profilo di coerenza e razionalità maggiormente confacente al sindacato basato sull’art. 3 Cost. (sul quale cfr. il successivo par. 3.3.).


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il prelievo in confiscatorio (31): ciò che – per la verità – non sembra ragionevolmente predicabile in una fattispecie del genere (32).

(31) Sono questi due i possibili profili di violazione dell’art. 53 che G. Zizzo, op. cit., par. 13 prospetta con riferimento a “variazioni arbitrarie” del risultato fiscale rispetto al risultato civilistico. Lo stesso Autore, correttamente, non utilizza ivi mai il concetto di “reddito netto”, mostrando in ogni punto la consapevolezza che “il reddito è una grandezza economica convenzionale” e che, per un verso, “le spese di produzione appartengono alla struttura portante della nozione di reddito” (ivi, par. 6), ma, per altro verso, “il rinvio al risultato del conto economico” non risulti a tal fine intrinsecamente necessario, potendo “certamente semplifica(re) l’adempimento dell’obbligazione tributaria” ma ben potendo il prelievo sulla grande economica reddituale “appuntarsi su una versione della stessa difforme da quella rappresentata nel bilancio” purché atta a “rispecchiare fedelmente il presupposto del tributo” (ivi, par. 3). (32) In particolare, con riferimento ai parametri di valutazione lucidamente offerti sul punto da G. Zizzo, op. cit., par. 13, non sembra potersi ragionevolmente sostenere, con riguardo alla indeducibilità dell’IMU dall’IRES, né che l’indeducibilità si presta ad assoggettare a imposizione un reddito “del tutto fittizio, perché non c’è alcun reddito effettivo”, né che, pur essendo in presenza di un “reddito effettivo”, la quota di reddito assoggettata di fatto a imposizione grazie all’“estrogeno” possa rivelarsi “più alta di quella legale” in misura tale da rendere ragionevolmente concreto il rischio che essa possa “assorbire integralmente la capacità economica assunta a presupposto, e persino di eccederla”. Ciò diversamente da quanto può ragionevolmente dirsi avvenire, invece e stante in particolare l’entità molto maggiore delle aliquote di tale tributo, per l’IRAP (sul punto, G. Falsitta, Nuove riflessioni in tema di IRAP, in Boll. trib., 1998, 485 ss.; G. Marino, Il problema dell’indeducibilità dell’IRAP dalle imposte sui redditi, in Il fisco, 1999, 13940 ss., par. 2). Sulla circostanza che ogni valutazione dell’effettività della capacità contributiva debba essere condotta sulla base di una “ragionevole presupposizione” in ordine alla circostanza che, “normalmente, per adempier(e), il contribuente abbia altre risorse cui attingere” concorda R. Schiavolin, La tassazione della capacità economica disponibile e l’indeducibilità di ICI ed IRAP dal reddito, cit., 25-27: ne consegue, anche in questa prospettiva, che la valutazione di effettività della capacità contributiva deve condursi secondo parametri di verosimiglianza e ragionevolezza, con la conseguenza che non ogni possibile dubbio circa la possibile ineffettività di essa può indurre la Corte Costituzionale a dichiarare incostituzionale una norma, ma soltanto la constatazione di un rischio verosimilmente destinato a concretizzarsi. Così, in generale, l’Autore osserva, per un verso, come “i tributi patrimoniali sui beni produttivi possono in genere assolversi attingendo ai frutti dei medesimi” (ivi, 25 nota 12) e, per altro verso, che vale comunque il principio per cui i cespiti “si possono comunque convertire in denaro, mediante ‘scambi sul mercato’“, secondo modalità che nei vari casi concreti possano dirsi sostenibili (ivi, 25). Con specifico riferimento alla questione dell’indeducibilità dell’ICI/IMU dall’imposta sul reddito, l’Autore conclude che “essa determina un prelievo su un reddito inesistente, perché destinato ad assolvere detto tributo” (ivi, 34). In proposito, peraltro, il pur perspicuo rilievo secondo il quale dovrebbe assumersi a presupposto della valutazione del carattere espropriativo o meno del prelievo la misura del “reddito catastale” riferibile al cespite e la verifica se la tassazione complessiva gravante sul cespite stesso la superi o meno (ivi, 37) potrebbe risultare non pienamente condivisibile considerando come, in disparte i problemi che tale verifica di per sé comporta (su cui cfr. G. Fransoni, Stato di diritto, diritti sociali, libertà economica e principio di capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2013, 1049 ss.) e il fatto che detta verifica andrebbe compiuta con riferimento al reddito complessivo e non a una sola categoria o a


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Privo di attinenza rispetto al caso di specie appare, poi, il richiamo alla forfetizzazione di costi, posto che nulla nella disposizione obiettata di incostituzionalità sembra rimandare a quella finalità di semplificazione dell’accertamento della quota di deducibilità di un costo per generali dubbi sulla integrale inerenza di esso (o finalità analoghe) che sono sottese alla previsione di percentuali standard di deducibilità di costi (33). Anzitutto, è fuor di dubbio l’“inerenza” dell’IMU rispetto all’attività d’impresa (34), poiché gli immobili d’impresa sono per definizione suscettibili di generare componenti reddituali positive, talché gli oneri necessari al relativo possesso (a cominciare dagli oneri “obbligatori”, quali i tributi che ad essi si connettono) afferiscono senz’altro ad attività suscettibili di produrre utili. Sotto altro profilo, non sembra neppure possibile paventare, per l’IMU, argomenti analoghi a quello che l’art. 6 del d.l. n. 185 del 2008 pone a base della deducibilità soltanto parziale dell’IRAP dall’imposta sul reddito (ossia che la percentuale del 10% sarebbe “forfetariamente riferita all’imposta dovuta sulla quota imponibile degli interessi passivi e oneri assimilati al netto degli interessi attivi e proventi assimilati ovvero delle spese per il personale dipendente e assimilato al netto delle deduzioni spettanti”) (35). Peraltro, tale argomento, che fu sufficiente a disinnescare un primo ammissibile giudizio (36) di incostituzionalità dell’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 446/1997 nella parte in cui prevede l’indeducibilità dell’IRAP dall’imposta sul reddito (37), risulta intrinsecamente assai dubbio

maggior ragione a singole poste di singole categorie, il reddito catastale abbia carattere meramente figurativo e, come tale, non sia comunque di per sé idoneo a dimostrare direttamente la sussistenza della disponibilità monetaria sufficiente a far fronte al prelievo, secondo la prospettiva qui considerata, richiedendosi a tal fine passaggi dimostrativi ulteriori che si presterebbero a valere in modo analogo anche con riferimento alle valutazioni rilevanti per il caso di specie. (33) Si pensi, ad esempio, all’art. 164 del TUIR. Nella giurisprudenza costituzionale cfr., in materia, la sentt. n. 107/1971 e n. 143/1982 (par. 8) e, in certo senso, la pur discutibile ord. n. 47/1988 (seguita dalle successive nn. 206 e 312 del 1991). (34) L’aspetto è pacifico. Cfr., per tutti: R. Schiavolin, La tassazione della capacità economica disponibile e l’indeducibilità di ICI ed IRAP dal reddito, cit., 36; G. Falistta, Aspetti e problemi dell’irap, cit., 508; in generale, E. De Mita, Capacità contributiva e detrazione di imposta da imposta, in Id., Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 1987, 64 ss. (35) Argomento lato sensu ispirato a quello, più raffinato, elaborato da R. Lupi, L’IRAP tra giustificazioni costituzionali e problemi applicativi, in Rass. trib., 1997, 1407 ss., richiamato anche da F. Batistoni Ferrara, voce Capacità contributiva, cit., par. 8, nota 70. (36) Non essendo stato ritenuta tale per irrilevanza analoga questione esaminata nei poliedrici giudizi sfociati nella sent. n. 156/2001 e nelle ord. n. 286/2001, n. 103/2002, n. 426/2002 e n. 124/2003. (37) Avendo, infatti, determinato la Corte Costituzionale a rimettere gli atti al giudice


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e ha, comunque, mantenuto aperta la questione per la stessa IRAP, tanto che al fine di disinnescare un ulteriore giudizio di costituzionalità il legislatore è stato costretto a intervenire nuovamente (art. 2 del d.l. n. 201/2011) così inducendo nuovamente la Corte a rimettere gli atti al giudice a quo (Corte Cost., ord. n. 56/2014) (38). Inoltre, è ancor più dubbio che un ragionamento del genere si presti ad essere calato nel comparto dell’IMU. Per tale imposta, invero, sembra ancor più dubbia che per l’IRAP la ricostruzione come onere di diretta imputazione al costo d’impresa: a differenza dell’IRAP, che assume come base imponibile direttamente le componenti del risultato economico, l’IMU assume in generale come base imponibile un’entità diversa (la rendita catastale) da quella assunta come componente negativa del reddito d’impresa (costo d’acquisto del bene o suo valore normale), per cui non appare possibile predicare che il tributo della cui deducibilità ai fini reddituali si discute (l’IMU) costituisca accessorio di un costo d’impresa (stante la diversità di criterio di commisurazione delle due entità). In ogni caso, poi, non sembra neppure razionalmente giustificabile una ripartizione tra quota di IMU deducibile e quota di IMU indeducibile: invero, non si verificherebbe, nella formazione dell’imponibile del tributo da pagare, quella situazione di valorizzazione per quote di determinate componenti di altro tributo (in specie, l’imposta sul reddito) la quale, potendo essere letta come aggravio direttamente riferibile alle quote della componente negativa del tributo sul reddito non valorizzate nella formazione della base imponibile dell’altro tributo, sta razionalmente – per quanto erroneamente – dietro all’idea della deducibilità soltanto parziale dell’IRAP (39). Del resto, la circostanza che, per evitare censure di incostituzionalità, il legislatore si sia mosso, non già raffinando il criterio di determinazione della quota di deducibilità, come avvenuto per l’IRAP, ma semplicemente “arbitrando” la percentuale di essa (fatta passare dal 20% al 40% mediante l’art. 1, comma 12 della legge di bilancio per il 2019, n. 145/2018), testimonia come non sussistano in materia neppure quei possibili

comune per valutare la predetta sopravvenienza normativa (cfr. Corte Cost., sent. n. 258/2009). (38) Sul tema cfr. A. Bodrito, Deducibilità forfetaria dell’IRAP tra dubbi di incostituzionalità e correttivi legislativi, in Corr. trib., 2011, 1156 ss.; M. Basilavecchia, Dalla indeducibilità alla parziale deducibilità dell’IRAP dalle imposte sui redditi, in GT - riv. giur. trib., 2009, 942 ss.; F. Brighenti, Indeducibilità dell’IRAP: la Corte Costituzionale temporeggia, in Boll. trib., 2009, 1232 ss.; E. Della Valle, Lo “ius superveniens” salva l’indeducibilità dell’IRAP ai fini delle imposte sui redditi, in Corr. trib., 2009, 2842 ss. (39) Sul punto cfr. A. Bodrito, op. cit., 1158; G. Zizzo, op. cit., par. 9.


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agganci logici per istituire una forfetizzazione che, in materia di IRAP, avevano consentito al legislatore almeno la sterilizzazione della prima q.l.c. Tutto ciò fermo restando che, come si sta per dire, una forfetizzazione del genere dà in ogni caso vita a disparità di trattamento del tutto irrazionali. 3.3. La probabile fondatezza della q.l.c. basata sull’arbitrarietà della disposizione. – Nel momento in cui, tuttavia, l’ordinanza richiama il carattere “arbitrario” della forfetizzazione della deduzione dell’IMU e, quindi, della norma che la dispone, essa individua correttamente il punto di volta dell’intera vicenda. Il primo comma dell’art. 14 del d.lgs. n. 23/2011 si manifesta, infatti, “arbitrario”, anzitutto e come accennato, nella misura in cui dà corso a un regime in cui gli imprenditori che impiegano fattori produttivi costituiti da beni immobili vengono trattati diversamente dagli imprenditori che impiegano fattori produttivi differenti (o che, semplicemente, sono affittuari anziché proprietari degli immobili in cui operano) senza che a tale diversità di trattamento corrispondano situazioni apprezzabilmente diverse: invero, la diversità di composizione dei fattori produttivi non riveste rilevanza nell’attuale configurazione del reddito d’impresa, né sembrano sussistere ragioni extrafiscali (come, ad esempio, di politica economica o industriale) tali da giustificare la preferenza per l’utilizzo di fattori della produzione diversi dagli immobili, per cui la diversità fattuale tra la situazione degli imprenditori che annoverano immobili tra i propri beni strumentali e quella degli imprenditori non li annoverano (o li annoverano in una diversa misura o composizione) non è tale da assurgere a diversità giuridicamente rilevante e, correlativamente, atta a richiedere (o, comunque, a giustificare) una differenza di trattamento nell’ambito considerato. Sotto altro profilo, la norma appare “arbitraria” anche nella misura in cui dispone per l’IMU un trattamento diversificato rispetto agli altri tributi (40)

(40) Ciò vale con certezza con riferimento al reddito d’impresa: ai fini della determinazione di esso, infatti, i tributi sono integralmente deducibili ai sensi dell’art. 99 del TUIR (o, comunque, ai sensi dell’art. 110, c. 1, lett. b del TUIR, laddove considerati accessori di diretta imputazione di un costo d’impresa, come avviene ad esempio per i dazi doganali accessori a un bene importato), con la sola esclusione dell’imposta sul reddito (per evidenti motivi di effettività del prelievo) e purché siano rimasti a carico del contribuente. Evidente appare, così, la ricomprensione dell’IMU nell’alveo applicativo della integrale deducibilità ai sensi dell’art. 99 del TUIR, posto che essa non coincide con l’imposta sul reddito (né sostituisce, per i redditi d’impresa, alcuna componente di essa, non producendo gli immobili d’impresa redditi ascritti alla categoria dei redditi fondiari cui si riferisce l’art. 8 del d.l. n. 23/2011) e per essa non è legislativamente prevista la rivalsa. Per inciso, si osserva come sia questo il motivo per cui la


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senza alcun ragionevole motivo che possa valere a giustificarlo (41). Del re-

circostanza che l’art. 14 del d.lgs. n. 23/2011 preveda comunque una percentuale di deduzione dell’IMU non possa considerarsi avere natura agevolativa: invero, a fronte di una norma generale la quale stabilisce il principio della deducibilità dei tributi dal reddito d’impresa, la norma speciale che per un tributo escluda parzialmente tale deducibilità (riconoscendola soltanto in parte) stabilisce un regime che deve considerarsi in ogni caso più oneroso rispetto alla norma generale sotto la quale la fattispecie cadrebbe in mancanza della norma speciale stessa, per cui evidentemente per la norma speciale non ricorre (neppure con riferimento alla porzione di deducibilità riconosciuta) l’elemento costituivo essenziale per poter essere considerata agevolativa (sulla circostanza che la riduzione degli oneri rispetto al regime generale nel quale la vicenda ricadrebbe in assenza della norma speciale costituisca elemento essenziale delle fattispecie agevolative cfr., per tutti, F. Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992, 60 ss.). D’altro canto, non paiono esservi i presupposti per considerare agevolativa la norma generale che prevede la deducibilità dei tributi dal reddito d’impresa, vuoi perché essa corrisponde al generale meccanismo di determinazione contabile dell’imposta sul reddito (cfr., infra, nel testo), vuoi perché pochi dubbi possono esservi sul fatto che la spesa rappresentata dal pagamento dei tributi corrisponda a “interessi protetti dal diritto e anzi impressi dalla filigrana costituzionale”, con la conseguenza che la “misurazione” della capacità contributiva “non può trascurarli” (le citazioni sono tratte da A. Giovannini, Principi costituzionali e nozione di costo nelle imposte sui redditi, in Rass. trib., 2011, 609 ss., parr. 4 e 5; Id., Il diritto tributario per principi, cit., 268 ss., ove si affronta sul piano generale il tema della nozione di “costo”). Meno nitido è il discorso con riferimento alla deducibilità dell’IMU dal reddito di lavoro autonomo, non essendo per tale comparto prevista una norma specifica quale l’art. 99 del TUIR per i redditi d’impresa: cionondimeno, il generale principio di deducibilità delle spese inerenti (art. 54, c. 1 del TUIR) consente di ragionare per il reddito di lavoro autonomo in termini analoghi a quanto sopra esposto per il reddito d’impresa, ferma naturalmente la valenza dei criteri dell’art. 54, c. 3 per il caso di immobile adibito ad uso promiscuo. In aggiunta a ciò, deve evidenziarsi per la precisione come l’art. 14 cit., disponendo la limitazione della deducibilità alla misura del 20% (oggi, 40%) soltanto per l’IMU relativa agli immobili strumentali, si presterebbe ad essere interpretato a contrario nel senso di confermare per il resto l’applicabilità della disciplina generale e, conseguentemente, la completa deducibilità dell’IMU dovuta sugli immobili merce (laddove applicabile nonostante l’art. 13, comma 9-bis del d.l. n. 201/2011) e sugli immobili meramente patrimoniali: tale interpretazione, che peraltro sembra contrastare con la genesi della disposizione (introdotta dal comma 715 dell’art. 1 della l. n. 147/2013 con l’evidente fine di mitigare il precedente regime, il quale stabiliva una indeducibilità totale dell’IMU), finirebbe comunque per aggravare gli aspetti di incostituzionalità della norma, poiché introdurrebbe una diversità di trattamento ancor meno comprensibile e ancor meno razionalmente giustificabile. Per converso, nel caso in cui la disposizione dovesse interpretarsi nel senso della permanente totale indeducibilità dell’IMU sugli immobili d’impresa non strumentali, anche questa parte della norma (peraltro ormai soltanto implicita) dovrebbe naturalmente ritenersi ricompresa negli effetti della declaratoria di incostituzionalità, in quanto, caducata la norma espressa di maggior favore, risulta automaticamente caducata anche la conseguenza implicita di minor favore che dalla norma stessa derivava. Invero, espunta la previsione espressa dell’art. 14 cit. in questione, tornerà ad esplicarsi l’operatività dei principi generali in materia di determinazione del reddito e, con essa, l’integrale deducibilità dell’IMU dal reddito d’impresa (e professionale). (41) Non ostano a tali conclusioni le valutazioni compiute, con riferimento al comparto


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sto, tale diversità di trattamento consiste nell’incidenza su una imposta (quella sul reddito) di una imposta (l’IMU) che ha ad oggetto un presupposto diverso ed eterogeneo rispetto a quello della prima (imposta sul reddito) e, pertanto, si fonda su un elemento eterogeneo rispetto all’indice di riparto in cui si produce e, come tale, certamente irrilevante ai fini della configurabilità di una situazione di diversità giuridicamente apprezzabile ai fini della giustificazione di un trattamento differenziato in tale settore (42). I profili di “arbitrarietà” sopra evidenziati costituiscono un tipico esempio di diseguaglianza di trattamento tra soggetti dipendente da elementi irrilevanti e disomogenei rispetto all’indice di capacità contributiva assunto a presupposto del tributo. Conseguentemente, essi provocano una violazione, sia, in generale, dell’art. 3 Cost. (nella misura in cui danno corso a un trattamento differenziato tra situazioni che non si manifestano diverse per profili giuridicamente apprezzabili in relazione alla vicenda considerata e che, pertanto, deve considerarsi irrazionale), sia, nello specifico, dell’art. 53 Cost. (nella misura in cui determinano un disordine nel riparto delle pubbliche spese, ossia nel versante estrinseco del principio di capacità contributiva, consistente in ciò che vengono chiamate al concorso alle pubbliche spese in misura diversa situazioni che, in relazione all’indice di capacità contributiva considerato, primo parametro specifico del giudizio di eguaglianza in materia tributaria, devono invece considerarsi uguali) (43).

IRPEF, da Corte Cost., sent. n. 574/1988 (su cui cfr. le parole critiche di E. De Mita, Fisco e Costituzione, Milano, 1993, 823). Essa, infatti, muoveva dal presupposto che “nel sistema tributario vigente, ai fini della determinazione del reddito imponibile la detraibilità di tributi corrisposti in precedenza può esprimere una linea di tendenza e non già una regola generale ed indefettibile”, con la conseguenza che il principio di uguaglianza sarebbe stato violato soltanto a fronte del trattamento diversificato di tributi dotati di “puntuali caratteristiche di omogeneità”. Nel caso del reddito d’impresa negli attuali IRPEF e IRES, invece, la regola della deducibilità dei tributi pagati è generale (con due sole eccezioni, nelle quali – come si è detto – il caso di specie non rientra), per cui non si rende necessario il giudizio di comparazione tra i presupposti dei singoli tributi che invece era necessario adottare in termini di tertium comparationis nel regime precedente. Va segnalato, peraltro, come l’assenza di una norma specifica in proposito renda meno nitido il discorso con riferimento alla indeducibilità dell’IMU dal reddito professionale. (42) Analoghe, in materia di IRAP, le considerazioni di A. Fedele, Prime osservazioni in tema di irap, in Riv. dir. trib., 1998, I, 469, il quale evidenziava come “l’indeducibilità si risolve in discriminazione fra i soggetti passivi delle imposte sui redditi ma rapportata alla misura di una diversa imposta, di un diverso indice di capacità contributiva”. In generale, sul punto, G. Zizzo, op. cit., parr. 6 e 13. (43) Tale conclusione risulta, all’evidenza, conforme alla giurisprudenza consolidata, citata nella precedente nota 9, la quale afferma che direttamente “l’art. 53, Primo comma, Cost.


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Oltre ai profili di “arbitrarietà” sopra enucleati, e che di per sé soli valgono certamente a rendere incostituzionale la disposizione in commento, va peraltro anche tenuto conto che essa fissa una norma speciale che deroga a uno dei principi generali che presiede alla configurazione – a livello legislativo (44) – della base imponibile del reddito d’impresa (art. 75 del TUIR) e del reddito di lavoro autonomo (art. 54 del TUIR), ossia quello del recepimento del risultato bilancistico, a sua volta frutto della differenza tra componenti positive e componenti negative, e pertanto della strutturale deducibilità delle componenti negative. La deroga in questione, tuttavia, avviene in assenza di qualsivoglia apprezzabile ragione che giustifichi l’apporto di una variazione in aumento al risultato civilistico e in assenza di qualsivoglia apprezzabile ragione (sia essa antielusiva, di simmetria, di attuazione di ulteriori valori costituzionali) che giustifichi l’indeducibilità di una componente negativa (45). Conseguentemente, tale disposizione appare contrastante con l’art. 3 Cost. anche nella misura in cui dà vita a una norma arbitraria, intrinsecamente irrazionale (46) e immotivatamente incoerente con il contesto legislativo in cui si inserisce (47). In questa prospettiva, la circostanza che l’art. 1, comma 12

va interpretato nel senso che a situazioni uguali debbono corrispondere uguali regimi impositivi e, correlativamente, a situazioni diverse un trattamento tributario disuguale” (così, per tutte, Corte Cost., n. 178/1986, par. 15). (44) Ancorché, come si è detto, al di fuori di una rigida necessarietà costituzionale. (45) Sulla circostanza che le norme che vietano o riducono la deducibilità dalle imposte sul reddito di altre imposte relative all’impresa costituiscano la più paradigmatica forma di “estrogeni tributari” cfr. G. Falsitta, L’imposizione delle imprese in Italia tra corretti principi contabili ed “estrogeni tributari”, cit.; G. Zizzo, op. cit., par. 6. (46) Sulla intrinseca irrazionalità e incoerenza di forfetizzazioni del genere cfr. già Corte Cost., sent. n. 42/1980, par. 6; in dottrina, G. Zizzo, op. cit., parr. 7 ss., specie 9, il quale prospetta in casi del genere (ivi, par. 13) sia la possibile violazione dell’art. 53, che la violazione dell’art. 3 (si rinvia alla precedente nota 32 per osservare come, nel caso di specie, il profilo di violazione dell’art. 53 non sembri peraltro attenere propriamente al requisito di “effettività” della capacità contributiva). (47) In senso analogo, con riferimento all’IRAP, F. Gallo, Irap e principio di capacità contributiva, Giur. comm., 2002, I, 152; A. Fedele, Prime osservazioni in tema di irap, cit., 470; G. Falistta, Aspetti e problemi dell’irap, cit., 508. Anche R. Schiavolin, La tassazione della capacità economica disponibile e l’indeducibilità di ICI ed IRAP dal reddito, cit., 3132 lega la valutazione di legittimità delle norme che limitano la deducibilità di determinate componenti reddituali d’impresa alla circostanza che “le norme sulla base imponibile devono essere coerenti con il concetto individuato come fondamento del presupposto”, collegando alla negatività di tale valutazione conseguenze sia in termini di “disparità di trattamento tra contribuenti” e di “incoerenza interna nella disciplina dell’imposta” (profili attinenti al principio di uguaglianza e ragionevolezza e al versante estrinseco del principio di capacità contributiva),


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della legge di bilancio per il 2019, n. 145/2018 abbia manovrato la percentuale di deducibilità, disponendo un innalzamento dal 20% al 40%, conferma l’irrazionalità della norma in questione, evidenziando che il relativo disposto non si collega a principi giuridici razionalmente apprezzabili, ma viene gestito dal legislatore in maniera del tutto arbitraria. In questa prospettiva, inoltre, appare evidente come la sopravvenienza normativa non giustifichi la rimessione degli atti al giudice a quo: invero, a differenza di quanto avvenuto – ad esempio e come osservato nel paragrafo precedente – in tema di deducibilità dell’IRAP, essa non introduce un nuovo e diverso criterio giuridico per determinare la quota di tributo deducibile dall’imposta sul reddito, ma si limita a “rilanciare” l’importo della quota di deducibilità, senza modificare in verità alcunché dell’impianto in cui essa si inserisce e che è stato apprezzato dal giudice a quo come probabilmente contrastante con la Costituzione. In questa prospettiva, anzi, la sopravvenienza normativa rafforza e conferma ipso iure quei profili di arbitrarietà posti a base dell’ordinanza di rimessione e richiede alla Corte di pronunciarsi immediatamente, anche al fine di scongiurare facili prassi “elusive” dei giudizi costituzionali da parte del legislatore tributario. Né, d’altra parte, i profili di incostituzionalità sopra evidenziati si prestano ad essere sterilizzati da un generico interesse alla massimizzazione o conservazione del gettito erariale (48): invero, anche a voler ritenere tale aspetto in

sia in termini di rischio che “si possa realizzare un prelievo superiore alla disponibilità economica” (profilo attinente più direttamente al principio di “effettività” intrinseca della capacità contributiva, sul quale si veda quanto osservato nella precedente nota 32). (48) Il profilo è esplicitato, con riferimento alla indeducibilità dell’IRAP, direttamente da V. Visco, Intervento, in AA.VV., Irap, imprese e lavoro autonomo. Profili costituzionali e applicativi. Atti del convegno di studi di Pisa 12 marzo 1999, allegato a Il fisco, fasc. n. 29 del 12 luglio 1999, il quale peraltro riteneva giustificabile l’indeducibilità anche in ragione di considerazioni attinenti al coordinamento del sistema tributario in chiave di federalismo fiscale. Neppure sotto quest’ultimo profilo, peraltro, paiono superabili i dubbi di incostituzionalità relativi all’indeducibilità dell’IMU dal reddito d’impresa. Da un lato, appare evidente che, in senso ancor più marcato di quanto già poteva peraltro affermarsi per l’IRAP (cfr. F. Gallo, op. ult. cit., 152), l’esiguità dei margini di manovra sull’IMU da parte dei Comuni (e il conseguente esiguo margine di imprevedibilità per il sistema tributario statale di eventuali inasprimenti dell’IMU che ridondino in riduzione dell’imposta sul reddito per il tramite della deducibilità dell’IMU stessa) non si presta a mettere seriamente a rischio il gettito dell’IRES e dell’IRPEF. Dall’altro lato, l’instaurazione di rapporti tra IMU e imposta sul reddito non si presta a mettere in discussione principi di coordinamento della finanza pubblica fondati sulla tendenziale autonomia di finanziamento degli enti locali: come detto, infatti, il nerbo della disciplina dell’IMU risulta saldamente nelle mani e nella disponibilità del legislatore statale, talché la misura in cui la deduzione dell’IMU dal tributo sul reddito incide sulla finanza erariale non può considerarsi


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qualche modo riconducibile al principio di pareggio di bilancio di cui all’art. 81 Cost. (e, come tale, coperto da egida costituzionale), esso non potrebbe certamente comunque costituire valido motivo per apportare al principio di uguaglianze deroghe di carattere sistematico e non temporaneo come risulta, in definitiva, essere quella cui dà vita l’art. 14, comma 2 del d.lgs. n. 23/2011 (49). 4. Conclusione. – L’ordinanza in commento riveste, dunque, il pregio di porre all’attenzione della Corte una disposizione – l’art. 14, comma 1, primo periodo del d.lgs. n. 23/2011 – contrastante i principi costituzionali e che, come tale, previo corretto esercizio dei poteri di interpretazione della questione di rimessione da parte della Corte stessa, nel senso sopra specificato, merita senz’altro di essere dichiarata incostituzionale.

Francesco Farri

costituire effetto asistematico o, comunque, forma di surrettizio finanziamento dell’ente locale da parte della finanza erariale, bensì naturale conseguenza del riparto delle competenze legislative stabilito dall’art. 117 Cost. e della configurazione secondo determinate modalità dei tributi sul reddito di esclusiva pertinenza statale. Conforme è il senso delle puntuali considerazioni di R. Schiavolin, La tassazione della capacità economica disponibile e l’indeducibilità di ICI ed IRAP dal reddito, cit., 38-39, il quale osserva altresì che “a conferma, nella l. 42/2009 non si trova traccia un simile principio di indeducibilità”. (49) Cfr., ad esempio, Corte Cost., n. 574/1988, in materia di SOCOF, Corte Cost., n. 21/1996, su cui G. Falsitta, L’ICI, l’ISI e la capacità contributiva virtuale, in Riv. dir. trib., 1996, II, 349, e Corte Cost., n. 10/2015, specie parr. 6 e 8, su cui A. Marcheselli, Capacità contributiva e pareggio di bilancio: una ponderazione che non convince, in Giur. it., 2015, 1327 ss.; G. Fransoni, L’efficacia nel tempo della declaratoria di incostituzionalità della ‘Robin Hood Tax’, in Corr. trib., 2015, 967 ss.; F. Campodonico, ‘Robin Hood Tax’: la Corte costituzionale fa chiarezza sui criteri di determinazione della ragionevolezza del tributo, in Dir. prat. trib., II, 2015, 436 ss.; M. Basilavecchia, Graduale abolizione della ‘Robin Hood tax’, in Corr. trib., 2015, 1979 ss.; P. Boria, L’illegittimità costituzionale della ‘Robin Hood Tax’ e l’enunciazione di alcuni principii informatori del sistema di finanza pubblica, in GT - riv. giur. trib., 2015, 388 ss. Il principio per cui, “se da un lato l’eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è suscettibile di consentire il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano, dall’altro ciò non può e non deve determinare ancora una volta un’obliterazione dei fondamentali canoni di uguaglianza, sui quali si fonda l’ordinamento costituzionale” è affermato, con chiarezza, da Corte Cost., n. 116/2013, par. 7.3., anche con riferimento a Corte Cost., n. 223/2012.


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto

Il regime fiscale dei neo-residenti. Uno sguardo al settore dello sport professionistico Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il regime dei neo-residenti. Introduzione. – 2.1.

L’esercizio dell’opzione e gli effetti collegati. – 2.2. La facoltà di esclusione di taluni redditi esteri e i benefici convenzionali. – 3. La procedura di interpello preventivo. – 4. La verifica del requisito del trasferimento in Italia: il punto di vista italiano e quello dello Stato estero – 5. La territorialità dei compensi per le prestazioni sportive e dei redditi derivanti dallo sfruttamento dei diritti di immagine – 5.1. Compensi per le prestazioni sportive – 5.2. Redditi derivanti dalle sponsorizzazioni e dallo sfruttamento dei diritti di immagine – 5.3. Compensi percepiti dagli sportivi professionisti per il tramite di starcompanies. Il regime dei neo-residenti, introdotto dalla legge di bilancio 2017, vuole in Italia attrarre in particolare soggetti che possiedono considerevoli disponibilità patrimoniali e finanziarie (cd. high-net-worth-individuals) e che intendono trasferire la residenza fiscale in Italia. In breve, il regime prevede il pagamento, in via opzionale, di un’imposta sostitutiva pari a euro 100.000 annui con riferimento ai redditi di fonte estera. Ciò premesso, il contributo analizza l’applicazione di tale regime con riferimento agli sportivi professionisti soffermandosi, in particolare, sull’identificazione dei criteri di territorialità rilevanti per stabilire a quali condizioni il reddito – afferente alla prestazione sportiva ovvero ad altre attività (quali ad esempio quelle di sponsorizzazione e/o di sfruttamento del diritto di immagine) – possa considerarsi prodotto all’estero e rientri perciò nel regime di favore. Il contributo analizza inoltre lo scenario nel quale lo sportivo professionista operi per il tramite di un suo veicolo societario (cd. rent-a-star company). The forfait tax regime, introduced by Budget Law 2017, is aimed at attracting high-net-worth-individuals transferring their tax residence to Italy. In brief, the regime, which is optional, entails a yearly flat tax of 100,000 Euro applicable on foreign-source income. This stated, the contribution analyzes the application of the regime to professional sportspersons focusing, in particular, on the identification of the territoriality criteria that are relevant to determine whether income of sportspersons – related to the performance or to other activities (such sponsoring and/or image rights activities) – can be considered foreign-source income covered by the regime. The contribution also addresses the scenario in which the sportsperson operates through a rent-a-star company.


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Parte quinta

1. Introduzione. – Il presente contributo analizza il regime dei neo-residenti (o anche “regime sostitutivo”) introdotto dall’art. 1, commi da 152 a 159, della Legge 11 dicembre 2016, n. 232 (c.d. l. di bilancio 2017). Dopo una breve trattazione degli aspetti sostanziali e procedurali (1), il presente contributo esaminerà il suindicato regime tenendo in considerazione le problematiche più frequenti del settore dello sport professionistico. 2. Il regime dei neo-residenti. Introduzione. – Il regime dei neo-residenti ha la finalità di attrarre in Italia persone fisiche che possiedono considerevoli disponibilità patrimoniali e finanziarie (cd. “high-net worth individuals”) (2). Orbene, ancorché il regime non sia prettamente rivolto al settore dello sport professionistico, è verosimile che a beneficiarne possano essere gli sportivi professionisti, categoria che, come noto, rappresenta spesso soggetti facoltosi particolarmente sensibili alle prospettive di risparmio fiscale. Le ragioni per le quali il regime dei neo-residenti può risultare particolarmente attrattivo per gli sportivi professionisti sono duplici: in primo luogo, tali soggetti hanno la caratteristica della mobilità internazionale potendo liberamente individuare la giurisdizione nella quale stabilire la residenza fiscale e, in secondo luogo, in molti casi essi svolgono la propria attività professionale in via prevalente al di fuori della giurisdizione di residenza. Il regime sostitutivo prevede per i redditi prodotti all’estero il pagamento di un’imposta di importo fisso, pari a euro 100.000. Il prelievo ha carattere sostitutivo, ovverosia è dovuto in luogo dell’ordinaria imposizione ai fini dell’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF e relative addizionali).

(1) F. Avella, P. Arginelli, New Italian Tax Regime to Attract High Net Worth Individuals, in European Taxation, IBFD, 2017 (Volume 57), n. 2/3, 113 ss.; G. Ascoli, M. Pellecchia, Il nuovo regime impositivo per le persone fisiche che trasferiscono la residenza fiscale in Italia, in il fisco, 6/2017, 507; E. della Valle e M. Strafile, La nuova imposta sostitutiva sui redditi di fonte estera, in il fisco, 45/2016, 4346; S. Mayr, L’imposta sostitutiva per i redditi esteri per le persone fisiche che trasferiscono la propria residenza in Italia ovvero un pugno di dollari (di tasse) per milioni (di redditi), in Boll. Trib., 1, 2017, 11 ss.; A. Tomassini e A. Martinelli, Il regime italiano dei “neo domiciliati”, in Corr. Trib. 46/2016, 3533 ss. (2) Sotto tale profilo il regime ha suscitato non pochi dubbi di costituzionalità, ex multis, P. L. Cardella, E. Della Valle, Per la sostitutiva sul rientro interpello senza linee guida, in Il Sole 24 ore del 7 gennaio 2017; L. Peverini, Sulla legittimità costituzionale dell’art. 24-bis Tuir e sulla possibilità di differenziare il concorso alle spese pubbliche da parte dei residenti in funzione del grado di collegamento con il territorio, in Riv. di Dir. Trib., supplemento online, fascicolo 6/2018.


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I requisiti di applicazione del regime speciale sono due: (i) il trasferimento della residenza fiscale nel territorio dello Stato e (ii) la residenza fiscale estera precedentemente al trasferimento in almeno nove dei dieci periodi d’imposta che precedono l’inizio del periodo di efficacia dell’opzione. Il requisito della residenza in Italia deve essere verificato secondo i criteri generali di cui all’art. 2 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (“TUIR”), in forza dei quali una persona fisica è considerata residente in Italia ai fini delle imposte sui redditi se è soddisfatto per la maggior parte del periodo d’imposta almeno uno dei seguenti criteri: (i) la persona è iscritta all’anagrafe della popolazione residente (3); (ii) ha in Italia il proprio domicilio fiscale ai sensi del codice civile (ossia il centro dei propri affari o interessi) (4);

(3) L’iscrizione anagrafica è obbligatoria per le persone fisiche che dimorano abitualmente in un Comune della Repubblica ed ha finalità essenzialmente statistiche di rilevazione della popolazione residente nel Comune o di pubblicità, ad esempio per le trascrizioni di atti o certificazioni (si veda la l. n. 1228 del 24 dicembre 1954 e regolamento attuativo d.P.R. n. 223 del 1989). Ove ricorrano gli estremi dell’iscrizione anagrafica, questa deve ritenersi sufficiente agli effetti dell’individuazione del soggetto passivo d’imposta e preclusiva di ogni altro accertamento in fatto. Ai fini tributari, quindi, l’iscrizione anagrafica assume il carattere di criterio di collegamento autosufficiente ed autonomo con prevalenza dell’elemento formale costituendo frutto di una scelta consapevole del legislatore tributario (Cass., 3 marzo 1999, n. 1783; Cass., 6 febbraio 1998, n.1215). Il valore di presunzione assoluta è funzionale alle esigenze proprie del sistema tributario, in quanto in ambito civilistico, invece, le risultanze anagrafiche danno luogo a presunzioni relative, vincibili mediante prova contraria (Cass., 5 maggio 1998, n. 4518; Cass., 27 settembre 1996, n. 8554, Cass., 20 aprile 2006, n. 9319). Si veda G. Melis, La nozione di residenza delle persone fisiche nell’ordinamento tributario italiano, in Rass. trib., 1995, 1034, con riferimento all’adeguatezza del criterio a rappresentare un collegamento ai fini dell’imposizione personale e ai potenziali profili di incostituzionalità. (4) Si veda ex multis Cass., 22 agosto 2007, n. 17882 secondo cui «il domicilio deve intendersi fissato nel luogo in cui il lavoratore ha il centro dei propri affari ed interessi, intendendosi per interessi non solo quelli economici e materiali, ma anche quelli affettivi e spirituali, atteso che la nozione di domicilio è unitaria e impone che vengano considerati, assieme agli affari ed agli interessi economici dell’individuo, anche gli interessi affettivi e personali». La stessa Corte di Cassazione (cfr. sentenza del 12 febbraio 1973, n. 435) ha chiarito che “per la determinazione del domicilio occorre far riferimento non soltanto ai rapporti economici e patrimoniali di una persona, ma anche e soprattutto agli interessi morali, sociali e familiari che confluiscono normalmente nel luogo in cui essa vive”. Tale orientamento di Cassazione, che riflette quello prevalente, è coerente con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea che ha ritenuto opportuno valorizzare la preminenza degli interessi affettivi su quelli economici della persona. In particolare, nella sentenza 12 luglio 2001, causa C-262/99, Louloudakis, la Corte europea per risolvere le questioni di doppia residenza ha stabilito che “qualora una valutazione globale dei legami professionali e personali non sia sufficiente ad individuare il centro permanente degli interessi di una persona, ai fini di tale individuazione occorre dichiarare la preminenza dei legami personali” . In alcuni arresti, a dire il vero isolati, la Cassazione ha invece considerato prevalente il centro degli interessi economici (Cass., 29 dicembre 2011, n. 29576).


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Parte quinta

(iii) ha in Italia la propria residenza ai sensi del codice civile (ossia la dimora abituale) (5). La nazionalità del beneficiario non riveste alcuna rilevanza ai fini del regime in esame e dunque – ferma restando la sussistenza dei requisiti innanzi indicati – l’accesso al regime è consentito sia ai cittadini stranieri (anche non europei) sia ai cittadini italiani (6). 2.1. L’esercizio dell’opzione e gli effetti collegati. – L’accesso al regime dei neo-residenti è subordinato all’esercizio di un’opzione da parte del contribuente. Tale adempimento si perfeziona con la presentazione della dichiarazione dei redditi riferita al periodo d’imposta in cui viene trasferita la residenza in Italia (quindi per i trasferimenti di residenza avvenuti nel 2018, l’opzione si perfeziona con la presentazione nel corso del 2019 del modello di dichiarazione REDDITI 2019), ovvero con la presentazione della dichiarazione dei redditi riferita al periodo d’imposta successivo a quello in cui viene trasferita la residenza in Italia (7).

(5) Il requisito in questione presuppone la disponibilità di un’abitazione (a nulla rilevando il titolo giuridico). Il requisito poggia su un duplice elemento: l’elemento oggettivo costituito dalla permanenza di un individuo in un luogo con una certa stabilità e continuità e l’elemento soggettivo rappresentato dall’intenzione del soggetto a conservare la propria abitazione in un luogo ed a farvi ritorno ogni volta che ciò risulti possibile. Quanto all’elemento oggettivo, il concetto di abitualità della dimora è stato interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione come permanenza in un determinato luogo con stabilità (e cioè non in via provvisoria). (Cass., 28 ottobre 1985, n. 5292). Non è invece richiesta la continuità e la definitività della permanenza, potendosi verificare situazioni in cui il soggetto lavora o svolge attività lontano dal luogo in cui si trova l’abitazione, nella quale questo vi conserva comunque la propria dimora e vi ritorna periodicamente. (Cass., 14 marzo 1986, n. 1738) nella quale la Corte ha precisato che “la residenza di una persona è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, cioè dall’elemento obiettivo della permanenza in tale luogo e dall’elemento soggettivo dell’intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali.”. Quanto all’elemento soggettivo esso non può prescindere dall’intenzionalità che assume rilevanza anche per distinguere tra la dimora non abituale (destinata a soddisfare unicamente esigenze contingenti) e quella abituale (che concretizza la residenza, proprio in quanto eletta dalla persona a stabile luogo di permanenza). (6) Cfr. sul punto la Circolare 17/E, Parte III, § 1, 46. (7) Cfr. Circolare 17/E, Parte III, § 1, 48 secondo cui “l’opzione può essere validamente esercitata anche da coloro che sono già residenti in Italia per un periodo d’imposta; naturalmente in tale ipotesi, ai fini della verifica del presupposto di residenza all’estero nel periodo di osservazione stabilito dalla norma, è computato anche il periodo d’imposta nel quale si è avuta la residenza fiscale in Italia. Ad esempio, un soggetto che è stato residente all’estero dal 2006 al 2015 e si trasferisce in Italia a marzo 2016, acquisendo, pertanto, la residenza fiscale


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Nell’opzione deve essere indicata la giurisdizione o le giurisdizioni dell’ultima residenza fiscale prima dell’esercizio di efficacia dell’opzione. L’opzione può essere revocata dal contribuente su base volontaria in qualsiasi momento e cessa comunque la sua efficacia decorsi quindici anni dal primo periodo di imposta di efficacia dell’opzione ovvero in caso di omesso o parziale versamento dell’imposta sostitutiva, rimanendo comunque salvi gli effetti prodotti nei periodi di imposta precedenti. La revoca o la decadenza dal regime precludono l’esercizio di una nuova opzione. L’imposta sostitutiva sui redditi esteri, pari a euro 100.000, è dovuta per ciascun periodo d’imposta cui è riferita l’opzione ed è fissata in euro 25.000 per ciascuno dei familiari ai quali sono estesi gli effetti dell’opzione medesima (8). L’imposta è versata in un’unica soluzione entro la data prevista per il versamento del saldo delle imposte sui redditi e non è deducibile da nessuna altra imposta o contributo. Per l’accertamento, la riscossione, il contenzioso e le sanzioni si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni previste per l’Irpef. I soggetti che esercitano l’opzione sono esonerati dagli obblighi di monitoraggio fiscale di cui all’art. 4 del d.l. n.167 del 28 giugno 1990 (conv. con modif. dalla l. del 4 agosto 1990, n. 227) e dall’imposta sul valore degli immobili esteri e sul valore delle attività finanziarie estere (rispettivamente previste dall’art. 19, co. 13 e 18, d.l. 6.12.2011, n. 201, conv. con modif. dalla L. 22.12.2011, n. 214) (9). Il regime prevede inoltre l’esenzione dall’imposta di successione e donazione per le successioni aperte e le donazioni effettuate nei periodi di imposta di efficacia dell’opzione. Per queste ultime, la relativa imposta è dovuta limitatamente ai beni e diritti esistenti nel territorio dello Stato al verificarsi dell’evento (successione o donazione). 2.2. La facoltà di esclusione di taluni redditi esteri e i benefici convenzionali. – Il versamento dell’imposta sostitutiva non consente al contribuente di beneficiare del credito d’imposta previsto dall’art. 165 del T.U.I.R. Al fine di

nel nostro Paese nel medesimo anno, potrà legittimamente accedere al nuovo regime a partire dal periodo d’imposta 2017, versando l’imposta sostitutiva entro il 30 giugno 2018”. (8) L’estensione degli effetti ai familiari ha inteso “facilitare il trasferimento di interi nuclei familiari, per consentire una più diffusa e agevole fruizione del regime, potenziando la portata attrattiva della norma” (Cfr. Circolare 17/E, 48). (9) Tale esonero non vale tuttavia per le partecipazioni qualificate, come chiarito dalla Circolare 17/E, Parte III, § 5.3.2., 82-83.


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mitigare tale effetto, il comma 5 dell’art. 24-bis del TUIR prevede la facoltà di escludere dall’applicazione dell’imposta forfettaria sostitutiva i redditi prodotti in uno o più Stati o territori esteri. Il contribuente che accede al regime dei neo-residenti può decidere di non avvalersi dell’imposta sostitutiva con riferimento ai redditi prodotti in uno o più Stati esteri (cd. facoltà di “cherrypicking”), a condizione che ne venga data specifica indicazione in sede di esercizio dell’opzione ovvero con successiva modifica della stessa (10). L’opzione per la tassazione ordinaria ai fini IRPEF comporta il riconoscimento del credito di imposta secondo le modalità previste dall’art. 165 del TUIR (11). L’opportunità escludere taluni redditi esteri va attentamente vagliata al fine di verificare, in relazione ai redditi prodotti all’estero, se il contribuente possa ottenere un reale vantaggio dal regime in commento tenuto conto della perdita del beneficio connesso al credito di imposta per le imposte pagate all’estero. Il contribuente può successivamente modificare la scelta iniziale ma solo per escludere dal regime dell’imposta sostitutiva ulteriori Stati o territori rispetto a quelli già individuati in sede di primo esercizio dell’opzione o in sede di successive variazioni della stessa. (12) L’effetto del regime sull’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni rappresenta un ulteriore elemento che deve essere attentamente soppesato nelle valutazioni relative alla convenienza del regime speciale. L’analisi va effettuata caso per caso e occorrerà valutare di volta in volta l’applicabilità dei benefici convenzionali nello Stato estero della fonte del reddito, tenendo conto delle disposizioni convenzionali applicabili. Se l’applicazione dei benefici convenzionali appare indubbia nei casi in cui il contribuente opti per escludere dall’opzione taluni redditi esteri (che

(10) L’amministrazione finanziaria ha chiarito che l’opzione deve riguardare tutti i redditi prodotti nel Paese o territorio oggetto di esclusione dall’opzione (Circolare 17/E, Parte III, § 4.1., 74). (11) La Circolare 17/E ha precisato che “tale credito d’imposta non è in alcun modo compensabile con l’imposta sostitutiva forfettaria […]” (Parte III, § 4.1., 75). (12) Come chiarito dalla Circolare 17/E, “il termine di quindici anni di durata del regime opzionale continua a decorrere dall’anno d’imposta in cui è stata esercitata per la prima volta l’opzione e non si “azzera” ogni qual volta viene effettuata una modifica. Diversamente, infatti, potrebbero verificarsi di comportamenti elusivi atti a prorogare sine die la possibilità di usufruire del regime fiscale di favore che per espressa volontà del legislatore ha una durata temporale definita” (Circolare 17/E, Parte III, § 4.1., 75).


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dunque restano assoggettati alla tassazione ordinaria), è più incerta invece l’applicazione dei predetti benefici per i redditi che scontano il regime di favore. I benefici dovrebbero permanere qualora la disposizione convenzionale coincida con l’art. 4 del modello di convenzione OCSE (d’ora in avanti “Modello OCSE”), a cui si ispirano la maggior parte delle convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia. Tale disposizione considera “residenti” di uno Stato contraente le persone, fisiche e giuridiche, che, ai sensi della normativa di quello Stato, sono ivi soggette ad imposizione in virtù dell’applicazione di una serie di criteri, quali per le persone fisiche il domicilio, la residenza o qualsiasi altro criterio avente natura similare. L’art. 4 del Modello OCSE precisa che non possono essere considerate residenti in Italia “le persone che sono assoggettate ad imposta […] per il reddito che esse ricavano da fonti situate in detto Stato o per il patrimonio che esse possiedono in detto Stato”. Questa precisazione è stata inserita per tenere conto delle normative vigenti in alcuni Stati per talune tipologie di soggetti, quali i diplomatici esteri o il personale consolare (13). La suddetta disposizione deve essere letta alla luce dell’oggetto e della finalità dell’art. 4, che mira a escludere le persone che non sono soggette a una tassazione comprensiva in uno Stato (c.d. “full liability to tax”). La disposizione non deve essere interpretata nel senso di escludere dalla nozione di persona residente ai fini convenzionali i residenti di Stati che adottino un criterio impositivo di tipo territoriale. Il regime introdotto dall’art. 24-bis del TUIR introduce un regime territoriale “attenuato” atteso che sui redditi di fonte estera non esclusi dal perimetro dell’opzione coloro che decidono di aderire al nuovo regime scontano un imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) e relative addizionali (14). Tali contribuenti sono soggetti alla tassazione ordinaria prevista per le persone fisiche residenti in relazione ai redditi di fonte italiana e altresì per i redditi esteri realizzati nelle giurisdizioni espressamente escluse. Quanto precede è stato confermato dalle prime prese di posizione dell’amministrazione finanziaria secondo cui i soggetti che esercitano l’opzione di cui all’art. 24-bis del TUIR sono da considerare residenti anche ai fini convenzio-

(13) Si veda il paragrafo 8.1 del Commentario all’art. 4 del Modello OCSE. (14) Come peraltro già avviene in via ordinaria per alcune tipologie redditi di capitale o diversi.


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nali, salvo il caso in cui la Convenzione non preveda disposizioni a carattere specifico che non consentano di giungere a tale conclusione (cfr. ad esempio la Convenzione stipulata tra Italia e Svizzera) (15). Non è detto tuttavia che le amministrazioni estere si conformino alle conclusioni della citata circolare, non essendo vincolate al riconoscimento dei benefici convenzionali nei confronti del neo-residente. 3. La procedura di interpello preventivo. – Il regime sostitutivo prevede la possibilità del contribuente di far ricorso alla procedura di interpello preventivo. Inizialmente tale procedura aveva un connotato obbligatorio in quanto l’art. 24-bis, comma 3 del TUIR condizionava l’efficacia dell’opzione all’ottenimento di una risposta favorevole ad esito di specifica istanza di interpello probatorio (ex art. 11, comma 1, lett. b) della L. n. 212/2000, c.d. “Statuto dei diritti del contribuente”) da presentarsi entro il termine della dichiarazione relativa al periodo di imposta in cui viene trasferita la residenza fiscale in Italia con efficace a partire da tale periodo di imposta. Successivamente il Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate ha mutato tale impostazione, assegnando alla procedura in questione carattere facoltativo (anche in presenza di situazioni rientranti nel novero della presunzione di cui all’art 2 co. 2bis del T.U.I.R.) e la possibilità di accesso al regime anche a partire dal periodo d’imposta successivo a quello di trasferimento della residenza. L’istanza di interpello è presentata ai sensi dell’art. 11, co. 1, let. b), della l. 27 luglio 2000, n. 212. Nell’istanza di interpello il contribuente, tra l’altro, è tenuto ad indicare: a) i dati anagrafici e, se già attribuito, il codice fiscale nonché, se già residente, il relativo indirizzo di residenza in Italia; b) lo status di non residente in Italia per un tempo almeno pari a nove periodi di imposta nel corso dei dieci precedenti l’inizio di efficacia dell’opzione; c) la giurisdizione o le giurisdizioni in cui ha avuto l’ultima residenza fiscale prima dell’esercizio di efficacia dell’opzione;

(15) In questo senso si era espressa la dottrina ancor prima della Circolare 17/E, cfr. Gruppo di Studio “Resident but not domiciled” – Documento di studio 1/2017 – Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, 14.


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d) gli Stati o territori esteri per i quali intende esercitare la facoltà di non avvalersi dell’applicazione dell’imposta sostitutiva ai sensi del comma 5 dell’art. 24-bis del TUIR. Il contribuente è tenuto ad indicare inoltre la sussistenza degli elementi necessari per il riscontro delle condizioni per l’accesso al regime dell’imposta sostitutiva sui redditi prodotti all’estero, compilando l’apposita check list allegata al provvedimento in commento e presentando la relativa documentazione a supporto, ove rilevante. La risposta all’istanza di interpello presentata ai sensi dell’art. art. 11, comma 1, lett. b) della l. n. 212/2000 è volta a confermare lo status di non residente in Italia del contribuente negli anni precedenti. Nell’ambito di tale istanza di interpello il contribuente potrà porre altresì un quesito ai sensi dell’art. 11, comma 1, lett. a) della l. 27 Luglio 2000, n. 212 (16), al fine di richiedere conferma della natura estera dei redditi in relazione alla quale il contribuente intende fruire del regime sostitutivo. L’amministrazione finanziaria dovrà rispondere entro 120 giorni dalla presentazione dell’istanza a cui vanno aggiunti ulteriori 60 giorni in caso di richiesta di integrazione documentale. Resta fermo quanto previsto nell’art. 5, comma 1, lettera f), del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, ai sensi del quale l’eventuale istanza presentata ai sensi del comma 3 dell’art. 24-bis del TUIR sarà dichiarata inammissibile se è in corso un’attività di verifica. 4. La verifica del requisito del trasferimento in Italia: il punto di vista italiano e quello dello Stato estero. – Il requisito del trasferimento della residenza richiede alcune considerazioni che tengano conto della particolare tipologia di sportivo professionista. Infatti, le diverse tipologie di sportivi professionisti sono contraddistinte da un differente grado di mobilità internazionale. Si pensi alla differenza tra un calciatore professionista militante in un club italiano e un motociclista di fama internazionale. È verosimile ritenere che il primo abbia un legame con il territorio italiano di gran lunga più intenso rispetto al pilota. Quest’ultimo – a differenza del calciatore professionista – svolgerà la propria attività prevalentemente al di fuori del territorio italiano, atta eccezione per le corse effettuate in Italia. Ci si potrebbe pertanto chiedere se gli sportivi professionisti con un alto grado di mobilità internazionale possano accedere al regime sostitutivo e in tal

(16) Tale procedura di interpello prevede un diverso termine di risposta, pari a 90 giorni.


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caso se sia necessario che gli stessi soddisfino un requisito di presenza fisica sul territorio italiano per un periodo superiore a 183 giorni. Si è detto sopra che il requisito della residenza in Italia deve essere verificato secondo i criteri generali di cui all’art. 2 del TUIR. Orbene, fermo restando che la verifica dei requisiti previsti da tale disposizione richiede la disamina della specifica situazione fattuale, l’accesso al regime non è sottoposto ad alcuna condizione di presenza fisica minima sul territorio dello Stato italiano. Volendo estremizzare è sufficiente la mera iscrizione all’anagrafe per un periodo di tempo superiore a 183 giorni perché lo sportivo professionista si possa ritenere fiscalmente residente in Italia soddisfacendo in questo modo il requisito del trasferimento della residenza fiscale nel territorio dello Stato. In una situazione del genere il rischio per il contribuente non è tanto quello di vedersi negati i benefici del regime sostitutivo da parte del fisco italiano, quanto quello di incorrere in una contestazione all’estero volta al disconoscimento della residenza italiana e al conseguente diniego dei benefici convenzionali (ove previsti). Tale contestazione avrebbe tuttavia un effetto assai “limitato”. Ciò in quanto il reddito dello sportivo professionista ricade nell’ambito di applicazione dell’art. 17 del Modello OCSE (ripreso in pressoché tutte le convenzioni italiane) il quale si limita ad “assicurare” la potestà impositiva dello Stato della fonte senza tuttavia fissare alcun limite quantitativo in ordine alla tassazione estera. Se anche lo Stato estero negasse i benefici convenzionali, una simile contestazione non avrebbe alcun effetto peggiorativo in termini di tassazione dello sportivo professionista. Sul reddito prodotto all’estero, lo sportivo professionista sconterebbe la tassazione nello Stato estero, secondo la disciplina interna ivi applicabile ma, ciononostante, potrebbe comunque godere in Italia dei benefici legati al regime dei neo-residenti. La situazione assumerebbe contorni diversi qualora la contestazione nello Stato estero non si limiti a disconoscere la residenza italiana ma sia finalizzata ad ivi affermarne la residenza fiscale. L’effetto della contestazione sarebbe molto più ampio rispetto al caso precedente, in ragione del fatto che la contestazione di residenza nello Stato estero implicherebbe verosimilmente l’imposizione in tale Stato dei redditi dello sportivo professionista su base mondiale. Si determinerebbe pertanto un conflitto di doppia residenza da risolvere in base alla disciplina convenzionale, ove applicabile. 5. La territorialità dei compensi per le prestazioni sportive e dei redditi derivanti dallo sfruttamento dei diritti di immagine. – Nei paragrafi successivi


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si esamineranno i profili di territorialità relativi a talune tipologie reddituali tipiche della figura dello sportivo professionista. Si è già sottolineata l’importanza della corretta individuazione della fonte reddituale estera, posto che il regime trova applicazione ai soli redditi prodotti all’estero. Per i redditi di fonte italiana e per i redditi di fonte estera oggetto di esclusione dal regime continuano a trovare applicazione le disposizioni ordinarie in materia di imposta sul reddito delle persone fisiche (e quindi la tassazione IRPEF su base progressiva e le relative addizionali) (17). L’individuazione della fonte estera richiede la lettura ‘a specchio’ dei criteri enunciati dall’art. 23 del TUIR che stabiliscono quando un reddito di un soggetto non residente si possa considerare prodotto nel territorio dello Stato. Per quanto di interesse ai fini degli sportivi professionisti, si prenderanno in considerazione solo alcune categorie reddituali previste dall’art. 23, comma 1 del TUIR (18), ossia: - i redditi di lavoro dipendente e i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell’art. 50 del TUIR che si considerano prodotti all’estero se l’attività è prestata al di fuori dello Stato (Art. 23, comma 1, let. c) del TUIR); - i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente di cui alle lettere da c) a l) del comma 1 dell’art. 50 del TUIR che si considerano prodotti all’estero se il soggetto pagatore è estero (cfr. Art. 23, comma 2 del TUIR); - i redditi di lavoro autonomo che si considerano prodotti all’estero se l’attività è esercitata all’estero (Art. 23, comma 1, let. d) del TUIR); - i redditi diversi che si considerano prodotti all’estero quando riferiti ad attività all’estero e beni all’estero (Art. 23, comma 1, let. f) del TUIR). 5.1. Compensi per le prestazioni sportive. – In generale, i compensi ritratti dagli sportivi professionisti per l’effettuazione della prestazione sportiva possono annoverarsi tra: - i redditi di lavoro dipendente di cui all’art. 49 del d.p.R. n. 917 del TUIR, se l’attività resa si inquadri in un rapporto di lavoro dipendente;

(17) A queste fattispecie, se ne aggiunge una terza, di certo meno rilevante ai fini della presente trattazione, ovverosia le plusvalenze derivanti da cessioni di partecipazioni qualificate realizzate nei primi cinque periodi d’imposta di efficacia dell’opzione (Cfr. Circolare 17/E, Parte III, § 2, 52). (18) Non si richiamano perciò i redditi fondiari, i redditi di capitale e quelli di impresa.


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- i redditi di lavoro autonomo di cui all’art. 53 del TUIR, nei casi in cui l’attività non si inserisca in un rapporto di lavoro dipendente e non rientri tra quelle disciplinate dall’art. 2 della l. n. 91 del 23 marzo 1981 recante “Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti” (d’ora in avanti “l. 91/1981”) (19). - i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente di cui all’art. 50, comma 1, lett. c-bis) del TUIR, in virtù della presunzione normativa di cui all’art. 15 della l. n. 91/1981, applicabile agli sportivi professionisti autonomi che svolgono una disciplina regolamentata dal CONI ai sensi del già citato art. 2 della l. n. 91/1981. Procediamo con ordine ed esaminiamo le prime due categorie per le quali il criterio di territorialità è il medesimo, ossia il luogo di svolgimento dell’attività. Solo per fornire alcuni esempi concreti, in virtù del rapporto di lavoro dipendente instaurato con il club di appartenenza i calciatori rientrano nella categoria di coloro che producono redditi di lavoro dipendente (20). Un calciatore che milita in un club italiano produce dunque un reddito di lavoro dipendente, che per la quasi totalità è prodotto sul territorio italiano e come tale escluso dal regime sostitutivo. Per i calciatori l’applicabilità del regime sostitutivo si potrebbe al più ipotizzare con riferimento ai bonus corrisposti dal club italiano a fronte della partecipazione ad una competizione internazionale (si pensi ad esempio al bonus erogato in caso di vittoria della Champions League, nell’ipotesi in cui la finale sia disputata al di fuori del territorio dello Stato). Ciò in quanto – fermo restando la necessità di individuare la quota del bonus riferibile alle prestazioni effettuate all’estero (es. sulla base del numero di gare) – sussisterebbe un collegamento tra reddito e prestazione sportiva estera. Diverso è il caso in cui si cerchi di applicare il regime sostitutivo alla porzione della remunerazione fissa percepita dallo sportivo “dipendente”, per individuare la quale occorrerebbe individuare un valido criterio

(19) Tale disposizione stabilisce che: “Ai fini dell’applicazione della presente legge, sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica”. (20) Si veda sul punto la Circolare n. 37/E del 20 dicembre 2013, § 1.


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di allocazione del reddito (es. il numero di giorni trascorsi all’estero). In tal caso, non solo mancherebbe un collegamento diretto tra la remunerazione e la prestazione effettuata all’estero, ma quest’ultima potrebbe anche non essere mai eseguita. Infatti, all’atto della stipula del contratto di prestazione sportiva, potrebbe anche non essere certo l’effettivo svolgimento della prestazione all’estero e/o il numero di gare svolte all’estero dallo sportivo “dipendente”. Si ritiene pertanto che la remunerazione fissa dello sportivo “dipendente” sia difficilmente agevolabile con il regime sostitutivo. Inoltre, la remunerazione potrebbe anche non configurare un reddito prodotto all’estero laddove si aderisca alla tesi avanzata in dottrina che nega la territorialità italiana dei redditi di lavoro dipendente riferiti ad attività esercitate con carattere occasionale (21). Rientrano invece nella categoria di coloro che producono reddito di lavoro autonomo i tennisti, i nuotatori ovvero i piloti di Formula 1 posto che per questi sportivi non esiste solitamente un rapporto di lavoro dipendente. Inoltre, essi non appartengono a Federazioni affiliate al CONI, di guisa che non rientrerebbero mai nella categoria di sportivi professionisti contemplata dall’art. 2 della l. n. 91/1981, restando esclusi anche dalla categoria di coloro che producono redditi assimilati ai redditi di lavoro dipendente (sulla quale si tornerà più in avanti). La categoria degli sportivi professionisti “autonomi” è sicuramente la più ampia e può certamente ritenersi la categoria per la quale il regime sostitutivo ha il maggior appeal. Per tale categoria di sportivi la lettura ‘a specchio’ dell’art. 23 conduce a considerare redditi esteri i compensi riferiti alle prestazioni sportive svolte al di fuori del territorio italiano. Ciò detto per gli sportivi che producono reddito di lavoro autonomo possono porsi alcune questioni peculiari alla tipologia reddituale. Una prima questione riguarda l’allocazione territoriale del reddito, in particolar modo nei casi in cui il compenso dello sportivo sia determinato in misura fissa senza riferimento a specifiche gare o apparizioni. In tal caso la ripartizione tra reddito prodotto all’estero e reddito prodotto in Italia potrebbe essere effettuata secondo il criterio individuato dalla Risoluzione n. 79/E

(21) F. Crovato, Il lavoro dipendente transnazionale (dall’emigrante al manager dei gruppi multinazionali e la tassazione in base la luogo di svolgimento dell’attività, in AA.VV., Il diritto tributario nei rapporti internazionali, a cura di L. Carpentieri - R. Lupi - D. Stevanato, Il Sole 24Ore, 2003, 174.


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del 16 giugno 2006 (d’ora in avanti “Risoluzione n. 79”). Tale risoluzione ha riguardato la tassazione in Italia delle remunerazioni corrisposte ad uno sportivo non residente (nel caso di specie un ciclista), il quale era legato ad una società italiana da un rapporto di lavoro subordinato. Nel contratto di lavoro dipendente era prevista una remunerazione unitaria non riferita alle singole attività di gara, rendendo di fatto necessaria l’individuazione di un criterio per individuare la quota imponibile in Italia perché afferente alle prestazioni rese nel territorio dello Stato da quella afferente alle prestazioni estere e dunque non imponibile in virtù della disciplina convenzionale. Sulla scorta di quanto precede l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto di “ripartire il compenso contrattuale in relazione al rapporto tra le giornate di gara (tappe ciclistiche) svolte in Italia e quelle svolte all’estero”. Il medesimo criterio dovrebbe trovare applicazione anche nei casi summenzionati al fine di allocare il reddito complessivo tra reddito prodotto in Italia e reddito prodotto all’estero. Resta tuttavia incerto se l’allocazione territoriale del reddito debba tener conto anche delle attività propedeutiche alla prestazione sportiva, quale ad esempio le attività di allenamento. Di tale elemento non v’è traccia nella citata Risoluzione 79/E ma sul punto sarebbe opportuno che l’amministrazione italiana intervenisse con dei chiarimenti. Una seconda questione riguarda la rilevanza dei costi sostenuti dallo sportivo professionista per i quali non esiste un collegamento diretto tra il costo e il reddito estero. In particolare ci si potrebbe chiedere se tali costi rilevino in misura pari alla proporzione tra reddito estero e reddito assoggettato a tassazione su base ordinaria in quanto escluso dal regime sostitutivo. Si pensi al caso in cui uno sportivo sostenga un costo per la partecipazione ad una competizione internazionale che si svolgerà in parte in Italia e in parte all’estero. Posto che ricadono nel regime sostitutivo unicamente i redditi relativi alla partecipazione a competizioni all’estero, si ritiene che per i costi sia necessaraia un’allocazione secondo la proporzione tra reddito estero e reddito di fonte italiana. Tale conclusione, volta a limitare la deducibilità dei costi riferibili all’attività estera, incontrerebbe tuttavia un limite nell’assenza di una disposizione specifica dal tenore analogo all’art. 109, comma 5 del TUIR. Sarebbe quindi opportuno un intervento legislativo mirato a risolvere la questione. In aggiunta a quanto precede, una questione ulteriore si presenta allorquando un soggetto residente in Italia corrisponda redditi di lavoro autonomo soggetti alla ritenuta a titolo di acconto del 20%, ai sensi dell’art. 25, comma 1 del Decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. n. 600 del 29 settembre


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1973. In tali casi, il prelievo a titolo di acconto, ove applicato, dovrà costituire oggetto di rimborso (22). Da ultimo, occorre analizzare la categoria residuale degli sportivi che producono un reddito assimilato al reddito di lavoro dipendente. Si tratta degli sportivi professionisti che appartengono ad una federazione affiliata al Coni (es. un ciclista) e che intrattengono un rapporto di lavoro autonomo secondo quanto previsto dall’art. 3(2) della l. 91/1981 (cfr. Risoluzione n. 79/E del 16 giugno 2016). Dovrebbero altresì rientrare nella categoria residuale in questione anche gli sportivi che percepiscono compensi a fronte di attività a carattere episodico rese in favore della Federazione nazionale (23). Per tali sportivi, la lettura “a specchio” dell’art. 23 implica che il reddito possa considerarsi prodotto all’estero se corrisposto da un soggetto pagatore non residente. Il criterio della residenza del soggetto pagatore sembrerebbe prevalere, ai fini dell’applicazione del regime sostitutivo, finanche sul criterio (luogo di svolgimento dell’attività) tipicamente individuato dalle convenzioni per eliminare le doppie imposizioni. Pertanto, lo sportivo professionista (es. un ciclista) che trasferisce la residenza in Italia per affiliarsi ad un team residente (es. una squadra ciclistica) non potrebbe in alcun modo richiedere i benefici del regime sostitutivo, anche nell’ipotesi in cui l’attività sportiva venga resa prevalentemente all’estero. Sul punto sarebbe opportuno un intervento dell’amministrazione finanziaria volto ad evitare il verificarsi di simili discriminazioni tra differenti categorie di sportivi professionisti. A parere di chi scrive sarebbe opportuno che per tutti gli sportivi professionisti si facesse riferimento, quale criterio esclusivo, al luogo di svolgimento dell’attività posto che non appare giustificabile l’applicazione di criteri diversi, ossia il criterio del luogo di svolgimento dell’attività per i redditi di lavoro autonomo e di lavoro dipendente e il criterio della residenza del soggetto pagatore, per i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente (24).

(22) In tal senso, va accolta con favore la posizione assunta dall’amministrazione finanziaria nella Circolare 17/E secondo cui “una volta esercitata l’opzione in esame, il soggetto che si avvale dell’imposta sostitutiva ex articolo 24-bis del TUIR può rilasciare un’apposita dichiarazione agli intermediari che eventualmente intervengono nella riscossione di redditi esteri i quali possono scegliere di non applicare alcuna imposta”, § 5.1., 81. (23) Tale conclusione si può evince da una ricostruzione delle pronunce di giurisprudenza, cfr. ex multis, la sentenza della Suprema Corte di Cassazione, 14 giugno 1999, n. 5866 e di prassi, cfr. la Risoluzione Ministeriale 5 aprile 1984, n. 8/398, che tenga conto dell’evoluzione della disciplina normativa (24) Tale diverso trattamento è peraltro il risultato di uno scarso coordinamento normativo


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5.2. Redditi derivanti dalle sponsorizzazioni e dallo sfruttamento dei diritti di immagine. – Di seguito si analizzeranno i profili di territorialità attinenti ai redditi che lo sportivo professionista ritrae dalle attività di sponsorizzazione (es. la partecipazione ad un evento promozionale) e/o di sfruttamento commerciale di un marchio associato all’immagine personale (cd. marchi personali) o di un marchio commerciale e/o di sfruttamento economico dell’immagine non associata ad alcun marchio. Nel caso in cui le attività summenzionate si inseriscano nell’ambito di un rapporto di lavoro dipendente, tali compensi saranno considerati reddito di lavoro dipendente e potranno pertanto beneficiare del regime solo se l’attività venga esercitata al di fuori del territorio dello Stato (25). In mancanza di un rapporto di lavoro dipendente, occorre effettuare un’analisi distinta per ciascuna delle tre fattispecie sopra richiamate. I redditi derivanti da attività di mera sponsorizzazione rientrano nel novero dei redditi di lavoro autonomo, a condizione che le stesse siano esercitate con carattere di abitualità. In difetto di tale requisito i redditi derivanti dalle attività di sponsorizzazione rientrerebbero nel novero dei redditi diversi (obbligo di fare). In entrambi i casi, il criterio di territorialità è rappresentato dal luogo della prestazione. Ne consegue che per un contratto di sponsorizzazione tecnica collegata alla prestazione sportiva (si pensi all’obbligo del tennista di utilizzare una racchetta da tennis fornita dallo sponsor), il reddito potrà considerarsi di fonte estera se la prestazione sportiva è effettuata al di fuori del territorio italiano. Lo stesso dicasi se il contratto di sponsorizzazione contempla un obbligo di fare per la cui esecuzione lo sportivo professionista è tenuto a recarsi all’estero (si pensi ad esempio alla partecipazione di quest’ultimo ad una serata di gala organizzata dallo sponsor al di fuori del territorio dello Stato). Più complesso è, invece, il profilo qualificatorio riguardante i redditi derivanti dalla concessione in licenza dei marchi personali e/o commerciali e i redditi derivanti dallo sfruttamento economico del diritto di immagine. Per quanto riguarda i primi, nei casi in cui lo sfruttamento del marchio si inserisca nell’ambito di un’attività di lavoro autonomo dello sportivo (si

poiché l’art. 15 della l. n. 91/1981 richiamava i redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo di cui alla let. a) dell’art. 49, comma 2 del vecchio TUIR (oggi art. 53). Tale lettera è stata successivamente abolita e i redditi ivi previsti sono confluiti nella categoria dei redditi di lavoro dipendente. (25) A. Carinci, Profili fiscali dello sfruttamento del diritto di immagine degli sportivi, in Lo Sport e il Fisco (Wolters Kluwer - Cedam 2016).


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pensi al caso del tennista), il reddito si qualificherebbe come reddito di lavoro autonomo in ragione di quanto previsto dall’art. 54, comma 1 quater del TUIR (26). Tale conclusione è confermata anche dalla prassi dell’amministrazione finanziaria nella Risoluzione n. 255/E del 2 ottobre 2009. Il citato documento di prassi riguardava la cessione dello sfruttamento del diritto di immagine da parte di un artista a fronte dell’obbligo di costituzione di una polizza assicurativa assunto dalla società acquirente. Nella Risoluzione n. 255/E l’Agenzia delle Entrate ha precisato che “il compenso percepito in natura [ndr. la costituzione della polizza vita] non è il corrispettivo delle ordinarie prestazioni del personaggio ma si riferisce allo sfruttamento razionale ed organizzato della sua immagine sotto tutte le forme: pubblicitarie e promozionali”. A parere dell’Agenzia delle Entrate “[d]etto compenso, anche se non strettamente riconducibile alla attività professionale, configura reddito di lavoro autonomo ai sensi dell’art. 54, comma 1-quater, del Tuir” (27). Sulla scorta di quanto precede anche i redditi derivanti da uno sfruttamento occasionale del marchio, rientrerebbero pertanto nell’alveo dei redditi di lavoro autonomo. Diversamente, nei casi in cui l’attività di sfruttamento del marchio si affianchi ad un’attività di lavoro dipendente dello sportivo (si pensi al caso del calciatore) i relativi proventi potrebbero tanto ricondursi nell’alveo dei redditi di lavoro autonomo quanto in quello dei redditi diversi, a seconda che l’attività di sfruttamento abbia o meno carattere di abitualità (28). Ciò premesso, a parere di chi scrive, a prescindere dalla qualificazione, i redditi derivanti dall’utilizzazione economica dei marchi dovrebbero considerarsi prodotti all’estero se corrisposti da soggetti non residenti secondo una lettura a specchio dell’art. 23, comma 2, lett. c TUIR, nel quale sono espressa-

(26) Tale disposizione prevede il concorso al reddito di lavoro autonomo dei corrispettivi conseguiti dal lavoratore autonomo a fronte di elementi immateriali comunque riferibili all’attività artistica o professionale. La qualificazione quali redditi di lavoro autonomo dei redditi derivanti dallo sfruttamento dei marchi era del resto ammesso in vigenza dell’art. 49, comma 2, del d.P.R. n. 597 del 29 settembre 1973. Sul punto si veda G. Corasaniti, Merchandising e Marchi, in Lo Sport e il Fisco (Wolters Kluwer - Cedam 2016), 95. (27) M. Logozzo, La tassazione degli atleti professionisti, in Lo Sport e il Fisco (Wolters Kluwer - Cedam 2016). (28) Sul punto si veda G. Corasaniti, Merchandising e Marchi, in Lo Sport e il Fisco (Wolters Kluwer – Cedam 2016), 95 secondo cui “[…] la soluzione più ragionevole - e forse anche l’unica possibile - sembra portare all’ipotesi prevista dall’art. 67 comma 1 lett. 1) del TUIR, che considera imponibili i redditi derivanti “dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere.”.


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mente menzionati i marchi di impresa (29). Tali redditi ricadrebbero pertanto nel regime sostitutivo a condizione che il soggetto pagatore sia residente al di fuori del territorio dello Stato. Di gran lunga più complessa è la qualificazione dei redditi derivanti dallo sfruttamento economico del diritto di immagine e il loro trattamento ai fini del regime sostitutivo. Il diritto dell’immagine rientra tra i “diritti connessi all’esercizio del diritto d’autore” di cui al titolo II della l. 22 aprile 1941, n. 633 e precisamente tra i diritti relativi al ritratto disciplinati dagli artt. 96-97 della citata legge. I redditi derivanti dallo sfruttamento economico di tali diritti non hanno una propria disciplina ai fini delle imposte sui redditi, ragion per cui ne è dibattuta la categoria reddituale di appartenenza al punto che sussistono tre differenti tesi qualificatorie. Una prima tesi qualificatoria – che si inserisce nel solco della citata Risoluzione n. 255/E del 2 ottobre 2009 – inquadrerebbe i redditi derivanti dallo sfruttamento del diritto dell’immagine rientrerebbero nel novero dei redditi di lavoro autonomo. Secondo una parte della dottrina i redditi derivanti dallo sfruttamento del diritto di immagine rientrerebbero nei “redditi diversi” derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere di cui all’art. 67, comma 1, lett. l TUIR (30). Infine, secondo altri autori, i redditi in questione sarebbero da ricondursi nel novero dei redditi di lavoro autonomo “assimilati”, di cui all’art. 53, comma 2) lett. b) o tra i redditi diversi di cui all’art. 67, comma 1, lett. g), TUIR riguardanti i compensi pagati per lo sfruttamento delle opere dell’ingegno (31).

(29) Sull’applicabilità dell’art. 23, comma 2, let. c) del TUIR ai redditi derivanti dallo sfruttamento economico dei marchi si veda G. Corasaniti, Merchandising e Marchi, in “Lo Sport e il Fisco” (Wolters Kluwer - Cedam 2016), 97. (30) A. Parolini, Italy, in The International Guide to the Taxation of sportsmen and sportswomen, Amsterdam 2002; G. Angelini - G. Dan - A. Vaccaro, I redditi diversi, Milano, 2003, 131. (31) M. Piazza, Guida alla fiscalità internazionale, Milano, 2004, 785, secondo cui i compensi per diritti di immagine dovrebbero ascriversi tra i redditi di lavoro autonomo di cui all’art. 53, comma 2, lettera b) TUIR, derivanti dall’utilizzazione economica di “opere dell’ingegno”, nel presupposto che l’Amministrazione finanziaria, con la risoluzione n. 12/E del 9 febbraio 2004, non ha operato alcuna distinzione tra opere delle ingegno e diritti connessi ai fini dell’applicazione delle disposizioni convenzionali. L’impossibilità di ricondurre i compensi per l’utilizzazione economica di diritti connessi alla fattispecie di cui alla all’art. 53, comma 2, lettera b) TUIR trova supporto, oltre che nell’attuale lettera della norma, anche nell’evoluzione


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A parere di chi scrive, i redditi derivanti dallo sfruttamento del diritto di immagine rientrano nei redditi di lavoro autonomo nel caso in cui le attività di sfruttamento abbiano carattere di abitualità o, in mancanza di tale requisito, nei redditi diversi, in particolare tra gli obblighi di fare, non fare o permettere di cui all’art. 67, comma 1, lett. l) TUIR. In tutti i casi, a prescindere dalla qualificazione reddituale (reddito di lavoro autonomo o reddito diverso) resta il dubbio relativo a come vada individuata la territorialità di tali redditi (32). Come noto il criterio di territorialità previsto per i redditi di lavoro autonomo e per i redditi diversi (derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere) poggia sul luogo di svolgimento dell’attività. L’applicazione di tale criterio appare difficoltosa nel caso dei redditi derivanti dallo sfruttamento dei diritti di immagine. Ciò in quanto tale sfruttamento è spesso associato ad un’inattività del soggetto sponsorizzato o quanto meno all’obbligo di quest’ultimo di consentire “passivamente” lo sfruttamento del diritto (33). In particolare, lo sportivo si impegna nei confronti dello sponsor ad acconsentire che la propria immagine venga utilizzata per finalità commerciali. A ciò si aggiunge l’obbligo, spesso accessorio, assunto dallo sportivo di rendersi disponibile a svolgere talune attività quali, ad esempio, la partecipazione alla realizzazione dello shooting fotografico o di un video promozionale. In tutti casi è dubbio quali siano i parametri rilevanti per localizzare l’attività (ad esempio la residenza all’estero del soggetto pagatore, il luogo di sfruttamento dell’immagine personale, il luogo di effettuazione dello shooting fotografico). Il tema presenta dei profili di elevata incertezza. A parere di chi scrive, esistono tuttavia validi argomenti per mutuare l’applicazione del criterio della residenza del soggetto pagatore di cui all’art. 23, comma 2, lett. c), rilevante tra gli altri per i redditi derivanti dallo sfruttamento dei marchi d’impresa, anche ai redditi derivanti dallo sfruttamento economico del diritto di

storica della stessa, giacché nel TUIR del 1986 è stata soppressa, la locuzione “e simili” precedentemente contenuta nell’art. 49, comma 3, lett. b) del DPR 597/93 (“redditi derivanti dalla utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio e dalla utilizzazione economica di opere dell’ingegno, invenzioni industriali e simili”). (32) S. Oliva - E. A. Palmitessa, Some relevant open issues for international sportspersons transferring their tax residency to Italy, in Global Sport Law and Taxation Reports, 3/2018, Nolot, 53. (33) Si pensi allo sfruttamento dell’immagine personale per il tramite dei social network o di una testata giornalistica.


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immagine. Se è vero che a tale conclusione si potrebbe obiettare che la disposizione non menziona i diritti di immagine, è altrettanto vero che l’applicazione in via analogica dell’art. 23, comma 2, lett. c) TUIR potrebbe giustificarsi argomentando che, come già osservato, il diritto di immagine è anch’esso un diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, precisamente annoverabile tra i “diritti connessi all’esercizio del diritto d’autore” di cui al Titolo II della Legge sul diritto d’autore e, precisamente, tra i diritti relativi al ritratto. Sarebbe pertanto coerente che ai fini dell’individuazione della territorialità dei redditi derivanti dallo sfruttamento del diritto di immagine si seguisse un criterio analogo a quello applicato per i redditi derivanti dallo sfruttamento economico dei marchi nonché delle altre opere dell’ingegno tutelate dal diritto di autore richiamate dall’art. 23, comma 2 lett. c) del TUIR. A parere di chi scrive, non sembra invece ragionevole individuare la territorialità con i criteri del luogo di utilizzo dell’immagine ovvero del luogo di effettuazione dello shooting fotografico. Il criterio del luogo di utilizzo dell’immagine appare di ardua applicazione in quei casi in cui la licenza per lo sfruttamento dell’immagine possa riguardare una pluralità giurisdizioni o prevedere uno sfruttamento su scala mondiale. Altrettanto ardua sarebbe l’applicazione del criterio nei casi in cui lo sfruttamento dell’immagine avvenga per il tramite di piattaforme social per i quali un territorio di utilizzo dell’immagine non sarebbe individuabile. Quanto al criterio del luogo di effettuazione dello shooting fotografico esso si ritiene inidoneo a determinare la territorialità del reddito in quanto non è certamente quest’attività che caratterizza il contratto di sfruttamento economico dell’immagine personale il quale, lo si ribadisce, contempla piuttosto l’obbligo assunto dallo sportivo di permettere che altri utilizzino la propria immagine personale per finalità commerciali. 5.3. Compensi percepiti dagli sportivi professionisti per il tramite di starcompanies. – Meritano considerazioni a parte i compensi per le prestazioni sportive corrisposti alle c.d. «star companies». In generale, a mente dell’art. 23, comma 2, let. d) tali compensi sono considerati di fonte italiana quando si riferiscono ad una prestazione sportiva effettuata per conto della società estera sul territorio dello stato italiano. L’art. 23, comma 2, lett. d), TUIR deroga al comma 1, lett. e), del medesimo articolo ai sensi del quale è sancito che i redditi di impresa sono imponibili solo in Italia qualora l’attività di impresa sia svolta mediante una stabile organizzazione. La norma è volta a preservare l’imposizione alla fonte sui


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redditi derivanti da prestazioni artistiche o sportive, a prescindere dal fatto che il compenso venga (in tutto o in parte) corrisposto in favore di un veicolo societario non residente (34). L’utilizzo di veicoli societari esteri si presta tuttavia anche a fenomeni di interposizione fittizia di persona nei casi in cui tali veicoli costituiscano un mero schermo societario (35). Tali fattispecie rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 37, comma 3 del d.P.R 600 del 29 settembre 1973 (36). Sulla scorta di quanto precede si ritiene quindi corretta la posizione assunta dall’amministrazione finanziaria nella Circolare 17/E (37) secondo cui “[s]e la persona fisica ha il possesso di redditi di fonte estera per il tramite di un’entità interposta estera, gli stessi sconteranno esclusivamente l’imposta sostitutiva di cui all’articolo 24-bis del TUIR, fatte salve le eccezioni ivi previste”. Il reddito della società estera interposta è quindi “imputabile diret-

(34) P. de’ Capitani di Vimercate, Le Star Companies, in Lo Sport e il Fisco (Wolters Kluwer - Cedam 2016), 191 ss. (35) F. Randazzo, Il trattamento fiscale delle remunerazioni indirette agli atleti, con particolare riferimento ai casi di interposizione di terzo, in Lo Sport e il Fisco (Wolters Kluwer - Cedam 2016), 412. Si veda anche la giurisprudenza, Comm. trib. I grado Napoli, 20 dicembre 1993, n. 3230 e Comm. trib. II grado Napoli (in riforma della precedente sentenza) riguardanti il caso Maradona, entrambe in Riv. dir. trib. 1996, II, 497, con commento di G. Falsitta, L’interposizione fittizia ed il dribbling al fisco, in Riv. dir. trib., 1996, II, 522 e R. Lupi, Contratti collegati e interposizione fittizia, in Rass. trib., 1995, 2043. Si veda, per un altro caso, riguardante sempre un calciatore, Cass. 26 febbraio 2010, n. 4737, che si può leggere anche in Riv. dir. trib. 2010, II, 339, con commento di G. Falsitta, Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, II, 349 ss. (36) F. Randazzo, Il trattamento fiscale delle remunerazioni indirette agli atleti, con particolare riferimento ai casi di interposizione di terzo, in Lo Sport e il Fisco (Wolters Kluwer - Cedam 2016), 412. (37) Come chiarito nella Circolare 17/E, 55 “l’accezione “per interposta persona” in relazione alla titolarità di situazioni giuridiche patrimoniali fa riferimento ai casi in cui il contribuente non appare titolare di una situazione giuridica patrimoniale di qualsiasi tipo, pur beneficiando dei relativi effetti giuridici. Con riferimento al possesso dei redditi, l’accezione del concetto di interposta persona trova il suo fondamento normativo nell’articolo 37, comma 3, del d.p.R. n. 600 del 29 settembre 1973 e riguarda i casi in cui il contribuente non appare titolare di redditi di qualsiasi tipo, apparendone titolari altri soggetti, pur possedendo effettivamente gli stessi per interposta persona. Perciò, se la persona fisica ha il possesso di redditi di fonte italiana per il tramite di un’entità interposta, gli stessi sconteranno il medesimo regime impositivo ordinariamente applicabile alle persone fisiche residenti in Italia (ad esempio, se la persona fisica possiede tramite una entità interposta estera immobili ubicati in Italia, i redditi derivanti dagli stessi sconteranno l’ordinario regime impositivo applicabile alle persone fisiche residenti in Italia).”.


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Parte quinta

tamente alla persona fisica interponente” la quale potrà accedere al regime sostitutivo qualora ne sussistano i presupposti (38). Con riferimento ai redditi degli sportivi professionisti, ciò implica che in presenza di un veicolo societario ritenuto interposto, la territorialità dei redditi debba essere appurata secondo i medesimi criteri che sarebbero stati applicabili in assenza del fenomeno di interposizione, ovverosia nel caso in cui i redditi fossero ascrivibili in via immediata alla persona fisica. Inoltre va accolta con favore la posizione dell’amministrazione finanziaria che, in un’ottica di rendere il regime maggiormente attrattivo, ha affermato che “la peculiare condizione soggettiva [del neo-residente] rende irrilevante ai fini impositivi l’attrazione in Italia, ai sensi dell’articolo 73 del TUIR, della residenza fiscale di entità estere, ove la stessa fosse fondata sul solo rapporto con il contribuente che fruisce dell’imposizione sostitutiva. Ciò in quanto il regime di cui all’articolo 24-bis del TUIR si disinteressa delle vicende che attengono all’entità operativa localizzata all’estero dove il reddito si intende prodotto, ivi incluse quelle attinenti alla gestione da parte del neo residente”. Tale chiarimento risulta particolarmente utile in quei casi in cui la star company, pur non essendo un soggetto interposto (39), possa risultare esterovestita in ragione del trasferimento in Italia della persona fisica che agendo quale “centro di imputazione delle scelte gestorie delle entità operative estere” intende tuttavia richiedere i benefici del regime sostitutivo. Da ultimo, un’ipotesi diversa da quelle innanzi citate riguarda la star company estera cui si ritenga applicabile uno dei regimi delle cd. società controllate estere (o “controlled foreign companies”) previsti dall’art. 167 del TUIR. La questione può assumere contorni interessanti qualora lo sportivo professionista sia un lavoro autonomo che detenga il controllo di diritto della società estera. L’applicabilità del regime CFC determina l’imputazione per trasparenza in capo al soggetto controllante italiano del reddito realizzato dalla società controllata estera. Il reddito imputato al soggetto controllante (lo sportivo

(38) La Circolare 17/E chiarisce da ultimo che “i contribuenti che accedono al nuovo regime hanno la possibilità di indicare all’amministrazione finanziaria le entità estere per le quali essi risultano interponenti o che intendono dirigere direttamente dall’Italia e chiedere un parere circa la natura estera dei redditi posseduti dalle predette entità ma a loro imputabili. In particolare, il parere potrà essere richiesto alla Direzione Centrale Accertamento in sede di accesso al regime o in un periodo d’imposta successivo” (§ 2.2., 57). (39) In tal caso non opera l’effetto dell’immediata attribuzione dei redditi in capo al soggetto interponente.


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

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italiano) costituirebbe un reddito di impresa prodotto all’estero dalla società controllata e in quanto tale potrebbe beneficiare del regime sostitutivo. Non è chiaro tuttavia se tale beneficio spetti anche qualora il reddito fosse riferibile a prestazioni sportive rese nel territorio dello Stato (40). In tal caso, a parere di chi scrive, la territorialità del reddito sarebbe determinata a mente dell’art. 23, comma 2, let. d) del TUIR secondo cui i compensi percepiti dalla società estera si considerano prodotti in Italia e ivi imponibili in quanto riferiti ad una prestazioni sportiva effettuata per conto della stessa società sul territorio dello stato italiano.

Mario Tenore

(40) In questo senso si veda Gruppo di Studio “Resident but not domiciled” – Documento di studio 1/2017 – Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, 10 secondo cui “si ritiene che si potrebbe limitare l’applicazione delle CFC rules ai soli redditi di fonte italiana eventualmente percepiti dal neo residente per il tramite di società controllate non residenti; in tal caso il contribuente potrebbe fornire all’Agenzia delle Entrate - in sede di presentazione di istanza di interpello – gli elementi specifici correlati alla controllata estera, idonei all’identificazione ed isolamento di eventuali redditi di fonte italiana dalla stessa percepiti”.



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