RDT 3/2018

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Vol. XXVIII- Giugno

Rivista di

Diritto Tributario

www.rivistadirittotributario.it

3

Rivista bimestrale

Vol. XXVIII - Giugno 2018

Fondata da Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi

2018

3

In evidenza: • La responsabilità di liquidatori, amministratori e soci per le imposte dovute dai soggetti

dell’IRES Pasquale Russo - Fabio Coli • L’impresa agricola e la ristrutturazione dei debiti tributari

Valerio Ficari - Paolo Barabino • In tema di applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, Legge n. 241 del 1990, agli atti impositivi

Franco Randazzo • Abuso del diritto: oneri procedimentali e requisiti essenziali dell’atto impositivo

Franco Paparella • La non punibilità del concorso tra emittente ed utilizzatore di fatture false e la penalizzazione

“ricostruttiva” della giurisprudenza Ivo Caraccioli

ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Rivista di Diritto Tributario

Diretta da Loredana Carpentieri - Gaspare Falsitta - Salvatore La Rosa Francesco Moschetti - Roberto Schiavolin

Pacini


Indici DOTTRINA Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti

La perdurante incertezza in ordine agli adempimenti necessari per il perfezionamento delle rivalutazioni di terreni ex art. 7, L. n. 448/2001 (nota a Cass. civ., n. 24136/2017)................................................................................................................ II, 140 Ivo Caraccioli

La non punibilità del concorso tra emittente ed utilizzatore di fatture false e la penalizzazione “ricostruttiva” della giurisprudenza.................................................. III, 29 Arno Crazzolara

La determinazione dell’utile della stabile organizzazione personale (OECD 2018, Additional Guidance on the Attribution of Profits to Permanent Establishments, BEPS Action 7)...........................................................................................................

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Valerio Ficari - Paolo Barabino

L’impresa agricola e la ristrutturazione dei debiti tributari....................................... I, 273 Antonio Guidara

“Venir meno” della parte e proroghe dei termini nella disciplina del processo tributario...................................................................................................................... I, 313 Franco Paparella

Abuso del diritto: oneri procedimentali e requisiti essenziali dell’atto impositivo..... I, 235 Franco Randazzo

In tema di applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, Legge n. 241 del 1990, agli atti impositivi............................................................................................................... I, 259 Mario Ravaccia

L’Iva addebitata in rivalsa a seguito di accertamento e la decorrenza del termine per la detrazione (nota a Corte di Giustizia, causa C-8/2017).................................. IV, 135 Pasquale Russo - Fabio Coli

La responsabilità di liquidatori, amministratori e soci per le imposte dovute dai soggetti dell’IRES....................................................................................................... I, 209 Rubrica di diritto penale tributario

a cura di Ivo Caraccioli............................................................................................... III, 29 Rubrica di diritto europeo

a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 127 Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................ Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.

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II

indici

INDICE ANALITICO IMPOSTE SUI REDDITI IRPEF (IMPOSTA SUL REDDITO DELLE PERSONE FISICHE) Redditi diversi - Plusvalenze – Cessione di terreni – Rideterminazione del valore di acquisto – Art. 7, L. n. 448/2001 – Indicazione di un prezzo di vendita inferiore al valore periziato – Determinazione d’Ufficio della plusvalenza secondo criteri ordinari – Assunzione quale prezzo di acquisto del costo storico – Sussiste (Cass. civ., sez. trib., 13 luglio 2017 - 13 ottobre 2017, n. 24136, con nota di Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti)..................................................................................... II, 137

IMPOSTE INDIRETTE

IVA (IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO) Rettifica dell’imposta – Rivalsa dell’Iva da parte del fornitore – Termine per la detrazione in capo al cessionario – Decorrenza – Data della fattura originaria – Inapplicabilità – Data della nota di debito successiva – Applicabilità (Corte di Giustizia europea, sez. VII, 2 gennaio 2017 - 12 aprile 2018, causa C-8/2017, con nota di Mario Ravaccia)............................................................................................. IV, 127

INDICE CRONOLOGICO Corte di Giustizia europea 2 gennaio 2017 - 12 aprile 2018, C 8/2017............................................................... IV, 127 *** Cass. civ., sez. trib. 13 luglio 2017 - 13 ottobre 2017, n. 24136............................................................... II, 137


indici

III

Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio



Dottrina

La responsabilità di liquidatori, amministratori e soci per le imposte dovute dai soggetti dell’IRES Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. La responsabilità dei liquidatori. – 3.

La responsabilità dei soci. – 4. La responsabilità degli amministratori. – 5. L’atto di accertamento delle responsabilità in oggetto e la sua impugnazione. – 6. La natura delle obbligazioni gravanti sui responsabili di cui all’art. 36. Il presente lavoro esamina le disposizioni dell’art. 36 del decreto disciplinante la riscossione delle imposte dirette. Nello specifico, vi si analizzano separatamente i singoli casi di responsabilità dei liquidatori, dei soci e degli amministratori in merito alle imposte dovute dalle società soggette all’IRES (Imposta sul reddito delle società italiane). In conclusione, il lavoro descrive la natura giuridica delle responsabilità sopra menzionate e riconduce i detti soggetti nella categoria dei “responsabili d’imposta” e, quindi, di quei soggetti che, assieme al contribuente (tenuto in via principale), sono anch’essi obbligati al pagamento dell’imposta. The present work examines the regulation of article 36 of the decree which disciplines the collection of direct taxes. Specifically, it analyzes separately each particular case of responsibility of liquidators, partners and administrators concerning taxes due by companies liable to IRES (Italian Tax on Corporate Income). In conclusion, the work describes the juridical nature of the aforementioned responsibilities and including those compelled legal subjects in the category of “Tax liable person”, that is the person who, together with the taxpayer (main liable party), is liable to taxes.

1. Considerazioni introduttive. Il tema della responsabilità di liquidatori, amministratori e soci per le imposte dovute dai soggetti passivi dell’IRES ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973 è stato ampiamente dibattuto in dottrina e giurisprudenza. Se ne potrebbe trarre quindi il convincimento che una nuova indagine su di esso rischi di risultare inutile, ben poco potendosi aggiungere all’ampio materiale fin qui raccolto.


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Parte prima

Tuttavia, sembra a noi che non manchino considerazioni deponenti in senso contrario. In primo luogo, le tesi espresse in proposito sono tutt’altro che univoche, tanto da ingenerare sovente un senso di smarrimento che ovviamente non aiuta allorquando si tratti di dare concreta attuazione al suddetto art. 36. In secondo luogo, ci sembra che molte delle tesi elaborate con riguardo alla natura delle obbligazioni gravanti sui soggetti di cui all’art. 36 risentano di retaggi provenienti da disposizioni non più in vigore, con l’effetto di indurre a ricostruzioni diversificate a seconda che si tratti dell’una o dell’altra categoria dei soggetti predetti, pur a fronte dell’unitarietà della disposizione che li riguarda. Onde l’opportunità, dopo aver esaminato partitamente le varie fattispecie disciplinate dall’articolo in questione, di verificare se vi sia la possibilità di pervenire ad una soluzione uniforme, capace di tener conto del contesto generale nel quale le norme che qui interessano sono inserite oltreché della sensibilità affermatasi nel tempo verso regole e principi costituenti capisaldi di rango costituzionale In terzo luogo, v’è altresì da valutare, per quanto interessa, se e quali conseguenze derivino dall’orientamento giurisprudenziale, saldamente fondato sulla vigente formulazione dell’art. 2495 c.c., secondo cui alla cancellazione della società dal registro delle imprese si accompagna l’estinzione della medesima (1). In effetti e alla luce di ciò, non sono mancate voci (2) volte a sostenere un drastico ridimensionamento dell’operatività dell’art. 36, naturalmente alla stregua delle premesse interpretative accolte; e non v’è chi non veda, allo-

(1) Cfr. Cass., SS.UU., nn. 4060, 4061 e 4062 del 22 febbraio 2010, in Corr. Trib., 2010, 1006 ss., la cui tesi deve ritenersi consolidata ad opera di successive pronunce ed è stata altresì recepita dalla dottrina, con definitivo ribaltamento della precedente opinione secondo la quale l’estinzione della società non si verificava fino a quando fossero pendenti debiti della medesima. (2) Cfr. A. Buscema, I riflessi tributari dell’estinzione della società, anche in pendenza di debiti, ai sensi della riforma societaria del 2004, in Dial. Trib., 2008, 143 e 150; R. Lupi, Dividendi, palesi ed occulti, in danno al fisco e carenza di attrezzature mentali, in Dial. Trib., 2008, 159; G. Minutoli, Considerazioni sistematiche sulla responsabilità dei soci per debiti tributari di società, in Riv. Dir. fin. Sc. Fin., 2015, II, 70. In senso contrario, si vedano: D. Stevanato, L’estinzione della società preclude l’attivazione del meccanismo di responsabilità dei rappresentanti previsto dall’art. 36 del d.P.R. n. 602/1973?, in Dial. Trib., 2008, 156; C. Glendi, Cancellazione delle società, attività impositiva e processo tributario, in Riv. Giur. Trib., 2010, 748 ss.; G. Selicato, I riflessi fiscali della cancellazione delle società dal registro delle imprese, 878 s. Cfr. anche A. Carinci, L’estinzione della società e la responsabilità tributaria dei liquidatori amministratori e soci, in Il fisco, 2015, 2843 (dove si afferma che l’art. 36 è attivabile solo per debiti tributari sorti prima della cancellazione e, quindi, dell’estinzione).


Dottrina

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ra, l’utilità di un’indagine tesa anche a verificare, per un verso, l’attualità di quelle premesse e, per l’altro, i riflessi che – sempre per quanto qui interessa – scaturiscono dalle tesi appena rammentate. Conclusivamente, quella a cui ci si accinge è un’indagine che, su un piano più generale, si prefigge lo scopo d’individuare l’esatta portata delle singole e specifiche ipotesi di responsabilità contemplate nella disposizione di cui sopra, nonché il procedimento per l’attuazione di esse (responsabilità), in vista di potersi poi cimentare con il tentativo di definire la natura giuridica delle medesime. 2. La responsabilità dei liquidatori. 2.1. – In forza dell’art. 36, primo comma, la responsabilità in proprio dei liquidatori scatta quando essi, per un verso, non abbiano pagato con le attività della liquidazione le imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori e, per l’altro, abbiano proceduto all’assegnazione di beni ai soci o associati o abbiano soddisfatto crediti di ordine inferiore a quelli tributari. La giurisprudenza, seguita spesso passivamente dalla dottrina (3), si è arroccata sull’opinione secondo cui le “imposte dovute” debbono intendersi come le imposte definitivamente accertate ed esigibili.

(3) La giurisprudenza è granitica nel senso precisato nel testo, talché le citazioni si sprecano. Si vedano, comunque, tra le pronunce più recenti: Cass., Sez. Trib., 17 giugno 2002, n. 8685; Cass., Sez. Trib., 17 giugno 2005, n. 13097; Cass., Sez. Trib., 18 maggio 2010, n. 12149; Cass., Sez. Trib., 13 luglio 2012, n. 11968; Cass. Sez. VI, 8 gennaio 2014, n. 179, in Corr. Trib., 2014, 790 ss. Per la dottrina, si vedano: G. Falsitta, Natura ed accertamento della responsabilità per il mancato pagamento delle imposte dirette dovute dagli enti tassabili in base al bilancio, in Riv. Dir. Fin., 1963, 243-244; A. Carinci, La nozione di “imposte dovute” rilevante per la responsabilità del liquidatore di società, in Corr. Trib., 2014, 786 e s., nonché Id, L’estinzione, cit., 2849; M. Mauro, La responsabilità tributaria del curatore fallimentare e del liquidatore, in Aa.Vv. (a cura di A. Giovannini, E. Marzaduri, A. Martino), Trattato di Diritto e processo sanzionatorio tributario, Tomo II, Milano, 2016, 1570 e s.; V. Ficari, Cancellazione dal registro delle imprese delle società di capitali, “abuso della cancellazione” e buona fede nei rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2010, I, 1044; L. Bianchi, Società di capitali cancellata tra successione e responsabilità tributaria dei soci, in Dir. Prat. Trib., 2015, 31, F. Pepe, Le implicazioni fiscali della morte (e resurrezione) delle società cancellate dal registro delle imprese, 2016, I, 48 e ivi nota 27; L. Nicotina, La natura giuridica atipica della responsabilità fiscale dei liquidatori tra problemi di certezze “vecchie e nuove”, in Dir. Prat. Trib., 2016, I, 147, 148 e 159. Opinione difforme (cui si aderisce, come risulta dal testo) è espressa da G. Girelli, La sorte dei crediti tributari dopo la cancellazione della società: molto rumore per nulla, in Riv. Dir. Trib., 2017, 58 ss.


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Parte prima

Sennonché, sembra a noi che il significato dell’inciso “imposte dovute” debba essere precisato alla luce dell’obbligo la cui violazione viene imputata ai liquidatori, e cioè l’omissione del pagamento. In altri termini, la norma in questione non si colloca nell’ambito della fase dell’accertamento, bensì in quella della riscossione, con la conseguenza che le imposte delle quali tali soggetti sono chiamati a rispondere sono semplicemente quelle esigibili, a prescindere dallo stato in cui si trova la procedura relativa all’accertamento dell’obbligazione tributaria. È, questo, un cambio di rotta di non poco conto, che non manca di incidere (in termini sia positivi che negativi) quando si tratti di individuare gli esatti confini applicativi della norma in questione. 2.2. – Sotto il primo profilo, infatti, si deve ritenere che la suddetta responsabilità si configura anche là dove l’omesso pagamento riguardi imposte riscuotibili in tutto o in parte a titolo provvisorio (4): o sulla base dell’accertamento esecutivo pur tempestivamente impugnato; o sulla scorta delle decisioni del giudice tributario, ancorché non passate in giudicato; o, ancora, alla stregua di quanto esposto in dichiarazione ma senza che sia stata versata l’imposta corrispondente. Sotto il secondo profilo, e in presenza di situazioni in ordine alle quali sono sorte problematiche non risolte a parer nostro in modo soddisfacente, è dato svolgere le seguenti considerazioni. A) L’art. 36, primo comma non torna applicabile, alla luce della tesi da noi sostenuta, né in caso di accertamento che formi oggetto di contestazione davanti alle commissioni tributarie, salvo naturalmente per la parte del tributo divenuta nel frattempo esigibile; né, tanto meno, nel caso in cui la vicenda non sia ancora approdata alla fase dell’accertamento, ancorché l’ente impositore abbia esercitato taluno dei poteri istruttori di cui è titolare (ad esempio, effettuando accessi, ispezioni e verifiche). Invero, non sussiste in tali evenienze un obbligo di pagamento il cui inadempimento sia suscettibile di dar vita alla responsabilità dei liquidatori.

(4) Così G. Girelli, La sorte, op. cit., 59 e, in giurisprudenza, Cass, Sez. Trib., 23 aprile 2008, n. 10508; Cass., Sez. Trib., 5 agosto 2016, n. 16446. In senso negativo e più coerente con la ritenuta necessità che il debito tributario sia stato definitivamente accertato, Cass., 6 novembre 1986, n. 6477, in Dir. Prat. Trib., 1988, 65 ss., con nota di P. Speca, Problemi controversi sulla responsabilità fiscale degli amministratori. A favore della necessità di un’iscrizione a titolo definitivo, si veda G. Falsitta, Natura e accertamento, cit., 252.


Dottrina

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Non è mancato chi, in queste situazioni, ha tirato in ballo il concetto della “prevedibilità”, per sostenere, ove quest’ultima sussista, la responsabilità suddetta (5). Sennonché, a parte la sicura genericità di questo concetto, che sembra oltretutto evocare l’elemento soggettivo della colpa di cui non v’è traccia però nel primo comma dell’art. 36 (sul punto ci soffermeremo più ampiamente in prosieguo), fa soprattutto difetto, nelle situazioni delle quali ci stiamo occupando, la violazione dell’obbligo di pagamento del tributo costituente il presupposto cui è collegata la responsabilità medesima. Né vale obbiettare in contrario che, così opinando, si sacrificano del tutto gli interessi dell’ente impositore. Un’obbiezione del genere prescinde infatti dal necessario collegamento e coordinamento tra la disposizione in esame, che introduce una norma speciale, e gli articoli 2489, 2394 e 2395 del codice civile (6), i quali prevedono: il primo, che i liquidatori debbono adempiere ai loro doveri con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico e la loro responsabilità per danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri è disciplinata alla stregua delle norme in tema di responsabilità degli amministratori; il secondo e il terzo, rispettivamente, che gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale e che le disposizioni dei precedenti articoli non pregiudicano il diritto al risarcimento dei danni spettante al socio o al terzo che siano stati direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori. Orbene, non sembra potersi dubitare che, nelle ipotesi in esame, la norma speciale dell’art. 36 ceda il passo alle disposizioni generali appena richiamate, costituenti da sé valido presidio per le ragioni del fisco. Esse, infatti, ben possono essere attivate dall’ente impositore qualora nel caso specifico il liquidatore abbia omesso colpevolmente o dolosamente di accantonare le somme necessarie per soddisfare in futuro l’eventuale debito d’imposta, addivenendo al pagamento di debiti societari sottordinati o alla distribuzione di somme o beni sociali a favore dei soci.

(5) Cfr., sul punto: G. Falsitta, Natura, cit., 229 e 242; S. Capolupo, La responsabilità, cit., 3334; A. Carinci, La nozione, cit., 788 (che parla di “consapevolezza”); A. Bodrito, Art. 36, in C. Consolo-C. Glendi, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Milano, 2017, 1053; E. Belli Contarini, La responsabilità tributaria nei confronti del creditore erariale dei soci e associati nella liquidazione dei soggetti passivi dell’ires, in Riv. Dir. Trib., 2009, I, 937 e s..; L. Bianchi, Società di capitali, cit., 25-26 e ivi nota 40; E. Covino, Basta la cancellazione dal registro delle imprese per far sì che una società sia considerata definitivamente estinta?, in Dial. Trib., 2010, 220 s. (6) Cfr., al riguardo, G. Ragucci, La responsabilità tributaria dei liquidatori di società di capitali, Torino, 2013, 95 ss.


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Parte prima

B) Identica conclusione deve, a maggior ragione, essere accolta per il caso in cui, al momento della cancellazione della società dal registro delle imprese, l’atto di accertamento tributario non sia stato ancora notificato alla società ridetta. Va in proposito ricordato, difatti, che la giurisprudenza, seguita dalla dottrina, è ferma nel ritenere, alla luce del disposto dell’art. 2495 c.c., che alla suddetta cancellazione consegua la definitiva estinzione della società, ancorché siano ancora pendenti rapporti obbligatori a carico di tale ultimo soggetto. Anzi, in tale ipotesi, la non operatività dell’art. 36 è assoluta, mancando il presupposto perché vi sia un credito d’imposta in tutto o in parte esigibile, almeno in via provvisoria. Peraltro, neppure questa volta il fisco rimane senza protezione. Soccorrono all’uopo, di nuovo e infatti, le norme civilistiche, in ordine alle quali la disposizione di riferimento è il citato art. 2495, il cui secondo comma stabilisce che, ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti non solo verso i soci ma anche “nei confronti dei liquidatori se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi” (7). 3. La responsabilità dei soci. 3.1. – Ai sensi del terzo comma dell’art. 36, i soci o associati, che hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in

(7) Il tema dei rapporti tra l’art. 36 del d.P.R. n. 602/73 e l’art. 2495 c.c. è stato ampiamente affrontato dalla dottrina e, tuttavia, le opinioni espresse al riguardo risultano spesso inquinate dalla erronea premessa, dalla quale esse muovono, della ritenuta necessità, affinché possa attivarsi l’art. 36, che sia intervenuta la definitività dell’accertamento del tributo nei confronti della società. Tra gli Autori che più recentemente si sono occupati della questione, cfr. M. Bruzzone, Per le Sezioni Unite la cancellazione estingue tutta la società, in Corr. Trib., 2010, 1295 ss.; L. Bianchi, Società di capitali, op. cit., 35 ss.; T. Tassani, La responsabilità dei soci, op. cit., 369; F. Pepe, Le implicazioni fiscali, op. cit., 43 ss.; G. Girelli, La sorte dei crediti tributari, op. cit., 53 e ivi nota 69; L. P. Murciano, La responsabilità dei soci, op. cit., 138; D. Stevanato, Dopo la liquidazione della società chi è l’interlocutore del Fisco, in Dial. Trib., 2008, 142 ss.; C. Glendi, Cancellazione delle società, attività impositiva e processo tributario, in Giur. Trib., 2010, 749 ss. In particolare, Bianchi parla, a proposito dell’art. 36, di norma speciale e sussidiaria di chiusura del sistema, completamente sostitutiva dell’art. 2495 c.c. A noi sembra più corretto intendere il rapporto tra le due norme nel senso dell’alternatività, per cui, ove ricorrano i presupposti dell’art. 36, quest’ultimo si applica in luogo dell’art. 2495 e, specularmente, a tale ultima disposizione civilistica (che prevede un’azione risarcitoria per danni) si può far ricorso solo quando l’art. 36 sia inapplicabile. Sul punto, vedasi G. Girelli, op. e loco ult. cit., il quale esattamente ritiene che la rilevanza dell’art. 2945 c.c. nel panorama fiscale sia estremamente limitata.


Dottrina

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liquidazione denaro o altri beni in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dalla società (o ente) nei limiti del valore del denaro e dei beni sociali suddetti, salve le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile (8). Ancora una volta l’oggetto della responsabilità è individuato con l’inciso “imposte dovute” (dalla società o dall’ente); e, di nuovo, l’opinione dominante è nel senso che per tali debbano intendersi le imposte definitivamente accertate ed esigibili (9); e ciò a salvaguardia della certezza dei rapporti giuridici. Ora, che occorra l’esistenza di un atto impositivo affinché possa essere fatta valere dal soggetto titolare della prestazione tributaria la responsabilità in questione è fuor di discussione, dal momento che esso è il tramite necessario attraverso il quale l’amministrazione finanziaria è tenuta ad avanzare le proprie pretese. Quel che, viceversa, appare seriamente contestabile è che vi sia al riguardo il crisma di un atto di accertamento tributario divenuto definitivo per mancata impugnazione o di una sentenza passata in giudicato emessa nell’ambito della controversia insorta in ordine alla fondatezza del medesimo. Così espressa la tesi della giurisprudenza e di buona parte della dottrina, è opportuno innanzitutto mettere in evidenza quale è la conseguenza pratica di essa, perché, sotto l’apparenza quasi innocua di una regola procedimentale, essa ha invero profonde implicazioni attinenti alla disciplina sostanziale dell’obbligazione dipendente – quella dei soci – in materia tributaria (10); e va rimarcato che trattasi di implicazioni assai rilevanti anche sotto il profilo

(8) Alla luce delle considerazioni svolte nella nota precedente, riteniamo che con l’inciso “salve le maggiori responsabilità del codice civile” il legislatore dell’art. 36 abbia inteso riferirsi non all’art. 2945 c.c. bensì alle diverse disposizioni civilistiche che prevedono più ampie responsabilità a carico dei soci per i debiti societari. Ciò trova conferma sia nell’uso dell’espressione “maggiori responsabilità” al plurale; sia nella considerazione che l’ambito della responsabilità dei soci di cui all’art. 36 è più ampio di quello delineato dall’art. 2495 c.c., giacché si estende, oltreché ai beni sociali assegnati dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, al denaro e ai beni ricevuti in assegnazione dagli amministratori medesimi negli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione della società. (9) Per le citazioni di dottrina e di giurisprudenza, si rinvia a quelle di cui alla precedente nota 3, alle quali adde: V. D’Orsi, Sulla responsabilità dei liquidatori ed amministratori per le imposte non pagate dalla società, in Dir. Prat. Trib., 1979, II, 282; A. Buscema, I riflessi tributari, op. cit., 147 e s. Si veda pure Cass, 14 marzo 1978, n. 1273, in Dir. Prat. Trib., 1979, II, 273 ss. (10) Per analoghe considerazioni, con specifico riferimento alle ipotesi di solidarietà dipendente (in ordine alla sussistenza della quale ci soffermeremo più avanti nel testo), cfr. M. Miccinesi, Solidarietà tributaria (voce), in Dig. Disc. Priv. Sez. Comm., Torino, 1997,


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della ricostruzione del sistema e sotto quello, direttamente connesso, della legittimità costituzionale. La predetta conseguenza consiste in ciò che, per tale via, si giunge ad affermare che, in buona sostanza, vi è un’efficacia riflessa, ai danni dei soci terzi, dell’accertamento resosi definitivo (o del giudicato formatosi) in relazione ad un altro soggetto, ossia la società o l’ente contribuente. Non avrebbe infatti senso alcuno imporre che sia raggiunta la certezza in punto di an e quantum del tributo nel rapporto tra ente impositore e il soggetto passivo di quest’ultimo se poi il terzo (il socio) fosse ritenuto legittimato a rimettere in discussione il modo di essere del rapporto nel momento in cui viene fatta valere la sua responsabilità, senza dunque essere minimamente vincolato dalla definizione del rapporto medesimo intervenuta nel contraddittorio tra amministrazione finanziaria e contribuente. Ora, è ben vero che l’idea dell’efficacia riflessa ha avuto in passato, a partire dalla metà del secolo scorso, notevole seguito specie in ambito processuale e, quindi, con riferimento al giudicato (11); ma è altrettanto vero che, in tempi più recenti, si è fatto sempre più strada un indirizzo critico in senso contrario (12) e non è neppure mancata autorevole dottrina che, ritornando sull’argomento, ha manifestato un totale ripensamento rispetto alla posizione pur precedentemente espressa a favore di quella idea (13). Si tratta di un indirizzo, quest’ultimo, del tutto condivisibile, in quanto per un verso rispettoso dei limiti soggettivi del giudicato così come discipli-

464 ss.; G. Fransoni, L’esecuzione coattiva, op. cit., 836, là dove l’Autore esprime l’opinione del tutto condivisibile secondo cui v’è un logico collegamento tra la negazione dell’efficacia riflessa e la legittimazione del responsabile a contestare non solo il titolo della sua responsabilità ma anche l’esistenza dell’obbligazione principale. (11) È la teoria elaborata da E. Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935. (12) Un’ampia disamina del tema è stata effettuata, di recente, da S. Menchini - A. Motto, Commento all’art. 2909 – Cosa giudicata, in Commentario del codice civile, a cura di G. Bonilini e A. Chizzini, Torino, 2016, da 126 a 143, dove si rinviene una condivisibile critica alla tesi dell’efficacia riflessa e, in specie, a quella della pregiudizialità permanente elaborata da F. P. Luiso, Diritto processuale civile, Milano, 2011, vol. I, 173 ss., alla quale quest’ultimo Autore riconduce anche il rapporto tra le obbligazioni della società e le obbligazioni dipendenti dei soci. Oltre alla giurisprudenza citata dai suddetti Autori, si vedano (in tema di coniugi codichiaranti): Cass., Sez. Trib., 15 aprile 2016, n. 7536; Cass., Sez. Trib., 18 novembre 2015, n. 23553; Cass., Sez. Trib., 18 novembre 2014, n. 23544; Cass., 28 luglio 1997, n. 7021. Va comunque segnalato che in tempi recenti vi è stato nella giurisprudenza un rigurgito della tesi dell’efficacia riflessa in materia tributaria: cfr. Cass., Sez. VI civile, 4 dicembre 2015, n. 24793; Cass., Sez. Trib., 15 luglio 2016, n. 14490; Cass., Sez. Trib., 29 novembre 2016, n. 24207 (in tema di scissione). (13) Lo stesso E. Allorio ha in seguito avuto ripensamenti sulla teoria da lui elaborata


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nati dall’art. 2909 c.c., secondo cui l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto soltanto tra le parti, i loro eredi o aventi causa; e, per l’altro, in quanto esso è l’unico che si mostra rispettoso dell’inviolabile diritto costituzionale all’effettività della tutela giurisdizionale consacrato nell’art. 24 Cost. nonché, come avremo modo di ribadire oltre, dagli altrettanto fondamentali principi dell’eguaglianza e della ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. (14). Ma v’è pure di più, giacché il nuovo corso ha trovato importanti riscontri nella giurisprudenza e nello stesso legislatore proprio in seno all’art. 36 che stiamo esaminando. Quanto alla giurisprudenza, giova rammentare che essa, in materia di responsabilità dei soci di società di persone, ha sì ritenuto che questi possano essere compulsati in base al ruolo intestato all’obbligato principale-contribuente, ma ha in massima parte aderito all’assunto per cui l’obbligato dipendente può contestare i presupposti sia generici, attinenti all’esistenza dell’obbligazione d’imposta pregiudiziale, che specifici (15). A sua volta, il legislatore ha espressamente sancito, in sede di art. 36, che l’amministrazione finanziaria, al fine di far valere la responsabilità dei sogget-

in Trent’anni di applicazione del codice civile, in Commentario del codice di procedura civile diretto da Enrico Allorio, Torino, 1973, I, XIII ss. (e, in specie, LXVI); analogo ripensamento vi è stato da parte di A. Proto Pisani, I limiti soggettivi di efficacia della sentenza civile, Milano, 2015, 137 ss. (14) La Corte costituzionale si è occupata ripetutamente del profilo di legittimità nelle pronunce citate da G. Fransoni, L’esecuzione coattiva, op. cit., 836 (ed ivi nota 27) e 839; si vedano altresì: G. Balena, Sentenze contro società, op. cit., 47, che respinge la tesi dell’efficacia riflessa del giudicato; A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 226. (15) Con riferimento alle società di persone le problematiche fra loro collegate sono molteplici: a) se per compulsare i soci deve essere notificato ad essi un atto di accertamento; b) se sia sufficiente, per agire esecutivamente nei confronti dei suddetti soci-terzi, il ruolo intestato alla società oppure sia necessario un ruolo intestato a essi; c) se, comunque, il socio possa contestare l’an e il quantum dell’imposta accertata nei confronti della società. Sulle suddette problematiche, a loro volta connesse a quella concernente l’efficacia riflessa o meno della sentenza emessa nei confronti della società, si vedano la giurisprudenza citata alla nota 12 e la dottrina tributaristica richiamata da G. Fransoni, L’esecuzione coattiva, op. cit., 827 ed ivi nota 11, nonché Id, L’estinzione postuma della società ai fini fiscali ovvero della società un poco morta e di altre amenità, in Rass. Trib., 2015, 56 s.. Si vedano pure: T. Tassani, La responsabilità di soci, amministratori e liquidatori per i debiti fiscali della società, in Rass. Trib., 2012, 363 e s.; E. Covino, I debiti della società estinta, op. cit., 222; L. Bianchi, Riflessioni sulla riscossione, op. cit., 13 ss.; C. Del Duca, Riflessioni sulla riscossione, op. cit., 12 ss. Per la dottrina civilistica si vedano tra gli altri: T. Ascarelli, Sull’estensione ai soci illimitatamente responsabili del giudicato pronunciato nei confronti della società, in Giur. It., 1937, 328 ss.;


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ti dei quali ci stiamo occupando, deve notificare, oltre all’atto di accertamento a carico della società, un altro specifico atto volto a contestare l’esistenza della loro obbligazione dipendente e quindi, e per l’appunto, tanto nei suoi presupposti specifici, quanto in quelli generici, sia pure eventualmente per relationem; e tale atto è specificamente considerato impugnabile nonché soggetto, per intero, alla disciplina degli atti di accertamento. 3.2. – Dobbiamo adesso rivolgere l’attenzione alle conseguenze che si profilano a seguito dell’orientamento giurisprudenziale avallato dal tenore dell’art. 2495 c.c. e che abbiamo già in precedenza rammentato, secondo cui alla cancellazione della società si accompagna la definitiva estinzione della società stessa. A tale orientamento ne è seguito un altro, il quale ha ravvisato nell’estinzione della società un fenomeno successorio, mortis causa, dei soci e, quindi, anche nelle obbligazioni facenti capo alla società medesima; con l’ulteriore corollario che, in pendenza di un giudizio instaurato tra creditori e società debitrice, il giudizio è destinato a proseguire nei confronti dei soci, ancorché questi ultimi siano chiamati a rispondere solidalmente delle obbligazioni sociali nei soli limiti previsti dall’art. 2495 c.c., ossia fino alla concorrenza delle somme da essi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione (16).

L. Laudisa, Il gruppo soggettivo e i suoi membri di fronte all’efficacia di accertamento ed esecutiva della sentenza, in Riv. Dir. Civ., 1976, 192 ss.; G. Tota, Sull’efficacia contro il socio illimitatamente responsabile della condanna emessa nei confronti della società, in Riv. Dir. Proc., 2005, 1098 ss.; V. Tripaldi, Brevi note sull’efficacia esecutiva del titolo giudiziale reso nei confronti della società di persone anche nei riguardi del socio illimitatamente responsabile, in Giur. It., 2007, 1467 ss.; G. Balena, Sentenza contro società, op. cit., 35 ss. e, in specie, 36, 37 e 42, là dove l’Autore rileva il palese contrasto tra la tesi dell’efficacia esecutiva, a carico del socio, della sentenza di condanna pronunciata nei confronti della società e la tesi che nega la possibilità di estendere al socio l’efficacia riflessa pregiudizievole dell’accertamento intervenuto nei confronti della società; ciò, aggiungiamo noi, perché il socio in tanto è soggetto ad esecuzione in quanto vi sia un titolo giuridico efficace nei suoi confronti, che manca però se si esclude l’efficacia della sentenza contenente il suddetto accertamento. In conclusione, a parer nostro, se da un lato è palesemente contraddittorio sostenere l’efficacia esecutiva di cui sopra (che implica l’efficacia riflessa della sentenza emessa nei confronti della società), ma nel contempo consentire al socio di contestare l’accertamento d’imposta operato nei confronti della società, dall’altro lato si deve ritenere che, per procedere esecutivamente a carico del socio, occorra non solo un titolo esecutivo intestato a quest’ultimo ma, ancor prima e a monte, l’emanazione di un atto di accertamento della responsabilità del terzo suscettibile di legittimare detta esecuzione e specificamente diretto al socio (così come condivisibilmente sostenuto da G. Fransoni, L’esecuzione coattiva, op. cit., 833 ss.). (16) Tale tesi è stata sancita da Cass., SS.UU., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071 e 6072, cui


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È intervenuto successivamente il legislatore tributario il quale, con l’art. 28, quarto comma del decreto legislativo n. 175 del 2014, ha previsto che, “ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’art. 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal registro delle imprese”. Molte le critiche che sono piovute sulla disposizione appena riportata (17). La prima obiezione che viene in mente è che i previsti cinque anni, il più

ha fatto seguito una giurisprudenza ormai consolidata: tra le più recenti cfr. Cass., Sez. Trib., 31 gennaio 2017, n. 2444, nonché Cass., Sez. Trib., 7 aprile 2017, n. 9094 in Il fisco, 2017, 1975 ss. Questa tesi è stata avversata dalla maggior parte della dottrina civilistica e di quella tributaristica. Per la prima, cfr.: C. Consolo-F. Godio, Le Sezioni Unite sull’estinzione di società: la tutela creditoria “ritrovata” (o quasi), in Corr. Trib., 2013, 697 ss.; C. Glendi, Corte costituzionale, Sezioni Unite della Cassazione ed estinzione delle società cancellate dal registro delle imprese, in Dir. Prat. Trib., 2013, II, 945 ss.; Id, E intanto prosegue l’infinita “historia” dell’estinzione delle società cancellate dal registro delle imprese (sul versante tributaristico, ma non solo), in Giur. Trib., 2015, 767 ss.; S. Tagliapietra, La pretesa successione dei soci alla società cancellata, in Dir. Prat. Trib., 2016, I, 1474 ss. Per la seconda si vedano: Querci, A oltre 2 anni dalle sentenze delle Sezioni Unite che hanno negato la definitività dell’estinzione delle società cancellata dal registro delle imprese: questioni aperte e dubbi irrisolti, in Dir. Prat. Trib., 2013, II, 171 ss.; L. P. Murciano, La responsabilità dei soci per l’obbligazione d’imposta della società estinta, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2013, 891 ss.; L. Bianchi, Società di capitali, op. cit., 5 ss.; G. Minutoli, Considerazioni sistematiche, op. cit., 66 ss.; P. Laroma Jezzi, Cancellazione di società e responsabilità dei coobbligati, in Corr. Trib., 2014, 2949 ss.; F. Gallio, Equiparazione della liquidazione della società alla morte delle persone fisiche, in Dial. Trib., 2015, 345 ss.; F. Pepe, Le implicazioni fiscali, op. cit., 39 ss.; G. Girelli, La sorte dei crediti tributari, op. cit., 27 ss. In senso favorevole si vedano: T. Tassani, La responsabilità dei soci, op. cit., 309 ss.; D. Stevanato, L’estinzione della società, op. cit., 159. A parer nostro la tesi della successione universale dei soci alla società contrasta sia con i principi sia con la disciplina dettata dall’art. 36 del d.P.R. n. 602/73 e dall’art. 2495 c.c.. Invero, in linea di principio, i soci non rispondono dei debiti della società d capitali; onde si deve ritenere che le norme suddette introducano una parziale deroga a detto principio, sancendo entro limiti più o meno ampi la responsabilità personale dei soci; la quale – come esattamente nota C. Glendi – è dunque cosa ben diversa dal (se non addirittura antitetica al) fenomeno della successione generale ed automatica ope legis configurata dalla giurisprudenza e della quale (responsabilità) non vi sarebbe stato bisogno ove fosse già operante la suddetta successione a titolo universale dei soci nei debiti della società (di vera e propria incompatibilità logica tra i due fenomeni parla, a ragione, L. Bianchi, Società di capitali, op. cit., 28). (17) Cfr. A. Carinci, L’estinzione delle società, op. cit., 2843 ss.; C. Glendi, E intanto prosegue l’infinita “historia”, op. cit., 767 ss.; G. Fransoni, L’estinzione postuma, op. cit., 56; F. Pepe, Le implicazioni fiscali, op. cit., 62 ss.; G. Girelli, La sorte dei crediti tributari, op. cit., 72 ss.; L. Bianchi, Società di capitali, op. cit., 25 (e ivi nota 40) e 40.


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delle volte, non bastano affatto per chiudere la fase dell’accertamento in sede amministrativa, tenuto conto del lungo termine di decadenza a disposizione dell’amministrazione finanziaria per emettere l’atto impositivo, nonché della durata media del processo tributario ove vi sia stata contestazione di tale atto in sede giurisdizionale. In quest’ultimo caso, inoltre, il giudizio non potrebbe proseguire nei confronti dei soci successori, giacché: da un lato, la responsabilità dei soci contemplata dall’art. 36 è più ampia di quella prevista dall’art. 2495 c.c., il che richiede accertamenti in fatto non più consentiti quando la controversia fosse già approdata in sede di legittimità; dall’altro, e comunque, essendo l’art. 36 norma speciale che taglia fuori la norma generale posta dall’art. 2495 (rimanendo quindi la sola applicabile), non è possibile a nostro avviso baipassare la particolare procedura delineata dall’art. 36 ed incentrata sull’emanazione, nei confronti dei soci, di un apposito atto di accertamento con il quale sia contestata la responsabilità dei soci medesimi (18). Alla fine, il rimedio introdotto dal legislatore tributario rischia di risultare il più delle volte inutile. Eppure, la soluzione atta a scongiurare la paralisi dell’art. 36 è a portata di mano alla luce di quanto abbiamo osservato a proposito del significato da attribuire all’inciso “imposte dovute”. Non si va lontano dal vero opinando che il legislatore dell’art. 28 sia stato indotto a muoversi sul presupposto del dogma giurisprudenziale della necessità di un accertamento certo e definitivo in carico della società. Ne discende che, una volta fatta giustizia, come abbiamo rilevato in precedenza, del mito della definitività, la situazione è semplificata al massimo, in quanto: se l’avviso d’accertamento non è stato ancora notificato alla società, esso potrà essere notificato ai soci responsabili ex art. 36 insieme all’atto di cui al comma quinto di tale articolo e formare oggetto, in sede d’impugnativa di quest’ultimo davanti al giudice tributario, di cognizione incidentale, insieme alla decisione sui presupposti specifici della responsabilità; e se a quel momento pende in sede giurisdizionale controversia tra il fisco e la società ormai non più in vita, il relativo giudizio si estinguerà per cessazione della materia

(18) Così G. Girelli, La sorte dei crediti tributari, op. cit., 65; F. Gallio, Equiparazione della liquidazione, op. cit., 343; R. Lupi, Anche sull’estinzione un miscuglio tra processo e provvedimento impositivo, in Dial. Trib., 2015, 345.


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del contendere, ma il fisco potrà rimettere in moto la responsabilità dei soci con le stesse modalità appena individuate (19). 3.3. – Prima di ultimare il discorso sui soci, conviene fare il punto della situazione, chiudendo il cerchio su quel che è emerso nelle pagine precedenti a proposito della responsabilità di questi soggetti messa a confronto con quella dei liquidatori. Emerge, con tutta evidenza, che le due fattispecie di responsabilità non sono tra di loro omogenee, ferma l’unitaria ratio di tutte le norme contenute nell’art. 36, consistente nel sopperire all’incapienza patrimoniale della società (o dell’ente) rispetto al soddisfacimento dei debiti tributari di essa allorché la medesima (incapienza) derivi dalla violazione delle regole atte a scongiurarla. In particolare, e come si è messo in evidenza, nel caso dei liquidatori, la loro responsabilità risulta confinata sul piano della riscossione del debito, prescindendo da quello dell’accertamento dal quale pure deriva direttamente o indirettamente. E si osservi che siffatta limitazione è perfettamente comprensibile, perché i liquidatori sono organi della società e pertanto non si sfugge a questa alternativa: - o il credito tributario è stato già accertato definitivamente (in forza dell’atto impositivo emesso dall’amministrazione finanziaria e non tempestivamente impugnato, oppure di una sentenza passata in giudicato); e, quindi, esso è giocoforza vincolante anche per coloro che sono chiamati a condurre la fase della liquidazione; - oppure tale definitività non sussiste; ed allora va da sé che tali soggetti ben possano, appunto nella qualità (e dunque nella veste) di organi sociali, procedere alla contestazione del caso. Quel che i soggetti medesimi non possono fare, viceversa, è porre in essere la violazione dell’obbligo di soddisfare i crediti d’imposta contrassegnati dal connotato dell’esigibilità, addivenendo al pagamento di crediti subordinati a quelli tributari e, quindi, alterando l’ordine delle cause di prelazione, oppure all’assegnazione di beni a favore dei soci.

(19) Cfr. A. Carinci, La nozione di “imposte dovute”, op. cit., 1790; G. Selicato, I riflessi fiscali della cancellazione, op. cit., 880; C. Glendi, L’estinzione postliquidativa, op. cit., 11 e s.; G. Fransoni, L’estinzione postuma, op. cit., 56 e s.; L. Bianchi, Società di capitali, op. cit., 25-26 ed ivi nota 40; G. Girelli, La sorte dei crediti tributari, op. cit., 66.


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Le cose stanno diversamente quando si tratta della responsabilità dei soci e, pertanto, di soggetti terzi rispetto alla società, ai quali sono stati distribuiti somme o altri beni societari con evidenti conseguenze negative sulla garanzia per i creditori offerta dal patrimonio della società. In tal caso ciò che rileva preliminarmente rispetto al dato della (mera) esigibilità è infatti rappresentato dall’effettiva debenza del tributo, che i soci devono ritenersi legittimati a contestare – anche per le esigenze di ordine costituzionale in precedenza palesate – per il tramite dell’impugnativa dell’apposito atto emesso ai sensi del quinto comma dell’art. 36. Va da sé che la tesi da noi accolta non è priva di riflessi, come si avrà modo di verificare nei successivi paragrafi, quando si tratterà di definire il contenuto dell’atto di accertamento sopra menzionato ed il termine entro il quale l’atto stesso può essere emesso. 4. La responsabilità degli amministratori. 4.1. – La responsabilità degli amministratori è disciplinata dal secondo e dal quarto comma dell’art. 36. Di nuovo, la ratio delle due norme è quella di tutelare il fisco non già rispetto a qualsiasi incapienza patrimoniale della società, ma solo rispetto a quelle che derivano da violazione delle regole, per così dire, circa la corretta conservazione della garanzia offerta dal patrimonio societario. Scendendo nell’analisi, il secondo comma prevede che la disposizione contenuta nel precedente comma – quella che si riferisce ai liquidatori de iure in quanto regolarmente ed effettivamente nominati – si applica agli amministratori in carica all’atto dello scioglimento della società (o dell’ente) se non si sia provveduto alla nomina dei liquidatori. Trattasi, dunque, dei cosiddetti liquidatori di fatto, i quali rispondono pertanto del mancato pagamento delle imposte esigibili dovute dalla società per i periodi anteriori alla data dello scioglimento e durante il tempo di durata della liquidazione di fatto, intendendo per quest’ultima il complesso delle attività poste in essere dagli amministratori e tese all’estinzione dei debiti sociali, alla realizzazione dei crediti e alla dismissione dei beni compresi nel patrimonio della società; ciò qualora essi (liquidatori di fatto) abbiano soddisfatto creditori postergati o abbiano proceduto all’assegnazione di beni ai soci o associati (20).

(20)

Cfr. G. Falsitta, Natura e accertamento, op. cit., 224 e s., dove si afferma


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4.2. – In forza, poi, del quarto comma, le “responsabilità di cui ai commi precedenti” sono estese agli amministratori: - se essi hanno “compiuto atti di liquidazione” ovvero “occultato attività sociali” - e, inoltre, se tali atti ed attività sono stati posti in essere “negli ultimi due periodi d’imposta precedenti la messa in liquidazione”. Deve ritenersi che siamo in presenza di presupposti oggettivi concorrenti e non alternativi e che, quindi, devono coesistere entrambi. Ne discende, pertanto ed implicitamente, che la responsabilità in questione non può che essere riferita agli amministratori in carica per tale periodo (quello del biennio anteriore alla messa in liquidazione): invero e difatti, poiché per compiere atti di liquidazione o di occultamento “nella qualità di amministratori” si deve essere amministratori, è giocoforza concludere che gli atti suddetti possono essere commessi soltanto dai soggetti in discorso, aventi tale qualifica nel periodo di cui trattasi, ossia il biennio precedente alla messa in liquidazione; e solo questi ultimi possono dunque assumere la veste di responsabili (21). Dunque, la disposizione in esame contempla due fattispecie di responsabilità, che vanno tenute ben distinte, sia per quanto concerne gli elementi costitutivi, sia ai fini dell’individuazione degli ambiti entro i quali la responsabilità in parola opera. Quanto alla prima, essa risulta imperniata sul compimento di attività di liquidazione, intendendosi per tali non singoli atti di gestione bensì quel complesso di operazioni attive e passive che conducono al dissolvimento del patrimonio della società. Pertanto, gli amministratori si comportano di nuovo come

testualmente che “la liquidazione è quel procedimento volto a regolare i rapporti pendenti, a convertire i beni in denaro, realizzare i crediti, pagare i debiti e restituire l’attivo netto residuante ai soci”. Sulla responsabilità dei liquidatori “di fatto” si vedano: A. Monti, La responsabilità di liquidatori, amministratori e soci prevista dall’art. 36 d.P.R. n. 602/1973: gli aspetti sostanziali dell’istituto, in Rass. Trib., 1986, I, 65 ss.; A. Bodrito, Art. 36, op. cit., 1056; T. Tassani, La responsabilità dei soci, op. cit., 378, D. Stevanato, L’estinzione della società, op. cit., 158; G. Ragucci, La responsabilità tributaria, op. cit., 72 ss.; G. Girelli, La sorte dei crediti tributari, op. cit., 64. (21) Così A. Bodrito, op. e loco ult. cit., ad avviso del quale, per l’appunto, la limitazione temporale, sotto il profilo logico, appare applicabile a tutte e due le condotte indicate, ancorché la lettera della legge disgiunga le due condotte con il termine “ovvero” e ponga la locuzione concernente la limitazione temporale suddetta senza impiego di virgole, in diretta relazione con la condotta; G. Ragucci, La responsabilità tributaria, op. cit., 72 ss.; A. Monti, La responsabilità dei liquidatori, op. cit., 71 ss.


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liquidatori di fatto, con la differenza, rispetto all’ipotesi prevista dal secondo comma dell’art. 36, che questa volta la formale messa in liquidazione non manca ma viene disposta dopo il compimento delle operazioni sostanzialmente liquidative. La conseguenza è che in tale caso la responsabilità che ricorre è la stessa di quella addossata ai liquidatori de iure dal primo comma dell’art. 36, traendo origine dall’omesso pagamento di crediti d’imposta esigibili senza che sia stato rispettato in sede di estinzione dei debiti societari l’ordine delle cause di prelazione oppure senza che sia stato osservato il divieto di ripartire tra i soci acconti sul risultato della liquidazione (art. 2491 c.c.); così incidendo negativamente sulla disponibilità dei mezzi finanziari idonei all’integrale e tempestiva soddisfazione dei debiti tributari. La seconda fattispecie è incentrata invece sull’occultamento di attività sociali anche mediante omissioni nelle scritture contabili. Ricorre qui un’ipotesi non dissimile, negli effetti, da quella cui ha riguardo il terzo comma dell’art. 36 con riferimento ai soci: ossia la distrazione di beni del patrimonio sociale che vengono sottratti, sia pure in maniera occulta, al soddisfacimento dei creditori della società e, per quel che ci riguarda, del creditore-fisco (ad esempio, mediante la distribuzione ai soci, ovviamente anch’essa occulta, dei maggiori ricavi accertati dal fisco). Si configura, quindi, una destinazione illegittima (anche se imprecisata) di quelle somme; con la conseguenza che l’occultamento di ricavi, anche per effetto dell’indebita detrazione da parte della società di costi inesistenti (22), individua l’entità del depauperamento della società e segna altresì i limiti entro i quali gli amministratori sono chiamati a rispondere. Vuol dire che anche per i soggetti in esame la responsabilità può essere fatta valere a prescindere da un accertamento tributario nei confronti della società che sia divenuto definitivo, con tutti gli ulteriori corollari che ne abbiamo tratto in tema di responsabilità dei soci. 5. L’atto di accertamento delle responsabilità in oggetto e la sua impugnazione. 5.1. – Come si è avuto occasione di rilevare, l’art. 36 prevede, al quinto comma, che le responsabilità di cui ai commi precedenti sono accertate dall’ufficio delle imposte con atto motivato da notificare ai sensi dell’art. 60

(22) In senso conforme, cfr. A. Monti, La responsabilità dei liquidatori, op. cit., 73; G. Ragucci, La responsabilità tributaria, op. cit., 75. Contra L. Bianchi, Società di capitali, op. cit., 27.


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del d.P.R. n. 600 del 1973; aggiungendo, al sesto comma, che avverso il suddetto atto di accertamento è ammesso ricorso secondo le disposizioni relative al contenzioso tributario. È agevole constatare l’estrema concisione della normativa appena riportata, con la conseguente necessità di alcune precisazioni, che potrebbero apparire ovvie ma che tali non sono, dovendosi tener conto anche delle innovazioni introdotte nel tempo in tema di accertamento e di riscossione delle imposte sui redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dell’imposta sul valore aggiunto. In primo luogo, si deve ritenere che la competenza ad emanare l’atto di accertamento delle responsabilità di cui trattasi spetti all’ufficio abilitato a porre in essere l’accertamento delle prestazioni impositive gravanti sulla società o sull’ente. Questo parallelismo tra i due atti impone poi di trarne i seguenti corollari. A) Prima dell’emanazione dell’art. 29 del d.l. n. 78 del 2010 era giocoforza opinare che all’atto di accertamento dovesse far seguito, ai fini della concreta esazione del tributo, un titolo esecutivo e quindi un ruolo intestato personalmente al soggetto responsabile. Intervenuta la disposizione di cui sopra, che ha operato la concentrazione della riscossione nell’accertamento, ne discende a parer nostro che siffatta disciplina vale anche per l’atto di accertamento della responsabilità, al quale deve pertanto riconoscersi efficacia esecutiva ai fini della riscossione graduale prevista dallo stesso art. 29 (23). B) Nei confronti dell’atto di accertamento della responsabilità il soggetto responsabile può esperire la stessa procedura di accertamento con adesione consentita al contribuente-soggetto passivo dell’imposta. Sia la tesi sub A) che quella sub B) s’impongono non solo sul piano interpretativo ma altresì per preservare il quinto comma dell’art. 36 da una censura d’illegittimità costituzionale per violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità di cui all’art. 3 Cost. E difatti, a tale censura la norma in questione non si sottrarrebbe se essa fosse interpretata nel senso di riservare al terzo responsabile una tutela, specifica e/o complessiva, inferiore a quella riconosciuta al contribuente-soggetto passivo dell’imposta. 5.2. – Veniamo adesso al contenuto dell’atto. Al riguardo, occorre distinguere in relazione alle diverse ipotesi di responsabilità disciplinate dall’art. 36.

(23)

Cfr. G. Fransoni, L’esecuzione coattiva, op. cit., 844 e s.


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Per quanto attiene alla responsabilità dei liquidatori e degli amministratori-liquidatori di fatto, ai sensi del primo comma dell’art. 36, prima che esso fosse modificato dall’art. 28 del decreto legislativo n. 175 del 2014, il contenuto dell’atto di accertamento, con i connessi oneri di motivazione e di prova, riguardava sia l’omesso pagamento di un determinato credito tributario esigibile, sia l’avvenuta soddisfazione di crediti di ordine inferiore rispetto a quest’ultimo e/o l’assegnazione di beni ai soci. Intervenuta la modifica di cui sopra, è divenuta sufficiente l’indicazione dell’omesso pagamento del credito tributario esigibile; mentre spetta al liquidatore, con un mutamento degli elementi in questione da elementi (positivi) costitutivi della fattispecie di responsabilità ad elementi (negativi) impeditivi della medesima, dedurre e provare di non aver assegnato beni ai soci o di aver soddisfatto crediti di ordine superiore a quello tributario (24). Più complesso è invece il contenuto dell’atto di accertamento della responsabilità quando si tratti dei soci o degli amministratori che abbiano occultato attività sociali anche mediante omissioni nelle scritture contabili. In questi casi l’ente impositore che intenda far valere la responsabilità dei suddetti soggetti non potrà limitarsi ad individuare il credito tributario esigibile rimasto insoddisfatto, ma dovrà in aggiunta portare a conoscenza del soggetto compulsato gli elementi che attengono all’accertamento del credito medesimo anche mediante una motivazione per relationem (ossia allegando all’atto di contestazione della responsabilità l’avviso di accertamento dell’imposta concernente la società) (25); ciò in modo di porre in grado il socio o l’amministratore di contestare l’an e/o il quantum dell’imposta accertata nei confronti della società, così come consentito a detti soggetti alla stregua delle conclusioni alle quali siamo pervenuti nei paragrafi che precedono. 5.3. Restano da risolvere altri due problemi. Il primo concerne la fondatezza o meno dei dubbi d’illegittimità costituzionale, in relazione all’art. 102 Cost., del sesto comma dell’art. 36 là dove esso devolve alla giurisdizione delle commissioni tributarie la cognizione

(24) Si vedano, al riguardo, i rilievi critici di G. Fransoni, L’estinzione postuma, op. cit., 53 e s. (25) Cfr. G. Fransoni, L’estinzione postuma, op. cit., 56 e 57. Si vedano altresì: T. Tassani, La responsabilità dei soci, op. cit., 376; G. Girelli, La sorte dei crediti tributari, op. cit., 50-51 ed ivi nota 62; A. Bodrito, Art. 36, op. cit., 1057. Cfr., inoltre, Cass., 13 luglio 2012, n. 11968.


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dell’impugnativa dell’atto di accertamento della responsabilità (26). Com’è noto, la Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimità, in forza della VI disposizione transitoria della Costituzione, di tali organi nella misura in cui, ai giudici suddetti, sia devoluta la risoluzione di controversie in materia tributaria (27). Il secondo problema concerne l’individuazione del termine entro il quale l’atto di accertamento della responsabilità deve essere notificato ad uno dei soggetti contemplati dall’art. 36. È agevole rendersi conto che la soluzione di entrambi i problemi dipende dalla natura dell’obbligazione gravante sul responsabile; e pertanto essi potranno essere affrontati con cognizione di causa soltanto dopo che avremo, nel paragrafo successivo, esaminato e individuato detta natura. 6. La natura delle obbligazioni gravanti sui responsabili di cui all’art. 36. 6.1. – Con riferimento alla natura dell’obbligazione posta a carico dei responsabili dell’art. 36 sono state espresse dalla giurisprudenza e dalla dottrina opinioni diversificate nel tempo anche all’interno del medesimo filone. In specie, per quanto riguarda la responsabilità dei liquidatori, la giurisprudenza più risalente ha affermato la natura tributaria dell’obbligazione incombente su questi ultimi ma ha dipoi recepito una tesi diversa, secondo cui si tratterebbe di un debito da comportamento illecito per fatto proprio del liquidatore individuato nella condotta dolosa o colposa di tale soggetto (28). È palese, in questo contesto, l’influenza dell’art. 265 del T.U. n. 645 del 1958, che, come già rilevato, inquadrava la responsabilità medesima tra le sanzioni comminate in tema di riscossione. Da ultimo, si è consolidato un diverso orientamento che ha abbandonato la tesi della responsabilità per fatto illecito, sposando invece l’opinione secondo cui il debito in questione non è fondato sul dolo o sulla colpa e non è tributario ma civilistico, trovando la sua fonte in una obbligazione ex lege che ha titolo autonomo rispetto all’obbligazione impositiva, si pone al di fuori degli schemi

(26) Si vedano A. Carinci, La nozione di “imposte dovute”, op. cit., 786 ed ivi nota 4; A. Bodrito, Art. 36, op. cit., 1059; E. Belli Contarini, La responsabilità tributaria, op. cit., 946. (27) Corte cost., 14 marzo 2008, n. 64, in Giur. Trib., 2008, 376. (28) Per le citazioni giurisprudenziali, cfr. A. Bodrito, Art. 36, op. cit., 1054; V. D’Orsi, Sulla responsabilità dei liquidatori, op. cit., 278 ss. Si veda pure Cass., Sez. Trib., 16 maggio 2012, n. 7676.


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della solidarietà e della quale il liquidatore è responsabile secondo le norme comuni degli artt. 1176 e 1218 c.c., in relazione agli elementi obbiettivi esistenti nel patrimonio sociale e della distrazione di tali attività a fini diversi dal pagamento delle imposte dovute dalla società (29). Analogo percorso è stato compiuto dalla dottrina, passando dalla tesi della natura tributaria a quella della natura aquiliana dell’obbligazione del liquidatore (30). Peraltro, in epoca più recente, alcuni autori hanno riproposto l’opinione che riconduce il liquidatore alla categoria dei responsabili d’imposta (31). Altri, invece, hanno ritenuto di riportare la responsabilità in oggetto nell’ambito civilistico dei rapporti societari contrattuali o paracontrattuali, segnatamente collegando l’obbligazione del liquidatore alla violazione degli obblighi di protezione sociale (32). Con riguardo alla responsabilità dei soci, vi è invece una maggiore uniformità di vedute, ravvisandosi per lo più il fondamento della relativa obbligazione nell’indebito arricchimento di tali soggetti a seguito della distribuzione, a loro favore ed in mancanza di pagamento dei tributi dovuti dalla società, di somme o

(29) Si vedano fra le tante pronunce: Cass., 14 marzo 1978, n. 1273, in Dir. Prat. Trib., 1979, II, 273; Cass. SS.UU., 4 maggio 1989, n. 2079; Cass., 11 maggio 2012, n. 7327; Cass., Sez. Trib., 5 agosto 2016, n. 16446. (30) Quanto alla dottrina più risalente, tendente a configurare il liquidatore come un responsabile d’imposta, si vedano gli Autori citati da G. Falsitta, Natura ed accertamento, op. cit., 256 ed ivi nota 81, cui adde A. Berliri, Testo Unico delle leggi sulle imposte dirette, Milano, 1960, 39 e 44 (in forma dubitativa). A favore della natura aquiliana della responsabilità dei soggetti in materia di accertamento, cfr.: G. Falsitta, Natura ed accertamento, op. cit., 255 ss.; A. Parlato, Il responsabile d’imposta, Milano, 1963, 131 ss.; Id., Il responsabile ed il sostituto d’imposta, in Trattato di diritto tributario, a cura di A. Amatucci, II, Padova, 1994, 417; A. Fantozzi, La solidarietà nel diritto tributario, Torino, 1965, 396 e s.; Id, Solidarietà tributaria (voce), in Trattato di diritto tributario, a cura di A. Amatucci, II, 1994, 467 e s.; F. Tesauro, La responsabilità fiscale dei liquidatori, op. cit., 290 (che parla di sanzione civile a carattere satisfattorio); T. Tassani, La responsabilità dei soci, cit., 380 (che parla di illecito oggettivo); M. Mauro, La responsabilità tributaria, op. cit., 1574; L. Bianchi, Le implicazioni fiscali, op. cit., 51. (31) Cfr. F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2000, 112 ed ivi nota 51; P. Russo, Manuale di diritto tributario Parte generale, Milano, 2007, 183 e s.; G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario, Padova, 2010, 176 ed ivi nota 49; P. Boria, Diritto tributario, Torino, 2016, 295; E. Potito, Soggetto passivo d’imposta (voce), in Enc. Giur., XLII, 295; V. Ficari, Cancellazione dal registro delle imprese, op. cit., 1040 e s.; L. Castaldi, Solidarietà tributaria (voce), op. cit., 5 (là dove l’Autrice sostiene che la figura del coobbligato dipendente “si identifica con quella del cosiddetto responsabile d’imposta”). (32) È la tesi espressa da G. Ragucci, La responsabilità tributaria dei liquidatori


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di beni societari durante la fase della liquidazione o nel biennio precedente (33). Delineato, sia pure in sintesi, il quadro delle tesi manifestatesi e succedutesi nel tempo, riteniamo di poter formulare le seguenti osservazioni critiche e ricostruttive, che consentono di pervenire ad una soluzione del problema soddisfacente ed uniforme per quanto concerne la natura delle responsabilità dei liquidatori, degli amministratori e dei soci. È nostra convinzione che il passaggio dall’art. 265 del T.U. del 1958 all’art. 36 abbia comportato il definitivo tramonto della tesi dell’obbligazione da fatto illecito. Invero, l’art. 36 ha abbandonato l’inquadramento dell’obbligazione del liquidatore tra le sanzioni, configurando una generica responsabilità di tale soggetto, senza richiedere la ricorrenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa (34). E se è così, il passo è breve per rendersi conto che non è possibile in tal caso neppure postulare una responsabilità del liquidatore di tipo aquiliano riconducibile all’art. 2043 c.c., la cui fattispecie risulta tutta e sempre imperniata sull’atto “doloso o colposo” che cagiona ad altri un danno ingiusto.

di società di capitali, Torino, 2013. Analoga posizione sembra quella di N. Dolfin, Natura della responsabilità dei liquidatori e termini di prescrizione applicabili, in Rass. Trib., 1978, I, 21, nonché di A. Monti, La responsabilità dei liquidatori, op. cit., 48 e s. Cfr. altresì L. Nicotina, La natura giuridica atipica, op. cit., 151, il quale propende per la tesi secondo cui la responsabilità dei liquidatori presupporrebbe “inadempienze di matrice paracontrattuale”. (33) Cfr. G. Falsitta, Natura ed accertamento, op. cit., 243-245; N. Dolfin, Natura della responsabilità, op. cit., 22; D. Coppa, Responsabile d’imposta (voce), in Dig. Disc. Civ. Sez. Comm., Torino, 1996, 382; M.C. Fregni, Obbligazione tributaria, op. cit., 98; M. Mauro, La responsabilità tributaria, op. cit., 1575; G. Minutoli, Considerazioni sistematiche, op. cit., 66; L. Bianchi, Società di capitali, op. cit., 36 e s. La tesi dell’ingiustificato arricchimento, sostenuta dalla dottrina civilistica in alternativa a quella dell’indebito oggettivo, è criticata da E. Belli Contarini, La responsabilità tributaria, op. cit., 943. (34) Come fa per i liquidatori l’art. 2495 c.c.. Cfr. L. Nicotina, La natura giuridica atipica, op. cit., 140, nonché M.C. Fregni, Obbligazione tibutaria, op. cit., 97. Parte della dottrina ritiene che, con riguardo alla responsabilità dei liquidatori di cui all’art. 36, ricorra un’ipotesi di responsabilità oggettiva od oggettivata (cfr. A. Carinci, La nozione di “imposte dovute”, op. cit., 787, e T. Tassani, La responsabilità dei soci, op. cit., 379, secondo i quali si tratterebbe di una fattispecie basata sull’illecito oggettivo; G. Girelli, La sorte dei crediti tributari, op. cit., 62, il quale adombra la tesi che la responsabilità in questione sembra essere di carattere oggettivo). Sennonché, per parte nostra, conveniamo con la critica mossa da G. Falsitta, Natura ed accertamento, op. cit., 254, ad avviso del quale il concetto di responsabilità oggettiva è estraneo al nostro sistema legislativo; cfr., sempre in senso critico, L. Nicotina, La natura giuridica atipica, op. cit., 141 e 161; cfr. altresì, sul punto, in senso contrario all’idea della colpa oggettiva, A. Monti, La responsabilità dei liquidatori, op. cit., 52.


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Insomma, allo stato si deve senz’altro escludere la natura sanzionatoria del fatto imputabile al suddetto soggetto; ma è altrettanto inevitabile ritenere che sia parimenti da escludere la natura risarcitoria del fatto stesso così come contemplato dall’art. 36, poiché quest’ultimo non lo configura come fatto illecito generatore di danni, non richiedendo la ricorrenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa. Di conseguenza, sono venuti a cadere anche i corollari che facevano leva sulla premessa del comportamento illecito, e cioè: - da un lato, l’affermazione della spiccata autonomia (rispetto all’effetto giuridico costituito dall’obbligazione impositiva societaria) della responsabilità del liquidatore, imperniata su un “fatto proprio” di quest’ultimo consistente nella violazione degli obblighi su di lui incombenti; nella quale ottica l’obbligazione impositiva viene ad assumere rilievo semplicemente come parametro di determinazione quantitativa della sanzione o del danno posti a carico del liquidatore. E invero – ci si perdoni l’insistenza – la responsabilità del terzo a fronte di un’obbligazione altrui è sempre collegata ad un fatto ad esso (terzo) imputabile (pena, altrimenti, l’illegittimità costituzionale della norma che la prevede), sicché il dato in questione è di per sé irrilevante al fine di definire la natura della prestazione cui è tenuto, decisivo essendo, piuttosto e al detto fine, il ruolo attribuito dal legislatore al “fatto proprio” del terzo; - dall’altro lato, e coerentemente, la negazione della qualifica delle due obbligazioni come obbligazioni solidali in quanto aventi ad oggetto prestazioni diverse (35). Quanto, poi, alla tesi che da ultimo si è fatta strada nella giurisprudenza, è dato obbiettare che la qualificazione dell’obbligazione del liquidatore come obbligazione ex lege individua semplicemente la fonte di essa, ma non la sua natura (36). Lo stesso è da dirsi circa l’assunto secondo cui si tratterebbe di un’obbligazione civile e non tributaria, perché la distinzione tra l’obbligazione d’imposta e quella del liquidatore è fuori discussione, avendo pacificamente causa e titolo giustificativi diversi; e perché, comunque, è opinione del tutto pacifica

(35) Le citazioni, sul tema, si sprecherebbero. Giova piuttosto far presente che i due corollari non sempre sono stati tenuti assieme, come a nostro avviso avrebbe dovuto essere: così G. Falsitta, Natura ed accertamento, op. cit., il quale afferma che l’obbligazione dei liquidatori, rispetto a quella di cui soggetto passivo la società, è dipendente ma non solidale; mentre A. Fantozzi, La solidarietà nel diritto tributario, op. cit., 396-97, ammette l’esistenza del vincolo della solidarietà, ma esclude il rapporto di pregiudizialità-dipendenza. (36) Al riguardo, si veda G. Fransoni, L’esecuzione coattiva, op. cit., 925.


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che l’obbligazione d’imposta, pur appartenendo al novero delle obbligazioni pubbliche, è riconducibile all’ampia categoria delle obbligazioni civili, essendo pertanto soggetta alla stessa disciplina di queste ultime, salve le deroghe introdotte dalle norme speciali tributarie (37). Una volta liberatisi dalle incrostazioni del passato, diventa inevitabile valorizzare il dato per cui l’obbligazione del liquidatore, pur distinguendosene, accede all’obbligazione d’imposta alla stregua di un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra due fattispecie diverse, configurabile quando l’effetto giuridico dell’una è elemento costitutivo dell’altra (38). Orbene, tale accessorietà disvela all’evidenza la funzione o causa di garanzia che contrassegna l’obbligazione dipendente (39). In altri termini, i liquidatori, come del resto i soci e gli amministratori, altro non sono che garanti ex lege dell’obbligazione d’imposta, nel senso che la loro obbligazione è finalizzata a rafforzare la posizione creditoria dell’amministrazione finanziaria in vista e per l’eventualità che si renda inadempiente il debitore principale, e cioè il soggetto passivo d’imposta (nel nostro caso, la società o l’ente). In tale contesto la violazione di un dovere (da parte del liquidatore) e la sussistenza di un ingiustificato arricchimento (da parte del socio) restano sullo

(37) Cfr. M. C. Fregni, Obbligazione tributaria e codice civile, cit., 82 ss.; F. Batistoni Ferrara, Obbligazioni nel diritto tributario (voce), op. cit., 297; T. Tassani, La responsabilità dei soci, op. cit., 361. (38) Sul concetto di pregiudizialità-dipendenza in senso tecnico, cfr. A. Proto Pisani, Diritto processuale civile, Napoli, 1996, 363. Per la ricorrenza di tale rapporto nel diritto tributario in generale e con specifico riferimento alla responsabilità del liquidatore ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 602/737, si vedano: A. Fantozzi, La solidarietà nel diritto tributario, cit., 386 ss.; M. Miccinesi, Solidarietà nel diritto tributario (voce), op. cit., 453; L. Castaldi, Solidarietà tributaria (voce), op. cit., 5 ss.; L. Del Federico, In tema di solidarietà dipendenza: la responsabilità tra rappresentante e rappresentato secondo l’art. 98 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, in Rass. Trib., 1990, 99 ss.; A. Fedele, Appunti dalle lezioni, op. cit., 226; F. Tesauro, Istituzioni, op. cit., 110 ss.; C. Glendi, Corte costituzionale, op. cit., 1275 ed ivi nota 34; A. Buscema, I riflessi tributari, op. cit., 148; P. Laroma Jezzi, Cancellazione di società, op. cit., 2954. (39) La funzione di garanzia ex lege delle responsabilità di cui all’art. 36 è riconosciuta da molti Autori senza peraltro desumerne, a nostro avviso, le debite conseguenze che ne discendono ai fini dell’individuazione della natura delle obbligazioni: cfr., al riguardo, M. Miccinesi, Solidarietà nel diritto tributario (voce), op. cit., 451 nonché 453 ed ivi nota 39; L. Castaldi, Solidarietà tributaria (voce), op. cit., 5; A. Buscema, I riflessi tributari, op. cit., 143; G. Fransoni, L’esecuzione coattiva, op. cit., 829 e 831; E. Belli Contarini, La responsabilità tributaria, op. cit., 935; A. Carinci, L’estinzione delle società, op. cit., 2843 ss.; E. De Mita, Capacità contributiva (voce), op. cit., 467.


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sfondo, senza peraltro perdere del tutto la loro rilevanza, in quanto assurgono a titolo giustificativo della prestazione (40) e, come tali, convergono nel fugare i dubbi di incostituzionalità dell’art. 36 per violazione del principio di capacità contributiva sancito dall’art. 53 Cost., non potendosi escludere l’ipotesi che in forza della responsabilità introdotta dalla prima disposizione l’onere impositivo resti a carico del responsabile nel suo ruolo di mero garante; come è del tutto possibile, in perfetta coerenza con la tesi da noi accolta, dal momento che la garanzia dell’assolvimento di una determinata obbligazione sposta l’alea dell’eventuale insolvenza del debitore principale, facendola ricadere nella sfera patrimoniale del garante, che tuttavia risponde dell’obbligazione d’imposta in virtù di un comportamento a lui imputabile (41). Le considerazioni precedenti e, soprattutto, il rilievo per cui il responsabilegarante è tenuto ad effettuare la stessa prestazione pecuniaria incombente sul debitore principale-contribuente e da quest’ultimo non assolta consentono poi di affermare che tra le due obbligazioni ricorre lo schema della solidarietà. Conseguentemente, torna applicabile appieno l’art. 1292 c.c., a norma del quale l’obbligazione è in solido quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione. D’altra parte, è opportuno ricordare, in sintonia con quanto rilevato da autorevole dottrina (42), come tra gli studiosi vi sia ampio consenso sul punto che le norme civilistiche in tema di solidarietà, ivi compreso l’art. 1306 c.c., si applichino sia alle obbligazioni solidali ad interesse comune (c.d. solidarietà paritetica o paritaria), sia alle obbligazioni solidali ad interesse unisoggettivo (c.d. solidarietà dipendente), quali quelle oggetto delle responsabilità in esame, là dove la solidarietà opera come vincolo in funzione di garanzia tra obbligazioni distinte quanto al titolo giustificativo ma connesse per pregiudizialità-dipendenza. Inoltre, l’obbligazione dei responsabili, ferma restando la sua distinzione da quella a titolo d’imposta e la sua riconducibilità alla generale categoria delle obbligazioni civilistiche, ben può essere qualificata come tributaria, tenuto conto sia della particolare procedura di accertamento prevista dal quinto comma dell’art. 36 (e questo sotto il profilo formale), sia del fatto che essa ha

(40) In senso conforme, si veda M. Miccinesi, op. e loco ult. cit. (41) Si vedano al riguardo le lucide considerazioni di E. De Mita, Capacità contributiva (voce), op. cit., 466 e s. (42) Così S. Menchini - A. Motto, Commento all’art. 2909, op. cit., 1321 ed ivi nota 302.


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ad oggetto l’adempimento di una prestazione impositiva cui si è sottratto il contribuente (e quindi anche sotto il profilo sostanziale) (43). Alla fine, riteniamo di poter condividere la posizione di quella parte della dottrina che, in tempi più ravvicinati, ha inquadrato il liquidatore nella categoria dei responsabili d’imposta definita dall’art. 64 del d.P.R. n. 600 del 1973; e se ciò, da un lato, vale anche per i soci e per gli amministratori, dall’altro lato non è smentito dalla peculiarità per cui la responsabilità dei soggetti contemplati dall’art. 36 è l’effetto di una fattispecie che si perfeziona successivamente a quella dalla quale nasce l’obbligazione d’imposta (44). Né vale obbiettare che a tali soggetti non è riconosciuto il diritto di rivalsa o regresso che l’art. 64 attribuisce al responsabile d’imposta, dal momento che, dopo le cose dette, non v’è alcun ostacolo a riconoscere che siffatto diritto i soggetti suddetti ce l’hanno nei confronti della società-contribuente o di chi per essa; anche se è tutt’altro che scontato il buon esito dell’esercizio di tale diritto, come può capitare a qualsiasi garante di un’obbligazione altrui (45). 6.2. – Infine, siamo adesso in grado di offrire una soluzione ai problemi individuati alla fine del paragrafo 5. A) I dubbi di illegittimità costituzionale in ordine al disposto dell’ultimo comma dell’art. 36, là dove si devolvono alle commissioni tributarie le controversie aventi ad oggetto l’atto di accertamento delle responsabilità di cui trattasi, si rivelano infondati pur alla luce dei limiti frapposti alla giurisdizione

(43) Oltre agli autori che riconducono i soggetti responsabili di cui all’art. 36 alla categoria del responsabile d’imposta, si vedano altresì, a favore della natura tributaria delle obbligazioni dei soggetti medesimi: M. C. Fregni, Obbligazione tributaria e codice civile, op. cit., 96; R. Lupi, Dividendi, palesi ed occulti, op. cit., 160; F. Pepe, Le implicazioni fiscali, op. cit., 57 (sia pure con specifico riferimento alla sola responsabilità dei soci); G. Fransoni, L’esecuzione coattiva, op. cit. 843 ss.; T. Tassani, La responsabilità dei soci, op. cit., 379 (il quale, a proposito della responsabilità dei liquidatori, esprime l’avviso che quella regolata dal primo comma dell’art. 36 sia “una fattispecie di carattere tributario”); E. Potito, Soggetto passivo d’imposta (voce), op. cit., 1234. In senso contrario, si veda Cass., Sez. Trib., 5 agosto 2016, n. 16446, in Il fisco, 2016, 3471 ss., secondo la quale il credito dell’amministrazione finanziaria verso l’amministratore non è un credito strettamente tributario ma più che altro civilistico. (44) Cfr. M. Miccinesi, Solidarietà tributaria (voce), op. cit., 451; F. Tesauro, Istituzioni, op. cit., 112; G. Fransoni, L’esecuzione coattiva, op. cit., 825. (45) Cfr. E. De Mita, Capacità contributiva (voce), op. cit. 467. In senso contrario alla ritenuta spettanza del diritto di regresso a favore dei liquidatori, si vedano L. Nicotina, La natura giuridica, op. cit., 150 e s., nonché T. Tassani, La responsabilità dei soci, op. cit., 379.


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del giudice tributario dalla giurisprudenza costituzionale. Invero, detto giudice è pur sempre chiamato a pronunciare in materia tributaria, alla quale appartengono, alla stregua delle conclusioni raggiunte in precedenza, i rapporti obbligatori facenti capo a liquidatori, soci ed amministratori (46). B) Quanto al termine entro il quale le suddette responsabilità possono essere fatte valere dal fisco, la giurisprudenza, seguita da una parte della dottrina, è ferma nel ritenere applicabile il termine ordinario di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c.; mentre altri Autori hanno sostenuto la tesi della prescrizione quinquennale (47). A nostro avviso l’orientamento giurisprudenziale merita piena adesione, posto che l’art. 36 non individua al riguardo alcun termine e, d’altra parte, l’obbligazione che pure abbiamo definito tributaria (ancorché distinta dall’obbligazione d’imposta gravante sulla società) e incombente su liquidatori, soci ed amministratori è riconducibile all’alveo della generale e ampia categoria delle obbligazioni civili. Con una sola eccezione, riguardante l’ipotesi in cui, essendo estinta la società, l’Amministrazione finanziaria inglobi nell’atto previsto dall’art. 36 l’avviso di accertamento dell’imposta, affinché il giudice eventualmente adito ne conosca in via incidentale; nel qual caso la notifica di quest’ultimo atto, se non già notificato alla società, deve avvenire nel termine di decadenza previsto dalle leggi fiscali.

Pasquale Russo - Fabio Coli

(46) Sul punto, cfr. G. Fransoni, L’esecuzione coattiva, op. cit., 844; cfr. altresì Cass., Sez. Trib., 15 ottobre 2001, n. 12546. (47) Per la giurisprudenza, compatta a favore del termine decennale, cfr. tra le tante: Cass., Sez. Trib., 11 maggio 2012, n. 7327. Nello stesso senso, in dottrina, si vedano: A. Carinci, La nozione di “imposte dovute”, cit., 787; M. C. Fregni, Obbligazione tributaria, op. cit., 362 ss.; L. Nicotina, La natura giuridica atipica, op. cit., 15 e ss. (ed ivi la dottrina citata alla nota 68), secondo il quale, se il debito dei liquidatori si considera tributario (ciò che l’Autore peraltro esclude, ritenendo quindi fondata la tesi della prescrizione quinquennale), “dovrebbe essere applicabile l’art. 2946”. Sul tema si veda pure G. Ragucci, La responsabilità tributaria, op. cit., 163 e s.. A favore della prescrizione quinquennale si esprimono: G. Falsitta, Natura ed accertamento, op. cit., 362; N. Dolfin, Natura della responsabilità, op. cit., 24; G. Girelli, La sorte dei crediti tributari, op. cit., 63 e ss.


Abuso del diritto: oneri procedimentali e requisiti essenziali dell’atto impositivo* Sommario: 1. Introduzione. – 2. La delimitazione dell’indagine. – 3. – Brevi

considerazioni sulla necessità di prevedere modelli procedimentali più ispirati alla tutela degli interessi del contribuente per riequilibrare i poteri di accertamento fondati su un fenomeno giuridico evanescente e di difficile configurazione sul piano del diritto positivo. – 4. Gli obblighi procedimentali: considerazioni introduttive. – 4.1. Segue: gli aspetti problematici. – 4.2. Segue: la novità dovuta all’introduzione di termini di decadenza specifici e l’irrazionalità della soluzione legislativa. – 5. I requisiti essenziali dell’atto: l’obbligo della motivazione rinforzata. – 6. Conclusioni. La nuova disciplina dell’abuso del diritto è da valutare con favore perché presenta un impianto sistematico razionale essendo fondato su un complesso di garanzie procedimentali che assicura una equilibrata ponderazione tra interessi contrapposti ed, in definitiva, il corretto esercizio della funzione impositiva. Essa ricalca l’assetto della precedente norma antielusiva di cui all’art. 37-bis del DPR n. 600 del 1973 ma si è spinta oltre i principi della legge delega – sia per la centralità riconosciuta al contraddittorio, che per il sistema particolarmente rigoroso dei vizi dell’atto e del procedimento – in risposta all’ampio potere dell’Amm. Fin. dovuto ad un fenomeno giuridico intrinsecamente evanescente ed indeterminato che inficia la certezza del diritto. The new rules governing the abuse of rights should be regarded as favorable because they represent a systematic and rational structure, which is grounded on a body of procedural guarantees ensuring a balanced weighting of opposing interests and, hence, the correct performance of the taxation function. Such rules follow the structure of the previous anti-evasion provision set forth by article 37-bis of Presidential Decree no. 600 of 1973. However, they went beyond the principles establishedby the enabling act (legge delega) – due to both the central role given to the debate among the parties (contraddittorio), and the particularly strict system governing errors in legal documents and procedures. This is in response to the wide discretion that has been granted to the Tax Authorities as a

* L’articolo riproduce la relazione, ampliata e corredata dalla note, svolta al convegno su “L’abuso del diritto. Profili privatistici e profili fiscali” tenutosi a Napoli il 15 giugno 2017 presso l’Università degli Studi Parthenope.


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consequence of a legal concept which is intrinsically indistinct and indefinite and, hence, jeopardizes legal certainty.

1. Introduzione. – L’innovativo art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente è stato concepito in una prima formulazione con il D. Lgs. n. 128 del 5 agosto 2015 per essere poi lievemente modificato con il D. Lgs. n. 156 del 24 settembre 2015 assumendo la configurazione attuale a decorrere dal 1 gennaio 2016. Rispetto a tale norma mi occuperò degli oneri procedimentali e dei requisiti essenziali dell’atto impositivo ovvero della disciplina di cui ai commi da 6 a 8 in quanto, in estrema sintesi, i commi 6 e 7 obbligano alla richiesta preventiva di chiarimenti a pena di nullità mentre il comma 8 impone che il provvedimento impositivo sia assistito da una motivazione più analitica (generalmente definita “rafforzata”) sempre a pena di nullità dell’atto (1). Anche alla luce dell’esperienza dottrinale e giurisprudenziale che è intervenuta nel frattempo si tratta di una materia ampia, che impone, da un lato, talune precisazioni di metodo al fine di circoscrivere gli argomenti che esaminerò in seguito e, dall’altro, mi induce ad affrontare in premessa una questione di ampio respiro che giustifica l’impostazione privilegiata dal legislatore e che mi pare condivisibile come già è stato evidenziato in dottrina. 2. La delimitazione dell’indagine. – In primo luogo, l’esame della fase di attuazione della nuova configurazione dell’abuso del diritto imporrebbe quantomeno la specificazione degli elementi costituitivi della fattispecie abusiva se non altro perché, in via di principio, costituiscono la premessa, logica

(1) Tra i primi interventi su questi temi cfr. S. La Rosa, L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali e processuali, in Riv. dir. trib., 2014, I, 499; M. Basilavecchia, Profili procedimentali dell’art. 10-bis dello Statuto del contribuente, in Corr. Trib., 2016, 3281; G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, in Rass. Trib., 2017, 299; Idem, Il contraddittorio nell’accertamento dell’abuso di diritto, in Abuso del diritto ed elusione fiscale, a cura di E. Della Valle - V. Ficari - G. Marini, Torino, 2016, 110; A. Contrino - A. Marcheselli, L’obbligo di motivazione “rinforzata” e il riassetto degli oneri probatori nel “nuovo” abuso del diritto, in Corr. Trib., 2016, 15; A. Contrino - A. Marcheselli, Procedimento di accertamento dell’abuso, contraddittorio anticipato e scelte difensive, in Abuso del diritto e novità sul processo, a cura di C. Glendi - C. Consolo - A. Contrino, Milano, 2016, 36; G. Corasaniti, Le garanzie procedimentali in tema di abuso del diritto: spunti di riflessione per un’estensione ad altre forme di accertamento, in Dir. e Prat. Trib., 2016, I, 1838.


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e giuridica, del sistema degli obblighi e degli oneri a carico delle parti del rapporto tributario e, soprattutto, perché sono intervenuti elementi significativi di novità nella definizione dell’istituto (2). Di tali aspetti però se ne è occupato il Prof. Fransoni per cui mi limiterò a qualche cenno nella prospettiva che illustrerò in seguito. Inoltre, la fase procedimentale ed i requisiti essenziali dell’atto sono temi sistematicamente connessi ma concettualmente distinti al punto che sarebbero meritevoli di approfondimenti autonomi; infatti, è persino ovvio che i vizi del procedimento previsto dalla legge si riflettono sub specie di vizi dell’atto ma è altrettanto ovvio che quest’ultima categoria ha una dimensione più ampia perché comprende tutte le altre patologie non direttamente collegate al procedimento adottato dall’Amm. Fin. (ad esempio, l’incompetenza, per materia o funzionale, dell’Ufficio). Per tale ragione non esaminerò tutte le possibili categorie di vizi dell’atto ma solo quelli dovuti al procedimento posto in essere oppure all’assenza di uno o più requisiti essenziali della fattispecie abusiva anche in presenza di un procedimento sottostante alla formazione dell’atto formalmente corretto. Infine, vi sono altri aspetti di ampio rilievo sistematico che appartengono alla fase procedimentale in senso lato e che presentano l’elemento comune di essere espressione di un impianto garantista rispetto agli interessi del contribuente ai quali è possibile riservare solo una menzione per esigenze di tempo (3). Penso, ad esempio, alla disciplina dell’interpello di cui al comma 5 dell’art. 10-bis, che non presenta molti elementi innovativi rispetto alla precedente esperienza della clausola generale antielusiva salvo il venir meno della condizione di obiettiva incertezza nel solco di un maggior accesso all’istituto (4); all’esclusione in via legislativa di uno dei principali requisiti di tutti gli

(2) Tuttavia, la completezza della novella legislativa esclude che possa riproporsi il dibattito sulla natura dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 tra coloro che ravvisavano una natura sostanziale, chi propendeva per la natura procedimentale e la dottrina che ha ritenuto che si trattasse di una norma volta a disciplinare l’interpretazione di altre disposizioni (per una sintesi si veda G. Ingrao, L’evoluzione dell’abuso del diritto in materia tributaria: un approdo con più luci che ombre, in Dir. e Prat. Trib., 2016, I, 1458) in quanto l’impianto dell’art. 10bis consente agevolmente di distinguere gli aspetti sostanziali (disciplinati principalmente dai primi quattro commi), da quelli che attengono alla fase di attuazione (in primis i commi da sei a otto). (3) Per un’analisi completa, arricchita da una casistica di fattispecie e di riferimenti dottrinali, si può rinviare a Assonime, Circ. n. 21 del 4 agosto 2016. (4) Sul tema rinvio alle condivisibili osservazioni di F. Gallo, La nuova frontiera


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atti impositivi ai sensi del comma 10 ovvero l’acquisto dell’efficacia esecutiva solo a seguito della pronuncia del giudice tributario di primo grado e la coeva esclusione della riscossione frazionata in pendenza del primo grado di giudizio (5); al diritto al rimborso per le imposte pagate in eccesso di cui al comma 11 in relazione al quale sono ampiamente condivisibili le considerazioni del Prof. La Rosa in ordine alla discutibile limitazione ai “soggetti diversi da quelli cui sono applicate le disposizioni del presente articolo”. 3. Brevi considerazioni sulla necessità di prevedere modelli procedimentali più ispirati alla tutela degli interessi del contribuente per riequilibrare i poteri di accertamento fondati su un fenomeno giuridico evanescente e di difficile configurazione sul piano del diritto positivo. – Com’è noto, nella nostra materia l’abuso del diritto è di origine giurisprudenziale, ha avuto una vis espansiva ad altri settori del diritto ed ha trovato ora riconoscimento sul piano del diritto positivo sulla base della infelice esperienza della clausola antielusiva generale di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 (6) al punto che l’impossibilità di ravvisare un principio “nuovo” dovrebbe comportare la tendenziale applicazione retroattiva della novella (7). È dunque evidente l’influenza che esercitano gli aspetti concettuali e la definizione di abuso per definire con precisione l’ambito dei poteri di accertamento riconosciuti all’Amm. Fin. In questa prospettiva, non può essere trascurato che, come evidenziato da una parte consistente della dottrina, l’abuso del diritto nella nostra materia è

dell’abuso del diritto, cit., 1334, soprattutto per l’incongruenza dovuta alla previsione di un interpello facoltativo e per gli effetti conseguenti alla risposta negativa dell’Ufficio. (5) Tra i tanti, si veda A. Carinci, Sospensione della riscossione nell’accertamento per abuso del diritto, in Il Fisco, 2016, 2807. (6) Sulla evidente continuità tra le due norme e sulla spiccata sovrapposizione dei relativi profili concettuali, tra i tanti, si veda M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, Padova, 2013, passim. (7) In generale, sul rilievo dei principi di fonte giurisprudenziale nell’ordinamento tributario e per le conseguenze in punto di applicazione retroattiva nel caso di recepimento in un atto legislativo si veda A. Fedele, Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria, in Riv. dir. trib., 2013, I, 877; invece, con riferimento all’abuso del diritto, cfr. G. Tabet, Sull’efficacia temporale della nuova disciplina dell’abuso del diritto, in Rass. Trib., 2016, I, 11. In giurisprudenza, sulla natura dell’art. 10-bis alla stregua di “termine interpretativo di riferimento, sia pure in chiave evolutiva” da applicare anche alle fattispecie precedenti all’entrata in vigore della legge cfr. Cass., 9 agosto 2016, nn. 16675 e 16677, in Il Fisco, 2016, 3197; Cass., nn. 5088 e 5089 del 28 febbraio 2017.


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considerato un fenomeno giuridico sfuggente (8), definito più volte circolare (9), contraddistinto da “formule nebulose, petizioni di principio, definizioni imprecise” (10), evanescente o addirittura “gassoso”, che ha portato anche ad evocare la “vaghezza combinatoria” (11). Tali conclusioni peraltro non sono acquisizioni recenti perché anche nel passato autorevolissimi studiosi di altre discipline hanno evidenziato, ad esempio, che l’abuso del diritto è “la minaccia più insidiosa alla certezza del diritto”, dalla formula “intimamente contraddittoria” (12), trattandosi di una categoria che è stata ritenuta “priva di fondamento logico e di giustificazione positiva” (13). Se dunque, nonostante l’ausilio delle recenti fonti europee o internazionali, il tema presenta tali caratteristiche intrinseche, qualsiasi tentativo di tradurlo in diritto positivo, di ipotizzare una disciplina compiuta e di definire con precisione quantomeno gli elementi essenziali sconta questa oggettiva difficoltà (14). Vale a dire che, a prescindere dall’abilità del legislatore nel formulare la definizione complessiva oppure i suoi elementi costituivi, è il fenomeno giuridico in sé ad essere connotato da una astrattezza, una evanescenza e dall’indeterminatezza dei tratti essenziali della

(8) Al riguardo si consultino i numerosi aspetti critici sollevati da M. Versiglioni, Abuso del diritto, Pisa, 2016, spec 79, mentre A. Giovannini, L’abuso del diritto, in Dir. e Prat. Trib., 2016, I, 896, evidenzia la presenza nella nuova nozione di “sovrastrutture linguistiche e … elementi definitori non essenziali”. (9) Tra i tanti, si consulti F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto, cit., 1334; Idem, L’abuso del diritto in materia fiscale nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione, in Rass. Trib., 2016, 837; P. Boria, La formazione giurisprudenziale del principio di abuso del diritto in materia fiscale, in Riv. Giur. Trib., 2017, 661. (10) Così A. Fedele, Assetti negoziali e forme d’impresa tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, in Riv. dir. trib., 2010, I, 1117. (11) Cfr. G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 300, che sottolinea la vaghezza e la ridondanza della formula definitoria. (12) Per conferma, si veda il noto saggio di P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205, ripubblicato in P. Rescigno, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, spec. 12 e 13. (13) Cfr. M. Rotondi, L’abuso di diritto, in Riv. dir. civ., 1923, 105. (14) In questa prospettiva è esemplare il pensiero di M. Rotondi, L’abuso di diritto, cit., 116, avendo sottolineato che l’abuso del diritto “è un fenomeno sociale, non un concetto giuridico, anzi uno di quei fenomeni che il diritto non potrà mai disciplinare compiutamente in tutte le sue applicazioni che sono imprevedibili: è uno stato d’animo, è la valutazione etica di un periodo di transizione, è quel che si vuole ma non una categoria giuridica”. Più recentemente, tra gli studiosi della nostra materia, in termini analoghi si è espresso S. La Rosa, Elusione ed antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, I, 793, avendo evidenziato la natura pregiuridica e sociologica della nozione di elusione in quanto è concettualmente inammissibile prefigurare l’aggiramento della norma.


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fattispecie, anche sotto il profilo degli effetti, che si riflette inevitabilmente sul piano del diritto positivo soprattutto se la scelta persegue l’ambizioso obiettivo di pervenire ad una definizione compiuta piuttosto che privilegiare formule limitate o, comunque, più pragmatiche per salvaguardare la certezza del diritto (15). A mio avviso, questa è la premessa sistematica per esaminare la novella legislativa, che pure presenta molti aspetti apprezzabili nonostante l’utilizzo di termini quantomeno inconsueti sul piano giuridico a riprova dello sforzo di elaborare una disciplina equilibrata e della oggettiva difficoltà di individuare una nozione soddisfacente. D’altro canto, per concludere su tale aspetto, per opinione diffusa, nemmeno la nuova definizione di abuso del diritto assicura la prevedibilità dei suoi effetti, ovvero uno dei tratti principali che dovrebbe razionalmente assistere qualsiasi novità legislativa, ma ad essa si tende piuttosto a riconoscere una portata prescrittiva variabile da caso a caso (16) (riconducibile alla formula della “non opponibilità”) che consentirebbe di qualificare diversamente la fattispecie in ragione di un modello indefinito ed indeterminabile preventivamente (17). Su queste basi teoriche si fondano i limiti della nozione di abuso in quanto il nucleo assiologico del divieto è affidato alla fonte primaria ma la relativa astrattezza e genericità nonché l’indeterminatezza dei suoi elementi costitutivi impongono una valutazione integrativa ed imprevedibile sulla base di parametri indefiniti (18). Quanto esposto assume una rilevanza più problematica alla luce dell’ambito di applicazione pressoché indefinito della nozione ovvero, se si preferisce, vista la natura di “clausola” o “principio generale” della

(15) L’inevitabile difficoltà del legislatore nel tentativo di disciplinare un fenomeno giuridico “nebuloso ed incerto” (pur apprezzando gli indubbi passi in avanti) è lucidamente evidenziata da G. Falsitta, Note critiche intorno al concetto di abuso del diritto nella recentissima codificazione, in Riv. dir. trib., 2016, I, 707. Per talune riflessioni recenti in merito al principio della certezza del diritto cfr. L. Perrone, Certezza del diritto, affidamento e retroattività, in Rass. Trib., 2016, 933. (16) In questo senso, ad esempio, si veda A. Contrino - A. Marcheselli, Luci e ombre nella struttura dell’abuso fiscale, “riformato”, in Corr. Trib., 2015, 3787. (17) Cfr. G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 301, che sottolinea la diversa portata della “non opponibilità” nella nostra materia rispetto al diritto civile. (18) Conforme F. Gallo, Brevi note sulla nozione di abuso del diritto in materia fiscale, in Riv. dir. trib., 2017, I, 434, nel punto in cui evidenzia che “nonostante l’avvento della nuova normativa, sarà infatti difficile per il futuro eliminare del tutto il conflitto tra l’esigenza di certezza e la (per sua natura) astratta nozione di abuso”.


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norma (19), secondo la qualificazione più diffusa, nonostante l’innegabile (ed innovativo) carattere residuale dovuto al comma 12 (che integra – o, meglio, esclude – la disciplina dei primi quattro commi) in quanto l’abuso del diritto “non può essere configurato” se i vantaggi fiscali possono essere contestati sulla base di altre disposizioni tributarie (20). Personalmente condivido l’opinione di coloro che, in via di principio, ritengono preferibili le clausole analitiche non tanto perché quelle generali sarebbero inidonee ad esprimere fini o valori meritevoli di tutela ma perché inficiano, in misura inammissibile, la certezza del diritto e sollevano questioni di teoria generale in una materia coperta dalla riserva di legge (21) laddove attribuiscono un potere non predeterminabile nella sua ampiezza, imprevedibile nel suo esercizio in concreto ed inidoneo ad assicurare l’univocità delle qualificazioni giuridiche. Invece, la scelta del legislatore ha privilegiato il modello opposto e da essa trae origine il problema degli eventuali limiti come dimostra lo scambio di opinioni seguito alla Circolare Assonime n. 21 del 4 agosto 2016 sull’idoneità a colmare eventuali lacune e sui limiti all’integrazione valutativa, all’interpretazione estensiva o all’analogia. Infatti, come ho già avuto modo di evidenziare, si tratta di una norma il cui ambito di applicazione è praticamente indefinito, applicabile a qualsiasi categoria soggettiva, a qualsiasi tributo (salvo le limitazioni previste dalla legge, ad esempio, per i tributi doganali) ed a qualsiasi fattispecie. Anche tale aspetto non è marginale rispetto alla questione di impostazione che mi accingo a delineare. Infatti, in presenza di una qualificazione sfuggente ma comunque assistita dalla copertura costituzionale dell’art. 53 a partire

(19) Tale conclusione è estremamente diffusa in dottrina. Per tutti, cfr. F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto, cit., 1315; G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 299 e 301, che lo considera un dato pacifico; A. Giovannini, Il divieto di abuso del diritto in ambito tributario come principio generale dell’ordinamento, in Rass. Trib., 2010, 982. (20) Al carattere residuale della nuova nozione di abuso attribuisce un rilievo considerevole F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto, cit., 1315; in realtà, esso esclude la sovrapposizione (o assimilazione) tra fenomeni giuridici distinti, ricorrente in giurisprudenza, ma non è decisivo per delineare compiutamente il nucleo essenziale della nozione in ragione della evidenziata circolarità dei suoi elementi costitutivi. (21) In questa prospettiva si veda principalmente S. La Rosa, da ultimo in L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali e processuali, cit., 505 e 525; per l’impostazione opposta, invece, cfr. A. Giovannini, Il divieto di abuso del diritto in ambito tributario, cit., 982.


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dall’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 2008 (22), dell’oggettiva difficoltà di individuare un equilibrio razionale tra certezza del diritto e nozione astratta di abuso quantomeno sotto il profilo della uniformità dei criteri interpretativi (23), di una connotazione estremamente ampia e di un’esperienza giurisprudenziale pregressa che tendeva ad ampliarne la portata (24), da tempo era avvertita l’esigenza di introdurre vincoli efficaci (controlimiti o contrappesi) ovvero un complesso di garanzie procedimentali per assicurare una equilibrata ponderazione tra esigenze ed interessi contrapposti ed il corretto esercizio della funzione impositiva. D’altro canto, tra le ragioni che hanno favorito la novella legislativa vi era proprio l’esigenza di estendere all’abuso del diritto le garanzie procedimentali previste dall’art. 37-bis del DPR n. 600 del 1973 (ora soppresso) in risposta a taluni precedenti giurisprudenziali di avviso contrario (25). In altre parole, una volta che l’abuso del diritto ha trovato ampio riconoscimento nella nostra materia, con importanti aperture anche in altri settori dell’ordinamento giuridico (come risulta dagli interventi degli altri Colleghi), l’ampio potere riconosciuto all’Amm. Fin. ha imposto una disciplina garanti-

(22) Cfr. Cass. Sez. Un., nn. 30055, 30056 e 30057 del 23 dicembre 2008, in Rass. Trib., 2009, 476. Al riguardo, tra i tanti, cfr. G. Falsitta, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Corr. Trib., 2009, 293; V. Ficari, Clausola generale antielusiva, art. 53 della Costituzione e regole giurisprudenziali, in Rass. Trib., 2009, 309, nonché P. Russo, Profili storici e sistematici in tema di elusione e abuso del diritto in materia tributaria; spunti critici e ricostruttivi, in Dir. e Prat. Trib., 2016, I, 1, che manifesta un forte dissenso al fondamento costituzionale ravvisato nell’art. 53 ritenendo più corretto il riferimento all’art. 41 della Cost. (23) L’esigenza minimale che la nozione astratta di abuso sia quantomeno idonea a garantire la stabilità della regolamentazione giuridica nel tempo ed escluda una discrezionalità interpretativa priva di rigore giuridico è sottolineata da F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto, cit., 1332. Invece, sulla necessità che le clausole come l’abuso del diritto siano destinate ad operare in casi eccezionali cfr. S. LA Rosa, da ultimo in L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali e processuali, cit., 506 e 510. (24) È questa una conclusione pacifica in dottrina; tra i contributi più recenti si veda A. Giovannini, Il divieto di abuso del diritto in ambito tributario come principio generale dell’ordinamento, in Rass. Trib., 2010, I, 1116; Nussi, La normativa antielusiva all’approdo statutario, in Dir. Proc. Trib., 2016, 175. (25) In questa prospettiva è sufficiente richiamare l’ordinanza n. 24739 del 5 novembre 2013 della Corte di Cassazione, in Corr. Trib., 2014, 35, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale in merito alla nullità dell’atto non preceduto dalla richiesta di chiarimenti assumendo che detta nullità sarebbe stata “distonica rispetto al diritto vivente e creatrice di irragionevoli disparità di trattamento”.


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sta con funzioni di riequilibrio degli interessi delle parti (26) anche in ragione della specialità del relativo provvedimento impositivo (27). Talché sarebbe riduttivo attribuire alle recenti modifiche (solo) la ratio di aver colmato il vuoto legislativo prospettato da talune pronunce della giurisprudenza di legittimità se non altro perché l’intervento legislativo non si è limitato alla fase procedimentale ma esclude ora qualsiasi intervento suppletivo o integrativo del giudice tributario per effetto del vincolo previsto dal comma 9 in conformità alla tesi sostenuta dalla dottrina di maggioranza. In particolare, il riequilibrio complessivo è stato delineato contrapponendo al potere dell’Amm. Fin. taluni obblighi procedimentali e di contenuto dell’atto impositivo da osservare a pena di nullità e, per rafforzare il sistema delle garanzie in favore del contribuente, è stato coerentemente escluso il potere d’ufficio del giudice di riqualificazione della fattispecie sebbene la delega non prevedesse nulla in proposito; pertanto, il disegno sistematico è chiaro e razionale in quanto la limitazione ai poteri del giudice può considerarsi la conseguenza di riservare alla fase del contraddittorio l’individuazione e la definizione della fattispecie abusiva in contrasto con la posizione della Corte Costituzionale che ha prospettato una sorta di assimilazione tra contraddittorio endoprocedimentale e processuale. Per tale ragione le novità procedimentali della nuova disciplina dell’abuso del diritto sono gli aspetti più apprezzabili e di maggior rilievo sistematico perché assolvono ad una funzione più ampia in ragione di una ponderazione di valori ed interessi più complessa rispetto a quella riscontrabile in via ordinaria (28). A mio avviso, questa è la premessa necessaria per esaminare i due

(26) In senso analogo ed in modo compiutamente argomentato si veda soprattutto G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 303, ma spunti analoghi si trovano anche in P. Boria, La formazione giurisprudenziale del principio dell’abuso del diritto, cit., 665; G. Corasaniti, Le garanzie procedimentali in tema di abuso del diritto, cit., 1838; G. Ingrao, L’evoluzione dell’abuso del diritto in materia tributaria, cit., 1463. (27) Infatti, a parere di S. La Rosa, L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali, cit., 508, l’atto sarebbe assistito da quattro elementi di specialità che dovrebbero favorire anche una sua autonoma qualificazione nel sistema dei provvedimenti impositivi. A mio avviso, invece, il principale (ed assorbente) elemento di specialità è riconducibile all’ampiezza ed alla genericità della fattispecie contestabile ed è, dunque, dovuto all’atipicità dei relativi poteri di accertamento che si indirizzano nei confronti di una condotta rispettosa delle regole ordinarie ma oggetto di un possibile giudizio di immeritevolezza intrinsecamente evanescente. (28) Generalmente la dottrina si è espressa con favore sull’impianto del nuovo art. 10-bis. Tra i tanti, cfr. M. Basilavecchia, Profili procedimentali dell’art. 10-bis dello Statuto


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temi che mi sono stati assegnati perché consente principalmente di giustificare la pluralità di deroghe alla disciplina ordinaria (ad esempio, l’assenza di efficacia esecutiva dell’atto fino alla sentenza di primo grado), l’atteggiamento più coraggioso del legislatore delegato rispetto a quello delegante (riguardante sia il contraddittorio, che l’obbligo di motivazione) ed un sistema dei vizi del procedimento particolarmente rigoroso. 4. Gli obblighi procedimentali: considerazioni introduttive. – In merito agli obblighi procedimentali, la struttura concepita per l’abuso del diritto ricalca quella prevista dai commi 4 e 5 dell’art. 37-bis del DPR n. 600 del 1973 ed è dunque fondata sulla richiesta di chiarimenti, sulla possibile risposta del contribuente e sull’eventuale avviso di accertamento che deve essere assistito da una motivazione rinforzata. Non si tratta, quindi, di una disciplina innovativa ma è idonea a soddisfare quanto è stato inopinatamente negato in sede giurisprudenziale nonostante la sentenza della Corte Costituzionale n. 131 del 7 luglio 2015. A questa impostazione il legislatore delegato è pervenuto integrando il principio di delega che si limitava a disporre l’esigenza del contraddittorio senza precisare gli effetti dell’eventuale inosservanza (29). Pertanto, poiché il comma 6 prevede che “l’abuso è accertato con apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti”, può considerarsi risolta la questione dovuta alla violazione del contraddittorio con riferimento all’ipotesi di invalidità o di inesistenza dell’atto oppure di annullabilità ai sensi del comma 2 dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990. L’unico aspetto innovativo è previsto al comma 7, che tende a contemperare l’esigenza del contraddittorio con i termini di decadenza, ma è quello che si

del contribuente, in Corr. Trib., 2016, 3286; G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 300; A. Contrino - A. Marcheselli, Luci e ombre nella struttura dell’abuso fiscale “riformato”, cit., 3792, che ritengono condivisibile la scelta del legislatore delegato di spingersi “ben oltre ogni più ottimistica aspettativa”; G. Corasaniti, Le garanzie procedimentali in tema di abuso del diritto, cit., 1862; G. Ingrao, L’evoluzione dell’abuso del diritto in materia tributaria, cit., 1471. (29) Infatti, la lett. f) dell’art. 5 della legge delega n. 23 del 2014 prevedeva l’obbligo di “specifiche regole procedimentali che garantiscano un efficace contraddittorio con l’amministrazione finanziaria e salvaguardino il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di accertamento tributario” ma non qualificava i relativi vizi come osservato da A. Giovannini, La delega unifica elusione ed abuso del diritto: nozione e conseguenze, in Corr. Trib., 2014, 1827.


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presta alle critiche maggiori a causa di una formulazione legislativa discutibile e di un disegno sistematico non immediatamente percepibile. 4.1. Segue: gli aspetti problematici. – Passando invece ai profili particolari una prima precisazione merita il contenuto della richiesta di chiarimenti. Essa deve indicare “i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto” e, pertanto, non può essere generica o vaga per evitare di incorrere nella nullità dell’atto impositivo oltre che per il rispetto della regola fondante il contraddittorio che impone una contestazione compiuta e definita (30). Infatti, ove il provvedimento successivo sanasse la genericità originaria dovrebbe configurarsi una violazione del principio del contradditorio mentre se fosse confermato il contenuto (vago) dell’atto presupposto sarebbe agevole eccepire la violazione dell’obbligo di motivare l’atto impositivo come meglio vedremo in seguito. D’altro canto, il rapporto tra il contenuto della richiesta di chiarimenti e la motivazione dell’atto impositivo non può che essere stringente nel senso che la prima predetermina gli elementi essenziali della fattispecie mentre il secondo circoscrive la futura materia del contendere ed in questa prospettiva la richiesta di chiarimenti può considerarsi una sorta di motivazione anticipata esclusa la parte riguardante le deduzioni fornite dal contribuente. In merito alla natura della richiesta di chiarimenti è stato sollevato il dubbio se essa sia assimilabile all’invito ex art. 32 del DPR n. 600 del 1973 oppure se costituisca un provvedimento impositivo inquadrabile tra gli atti di accertamento parziale ex art. 41-bis nella nuova formulazione recata dalla legge n. 220 del 2010. In questo senso sembrerebbe deporre la norma in quanto è previsto che “l’abuso del diritto è accertato” (mentre sarebbe stato più corretto richiamare la contestazione) ed è specificato “senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice” (che dovrebbe riguardare l’atto conclusivo di cui al comma 7 e non la richiesta di chiarimenti). In realtà, temo che la richiesta non sia assimilabile né al primo, né al secondo ma costituisca un autonomo atto endoprocedimentale di contestazione

(30) La rilevanza della richiesta di chiarimenti è confermata dalle rigorose modalità di comunicazione previste dalla legge che richiama l’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973. Per tale ragione in dottrina è stato osservato che qualsiasi vizio di notifica può essere assimilato all’inosservanza dell’obbligo a carico dell’Amm. Fin. con la conseguente nullità del provvedimento impositivo successivo (così G. Corasaniti, Le garanzie procedimentali in tema di abuso del diritto, cit., 1838).


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che infatti la legge definisce “apposito”. Essa non può essere assimilata all’invito ex art. 32 del DPR n. 600 del 1973 in quanto quest’ultimo è un atto istruttorio mentre la richiesta di chiarimenti presuppone che l’attività propedeutica alla contestazione sia stata ultimata al fine di precisare “i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto”. Peraltro, nulla vieta che i due atti possano coesistere con l’avvertenza che mentre la richiesta di chiarimenti può essere preceduta da un invito la prima non può essere sostituita dal secondo. Inoltre, mentre la mancata risposta agli inviti determina la preclusione di cui al penultimo comma dell’art. 32 (con l’esimente di cui all’ultimo comma se la mancata risposta è dovuta ad una causa non imputabile al contribuente), la richiesta di chiarimenti sollecita una partecipazione alla quale si è liberi di aderire o meno senza provocare alcuna limitazione per il destinatario (31). Inoltre, essa non può essere nemmeno assimilata ad un atto di accertamento parziale (mentre lo è l’atto impositivo (32)) perché, a tacer d’altro, il comma 7 fissa la distinzione ed il rapporto di consequenzialità tra i due atti ed il comma 8 richiama un unico “atto impositivo” escludendo dunque provvedimenti precedenti. Piuttosto, un effetto concreto di tale distinzione è dovuto alla circostanza che la contestazione in tema di abuso del diritto dovrà essere isolata dalle altre per garantire il rispetto della relativa scansione procedimentale. Tale precisazione mi consente di precisare i rapporti con gli altri procedimenti assistiti dal contraddittorio preventivo ed, in particolare, con quello previsto dal comma 7 dell’art. 12 dello Statuto dei diritti del contribuente. Il problema è da limitare all’ipotesi in cui il processo verbale reca contestazioni diverse (oltre a quella fondata sull’abuso del diritto) rispetto alle quali il destinatario potrebbe aver già prodotto le osservazioni nel termine dei sessanta giorni ed in questo caso non può escludersi una sovrapposizione. Infatti, se l’Amm. Fin. si limitasse ad avviare il contradditorio sulla base delle osservazioni del contribuente si esporrebbe al rischio della nullità perché

(31) Tra i tanti, cfr. M. Basilavecchia, Profili procedimentali dell’art. 10-bis, cit., 3284; G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 313; A. Contrino - A. Marcheselli, L’obbligo di motivazione “rinforzata” e il riassetto degli oneri probatori nel “nuovo” abuso del diritto, cit., 22. (32) In senso conforme si sono espressi G. Corasaniti, Le garanzie procedimentali in tema di abuso del diritto, cit., 1862; G. Ingrao, L’evoluzione dell’abuso del diritto in materia tributaria, cit., 1460. In particolare, sulla natura dell’atto impositivo e sulle questioni collegate si veda P. De Capitani Di Vimercate, Sulla natura dell’avviso di accertamento antielusivo ex art. 10-bis e il suo rapporto con il principio di unitarietà dell’accertamento, in Dir. e Prat. Trib., 2016, I, 1870.


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il contraddittorio deve essere preceduto dalla richiesta di chiarimenti. Pertanto, ove si ritenesse di adottare un procedimento unitario è necessario che il contraddittorio sia preceduto dalla richiesta di chiarimenti e dall’eventuale risposta del contribuente (oppure dal decorso dei sessanta giorni) mentre, in via principio, dovrebbero privilegiarsi due procedimenti distinti: l’uno riguardante le contestazioni diverse dall’abuso a seguito delle osservazione ex art. 12 dello Statuto, l’altro riservato all’abuso fondato sulla richiesta di chiarimenti. Un’altra precisazione merita l’ambito soggettivo della contestazione se comprende più soggetti soprattutto nella prospettiva di valutare il vantaggio fiscale indebito, i “benefici anche non immediati” nonché il risultato complessivamente conseguito (è il caso, ad esempio, del consolidato fiscale secondo le previsioni dell’art. 40-bis del DPR n. 600 del 1973). A tacer d’altro, tale ipotesi è disciplinata dal comma 11 che richiama lo schema del terzo comma dell’art. 37 del DPR n. 600 del 1973 riconoscendo il diritto al rimborso “ai soggetti diversi” che hanno pagato imposte non dovute, in tutto o in parte, a seguito della definitività dell’atto riguardante l’operazione abusiva. Evidentemente la valutazione complessiva delle singole posizioni di vantaggio e di svantaggio dei soggetti coinvolti nell’operazione impone di inviare la richiesta di chiarimenti a tutti i partecipanti all’operazione (con il rischio della proliferazione degli atti impositivi e le questioni in tema di solidarietà (33)) e già solo questa attività potrebbe non essere agevole in quanto impone il coinvolgimento di più Uffici competenti per territorio, per dimensione del contribuente o per tributi. Restano poi da precisare gli effetti se tale esigenza è sacrificata (e si estende al contraddittorio) ed, in proposito, mi pare condivisibile la posizione di chi propende per la nullità dell’atto impositivo anche alla luce di quanto chiarirò sulla motivazione (34) La risposta del contribuente non è soggetta a particolari requisiti di forma o di comunicazione ma sono comunque applicabili i principi generali in tema di legittimazione e di conoscenza dell’atto da parte dell’Ufficio. Tali deduzioni non subiscono nemmeno limitazioni sul piano dei contenuti in quanto non sono vincolate ai “chiarimenti” richiesti ma, anzi, il contribuente deve argomentare e produrre tutto quanto contribuisce a valutare compiutamen-

(33) Per spunti in questa prospettiva si consulti S. La Rosa, L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali, cit., 520. (34) Per conferma si veda G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 311.


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te la fattispecie. In linea di principio, potrebbero distinguersi due ipotesi: la risposta fondata esclusivamente sulla mancanza di uno o più degli elementi essenziali della fattispecie abusiva (ad esempio, l’assenza di risparmio fiscale oppure l’impossibilità di considerarlo indebito) oppure la possibilità di opporre le “valide ragioni extrafiscali” ex comma 3 ma in questo caso occorre che la replica sia assistita da adeguati elementi probatori in quanto tale onere (che, in realtà, il legislatore qualifica “onere di dimostrare”) grava sul contribuente. 4.2. Segue: la novità dovuta all’introduzione di termini di decadenza specifici e l’irrazionalità della soluzione legislativa. – Il comma 7 disciplina il rischio dello spirare dei termini di decadenza dell’azione impositiva ed in proposito è stata introdotta una proroga automatica dei termini ordinari che è l’unica novità sostanziale ma anche l’aspetto più problematico come è stato già evidenziato (35). In via di principio, la finalità può considerarsi anche apprezzabile perché tende a contrastare la prassi di notificare atti anticipati per evitare di incorrere in preclusioni temporali ma, sul piano sistematico, non sono percepibili le ragioni che giustificano regole specifiche per i provvedimenti in tema di abuso in quanto l’esigenza è comune a tutti gli atti che devono essere preceduti dal contraddittorio e, dunque, dovrebbero essere estese ai procedimenti analoghi (36). Per effetto del comma 7 in nessun caso l’Amm. Fin. può emettere l’atto impositivo prima che sia pervenuta la replica del contribuente o che sia trascorso infruttuosamente il termine dei sessanta giorni ed i problemi sono dovuti all’assenza di un termine mobile collegato alla definizione del procedimento che precede l’atto di accertamento (ovvero il dies a quo della proroga), alla durata massima di sessanta giorni della proroga (ancorché variabile) ed

(35) In realtà, sempre sui profili temporali, nel passato era emersa un’altra questione che avrebbe meritato maggiore attenzione da parte del legislatore delegato in merito all’individuazione del dies a quo per computare i termini decadenziali soprattutto in presenza di operazioni complesse, ritenute elusive o abusive, articolate su una pluralità di atti e negozi. Ed al riguardo la dottrina aveva individuato tre possibili soluzioni: la data del primo atto, che è quella più irrazionale; la data dell’ultimo atto che completa l’operazione abusiva; il momento in cui effettivamente matura il vantaggio tributario (per conferma, si veda S. La Rosa, L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali, cit., 516). (36) Conforme S. La Rosa, L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali, cit., 516; invece, M. Basilavecchia, Profili procedimentali dell’art. 10-bis, cit., 3283, considera prioritaria l’esigenza di motivare correttamente sulla base delle deduzioni difensive del contribuente rispetto al vincolo del termine decadenziale.


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alla conseguente valutazione di tutte le possibili fattispecie riscontrabili in concreto. Infatti, la norma disciplina solo l’ipotesi in cui tra la data di ricevimento della richiesta di chiarimenti ed il termine di decadenza decorre un periodo inferiore a sessanta giorni ed al riguardo è previsto che “il termine di decadenza per la notificazione dell’atto impositivo è automaticamente prorogato, in deroga a quello ordinario, fino a concorrenza dei sessanta giorni”. Vale a dire che la proroga è destinata ad operare solo se il termine scade entro il 31 dicembre (ovvero se il periodo compreso prima di tale scadenza è inferiore a sessanta giorni) mentre non è disciplinata l’ipotesi in cui il termine scade successivamente, che peraltro avrebbe richiesto un termine ben superiore ai sessanta giorni (al limite di centoventi). Le lacune e l’eccessiva rigidità della disciplina peraltro favoriscono altre questioni a partire dal fatto che sembra esclusa la possibilità di rinnovare la richiesta di chiarimenti (dopo aver ricevuto le osservazioni del contribuente) in prossimità dello spirare dei termini di decadenza. Infatti, anche nel caso in cui opera la proroga il termine di sessanta giorni può risultare penalizzante per l’Amm. Fin. qualora il contribuente dovesse produrre le osservazioni in prossimità della scadenza perché avrebbe a disposizione pochissimo tempo ai fini di una valutazione compiuta. Di ciò sembra essere consapevole anche l’Amm. Fin. in quanto la Circ. n. 9 del 1 aprile 2016, in tema di interpelli disapplicativi, richiama la proroga automatica dell’abuso ma ipotizza un ulteriore termine di sessanta giorni a disposizione dell’Amm. Fin. che non è previsto in sede legislativa (37). Invece, nel caso in cui il termine venga a scadere dopo il 31 dicembre possono ipotizzarsi due fattispecie: in linea puramente teorica, poiché la norma equipara il termine decorrente dalla ricezione della richiesta di chiarimenti all’inutile decorso dei sessanta giorni, se il contribuente rispondesse con particolare rapidità (entro il 31 dicembre) potrebbero essere comunque integrate le condizioni per la proroga automatica. Viceversa, se il contribuente rispondesse dopo oppure non rispondesse affatto nel termine dei sessanta giorni che scade dopo il 31 dicembre è da escludere la proroga e l’atto sarà inevitabilmente nullo in quanto, come è stato osservato in dottrina (38): a) se fosse emesso prima

(37) Conforme G. Corasaniti, Le garanzie procedimentali in tema di abuso del diritto, cit., 1862. (38) Tra i tanti, si veda anzitutto G. Fransoni – F. Coli, Abuso del diritto e proroga


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del 31 dicembre violerebbe il vincolo dei sessanta giorni riservato al contribuente b) mentre se fosse emesso dopo sarebbe invalido per la violazione dei termini di decadenza e per l’impossibilità di invocare utilmente la proroga. 5. I requisiti essenziali dell’atto: l’obbligo della motivazione rinforzata. – Anche sui requisiti essenziali dell’atto mi atterrò strettamente alle novità di diritto positivo senza cadere nella tentazione di ampliare il discorso. In proposito la norma di riferimento è il comma 8 dell’art. 10-bis che ha precisato il principio di delega di cui alla lett. e) dell’art. 5 della legge n. 23 del 11 marzo 2014 (39) nei seguenti termini: “l’atto impositivo è specificatamente motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente”. Nel solco di valorizzare il contraddittorio è dunque fondamentale la motivazione ed al riguardo già mi sono espresso favorevolmente sugli effetti conseguenti alla violazione di tale obbligo (in termini di nullità dell’atto) (40) e sul rapporto con la richiesta preventiva di chiarimenti. Inoltre, è da accogliere con favore la scelta del legislatore delegato di precisare il principio di delega con quella che viene generalmente definita “motivazione rinforzata” (41) sulla base di un modello che nella prima parte riproduce, anche testualmente, il comma 5 dell’art. 37-bis del DPR n. 600 del 1973 ma che nella seconda parte è più puntuale essendo previsto un contenuto minimo inderogabile e maggiore analiticità in merito a taluni requisiti essenziali della fattispecie abusiva (la condotta, le norme ed i principi, i vantaggi indebiti ed i chiarimenti forniti dal contribuente (42)).

del termine per l’accertamento, in Corr. Trib., 2016, 755, anche perché la conclusione è stata ripetutamente condivisa in seguito. (39) Che prevedeva “una formale e puntuale individuazione della condotta abusiva nella motivazione dell’accertamento fiscale, a pena di nullità dell’accertamento stesso”. (40) Ma, in realtà, è agevole individuare almeno altri due motivi di nullità dell’atto impositivo e, cioè, il mancato invio della richiesta di chiarimenti nonché l’atto emesso in modo difforme alla risposta favorevole all’interpello (secondo la tendenza ormai prevalente). (41) Si veda, ad esempio, M. Basilavecchia, Profili procedimentali dell’art. 10bis, cit., 3283; A. Contrino - A. Marcheselli, L’obbligo di motivazione “rinforzata” e il riassetto degli oneri probatori nel “nuovo” abuso del diritto, in Corr. Trib., 2016, 15; G. Ingrao, L’evoluzione dell’abuso del diritto in materia tributaria, cit., 1463. (42) In merito all’ultimo elemento della motivazione, la norma recepisce un orientamento giurisprudenziale consolidato secondo il quale l’avviso di accertamento è nullo se non illustra le ragioni che renderebbero inaccoglibili le argomentazioni difensive


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Trattandosi di un contenuto minimo previsto in sede legislativa ciascuno di questi elementi (43) dovrà trovare adeguata rispondenza non solo nella motivazione dell’atto impositivo ma, come visto, anche nella richiesta di chiarimenti dal momento che sarebbe improduttivo esperire il contraddittorio se non è assistito da una contestazione delineata almeno nei suoi elementi essenziali. In via di principio, tale rapporto non esclude che possa intervenire una modifica della contestazione a seguito della richiesta di chiarimenti ma se da un rilievo di altra natura l’Amm. Fin. decide di opporre una fattispecie abusiva dovrà rinnovare la richiesta di chiarimenti nel rispetto del procedimento previsto dall’art. 10-bis (44). Ad essi, inoltre, si aggiungono gli altri elementi costitutivi della nozione di abuso (desumibili dai commi 1 e 2) ancorché non espressamente menzionati nel comma 8. Senza scendere nel dettaglio, in linea di principio, l’assenza di sostanza economica (di cui alla lett. a del comma 2) dovrebbe essere inclusa nella descrizione (e nella dimostrazione) della condotta abusiva mentre una particolare considerazione dovrà essere riservata agli “indebiti fiscali vantaggi realizzati” perché presentano le maggiori difficoltà sul piano motivazionale non solo per apprezzare il loro carattere indebito in forza del giudizio di meritevolezza rispetto alle “finalità delle norme fiscali” ed ai “principi dell’ordinamento tributario” ex comma 2 (45). Essi, infatti, presuppongono un accertamento di tipo quantitativo – ovvero la situazione vantaggiosa rispetto ad un’altra fattispecie ritenuta più adeguata – ma anche una delicata valutazione sulla essenzialità degli scopi perseguiti (rispetto all’originaria indicazione della legge delega in termini di “causa prevalente dell’operazione abusiva” (46)) che è, a mio

del contribuente sebbene spesso il principio sia irrazionalmente limitato ai casi in cui il contraddittorio è previsto dalla legge. Sul tema, tra i tanti, cfr. A. Colli Vignarelli, Mancata considerazione delle osservazioni del contribuente e invalidità dell’atto impositivo, in Riv. dir. trib., 2014, I, 677. (43) Con l’eccezione costituita dalla risposta al contribuente essendo, a sua volta, subordinata alla decisione di replicare o meno. (44) Conforme M. Basilavecchia, Profili procedimentali dell’art. 10-bis, cit., 3282. (45) Infatti, come precisato dalla lett. b) del comma 2, il carattere indebito del risparmio fiscale obbliga ad un parametro di valutazione che si fonda principalmente sul rispetto dello spirito delle leggi fiscali. In questa prospettiva si veda principalmente D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco, in Dir. e Prat. Trib., 2015, I, 703, ma in senso critico rispetto a tale impostazione, per tutti, cfr. P. Russo, Profili storici e sistematici in tema di elusione e abuso del diritto, cit., 7. (46) Ai sensi del n. 1 della lett. b) del comma 1 dell’art. 5 della legge n. 23 del 2014. Oltre


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avviso, l’elemento più delicato (47). Infatti, sulla scorta della Raccomandazione Europea n. 2012/772/UE (48) e della giurisprudenza della Corte di Giustizia, la norma interna prevede che, affinché l’operazione possa essere considerata abusiva, non è sufficiente che sia priva di valide ragioni extrafiscali (49) e non è nemmeno sufficiente che da essa derivi un vantaggio fiscale immeritevole (50) ma occorre di più e, cioè, che l’operazione non assistita da sostanza economica sia stata realizzata con il fine “essenziale” di conseguire un beneficio tributario non ammesso dall’ordinamento. Donde la necessità che sia formulato un autonomo giudizio di valore (51), dai contorni incerti, per precisare la relazione tra i due elementi

all’esperienza comunitaria indicata nel testo, sulla scelta del legislatore delegato probabilmente ha influito anche la sentenza della Corte Costituzionale francese n. 685 del 29 dicembre 2013 (commentata da M. Procopio, La poco convincente riforma dell’abuso del diritto ed i dubbi di legittimità costituzionale, in Dir. e Prat. Trib., 2014, 746) che ha dichiarato incostituzionale la modifica legislativa nel punto in cui è stato sostituito il termine “esclusivamente” con “prevalentemente”, come osservato da F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto, cit., 1332, nota 14. (47) Per un’indagine indirizzata sul fine perseguito e sulla discordanza rispetto alle “normali logiche di mercato” si veda M. Miscali, Contributo allo studio dell’abuso del diritto tributario, in Dir. e Prat. Trib., 2017, I, 1385. (48) Al riguardo cfr. G. Zizzo, L’abuso del diritto tra incertezze della delega e raccomandazioni europee, in Corr. Trib., 2014, 2997. (49) In merito a tale requisito, nelle sue diverse formulazioni, cfr. I. Vacca, Abuso del diritto ed elusione fiscale, in Riv. dir. trib., 2008, I, 1079; P. Russo, Profili storici e sistematici in tema di elusione e abuso del diritto, cit., 11; G. Fransoni, Appunti su abuso del diritto e valide ragioni economiche, in Rass. Trib., 2010, I, 1116, ma soprattutto A. Fedele, Assetti negoziali e forme d’impresa tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, in Riv. dir. trib., 2010, I, 1100, ove si legge “la mera carenza di valide ragioni economiche … non è neppure idonea ad invertire l’onere della prova a carico del contribuente (anche perché non è chiaro cosa egli dovrebbe provare), né ad argomentare la natura elusiva o abusiva dell’assetto negoziale, come invece sembra trasparire dalle motivazioni di parte delle sentenze in materia”. (50) È dunque da condividere l’osservazione di A. Contrino - A. Marcheselli, Luci e ombre nella struttura dell’abuso fiscale “riformato”, cit., 3793, che rilevano l’impossibilità di prospettare talune discutibili semplificazioni, talvolta ricorrenti nella prassi e nella giurisprudenza, a partire da quella secondo la quale “è indebito il risparmio non assistito da valide ragioni economiche”. In giurisprudenza, tale schema è stato adottato recentemente da Cass., Ord. n. 9771 del 18 aprile 2017, in Riv. Giur. Trib., 2017, 659, mentre un modello argomentativo più raffinato e conforme all’abuso si trova in Cass., n. 25758 del 10 marzo 2014, in Il Fisco, 2015, 170. (51) L’autonomia di tale valutazione consente di condividere il pensiero di A. Contrino - A. Marcheselli, L’obbligo di motivazione “rinforzata”, cit., 15, che riflettono sul contenuto minimo dell’obbligo di motivazione i tre distinti elementi costitutivi della fattispecie (assenza di sostanza economica, vantaggi fiscali indebiti ed essenzialità dei vantaggi fiscali). In realtà,


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costitutivi (valide ragioni economiche e risparmi fiscali indebiti) secondo il noto rapporto di causa ad effetto allo scopo di considerare integrato il requisito dello scopo o del fine ed al riguardo è condivisibile il pensiero della migliore dottrina che considera il carattere “essenziale qualcosa di più di prevalente, ma sicuramente meno di esclusivo” (52). Né può essere proficua l’esperienza dell’art. 73, comma 5, del TUIR ove l’essenzialità è richiamata per stabilire la natura dell’ente commerciale o meno. In quest’ambito, infatti, l’essenzialità si risolve nella relazione tra attività e scopi ai fini dell’identificazione dell’oggetto principale e riguarda dunque l’effettiva attuazione del programma negoziale desumibile dall’atto costitutivo oppure da altri atti che disciplinano la vita dell’ente (53). Si tratta quindi di un giudizio di natura funzionale, per nulla agevole, relativo all’attività nel suo complesso che è sostanzialmente riferibile ad una pluralità di fonti documentali mentre nel caso dell’abuso l’essenzialità dei vantaggi fiscali indebiti è riferibile alla singola operazione (con una valutazione inevitabilmente meno oggettiva) e non necessariamente è assistita da riferimenti documentali univoci ed esaustivi. La pluralità degli elementi che deve assistere la trama motivazionale ripropone i noti problemi in tema di motivazione incompleta o lacunosa con una precisazione in quanto l’obbligo di esprimersi rispetto ai “chiarimenti forniti nel termine di cui al comma 6” dovrebbe ridimensionare la questione della motivazione “di stile” (ovvero fondata su una generica non condivisione degli argomenti prodotti dal contribuente) oppure il vizio dovuto all’assenza di vaglio critico delle risultanze istruttorie. Pertanto, è ragionevole ritenere che, rispetto all’originaria contestazione formulata con la richiesta di chiarimenti, l’atto impositivo potrà delineare meglio la fattispecie abusiva ma non potrà produrre questioni nuove se non nei limiti di quanto è desumibile dalle osservazioni ricevute dal contribuente. Tra gli elementi essenziali della motivazione disciplinata dal comma 8

alla luce della prospettiva indicata nel testo, è necessario spingersi oltre in quanto essi devono essere indicati già nella richiesta preventiva di chiarimenti per non vanificare la fase del contraddittorio con i relativi effetti (in termini di nullità) sull’atto impositivo. (52) Così F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto, cit., 1331 (53) In proposito si veda principalmente A. Fedele, Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I, 340; L. Castaldi, Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi, Torino, 1999, 227; G. Fransoni, La rilevanza dell’oggetto e degli scopi degli enti diversi dalle società ai fini dell’individuazione del regime fiscale, in Riv. Giur. Trib., 1997, 485.


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non sono richiamati gli elementi di prova della fattispecie abusiva anche perché la norma rinvia a “quanto disposto per i singoli tributi”. Si tratta però di un aspetto marginale in quanto, a tacer d’altro, il comma successivo dispone “L’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva” (54) e posto che su di essa grava comunque l’obbligo di motivare rispetto agli eventuali elementi di prova prodotti dal contribuente. D’altro canto, volendo provare a ripartire soggettivamente gli oneri dimostrativi tra le parti nonostante la difficoltà di recepire integralmente il modello dell’art. 2697 del Cod. Civ. (55), quello riguardante l’esistenza delle “valide ragioni extrafiscali” compete principalmente al contribuente (56) (trattandosi pacificamente di un fatto impeditivo ovvero di un’eccezione ai sensi del comma 3 (57)) mentre l’assenza di “sostanza economica” dell’operazione ed il carattere “essenziale” del risparmio fiscale indebito sono (quantomeno all’origine) obblighi (non meri oneri) a carico dell’Amm. Fin. Al riguardo è stato rilevato che le “valide ragioni extrafiscali” e l’assenza di “sostanza economica” hanno rilevanti margini di sovrapposizione perché appartengono allo stesso ambito concettuale e sarebbero in grado di elidersi reciprocamente con il rischio di un’incertezza sulla ripartizione soggettiva del relativo onere dimostrativo (58). Effettivamente tale rischio è concreto nei casi in cui il contribuente non dia seguito alla richiesta di chiarimenti ma sul punto è condivisibile l’opinione di chi ritiene che detta incertezza comunque non deter-

(54) Il riferimento all’onere di dimostrazione (piuttosto che a quello della prova) è razionalmente giustificabile con il suo oggetto in quanto la qualificazione della condotta abusiva non necessariamente impone di accertare atti e fatti, palesi o occulti, ma si risolve in un giudizio ed in una valutazione dei comportamenti e delle decisioni imprenditoriali assistiti da qualificazioni giuridiche e da comparazioni tra fattispecie ritenute equivalenti ma soggette ad una distinta disciplina fiscale. In concreto, quindi, è condivisibile quanto specificato da un’autorevole dottrina sul fatto che l’onere dimostrativo (ma, in realtà, si tratta di obbligo) si risolve in una adeguatezza argomentativa apprezzabile sotto il profilo della completezza della motivazione (trattasi di F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto, cit., 1336). (55) Sul tema si veda principalmente A. Contrino - A. Marcheselli, L’obbligo di motivazione “rinforzata” e il riassetto degli oneri probatori nel “nuovo” abuso del diritto, cit., 19. (56) In senso analogo cfr. G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 319. (57) Conforme P. Russo, Profili storici e sistematici in tema di elusione e abuso del diritto, cit., 11. (58) In questa prospettiva si veda D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso del diritto nell’ambigua formulazione dell’art. 10-bis della L. 212/2000, in Il nuovo abuso del diritto, a cura di L. Miele, Torino, 2016, 65; Assonime, Circ. n. 21 del 4 agosto 216, 125.


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mina un’inversione soggettiva degli oneri dimostrativi (59) anche perché, in una prospettiva più ampia, le regole sul riparto dell’onere probatorio devono essere declinate nel caso concreto in ragione della natura del fatto da dimostrare (a partire dalla cosiddetta prova negativa) e della posizione delle parti circa l’effettiva possibilità di dimostrare gli elementi richiesti dalla fattispecie legale (60). D’altro canto, anche in questo settore influisce inevitabilmente la più volte rilevata evanescenza della nozione di abuso di modo che se l’onere dimostrativo fosse assolto da entrambe le parti il risultato conclusivo dovrebbe essere apprezzabile perché l’Ufficio (e poi il giudice) potrebbe avere a disposizione tutti gli elementi per valutare compiutamente la fattispecie (61); viceversa, se l’istruttoria si rivelasse lacunosa ed il destinatario della richiesta di chiarimenti non fornisse il proprio contributo sugli elementi di fatto che sono nella sua disponibilità (62) sarebbe eccessivo considerare viziata la motivazione posto che il contribuente potrebbe comunque sottoporre gli stessi fatti alla valutazione del giudice tributario. 6. Conclusioni. – In definitiva, alla luce delle riflessioni precedenti, è possibile avviarsi alla conclusione con poche ed essenziali considerazioni. A questi fini non può non ribadirsi che l’intervento del legislatore è stato invocato da più parti per porre un argine razionale ed equilibrato alla vis espansiva dell’abuso del diritto, all’utilizzo disinvolto dell’istituto da parte dell’Amm. Fin. e ad un orientamento della giurisprudenza di legittimità che in più casi non è parso adeguato all’esperienza comunitaria. Era quindi necessaria una disciplina in chiara e netta discontinuità con il passato e conforme ai principi di libertà dell’iniziativa economica, autonomia contrattuale, correttezza del procedimento tributario e razionalità dell’imposizione. Dal mio punto di vista, l’obiettivo è stato in larga parte centrato in quanto, oltre ad essere stata codificata la distinzione tra abuso e risparmio d’imposta lecito (63), la disciplina procedimentale ed i vincoli a carico dell’Amm.

(59) Tale è la posizione di G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 320. (60) Cfr. M. Basilavecchia, Profili procedimentali dell’art. 10-bis, cit., 3285, che richiama correttamente l’esperienza delle operazioni inesistenti. (61) Conforme S. La Rosa, L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali, cit., 522. (62) Ad esempio, gli aspetti che attengono all’organizzazione ed alla gestione dell’impresa che possono orientare il giudizio in un senso o nell’altro. (63) Pur scontando l’oggettiva difficoltà di delineare l’abuso come ripetutamente evidenziato nel testo. In senso conforme ma con una valutazione critica nei confronti della


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Fin. dovrebbero garantire un’equilibrata posizione delle parti per effetto di un complesso di garanzie e di una scansione procedimentale che deve concludersi con un atto che deve dar conto, sul piano argomentativo e dimostrativo, del rispetto di tutti gli obblighi che devono assistere l’azione amministrativa. In particolare, il nuovo impianto sistematico persegue l’ambizioso (ma condivisibile) obiettivo di imporre provvedimenti impositivi più solidi e non contraddistinti dal rispetto formale delle regole procedimentali, affidati alla completezza dell’istruttoria ed all’analisi argomentativa dell’Ufficio, rispettosi degli elementi in opposizione forniti dal contribuente e non assistiti dagli interventi sostitutivi o officiosi del giudice tributario. Donde la teorica possibilità che dette contestazioni trovino composizione in sede amministrativa e che il ricorso al giudice tributario sia limitato alle fattispecie oggettivamente più controverse sebbene le prime esperienze giurisprudenziali non sembrano corrispondere all’auspicata inversione di tendenza (64). Tuttavia, restano sullo sfondo talune questioni di ordine sistematico alle quali si può riservare solo un cenno conclusivo. In primo luogo coglie nel segno la riflessione di chi auspica che il nuovo assetto procedimentale riservato all’abuso del diritto diventi una regola generale, applicabile indistintamente a tutte le ipotesi di accertamento o, quantomeno, a quelle che presentano caratteristiche analoghe (65). È indubbio, infatti, che se la nuova disciplina è preordinata a garantire il diritto di difesa, per coerenza, è difficile immaginare che tale diritto possa ricevere un grado di tutela diverso in funzione del tipo di contestazione sollevata dall’Amm. Fin. Viceversa, se si condivide l’idea che la nuova disciplina riservata all’abuso del diritto sia espressione di un livello minimo di garanzia inderogabile ed incomprimibile dovrebbe

novella legislativa, si veda P. Russo, Profili storici e sistematici in tema di elusione e abuso del diritto, cit., 9 e 12. (64) Infatti, talune recenti pronunce trascurano completamente la nuova disciplina (si veda Cass., Ord. n. 9610 del 13 aprile 2017, in Il Fisco, 2017, 1896; Cass., Ord. n. 9771 del 18 aprile 2017, in Riv. Giur. Trib., 2017, 659), in altri casi non sono tratte le dovute conseguenze sul possibile “inquadramento legale della pretesa impositiva quale interposizione fittizia o abuso del diritto” nonostante sia stata richiamata la novella (Cass. n. 5155 del 16 marzo 2016 nonché Cass., Sez. III pen., n. 41755 del 5 ottobre 2016, in Dir. e Prat. Trib., 2017, II, 1123, ove l’abuso del diritto è compreso nei confini della simulazione) mentre un segno dell’auspicata inversione di tendenza si coglie in Cass. n. 16675 del 9 agosto 2016, in Il Fisco, 2016, 3197 ed in qualche pronuncia della giurisprudenza penale (ad esempio, si consulti Cass., Sez. III pen., n. 40272 del 7 ottobre 2015, in Boll. Trib., 2016, 152). (65) Ad esempio G. Corasaniti, Le garanzie procedimentali in tema di abuso del diritto, cit., 1862.


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essere agevole concludere che tale modello debba diventare quello tipico per qualsiasi attività di accertamento anche al fine di risolvere definitivamente le note questioni di teoria generale in tema di contraddittorio (66). Tale conclusione si fonda sulla considerazione che l’esercizio dei poteri in materia di abuso del diritto non presenti nulla di diverso e di peculiare rispetto ad una qualsiasi altra attività di accertamento e, pertanto, in una visione sistematica, coerentemente si tende ad affermare che il procedimento impositivo e le garanzie del contribuente debbano essere comuni a tutte le fattispecie. Se però si condivide la premessa che si tratti di un istituto evanescente e di dubbia definizione giuridica e che per tale ragione i relativi poteri degli Uffici inevitabilmente possano assumere un’ampiezza indefinita, a mio avviso, sarebbe preferibile agire a monte per limitare l’abuso a casi marginali piuttosto che introdurre oneri procedimentali e contrappesi di natura argomentativa, in deroga alla disciplina ordinaria, nel solco di una spiccata specialità dell’istituto.

Franco Paparella

(66) Dal momento che anche le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 19667 e 19668 del 2014 nonché n. 24823 del 9 dicembre 2015) ed i successivi interventi della Corte Costituzionale (si vedano, ad esempio, la sentenza n. 132 del 7 luglio 2015 e le ordinanze nn. 187, 188 e 189 del 13 luglio 2017) non hanno prodotto un orientamento uniforme soprattutto per i tributi non armonizzati. Sul tema, si veda altresì A. Giovannini, Il contraddittorio endoprocedimentale, in Rass. Trib., 2017, 13; A. Perrone, Dalla Corte Costituzionale una possibile soluzione alla tormentata questione del contraddittorio endoprocedimentale tributario, in Dir. e Prat. Trib., 2017, I, 921.



In tema di applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, Legge n. 241 del 1990, agli atti impositivi* Sommario: 1. Primi spunti di riflessione sul rapporto tra norma sul depotenziamento dei

vizi formali dell’atto ed attività vincolata oppure discrezionale dell’Autorità amministrativa. – 2. (Segue). Profili comparatistici: l’esperienza nel sistema amministrativo tedesco. – 3. La norma sulla “sanatoria” dei vizi formali e procedimentali dell’atto va inserita nel quadro della c.d. “amministrazione di risultato”. Le ricadute in ambito tributario di questa ricostruzione. – 4. Il difficile, ma necessario discrimine tra atto invalido ed atto irregolare. – 5. Le applicazioni dell’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990, nella giurisprudenza tributaria della Corte di cassazione. Considerazioni critiche. Il lavoro pone al centro dell’attenzione l’applicabilità alla materia tributaria dello speciale regime di sanatoria che la legge n. 241 del 1990, all’art. 21-octies, dopo la novella attuata nel 2005, prevede oggi per l’atto amministrativo in generale. Questa sanatoria riguarda i casi di atto amministrativo adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma, qualora per la natura vincolata del provvedimento, il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, Dopo un’attenta disamina della disciplina, anche in termini comparatistici con ordinamenti stranieri, il lavoro giunge alla conclusione che la disposizione in questione non è applicabile agli atti impositivi di natura tributaria, per la centrale ragione che in questo ambito l’interesse del ricorrente alla invalidazione dell’atto ha natura oppositiva, e non pretensiva. Ne deriva la conclusione che l’utilità dell’invalidazione dell’atto è sempre presente, anche nei casi in cui la sua difformità rispetto al paradigma di legge si riduca a vizi meramente procedimentali o di forma. L’unica possibilità di irrilevanza del vizio di forma in atti tributari è semmai da ravvisare nelle ipotesi, da ritenersi eccezionali, in cui la difformità riguardi elementi accessori dell’atto, che non rivestono carattere essenziale circa il suo scopo primario. The present work focuses on the applicability to tax regulation of the special regime of amnesty that the law n. 241 of 1990, in art. 21-octies, after the novella implemented in 2005, provides today for the administrative act in general. This regularisation concerns

* Questo scritto riproduce la relazione (opportunamente rivista) svolta in occasione del Convegno su “Per un nuovo ordinamento tributario”, tenutosi a Genova il 14-15 ottobre 2016.


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administrative acts adopted in violation of procedural or formal provisions, when due to the constrained nature of the act its content could not have been different from that adopted. After a careful review of the framework, also in comparative terms with foreign legal systems, the work reaches the conclusion that the provision in question is not applicable to tax acts on the ground that in this context the applicant’s interest in the invalidation of the act is founded on an oppositional, and not pretensional, nature. This examination leads to the conlcusion that the usefulness of the invalidity of the act is always present, even in cases where its discrepancy with respect to the legal paradigm is reduced to merely procedural or formal defects. Possibility of irrelevance of the formal defect in tax actsis rather present, exceptionally, only in those cases in which discrepancy concerns incidental elements of the act, which are not essential for its primary purpose.

1. Primi spunti di riflessione sul rapporto tra norma sul depotenziamento dei vizi formali dell’atto ed attività vincolata oppure discrezionale dell’Autorità amministrativa. – Le brevi riflessioni che si esporranno riguardano l’art. 21-octies della Legge n. 241/1990 risultante dalla novella del 2005 (1), e segnatamente il primo periodo del comma 2 della disposizione, secondo il quale “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Il fine è quello di vagliarne la riferibilità anche alle dinamiche di attuazione del prelievo tributario, alla stregua di principio generale di depotenziamento dei vizi meramente formali dell’atto amministrativo. Questa problematica entra nel più ampio quadro della disamina delle ricadute e degli effetti che le norme per così dire di principio contenute nella L. n. 241 del 1990 hanno nella materia tributaria, stante l’assenza, in quest’ultima, di analoghe disposizioni sull’efficacia e l’invalidità degli atti impositivi. Sul piano metodologico e quindi in via preliminare, occorre anzitutto chiedersi se la disposizione in esame – finalizzata evidentemente, seppure in casi da ritenersi eccezionali (2), a rendere ininfluente, ai fini della validità dell’atto e della piena esplicazione dei suoi effetti, la presenza in esso di ele-

(1) Il riferimento è alla legge 11 febbraio 2005, n. 15, che ha integrato la legge 7 agosto 1990 n. 241 sul procedimento amministrativo con l’inserimento del nuovo Capo IV-bis che disciplina l’efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo. (2) Ancorché nella giurisprudenza amministrativa i casi di applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, non sono affatto eccezionali.


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menti di difformità rispetto allo schema legale – sia propriamente predicabile nell’ambito dei provvedimenti amministrativi solamente nei casi in cui l’esercizio della relativa potestà è a carattere vincolato. Ossia, in altri termini, se la funzione discrezionale sia di per sé astrattamente insuscettibile di vedere in alcun modo compresso, in virtù di una disciplina di depotenziamento dei vizi formali e procedimentali, il principio di legalità che sta alla base della modalità di espressione della potestà, e ciò per la ragione che in questo tipo di atti non è altrettanto astrattamente concepibile alcun contenuto normativamente predeterminato del provvedimento; e non è pertanto possibile sottoporre il vizio in questione alla c.d. “prova di resistenza” circa la sua ininfluenza rispetto al contenuto del provvedimento in concreto adottato. Appare infatti evidente che, in caso di risposta affermativa, valendo la norma ad esprimere un principio di carattere propriamente assiologico si predisporrebbe con più facilità ad essere applicata a tutte le attività di carattere vincolato della pubblica amministrazione, e segnatamente alla materia tributaria, quale espressione appunto di principio. Si ritiene che le cose non stiano in questi termini. Alla base della scelta del legislatore di introdurre nelle norme sul procedimento amministrativo la disposizione qui in esame, di depotenziamento dei vizi formali e procedimentali del provvedimento nei casi ivi considerati, non vi è una considerazione di carattere assiologico. Essa è piuttosto il risultato della scelta, per così dire di metodo, e quindi di una scelta pragmatica, del criterio della c.d. “efficienza causale” del vizio sul contenuto dispositivo del provvedimento, criterio che caratterizza ormai da decenni l’attività amministrativa come esercizio di una funzione di risultato (3). Inquadramento per il quale l’attività amministrativa è apprezzata in ragione delle conseguenze pratiche che con i suoi provvedimenti determina nella realtà sociale, piuttosto che sulla base della conformità dei suoi atti a parametri formali. E così, di riflesso, anche nel processo amministrativo questa evoluzione e diversa impostazione

(3) Tra i molti, cfr. L. R. Perfetti (a cura di), Le riforme della l. 7 agosto 1990, n. 241 tra garanzia della legalità ed amministrazione di risultato, Padova, 2008; M. Immordino – A. Police, Principio di legalità e amministrazione di risultati, Torino 2004. Sottolineano come la dequotazione dei vizi formali si ponga in relazione all’idea dell’amministrazione di risultato ma anche come questa tendenza non possa portare a sacrificare il rispetto dei caratteri fondamentali del principio di legalità D. Sorace, Il principio di legalità e i vizi formali dell’atto amministrativo, in Dir. pubbl., 2007, 418- 425; G. Corso, Il principio di legalità, in M. A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2011, 20.


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dell’efficacia e validità dell’atto amministrativo ha fatto registrare una costante tensione a riempire di sostanza la tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’autorità, emancipando il giudice amministrativo dal ruolo meramente cassatorio. È dato noto che il giudizio amministrativo ha assunto sempre più la struttura di un giudizio che non accerta soltanto la conformità dell’atto alla norma, ma provvede soprattutto a verificare la fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente verso l’Amministrazione e la legittimità delle sue aspettative, maturate nel rapporto con l’Amministrazione. Se ne ha conferma, sia indirettamente per comparazione; che direttamente, attraverso l’esegesi dell’art. 21-octies in esame, per quanto subito si dirà. 2. (Segue). Profili comparatistici: l’esperienza nel sistema amministrativo tedesco. – Quanto al profilo di carattere comparatistico, la disposizione sulla dequotazione dei vizi formali, qui in esame, presenta evidenti punti di contatto con norme presenti in altri ordinamenti (4). E, segnatamente, presenta molti punti di contatto con l’art. 46 della legge sul procedimento amministrativo tedesco del 1976. Questa disposizione ha avuto in quell’ordinamento una storia tormentata, a dimostrazione evidente delle forti incertezze che in ogni ordinamento giuridico presentano il trattamento dei vizi di forma e del procedimento nell’azione amministrativa e le cautele che necessariamente s’impongono, onde evitare che il depotenziamento dei vizi formali dell’atto finisca col rappresentare una facile scorciatoia per l’amministrazione nell’emanazione di provvedimenti privi dei requisiti di forma richiesti dalla legge a garanzia del destinatario dell’atto. Ebbene, in quel diverso contesto ordinamentale i primi progetti della legge sul procedimento amministrativo formulavano la disposizione, poi confluita nel richiamato art. 46, in modo tanto ampio da comprendere sia gli atti vincolati che gli atti discrezionali. A fronte dei dubbi sollevati da questo primo impianto, la legge del 1976 formulò la norma in modo più circoscritto, limitandola agli atti vincolati (“quando nessuna altra decisione nel caso concreto avrebbe potuto essere adottata”). Per giungere, infine, all’attuale formulazione della disposizione, secondo cui “non può essere chiesto l’annullamento di un atto amministrativo, se la violazione procedurale non

(4) Per un sintetico richiamo ad essi si rinvia a L. Del Federico, La rilevanza della legge generale sull’azione amministrativa in materia tributaria e l’invalidità degli atti impositivi, in Riv. dir. trib. 2010, I, 751.


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abbia influito in maniera evidente sull’oggetto della decisione” (5). Con un ritorno, come appare evidente, all’estensione dell’ambito di applicabilità della norma sul depotenziamento dei vizi formali anche agli atti a contenuto discrezionale. Una modificazione questa prevalentemente ispirata dall’esigenza (di “risultato” dell’azione amministrativa) di semplificare e rendere più veloci – per quanto è stato osservato dalla dottrina (6) – le autorizzazioni di impianti industriali e la predisposizione di infrastrutture come strade, aeroporti, linee ferroviarie. 3. La norma sulla “sanatoria” dei vizi formali e procedimentali dell’atto va inserita nel quadro della c.d. “amministrazione di risultato”. Le ricadute in ambito tributario di questa ricostruzione. – Ma anche l’esegesi dell’art. 21-octies della L. n. 241 del 1990 conferma la matrice non propriamente assiologica – nel senso sopra indicato – della norma sul depotenziamento dei vizi formali del provvedimento amministrativo, se solo si pongono a confronto i due alinea del comma 2. Se il primo alinea della disposizione è chiaramente riferibile ai soli atti a contenuto vincolato (7), è opinione prevalente che la disposizione del secondo alinea, per cui “Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato”, consentirebbe al contrario di estendere senz’altro il raggio d’azione dell’illegitti-

(5) Per un dettagliato riepilogo delle vicende relative all’art. 46 della Legge tedesca sul procedimento amministrativo cfr. D. U. Galetta (a cura di), La legge tedesca sul procedimento amministrativo, Milano, 2002. Ma si veda anche, su questo profilo di comparazione, D. Sorace, Il principio di legalità, cit., 409. (6) A quanto si legge nello studio di E. Schmidt-Abmann, Illegittimità degli atti amministrativi per vizi di forma del procedimento e la tutela del cittadino, in Dir. Amm. 2011, 477. Ma si veda anche, nella stessa Rivista, A. Buonfino, La disciplina della nullità provvedimentale nel sistema amministrativo tedesco: spunti per un’analisi di diritto comparato, ivi, 2014, 777. (7) Se è vero che, in un primo momento, la giurisprudenza aveva iniziato ad estenderne la portata applicativa anche agli atti discrezionali (TAR Sardegna, Sez. I, 25 maggio 2005 n. 1170), è altrettanto vero che la posizione è rimasta sostanzialmente isolata e superata dalla giurisprudenza successiva, per quanto accorta dottrina non abbia mancato di sottolineare le contraddizioni scaturenti dalle diverse delimitazioni degli ambiti applicativi dei due periodi del comma 2 dell’articolo 21-octies (cfr. L. Ferrara, La partecipazione tra “illegittimità” e “illegalità”. Considerazioni sulla disciplina dell’annullamento non pronunciabile, in Dir. amm. 2008, 103 ss.; Id., L’allegazione dei fatti e la loro prova nella disciplina dell’annullabilità non pronunciabile: problematiche processuali e trasformazioni sostanziali, in Dir. proc. amm., 2010, 229 ss.).


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mità non caducante anche ai provvedimenti a carattere discrezionale (8). Se ne deduce che l’ispirazione di fondo della norma in esame ha le proprie radici nella logica dell’“amministrazione di risultato” di cui appena si diceva, il cui scopo è quello di accentuare la prevalenza della correttezza sostanziale dell’azione amministrativa sulla sua rispondenza allo schema formale di legge. Più precisamente, nel privilegiare il risultato dell’azione amministrativa rispetto alla regolarità formale del comportamento adottato, nel privilegiare la legittimità sostanziale del provvedimento adottato rispetto alla sua conformità allo schema di legge (9), si entra nella prospettiva del tendenziale scadimento delle impugnazioni limitate a censure di carattere formale, nei casi in cui il ricorrente non abbia alcun interesse alla caducazione di un atto che l’Amministrazione dovrebbe puramente e semplicemente reiterare. Ma, a ben vedere, questa situazione di carenza d’interesse si ha nei casi in cui il provvedimento è destinato ad ampliare la sfera giuridica del destinatario; ossia quando l’interessato ha diritto ad ottenere una qualche utilità giuridicamente apprezzabile dall’agire dell’Amministrazione; come accade allorquando egli faccia valere interessi c.d. “pretensivi”, a fronte dei quali, sul piano dell’interesse ad agire, può trovare più facilmente giustificazione il depotenziamento dei vizi formali e procedimentali dell’atto se l’utilità in questione è stata ugualmente raggiunta. Lo strumento tecnico qui considerato non ha, invece, pari giustificazione nei casi in cui l’interessato, attraverso il ricorso, voglia porre nel nulla un provvedimento che limita il suo patrimonio giuridico (azionando, quindi, interessi c.d. “oppositivi”). In questi casi, infatti, come è stato opportunamente osservato proprio in relazione alla problematica in esame, “l’annullamento appare di per sé capace di offrire una concreta utilità al ricorrente, e l’eventualità della successiva reiterazione del provvedimento impugnato, al di là della sua stessa incertezza, non compromette affatto tale immediata attitudine della pronuncia caducatoria” (10).

(8) Cfr. Cons. St., VI, sent. n. 2127/2015; Cons. St., V, sent. n. 1060/2015; Cons. St., III, sent. n. 3586/2014; Cons. St., V, sent. n. 3141/2014; Cons. St., V, sent. n. 2257/2012: Cass., SS.UU., sent. n. 14878/2009. (9) Per riprendere la distinzione tra legalità e legittimità del provvedimento su cui insiste R. Tassone, Contributo sul tema dell’irregolarità degli atti amministrativi, Torino, 1993, 2. (10) Così R. Tassone, Vizi formali e vizi procedurali, in Giustamm. 2016, 5. Osserva, sul punto, D. Sorace, Il principio di legalità, cit., 395, che “per i titolari di interessi oppositivi può essere assai conveniente, non solo in teoria, ottenere l’annullamento di un atto poiché –


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Riprendendo considerazioni già altrove svolte (11), nella materia tributaria per quanto riguarda gli atti dell’Amministrazione che sono esercizio del potere impositivo, per usare la felice espressione del Benvenuti (12), “la lite condotta dentro il processo non ha altra emergenza che non sia quella, appunto, processuale”. Prima del compimento dell’atto, esiste un potere vincolato dell’autorità amministrativa che deve dar vita al provvedimento; la posizione del contribuente si risolve tutta nell’interesse alla rimozione dell’atto, qualora esso non corrisponda, per forma o contenuto, allo schema di legge. Si conclude, pertanto, confortati dalla prevalente dottrina tributaristica (13), con l’escludere l’applicabilità alla materia tributaria della di-

dato che il nuovo atto, almeno secondo il diritto vivente, non può avere efficacia retroattiva – comunque gli effetti indesiderati si verificherebbero più tardi e, addirittura, potrebbero non più verificarsi, dal momento che non si può escludere che l’atto non venga reiterato”; ad esempio, per intervenuta decadenza. Si veda, per il medesimo approdo, L. Del Federico, I rapporti fra lo Statuto e la legge generale sull’azione amministrativa, in Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente, Studi in onore di G. Marongiu, Torino, 2012, 250; e Id., Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea: Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010, 239, per il quale “il passaggio dell’amministrazione come mera esecuzione della legge, all’amministrazione di risultato, convince laddove l’amministrato esprime un interesse pretensivo, allarma laddove l’amministrato esprime un interesse oppositivo”. Va dato conto, tuttavia, che la giurisprudenza amministrativa, facendo leva sull’assenza nel testo della norma di distinzioni tra situazioni oppositive e situazioni pretensive, non ha accolto la distinzione indicata nel testo e condivisa dalla parte largamente preponderante della dottrina (contra tuttavia V. Cerulli Irelli, Note critiche in materia di vizi formali degli atti amministrativi, in Dir. pubbl., 2004, 216), e applica abitualmente l’art. 21-octies, comma 2, anche agli atti fronteggiati da situazioni chiaramente oppositive (fra le molte, Cass., SS.UU., sent. 25.6.2009, n. 14878; Cons. St., III, sent. n. 3791/2015; Cons. St., IV, sent. n. 3414/2014). (11) Cfr. F. Randazzo, L’esecuzione delle sentenze tributarie, Milano 2003, 103. (12) F. Benvenuti, Giudicato (diritto amministrativo), in Enc. Dir., Milano, 1969, vol. XVIII, 897, nota 14. (13) Si vedano: A. Fantozzi, Violazioni del contraddittorio e invalidità degli atti tributari, in Riv. dir. trib. 2011, I, 150 ss, ove l’applicabilità della disposizione in esame è stata esclusa per i casi di violazione delle norme sul contraddittorio procedimentale in campo tributario, con particolare riguardo al contraddittorio previsto dall’art. 6, comma 5, dello Statuto dei diritti del contribuente; M. Basilavecchia, La nullità degli atti impositivi: considerazioni su principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. dir. fin. sc. fin. 2006, 358, ove l’A. partendo dal presupposto che il rapporto tra le due normative di principio (quella generale del procedimento amministrativo, di cui alla L. n. 241 del 1990, e quella di settore, contenuta nello Statuto dei diritti del contribuente, L. n. 212 del 2000) va risolto caso per caso, osserva che è tendenzialmente da escludere l’applicabilità alla materia tributaria dell’art. 21-octies, comma 2, in tutti i casi in cui “dovesse vanificare alcuna delle garanzie dotate di “copertura” statutaria (esempio inevitabile: la rilevanza del difetto di motivazione dell’atto impositivo, art. 7 dello Statuto)”. Rileva anche per l’A. (364) la circostanza che la sanzione di nullità è prevista dalle norme tributarie in alcuni casi (es.: art.


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sposizione di cui al comma 2, primo periodo dell’art. 21-octies L. n. 241 del 1990.

42 del dpr. n. 600 del 1973) proprio per le tipologie di vizi che l’art. 21-octies tende a collocare all’estremo opposto, cioè tra le imperfezioni dell’atto per le quali è esclusa l’annullabilità, il che chiaramente fa propendere per l’inapplicabilità della norma in questione alla materia tributaria; per S. Buttus, Implicazioni tributarie del nuovo regime dei vizi del provvedimento amministrativo, in Dir. prat. trib. 2007,495, l’applicabilità della norma alla materia tributaria sarebbe esclusa dalla sua natura processuale, regolatrice dei poteri del giudice amministrativo, e come tale non adattabile al processo tributario, stante la norma (art. 1, comma 2, del d. lgs. n. 546 del 1992) di rinvio al processo civile per le eventuali eterointegrazioni. Proprio quest’ultimo profilo, della natura processuale della norma in esame, è contrastato dall’opinione di MARELLO, I fondamenti sistematici del sistema duale nullità-annullabilità, in Riv. dir. fin. sc. fin. 2014, 342, il quale invece ritiene si tratti non di una regola processuale, ma piuttosto di una norma che incide sul perfezionamento dell’atto in relazione al procedimento. Ad avviso di questo A. (p. 367) l’art. 21-octies comma 2, non crea una nuova tipologia d’invalidità, ma attua una ponderazione della rilevanza del vizio rispetto alle funzioni dell’atto, spingendo così l’interprete a quella che viene chiamata l’analisi funzionale della difformità dell’atto rispetto al suo modello. Si tratta dunque di una posizione che non escluderebbe, in via di principio, l’applicabilità di questa disposizione alla materia tributaria. Guardando alle recenti monografie sull’invalidità degli atti impositivi, S. Zagà, Le invalidità degli atti impositivi, Padova, 2012, 153 se pure è dell’avviso che la regola del non annullamento dell’atto, ex art. 21-octies, comma 2, primo periodo, si inserisce nella logica dell’”amministrazione di risultato”, ritiene, non condivisibilmente per quanto si è detto nel testo, che questo può verificarsi soltanto nei casi di provvedimenti amministrativi a carattere vincolato. È tuttavia del parere l’A. (p. 156) che la disposizione in esame debba ritenersi inapplicabile in ambito tributario per le garanzie apprestate dallo Statuto dei diritti del contribuente, che costituiscono norma speciale rispetto alla disposizione in esame (per quanto essa sia disposizione successiva alla L. n. 212 del 2000). Ed in questo senso viene ripresa la posizione espressa da A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 355. Di S. Zagà si veda anche Le regola del depotenziamento dei vizi formali e procedimentali degli atti amministrativi vincolati ed il vizio di motivazione della cartella di pagamento, in Dir. prat. trib. 2013, 463. Nella monografia sull’argomento, F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2015, 880, esprime la propria propensione a ritenere non applicabile alla materia tributaria l’art. 21-octies qui in esame. Ciò per la considerazione che la regolamentazione positiva dell’invalidità in materia tributaria è indipendente da quella che interessa il diritto amministrativo generale. Pertanto, non sarebbe per l’A. necessario né ragionevole isolare un frammento di tale regolamentazione (anzi, più precisamente il periodo d’un comma di tale articolo, il primo periodo del comma 2 dell’art. 21-octies) per ritenerlo applicabile in un settore che per il resto è caratterizzato da una completa specialità. Osserva L. Perrone, La disciplina del procedimento tributario nello Statuto, , in Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente, Studi in onore di G. Marongiu, Torino, 2012, 226, che l’applicazione alla materia tributaria della norma sul depotenziamento delle irregolarità formali dell’atto di cui all’art. 21-octies in esame, “sarebbe estremamente dirompente in quanto condurrebbe ad un mancato annullamento di ogni atto irrituale, formalmente invalido o caratterizzato da illegittimità istruttorie, ma che presenti una corretta ricostruzione dell’imponibile o dell’imposta”.


Dottrina

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4. Il difficile, ma necessario discrimine tra atto invalido ed atto irregolare. – Le conclusioni cui si è appena giunti, circa l’inapplicabilità alla materia tributaria della norma sul depotenziamento dei vizi formali dell’atto, non devono tuttavia riflettersi nella considerazione che qualunque difformità del provvedimento rispetto al suo schema legale ne determini inevitabilmente l’annullabilità. Per le osservazioni che seguono può essere opportuno muovere dalla considerazione (14) che la mancanza di specifica sanzione legislativa del comportamento difforme dalla norma non ne esclude affatto l’invalidità, giacché il fine delle leggi amministrative è sempre quello di assicurare il normale esercizio delle pubbliche funzioni e la regolarità degli atti che ne sono espressione. E tuttavia, deve anche osservarsi a bilanciamento di questo principio, che “l’invalidità costituisce un costo per l’ordinamento: un costo per la riduzione di certezza, per l’infrazione del bene di stabilità dei rapporti. Tale costo può (deve) essere sopportato ove il vizio abbia una consistenza tale da potere incidere sul rapporto e sulla corretta genesi dell’effetto tipico; ove invece la difformità non abbia ricadute funzionali, appare eccessivo richiedere la caducazione dell’atto. Anche in materia tributaria esiste una propensione ordinamentale alla conservazione degli effetti dell’atto, come espressione del principio di certezza” (15). Questa necessità di bilanciamento tra i due opposti e confliggenti interessi, di certezza e stabilità del rapporto e rispondenza dell’atto al modello di legge, è alla base dell’individuazione di situazioni di comportamento difforme dallo schema legale e tuttavia tali che l’atto non ne risulti invalidato. In una parola, delle irregolarità formali che, non dando luogo ad annullabilità, non determinano alcuna reazione dell’ordinamento riguardo agli effetti del provvedimento adottato (16).

(14) Formulata da E. Marello, I fondamenti sistematici, cit., 328 ss.; Id., Per una teoria unitaria dell’invalidità nel diritto tributario, in Riv. dir. trib. 2001, I, 379 ss. (15) Così E. Marello, I fondamenti sistematici, cit., 365. (16) Si veda F. Tesauro, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. Trib. 2005, 1448, che sottolinea che la figura della (mera) irregolarità è ben nota alla dottrina e alla giurisprudenza, “basti citare…la mancanza di indicazioni circa l’impugnazione del provvedimento. È insomma rimesso alla discrezione dell’interprete il giudizio sulla gravità del vizio e sul suo valore invalidante. Un criterio-guida sta nel ritenere invalidante la violazione di norme procedimentali dettate a garanzia del “contribuente”; e non invalidante la violazione di norme rispetto alla cui osservanza non sia configurabile alcun interesse del ricorrente”. Per questo Autore, è sempre invalidante negli atti tributari il difetto di motivazione del provvedimento, “perché la motivazione non attiene alla forma, ma al contenuto dell’atto”.


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La differenziazione tra le due ipotesi di vizio dell’atto qui in esame è ben presente nella giurisprudenza del Consiglio di Stato. Si legge in una delle numerose sentenze intervenute a questo riguardo (17) che nel caso dell’art. 21-octies, comma 2, la violazione continua ad integrare un vizio di legittimità, che non comporta tuttavia l’annullabilità dell’atto a causa di valutazioni, attinenti al contenuto del provvedimento, effettuate ex post dal giudice, il quale accerta che il provvedimento non poteva essere diverso. Ed invece il vizio consistente nella irregolarità c.d. “mera” opera ex ante, ed è degradato a vizio non invalidante già sul piano sostanziale. In altri termini, in questi casi l’incapacità del vizio di incidere sul contenuto dell’atto si coglie già in astratto attraverso un’attività di interpretazione e di ricostruzione della ratio della disposizione che prescrive la formalità, senza necessità di verificare in concreto le conseguenze della sua inosservanza (18). Questa ibrida e nient’affatto facilmente perimetrabile categoria della mera irregolarità formale dell’atto ha il suo fondamento normativo nella regola del raggiungimento dello scopo, che nel processo civile trova espressione nel comma 3 dell’art. 156 del c.p.c. (19) Potrà sembrare un fuor luogo il richiamo ad una norma che disciplina gli effetti degli atti processuali per individuare il fondamento della medesima regola riguardo ad atti procedimentali, ma è l’esame della giurisprudenza amministrativa a suggerire questo accostamento tra le difformità non invalidanti l’atto amministrativo ed il principio generale desumibile dall’art. 156, comma 3, di cui s’è detto. (20)

(17) Cfr. Cons. St., VI, 17.10.2006, n. 6194, che può leggersi in Urban. e app. 2007, 58, con la nota di R. Gisondi, L’art. 21-octies della legge 241/1990 fra atto e processo amministrativo. (18) Che l’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, sia estraneo rispetto al problema della “irregolarità” è stato fin dall’inizio chiarito anche dalla parte prevalente della dottrina (G. Bergonzini, Art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 e annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi, in Dir. amm., 2007, 231 ss.; F. Fracchia - M. Occhiena, Teoria dell’invalidità dell’atto amministrativo e art. 21octies, legge n. 241 del 1990: quando il legislatore non può e non deve, in Giust. amm, 2005; contra F. Luciani, voce Irregolarità del provvedimento amministrativo, in S. Cassese, Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 3283; Id., L’invalidità e le altre anomalie dell’atto amministrativo: inquadramento teorico, in V. Cerulli Irelli - L. De Lucia (a cura di), L’invalidità amministrativa, Torino, 2009, 4 ss.). (19) Soluzione non predicabile, invece, per i vizi di legittimità di cui all’art. 21-octies, comma 2. Il che sottolinea la marcata differenza tra le due situazioni (cfr. Cons. St., VI, n. 6194/2006, cit.). (20) Si leggano le perplessità, in ordine al rapporto instaurato tra le due figure, di R. Tassone, Contributo sul tema dell’irregolarità, cit. 64, per cui l’atto “irregolare” (al pari di quello valido) è geneticamente “idoneo allo scopo”; mentre la regola di cui all’art. 156,


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Questa giurisprudenza (21) esprime un fondamentale empirismo applicativo del criterio del raggiungimento dello scopo, proprio al fine di preservare quell’interesse alla stabilità del rapporto, conseguente all’emanazione dell’atto, il cui sacrificio non apparirebbe ragionevole a fronte della lieve difformità dell’atto rispetto al modello legale (22).

comma 3, c.p.c è destinata ad operare ex post all’esito dell’indagine sul concreto verificarsi del “raggiungimento dello scopo”. Perplessità che, tuttavia, l’A. supera ritenendo che in fondo si tratta del medesimo fenomeno che “manifestandosi in tempi –e perciò con meccanismi- diversi, dà vita all’una e all’altra figura”. (21) Si vedano, a titolo esemplificativo, Cons. St., VI, 28.01.2016, n. 283 (nella cui motivazione si legge: “La sanatoria per il raggiungimento dello scopo di atti invalidi è infatti principio generale che, enunciato espressamente per gli atti processuali dall’art. 156, comma 3, c.p.c., è applicabile per analogia a tutti gli atti amministrativi”); e Cons. St., VI, n. 6194/2006, cit. (22) Ad avviso di F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti, cit., 705-707 ss., il cosiddetto principio di “conservazione degli atti” potrebbe trovare uno spazio applicativo unicamente “di fronte a un procedimento per il quale è strutturalmente prevista una certa tipologia di conclusione tale per cui ai singoli atti della sequenza possa essere attribuito anche uno scopo ultimo, in quanto inseriti in una sequenza procedimentale strutturalmente preordinata a concludersi con una decisione di un certo tipo”. In altri termini, così come nel processo ogni singolo atto processuale, oltre al proprio scopo (scopo “primo”) ha anche lo “scopo ultimo” di far giungere il processo alla sua meta conclusiva (che è la sentenza), anche nel procedimento amministrativo “è strutturalmente prevista una certa tipologia di conclusione tale per cui ai singoli atti della sequenza possa essere attribuito anche uno scopo ultimo nel senso anzidetto”. Ed invece, per l’A., nel diritto tributario (708-717) la parte maggiormente significativa dell’azione dell’amministrazione finanziaria è articolata non già sulla base di un procedimento unitariamente considerato e finalizzato all’emanazione di un atto di una ben determinata tipologia, come può essere quello processuale finalizzato all’emanazione di una sentenza di merito, ma al più sulla base di collegamenti di segmenti procedimentali distinti, concettualmente autonomi e solo eventualmente dipendenti tra di loro (715), nessuno dei quali “è chiamato a concludersi con atti necessari come può essere la sentenza di merito (o comunque la pronuncia del giudice) nel processo” (715). Una tesi, questa, alla quale non si ritiene di aderire in quanto è proprio l’affermazione dell’autonomia e indipendenza dei singoli moduli procedimentali che realizzano la funzione del prelievo a far ritenere applicabile il criterio del “raggiungimento dello scopo”, che è lo scopo del singolo provvedimento, scopo primo ed anche ultimo di quel segmento di attività autoritativa. Anche le obiezioni mosse dall’A. (cfr. p. 730), sono facilmente superabili. Infatti, queste obiezioni muovono dall’assunto che l’atto “irregolare” appartenga al genus dell’atto “invalido”, a fronte del quale è pertanto ponderata l’applicabilità di una “sanatoria”. Nella ricostruzione svolta nel testo la “irregolarità” di cui si discute è difformità dal modello legale “non invalidante”, che pertanto non necessita di sanatoria. E si rinvia alle pagine di R. Tassone, Contributo sul tema dell’irregolarità, cit. 65, per inferirne che tra la regola del raggiungimento dello scopo (che opera ex post) e la valutazione della irregolarità non invalidante (predicabile ex ante e in astratto) come caratteristica genetica del provvedimento, “la differenza tra le due figure finisce col ridursi ad una diversità di tempi e tecniche di valutazione giuridica, nell’ambito però di un quadro di valori ordinamentali unitario e coerente”.


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Parte prima

Se sul piano astratto l’enunciazione del principio in esame non incontra serie difficoltà, è invece sull’individuazione delle singole fattispecie che ne giustificano l’applicazione, che il cammino appare impervio. Addirittura, v’è da chiedersi se si tragga vantaggio dall’eventuale definizione in via normativa delle singole ipotesi di irregolarità, poiché in tal modo si rischia di rendere meno duttile il congegno astrattamente concepito, ostacolandone l’applicazione. Restando pertanto a livello definitorio, può dirsi che l’irregolarità-non invalidante, può essere tradotta nella tradizionale formula carneluttiana (e quindi di marcata elaborazione processualistica) che la riconduce alla distinzione tra elementi necessari dell’atto, ed elementi semplicemente utili (23). Elaborazione che riecheggia nella formulazione di recente dottrina tributaristica (24), che distingue tra: a) elementi attinenti al “contenuto dispositivo” dell’atto, che compongono i requisiti della fattispecie costitutiva dell’effetto in quanto idonei a incidere (direttamente o indirettamente) su aspetti del contenuto dell’effetto stesso; e b) elementi “secondari” o “meramente rappresentativi”, che si collegano ad effetti diversi (nella maggior parte, meramente informativi) da quello proprio del “contenuto dispositivo” dell’atto e che pure entrano anch’essi per volontà dell’ordinamento nel contesto fenomenologico (in specie, l’emissione dell’atto-documento) in cui viene manifestato il primo. In quanto tali, essi non sono neppure astrattamente idonei ad interferire sulla dimensione degli altri effetti c.d. costitutivi del dispositivo. Se ne può tentare una esemplificazione, citando un caso di scuola, nell’assenza nel provvedimento delle indicazioni prescritte dal comma 2 dell’art. 7 della legge n, 212 del 2000 (come la mancata indicazione dell’Ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni o dell’organo presso cui è possibile ottenere il riesame del provvedimento), la cui irregolarità non impedirà all’atto di esplicare i propri effetti costitutivi. 5. Le applicazioni dell’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990, nella giurisprudenza tributaria della Corte di cassazione. Considerazioni critiche. – Non sono state infrequenti le occasioni in cui la giurisprudenza tributaria della

(23) Oppure può farsi ricorso alla distinzione, presente in E. Allorio, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 511, tra forma intrinseca dell’atto e forma estrinseca dell’atto, volta a differenziare gli elementi che compongono l’atto tra il “cosa deve essere” ed il “come deve essere fatto”. (24) Cfr. F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti, cit., 886 ss.


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Corte di cassazione ha fatto applicazione dell’art. 21-octies, comma 2. Queste sentenze si prestano a considerazioni critiche. La prima pronuncia oggetto d’esame (25) ha riguardato il caso di una cartella esattoriale emessa a fronte di un avviso di accertamento per il quale pendeva giudizio. Nell’impugnarla il contribuente aveva lamentato il vizio di errata motivazione. Per quanto, infatti, fosse corretto l’importo iscritto a ruolo, la cartella lo qualificava “definitivo” nonostante fosse pacifico che in quel caso si trattava di riscossione a titolo “provvisorio”. Annullata nei due gradi di merito la cartella, la Cassazione accoglieva il ricorso per cassazione dell’Ufficio facendo applicazione dell’art. 21-octies in esame. L’indirizzo al quale anche con questa sentenza la Cassazione ha dato continuità è che nessuna carenza di motivazione può essere ravvisata allorché l’atto sia stato impugnato dal contribuente il quale abbia dimostrato, in tal modo, di avere piena conoscenza dei presupposti dell’imposizione, per averli puntualmente contestati; così, nel caso al suo esame: “l’indicazione, erronea, dell’iscrizione a titolo definitivo in luogo di provvisorio, essendo appunto pendente giudizio di cassazione, non era idonea a comportare una effettiva limitazione del diritto di difesa del contribuente”. Per giungere, tuttavia, a questa conclusione (che appare condivisibile), non era affatto necessario il richiamo in sentenza alla norma sulla sanatoria dei vizi formali del provvedimento di cui all’art. 21-octies della L. n. 241 del 1990. Analoghe considerazioni possono formularsi riguardo ad un’altra pronuncia della Corte di cassazione (26), concernente il caso di imposta di condono la cui ultima rata era stata pagata dal contribuente in ritardo, per il che l’Ufficio aveva emesso un atto di diniego dell’agevolazione, con la motivazione tuttavia che le somme versate erano inferiori al dovuto. La Corte ha accolto il motivo di ricorso con il quale l’Ufficio aveva invocato l’applicazione dell’art. 21-octies della L.n. 241 del 1990, ma in realtà anche in questo caso il richiamo a questa disposizione appare inopportuno in quanto la motivazione dell’ordinanza fa leva sull’assenza, nel caso al suo esame, di margini di incertezza sulla conoscibilità della reale motivazione dell’atto da parte del contribuente, trattandosi di errore materiale palese e riconoscibile.

(25) Il riferimento è a Cass. 31 gennaio 2013, n. 2373, che può leggersi in Dir. prat. trib. 2013, 461, con la nota di S. Zagà, La regola del depotenziamento dei vizi formali, cit. (26) Il riferimento è all’ ordinanza Cass. 17 ottobre 2011, n. 21446, che si può leggere in Riv. dir. trib. 2012, II, 88, con la nota di F. Farri, Sull’applicabilità dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990 agli atti tributari.


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Parte prima

La confusione, invece, di cui s’è detto nel paragrafo precedente, tra irregolarità formali-non invalidanti e vizio formale dell’atto per il quale l’art. 21-octies dispone la sanatoria, è nota distintiva del filone di sentenze della Corte di cassazione, con cui si chiude questa breve indagine. Esse riguardano l’omissione nella cartella di pagamento dell’indicazione del responsabile del procedimento, con riferimento a ruoli consegnati all’agente della riscossione in data anteriore al 1° giugno 2008 (posto che, a decorrere da questa data, l’omissione in oggetto è espressamente qualificata dalla legge come ipotesi di nullità ai sensi dell’art. 7, comma 2, lett. a) della L. n. 212 del 2000) (27). In queste pronunce il richiamo al comma 2 dell’art. 21-octies della L. n. 241 del 1990 ha in realtà una valenza molto sfumata, in quanto la ragione di fondo per la quale la Corte di cassazione ha ritenuto l’atto in questione non annullabile è ben espressa da Cass. 12 settembre 2012, n. 15221, che ne ha inaugurato il filone (28). Movendo dal carattere innovativo della previsione sanzionatoria introdotta a decorrere dal 1° giugno 2008 dal d.l. n. 248 del 2007, la Corte ha espresso il parere che, prima dell’introduzione di tale disposizione, l’inosservanza della norma dello Statuto dei diritti del contribuente (che prevede l’indicazione nell’atto del responsabile del procedimento) “determinava una mera irregolarità e non anche la invalidità dell’atto tributario”. Ma a questo punto appare ultronea la successiva considerazione (che si legge ad esempio in Cass. n. 6395/2014, che segue il medesimo indirizzo), che “potrebbe anche trovare applicazione l’art. 21-octies della L. n. 241 del 1990”, in quanto questa conclusione dà prova dell’errata commistione tra piani affatto differenti della qualificazione di difformità dell’atto amministrativo rispetto al modello di legge, sul quale si è fin qui indagato con il presente lavoro.

Franco Randazzo

(27) Si vedano: Cass. 24 giugno 2015, n. 13024; Id. 19 marzo 2014, n. 6395; Id., ord. 3 dicembre 2013, n. 27098. (28) Questa sentenza può leggersi in Riv. dir. trib. 2013, II, 313, con la nota di F. Farri, Senso e portata delle previsioni espresse di nullità nelle leggi tributarie.


L’impresa agricola e la ristrutturazione dei debiti tributari* Sommario: 1. Introduzione: le basi di partenza e le problematiche. – 2. La

nozione di imprenditore fallibile ex art. 1, l.f. e quella di imprenditore agricolo.– 3. I requisiti soggettivi nella transazione fiscale e negli accordi di ristrutturazione della crisi da sovraindebitamento. – 4. (Segue) L’ammissibilità del socio di società di persone alle soluzioni per il sovraindebitamento. – 5. La peculiarità dello status soggettivo di imprenditore agricolo: una deroga alla fallibilità? – 6. Le caratteristiche dell’indebitamento tributario di una impresa agricola e di una società agricola. – 7. La situazione patrimoniale e la contabilità nell’impresa agricola e nella società agricola: le particolarità rispetto alle esigenze dell’asseverazione. – 8. L’asseverazione e le specificità nella ristrutturazione dei debiti tributari dell’impresa agricola e della società agricola. – 9. Conclusioni. Le modifiche apportate dal legislatore all’art. 182 ter della legge fallimentare sono state l’occasione per valutare come l’imprenditore e le società agricole possano risolvere il proprio indebitamento tributario e previdenziale. In particolare, se da un lato la transazione fiscale ammette ora anche la falcidia dell’IVA e delle ritenute, dall’altro le soluzioni per la ristrutturazione del debito tributario e previdenziale percorribili dall’imprenditore «non commerciale» conservano delle incoerenze quali l’ammissibilità alla ristrutturazione ex art. 182 bis e ter della l.f. pur in assenza del requisito soggettivo della fallibilità e il mancato adeguamento normativo della disciplina della crisi da sovraindebitamento per recepire i più ampi margini di riduzione del debito. The new Art. 182 ter L.F. represents an opportunity to assess how the entrepreneur and the agricultural companies can settle their tax and social security debt. In particular, now the tax transaction also allows for the reduction of VAT and deduction, but solutions for the agricultural entrepreneur do not always appear coherent with access to solutions conceived for the fallible subject or in the absence of updating of the over-indebtedness crisis.

* I paragrafi n. 1 e n. 9 sono stati scritti da V. Ficari (Ordinario di Diritto tributario, Università di Roma Tor Vergata); i paragrafi dal n. 2 al n. 8 da P. Barabino (Assegnista di Diritto tributario, Università di Sassari, PhD).


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1. Introduzione: le basi di partenza e le problematiche. – La possibilità di ridurre in termini pattizi il livello di indebitamento tributario (ma anche previdenziale) di contribuenti (sia imprenditori fallibili che imprenditori non fallibili che, invece, persone fisiche non imprenditori) ha, ormai, acquisito un certo fondamento sia ricostruttivo che pratico: da un lato, infatti, l’art. 182 ter della legge fallimentare, come modificato dalla novella legislativa di cui all’art. 1, comma 81, della l. 11 dicembre 2016, n. 232 in vigore dal 1° gennaio 2017, ora offre un più agevole strumento; dall’altro, grazie all’esperienza della giurisprudenza nazionale e comunitaria, sono stati risolti alcuni (anche se non tutti gli) aspetti assai problematici dell’istituto. Senza poter ripercorrere nel dettaglio le alterne e successive vicende del dibattito (1) è sufficiente ricordare come la giurisprudenza di legittimità (2) si è resa consapevole che il principio della disponibilità del credito tributario era ostacolato, nella specie, dalla lettera normativa del previgente testo dell’art. 182 ter il quale prevedeva la non falcidiabilità dell’IVA e delle ritenute fiscali a seguito dell’emotiva convinzione di un generale divieto comunitario alla «rinuncia generale, indiscriminata e preventiva al diritto di procedere ad accertamento e verifica» in materia di IVA. A fronte di ciò la Suprema Corte ha fatto breccia in tale muro, distinguendo, in continuità con la maggioranza della giurisprudenza di merito (3), due diverse procedure (il concordato preventivo con e il concordato preventivo senza transazione fiscale) e, quindi, ammettendo la riduzione dell’IVA e delle ritenute quale conseguenza dell’assoggettamento del creditore tributario alle regole della maggioranza e, quindi, ad una piena parità all’interno del

(1) Si rinvia per approfondimenti e indicazioni, se si vuole, a V. Ficari, La nuova disciplina del pagamento parziale dei redditi tributari di cui all’art. 182 ter della legge fallimentare, in corso di pubblicazione, in Riv. trim. dir. trib., 2017, 3. (2) Ex multis, sentenza Cass., SS.UU., 27 dicembre 2016, n. 26988; sentenza Cass., SS.UU., 13 gennaio 2017, n. 760. Vedasi anche la sentenza della Corte Cost. 15 luglio 2014 n. 225 su cui, tra gli altri, L. Rocco, La natura inscindibile della transazione fiscale. Profili applicativi, in Dir. prat. trib., 2015, I, 81 ss.; M. Versiglioni, Transazione fiscale e principio generale di “indisponibilità rovesciata”, in Dir. e proc. trib., 2015, 100 ss.; A. Carinci, La variabile fiscale nelle soluzioni alla crisi di impresa, in A. Carinci, R. Aquilanti, Dir. e proc. trib., 2015, 20 ss. (3) In relazione alle disposizione dell’art. 182 ter ante modifiche del 2016 con riferimento alla infalcidiabilità dell’Iva, con conseguente elaborazione della teoria del c.d. doppio binario tra concordato preventivo, con o senza transazione fiscale, vedasi Trib. Milano, sez. II, decreto del 29 dicembre 2016; Corte d’appello de L’Aquila, sentenza del 30 settembre 2016; Trib. Rovigo, decreto del 26 maggio 2015.


Dottrina

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ceto creditorio secondo la disciplina del consenso ex art. 177 della l.f. (4). L’onore di aver aperto il cammino alla completa rivisitazione della disciplina, già auspicata nelle conclusioni dell’avvocato generale Sharpston è, però, da riconoscersi alla sentenza Corte di giustizia UE 7 aprile 2016, in causa C-546/14 (5), caso Degano Trasporti la quale ha acceso una nuova luce sul rapporto tra il principio di buon andamento dell’attività amministrativa ex art. 97 Cost. – nelle sue declinazioni di economicità ed efficienza – e la funzione della riscossione, ora da leggersi in termini di effettività del gettito e di presenza di oggettive garanzie di una misura del pagamento certa anche se diversa da quella accertata. I punti fondamentali della modifica di cui al novellato art. 182 ter della legge fallimentare possono essere schematicamente richiamati nei seguenti. 1.1. – La modifica apportata al titoletto della disposizione normativa in esame, intestata non più «Transazione fiscale» ma ora «Trattamento dei crediti tributari e contributivi», esprime il retropensiero di rendere sempre meno diversi i crediti tributari e previdenziali da quelli di altra natura; in realtà le conseguenze delle modifiche sono nel senso della piena equiparazione con evidente messa in crisi di quelle differenze quantitative nella misura della falcidia che l’INPS imponeva sulla base di atti normativi secondari (6). 1.2. – Confermando un’esigenza immanente di parità del ceto creditorio, la novella, contestualmente all’ammissibilità di un pagamento ridotto, rimarca come tempi, percentuali e garanzie dei pagamenti a favore dell’erario e degli enti previdenziali non possano essere né «inferiori» né «meno vantaggiosi» di

(4) Sul tema si segnala, inoltre, la sentenza della Corte Costituzionale, 11 novembre 2015, n. 232 la quale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 160 e 182 ter del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, impugnati, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., nella parte in cui, secondo il “diritto vivente”, stabiliscono che la proposta di concordato, con riguardo all’imposta sul valore aggiunto, possa prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento e non anche la falcidia del debito fiscale. (5) In Foro it., 2016, 5, IV, 263. (6) A quest’ultimo riguardo si deve evidenziare la criticità della definizione delle modalità applicative, dei criteri e delle condizioni quantitative di accettazione delle istanze di transazione fiscale (rectius previdenziale) di cui al decreto interministeriale (Min. del welfare e dell’economia) del 4 agosto 2009, emanato a seguito dell’art. 3 del d.l. n. 85/2008 il quale, già nella vigenza della precedente versione dell’art. 182 ter cit., predeterminava il limite minimo di pagamento in palese violazione della delega nonché dello stesso art. 23 Cost. che pone una riserva di legge sì relativa ma inidonea ad attribuire ad una fonte secondaria una limitazione ad accordi disciplinati per intero su base legislativa. Ex multis, M. Spadaro, Il trattamento dei crediti tributari e contributivi secondo il nuovo art. 182 ter L. Fall., in il Fallimento, 2018, 1, 7 ss.


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quelli offerti a creditori di grado inferiore o omogenei per posizione giuridica; in analoga prospettiva il legislatore si è mosso con riguardo al concordato preventivo nella parte in cui ha espressamente chiarito, come già la migliore prassi, che il debito non assolto in caso di credito tributario o previdenziale privilegiato debba andare a formare una apposita classe per poter accedere allo stesso trattamento dei crediti chirografari non pubblici. 1.3. – Obbligatorietà della presentazione dell’istanza di transazione fiscale in sede di concordato preventivo: il primo comma del nuovo art. 182 ter condiziona espressamente qualsiasi pagamento parziale e/o rateizzato di tributi e contributi previdenziali alla presentazione di una istanza di transazione fiscale ai sensi della medesima disposizione. 1.4. – Possibile riduzione e non più solo dilazione dell’IVA e delle ritenute: il punto senza dubbio più importante della riforma è rappresentato dall’eliminazione del divieto di falcidia dell’IVA e delle ritenute che così tanto aveva condizionato il buon esito di ristrutturazioni ex artt. 182 bis e 182 ter e fatto discutere giudici di merito e di legittimità in occasione di concordati con o senza istanza di transazione fiscale. Ne discende, ora, la piena equiparazione, ai fini dei margini quantitativi della ristrutturazione, tra l’IVA e le ritenute e le altre voci di debito di natura tributaria corrispondenti, nella maggior parte dei casi, alle imposte sui redditi ed all’IRAP. 1.5. – La valutazione oggettiva della convenienza di un pagamento parziale: in chiaro ossequio e ottemperanza alla sentenza comunitaria il legislatore nazionale ha introdotto un parametro di riferimento di natura quantitativa ed oggettiva che potesse consentire una valutazione comparativa sulla convenienza in termini di maggiore tutela dell’interesse pubblico tra l’accettazione della somma proposta e l’aggredibilità del patrimonio del debitore tributario e previdenziale ai fini di soddisfazione coattiva della pretesa; l’art. 182 ter, comma 1 condiziona, infatti, la proponibilità della riduzione e/o dilazione alla circostanza che quanto sia offerto garantisca al creditore pubblico «la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione di un professionista» asseveratore (7).

(7) Altrimenti detto, occorre: - verificare se vi siano beni liquidabili e se su di essi vi siano cause di prelazione; - in caso positivo valorizzare i beni ad un valore di mercato;


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Qualora, invece, la proposta di transazione fiscale abbia luogo nell’ambito di un accordo di ristrutturazione, il quinto comma dell’art. 182 ter della l.f. offre un diverso riferimento circa la valutazione che l’ufficio dovrà fare; nel dettaglio, infatti, il legislatore ha onerato l’attestatore di rappresentare la «convenienza del trattamento proposto rispetto alle alternative concretamente praticabili» rimettendo al Tribunale il dovere di fornire una «specifica valutazione». 1.6. – L’individuazione del ricavato dalla liquidazione dei beni e diritti «al valore di mercato»: l’art. 182 ter sancisce la convenienza del pagamento dei debiti tributari mediante una ristrutturazione con transazione fiscale rispetto al pagamento ottenibile a seguito della riscossione coattiva fissando un parametro di valutazione oggettiva non del tutto chiaro, almeno ad una prima impressione. Le espressioni lessicali «liquidazione» e «valore di mercato» avrebbero, forse, meritato una maggiore chiarezza in ragione del loro significato plurimo e, almeno apparentemente, non necessariamente coincidente e coerente. Il termine «liquidazione», trattandosi di un debitore fallibile in quanto imprenditore ex art. 1 della l.f., andrebbe interpretato in modo tecnico ma a tal riguardo si prospettano esiti diversi tra la liquidazione volontaria dei beni o quella, invece, concorsuale. Una soluzione interpretativa pare quella di richiamare il confronto tra l’alternativa misura di soddisfazione che resterebbe, in termini ipotetici, al creditore pubblico se non accettasse il massimo offerto ed asseverato e gli interessi pubblici che andrebbero da questi apprezzati nella sua scelta. Più chiaramente: al creditore erariale e previdenziale che vanti debiti sia a ruolo che non a ruolo e non intenda accettare quanto proposto non resterebbe che agire in via esecutiva sui beni del debitore nei limiti in cui questi esistano e siano espropriabili in base alle regole fissate dagli artt. 49 e ss. del d.p.r. n. 602/1973. Quanto, invece, al termine «valore di mercato» esso, come si intuisce immediatamente, è diverso a seconda della diversa tipologia di liquidazione (volontaria e fallimentare) cui si intenda fare riferimento. 1.7. – La novella enfatizza la rilevanza della maggiore «convenienza» e delle «alternative concretamente praticabili» nella proposta di transazione fi-

- che l’asseveratore faccia suo tale valore nella propria asseverazione e sotto responsabilità penale; quindi, confrontare tale valore con quello corrispondente all’ammontare complessivo dei debiti che il contribuente intende pagare falcidiando la differenza.


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scale in seno ad un accordo di ristrutturazione, anche attraverso il coinvolgimento più esteso dell’attestatore e quello nuovo del Tribunale. 1.8. – L’eliminazione del consolidamento consegue all’obliterazione nel nuovo testo del periodo «al fine di consentire il consolidamento del debito fiscale» presente in quello precedente come momento successivo agli oneri gravanti sul contribuente debitore di deposito della istanza e dei relativi allegati presso il Tribunale, l’ufficio e l’agente della riscossione. Per quanto la novella abbia senza dubbio il pregio di aver eliminato il divieto di falcidia dell’IVA e delle ritenute, restano ancora dei profili applicativi di controversa soluzione. L’occasione sarebbe stata propizia, infatti, per meglio definire sia lo spazio temporale di applicazione della modifica sia i rapporti tra la transazione e la punibilità (rectius gli effetti del trattamento dei crediti tributari a seguito dell’accordo e la sussistenza delle condizioni per la sanzionabilità penale dell’omesso versamento rispetto al disposto del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 già modificato nel 2015 (8)), sia i possibili profili di tutela attraverso l’impugnabilità del diniego di autotutela davanti alle Commissioni tributarie. Inoltre, si deve evidenziare come le citate modifiche necessariamente provocheranno un procedimento di adeguamento della lettera normativa nella disciplina degli strumenti di ristrutturazione diversi da quelli offerti agli imprenditori fallibili ed alle imprese agricole alle quali è riconosciuto di accedere alla procedura ex art. 182 ter della l.f. ai sensi dell’art. 23, comma 43 del d.l. 6 luglio 2011, n. 98 convertito con modifiche nella l. 15 luglio 2011, n. 111 e, cioè, in quella di cui alla legge n. 3/2012 per i casi della c.d. crisi da sovraindebitamento. Infine, resta ancora da chiarire quale sia la procedura da seguire nei casi in cui il debito tributario sia riferibile alle imposte dovute sui redditi prodotti dall’impresa societaria e derivanti dall’inadempimento agli obblighi tributari di una società di persone diversi da quelli propri riferibili all’IVA incassata e non versata ed alle ritenute operate e non versate. 2. La nozione di imprenditore fallibile ex art. 1 l.f. e quella di imprenditore agricolo. – Il punto di partenza per affrontare lo studio delle soluzioni

(8) Cfr. sentenza Cass. pen., sez. III, 13 febbraio 2017, n. 6591, la quale ha affermato “che la transazione fiscale omologata successivamente alla scadenza del termine per il versamento dell’imposta non estingue il reato ormai già consumato e ciò anche se la proposta è stata fatta in epoca antecedente. Per la stessa ragione non sono applicabili al caso in esame gli speciali istituti previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 12 bis e 13”.


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offerte dall’ordinamento alla ristrutturazione del debito tributario contratto da una impresa agricola deve necessariamente essere fissato nella definizione di fallibilità, requisito cardine attorno al quale ruotano gli istituti concorsuali e quelli di composizione della crisi da sovraindebitamento. Il profilo del soggetto esposto al fallimento è disegnato dal combinato disposto delle norme civilistiche sull’imprenditore, art. 2082 del codice civile, sulle attività commerciali, art. 2195 del codice civile integrato da specifici requisiti dimensionali (9): l’entità dell’attivo patrimoniale, dei ricavi e dei debiti rappresentano i limiti che consentono di enucleare all’interno della categoria degli imprenditori commerciali quelli c.d. fallibili (10). Nel panorama così tratteggiato, l’imprenditore agricolo è dunque escluso dalla categoria dei soggetti fallibili (imprenditori commerciali sopra soglia) in ragione dell’espresso riferimento dell’art. 1 della legge fallimentare all’imprenditore che svolge attività commerciali. Tale esclusione prescinde da ogni requisito dimensionale, creando una asimmetria rispetto a quanto previsto a favore dell’imprenditore commerciale, come se il legislatore abbia voluto sottolineare la predominante rilevanza dell’attività esercitata dal soggetto fallibile o meno.

(9) Il secondo comma dell’art. 1 della legge fallimentare recita: «Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila». (10) Successivamente alle modifiche subite dall’originario testo dell’art. 1 della legge fallimentare appare del tutto irrilevante per l’ambito fallimentare quanto stabilito dal legislatore fiscale, ovverosia le definizioni di reddito agrario e di reddito d’impresa, come anche la metamorfosi del primo nel secondo al superamento dei noti limiti stabiliti dall’art. 32 T.U.I.R. Si ricorda infatti che l’art. 1 della legge fallimentare, nella versione in vigore dal 21 aprile 1942, effettuava un espresso rinvio alla norma fiscale per individuare la categoria dei soggetti commerciali di piccole dimensioni, recitando al secondo comma: «Sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini della imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti una attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a euro quindici (lire trentamila). In nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali».


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Più nel dettaglio, la nozione di imprenditore agricolo si contraddistingue rispetto a quella di imprenditore commerciale in ragione delle attività indicate nell’art. 2135 del codice civile (11). Infatti, al di là della teoria dell’imprenditore civile (12), si può affermare che esiste un rapporto tra la categoria dell’imprenditore commerciale e quella dell’imprenditore agricolo tale per cui il primo assume un ruolo residuale: una simile chiave di lettura elimina ogni lacuna e stabilisce che le attività non agricole siano commerciali (13). Nello specifico, sin dall’originaria formulazione dell’art. 2135 del codice civile, è possibile distinguere due grandi categorie, le attività agricole essenziali e quelle per connessione (14): nell’attuale e più estesa articolazione

(11) Le attività agricole da punto di vista civilistico sono quelle indicate nell’art. 2135 del codice civile il quale recita: «È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge». (12) La categoria dell’imprenditore civile assumerebbe senza giustificazione dei connotati differenti rispetto a quella dell’imprenditore commerciale e a quella dell’imprenditore agricolo, cfr. G.F. Campobasso, Diritto commerciale, vol. I, Diritto dell’impresa, Torino, 2013, 47 ss. Per un inquadramento anche storico della teoria dell’imprenditore civile cfr. G. Oppo, Note preliminari sulla commercialità dell’impresa, in Riv. dir. civ., 1967, I, 561 ss.; G. Rivolta, La teoria giuridica dell’impresa e gli studi di Giorgio Oppo, in Riv. dir. civ., 1987, I, 227. In giurisprudenza vedasi Trib. Milano del 3 luglio 1997, in Giur. comm., 1998, II, 625; Trib. Piacenza del 14 marzo 2000, in Foro pad., 2000, I, 95. (13) Cfr. M. Mozzarelli, Il presupposto soggettivo, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, a cura di O. Cagnasso, L. Panzani, tomo I, parte III, Torino, 2016, 331 ss., ripercorre le questioni affrontate dalla dottrina sulla tripartizione della categoria civilistica dell’imprenditore: imprenditore commerciale, agricolo e civile. (14) G.F. Campobasso, Diritto commerciale, vol. I, Diritto dell’impresa, cit., 48 ss. ricostruendo l’iter storico della nozione di imprenditore agricolo precisa che tale definizione viene fornita dal legislatore in senso «negativo», restringendo l’ambito applicativo dello statuto dell’imprenditore commerciale. Proprio il nesso con lo svolgimento di specifiche attività consente di riconoscere l’imprenditore agricolo ponendo in risalto la natura del prodotto piuttosto che la modalità di produzione. In tal senso cfr. A. Palazzolo, L’imprenditore commerciale: l’impresa individuale, in G. Visentini, A. Palazzolo, Compendio di diritto commerciale, Padova, 2014, 11.


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il legislatore fornisce una definizione di imprenditore agricolo graduata sia sull’individuazione di specifiche attività (coltivazione, selvicoltura, allevamento e attività connesse) che del c.d. ciclo biologico, in base al quale la produzione di vegetali e animali conferisce la natura di attività agricola essenziale a prescindere dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti (15). Si tratta di una nozione di imprenditore agricolo che si è differenziata rispetto a quella originaria del codice civile del 1942 ma che ha sollevato forti dubbi in ragione della tuttora non estensibilità della disciplina dell’imprenditore commerciale a quello agricolo (16). L’imprenditore agricolo pertanto non rappresenta un soggetto fallibile e la distinzione rispetto a quello commerciale è ancor oggi percepibile nonostante il rapporto tra agricoltore e fondo sia sempre più allentato e destinato a risolversi nel ciclo biologico, criterio capace di tener conto delle recenti tecniche produttive (17).

(15) Così osserva G.F. Campobasso, Manuale di diritto commerciale, Torino, 2004, 22 e ss. Sulla distinzione tra impresa commerciale e agricola vedasi anche A. Cetra, Le categorie di impresa, in Diritto commerciale, a cura di M. Cian, Torino, 2012, 44 ss. (16) V. Buonocore, Il «nuovo» imprenditore agricolo, l’imprenditore ittico e l’eterogenesi dei fini, in Giur. comm., 2002, 1, 5 ss. il quale sottolinea la portata innovativa dei decreti legislativi 226, 227 e 228 del 2001 che hanno modificato, ampliandola, la nozione di imprenditore agricolo già contenuta all’interno dell’art. 2135 del codice civile, portando ad una sostanziale coincidenza con l’imprenditore commerciale che evidenzia ulteriormente la natura privilegiata della prima categoria in ragione delle persistenti esenzioni (oneri contabili e fallibilità). Un percorso nato per recepire le nuove forme di svolgimento dell’attività agricola ma che rischia di sovrapporsi a quelle commerciali secondo un «destino» inesorabilmente tracciato (in tal senso cfr. A. Graziani, L’impresa e l’imprenditore, Napoli, 1962, 48 ss., il quale prevedeva la necessità di estendere lo statuto dell’imprenditore commerciale a quello agricolo, proprio in considerazione dei connotati di quest’ultimo ovverosia della complessa organizzazione, del ricorso al credito e della sempre più netta distinzione tra proprietà del fondo e titolarità dell’impresa). (17) La Suprema Corte ha statuito che «[A]i fini dell’assoggettabilità di un’impresa asseritamente agricola al fallimento, occorre avere riguardo non già ai parametri quantitativi di cui all’art. 1 legge fall., ma al criterio della valutazione dell’attività (nella specie, azienda casearia) in collegamento con il ciclo biologico» (Cass. 10 dicembre 2010, n. 24995, in Il Fallimento, 2011, 542). L’impresa agricola si fonda sul ciclo biologico, mentre quello imprenditoriale sulle attrezzature, sulla modifica del prodotto, Trib. Rovigo 20 settembre 2016, in ilcaso.it. Cfr. G. Presti, M. Rescigno, Corso di diritto commerciale, vol. I, Impresa - Contratti - Titoli di credito - Fallimento, Bologna, 2006, 31 ove si sottolinea il rischio dato dall’estensione dell’area di esenzione dallo statuto dell’imprenditore commerciale a soggetti sottoposti a rischi ambientali e percepiti socialmente come imprese commerciali. Sulla fattispecie dell’impresa agricola estremamente dilatata a discapito di quelle commerciale vedasi anche M. Cossu, La «nuova» impresa agricola tra diritto agrario e diritto commerciale, in Riv. dir. civ., 2003, 1, 73 ss.


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Il rapporto tra la nozione di imprenditore commerciale e quella di imprenditore agricolo si articola, dunque, in ragione dell’attività effettivamente svolta dal soggetto in maniera tale che qualora questa non sia agricola si configuri necessariamente una natura commerciale (18). Nel diritto fallimentare la fallibilità di un soggetto imprenditore è individuata pertanto in base a un duplice ordine di fattori, ovverosia la natura dell’attività svolta e i relativi limiti quantitativi. Il legislatore ha sentito la necessità di effettuare tale distinzione e, conseguentemente, di assoggettare alla normativa sul fallimento esclusivamente gli imprenditori commerciali fallibili al fine di tener conto del c.d. «doppio rischio» (19): l’imprenditore agricolo è soggetto infatti per sua stessa natura sia al rischio d’impresa sia a quello derivante dalle avversità atmosferiche. Le conseguenze che si sono venute a creare in un simile scenario sono raffigurate da questioni di costituzionalità e da accertamenti sulla effettiva natura commerciale o agricola di un imprenditore: il primo ordine dei problemi è rivolto a verificare la legittimità costituzionale del trattamento differenziato tra imprenditore commerciale e imprenditore agricolo previsto dal primo articolo della l.f. (20); il secondo è strettamente correlato al tenore dell’art. 2135 del codice civile in virtù del quale le attività agricole si considerano tali in ragione i) del collegamento anche solo potenziale con il fondo, facendo leva sul concetto del ciclo biologico (21), ii) delle

(18) In tal senso e per una ricostruzione storica della figura dell’imprenditore commerciale con particolare riferimento alle diverse formulazioni che si sono susseguite nel tempo dell’art. 1 della legge fallimentare, cfr. G.F. Campobasso, Diritto commerciale, vol. I, Diritto dell’impresa, cit., 58 ss. (19) Cfr. D. Ceccarelli, Brevi note sulla fallibilità delle società agricole, in Dir. fall. e delle soc. comm., 2006, 2, 373 ss., il quale sottolinea che la teoria del doppio rischio oggi non è più attuale in considerazione delle tecnologie produttive che oramai vengono impiegate nell’agricoltura, capaci di ridurre la distanza con le attività produttive industriali. (20) F. Cordopatri, La questione della esenzione dell’imprenditore agricolo dalle procedure concorsuali va alla Corte costituzionale, in Dir. fall. e delle soc. comm., 2011, 5, 546: il Tribunale di Torre Annunziata con ordinanza del 12 gennaio 2011 aveva rimesso la questione alla Corte costituzionale, sostenendo una violazione dell’art. 3 da parte dell’art. 1 l.f., la quale tuttavia non si è potuta pronunciata nel merito a causa della carenza di informazioni contenute dell’ordinanza di rimessione. (21) La recente sentenza di Cass. Sez. I 8 agosto 2016, n. 16614 (commentata da T. Stanghellini, Il sottile confine tra impresa agricola ed impresa commerciale, in Il Fallimento, 2017, 1) ha negato la natura di impresa agricola in assenza di una «diretta cura di alcun ciclo biologico, vegetale o animale»: nel caso specifico, non è stata fornita la prova che il commercio all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli, freschi e conservati fosse «connesso» ad una attività agricola.


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attività agricole connesse fondate sul criterio della prevalenza (22). L’Ordinamento appare pertanto capace di distinguere all’interno della categoria degli imprenditori, quelli commerciali da quelli agricoli, fondamentalmente in virtù dell’attività svolta e, a sua volta, di discernere gli imprenditori commerciali fallibili in ragione del superamento di determinate dimensioni. Ebbene, se originariamente la differenziazione tra i due statuti degli imprenditori commerciali e agricoli era mossa dalla volontà di escludere dal fallimento i secondi, ora tale intento ha creato una situazione di fatto che presenta diverse problematiche di coerenza e di tutela a livello ordinamentale, tra cui la condizione dei creditori degli imprenditori agricoli privi di adeguati strumenti di tutela nonostante questi ultimi soggetti possano aver avuto accesso al credito al pari dell’imprenditore commerciale (fallibile). Ancor più rilievo assume, per quanto qui di interesse, la condizione della «non fallibilità» che comportava il mancato accesso agli istituti alternativi al fallimento quali il concordato preventivo e le altre soluzioni alla crisi, destinate solo in un secondo tempo all’imprenditore agricolo attraverso una specifica norma (23) collocata fuori dal corpus della legge fallimentare: la «risposta» del legislatore alla sopracitata lacuna appare tuttavia priva di coerenza sistemica tale da farne acquisire dei connotati derogatori (24). 3. I requisiti soggettivi nella transazione fiscale e negli accordi di risoluzione della crisi da sovraindebitamento. – La transazione fiscale e gli accordi di risoluzione della crisi da sovraindebitamento sono gli istituti che l’ordinamento prevede per la ristrutturazione dell’indebitamento tributario contratto da un soggetto durante lo svolgimento della propria attività (25) e caratteriz-

(22) L. Vecchione, L’impresa agricola tra attività strumentali, commerciali e strumenti di composizione della crisi, in Dir. fall. e delle soc. comm., 2014, 1, 2001 ss. (23) Cfr. art. 23, c. 48, del d.l. n. 98/2011, conv. legge n. 111/2011: «In attesa di una revisione complessiva della disciplina dell’imprenditore agricolo in crisi e del coordinamento delle disposizioni in materia, gli imprenditori agricoli in stato di crisi o di insolvenza possono accedere alle procedure di cui agli artt. 182 bis e 182 ter del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni». (24) Cfr. L. Vecchione, op. cit., il quale manifesta la necessità di un intervento di coordinamento da parte del legislatore a seguito dell’applicabilità all’imprenditore agricolo degli accordi di ristrutturazione del debito e della transazione fiscale (ex legge n. 111/2011) nonché degli accordi di composizione della crisi (ex legge n. 3/2012). (25) Salvo quanto previsto dall’art. 6, comma 2, della legge n. 3/2012 relativamente


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zano in senso consensuale la fase dell’attuazione del prelievo circoscrivendo il dogma della indisponibilità dell’obbligazione tributaria (26): il legislatore, infatti, ha messo a disposizione tali strumenti creando una differenziazione su base soggettiva tale per cui (in sintesi e rinviando al successivo paragrafo per l’approfondimento) la transazione sarà utilizzabile dagli «imprenditori commerciali fallibili», mentre l’accordo di risoluzione della crisi sarà proponibile dagli «imprenditori non fallibili» (27). L’istituto della transazione fiscale (28) si contraddistingue per una procedura attuabile all’interno degli accordi di ristrutturazione dei debiti o del concordato preventivo, rivolgendosi pertanto esclusivamente a favore degli imprenditori commerciali fallibili (29).

al consumatore che ha contratto un debito per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale. (26) M.T. Moscatelli, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, 321 ss.; L. Tosi, La transazione fiscale: profili sostanziali, in Aa.Vv., Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, a cura di F. Paparella, Milano, 2013, 647 ss. Sul concetto di indisponibilità applicata alla transazione fiscale si rinvia a G. Marini, Indisponibilità e transazione fiscale, in Aa.Vv., Studi in onore di Enrico De Mita, Napoli, 2012, 566 ss.; V. Ficari, Transazione fiscale e disponibilità del «credito» tributario: dalla tradizione alle nuove «occasioni» di riduzione «pattizia» del debito tributario, in Riv. dir. trib., 2016, 4, 481 ss. Sulla indisponibilità dell’obbligazione tributaria e sulla illegittimità delle rinunce e delle transazioni vedasi G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte generale, Milano, 2017, 283; Id., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 209 e ss. (27) Come si evince diffusamente dalla relazione d’accompagnamento alla legge n. 3/2012. (28) Si noti che la rubrica del novellato art. 182 ter della legge fallimentare non riporta più la locuzione «transazione fiscale» bensì «trattamento dei crediti tributari e contributivi»: probabilmente il legislatore ha voluto porre l’accento sulla destinazione di tale strumento alla falcidia dell’indebitamento tributario e contributivo, ivi comprendendo anche quei tributi precedentemente esclusi quali l’IVA e le ritenute fiscali. Il legislatore ha esteso l’ambito di applicazione della transazione fiscale in recepimento della recente giurisprudenza comunitaria rappresentata dalla sentenza Degano della Corte di giustizia UE 7 aprile 2016, in causa C-546/14, cit.; per il commento della sentenza si rimanda a V. Ficari, Transazione fiscale e disponibilità del credito tributario: dalla tradizione alle nuove occasioni di riduzione pattizia del debito tributario, in Riv. dir. trib., 2016, 4, 477. (29) Per i cenni storici cfr. G. Schiano di Pepe, Vecchio e nuovo sulla fallibilità. Variazioni sul tema dopo il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, in Dir. fall. e delle soc. comm., 2009, 5, 654 ss. Sulla disciplina contenuta nell’art. 182ter della legge fallimentare e l’assenza di una natura di vera e propria transazione in quanto priva di res litigiosa, disponibilità del credito e reciproche concessioni, vedasi A. Guidara, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, Milano, 2011, 347. Per un recente contributo cfr. diffusamente M. Allena, La transazione fiscale nell’ordinamento tributario, Padova, 2017.


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Il legislatore ha voluto, pertanto, far accedere alla transazione fiscale i soggetti commerciali che superano i limiti dimensionali, senza dare rilievo alle forme di esercizio dell’impresa (30): il referente soggettivo della transazione fiscale, individuato in ragione del combinato disposto degli artt. 182 ter, 160 e 1 della legge fallimentare, è costituito da coloro i quali esercitano professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi, superando i suddetti parametri quantitativi, ma fotografando in tal modo una realtà economica non più attuale in quanto incentrata su una correlazione tra dissesto dell’attività e oggetto commerciale (31). Più nel dettaglio, come è noto, in forza del primo articolo della legge fallimentare la fallibilità dell’imprenditore commerciale si manifesta al superamento di uno solo dei tre limiti quantitativi espressi nella norma, estrapolabili dal bilancio d’esercizio: tali parametri sintetici vogliono rappresentare la consistenza della garanzia patrimoniale (entità dell’attivo patrimoniale e dell’indebitamento) nonché la capacità reddituale dell’azienda (ricavi lordi) (32). Il discrimine all’interno della categoria dell’imprenditore commerciale è incentrato pertanto sul concetto di «fallibilità», si modula su un piano dimensionale ed è ispirato dal c.d. principio di economicità relativo all’attivazione di procedure concorsuali che evitino riparti incapienti e azioni di «pressione» a carico del «piccolo» debitore (33).

(30) Cfr. G. MarasÀ, Il presupposto soggettivo del fallimento, in Riv. dir. comm. e del dir. gen. delle obbl., 2008, 1, 1111 ss. (31) In tal senso G. Capo, Fallimento e impresa, in Aa.Vv., Trattato di diritto fallimentare, vol. I, diretto da V. Buonocore, A. Bassi, Padova, 2010, 27 ss. (32) Cfr. A. Dalmartello, R. Sacchi, D. Semeghini, I presupposti del fallimento, in Fall. e conc. fallim., a cura di A. Jorio, tomo I, Milano, 2016, 165 ss. In particolare, per individuare i valori dell’attivo patrimoniale occorre far riferimento all’art. 2424 del codice civile sullo stato patrimoniale, sulla base dei criteri indicati nell’art. 2426 del codice civile, mentre per le imprese in contabilità semplificata è ammesso l’uso dei dati indicati nell’inventario obbligatorio in base all’art. 2217 del codice civile; quanto alla voce dei ricavi lordi seppur l’espressione indicata dal legislatore fallimentare non sia scevra da fraintendimenti rispetto alle voci di bilancio indicate nel codice civile, si può ritenere che debbano essere ricomprese le componenti indicate nelle lett. a), c), d) ed e) dell’art. 2425 del codice civile escludendo i proventi straordinari e imprevedibili; infine, all’interno della categoria dei debiti non scaduti occorre considerare le passività indicate nello stato patrimoniale ex art. 2424 del codice civile con esclusione del patrimonio netto, nonché i debiti contestati e le garanzie prestate. Cfr. Cass. Sez. I Civ. 15 gennaio 2015, n. 583 (in Guida al diritto, 2015, 17, 65) nella quale si afferma che la definizione di capitale investito coincide con l’attivo che fa parte dello stato patrimoniale da indicare in bilancio, ai sensi dell’art. 2424 del codice civile non rientrandovi il capitale sociale che invece ai sensi del medesimo articolo rientra tra le passività. (33) Il suddetto principio è stato sottolineato dalla sentenza della Corte cost. 22 dicembre


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Il presupposto soggettivo dell’istituto, coincidente con la figura dell’imprenditore commerciale non piccolo (34), manifesta allora la volontà di conservazione dei complessi produttivi ancora vitali, in ragione dell’interesse generale che essi sottendono sia sul piano economico che su quello sociale, ovvero quale opportunità di creazione di nuova ricchezza (35). La legge sulla composizione della crisi è rivolta, specularmente, a quei soggetti «non fallibili» (36) che versano in uno stato di sovraindebitamen-

2017, n. 570, commentata da G. Schiano di Pepe, op. cit., 654 ss. (34) Il riferimento alla nozione di piccolo imprenditore è venuto meno con il d.lgs. n. 5/2006 il quale ha ridisegnato l’art. 1 della l.f. Il disposto del vigente art. 1 della l.f. è tale pertanto da «sterilizzare» o derogare il riferimento operato dall’art. 2221 del codice civile sui soggetti sottoposti a fallimento e concordato preventivo. In tal senso, cfr. G. Schiano Di Pepe, op. cit. 654 e ss. Per una prevalenza dell’art. 1 della l.f. rispetto all’art. 2221 del codice civile in relazione alla fallibilità del piccolo imprenditore vedasi C. Ibba, Il presupposto soggettivo del fallimento dopo il decreto correttivo, in Aa.Vv., Profili della nuova legge fallimentare, a cura di C. Ibba, Torino, 2009, 8 il quale sostiene tale tesi in ragione del principio che la legge posteriore deroga quella anteriore. (35) In tal senso, sulla ratio del presupposto soggettivo della transazione fiscale cfr. E. Stasi, La transazione fiscale, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, diretto da O. Cagnasso, L. Panzani, Milano, 2016, 3829. (36) La legge n. 3/2012 utilizza il termine sovraindebitamento per individuare lo status del soggetto che può farvi ricorso, adottando una definizione di crisi statica, collegato al patrimonio della persona, non curante della capacità di produrre flussi di ricavi o di reddito. In tal senso l’art. 6, comma 1 il quale recita «Al fine di porre rimedio alle situazioni di sovraindebitamento non soggette né assoggettabili a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dal presente capo, è consentito al debitore concludere un accordo con i creditori nell’ambito della procedura di composizione della crisi disciplinata dalla presente sezione». La delimitazione del presupposto soggettivo alla luce della suddetta norma è supportata dal disposto dell’art. 7, comma 2, lett. a) e b): «La proposta non è ammissibile quando il debitore, anche consumatore: a) è soggetto a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dal presente capo; b) ha fatto ricorso, nei precedenti cinque anni, ai procedimenti di cui al presente capo». L’area soggettiva estesa ai soggetti non fallibili comprende anche il caso del soggetto consumatore. Cfr. N. Rondinone, Note critiche sul declino della lex concorsus commerciale e sull’avvento del novus concorsus civile, in Dir. fall. e delle soc. comm., 2014, 2, 10149 ss. Per una sintesi degli aspetti procedurali della legge n. 3/2012 v. P. Pellegrinelli, Procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento e di liquidazione del patriomonio, in Le procedure concorsuali, a cura di M. Giorgetti, Milano, 2017, 323 ss. M. Del Linz, Spunti critici sulle nuove procedure di sovraindebitamento e ordinamenti a confronto, in Dir. fall. e delle soc. comm., 2015, 5, 10482, critica la scelta del legislatore che si discosta dalle altre esperienze europee e nordamericane nelle quali si vuole consentire al debitore di riacquistare il controllo del proprio debito.


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to (37) i quali possono ora falcidiare il proprio debito tributario (38). La dimensione sociale del sovraindebitamento ha assunto dei connotati tali per cui è sorta l’esigenza di creare uno strumento per la soluzione alla crisi del debitore civile considerate le importanti ripercussioni che l’esclusione dalla soluzioni concorsuali comportano in termini di ricorso all’usura, di inflazione del contenzioso derivante dall’esecuzione individuale e di cessazione degli apparati produttivi (39). La legge sul sovraindebitamento individua, a pena di inammissibilità, il presupposto soggettivo creando una categoria volutamente eterogenea che, in via residuale, sia capace di annoverare tutti i soggetti non fallibili (40). In buona sostanza, possono accedere alle soluzioni offerte dalla legge n. 3/2012 quali soggetti «sovraindebitati»: gli imprenditori commerciali sotto soglia (art. 1 l.f.), gli imprenditori commerciali sopra soglia ma cessati da oltre un anno (art. 10 l.f.), gli imprenditori agricoli (art. 7, comma 2 bis, legge n. 3/2012) (41), gli enti non commerciali, le società semplici (in quanto non svolgono attività commerciale per legge), gli enti di diritto privato quali le associazioni, le fondazioni, i professionisti, le società tra professionisti, i lavoratori autonomi o dipendenti e anche i soggetti privi di lavoro e/o nullatenenti (42). Si osserva che si è venuto pertanto a delineare un sistema definibile «dua-

(37) Il legislatore ha individuato differenti presupposti oggettivi in ambito fallimentare, nel concordato preventivo e negli accordi da sovraindebitamento: rispettivamente, nell’art. 5 della legge fallimentare si indica il concetto di insolvenza, nell’art. 160 della legge fallimentare lo stato di crisi e l’art. 6 della legge n. 3/2012 lo stato di sovraindebitamento. Per approfondimenti sulla distanza tra le diverse nozioni suindicate cfr. N. Rondinone, Note critiche sul declino della lex concorsus commerciale e sull’avvento del novus concorsus civile, cit. (38) Prima dell’entrata in vigore della legge n. 3/2012 i soggetti non fallibili potevano avvalersi esclusivamente di accordi di natura privatistica, irrilevanti dal punto di vista tributario. (39) Lo scenario ante legge n. 3/2012 è così delineato da S. Masturzi, La composizione delle crisi da sovraindebitamento mediante accordo di ristrutturazione dei debiti e soddisfazione dei crediti, in Dir. fall. e delle soc. comm., 2014, 6, 10676 ss. (40) Il riferimento è all’art. 7, comma 2, della legge n. 3/2012. Tuttavia, le uniche figure espressamente previste dal legislatore sono quelle del consumatore, dell’imprenditore agricolo e delle start up (queste ultime sono state inserite dall’art 31 del d.l. n. 179/2012). Sulla non casuale assenza di una puntuale tipizzazione cfr. Codice del fallimento e delle atre procedure concorsuali, a cura di A. Giordano, F. Tommasi, V. Vasapollo, Padova, 2015, 1117. (41) Sulla ammissibilità dell’imprenditore agricolo all’interno della procedura prevista dalla legge sul sovraindebitamento vedasi, in senso affermativo, la sentenza del Tribunale di Lucca del 14 novembre 2016, nella quale si commenta tale inclusione in ragione di una lettura sistemica delle norme. (42) Tale ultimo caso si configurerebbe laddove il piano sia sostenibile in virtù di una


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listico misto», ove le diverse procedure sono ancorate ai soggetti, in assenza di un nesso con l’attività e con il patrimonio del debitore, che espone al rischio di dar luogo ad istituti ripetitivi o lacunosi (43). Tale assetto rappresenta la reazione del legislatore alla lacuna di tutela che i soggetti non fallibili riscontravano a seguito della (paradossale) preclusione alle soluzioni della crisi (44) su base volontaria. Da sottolineare che entrambe le procedure attribuiscono all’imprenditore commerciale (ex art. 142 della legge fallimentare) e a quello agricolo (ex art. 14 terdecies della legge n. 3/2012) il beneficio dell’esdebitazione (45), ovverosia il c.d. fresh start che permette al soggetto beneficiario di «ripartire» liberato dai debiti residui relativi a creditori non soddisfatti (46). A tal riguardo, il 16 marzo 2017 è stata depositata la sentenza della Corte

garanzia prestata da terzi come previsto dal secondo comma dell’art 8, legge n. 3/2012. cfr. Codice del fallimento e delle atre procedure concorsuali, a cura di A. Giordano, F. Tommasi, V. Vasapollo, Padova, 2015, 1117. Si manifestano dubbi invece sulla annoverabilità degli enti pubblici economici. (43) Misto in quanto esiste il sottosistema delle procedure concorsuali disciplinato dalla l.f. e quello delle procedure anch’esse concorsuali previste dalla legge n. 3/2010. Cfr. in tal senso M. Mozzarelli, Il presupposto soggettivo, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, diretto da O. Cagnasso, L. Panzani, Milano, 2016, 302 e 303. (44) Il presupposto oggettivo rappresentato dalla crisi in realtà assume differenti sembianze sia all’interno della l.f. (art. 5 l.f. stato di insolvenza, art. 160 l.f. stato di crisi) sia all’interno della legge n. 3/2012 (nozione di sovraindebitamento che richiama un concetto di crisi finanziaria/ patrimoniale). In tal senso e per approfondimento cfr. N. Rondinone, Note critiche sul declino della lex concorsus commerciale e sull’avvento del novus concorsus civile, cit. (45) L’Organismo italiano di contabilità richiede che la ridefinizione delle passività derivanti dalla ristrutturazione del debito venga rilevata nel bilancio d’esercizio fondamentalmente quando se ne manifestano gli effetti. L’O.I.C. n. 6 stabilisce nel dettaglio a p. 38 che «In applicazione dei princìpi di competenza e prudenza, in analogia a quanto previsto per la ristrutturazione dei debiti, gli effetti economici sono rappresentati in bilancio secondo i seguenti princìpi: a) se la rinegoziazione comporta una variazione del valore capitale del debito gli effetti economici sono immediatamente rilevati al conto economico; b) negli altri casi gli effetti economici dell’operazione sono rilevati in base al decorrere del tempo (pro rata temportis) a partire dal momento di efficacia dell’accordo; c) gli eventuali costi sostenuti direttamente connessi all’operazione sono ricondotti nel conto economico dell’esercizio di loro sostenimento e/o maturazione; d) la nota integrativa consente di evidenziare gli effetti economici dell’operazione, se ritenuti rilevanti». (46) La dottrina (L. Del Federico, S. Ariatti, Esdebitazione ed IVA: tra equivoci e vincoli europei, a margine dell’infalcidiabilità del tributo nel concordato preventivo, in Il Fallimento, 2016, 4, 448 ss.) aveva già propeso sulla applicazione dell’esdebitazione nei confronti dell’IVA, dubitando sulla natura di tributo costituente risorsa propria dell’UE, sia prima sia della nota sentenza Degano (causa C-546/2014 cit.) che dell’intervento del legislatore riformatore della disciplina della transazione fiscale ex art. 182 ter della legge fallimentare.


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di giustizia, causa C-493/15 (47), la quale esplicitamente ammette l’esdebitazione anche con riferimento all’Iva, in quanto non configura una indiscriminata rinuncia generale alla riscossione del credito, né costituisce un aiuto di Stato in ragione della assenza del carattere della selettività (48). L’effetto in questione si applica a tutti i tributi oggetto di transazione e di accordo da sovraindebitamento, con una particolare riflessione per quanto riguarda il debito relativo all’imposta sul valore aggiunto e alle ritenute e la loro «gestione» all’interno della legge n. 3/2012: infatti, nella legge sul sovraindebitamento il legislatore non ha modificato il dogma della infalcidiabilità dell’IVA (e delle ritenute) espresso nell’art. 7, comma 1, legge n. 3/2012 creando una incongruenza con il nuovo art. 182 ter l.f., rischiando di penalizzare il «piccolo» imprenditore non fallibile. Tale incoerenza, che teoricamente potrebbe essere anche risolta con la diretta disapplicazione da parte del giudice delle norme interne in contrasto con l’ordinamento comunitario (49), sta trovando recenti soluzioni nella giurisprudenza di merito che ha esteso la falcidiabilità dell’IVA e delle ritenute anche ai soggetti non fallibili che abbiano intrapreso una soluzione al sovraindebitamento, quale interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea (50).

(47) In Foro it., 2017, 5, IV, 231. (48) Il punto 24 della sentenza richiama espressamente inoltre la nota sentenza Degano affermando: «Si evince da tali constatazioni che, allo stesso modo della procedura di concordato preventivo esaminata nella sentenza del 7 aprile 2016, Degano Trasporti (causa C-546/14, EU:C:2016:206, punto 28), la procedura di esdebitazione di cui trattasi nel procedimento principale è assoggettata a condizioni di applicazione rigorose che offrono garanzie per quanto riguarda segnatamente la riscossione dei crediti IVA e che, tenuto conto di tali condizioni, essa non costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA e non è contraria all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione (v. sentenza del 7 aprile 2013, Degano Trasporti, C546/14, EU:C:2016:206, punto 28)». Sulla questione degli aiuti di Stato vedasi in particolare i punti 25-27 della sentenza citata. (49) I noti precedenti di disapplicazione di un giudicato c.d. anticomunitario sono rappresentati dalle cause Lucchini e Olimpiclub nelle quali a determinate condizioni è stato superato il giudicato nazionale per dare piena attuazione alle norme del diritto comunitario. Cfr. R. Miceli, Riflessioni sull’efficacia del giudicato tributario alla luce della recente sentenza Olimpiclub, in Rass. trib., 2009, 6, 1846 e ss.; C. Glendi, Limiti del giudicato e Corte di giustizia europea, in Corr. trib., 2010, 5, 325 e ss. (50) La recente sentenza Trib. Pistoia 26 aprile 2017 in ilcaso.it ha ritenuto che non ammettere la falcidia dell’IVA e delle ritenute in una delle procedure della legge n. 3/2012 sarebbe stato in contrasto con i princìpi stabiliti dalla sentenza Degano, causa C-546/14 cit. Tale giudice ha preferito la «strada alternativa della interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, facendo salva la operatività della norma purché con esso armonizzata» anziché


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4. (Segue) L’ammissibilità del socio di società di persone alle soluzioni per il sovraindebitamento. – L’assenza di una tipizzazione dei soggetti comporta delle incertezze interpretative come quelle relative all’ammissibilità dei soci illimitatamente e solidalmente responsabili delle società di persone commerciali (s.n.c., s.a.s. e s.a.p.a. (51)) agli istituti contenuti nella legge 3/2012: la fallibilità per estensione ex art. 147 della legge fallimentare implica un accesso alle soluzione della legge sul sovraindebitamento solo previa dimostrazione che la società partecipata non sia a sua volta fallibile. Resta in dubbio, nel caso in cui il socio sia fallibile, la possibilità di comporre l’indebitamento relativo alla proprie personali obbligazioni: da un lato, si vorrebbe garantire la possibilità di accedere alle soluzioni per il sovraindebitamento in considerazione della mancata autonoma fallibilità (il socio, fallibile per estensione, fino a quando non fallisce sarebbe privato di azionare strumenti di risoluzione della crisi (52)); da altro lato, la giurisprudenza di merito è discordante nell’ammettere la risoluzione della crisi del socio fallibile per estensione (53). L’art. 147 l.f. non troverebbe applicazione, invece, in relazione alla procedura di liquidazione dei beni della legge n. 3/2012 sicché quest’ultima, se effettuata a carico di una società di persone sottosoglia, non si estenderebbe ai soci illimitatamente responsabili (54).

«ritenerla incompatibile con i princìpi di cui agli artt. 2, 250, par. 1 e 273 della direttiva IVA nonché dell’art. 4, par. 3, TUE, così come esplicitati dalla sentenza del 7 aprile 2016 della Corte di giustizia UE». Nel dettaglio il giudice di Pistoia afferma che «L’interpretazione conforme (alla luce della sentenza del 7 aprile 2016 della Corte di giustizia UE) consente di ritenere che il divieto di falcidia dell’IVA previsto dalla norma sull’accordo del sovraindebitaento faccia implicitamente salva l’ipotesi che la proposta preveda un trattamento migliore rispetto a quello consentito dalla alternativa liquidatoria di cui all’art. 14 ter, esprimendo così la regola generale rispetto alla quale l’eccezione deve ritenersi non esclusa, ma implicita». (51) Non sono fallibili per estensione i soci unici delle S.p.A. e delle s.r.l., nel rispetto del principio della responsabilità limitata. In tal senso e per approfondimenti si rimanda a C. Amatucci, Il fallimento delle società, in Aa.Vv., Trattato di diritto fallimentare, vol. I, diretto da V. Buonocore, A. Bassi, Padova, 2010, 102. (52) Cfr S. Masturzi, La composizione delle crisi da sovraindebitamento mediante accordo di ristrutturazione dei debiti e soddisfazione dei crediti, cit. (53) Trib. Milano 18 agosto 2016 ha ritenuto che il socio fallibile per estensione non può accedere all’accordo da sovraindebitamento in ragione della responsabilità illimitata anche per i debiti della società tale per cui non sarebbe congruo risolvere l’indebitamento personale escludendo quello sociale. Per il commento si rimanda a F. Pasquariello, L’accesso del socio alle procedure di sovraindebitamento: una grave lacuna normativa, in Il Fallimento, 2017, 2, 198 ss. (54) L. D’Orazio, Il nuovo appeal delle procedure di sovraindebitamento nella riforma


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In ogni caso, l’ammissibilità del socio all’accordo da sovraindebitamento troverebbe conferma laddove la legge n. 3/2012 prevede che in caso di fallimento della società o del socio l’accordo omologato venga risolto (55). Con particolare riferimento al socio di una società agricola di capitali o di persone, tale soggetto non potrà mai essere dichiarato fallito per estensione ex art. 147 delle legge fallimentare in quanto esiste, nel primo caso, lo «schermo» della (nota) responsabilità limitata del socio, mentre, nel secondo caso, l’esclusivo esercizio dell’attività agricola (condizione necessaria per acquisire lo status di società agricola) impedisce «a monte» la fallibilità della società. Di conseguenza, il socio delle società agricole potrà accedere (come verrà analizzato nel successivo paragrafo) sia alla transazione fiscale ex art. 182 ter della legge fallimentare sia alle soluzioni al sovraindebitamento offerte dalla legge n. 3/2012. 5. La peculiarità dello status soggettivo di imprenditore agricolo: una deroga alla fallibilità? – L’imprenditore agricolo in ragione del combinato disposto dell’art. 23, comma 48 della legge n. 211/2011 e del nuovo art. 182 ter l.f. può accedere alla transazione fiscale all’interno di un accordo di ristrutturazione dei debiti per domandare il pagamento ridotto e dilazionato dei debiti tributari e contributivi (56).

in itinere, in Il Fallimento, 2016, 10, 1122. (55) Il comma 5 dell’art. 12 della legge n. 3/2012, rubricato «omologazione dell’accordo» stabilisce: «La sentenza di fallimento pronunciata a carico del debitore risolve l’accordo. Gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato non sono soggetti all’azione revocatoria di cui all’art. 67 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267. A seguito della sentenza che dichiara il fallimento, i crediti derivanti da finanziamenti effettuati in esecuzione o in funzione dell’accordo omologato sono prededucibili a norma dell’art. 111 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267». S. Masturzi, La composizione della crisi da sovraindebitamento mediante accordo di ristrutturazione dei debiti e soddisfazione dei crediti, cit., il quale ammette l’accesso del socio illimitatamente responsabile agli accordi da sovraindebitamento nonostante e come confermato dalla risoluzione dell’accordo nel caso di successivo fallimento della società. L’autore effettua una panoramica sui soggetti che possono usufruire della legge n. 3/2012, ricomprendendovi anche i professionisti, le associazioni, le fondazioni e i consorzi, mentre resterebbero escluse le situazioni di insolvenza legate a reti di impresa, patrimoni destinati ad uno specifico affare cui la dottrina non riconosce soggettività giuridica. (56) Il comma 48 dell’art. 23 del d.l. n. 98/2011, conv. legge n. 111/2011 recita: «In attesa di una revisione complessiva della disciplina dell’imprenditore agricolo in crisi e del coordinamento delle disposizioni in materia, gli imprenditori agricoli in stato di crisi o di insolvenza possono accedere alle procedure di cui agli artt. 182 bis e 182 ter del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni». Si auspica che la riforma delle procedure concorsuali sia capace di comprendere anche le imprese agricole in ragione delle esigenze e


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I presupposti affinché tale tipologia di imprenditore possa usufruire dei benefici della transazione fiscale sono costituiti dallo stato di crisi e dalla volontà di proseguire l’attività d’impresa: in assenza di tali requisiti, sarebbero violati il principio di concorrenza e di pari trattamento ed opportunità dei soggetti economici, nonché quello di indisponibilità del credito erariale (57). Tale ammissione è stata oggetto di discussione in relazione alla autonomia della proposta di transazione o, viceversa, sulla necessità di un «contenitore» costituito dal concordato preventivo ovvero dall’accordo di ristrutturazione, prediligendo la soluzione dell’ammissibilità all’interno di questi ultimi (58). La dimostrazione che l’estensione della transazione fiscale ai soggetti agricoli raffiguri una deroga è data dall’inserimento e dalla permanenza della norma fuori dal corpo normativo della legge fallimentare, come a voler manifestare la volontà di mantenere salvo il principio della fallibilità quale fattore discriminante tra soggetti (59). L’accesso all’istituto della transazione fiscale da parte di un imprenditore agricolo prescinde, inoltre, dalla forma di quest’ultimo in quanto è garantito sia ai soggetti individuali, che a quelli organizzati in forma societaria non tenendo conto neppure di alcun parametro quantitativo: tale scenario si discosta chiaramente da quanto previsto per l’imprenditore commerciale dall’art. 1 della legge fallimentare. Merita una riflessione l’ammissibilità alla transazione fiscale dell’imprenditore agricolo professionale (IAP) (60) sotto forma di società agricola a re-

delle specificità dell’attività agricola. In tal senso, anche facendo frutto di una analisi di diritto comparato v. F. Macario, Crisi e insolvenza dell’impresa agricola. Spunti di riflessione da un recente contributo, in Diritto agroalimentare, 2016, 1, 93 e ss. (57) In tal senso A. La Malfa, La transazione fiscale dell’impresa agricola, in Il Fallimento, 2013, 2, 137, il quale sottolinea che l’imprenditore che non assolve al dovere fiscale svolgerebbe l’attività d’impresa con minori oneri conseguendo pertanto condizioni economiche ingiustificatamente favorevoli in assenza dei presupposti citati. (58) Cfr. A. La Malfa, La transazione fiscale dell’impresa agricola, cit., 140, il quale esclude la possibilità del ricorso al concordato preventivo ammettendo la possibilità di una presentazione in via autonoma della istanza di transazione fiscale da parte di un imprenditore agricolo, ovverosia senza alcun riferimento ad un procedimento risanatorio ex artt. 160 o 182 bis l.f. (59) L’art. 23, comma 43 del d.l. n. 98/2011, conv. legge n. 111/2011 non è stato modificato infatti dai successivi interventi modificativi in materia di diritto fallimentare, in tal senso cfr. A. La Malfa, La transazione fiscale dell’impresa agricola, cit., 137 ss. (60) L’imprenditore agricolo professionale ha sostituito la figura dell’imprenditore agricolo a titolo principale già disciplinata dall’art. 12 della legge n. 153/1975. Ai sensi del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 99/2004 assumono la veste di società agricola sia quelle di persone che quelle


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sponsabilità limitata: per un verso tale soggetto dovrebbe essere ammesso alla transazione fiscale riservata agli imprenditori agricoli in ragione della natura «esclusivamente» (61) agricola, per altro verso la «agrarietà» della società comporta l’attribuzione della natura di soggetto «non fallibile» (62) e pertanto entrerebbe a pieno titolo tra le soluzioni offerte alla crisi da sovraindebitamento. Se l’obiettivo del legislatore era evitare di sottoporre a fallimento attività marginali dal punto di vista economico allora la mancata previsione di parametri dimensionali per stabilire la (non) fallibilità dell’imprenditore agricolo si tradurrebbe in un privilegio piuttosto che in una eccezione alla regola (63). Il favor dell’imprenditore agricolo relativo all’esclusione dal fallimento, inizialmente, non pareva violare la par condicio creditorum( (64)) in quanto tale soggetto, tendenzialmente, svolgeva una attività di autoconsumo e non era solito far ricorso al credito. Infatti, come è noto, storicamente le ragioni giustificatrici del trattamento differenziato in ordine alla fallibilità dell’imprenditore agricolo rispetto a

di capitali aventi esclusivo esercizio delle attività agricole: «La ragione sociale o la denominazione sociale delle società che hanno quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività di cui all’art. 2135 del codice civile deve contenere l’indicazione di società agricola». Per una visione storica di tale figura, partendo dagli insegnamenti della Corte di giustizia seguiti poi dal legislatore nazionale, cfr. M. Cossu, La discriminazione normativa fra imprenditori agricoli a titolo principale e il formalismo della Corte di giustizia, in Riv. giur. sarda, 2012, 1, 18 ss. (61) Si ricorda infatti che in tal caso la società a responsabilità limitata ha quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’art. 2135 del codice civile e almeno un amministratore riveste esse stesso la qualifica di IAP. Così stabilisce l’art. 1 del d.lgs. n. 99/2004. In particolare, il primo comma dell’art. 1 del d.lgs. n. 99/2004 prevede che «Ai fini dell’applicazione della normativa statale, è imprenditore agricolo professionale (IAP) colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell’art. 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, dedichi alle attività agricole di cui all’art. 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro». (62) Sulla non fallibilità delle società agricole a responsabilità limitata cfr. S. Carmignani, Affitto di azienda e conservazione dell’agrarietà, in Il Fallimento, 2012, 12, 1462 ss. (63) In tal senso cfr. G. Schiano Di Pepe, Vecchio e nuovo sulla fallibilità. Variazioni sul tema dopo il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, in Dir. fall. e delle soc. comm., 2009, 5, 654 ss. (64) La parità di trattamento ha assunto un diverso peso all’interno della legge fallimentare da quando questa è nata per consentire di accogliere le esigenze di regolazione della crisi d’impresa, riducendosi ad un «criterio ermeneutico per comporre le ragioni ed interessi che non trovano espresso riconoscimento in sede normativa concorrendo a definire, ma non più determinando in vertice, l’impianto teleologico del sistema concorsuale». Così N. Abriani, A.M. Leozappa, I princìpi generali delle procedure concorsuali, in Aa.Vv., Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, a cura di F. Paparella, cit., 79.


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quello commerciale si basavano sul rischio ambientale che andava ad incrementare quello aziendale (65), nonché sulle conseguenze economiche generabili dal dissesto dell’impresa agricola (66). Attualmente, la distanza tra imprenditore commerciale e agricolo si è ridotta in considerazione della attività svolta da quest’ultimo, sempre meno vincolata al prodotto, a cui corrisponde la ricerca della effettiva attività posta in essere in ragione del disposto dell’art. 2135 del codice civile per sancire l’assoggettamento a fallimento o meno (67). L’accertamento della reale attività esercitata dall’imprenditore risulta cruciale in relazione alle modalità di accesso alle soluzioni della crisi: infatti, se dovesse emergere lo status di imprenditore commerciale allora resterebbe immutata la possibilità di usufruire della transazione fiscale all’interno di un accordo di ristrutturazione ex artt. 182 bis e 182 ter della legge fallimentare (sempre che il soggetto si collochi soprasoglia), diversamente in assenza dei requisiti stabiliti dall’art. 1 delle legge fallimentare l’imprenditore riconosciuto commerciale potrebbe avvalersi esclusivamente delle soluzioni da sovraindebitamento previste dalla legge n. 3/2012. Si osserva che in simile scenario, l’apertura all’imprenditore agricolo verso la transazione fiscale e gli accordi di ristrutturazione dei debiti si pone in contrasto con la ratio della legge fallimentare contenuta nel suo primo articolo: l’incoerenza è rappresentata dalla possibilità per l’imprenditore agricolo anche di piccole dimensioni di accedere alla transazione fiscale, istituto ordinariamente riservato agli imprenditori commerciali di grandi dimensioni (ovverosia che superino i noti limiti dimensionali contemplati dall’art. 1 della l.f.). Dalla lettura del nuovo testo dell’art. 182 ter l.f. si desume che anche l’imprenditore agricolo può proporre il pagamento parziale o dilazionato dei

(65) Cfr. D. Ceccarelli, op. cit., 373 e ss. sulla individuazione del rischio sia di natura imprenditoriale in senso stretto che quale conseguenza delle avversità ambientali e climatiche. Sulla individuazione delle differenti tipologie di rischio al quale è sottoposto l’imprenditore agricolo cfr. anche M. Sandulli, Il fallimento. I presupposti soggettivi e oggettivi, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di A. Jorio, B. Sassani, vol. I, Introduzione generale. Il fallimento, Milano, 2014, 119 ss. (66) Così ricorda G. Capo, op. cit., 29 sottolineando che tali motivazioni hanno attualmente perso sostanza in quanto la tecnologia produttiva ha consentito di ridurre il rischio ambientale e il differenziale dimensionale tra l’impresa agricola e quella commerciale si è tendenzialmente azzerato sia sul piano organizzativo che su quello finanziario. (67) In tal senso cfr. M. Cardillo, La transazione fiscale, Roma, 2016, 57.


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tributi e dei contributi «esclusivamente» mediante la proposta di transazione fiscale, evitare ipotesi di falcidia fuori dalla transazione fiscale, sia essa all’interno del concordato preventivo o degli accordi di ristrutturazione (68). Ciò premesso, la linea di confine tra la definizione di imprenditore commerciale e quella di imprenditore agricolo, tracciata di volta in volta dalla giurisprudenza per ammettere o escludere dal fallimento il soggetto dalla dubbia qualificazione, verrà ora utilizzata per consentire l’accesso alla transazione fiscale prescindendo o meno dai requisiti dimensionali. Tendenzialmente viene svolto un controllo giudiziale sulla effettiva attività esercitata dall’impresa rispetto alla disciplina del soggetto agricolo prevista dall’art. 2135 del codice civile, non rilevando l’effettività dello scopo mutualistico (69), né la cessazione dell’attività agricola (70), né le dimensioni (71)

(68) Nel nuovo scenario è stato accolto con favore e riconoscendo il recepimento delle indicazioni fornite dalla dottrina e dalle classi professionali da V. Ficari, Falcidia dell’IVA e transazione fiscale: la sentenza «Degano trasporti» è «tamquam non esset»?, in Corr. trib., 2017, 3, 181. Per un approfondimento sulla natura facoltativa o meno della transazione fiscale alla luce della giurisprudenza di legittimità cfr. L. Del Federico, La Corte di cassazione inquadra la transazione fiscale nel sistema delle procedure concorsuali, in Riv. dir. trib., 2012, 1, 35 ss. (69) Così la Cass. Sez. VI 12 maggio 2016, n. 9788 (in Giust. civ. Mass., 2016), nel medesimo senso cfr. Cass. Sez. I 24 marzo 2014, n. 6835 (in Riv. dir. agr., 2014, 1, II, 3, con nota di A. Jannarelli) nella quale si specifica che i connotati dell’imprenditore commerciale sono individuabili anche nelle società cooperative in presenza di una obiettiva economicità dell’attività esercitata, ovverosia di una proporzionalità tra costi e ricavi (lucro oggettivo); tale scenario, essendo compatibile con il fine mutualistico, ammette la fallibilità della società seppur essa operi solo nei confronti dei soci. La sentenza è stata commentata da E. Cusa, Fallimento e cooperative agricole: alcuni chiarimenti, in Giur. comm., 2015, 2, 284 ss. Cfr. E. Locascio Aliberti, I problemi del fallimento delle cooperative agricole, ivi, 2015, 4, 715 ss. ove si riassume la questione della fallibilità delle società cooperative per analizzare il nuovo art. 2545 terdecies il quale, espressamente, prevedere il fallimento per le cooperative che svolgano attività commerciale, sottolineando i casi in cui non vi sia corrispondenza tra forma ed attività. (70) Non determinandosi la automatica fallibilità in quanto occorre in ogni caso dimostrare lo svolgimento dell’attività d’impresa In tal senso Trib. Rovigo 20 settembre 2016 cit. La concessione in affitto del fondo non è sufficiente per qualificare come commerciale l’attività esercitata, cfr. Trib. Udine 21 settembre 2012 e Trib. Mantova 18 novembre 2014 entrambe in ilcaso.it. Anche la cessazione dell’attività agricola e la costruzione di un immobile utilizzabile per una attività di agriturismo non consente di attribuire la qualifica commerciale, in tal senso App. Venezia 27 ottobre 2011 in ilcaso.it (71) Ai fini dell’assoggettamento a procedura concorsuale l’accertamento della qualità d’impresa commerciale non può essere tratto esclusivamente da parametri di natura quantitativa, non più compatibili con la nuova formulazione dell’art. 2135 del codice civile. In tal senso cfr. Cass. 10 dicembre 2010, n. 24995, cit.


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o la forma dell’impresa (72) e neppure la mera indicazione dell’oggetto sociale (73). In particolare per attribuire la natura di impresa agricola occorre ricercare un collegamento funzionale tra l’attività e il fondo, considerando che le eventuali attività connesse non possono assumere un rilievo prevalente e sproporzionato rispetto all’attività principale (74). Sicuramente, ammettendo in deroga l’imprenditore agricolo alla transazione fiscale, senza il rispetto dei limiti dimensionali stabiliti dal primo articolo della legge fallimentare, si applica ad un piccolo imprenditore agricolo un istituto pensato a favore di grandi soggetti con conseguenze fondamentalmente di ordine pratico/contabile sul versante delle soluzioni alla crisi. Sotto altra ottica, emergerebbe una scarsa rilevanza per l’imprenditore agricolo ad accedere all’accordo di ristrutturazione dei debiti al fine di evitare la dichiarazione di fallimento a causa del suo status che lo esula in radice da tale rischio (75).

(72) Cfr. App. Torino 26 ottobre 2007, in Il Fallimento, 2007, 1484. Quanto alle dimensioni, la relazione illustrativa al decreto «correttivo» d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 in commento all’art. 1 della l.f. afferma che «vengono indicati direttamente una serie di requisiti dimensionali massimi che gli imprenditori commerciali (resta quindi ferma l’esonero dalle procedure concorsuali di tutti gli imprenditori agricoli, piccoli e medio grandi) devono possedere congiuntamente per non essere assoggettati alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo». In tal senso anche sentenza Cass. n. 24995/2010 cit. (73) Sulla irrilevanza della forma cfr. Trib. Pistoia 14 novembre 2014 in icaso.it. Similmente a quanto avviene anche per attribuire natura di impresa artigiana a prescindere dalla iscrizione nel registro delle imprese artigiane. Così Trib. Rovigo 20 novembre 2014 in ilcaso.it. (74) Cass. Sez. I Civ. 8 agosto 2016, n. 16614, cit., ove la vendita di prodotti acquistati da terzi non consente di qualificare l’impresa come commerciale e quindi di affermare la sua fallibilità se tale attività può essere classificata come connessa a quella agricola e complementare rispetto all’attività principale, a prescindere dal superamento dei limiti dimensionali posti dall’art. 1 l.f.. da parte della attività connessa commerciale; diversamente sarebbe privato di contenuto il terzo comma dell’art. 2135 del codice civile. L’attribuzione della natura agricola ad una impresa agrituristica deve avvenire verificando la connessione della attività esercitata con quella agricola, avendo riguardo sia all’utilizzo prevalente delle materie prime ottenute dalla coltivazione del fondo sia degli immobili e delle risorse aziendali che normalmente sono impiegate nell’attività agricola. Così ha stabilito la Cassazione con la sentenza Sez. I Civ. 10 aprile 2013, n. 8690 (in Giur. it., 2013, 8-9, 1818) specificando che l’indagine sulla natura commerciale o agricola finalizzato al fallimento dell’impresa agrituristica deve essere condotta sulla base di criteri uniformi prescindendo da quelli ricavabili dalle singole leggi regionali. (75) Le problematiche di ordine contabile verranno analizzate nel dettaglio nei successivi paragrafi. È stato inoltre sottolineato che la disciplina dell’accordo di ristrutturazione sterilizza gli effetti della revocatoria fallimentare e non da quella ordinaria. In tal senso cfr. R. Marino, M. Carminati, Le soluzioni negoziali della crisi dell’imprenditore agricolo, in Il Fallimento,


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Senza alcun coordinamento con l’ammissibilità in deroga dell’imprenditore agricolo alla transazione fiscale, la legge n. 3/2012 riconoscendo il principio della fallibilità, ammette tale soggetto alle soluzioni da sovraindebitamento e risulta del tutto scevra dai limiti quantitativi posti all’interno della legge fallimentare: infatti, essa si rivolge anche all’imprenditore agricolo di grandi dimensioni, enfatizzando in tal modo la rilevanza dell’attività non commerciale (76). A questo punto, l’elemento che dovrebbe ammettere l’imprenditore agricolo, alternativamente, alla transazione fiscale o all’accordo di composizione della crisi è rappresentato, rispettivamente, dallo stato di crisi/insolvenza o da quello di sovraindebitamento (77). Più nel dettaglio, se si dubita che l’imprenditore agricolo possa accedere al piano ma non alla liquidazione previsti dalla legge n. 3/2012, in quanto l’espresso inserimento di tale soggetto è avvenuto solo nella prima sezione con riferimento ai presupposti di ammissibilità (art. 7) senza essere richiamato nella sezione seconda in particolare laddove è disciplinata la liquidazione dei beni (art. 14 ter) (78), tuttavia si potrebbe propendere per una sua ammissi-

2012, 6, 633 ss. Tuttavia, pare che la giurisprudenza abbia superato tale dubbio attraverso una interpretazione sistemica della norma estendendo la protezione in deroga alle norme sulla revocatoria a tutte le sue differenti modulazioni (cfr. Trib. Milano 2 marzo 2013 in ilcaso.it). (76) C. Costa, Profili problematici della disciplina della composizione delle crisi da sovraindebitamento, in Dir. fall. e delle soc. comm., 2014, 6, 10663 ss., il quale sottolinea che le procedure di risoluzione della crisi da sovraindebitamento sono dirette sia al piccolo debitore che alla enorme impresa agricola. (77) Tesi sposata anche dalla Agenzia delle Entrate la quale nella circolare n. 19/2015 afferma che: «Una posizione particolare attiene agli imprenditori agricoli i quali, se in stato di sovraindebitamento, possono proporre ai creditori un accordo di composizione della crisi ai sensi dell’art. 7, comma 2 bis, della legge n. 3 del 2012 oppure, se “in stato di crisi o di insolvenza”, a mente dell’art. 23, comma 43, del d.l. n. 98 del 2011 citato in premessa, possono accedere alla procedura degli accordi di ristrutturazione di cui all’art. 182 bis della l.f. e alla transazione fiscale. In definitiva, l’imprenditore agricolo, anche se escluso dal fallimento a norma dell’art. 1 della l.f., può alternativamente fruire della procedura di composizione della crisi in esame o degli accordi di ristrutturazione e della transazione fiscale». Inoltre, si ricorda che l’art, 6, comma 2, lettera a), della legge n. 3 del 2012 individua lo status “sovraindebitamento” nella “situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente”. L’art. 5 delle l.f. invece stabilisce che “lo stato d’insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. (78) Cfr. Codice del fallimento e delle altre procedure concorsuali, a cura di A. Giordano, F. Tommasi, V. Vasapollo, Padova, 2015, 1118.


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bilità in ragione del richiamo alla liquidazione contenuto nell’art. 12 relativo all’omologazione dell’accordo (79). Sia nella transazione fiscale che negli accordi da sovraindebitamento appare logico che l’onere della prova sulla non fallibilità quale imprenditore agricolo (finalizzato all’accesso alla soluzioni alla crisi) gravi sul soggetto indebitato in ragione del principio generale stabilito dall’art. 2697 del codice civile (80). 6. Le caratteristiche dell’indebitamento tributario di una impresa agricola e di una società agricola. – L’indebitamento tributario che l’impresa agricola può far sorgere è ovviamente correlato al proprio regime fiscale, naturale od opzionale (come nel caso che di seguito verrà approfondito relativo alle società agricole di capitali). L’imprenditore agricolo individuale, le società semplici e gli enti non commerciali con riferimento alle imposte dirette sono soggetti all’IRPEF (81) in ragione della produzione di reddito fondiario (determinato tramite il c.d. reddito medio ordinario (82) e del coefficiente di redditività per la fornitura di servizi (83). Attualmente sono esentati dall’IRAP (84). A seconda che l’impresa agricola sia esercitata attraverso la forma indi-

(79) Il secondo comma dell’art. 12 prevede che «(…) Quando uno dei creditori che non ha aderito o che risulta escluso o qualunque altro interessato contesta la convenienza dell’accordo, il giudice lo omologa se ritiene che il credito può essere soddisfatto dall’esecuzione dello stesso in misura non inferiore all’alternativa liquidatoria disciplinata dalla sezione seconda». (80) Il quale fa gravare sul chi vuol far valere un diritto in giudizio l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa. Cfr. sul punto T. Stanghellini, Il sottile confine tra impresa agricola ed impresa commerciale, in Il Fallimento, 2017, 1, 38 ss. Nella giurisprudenza, ex multis, sentenza di Cass. civ., Sez. I, 8 agosto 2016, n. 16614. (81) Per approfondimenti ed esemplificazioni vedasi P. Rossi, Le imposte dirette e l’IRAP, in L’impresa agricola in Italia. Profili civilistici, giuslavoristici, contabili e fiscali, Fondazione nazionale dei commercialisti, Roma, 2017, 93 ss. (82) Gli artt. dal 25 al 43 del T.U.I.R. disciplinano la tassazione su base catastale dei redditi fondiari, ripartiti in dominicali, agrari e dei fabbricati. (83) L’art. 56 bis, comma 3, del T.U.I.R. prevede che «Per le attività dirette alla fornitura di servizi di cui al terzo comma dell’art. 2135 del codice civile, il reddito è determinato applicando all’ammontare dei corrispettivi delle operazioni registrate o soggette a registrazione agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, conseguiti con tali attività, il coefficiente di redditività del 25 per cento». (84) L’art. 45 del d.lgs. n. 446/1997 prevede al primo comma la tassazione con aliquota ridotta, infatti: «Per i soggetti che operano nel settore agricolo e per le cooperative della piccola pesca e loro consorzi, di cui all’art. 10 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 601, l’aliquota è stabilita nella misura dell’1,9 per cento». La legge di stabilità 2016, legge n. 208/2015, commi 70, 71 e 72 ha stabilito l’esenzione dall’IRAP per i soggetti che svolgono una attività agricola.


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viduale o societaria (di persone o di capitali) varia la responsabilità in capo all’imprenditore e al socio. Se è pacifico che il primo debba rispondere con il proprio patrimonio per l’indebitamento tributario e contributivo a lui imputabile per l’esercizio dell’attività agricola, tuttavia nel caso dell’assetto societario occorre effettuare un distinguo: da un lato, la distinzione e l’autonomia patrimoniale del socio rispetto alla società di capitali, dall’altro lato, la responsabilità del socio di società di persone per i propri debiti e per quelli della società in misura solidale. Su tale ultimo profilo si nota che la giurisprudenza ammette in ogni caso azioni cautelari da parte del credito erariale sul patrimonio del socio di società di persone, nonostante il principio della preventiva escussione ex art. 2304 del codice civile (85). Esiste una particolare disciplina fiscale per le c.d. società agricole le quali, per opzione, possono abbandonare il regime naturale di determinazione del reddito d’impresa e scegliere la tassazione su base catastale sebbene, per espressa volontà del legislatore, il reddito mantenga la qualificazione di reddito d’impresa pur variando la modalità di determinazione dello stesso (86). Le società in questione per accedere al regime di determinazione su base catastale devono assumere i connotati dell’imprenditore agricolo professionale (IAP), a condizione che tale figura sia presente anche in capo ai soci (per le società di persone) o agli amministratori (per le società di capitali), nonché attraverso lo svolgimento esclusivo delle attività agricole ex art. 2135 del codice civile (87). Da ultimo, la legge di bilancio 2017 ha stabilito l’esenzione IRPEF, per un

(85) La sentenza di Cass. Sez. I 3 gennaio 2014, n. 49 (in Riv. dott. comm., 2014, 2, 359) ha limitato l’efficacia dell’art. 2304 del codice civile alla fase esecutiva, consentendo al creditore di munirsi di specifico titolo esecutivo a carico del socio da poter esercitare solo dopo che abbia agito infruttuosamente sui beni societari. Dello stesso tenore l’ordinanza di Cass. Sez. VI-T 16 giugno 2016, n. 12494 (in Corr. trib., 2016, 38, 2913) la quale ha «salvato» l’iscrizione ipotecaria sui beni del socio in via preventiva e cautelare (idem, Cass. Sez. II 17 febbraio 2013, n. 28146, in Giust. civ. Mass., 2013 e Cass. Sez. I 16 gennaio 2009, n. 1040, in Giur. it., 2009, 3, 639). (86) L’art. 2 del d.lgs. 29 marzo 2004, n. 99 ha introdotto la figura della «società agricola» e il comma 1093 dell’art. 1 della l. 27 dicembre 2006, n. 296, la finanziaria 2007, ha stabilito che le società di persone, le società a responsabilità limitata e le società cooperative che rivestono la qualifica di società agricola possono optare per la tassazione su base catastale prevista dall’art. 32 del T.U.I.R. (87) In particolare deve essere individuabile un IAP in almeno un socio per le società di persone e in almeno un amministratore per quelle di capitali. Sulle specifiche modalità per individuare i requisiti soggettivi ed oggettivi vedasi i chiarimenti forniti dalla circolare 50/E/2010.


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arco temporale pari ad un triennio, a favore dei coltivatori diretti e degli IAP: l’intento del legislatore consiste nel sostenere gli imprenditori agricoli individuali nell’attuale periodo di crisi, mentre restano tuttavia escluse le società agricole, seppur abbiano optato per la tassazione su base catastale, in quanto soggetti passivi IRES (88). Il regime fiscale opzionale delle società agricola rappresenta, pertanto, una deroga al principio di attrazione del reddito d’impresa ed enfatizza la neutralità della forma soggettiva rispetto all’attività (89). Quanto alle imposte indirette, l’impresa agricola è naturalmente vocata al regime speciale previsto dalla normativa dell’imposta sul valore aggiunto dagli artt. 34 e 34 bis, d.p.r. n. 633/1972 (salvo l’opzione per il regime ordinario IVA) in base al quale si applica un meccanismo di forfetizzazione delle detrazione, dai tratti agevolativi (90). Di conseguenza l’indebitamento tributario di un imprenditore agricolo è potenzialmente meno rilevante rispetto a quello dell’imprenditore commerciale in ragione della residualità degli possibili omessi versamenti o accertamenti, divenuti definitivi, relativi ad IRPEF e ad IVA (91).

(88) La legge di bilancio 2017, legge n. 232/2016, al comma 44 dell’art. 1, ha previsto l’esenzione dalla base imponibile IRPEF dei redditi dominicali e agrari posseduti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali. Per approfondimenti cfr. D. Buono, M. Proietti, Le nuove modalità di determinazione della base imponibile IRPEF per coltivatori diretti e IAP, in Corr. trib., 2017, 11, 855 ss. (89) La legge n. 296/2006, art. 1, comma 1093, ha istituito il regime opzionale per le società di capitali agricole, interpretato con natura derogatoria da V. Ficari, La soggettività tributaria delle s.r.l. e l’imposizione del reddito delle società di capitali, in Trattato delle società a responsabilità limitata, diretto da C. Ibba, G. Marasà, Profili fallimentari e tributari, vol. 8, a cura di V. Ficari, C.F. Giampaolino, Padova, 2012, 126 ss. (90) A. Uricchio, Riflessi fiscali della nuova disciplina del settore agricolo, in Rass. trib., 2002, 1, 47 ss., ha riconosciuto una carattere agevolativo al regime speciale IVA in agricoltura in ragione dei minori oneri formali, dell’esonero per i piccoli volumi IVA e della forfetizzazione delle detrazione IVA in deroga alle regole generali IVA. Si sottolinea infatti che solo laddove le percentuali di compensazione siano inferiori all’aliquota ordinaria sulle cessioni si genera in capo all’imprenditore agricolo un obbligo di versamento del tributo. (91) L’indebitamento che può essere contratto da un soggetto agricolo può inoltre essere composto dal recupero di agevolazioni fiscali in materia di imposta di registro in ragione della numerose agevolazioni previste nel settore. Tale componente, considerato che per necessità l’imprenditore agricolo acquista grandi appezzamenti di terreno, potrebbe assumere rilenti aspetti quantitativi. Per un inquadramento di tale tipologia di agevolazioni vedasi V. Mastroiacovo, Agevolazioni fiscali alle società agricole «sopravvissute» alla riforma della tassazione dei trasferimenti immobiliari, in Giur. trib. - Rivista di giurisprudenza tributaria, 2014, 5, 447 ss.


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7. La situazione patrimoniale e la contabilità nell’impresa agricola e nella società agricola: le particolarità rispetto alle esigenze dell’asseverazione. – Il rapporto tra l’obbligo di tenuta della contabilità da parte dell’impresa agricola e l’asseverazione richiesta dalla transazione fiscale o dall’accordo da sovraindebitamento si sviluppa tra il piano civilistico, quello fiscale e fallimentare con intuibili (e meglio chiariti di seguito) rischi di «confusione» (92). L’imprenditore agricolo deve sottostare, o meno, all’onere (civilistico) di tenuta della contabilità in ragione della forma giuridica con la quale svolge la propria attività: il dovere, infatti, sorge solo in capo alle società di persone agricole, non semplici, e alle società di capitali. Specularmente, in base al combinato disposto degli artt. 2214, 2202 e 2083 del codice civile, sono esclusi dal suddetto obbligo gli imprenditori agricoli individuali, i coltivatori diretti e le società semplici agricole (93). Il legislatore tributario per le imposte dirette non ha stabilito un obbligo a carico di tali imprenditori agricoli in quanto «non commerciali», mentre in ambito IVA il dovere di tenuta dei registri degli acquisti e delle vendite è esteso a tutti gli imprenditori commerciali e agricoli (94). Solo nel caso in cui l’imprenditore agricolo produca reddito d’impresa, attraverso le forme societarie personali (esclusa la società semplice) e di capitali, vengono meno le esenzioni formali e gli obblighi di tenuta della contabilità sono i medesimi di quelli dell’imprenditore commerciale (95).

(92) Il rischio della confusione come anche della sovrapposizione tra determinazione forfettaria del reddito ai fini tributari e sottrazione al fallimento è stato osservato da R. Lupi, assieme a F. Gallio, M. Greggio, Tassazione forfettaria delle imprese agricole e procedure concorsuali, in Dialoghi tributari, 2014, 4, 432 ss. (93) L’art. 2214 del codice civile infatti stabilisce al primo comma che «L’imprenditore che esercita un’attività commerciale deve tenere il libro giornale e il libro degli inventari»; per proseguire al terzo comma affermando che «Le disposizioni di questo paragrafo non si applicano ai piccoli imprenditori». Per la definizione di piccolo imprenditore l’art. 2083 del codice civile prevede che sono tali i soggetti che esercitano una attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia, come i piccoli imprenditori, i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani e i piccoli commercianti. (94) Gli artt. 23 e 25 del d.p.r. n. 633/1972 disciplinano la registrazione delle fatture e degli acquisti a cui deve sottostare il «contribuente». A tal proposito, l’art. 4 del d.p.r. n. 633/1972, rubricato, «esercizio di imprese», annovera espressamente le imprese agricole affermando: «Per esercizio di imprese si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli artt. 2135 e 2195 del codice civile, anche se non organizzate in forma di impresa, nonché l’esercizio di attività, organizzate in forma d’impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 del codice civile». (95) Gli imprenditori commerciali ai sensi degli artt. 14 del d.p.r. n. 600/1973


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Ciò premesso, sovrapponendo la disciplina della transazione fiscale e degli accordi da sovraindebitamento agli obblighi civistici/contabili a carico dell’imprenditore agricolo, emerge una criticità che coinvolge tali ultimi soggetti se non organizzati in forma societaria commerciale (ci si riferisce quindi all’imprenditore agricolo individuale, al coltivatore diretto e alla società semplice agricola). Infatti, dal punto di vista civilistico simili «piccoli» agricoltori non sono obbligati a tenere il libro giornale e il libro degli inventari (quest’ultimo come è noto, in ragione dell’art. 2217 del codice civile, comprende il bilancio d’esercizio (96)) e neppure altre tipologie di scritture contabili normalmente suggerite dalla natura e dalla dimensione dell’impresa (97). Tuttavia l’assenza di un obbligo di tenuta della contabilità non deve precludere l’accesso alla transazione fiscale e all’accordo da sovraindebitamento, soluzioni che richiedono, come verrà meglio analizzato di seguito, un supporto documentale relativo alla situazione contabile aziendale. Si viene pertanto a creare un duplice ordine di problemi che riguarda i) l’assolvimento dell’onere della prova della natura di imprenditore agricolo per consentire l’accesso alla transazione fiscale o all’accordo da sovraindebitamento; ii) la ricostruzione della situazione economico patrimoniale finalizzata oltretutto al giudizio di fattibilità. La giurisprudenza ha ammesso la possibilità di rettificare le risultanze provenienti dalla contabilità aziendale laddove siano carenti per informazioni o per assenza di un obbligo legale, integrando con documenti anch’essi

devono tenere il c.d. libro mastro, le scritture ausiliarie di magazzino e il registro dei beni ammortizzabili. (96) Il primo comma dell’art. 2217 del codice civile indica in contenuto essenziale dell’inventario corrispondente all’indicazione e alla valutazione delle attività e delle passività relative all’impresa, nonché delle attività e delle passività dell’imprenditore estranee alla medesima. Il secondo comma del medesimo articolo afferma: «L’inventario si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite il quale deve dimostrare con evidenza e verità gli utili conseguiti o le perdite subite. Nelle valutazioni di bilancio l’imprenditore deve attenersi ai criteri stabiliti per i bilanci delle società per azioni, in quanto applicabili». (97) Si ricorda infatti che il secondo comma dell’art. 2214 del codice civile stabilisce che l’imprenditore commerciale «Deve altresì tenere le altre scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa e conservare ordinatamente per ciascun affare gli originali delle lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite».


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«significativi» (98), quali ad esempio quelli obbligatori ai fini fiscali (99). Solo tramite tale «percorso» interpretativo è possibile far emergere il valore dell’impresa agricola e permettere all’asseveratore di tener conto della tipica combinazione dei diversi fattori produttivi che caratterizzato tale tipologia di soggetto: il capitale fondiario (terreni e strutture per la coltivazione), quello agrario (scorte vive e non vive quali il bestiame, le attrezzature, i concimi), il lavoro e l’organizzazione (100). Partendo dalle suddetti componenti che contraddistinguono l’impresa agricola rispetto a quella commerciale i riflessi delle peculiarità delle attività agricole in ambito civilistico e fiscale dovranno essere ricondotti, a prescindere dall’obbligo legale di tenuta della contabilità, negli schemi, per così dire classici, di valutazione civilistica dei beni aziendali e del fattore lavoro; in tal modo sarà possibile conciliare tali elementi in una situazione patrimoniale, economica e finanziaria utile per comprendere le cause dell’indebitamento e per attuare le soluzione alla crisi. L’asseveratore dovendosi esprimere sulla fattibilità del piano sia esso all’intero della transazione fiscale ovvero dell’accordo da sovraindebitamento, dovrà basare le proprie valutazioni su una inevitabile ricostruzione della situazione contabile ed economica dell’imprenditore agricolo esonerato

(98) La sentenza di Cass. Sez. I 15 maggio 2009, n. 11309 (in Giust. civ., 2010, 4, I, 949) ha stabilito che «L’onere della prova dell’inammissibilità del fallimento incombe dunque sul debitore contro il quale sia stata presentata la relativa istanza, anche se l’onere della prova della sua qualità di imprenditore commerciale incombe sul creditore istante. E benché non abbiano certamente valore di prova legale, i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi sono la base documentale imprescindibile della dimostrazione che il debitore ha l’onere di fornire per sottrarsi alla dichiarazione del fallimento. Sicché la mancata produzione dei bilanci non può che risolversi in danno del debitore, a meno che la prova dell’inammissibilità del fallimento non possa desumersi da documenti altrettanto significativi». In ambito fallimentare, l’onere della prova delle condizioni per l’esonero dal fallimento è di rilevanza cruciale in quanto è nella fase prefallimentare che il Tribunale dispone di un ampio potere di indagine officioso per la verifica dei presupposti per la fallibilità. In tal senso la sentenza della Corte cost. 26 giugno 2009, n. 189 commentata da G. Capo, Fallimento e impresa, in Aa.Vv., Trattato di diritto fallimentare, vol. I, diretto da V. Buonocore. A. Bassi, Padova, 2010, 74; più di recente cfr. sentenza Cass. civ., Sez. I, I marzo 2012, n. 3228. (99) E. Stasi, Aspetti problematici sulle soglie di non fallibilità, in Il Fallimento, 2012, 12, 1448. (100) N. Lucido, Il bilancio aziendale ed il bilancio di esercizio dell’impresa agricola, in L’impresa agricola in Italia. Profili civilistici, giuslavoristici, contabili e fiscali, Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, Fondazione nazionale dei commercialisti, gennaio 2017, 211 ss.


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dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili e confermare (101). In particolare, il professionista attestatore in una simile operazione di transazione fiscale dovrà ai fini del consolidamento del debito tributario (102) e della valutazione del piano valutare: i) la situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa debitrice, ii) la stima degli elementi costituenti l’attivo dell’impresa, iii) l’elenco nominativo dei creditori con le rispettive cause di prelazione, iv) i diritti reali o personali sui beni del debitore nonché il valore dei beni degli eventuali soci illimitatamente responsabili (103); tali adempimenti riflettono l’esigenza di conoscenza dello «stato di salute» dell’impresa debitrice riassunto nel bilancio civilistico coadiuvato dalle implicazioni fiscali e da tutte quelle informazioni non sintetiche utili ad integrare i dati estrapolati dalla contabilità (104). Per completare il quadro dell’indebitamento rapportato alle obbligazioni tributarie derivanti dallo svolgimento dell’attività dell’impresa agricola si dovranno elaborare sia le dichiarazioni non ancora sottoposte ai controlli automatici da parte della Agenzia delle Entrate, che quella integrativa che si colloca temporalmente fino alla data di presentazione della istanza di transazione fiscale (105).

(101) Anche le Linee guida sulla crisi da sovraindebitamento di cui alla legge n. 3 del 27 gennaio 2012 e successive modifiche e integrazioni, elaborate dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, Roma, luglio 2015, hanno sostenuto che «L’imprenditore agricolo, in quanto soggetto non fallibile, può accedere alla procedura di sovraindebitamento ma può anche beneficiare, ai sensi della legge n. 111/2011, degli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis l.f. e della transazione fiscale ex art. 182 ter l.f.». (102) Cfr. F. Randazzo, Il consolidamento del debito tributario nella transazione fiscale, in Riv. dir. trib., 2008, 10, 825 ss. L’autore ripercorrendo le diverse interpretazione che la dottrina ha attribuito agli effetti del consolidamento del debito tributario sostiene che le conseguenze attengono al profilo liquidatorio dei tributi senza estendersi a quello dell’accertamento che resterebbe impregiudicato negli ordinari termini di decadenza. Tuttavia, si segnala che il testo del nuovo art. 182 ter della legge fallimentare non contiene più il riferimento al consolidamento del debito fiscale. (103) Così l’art. 161, «domanda di concordato», della legge fallimentare che contiene la disciplina del concordato preventivo ex art. 160 l.f. a cui fa espresso rinvio l’art. 182 ter l.f. sulla transazione fiscale. (104) Così l’art. 161 della legge fallimentare. G. Marini, La transazione fiscale, in Rass. trib., 2010, 5, 1193 ss. afferma a tal proposito che «La previsione mira ad uniformare il procedimento di presentazione della proposta di transazione fiscale nell’ambito delle trattative che precedono la stipula dell’accordo di ristrutturazione a quello che si svolge nell’ambito della procedura di concordato preventivo (per il quale la suindicata documentazione era già richiesta) al fine di consentire all’Erario, al pari degli altri creditori, di conoscere tutti gli elementi del piano di ristrutturazione». (105) Il secondo comma dell’art. 182 ter della legge fallimentare, rubricato «trattamento


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L’asseveratore, a seguito della suddetta opera di ricostruzione della situazione contabile dell’imprenditore agricolo di piccole dimensioni, fatti salva la propria responsabilità in ambito penale (106), si avvarrà «ben volentieri» della dichiarazione ex art. 182 ter, comma 5, della legge fallimentare con la quale il debitore attesta che quanto depositato rappresenta fedelmente e integralmente la situazione economica e patrimoniale dell’impresa. In maniera del tutto simile, anche in presenza di un accordo da sovraindebitamento il professionista asseveratore o l’organismo di composizione della crisi dovranno necessariamente ricostruire o integrare le scritture contabili degli ultimi tre esercizi previsti dall’art. 9 della legge n. 3/2012 assieme alla proposta di accordo e alle dichiarazioni dei redditi relative agli ultimi tre anni (107).

dei crediti tributari e contributivi», afferma: «Ai fini della proposta di accordo sui crediti di natura fiscale, copia della domanda e della relativa documentazione, contestualmente al deposito presso il Tribunale, deve essere presentata al competente agente della riscossione e all’ufficio competente sulla base dell’ultimo domicilio fiscale del debitore, unitamente alla copia delle dichiarazioni fiscali per le quali non è pervenuto l’esito dei controlli automatici nonché delle dichiarazioni integrative relative al periodo fino alla data di presentazione della domanda. L’agente della riscossione, non oltre trenta giorni dalla data della presentazione, deve trasmettere al debitore una certificazione attestante l’entità del debito iscritto a ruolo scaduto o sospeso. L’ufficio, nello stesso termine, deve procedere alla liquidazione dei tributi risultanti dalle dichiarazioni e alla notifica dei relativi avvisi di irregolarità, unitamente a una certificazione attestante l’entità del debito derivante da atti di accertamento, ancorché non definitivi, per la parte non iscritta a ruolo, nonché dai ruoli vistati, ma non ancora consegnati all’agente della riscossione. Dopo l’emissione del decreto di cui all’art. 163, copia dell’avviso di irregolarità e delle certificazioni deve essere trasmessa al commissario giudiziale per gli adempimenti previsti dagli artt. 171, comma 1, e 172. In particolare, per i tributi amministrati dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, l’ufficio competente a ricevere copia della domanda con la relativa documentazione prevista al primo periodo, nonché a rilasciare la certificazione di cui al terzo periodo, si identifica con l’ufficio che ha notificato al debitore gli atti di accertamento». (106) Sui rilievi penali derivanti dalla responsabilità del debitore e del professionista abilitato ad asseverare si rimanda a V. Ficari, G. Scanu, Soglie di punibilità, «accordi» deflativi e transazione fiscale, in Riv. dir. trib., 2014, 9, 937 ss. Vedasi anche R. Schiavolin, La responsabilità penale del professionista, in Rass. trib., 2015, 2, 517 ss. per un inquadramento complessivo delle responsabilità penali che il libero professionista può riscontrare nello svolgimento della attività di consulenza. (107) In particolare l’art. 9 della legge n. 3/2012 recita ai commi 2 e 3: «2. Unitamente alla proposta devono essere depositati l’elenco di tutti i creditori, con l’indicazione delle somme dovute, di tutti i beni del debitore e degli eventuali atti di disposizione compiuti negli ultimi cinque anni, corredati delle dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni e dell’attestazione sulla fattibilità del piano, nonché l’elenco delle spese correnti necessarie al sostentamento suo e della sua famiglia, previa indicazione della composizione del nucleo familiare corredata del


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Pertanto, si desume che la normativa per la risoluzione delle situazioni da sovraindebitamento «prevale» rispetto all’esonero civilistico di tenuta della contabilità a carico dei piccoli imprenditori agricoli: infatti, la proposta sarebbe inammissibile in assenza della documentazione che attesti la situazione economica e patrimoniale del debitore (108). In definitiva, le esenzioni a favore dell’imprenditore agricolo sul piano civile e fiscale non derogano alla disciplina degli strumenti di composizione della crisi in ragione della necessità di trasparenza e informazione sulla situazione economica e patrimoniale del debitore (109). La carenza sul piano documentale/contabile originata da una esenzione legale potrebbe essere colmata attraverso la predisposizione di una situazione contabile capace di manifestare o rettificare (110) l’assetto economico e patrimoniale dell’imprenditore, attestata in punto di veridicità dall’asseveratore o dall’Organismo di composizione della crisi a seconda dei casi (111): si sottolinea che tale «ricostruzione» contabile dovrebbe essere contenuta nel piano autonomamente elaborato rispetto all’asseveratore nella transazione fiscale e con l’ausilio dell’OCC nell’accordo da sovraindebitamento in maniera tale che la figura dell’attestatore mantenga la terzietà che le compete, verifichi la veridicità dei dati e la fattibilità del piano senza modificarlo (112).

certificato dello stato di famiglia. 3. Il debitore che svolge attività d’impresa deposita altresì le scritture contabili degli ultimi tre esercizi, unitamente a dichiarazione che ne attesta la conformità all’originale». (108) L’art. 7 della legge n. 3/2012, rubricato «presupposti di ammissibilità» afferma al secondo comma: «La proposta non è ammissibile quando il debitore, anche consumatore: a) è soggetto a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dal presente capo; b) ha fatto ricorso, nei precedenti cinque anni, ai procedimenti di cui al presente capo; c) ha subìto, per cause a lui imputabili, uno dei provvedimenti di cui agli artt. 14 e 14 bis; d) ha fornito documentazione che non consente di ricostruire compiutamente la sua situazione economica e patrimoniale». (109) Così T. Sannini, T. Stanghellini, L’imprenditore agricolo insolvente tra fallimento e sovraindebitamento: un caso nel florovivaismo pistoiese, in Il caso.it, 2015, 13. (110) L’asseveratore ha ampi poteri di certificazione della situazione economica e contabile dell’imprenditore, tra cui anche rettificare poste dell’attivo o del passivo per conformarle allo scenario veritiero. Trib. Udine 30 novembre 2012, ove si è sostenuto che «nell’ipotesi in cui nella contabilità aziendale appaia superato il parametro previsto dall’art. 1 l.f. in relazione all’ammontare dell’attivo patrimoniale, ma questo sia il frutto di un’erronea contabilizzazione degli importi relativi alla voce “titolare c/prelievi”, i ricorso per dichiarazione di fallimento deve essere respinto in quanto ciò che rileva sono le risultanze sostanziali della contabilità». (111) Analogamente a quanto previsto dall’art. 161 l.f. In tal senso cfr. S. Filocamo, Deposito ed effetti dell’accordo di Francesco, in Il Fallimento, 2012, 9, 1054 ss. (112) Così è chiarito diffusamente e in particolare nel punto 4.5.10 dei Princìpi di


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8. L’asseverazione e le specificità nella ristrutturazione dei debiti tributari dell’impresa agricola e della società agricola. – L’asseveratore per esprimere il proprio giudizio di fattibilità (113) deve tenere in considerazione i particolari fattori di rischio che contraddistinguono una impresa agricola rispetto a quale commerciale (114).

attestazione dei piani di risanamento, elaborati a cura de A.I.D.E.A. (Accademia italiana di economia aziendale), I.R.D.C.E.C. (Istituto di ricerca dei dottori commercialisti ed esperti contabili), A.N.D.A.F. (Associazione nazionale direttori amministrativi e finanziari), A.P.R.I. (Associazione professionisti risanamento imprese), O.C.R.I. (Osservatorio crisi e risanamento delle imprese), 6 giugno 2014. (113) La relazione del professionista all’interno della transazione fiscale si contraddistingue per il giudizio di fattibilità del piano: una formulazione di giudizi prognostici sulla realizzabilità futura di ipotesi a carattere prospettico, capace di dimostrare che il piano è in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati e, da ultimo, l’idoneità a traghettare l’impresa fuori dalla crisi. C. Pagliughi, Il contenuto della relazione attentatrice, in Aa.Vv., Il professionista attentatore: relazioni e responsabilità, Milano, 2014, 138. In sintesi, il piano risulterebbe fattibile e l’attestazione potrebbe essere rilasciata in tal senso se il rischio è giudicato moderato ovverosia si reputa altamente probabile il raggiungimento degli obiettivi perseguiti nel piano, sulla base di un supporto documentale adeguato, possibilmente proveniente da fonti indipendenti e autorevoli. Così in sintesi A. Incollingo, La ristrutturazione del debito e le relazioni attestative nella prospettiva economico-aziendale, in Aa.Vv., Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, a cura di F. Paparella, cit., 969. (114) Il C.N.D.C.E.C. in data 6 giugno 2014 ha pubblicato i Princìpi di attestazione dei piani di risanamento, cit., frutto di un lavoro congiunto del mondo universitario e professionale nel quale si indica che il professionista attestatore deve prestare particolare attenzione ai seguenti:

a) fattori individuali, con particolare riferimento alla conoscenza del business oggetto di valutazione, alla disponibilità di tempo, nonché all’indipendenza rispetto al soggetto che richiede l’attestazione; b) fattori riferiti all’azienda con particolare riferimento alla stima della adeguatezza del sistema di pianificazione e controllo, dell’affidabilità dell’eventuale consulente usato per l’assistenza nella redazione del Piano e di altri professionisti e operatori con competenze adeguate; c) fattori legati al business in cui l’azienda opera, che possono complicare l’attività di pianificazione; d) fattori ambientali, intendendo con ciò il «clima» in cui si inserisce il Piano di risanamento e l’atteggiamento dei creditori e dei vari stakeholders interessati alla ristrutturazione; e) fattori legati in modo specifico al Piano: tra cui (esemplificativamente ma non esaustivamente) il grado di realismo delle ipotesi, la qualità delle fonti informative impiegate/disponibili, il tempo a disposizione per la verifica, l’arco temporale interessato.


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Tuttavia, sia la legge fallimentare che quella sul sovraindebitamento non prevedono quali siano i contenuti minimi della relazione dell’asseveratore, né tanto meno viene specificato alcunché con riferimento all’impresa agricola, dovendo dunque rivolgersi alla giurisprudenza, alla prassi (internazionale (115)) e alla dottrina contabile per individuare una prassi operativa. L’asseveratore attraverso una adeguata metodologia dovrà fornire un giudizio sulla affidabilità del piano attraverso una stima di una serie di dati previsionali: tale analisi prospettica subisce inevitabilmente un trade off tra orizzonte temporale e capacità di previsione delle tendenze future che raccomanderebbe un arco temporale massimo pari ad un quinquennio (116) superato il quale il dato previsionale sarebbe notevolmente più soggettivo e da motivare con particolare cura (117). Il ruolo dell’asseveratore pare assumere un’importanza maggiore nella relazione avente ad oggetto un’impresa agricola rispetto a quella commerciale in quanto l’ordinaria funzione di garanzia nei confronti dei terzi (in primis, verso l’amministrazione finanziaria) è ancor più rilevante: infatti, considerata la non fallibilità dell’imprenditore agricolo i creditori devono «affidarsi» (118)

(115) A differenza di quanto è avvenuto in ambito internazionale da parte dello I.A.A.S.B., l’Organismo italiano di contabilità non ha emanato specifici provvedimenti sulle informazioni prospettiche da elaborare nell’ambito della crisi d’impresa. (116) Cfr. Università di Firenze, Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, Assomine, Linee guida per il finanziamento alle imprese in crisi, II edizione, 2015, 30, «Raccomandazione n. 7 (arco temporale del piano). L’arco temporale del piano, entro il quale l’impresa deve raggiungere una condizione di equilibrio economico-finanziario, non deve estendersi oltre i tre/cinque anni, anche se eventuali pagamenti ai creditori possono essere previsti in tempi più lunghi. Sebbene il raggiungimento dell’equilibrio non dovrebbe avvenire in un termine maggiore, il piano può avere durata più lunga, nel qual caso sarebbe tuttavia opportuno motivare adeguatamente la scelta e porre particolare attenzione nel giustificare le ipotesi e le stime previsionali utilizzate; occorre comunque inserire nel piano cautele e misure di salvaguardia aggiuntive, tali da poter compensare o quanto meno attenuare i possibili effetti negativi di eventi originariamente imprevedibili». (117) A. Incollingo, La ristrutturazione del debito e le relazioni attestative nella prospettiva economico-aziendale, in Aa.Vv., Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, a cura di F. Paparella, cit., 963, richiama i princìpi emanati dallo I.A.A.S.B. in particolare quelli International standard on Assurance Engagement in ragione della loro analisi prospettica e non storica. (118) Si ricorda tuttavia che l’attestatore non deve modificare il piano, ma verificare se sia fattibile, né deve verificare se quello proposto sia il migliore piano possibile. Così stabilisce il documento di prassi contabile al punto 4.8.2. dei Princìpi di attestazione dei piani di risanamento, elaborati a cura de A.I.D.E.A. (Accademia italiana di economia aziendale), I.R.D.C.E.C. (Istituto di ricerca dei dottori commercialisti ed esperti contabili), A.N.D.A.F. (Associazione nazionale


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del tutto alla professionalità dell’esperto indipendente che elabora un giudizio sulla concreta realizzabilità del piano di composizione della crisi (119). Il piano che il professionista o l’organismo di composizione della crisi (120) sono chiamati ad asseverare, all’interno della transazione fiscale o degli accordi da sovraindebitamento, deve contraddistinguersi per la capacità di superare la crisi che l’impresa agricola ha contratto, attraverso l’analisi e le soluzioni tipicamente poste in essere in tali occasioni (121). Si constata, per di più, la difficoltà che il soggetto asseveratore può incontrare nell’ambito della transazione fiscale nel momento in cui deve indicare il «valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti» in ipotesi di liquidazione fallimentare: infatti, considerato che l’impresa agricola non rappresenta un soggetto fallibile, l’alternativa liquidatoria appare distante da essa e di conseguenza difficilmente quantificabile e comparabile rispetto al valore della proposta (122). Tale incongruenza, dimostra che l’ammissibilità dell’imprenditore agricolo alla transazione fiscale per opera della legge n. 111/2011 rappresenta una deroga ai princìpi contenuti nella legge fallimentare.

direttori amministrativi e finanziari), A.P.R.I. (Associazione professionisti risanamento imprese), O.C.R.I. (Osservatorio crisi e risanamento delle imprese), 6 giugno 2014, cit. (119) Così A. Incollingo, La ristrutturazione del debito e le relazioni attestative nella prospettiva economico-aziendale, in Aa.Vv., Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, a cura di F. Paparella, cit., 953. (120) Nelle soluzioni alla crisi da sovraindebitamento il ruolo dell’organismo di composizione della crisi o del professionista è di «ausilio» alla proposizione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. Così l’art. 7 della legge n. 3/2012 sui presupposti di ammissibilità. (121) La crisi aziendale rappresenta generalmente la combinazione di eventi di diversa natura riconducibili a due tipologie di crisi, quella economica e quella finanziaria, ove nella prima si osserva un deterioramento della redditività dell’impresa, mentre nella seconda è presente uno squilibrio tra le fonti di finanziamento, un sproporzione di dipendenza dal capitale di terzi o un indebitamento eccessivo rispetto alla capacità dell’azienda di produrre flussi finanziari utili a colmare il livello dell’indebitamento. Così e per approfondimenti cfr. C. Pagliughi, Il contenuto della relazione attentatrice, in Aa.Vv., Il professionista attentatore: relazioni e responsabilità, Milano, 2014, 140 e 141. Il piano di risanamento generalmente deve essere articolato nei seguenti punti: i) cause della crisi aziendale, ii) strategia di rilancio dell’impresa e relativa tempistica, iii) interventi patrimoniali straordinari, iv) andamento reddituale prospettico, v) andamento finanziario prospettico, vi) scenari alternativi e fase di controllo consuntivo. (122) In particolare, l’art. 182 ter della legge fallimentare stabilisce al primo comma che «(…) se il piano ne prevede la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lett. d)».


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La tesi derogatoria è supportata ulteriormente dalla disciplina sul sovraindebitamento la quale, viceversa, mostra una maggiore coerenza prevedendo espressamente la soluzione liquidatoria (contenuta nella sezione II, capo II della legge n. 3/2012) per i soggetti non fallibili, quali gli imprenditori agricoli: pertanto l’organismo di composizione della crisi potrà apprezzare la proposta avanzata nell’accordo da sovraindebitamento rispetto alla alternativa della liquidazione (123). Detto diversamente, se l’accostamento «soddisfazione parziale da proposta/soddisfazione da liquidazione» rappresenta una ragionevole e pratica soluzione alla crisi, presente sia nel nuovo testo dell’art. 182 ter della legge fallimentare che nell’art. 12 della legge n. 3/2012, tuttavia nel caso dell’imprenditore agricolo mostra una maggiore coerenza all’interno della normativa sul sovraindebitamento, dimostrando come il carattere temporaneo e derogatorio dell’apertura alla transazione fiscale dei soggetti agricoli necessiti di una revisione (già in corso d’opera) (124). 9. Conclusioni. – La novella di cui al testo attuale dell’art. 182 ter della l.f. estende lo spazio di riduzione del debito tributario e aumenta le possibilità di accordo, stimolando una maggiore sensibilità degli uffici a definire accordi che garantiscono l’effettività della percezione almeno di una parte del debito. Il legislatore, come visto, ha scelto di ammettere alla ristrutturazione ex

(123) L’art. 12 della legge n. 3/2012 sulla omologazione dell’accordo prevede al secondo comma che «(…) Quando uno dei creditori che non ha aderito o che risulta escluso o qualunque altro interessato contesta la convenienza dell’accordo, il giudice lo omologa se ritiene che il credito può essere soddisfatto dall’esecuzione dello stesso in misura non inferiore all’alternativa liquidatoria disciplinata dalla sezione seconda. Si applicano, in quanto compatibili, gli artt. 737 e seguenti del codice di procedura civile (…)» Inoltre, lo stesso principio è riscontrabile all’interno della legge n. 3/2012 in relazione al piano del consumatore, in particolare all’art. 12 bis con riferimento alla omologazione del piano del consumatore e al comma 3 bis, lett. e) dell’art. 9 ove si afferma che alla proposta del piano del consumatore deve essere allegata la relazione dell’OCC il quale deve anche contenere «il giudizio sulla completezza e attendibilità della documentazione depositata dal consumatore a corredo della proposta, nonché sulla probabile convenienza del piano rispetto all’alternativa liquidatoria». (124) Il disegno di legge delega elaborato dalla Commissione presieduta da Renato Rordorf, in fase di approvazione parlamentare, stabilisce all’art. 2 il principio generale in base al quale lo stato di crisi o insolvenza deve essere accertato superando la distinzione tra imprenditore commerciale e agricolo, testualmente: «(…) assoggettare al procedimento di accertamento dello stato di crisi o di insolvenza ogni categoria di debitore, sia esso persona fisica o giuridica, ente collettivo, consumatore, professionista o imprenditore esercente un’attività commerciale, agricola o artigianale, con esclusione dei soli enti pubblici (…)».


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art. 182 bis e 182 ter della l.f. anche l’imprenditore agricolo nonostante la sua infallibilità ex art. 1 della l.f.; ciò potrebbe avere due diverse ragioni: rispondere alla valenza sociale nell’economia nazionale dell’agricoltura nonché essere coerente alla circostanza che la fallibilità dell’imprenditore agricolo non esclude che i proventi dell’impresa agricola assumano natura di reddito di impresa (commerciale) qualora siano superati i limiti stabiliti dall’art. 32 del T.U.I.R. n. 917/1986. L’innesto del contribuente imprenditore agricolo non fallibile all’interno del novero soggettivo della transazione fiscale esonera, nel concreto della procedura, da analizzare e dimostrare una serie di caratteri patrimoniali e finanziari altrimenti necessari ma non è scevro dalla problematica di una ricostruzione documentale e di una proposta di rientro documentata contabilmente e con bilanci preventivi e rendiconti finanziari ad hoc. In questo pare risiedere, al momento, la criticità del rapporto tra le regole della transazione fiscale dettate per l’imprenditore fallibile e per l’imprenditore fiscalmente commerciale e la realtà dell’impresa agricola anche grande; un esempio per tutti: come definire il parametro di riferimento del valore di liquidazione fallimentare come elemento di valutazione comparativa rispetto a quanto proposto? Senza dubbio l’Agenzia delle Entrate e gli Ordini professionali dovranno onerarsi di dare delle guide lines in merito. Tale adeguamento dovrà senz’altro coordinarsi con la recentissima legge 155/2017 mediante la quale si dà delega al Governo per riformare la disciplina dell’impresa e dell’insolvenza delineando dei principi fondamentali ai quali attenersi: emerge la volontà del legislatore di annoverare nelle soluzioni alla crisi “ogni categoria di debitore” ivi comprendendo anche l’imprenditore esercente un’attività agricola (125). Inoltre, si sottolinea che i decreti attuativi dovranno recepire ed elaborare una procedura di allerta e di composizione assistita della crisi avente natura non giudiziale e confidenziale, rivolta a cogliere quanto prima possibile la crisi del debitore, anche attraverso l’ausilio della Agenzia delle Entrate e della Riscossione e degli enti previdenziali con segnalazione agli organi di

(125) Così stabilisce la lett. e) del primo comma dell’art. 2 della L. 155/2017: “assoggettare al procedimento di accertamento dello stato di crisi o di insolvenza ogni categoria di debitore, sia esso persona fisica o giuridica, ente collettivo, consumatore, professionista o imprenditore esercente un’attività commerciale, agricola o artigianale, con esclusione dei soli enti pubblici, disciplinando distintamente i diversi esiti possibili, con riguardo all’apertura di procedure di


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controllo della società o ad appositi organismi da istituire presso le Camere di commercio (126).

Valerio Ficari, Paolo Barabino

regolazione concordata o coattiva, conservativa o liquidatoria, tenendo conto delle relative peculiarità soggettive e oggettive e in particolare assimilando il trattamento dell’imprenditore che dimostri di rivestire un profilo dimensionale inferiore a parametri predeterminati, ai sensi dell’articolo 1 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, a quello riservato a debitori civili, professionisti e consumatori, di cui all’articolo 9 della presente legge”. (126) L’art. 4 della L. 155/2017, rubricato “Procedure di allerta e di composizione assistita della crisi” prevede alla lett. d) del primo comma che tale fase deve “imporre a creditori pubblici qualificati, tra cui in particolare l’Agenzia delle entrate, gli enti previdenziali e gli agenti della riscossione delle imposte, l’obbligo, a pena di inefficacia dei privilegi accordati ai crediti di cui sono titolari o per i quali procedono, di segnalare immediatamente agli organi di controllo della società e, in ogni caso, all’organismo di cui alla lettera b), il perdurare di inadempimenti di importo rilevante; definire l’inadempimento di importo rilevante sulla base di criteri non assoluti ma relativi, come tali rapportati alle dimensioni dell’impresa, che considerino, in particolare, l’importo non versato delle imposte o dei contributi previdenziali autodichiarati o definitivamente accertati e, in ogni caso, siano tali da assicurare l’anticipata e tempestiva emersione della crisi in relazione a tutte le imprese soggette alle procedure di cui al presente articolo; prevedere che il creditore pubblico qualificato dia immediato avviso al debitore che la sua esposizione debitoria ha superato l’importo rilevante di cui alla presente lettera e che effettuerà la segnalazione agli organi di controllo della società e all’organismo di cui alla lettera b), se entro i successivi tre mesi il debitore non abbia attivato il procedimento di composizione assistita della crisi o non abbia estinto il debito o non abbia raggiunto un accordo con il creditore pubblico qualificato o non abbia chiesto l’ammissione ad una procedura concorsuale”.


“Venir meno” della parte e proroghe dei termini nella disciplina del processo tributario Sommario: 1. Premessa. – 2. Linee generali dell’istituto della proroga dei termini per

ricorrere. – 3. La regola dettata in materia di accertamento delle imposte sui redditi. – 4. La (nuova) disciplina dei rapporti tributari tra amministrazione finanziaria e società estinte. – 5. Conclusioni. La proroga dei termini per ricorrere innanzi alle Commissioni tributarie è disciplinata dall’art. 40, comma 4, della legge processuale tributaria. Su di essa rischiano di impattare le previsioni dell’art. 65, comma 3, DPR 29 settembre 1973, n.600, e dall’art. 28, comma 4, del D.lgs. 21 novembre 2014, n.175, relativi rispettivamente alla proroga dei termini per impugnare gli atti di accertamento delle imposte sui redditi e ai rapporti tributari tra amministrazione finanziaria e società. Si analizzano i rapporti con tali norme al fine di escluderne l’incidenza sulla prima. The extension of the terms for the appeal to the Tax Commissions is governed by article 40, paragraph 4, of the tax litigation law. But there are two norms that risk impacting on it: the provisions of Article 65, paragraph 3, of DPR 29th of September 1973, No. 600, and of Article 28, paragraph 4, of D.lgs. 21st of November 2014, n.175, relating respectively to the extension of the terms for the appeal against the tax assessments on income and the tax relations between the financial administration and the companies. The relationships among these norms are analyzed in the work in order to exclude the impact on the first one.

1. Premessa. 1.1. L’art. 40, comma 4, D.lgs. 31 dicembre 1992, n.546 prevede che, se uno degli eventi che causano l’interruzione del processo nei confronti della parte, si verifica durante la pendenza del termine per ricorrere, quest’ultimo è prorogato di sei mesi a decorrere dalla data dell’evento. Più esattamente: esso fa riferimento agli eventi, che causano l’interruzione del processo, previsti dalla lettera a) del comma 1 dell’art. 40 cit., che riguardano la parte diversa dall’ufficio tributario, ossia «il venir meno, per morte o


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altre cause, o la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti … o del suo legale rappresentante o la cessazione di tale rappresentanza»; mentre non rilevano gli eventi di cui alla lettera b) dello stesso comma, che pure causano l’interruzione, ossia «la morte, la radiazione o sospensione dall’albo o dall’elenco di uno dei difensori incaricati …». 1.2. Degli eventi che danno luogo alla proroga del termine per ricorrere meritano attenzione quelli riconducibili al «venir meno della parte, per morte o altre cause», giacché in relazione alla perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo legale rappresentante o alla cessazione di tale rappresentanza (si pensi all’interdizione, all’inabilitazione, ma anche, quanto ai rapporti patrimoniali, al fallimento, visto che l’art. 43 della legge fallimentare – aggiunto dall’art. 41 D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, dispone che «l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo») possono richiamarsi disciplina ed esperienze del codice di rito, non soltanto per la vicinanza dei contenuti (in particolare, con l’art. 299 cod. proc. civ.), ma anche per il richiamo espresso di cui all’art. 1, comma 2, D.lgs. 546/1992, ai sensi del quale «i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile» (1). In verità, anche per il venir meno della parte si può attingere al codice di procedura civile, dal momento che l’art. 40. comma 1, lett. a), D.lgs. 546/1992, richiamando il suo venir meno, «per morte o altre cause», esplicita quanto nel codice di rito si evince dalla lettura congiunta dell’art. 110 (che si riferisce al venir meno per morte o per altra causa) e dell’art. 299, comma 1 (che si riferisce alla morte) (2). Solo che, accanto alla previsione di cui

(1) Così, il riferimento per entrambi i processi, civile e tributario, alla rappresentanza legale, esclude che rilevi la perdita di capacità processuale del rappresentante volontario, quale può essere un mandatario o un amministratore; ma con riferimento ad associazioni e comitati privi di personalità giuridica si discute se possano dar luogo ad interruzione la morte o la sopravvenuta incapacità del legale rappresentante dell’ente, almeno quando lo statuto non preveda un meccanismo che ne assicuri la continuità della rappresentanza e la regolare prosecuzione del giudizio: cfr. ad esempio, anche per i riferimenti, A. Saletti, Interruzione del processo in Enc. Giur. Treccani, 1983, 5; D. Dalfino, La successione tra enti nel processo, Torino, 2002, 63 ss. (2) In verità, va dato atto che vi sono posizioni, eminentemente dottrinali, per le quali l’estinzione della società, pur dando luogo a successione, non darebbe luogo all’interruzione del processo civile, riferendosi l’art. 299 cod. proc. civ. alla morte (cfr., ad esempio: D. Dalfino,


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all’art. 40 cit., di cui si è detto, esistono altre disposizioni tributarie che ad essa derogano o sembrano derogare, per lo meno prima facie: si tratta dell’art. 65, comma 3, DPR 29 settembre 1973, n.600, e dell’art. 28, comma 4, del D.lgs. 21 novembre 2014, n.175 (3). 1.3. Di certo, non si vogliono analizzare in questa sede gli eventi – comuni ad entrambi i processi, civile e tributario – che si ricomprendono nel «venir meno» della parte, vale a dire la morte, che può essere reale o presunta, cui si affiancano la scomparsa per le persone fisiche (4) e l’estinzione per gli enti. Semmai va detto che quanto all’estinzione delle società, il problema si è posto essenzialmente dopo l’affermazione della valenza estintiva della cancellazione dal registro delle imprese (in luogo della sopravvivenza fino

“Venir meno” della società e processi pendenti in Le Società, 2014, 1227 ss., 1235 ss., ove si ripropongono, attualizzate, le interessanti e più ampie conclusioni di Id, La successione tra enti nel processo, cit., 167 ss.; C. Spaccapelo, Brevi note sul fenomeno successorio nel giudizio di Cassazione in Riv. Dir. Proc., 2013, 211 s.): di esse non è evidentemente predicabile l’estensione al processo tributario dal momento che l’art. 40, comma 1, D.lgs. 546/1992 riferisce l’interruzione al «venir meno, per morte o altre cause … di una delle parti»; e, semmai, da quest’ultima previsione si può trarre un argomento – ma esula dagli scopi del presente lavoro – per confutare le predette posizioni, quanto meno nella loro generalizzazione. Già nel previgente processo tributario l’estinzione dell’ente veniva assimilata alla «morte della parte», alla quale soltanto l’art. 31, comma 1, DPR 636/1972 faceva riferimento: cfr., per tutti, C. Glendi, Art. 31. Morte o incapacità delle parti o del rappresentante in Glendi, Commentario delle leggi sul contenzioso tributario, Milano, 1990, 699 s. (3) Il carattere eccezionale della previsione di cui all’art. 65, comma 3, DPR 600/1973 è stato di recente ribadito dalla Corte di Cassazione (ordinanze nn. 18424 del 26 luglio 2017, 18792 del 28 luglio 2017), sia pure con riferimento alla dichiarazione integrativa del condono ex art. 26 DL 10 luglio 1982, n. 429, come convertito dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, ma a valere nei confronti di eredi e chiamati all’eredità (non anche del curatore fallimentare). Di tenore analogo, ma con riferimento alla proroga del termine per ricorrere, di cui al medesimo comma, una datata pronuncia della Cassazione (4 agosto 1992, n. 9246), che appunto di essa esclude l’applicazione in materia di IVA (nel caso deciso si dice che «è applicabile la disposizione generale contenuta nell’art. 31 DPR 26 ottobre 1972, n. 636 e che non può certo esser stata sostituita da una norma relativa ad uno specifico settore»). (4) Si ricorda che la Corte Costituzionale ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale degli artt. 75 e 300 cod. proc. civ. nella parte in cui non prevedono, ove emerga una situazione di scomparsa del convenuto, la interruzione del processo e la segnalazione, ad opera del giudice, del caso al Pubblico Ministero perché promuova la nomina di un curatore, nei cui confronti debba l’attore riassumere il giudizio»: così la sentenza 16 ottobre 1986, n. 220, della cui riferibilità anche al processo tributario non dovrebbe dubitarsi, come rileva ad esempio A. Marcheselli, Art. 40 D.lgs. 546/1992, in Commentario breve alle leggi sul processo tributario a cura di Consolo-Glendi, Padova, 2017, 563 s.


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all’estinzione dei rapporti pendenti, compresi quelli processuali, in precedenza sostenuta) ad opera, principalmente, delle importanti sentenze delle Sezioni unite della Cassazione nn.4060/4061/4062 del 22 febbraio 2010 e, soprattutto, nn.6070/6071/6072 del 12 marzo 2013 (5). Mentre per le operazioni societarie straordinarie è da ritenere che solo nella scissione totale venga meno un soggetto (la scissa), con conseguenti possibili: interruzione del processo, cui di solito si guarda (innanzi tutto nel processo civile) (6); ma anche, ai fini che

(5) Si tratta di due gruppi di sentenze gemelle, piuttosto note, pubblicate e commentate in varie riviste (ad esempio, la 4061/2010 è pubblicata in NGCC 2010, I, p. 541 ss., ove M. De Acutis, Le sezioni unite e il comma 2° dell’art. 2495 cod. civ., ovvero tra obiter dicta e contrasti (forse) soltanto apparenti, ivi, II, 260 ss.; Cass.6070/2013 è pubblicata in Le società 2013, 537, ove F. Fimmanò, Il commento, ivi, 542 ss., e G. Guizzi, Le Sezioni Unite, la cancellazione delle società e il “problema” del soggetto: qualche considerazione critica, ivi, 559 ss.). Tali pronunce acquistano un significato notevole, perché nonostante la chiara previsione del novellato art. 2495 cod. civ. (in forza della quale la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese ne determina l’estinzione, ha cioè ha una valenza costitutiva dell’estinzione), la giurisprudenza con difficoltà si è liberata delle proprie pregresse posizioni – già sotto la vecchia disciplina discutibili (ed è la stessa giurisprudenza a dare atto delle critiche) – per le quali la cancellazione dal registro delle imprese non valeva a provocare l’estinzione della società, se e fintanto che tutti rapporti giuridici alla stessa facenti capo non fossero definiti (si attribuiva, cioè, alla cancellazione una valenza soltanto dichiarativa dell’estinzione). I contrasti giurisprudenziali venutisi a creare, anche all’interno della stessa Corte di Cassazione, sono stati significativamente composti, nel senso della valenza costitutiva (dell’estinzione) della cancellazione, dalle citate pronunce delle Sezioni Unite del 2010 e, risolutivamente, del 2013. Sul tema dell’estinzione delle società, anche in conseguenza della svolta compiuta dalla Cassazione, si registrano numerosi contributi, tra i quali: D. Dalfino, La cancellazione della società dal registro delle imprese, Torino, 2017; AA. VV. Estinzione degli enti cancellati dai registri, Milanofiori Assago, 2017; G. Buccarella, La cancellazione della società dal Registro delle imprese, Milano, 2015; M. Verbano, Estinzione di società (società di persone) in Dig. Disc. Priv. Sez. Comm., Agg., 2015, p. 280 ss.; A. Zorzi, La cancellazione delle società di capitali, Milano, 2014; V. Sanna, Cancellazione ed estinzione nelle società di capitali, Torino, 2013; G. Positano, L’estinzione delle società per azioni fra tutela del capitale e tutela del credito, Milano, 2012. (6) Anche se accade spesso che la società avente causa succeda alla scissa-dante causa senza che il processo si interrompa (tra i pochi casi di interruzione si veda, ad esempio, TAR Napoli 2 novembre 2005, n. 18230), riconducendosi la successione ad una precisa scelta negoziale ben nota alle società aventi causa. Nella scissione parziale, invece, non si ha interruzione del processo, giacché la società scissa rimane in vita e semmai le altre beneficiarie, se titolari dei diritti controversi, possono intervenire o essere chiamate nel processo. Nel senso che le scissioni originino fenomeni successori, si vedano ad esempio: D. Dalfino, “Venir meno” della società e processi pendenti, cit., 1229 s.; C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali, Torino, 2015, 126 ss.; G. Rescio, Art. 2506. Forme di scissione in Le società per azioni a cura di Abbadessa-Portale, Milano, 2016, II, 3440 s. In verità, per le scissioni di società si registrano anche recenti letture favorevoli ad una concezione


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qui interessano, proroga del termine per ricorrere innanzi al giudice tributario. Si vuole, invece, procedere ad una lettura congiunta dell’art. 40, comma 4, cit. con le due altre previsioni tributarie, di cui si è detto; le quali presentano contenuti ed ambiti di operatività peculiari. Infatti: per l’art. 65, comma 3, DPR 600/1973, che riguarda le imposte sui redditi, «tutti i termini pendenti alla data della morte del contribuente o scadenti entro quattro mesi da essa, compresi il termine per la presentazione della dichiarazione e il termine per ricorrere contro l’accertamento, sono prorogati di sei mesi in favore degli eredi»; per l’art. 28, comma 4, D.lgs. 175/2014, che impatta sui rapporti tra amministrazione finanziaria e società, «ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese». In tal modo, e ripercorrendo la disciplina della proroga del termine per fare ricorso, si può fare chiarezza su aspetti poco o per nulla affrontati da in-

evolutiva dell’ente (cfr. ad esempio: Cass. 13 aprile 2012, n.5874; M. F. Ghirga, Interruzione del processo in Commentario del Codice di Procedura Civile a cura di Chiarloni, Bologna, 2014 p. 118 s.), che si riorganizzerebbe in più società, ossia in direzione opposta rispetto a quanto accade nella fusione; si tratta, però, di letture che sono “influenzate” da quelle che riguardano la fusione e che non sembrano considerare adeguatamente alcune peculiarità proprie delle scissioni. Senza voler mettere in discussione le visioni sostanzialistiche delle operazioni straordinarie, per le quali comunque si nutrono riserve da più parti, non si può sottacere che per le scissioni è difficile legare l’identità giuridica a quella economica (soprattutto in presenza di società con una sola azienda o prive di azienda o nelle quali si creino ex novo delle aziende) e piuttosto emergono problemi tipici dei fenomeni successori, che la reductio ad unitatem propria della fusione, non pone o comunque consente di risolvere uno sensu. Possono dirsi ormai superate le posizioni che nelle fusioni societarie, sia paritarie che per incorporazione, individuavano vicende estintive e conseguenti cause interruttive del processo, ritenendosi da parte della giurisprudenza prevalente che in forza del nuovo art. 2504 bis cod. civ., come modificato nel 2003 a seguito della riforma del diritto societario, la fusione sia diventata «una vicenda meramente evolutiva-modificativa dello stesso soggetto, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo» (così, ad esempio, Cass. SS. UU. 2637/2006, cit.). Per una sintesi delle posizioni, dottrinali e giurisprudenziali, prima e dopo la riforma del diritto societario, cfr.: F. Santagada, Fusione e cancellazione di società e vicende del processo (parte I e parte II) in Giusto proc. civ. 2010, 281 ss. e 577 ss. (ove, pur apprezzandosi la svolta della giurisprudenza, si conclude per una soluzione “intermedia”, qualificando la fusione «un’operazione complessa, caratterizzata dalla coesistenza del profilo modificativo-successorio con quello estintivo»: così 590 s.); M. F. Ghirga, Interruzione del processo, cit., 103 ss.; A. Genovese, Art. 2504 bis. Effetti della fusione in Le società per azioni a cura di AbbadessaPortale, Milano, 2016, II, 3352 ss.


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terpreti e operatori, nonostante assumano grande rilevanza pratica, oltre che teorico-sistematica. E si aggiunge, con riferimento alla seconda delle due disposizioni richiamate, che trattasi di aspetti di grande attualità, non risultando ancora della stessa significative applicazioni. 2. Linee generali dell’istituto della proroga dei termini per ricorrere. 2.1. La proroga del termine per ricorrere, a dispetto della sua collocazione, nell’art. 40 cit., e della rubrica dell’articolo in cui è inserita, non fa parte dell’interruzione del processo tributario, intervenendo prima che il processo abbia inizio (7); e l’estraneità all’interruzione è confermata anche dalla sua origine nel previgente contenzioso (8), ove non operava l’interruzione (9).

(7) La sua collocazione in un articolo dedicato all’interruzione del processo, forse giustificabile dalla parziale comunanza dei fatti genetici, esigerebbe almeno un’integrazione della rubrica dell’art. 40 cit.: «interruzione del processo e proroga del termine per proporre ricorso». (8) L’art. 31, comma 1, DPR 636/1972 così disponeva: «Il termine per la proposizione del ricorso e tutti gli altri termini processuali pendenti alla data della morte della parte o del suo rappresentante o alla data della sentenza esecutiva che ne abbia dichiarato l’incapacità, sono prorogati di sei mesi a decorrere da tale data». Per ulteriori precedenti si rinvia a C. Glendi, La proroga dei termini per morte (o dichiarata incapacità) delle parti (o dei loro rappresentanti) nel processo tributario in Rass. Trib. 1987, I, 540 s. (9) Si ricorda, infatti, che l’interruzione del processo tributario è una novità del D.lgs. 546/1992, non trovando applicazione nel previgente processo tributario, di cui al DPR 636/1972 (ex plurimis G. Tinelli, Sospensione ed interruzione del processo tributario in Il nuovo processo tributario a cura di Miscali, Milano, 1996, 154 s.), anche se con l’anomalia (segnalata, ad esempio, da C. Glendi, La proroga dei termini per morte (o dichiarata incapacità) delle parti (o dei loro rappresentanti) nel processo tributario, cit., 539 e nota 10) che l’interruzione potesse comunque aver luogo, qualora il terzo grado si svolgesse innanzi alla Corte d’appello. Sulla proroga del termine per ricorrere si vedano di recente, anche per i riferimenti, A. Marcheselli, Art.40 D.lgs. 546/1992, cit., 569; A. Gaffuri, Art. 40 D.lgs. 546/1992 in Codice commentato del processo tributario a cura di Tesauro, Torino, 2016, 612. Di regola, però, come accade nei lavori citati, della proroga si tratta nell’ambito degli studi sull’interruzione del processo tributario, peraltro dedicandovi scarsa attenzione (mentre l’istituto della proroga del termine per ricorrere era destinatario di una specifica attenzione nella disciplina del previgente contenzioso: si veda per tutti C. Glendi, La proroga dei termini per morte (o dichiarata incapacità) delle parti (o dei loro rappresentanti) nel processo tributario, cit., 537 ss.). Sull’interruzione del processo tributario si vedano ad esempio: F. Tesauro, Manuale del processo tributario, 2016, 171 ss.; M. Cantillo, Il processo tributario, Napoli, 2014, 265 ss.; P. Russo, Le vicende incidenti sul corso del processo in Manuale di diritto tributario. Il processo tributario a cura di Russo, Milano, 2013, 253 ss.; G. Marini, Le vicende anomale del processo in Il processo tributario a cura di Della Valle-Ficari-Marini, Padova, 2008, 512 ss.; G. Galluzzi, Articolo 40 in Il nuovo processo tributario. Commentario a cura di BaglioneMenchini-Miccinesi, Milano, 2004, 420 ss.; E. Della Valle, Sospensione, interruzione ed estinzione del processo in Il processo tributario a cura di Tesauro, 1998, 617 ss.; G. Tinelli,


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Essa richiede due condizioni: che penda il termine per ricorrere, ossia che l’atto sia stato notificato e non sia scaduto il termine per impugnarlo; che il destinatario dell’atto venga meno proprio durante la pendenza di detto termine. E comporta che il termine viene incrementato di sei mesi, assumendo così una nuova scadenza, che è calcolata «a decorrere dalla data dell’evento». In ciò è evidente la differenza con gli istituti, vicini, dell’interruzione e della sospensione dei termini, anch’essi incidenti sulla cd. distantia temporis, nei quali invece il termine rimane immutato nella durata, ma: inizia a decorrere da capo, in caso di interruzione; non decorre durante il periodo di sospensione e riprende per la parte residua, finito il predetto periodo (10). In forza dell’ultimo periodo dell’art. 40, comma 4, cit., la proroga soggiace alla sospensione feriale (11); ma siffatta previsione è evidentemente pleonastica, pervenendosi allo stesso risultato anche in difetto di essa, visto che la proroga incide sulla natura (processuale) del termine per ricorrere e non si dubita che ad esso si applichi la sospensione feriale (12) (del resto, così si riteneva nella vigenza del vecchio contenzioso per i termini di cui all’art. 31, comma 1, DPR 636/1972, nonostante ivi non si menzionasse la sospensione feriale (13)). E, del pari, trovano applicazione le altre cause di sospensione del termine per proporre il ricorso: così se l’erede propone istanza di accertamen-

Sospensione ed interruzione del processo tributario, cit., 154 ss. (10) Sulle distinzioni tra gli istituti della proroga, dell’interruzione e della sospensione dei termini si rimanda in via meramente esemplificativa a: G. Tarzia, La sospensione dei termini processuali nel periodo feriale in Riv. Dir. Proc. 1965, 597 s. e nota 20; N. Picardi, Dei termini in Commentario al codice di procedura civile diretto da Allorio, I, Torino, 1973, 1552 ss. e nota 6; C. Glendi, La proroga dei termini per morte (o dichiarata incapacità) delle parti (o dei loro rappresentanti) nel processo tributario, cit., 540 ss. e nota 15. (11) L’art. 40 richiama, infatti, la legge 7 ottobre 1969, n. 742, di cui rileva l’art. 1 (modificato dal comma 1 dell’art. 16 del DL 12 settembre 2014, n. 132, come convertito dalla legge 10 novembre 2014, n. 162). (12) Già N. Picardi, Dei termini, cit., 1564 ss. ai fini della definizione dell’ambito di applicazione della sospensione feriale qualificava processuali, «in quanto destinati a produrre i loro effetti sul processo», i termini di decadenza entro cui promuovere azioni costitutive; e tale posizione è generalmente condivisa, come risulta ad esempio da C. Glendi, La proroga dei termini per morte (o dichiarata incapacità) delle parti (o dei loro rappresentanti) nel processo tributario, cit., 546 s. (13) Si vedano, ad esempio: C. Glendi, La proroga dei termini per morte (o dichiarata incapacità) delle parti (o dei loro rappresentanti) nel processo tributario, cit., 547; Id., Art. 39. Noma di rinvio in Glendi, Commentario delle leggi sul contenzioso tributario, Milano, 1990, 904 s.


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to con adesione durante la pendenza del termine come prorogato, quest’ultimo è sospeso di novanta giorni dalla presentazione dell’istanza (14). 2.2. La proroga riguarda i termini per proporre ricorso innanzi alle Commissioni tributarie, a prescindere dalla natura, provvedimentale o meno, dell’atto che si impugna. E riguarda anche il termine per impugnare il rifiuto tacito di restituzione, che decorre «dopo il novantesimo giorno dalla domanda di restituzione … fino a quando il diritto alla restituzione non è prescritto» ex art. 21, comma 2, D.lgs. 546/1990; mentre non riguarda il termine per la formazione del rifiuto tacito, che non attiene alla proposizione della domanda di tutela giurisdizionale, come peraltro da più parti e già da tempo rilevato (15). Non vi è motivo per non riferire la proroga del termine per ricorrere anche all’impugnazione di quegli atti che, ancorché non compresi tra quelli ex lege impugnabili innanzi al giudice tributario (di cui essenzialmente all’art. 19 D.lgs. 546/1992), ormai si ritengono pacificamente impugnabili da parte della giurisprudenza, visto che il termine condiziona comunque l’accesso alla tutela giurisdizionale (ancorché dalla mancata impugnazione dell’atto possa non conseguirne la consolidazione degli effetti) e a seconda dell’atto impugnato cambia il tipo di tutela che il contribuente ottiene o può avere interesse ad ottenere (16).

(14) Cfr. artt. 6, comma 3, e 12, comma 2, D.lgs. 19 giugno 1997, n. 218. E, più di recente, nel senso della cumulabilità della predetta sospensione con quella feriale si veda anche l’art. 7 quater, comma 18, DL 22 ottobre 2016, n. 193, aggiunto in sede di conversione dalla legge 1 dicembre 2016, n. 225: «i termini di sospensione relativi alla procedura di accertamento con adesione si intendono cumulabili con il periodo di sospensione feriale dell’attività giurisdizionale». (15) Cfr., ad esempio, C. Glendi, Art. 39. Noma di rinvio, cit., 905, ove riferimenti. (16) Non è certamente questa la sede per affrontare il tema degli atti impugnabili innanzi alle Commissioni tributarie, che probabilmente esigerebbe una trattazione ad hoc. Non si può, però, sottacere che nel momento in cui per il diritto vivente si ritengono impugnabili atti notevolmente diversi da quelli contemplati dall’art. 19, comma 1, D.lgs. 546/92, movendo semplicemente o prevalentemente dall’assunto che il contribuente, avendovi interesse, può impugnare innanzi al giudice tributario tutti gli atti dell’amministrazione finanziaria che manifestino una «compiuta e definita pretesa» della stessa o siano «comunque incidenti sul rapporto obbligatorio tributario», ancorché privi della «forma autoritativa propria di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili», si apre la strada ad azioni di mero accertamento nel processo tributario (che, probabilmente, contribuiscono e contribuiranno a riscriverne l’oggetto). I passi riprodotti sono tratti da Cass. 8 ottobre 2007, n. 21045, ma dello stesso tenore sono numerose altre sentenze, quali: Cass. SS.UU. 27 marzo 2007, n. 7388; Cass. 12 maggio 2010, n. 11457; Cass. 17 dicembre 2010, n. 25591; Cass. 15 aprile 2011, n. 8663; Cass.


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2.3. Che l’art. 40, comma 4, D.lgs. 546/1992 si riferisca sic et simpliciter al «termine per la proposizione del ricorso» e che l’art. 61 D.lgs. 546/1992 richiami in appello le norme dettate per il procedimento di primo grado (17) (tra le quali vi è anche l’art. 40 cit.), significa che la proroga in esame riguarda anche il termine per ricorrere in appello. Mentre, non sembra condivisibile: richiamare – come pure si fa – in pendenza del termine per impugnare altra previsione di proroga, quella di cui all’art. 328, comma 3, cod. proc. civ. di «sei mesi dal giorno dell’evento»; e di conseguenza riferire quella di cui all’art. 40, comma 4, cit. soltanto al ricorso in primo grado (18). Infatti, la proroga prevista dal codice di rito è di dubbia compatibilità con la disciplina del processo tributario, già ai sensi dell’art. 1, comma 2, D.lgs.

11 maggio 2012, n. 7344; Cass. SS. UU. 18 febbraio 2014, n. 3773; Cass. SS. UU. 19 giugno 2015, n. 12760; Cass. SS. UU. 2 ottobre 2015, n. 19704; Cass. 19 febbraio 2016, n. 3315; Cass. 5 giugno 2017, n. 13963. Siffatte azioni (di accertamento) si pongono su di un piano diverso rispetto a quello delle più consuete azioni costitutive: tant’è che sono ammesse dalla giurisprudenza solo in presenza di un sufficiente interesse a ricorrere. Non è facile, né è stato sviluppato dalla giurisprudenza, il raccordo tra questi due tipi di azioni e di tutele, che possono anche concorrere (si pensi al rapporto tra l’impugnazione della comunicazione di irregolarità ex art. 36 bis DPR 600/1973 e quella della successiva iscrizione a ruolo); rischia, però, di essere foriero di equivoci il riferimento – talora effettuato in dottrina e in giurisprudenza – alla cd. impugnazione facoltativa, giacché il contribuente che, avendovi interesse, non impugni l’atto in qualche modo anticipatorio del successivo provvedimento, perde pur sempre l’opportunità di una diversa tutela, per quanto non subisca il consolidamento degli effetti dell’atto. Tra i contributi dottrinali sul tema si segnalano: G. Fransoni, Spunti ricostruttivi in tema di atti impugnabili nel processo tributario, in Riv. Dir. Trib. 2012, I, 979 ss.; G. Cipolla, Processo tributario e modelli di riferimento: dall’onere di impugnazione all’impugnazione facoltativa, in Riv. Dir. Trib. 2012, I, 967 ss. E, più di recente, si vedano, anche per i riferimenti: C. Glendi, Art. 19 D.lgs. 546/1992, in Commentario breve alle leggi sul processo tributario a cura di Consolo-Glendi, Padova, 2017, pp. 304 ss., 326 ss.; P. Puri, Riflessioni sul profilo oggettivo dei limiti interni della giurisdizione tributaria, in Dir. Prat. Trib., 2017, 1027 ss. (17) Esso dispone che «nel procedimento d’appello si osservano in quanto applicabili le norme dettate per il procedimento di primo grado, se non sono incompatibili con le disposizioni della presente sezione». (18) Di recente e quali esempi delle due posizioni riferite nel testo (applicazione dell’art. 40, comma 4, D.lgs. 546/1992 ovvero dell’art. 328, comma 3, cod. proc. civ.) si vedano, nell’ordine: A. Gaffuri, Art. 40 D.lgs. 546/1992, cit., 612; G. Marcheselli, Art. 40 D.lgs. 546/1992, cit., 569. Il problema si poneva anche sotto la vigenza del DPR 636/1972 in relazione alla previsione di cui all’art. 31, comma 1: ne dà conto C. Glendi, La proroga dei termini per morte, cit., 546 s., che propende per la soluzione dell’estensione della disciplina dell’art. 31, comma 1, cit., tranne che all’impugnazione della sentenza resa dalla Corte d’appello, rientrante a pieno titolo nell’ambito di operatività dell’art. 328 cod. proc. civ.


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546/1992. Inoltre, la sua applicazione non conduce più a risultati sostanzialmente fungibili per chi succede all’appellato venuto meno, dal momento che essa presuppone il decorso di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza e che in forza dell’abbreviazione nel 2009 del termine per impugnare (di cui all’art. 327 cod. proc. civ.), appunto a sei mesi, di essa risulta vanificata l’applicazione: tant’è che del comma 3 dell’art. 328 cod. proc. civ. si sostiene la tacita abrogazione (19). 3. La regola dettata in materia di accertamento delle imposte sui redditi. 3.1. Che la proroga ex art. 40 D.lgs. 546/1992 abbia carattere generale, vale a dire riguardi qualunque ricorso innanzi alle Commissioni tributarie, non è in discussione. Tuttavia, è altrettanto evidente che con la previsione de qua impattano, o rischiano di impattare, le altre previsioni tributarie di diverso tenore, di cui si è detto (20), che occorre a questo punto esaminare partitamente. 3.2. S’inizia dall’art. 65, comma 3, DPR 600/1973, per il quale – si ricorda – sono prorogati di sei mesi in favore degli eredi tutti i termini in materia di imposte sui redditi «compresi il termine per la presentazione della dichiarazione e il termine per ricorrere contro l’accertamento». Esso proroga sia i termini pendenti alla morte che quelli scadenti entro quattro mesi da essa: «compresi il termine per la presentazione della dichiarazione e il termine per ricorrere contro l’accertamento» (21). E in dottrina si osserva che esso impat-

(19) Si ricorda, infatti, che l’art. 328, comma 3, cod. proc. civ. stabilisce che «se dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza si verifica alcuno degli eventi previsti nell’articolo 299, il termine di cui all’articolo precedente è prorogato per tutte le parti di sei mesi dal giorno dell’evento»; ma anche che il termine lungo per impugnare, di cui all’art. 327 cod. proc. civ., originariamente di un anno è stato abbreviato a sei mesi dall’art. 46, comma 17, della legge 18 giugno 2009, n. 69. Ne discende che se sono decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, questa è già passata in giudicato. E, appunto, in dottrina si osserva che «ridurre interpretativamente a tre mesi il termine dell’art. 328, ultimo comma, appare impossibile (avrebbe dovuto farlo il legislatore, quale pendant dell’intervento sull’art. 327), sicché la soluzione più ragionevole ci pare quella di ritenere abrogata la norma in esame, confidando che – nel tempo necessario ad un intervento riparatore del legislatore o della Consulta – le esigenze ad essa sottese possano trovare protezione a mezzo di una consapevole applicazione della rimessione in termini»: così C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Torino, 2013, 286. Perplessità sull’operatività della norma de qua sono espresse da Cass. SS. UU. 4 luglio 2014, n. 15295. (20) Supra paragrafo 1. (21) Si ripropone per completezza il testo dell’art. 65 DPR 600/1973 (come modificato


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terebbe sul termine per impugnare l’avviso di accertamento anche laddove proroghi i termini scadenti entro quattro mesi dalla morte (22); mentre laddove esso proroga i termini pendenti, tra i quali quello per impugnare l’avviso di accertamento, coincide nella sostanza con la previsione di cui all’art. 40, comma 4, D.lgs.546/1992, come già coincideva con quella dell’art. 31, comma 1, DPR 636/1972. Più esattamente, si dice che se l’avviso di accertamento viene notificato collettivamente ed impersonalmente agli eredi, come consente il comma 4 dell’art. 65 cit., entro quattro mesi dalla morte, gli eredi godrebbero della proroga semestrale di cui all’art. 65, comma 3, cit. (23): si fa l’esempio, appunto, del contribuente che decede il 30 settembre e dell’avviso di accertamento no-

dall’art. 8, comma 1, lett. d), D.lgs. 9 luglio 1997, n. 241): «Gli eredi rispondono in solido delle obbligazioni tributarie il cui presupposto si è verificato anteriormente alla morte del dante causa. Gli eredi del contribuente devono comunicare all’ufficio delle imposte del domicilio fiscale del dante causa le proprie generalità e il proprio domicilio fiscale. La comunicazione può essere presentata direttamente all’ufficio o trasmessa mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, nel qual caso si intende fatta nel giorno di spedizione. Tutti i termini pendenti alla data della morte del contribuente o scadenti entro quattro mesi da essa, compresi il termine per la presentazione della dichiarazione e il termine per ricorrere contro l’accertamento, sono prorogati di sei mesi in favore degli eredi. I soggetti incaricati dagli eredi, ai sensi del comma 2 dell’articolo 12, devono trasmettere in via telematica la dichiarazione entro il mese di gennaio dell’anno successivo a quello in cui è scaduto il termine prorogato. La notifica degli atti intestati al dante causa può essere effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell’ultimo domicilio dello stesso ed è efficace nei confronti degli eredi che, almeno trenta giorni prima, non abbiano effettuato la comunicazione di cui al secondo comma. Tutti i termini pendenti alla data della morte del contribuente o scadenti entro quattro mesi da essa, compresi il termine per la presentazione della dichiarazione e il termine per ricorrere contro l’accertamento, sono prorogati di sei mesi in favore degli eredi». (22) C. Glendi, La proroga dei termini per morte, cit., 540 ss. e, in particolare, nota 12 (anche se esistevano posizioni di segno contrario, quale quella espressa da G. Lambert, Una crisi nei rapporti tra fisco e contribuente. La morte del soggetto passivo d’imposta in Boll. Trib. 1977, 250). La dottrina, che si richiama, fa riferimento, naturalmente, alla proroga dei termini di cui al previgente art. 31, comma 1, DPR 636/1972, ma le considerazioni espresse mutatis mutandis sono riferibili – e vengono riferite nel testo – alla proroga dei termini di cui all’art. 40, comma 4, D.lgs. 546/1992. Non constano particolari pronunce in giurisprudenza: può ricordarsi, però, la datata Cass. 9246/1992, richiamata supra nella nota 3. (23) La notifica collettiva ed impersonale agli eredi presso l’ultimo ultimo domicilio del de cuius degli atti allo stesso intestati (di cui al comma 4 dell’art. 65 cit.) è possibile a condizione che gli eredi non abbiano comunicato all’ufficio delle imposte del domicilio fiscale del dante causa le proprie generalità e il proprio domicilio fiscale (ai sensi del comma 2 dell’art. 65 cit.). Cfr. supra nota 21.


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tificato il 1° novembre, per concludere che gli eredi godrebbero della proroga per impugnarlo fino al 31 marzo. L’apparente contrasto tra la proroga di cui all’art. 65, comma 3, DPR 600/1973 e quella di cui all’art. 31, comma 1, DPR 636/1972, alla quale nello specifico la dottrina si riferisce, viene risolto, a favore della prima, considerata norma speciale, riguardando l’accertamento delle imposte sui redditi, rispetto alla seconda, riguardante i termini del contenzioso (24); anche se per la stessa dottrina ciò si tradurrebbe in un ingiustificato privilegio che il legislatore sarebbe chiamato a rimuovere (25). Le considerazioni riferite sono svolte in relazione alla proroga di cui all’art. 31, comma 1, DPR 636/1972, ma sono riferibili, con gli opportuni adattamenti, anche alla proroga di cui all’art. 40, comma 4, D.lgs. 546/1992, alla quale si dedica attenzione in questa sede. 3.3. Invero, siffatto ragionamento non è persuasivo e non è affatto necessario invocare risolutivi interventi legislativi, peraltro non avutisi, per risolvere l’asserito contrasto tra le due previsioni di proroga. Infatti, la proroga di cui all’art. 65, comma 3, cit. si riferisce ai termini che riguardano il de cuius, i quali cioè afferiscono a situazioni giuridiche dello stesso che a causa della morte si trasferiscono agli eredi: così, se sopravviene la morte durante la pendenza del termine per ricorrere, il diritto a ricorrere (sorto in capo al de cuius) si trasferisce e il termine è prorogato. Invece, se l’atto è notificato dopo la morte, il diritto a ricorrere sorge in capo agli eredi, i quali non godono di alcuna proroga. E ciò vale anche nelle ipotesi in cui l’atto venga eccezionalmente intestato al dante causa e notificato collettivamente ed impersonalmente agli eredi (ai sensi dell’art. 65, comma 4, DPR 600/1973 (26)), visto che questa è una modalità alternativa di formazione e comunicazione dello stesso atto e che esso produce effetti sin dall’inizio nei confronti degli eredi. In altre parole, anche

(24) Cfr. C. Glendi, La proroga dei termini per morte, locc. citt. (25) Si dice, infatti, che si ha un «privilegio riservato all’impugnativa degli avvisi di accertamento in materia di imposte dirette», il quale «benché ermeneuticamente corretto … non ha comunque una sua effettiva ragion d’essere, neppure sotto il profilo di una particolare complessità dell’impugnazione degli accertamenti in materia di imposte dirette, e va necessariamente ascritto ad una pessima formulazione della norma, da correggersi in sede di revisione legislativa, mediante l’abolizione del richiamo fatto dall’art. 65, terzo comma, al termine per ricorrere contro l’accertamento» (così C. Glendi, op. cit., nota 12). (26) Cfr. supra nota 21.


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in tali ipotesi il diritto a ricorrere sorge in capo ad essi: così, riprendendo l’esempio fatto, il termine per impugnare l’avviso di accertamento notificato collettivamente ed impersonalmente agli eredi il 1° novembre scade regolarmente il 31 dicembre. Peraltro, se così non fosse, si consentirebbe all’ufficio di disporre discrezionalmente, ma contra ius, del termine per ricorrere, a seconda della modalità di azione prescelta. In ogni caso, se anche si potesse prescindere dalle ragioni appena esposte, l’asserita specialità della previsione di proroga dei termini per impugnare l’avviso di accertamento, di cui all’art. 65, comma 3, DPR 600/1973, soccomberebbe comunque di fronte alla nuova legge processuale tributaria. Infatti, dovrebbero ritenersi comunque venute meno le ragioni della prevalenza della proroga ex art. 65, comma 3, cit., date dall’asserita specialità e dalla posteriorità rispetto all’omologa previsione di cui all’art. 31 DPR 636/1972, a seguito dell’introduzione della previsione generale di proroga dei termini per ricorrere, di cui all’art. 40, comma 4, D.lgs. 546/1992, avvenuta in occasione della successiva riforma del processo tributario. E non varrebbe, di certo, richiamare il broccardo lex posterior generalis non derogat priori speciali, a fronte di previsioni normative successive e rispondenti alla medesima ratio e della precisa volontà legislativa di dettare un’unica soluzione in tema di proroga dei termini per ricorrere al verificarsi della morte del ricorrente (27). 4. La (nuova) disciplina dei rapporti tributari tra amministrazione finanziaria e società estinte. 4.1. Più complicato, per lo meno in prima battuta, è il rapporto tra la previsione dell’art. 40, comma 4, D.lgs. 546/1992 e quella dell’art. 28, comma 4, D.lgs. 175/2014, giacché: si è in presenza di una disposizione di non facile comprensione, in conseguenza di una pessima fattura, densa di sconnessioni linguistiche e contenuti discutibili, tant’è che, finora, sono prevalse letture critiche, traducentesi anche in più o meno esplicite censure di incostituzionalità (28); difettano significativi riscontri sulla sua applicazione, in quanto

(27) Per una corretta interpretazione del riferito broccardo si rimanda per tutti a: R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di Cicu e Messineo, I, Milano, 1998, 196 s. e 239 s.; Id., Le fonti del diritto e l’interpretazione, Milano, 1993, 418 s. (28) In chiave decisamente critica si vedano ad esempio: G. Girelli, La sorte dei crediti fiscali dopo la cancellazione della società: molto rumore per nulla, cit., 27 ss.; F. Pepe, Le implicazioni fiscali della morte (e resurrezione?) delle società cancellate dal registro delle


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la giurisprudenza, che ha avuto modo di pronunciare su di essa, lo ha fatto incidenter tantum e/o ai fini di escluderne l’applicazione alle cancellazioni delle società avvenute prima dell’entrata in vigore della stessa (29); le stesse ragioni dell’intervento legislativo in esame sono poco intellegibili (30). Non si vuole in questa sede procedere ad un’analisi di tale previsione, che richiederebbe ben altri spazi e verosimilmente non condurrebbe a risultati del tutto soddisfacenti (31). Si vuole evidenziare come a fronte di alcuni approdi

imprese, in Riv. Dir. Trib. 2017, I, 39 ss.; Porcaro, La cancellazione della società dopo il cd. decreto «semplificazioni»: profili tributari, in NLCC 2015, 1050 ss.; V. Ficari, La disciplina delle società estinte: il profilo dei termini di accertamento (art. 28, commi 4 e 6), in Commento al decreto sulle semplificazioni (D.lgs. n.175 del 2017) , a cura di Muleo, Torino, 2015, 129 ss.; A. Guidara, Sull’asserita agonia fiscale delle società di capitali estinte: una (diversa) interpretazione dell’intervento legislativo di fine 2014, in Riv. Dir. Trib. 2015, I, 375 ss.; C. Glendi, E intanto prosegue l’infinita “historia” dell’estinzione delle società cancellate dal Registro delle imprese (sul versante tributaristico, ma non solo) , in Riv. Giur. Trib. 2015, 780 ss.; G. Fransoni, L’estinzione postuma della società ai fini fiscali ovvero della società un poco morta e di altre amenità, in Rass. Trib. 2015, 47 ss.; L. Bianchi, Società di capitali cancellata: tra successione e responsabilità (tributaria) dei soci in Dir. Prat. Trib. 2015, I, pp. 24 ss., 44 s.; D. Deotto, “L’inferno fiscale quinquennale” delle società estinte, in Fisco, 2015, 37 ss.; A. Carinci, L’estinzione delle società e la responsabilità tributaria di liquidatori, amministratori e soci, in Fisco, 2015, 2843 ss. (29) Si ricordano, ad esempio, le pronunce della Corte Suprema: 2 ottobre 2017, n. 23029; 12953/2017 cit.; 5 maggio 2017, n. 11100; 17 gennaio 2017, n. 1009; 28 settembre 2016, n. 19142; 8 agosto 2016, n. 17791; 10 agosto 2016, n. 16937; 22 aprile 2016, n. 8140; 20 aprile 2016, n.7923; 2 aprile 2015, n. 6743. Tra le sentenze di merito si vedano: Comm. Trib. Reg. Salerno 20 dicembre 2016, n. 11578 (in banca dati Big Suite, IPSOA); Comm. Trib. Prov. Brescia 28 novembre 2016, n. 837 (ibidem); Comm. Trib. Reg. Verona 13 giugno 2016, n. 752 (ibidem). (30) Esse sono estrinsecate nella relazione esplicativa al testo del decreto legislativo presentato al Parlamento, ove si osserva che il termine annuale dall’estinzione della società – ex art. 2495 cod. civ. – entro cui la richiesta per far valere i crediti può essere notificata presso l’ultima sede della società, sia incompatibile «con i termini per l’espletamento delle ordinarie attività di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione» e, per l’appunto, con la nuova disciplina si vogliono «rendere più efficaci le azioni di recupero dei crediti tributari e contributivi che, a legislazione vigente rischiano di essere in molti casi vanificate» (e si specifica che si vuole «potenziare l’attività di liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi amministrati dall’Agenzia delle entrate e dei contributi nei confronti delle società che richiedono la cancellazione dal Registro delle imprese evitando che le azioni di recupero poste in essere dagli enti creditori possano essere vanificate, soprattutto quando la cancellazione viene richiesta con finalità strumentali alla sottrazione agli obblighi fiscali e contributivi»). Ma, il testo legislativo, cui perviene il Governo, non può dirsi allineato a tali ragioni, in quanto, a prescindere dalle mancanze linguistiche, si presta a diverse letture nel senso, innanzi tutto, anche se in prima battuta, della sopravvivenza parziale all’estinzione delle società di capitali. (31) A tal fine si rimanda ai contributi richiamati supra nella nota 28.


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(ormai) sufficientemente sicuri (32), desta perplessità la lettura che di tale previsione si fa, da alcune parti e soprattutto dall’Agenzia delle entrate (33), ossia che essa rimodulerebbe l’estinzione delle società nei confronti del fisco nel senso che quest’ultima non si verificherebbe, in tutto o in parte, nei rapporti tra società cancellate ed amministrazione finanziaria. 4.2. Andando al tema di questo lavoro, se si muove dalla lettura appena riferita si dovrebbe coerentemente giungere alla conclusione che nonostante il venir meno della società non operi la proroga del termine per ricorrere di cui all’art. 40, comma 4, cit.; o meglio, visto che la novella legislativa del 2014 (che si riferisce pure agli «atti di … contenzioso») contempla un termine di cinque anni, la proroga spiegherebbe i suoi effetti dopo il decorso di tale termine. Il che vorrebbe dire che il comma 4 dell’art. 28 introdurrebbe un differimento della proroga o, se si vuole, una nuova (speciale) ipotesi di proroga del termine per ricorrere, integrata dal decorso di cinque anni dalla cancellazione della società dal registro delle imprese. E mutatis mutandis analoghi discorsi potrebbero farsi per la l’interruzione del processo di cui ai commi precedenti dell’art. 40 cit. Ma, un’innovazione di tal fatta alla disciplina processuale, oltre a richiedere precisi riferimenti testuali, che però mancano: non sarebbe in linea con la littera legis che riguarda soltanto gli atti provenienti dall’amministrazione finanziaria (validità ed efficacia dei quali intende preservare, nonostante la cancellazione della società); né potrebbe dirsi nelle corde della legge delega (ove, semmai, si esige «il rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente») (34). E, soprattutto, di essa non si comprenderebbe il senso,

(32) Non è (più) in discussione la qualificazione sostanziale – e non procedimentale, come invece caldeggiava l’Agenzia delle entrate – della norma, che così si applica alle cancellazioni richieste successivamente all’entrata in vigore della stessa (13 dicembre 2014), giammai a quelle precedenti (cosa che si faceva discendere dalla asserita natura procedimentale e avrebbe potuto determinare una piuttosto singolare reviviscenza delle società estinte): così dottrina (cfr. ad esempio: G. Fransoni, L’estinzione postuma della società ai fini fiscali ovvero della società un poco morta e di altre amenità, cit., 50; A. Guidara, Sull’asserita agonia fiscale delle società di capitali estinte, cit., 379 ss.; G. Girelli, La sorte dei crediti fiscali dopo la cancellazione della società: molto rumore per nulla, cit., 74, nota 109) e giurisprudenza (si possono richiamare le sentenze di cui supra nella nota 28). (33) Cfr., in particolare, le circolari 30 dicembre 2014, n. 31 e 19 febbraio 2015, n. 6. (34) Più esattamente, la delega manda al Governo una revisione della disciplina del contenzioso limitatamente a pochi profili (cfr. art. 10 della legge 23/2013, ove: «Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, norme per il rafforzamento


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visto che: essa non sarebbe affatto funzionale alle esigenze di effettività del contraddittorio che stanno alla base tanto della proroga come dell’interruzione e che rischierebbero di essere seriamente pregiudicate se si mantenesse in piedi il processo nei riguardi di una società “agonizzante”; inoltre, proroga ed interruzione verrebbero pur sempre in essere, anche se dopo il quinquennio e con le complicazioni date dai disallineamenti delle complessive vicende giuridiche (non solo tributarie) della società e dei soci; ed ancora, il lasso temporale del quinquennio non avrebbe alcuna attinenza con i tempi di svolgimento del processo. 4.3. Piuttosto, in dottrina si preferisce leggere restrittivamente la previsione dell’art. 28, comma 4, cit. nel senso che essa consente soltanto intestazione e notificazione degli atti alle società estinte, i quali producono pur sempre gli effetti nei confronti dei soci (che alla società succedono) (35). Ciò: in deroga alla previsione dell’art. 2495, comma 2, cod. civ., che consente al creditore di far valere i propri crediti nei confronti dei soci, notificando la domanda presso la sede della società entro un anno dalla cancellazione di quest’ultima (36); e sull’esempio di quanto consente l’art. 65, comma 4, nei confronti degli eredi del contribuente, sia pure con un lasso di tempo (di sei mesi) decisamente

della tutela giurisdizionale del contribuente, assicurando la terzietà dell’organo giudicante, nonché per l’accrescimento dell’efficienza nell’esercizio dei poteri di riscossione delle entrate, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi: a) rafforzamento e razionalizzazione dell’istituto della conciliazione nel processo tributario, anche a fini di deflazione del contenzioso e di coordinamento con la disciplina del contraddittorio fra il contribuente e l’amministrazione nelle fasi amministrative di accertamento del tributo, con particolare riguardo ai contribuenti nei confronti dei quali sono configurate violazioni di minore entità; b) incremento della funzionalità della giurisdizione tributaria, in particolare attraverso interventi riguardanti: …»). (35) Cfr., ad esempio, A. Guidara, Sull’asserita agonia fiscale delle società di capitali estinte, cit., 381 ss., 391 ss., cui si rinvia per più ampie considerazioni (del tenore di quelle qui formulate), oltre che per vari riferimenti. (36) Appunto ex art. 2495, comma 2, cod. civ. «… la domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società». Si può, così, rinvenire, nella disciplina fiscale una decisamente maggiore considerazione dell’interesse dell’amministrazione finanziaria, dal momento che l’art. 28, comma 4, cit. deroga alla previsione codicistica su due fronti: l’intestazione degli atti alla società, che l’articolo del codice non prevede (occupandosi solo della notifica della domanda dei creditori sociali); i tempi della notifica alla società che per la domanda dei creditori sociali sono di un anno dalla cancellazione, mentre per gli atti dell’amministrazione finanziaria sono elevati a cinque anni (dalla richiesta di cancellazione della società dal registro delle imprese).


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inferiore (37). Si è in presenza di esiti probabilmente obbligati (di un’interpretazione travagliata), se non si vuole percorrere la via dell’incostituzionalità, pure battuta, della previsione di cui all’art. 28, comma 4, D.lgs. 175/2014. Ed è, pertanto, coerente leggere il riferimento agli «atti di … contenzioso», di cui alla stessa previsione, nel senso che esso riguarda soltanto gli atti dell’amministrazione finanziaria (cumulativamente, ma poco felicemente, ricompresi nell’espressione «atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi»). In tal modo diventano possibili poche applicazioni di tale previsione (gli «atti di … contenzioso»). Si pensi, essenzialmente, alla proposizione dell’appello nei confronti della società cancellata (sia che la cancellazione sia intervenuta dopo la sentenza, sia che, intervenuta prima, non sia stata dichiarata dal difensore (38)) (39), che,

(37) Il quale – si ricorda – prevede che «la notifica degli atti intestati al dante causa può essere effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell’ultimo domicilio dello stesso ed è efficace nei confronti degli eredi che, almeno trenta giorni prima, non abbiano effettuato la comunicazione di cui al secondo comma». Per il testo integrale dell’art. 65 si rimanda supra alla nota 21. (38) La mancata dichiarazione dell’evento interruttivo da parte del difensore produce i suoi effetti – nel senso di impedire l’interruzione del processo – soltanto nel grado di giudizio in cui l’evento si verifica: in tal senso, si ricordano sempre le sentenze nn. 6070, 6071, 6072 del 2013 (più volte richiamate), per le quali: «pur nella consapevolezza di indicazioni giurisprudenziali non sempre univoche sul punto, le sezioni unite ritengono che l’esigenza di stabilità del processo, che eccezionalmente ne consente la prosecuzione pur quando sia venuta meno la parte, se l’evento interruttivo non sia stato fatto constare nel modi di legge, debba considerarsi limitata al grado di giudizio in cui quell’evento è occorso, in difetto di indicazioni normative univoche che ne consentano una più ampia esplicazione. Viceversa, è principio generale, condiviso dalla giurisprudenza di gran lunga maggioritaria, quello per cui il giudizio d’impugnazione deve sempre esser promosso da e contro i soggetti effettivamente legittimati, ovvero, come anche si usa dire, della “giusta parte”». (39) Si ricorda che vi è una specifica disciplina circa la comunicazione dell’avviso di trattazione da parte della segreteria della Commissione, di cui all’art. 43, comma 3, D.lgs. 546/92, di cui si è detto: «Entro un anno dalla morte di una delle parti la comunicazione può essere effettuata agli eredi collettivamente o impersonalmente nel domicilio eletto o, in mancanza, nella residenza dichiarata dal defunto risultante dagli atti del processo». Essa, però, non può trovare applicazione all’estinzione delle società. A tal proposito si osserva che il riferimento alla morte della parte e agli eredi, di cui all’art. 43, comma 3, a fronte del riferimento al «venir meno, per morte o altre cause, … di una delle parti», presente nell’art. 40, comma 1, lett. a), D.lgs. 546/1992 (alias nella stessa disciplina dell’interruzione del processo tributario), ma anche «alla parte colpita dall’evento» e ai «suoi successori» nel primo periodo dello stesso comma 3 dell’art. 43, porta ad escludere la possibilità di una comunicazione collettiva ed impersonale nei confronti di altri successori, quali sono appunto i soci della società di capitali estinta. Ed ancora, l’art. 28, comma 4, D.lgs. 175/2014 non riguarda l’azione della


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Parte prima

stando alle posizioni più rigorose (e prevalenti) e, in particolare, alle sentenze delle Sezioni Unite del 2013, che hanno messo ordine anche su questo delicato punto dell’estinzione delle società (40), deve avvenire nei confronti dei soci. L’agevolazione per l’amministrazione finanziaria è evidente: si traduce nella possibilità di rivolgere l’impugnazione direttamente alla società estinta, in luogo dei soci (cosa quest’ultima che, in costanza del termine perentorio per l’impugnazione e di società molto partecipate, può diventare parecchio onerosa); e allo stesso tempo si evita a piè pari un’eventuale declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione (perché rivolta alla società) (41).

Commissione tributaria, cui si ascrive l’avviso di cui all’art. 43, comma 3, cit. (40) Il riferimento è alle più volte richiamate sentenze nn. 6070, 6071, 6072 del 2013. Ma cfr. anche, quanto al complementare aspetto dell’efficacia del mandato conferito al difensore della parte venuta meno, la nota successiva e la giurisprudenza, sempre di legittimità, ivi richiamata. (41) Quello dell’inammissibilità dell’impugnazione rivolta alla società estinta è un problema avvertito da dottrina e giurisprudenza, in relazione al quale alle apprezzabili aperture di alcune pronunce (che ritengono valida ed efficace l’impugnazione alla parte estinta, purché il notificante non ne abbia consapevolezza: ad esempio, Cass. 14 marzo 2006, n. 5445; Cass. SS. UU. 14 settembre 2010, n. 19509; Cass. 14 settembre 2011, n. 19122) si contrappone una netta chiusura da parte delle pronunce più recenti (si ricordano per tutte le sentenze delle sezioni unite, nn. 6070, 6071, 6072 del 2013, più volte richiamate, le quali ribadiscono la regola dell’inammissibilità dell’impugnazione proposta dalla società estinta, così come di quella proposta nei suoi nei confronti, richiamando anche precedenti della stessa Corte). Tuttavia, si segnala quello che sembra un successivo parziale ripensamento delle Sezioni Unite, che con riferimento alle persone fisiche – ma non vi sono riferimenti espliciti alle società ed anzi in proposito non sembrano essere messe in discussione le posizioni della pure richiamata sentenza n.6070/2013 – ripropongono la tesi dell’ultrattività della procura, anche dopo la morte o perdita di capacità della parte, con la conseguenza che, se il mandato processuale è conferito anche per il grado successivo, sarebbe possibile rivolgere l’impugnazione al difensore: così la sentenza 15295/2014, già richiamata per un inciso sull’art. 328, comma 3, cod. proc. civ., che però dà atto della complessità del problema e della difficoltà di pervenire ad una soluzione (si ripropongono passi quali: «quella di cui si discute è una delle problematiche più studiate e dibattute del processo civile, segnalata come “una storia infinita”, dipanatasi attraverso un emblematico esempio di “pendolarismo giurisprudenziale”»; «… all’incertezza giurisprudenziale ha corrisposto la mancanza di chiari indirizzi dottrinari … »; «il quadro interpretativo, così come emerso e sviluppato, manifesta … un profondo stato di insoddisfazione ed inquietudine, un’instabilità insopportabile e sconcertante non solo per la dottrina e per il foro ma, evidentemente, per gli stessi giudici (di merito e di legittimità). Allora, le Sezioni Unite sono caricate dallo sforzo (e dall’auspicio) di offrire alla materia una soluzione che abbia un effetto stabilizzante per il processo ed eviti equivoci, arditi distinguo, ricerca di rimedi di salvaguardia e sanatoria, accertamenti incidentali relativi a condotte e stati psicologici»); si rifanno alla sentenza delle Sezioni Unite, n. 15295/2014, sempre con riferimento a persone fisiche, le successive pronunce della Cassazione n. 19533 del 17 settembre 2014, SS. UU.


Dottrina

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5. Conclusioni. – Si possono a questo punto del discorso tirare le fila del ragionamento condotto, nel senso che la disciplina della proroga del termine

n. 19887 del 22 settembre 2014, n. 16740 del 12 agosto 2015, n. 20832 del 14 ottobre 2016, n. 5685 del 7 marzo 2017 (anche se con riferimento alle società si veda, poi, n. 190 del 9 gennaio 2017). Il ragionamento della Corte, peraltro, non è esente da critiche, come dimostrano gli stessi commenti che pure ne condividono gli approdi (cfr.: M. F. Ghirga, L’ultrattività del mandato nel caso di evento interruttivo verificatosi tra un grado e l’altro del giudizio: “una storia infinita”, in Riv. Dir. Proc., 2014, 1527 s. e 1530 ss.; C. Glendi, Ultrattività del mandato e venir meno della parte nel processo, in Corr. Giur., 2015, 1306 ss. Non mancano sostanziali prese di distanze, quale quella che si riscontra in M. Dominici, Ultrattività del mandato difensivo, codice deontologico e semplificazione tributaria, in Giur. It., 2015, 352 ss.). Ed è verosimile che le Sezioni Unite ritornino in un futuro non lontano a pronunciarsi su quella che esse stesse hanno definito una «storia infinita», con esiti (ed implicazioni) che non è facile prevedere (anche sul significato dell’art. 28, comma 4, D. lgs. 175/2014, di cui si tratta in questa sede). A tacer d’altro risalta nella citata sentenza 15295/2014 il silenzio sulla possibile ultrattività del mandato nelle ipotesi di estinzione delle società, nonostante anche su ciò le Sezioni Unite fossero state chiamate ad intervenire dall’ordinanza di rimessione; tant’è che, pur applicando alle società la soluzione cui perviene la citata sentenza 15295/2014, la di poco successiva sentenza 17 dicembre 2014, n. 26495 esterna le proprie perplessità proprio sulla applicabilità di tale soluzione alle società: «… questo Collegio ritiene che meriterebbero ulteriore ponderazione sia le rappresentate peculiarità del processo tributario, sia la diversa natura della procura alle liti … rispetto al mandato …, sia infine – e soprattutto – le differenze che oggettivamente contraddistinguono gli eventi che colpiscono la persona fisica (morte) rispetto a quelli che colpiscono la persona giuridica (estinzione), alla luce del sistema di pubblicità legale che rende in questo secondo caso immediatamente fruibili tutte le necessarie informazioni (attraverso la consultazione del registro delle imprese); tuttavia, non reputa opportuna, a così breve distanza dalle recenti pronunce delle quali si è dato conto, una ulteriore rimessione della vexata quaestio alle sezioni unite per ulteriori approfondimenti, anche a salvaguardia della ragionevole durata del processo». Sicché, può dirsi che si registrano, in definitiva, due indirizzi opposti – ad oggi non composti, come peraltro risulta dalle diverse prospettive da cui muovono, ad esempio, le più recenti Cass. 22 luglio 2016, n. 15177, e Cass. 31 gennaio 2017, n. 2444 – delle Sezioni Unite, a seconda che il venir meno riguardi le persone fisiche o le società. La tesi dell’ultrattività del mandato processuale, se conferito anche per il grado successivo, sembrava negli ultimi anni superata e la giurisprudenza (oltre alle prefate sentenze delle sezioni Unite, nn. 6070, 6071, 6072 del 2013) aveva in varie occasioni affermato che il venir meno della parte comportava il venir meno del rappresentanza processuale (con l’eccezione, espressamente prevista dalla legge, dell’irrilevanza di tale evento, se non dichiarato, all’interno del grado di giudizio in cui si verifica) e che di conseguenza non era ammissibile la notifica dell’impugnazione al difensore della parte venuta meno (con riferimento a profili differenti, si vedano della Corte di Cassazione pronunce quali: SS. UU. 28 luglio 2005, n. 15783; 19 aprile 2006, n. 9064; 10 maggio 2006, n. 10706; SS. UU. 16 dicembre 2009, n. 26729; SS. UU. 18 giugno 2010, n. 14699; 7 gennaio 2011, n. 259; 13 maggio 2011, n. 10649; 8 febbraio 2012, n. 1760; 3 agosto 2012, n. 14106; 9 aprile 2013, n. 8596; 4 aprile 2013, n. 8194; 12 marzo 2014, n. 5637).


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Parte prima

per ricorrere innanzi alle Commissioni tributarie è regolata esclusivamente dall’art. 40, comma 4, D.lgs. 546/1992, non impattando su di essa né le previsioni di proroga di cui all’art. 65, comma 3, DPR 600/1973, né la disposizione di cui all’art. 28, comma 4, D.lgs. 175/2014. Infatti, e come si è osservato, l’art. 65, comma 3, cit., si riferisce: ai termini che riguardano il de cuius, che appunto proroga, tra i quali quello per ricorrere avverso l’accertamento; non anche ai termini che riguardano gli eredi, che pertanto rimangono immutati nella loro durata. E se anche si leggesse diversamente siffatta previsione, dovrebbe concludersi, comunque, per una sua abrogazione ad opera della pertinente previsione generale recata dalla nuova (e successiva) legge processuale tributaria. Sicché per gli atti di accertamento delle imposte sui redditi che siano notificati agli eredi, compresi quelli che siano (intestati al de cuius e) notificati loro nella modalità collettiva ed impersonale di cui al comma 4 dell’art. 65 cit., non può che valere il termine ordinario d’impugnazione. Passando, poi, alla previsione dell’art. 28, comma 4, cit., pur con le riserve legate alla sua non facile esegesi, deve ritenersi la stessa inconferente rispetto alla proroga del termine per ricorrere: essa, infatti, riguarda soltanto gli atti e i termini afferenti all’amministrazione finanziaria («ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi …»), mentre la proroga riguarda gli atti e i termini afferenti al contribuente; con la conseguenza che gli atti che vengano (intestati e) notificati alla società estinta, in forza proprio dell’art. 28, comma 4, cit., possono essere contestati dai soci (che alla prima succedono) entro il termine ordinario di impugnazione.

Antonio Guidara


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Cassazione civile, sez. trib., 13 luglio 2017 - 13 ottobre 2017, n. 24136; Pres. Di Iasi - Rel. Giordano. Imposte dirette – IRPEF – Redditi diversi - Plusvalenze – Cessione di terreni – Rideterminazione del valore di acquisto – Art. 7, L. n. 448/2001 – Indicazione di un prezzo di vendita inferiore al valore periziato – Determinazione d’Ufficio della plusvalenza secondo criteri ordinari – Assunzione quale prezzo di acquisto del costo storico – Sussiste Laddove il contribuente abbia indicato, nell’atto traslativo, un prezzo inferiore al valore determinato con perizia di stima all’uopo redatta, il versamento dell’imposta sostitutiva di cui all’art. 7, comma 1, L. n. 448/2001, eseguito al fine di ottenere la rideterminazione del valore di acquisto dei terreni edificabili e con destinazione agricola, non preclude l’esercizio del potere di accertamento d’Ufficio in ordine alla tassazione, ai fini delle imposte dirette, della plusvalenza realizzata con la vendita del medesimo terreno, che pertanto ben può essere determinata secondo la disciplina ordinaria, e dunque ai sensi degli artt. 67, lett. b) e 68 TUIR, assumendo come prezzo di acquisto del cespite quello di cui all’art. 68 TUIR. (1)

[Omissis]

Svolgimento del processo. - 1. Con sentenza n. 60/08/12 depositata il 29 maggio 2012, non notificata, la CTR della LOMBARDIA ha rigettato l’appello proposto dell’Agenzia delle Entrate nei confronti di M.L., Me.El. e P.F. per la riforma della sentenza di primo grado della CTP di Varese, che aveva accolto il ricorso avverso gli avvisi di accertamento relativi ad una plusvalenza per la cessione di terreno edificabile da assoggettare a tassazione separata ai fini Irpef per l’anno 2003. Per quello che qui interessa, la CTR rilevava che la L. n. 448 del 2001, art. 7, consente di assumere, in luogo del costo di acquisto o del valore dei terreni edificabili e di quelli agricoli di proprietà alla data del 1.01.2002, il valore ad essi attribuito, a tale data, con perizia di stima asseverata e con il versamento di imposta sostitutiva nella misura del 4%, prevedendo che detto valore di stima costituisca il valore minimo di riferimento ai fini Irpef, imposte di registro, ipotecarie e catastali. Tale previsione normativa, peraltro, non esclude che in un momento successivo il contribuente possa evitare di avvalersi del valore rideterminato dalla stessa stima, tenendo conto di fatti sopravvenuti.


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Parte seconda

2. Avverso la pronuncia della CTR, l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo. 3. I contribuenti hanno resistito con controricorso. Motivi della decisione. - 1. Con l’unico motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 448 del 2001, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denunciando come erronea in diritto la pronuncia impugnata che ha riconosciuto validità alla rivalutazione dei terreni effettuata dai contribuenti, nonostante essi abbiano indicato nella successiva vendita degli stessi terreni un prezzo inferiore al valore determinato mediante perizia giurata. Secondo la prospettazione dell’Agenzia, in particolare, qualora ai fini dell’imposta sui redditi venga dichiarato nell’atto di vendita un valore inferiore a quello asseverato, tale inferiorità rende nulla la rivalutazione effettuata, con la conseguenza che, per il calcolo della plusvalenza, si deve assumere, quale valore iniziale di riferimento, il valore di acquisto storico del terreno. 2. Il motivo è fondato. La L. n. 448 del 2001, art. 7, comma 1, per quanto qui rileva, prevede che agli effetti della determinazione delle plusvalenze e minusvalenze di cui all’art. 81, comma 1, lett. a) e b) (ora art. 67, comma 1, lett. a) e b) TUIR), per i terreni edificabili e con destinazione agricola posseduti alla data del 1 gennaio 2002, in luogo del costo o valore di acquisto, può essere assunto il valore a tale data determinato sulla base di una perizia giurata di stima, cui si applica l’art. 64 c.p.c., redatta dai professionisti indicati nella citata norma, a condizione che il predetto valore sia assoggettato ad un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi secondo quanto disposto nei successivi commi da 2 a 6. Il comma 6 della medesima disposizione, in particolare, stabilisce che “la rideterminazione del valore di acquisto dei terreni costituisce valore normale minimo di riferimento ai fini delle imposte sui redditi, dell’imposta di registro e dell’imposta ipotecaria e catastale”. Come chiarito da questa Corte (cfr., più di recente, Cass., Ord., 30/09/2016, n. 19465; Cass. sez. 6-5, ord. 5 maggio 2016, n. 9155; Cass. 2014, n. 24057), la natura dell’imposta sostitutiva in esame è quella di un’imposta “volontaria”, in quanto è frutto di una libera scelta del contribuente, il quale opta per la rideterminazione del valore del bene, con conseguente versamento dell’imposta sostitutiva, nella prospettiva, in caso di futura cessione, di un risparmio sull’imposta ordinaria altrimenti dovuta sulla plusvalenza non affiancata, ricevendone l’Amministrazione finanziaria un immediato introito fiscale.


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

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Se l’esercizio di tale scelta non preclude al contribuente, in caso di futura cessione, la facoltà di non attenersi al valore quale indicato nella succitata perizia di stima, potendo essersi nel contempo modificate le condizioni relative all’andamento del mercato immobiliare e le stesse condizioni dell’immobile, d’altro canto il valore indicato nella perizia non limita l’accertamento dell’Ufficio, come si evince dal succitato la L. n. 448 del 2001, art. 7, comma 6, secondo il quale la rideterminazione del valore di acquisto dei terreni costituisce valore normale minimo di riferimento ai fini delle imposte sui redditi, dell’imposta di registro e dell’imposta ipotecaria e catastale (cfr. Cass. sez. 5, 28 maggio 2014, n. 11960; Cass. sez. 5, 6 giugno 2012, n. 9109). Nel caso di specie, come indicato nella stessa sentenza impugnata, i contribuenti hanno dichiarato nell’atto di vendita un prezzo inferiore a quello oggetto dell’indicata perizia di stima, sicchè l’aver versato l’imposta sostitutiva nella misura del 4% sul valore periziato, non può essere considerato preclusivo dell’esercizio del potere di accertamento dell’Ufficio, quanto alle imposte dirette sulla plusvalenza non dichiarata per l’anno 2003 e realizzata con l’atto di cessione; accertamento che, in mancanza del riferimento del prezzo al valore periziato, legittimamente assume ai fini della quantificazione della plusvalenza il criterio ordinario di cui all’art. 68 in relazione all’ art. 67, lett. b) TUIR, nella fattispecie in oggetto, assumendosi come prezzo di acquisto quello determinato a norma dell’art. 68, comma 2, u.p. TUIR (nel testo riproducente il già art. 82 oggetto, in parte qua, di sentenza di declaratoria di parziale illegittimità costituzionale ad opera di Corte cost. 10 luglio 2002, n. 328). Il ricorso va pertanto accolto, con rinvio a diversa sezione della CTR della Lombardia che, uniformandosi al principio di diritto innanzi affermato, provvederà a nuovo esame in ordine alla congruità della determinazione delta plusvalenza operata dall’Ufficio con riferimento alla ripresa a tassazione delle imposte dirette oggetto di accertamento per l’anno 2003, statuendo anche in ordine al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio. [Omissis]


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Parte seconda

(1) La perdurante incertezza in ordine agli adempimenti necessari per il perfezionamento delle rivalutazioni di terreni ex art. 7, L. n. 448/2001. Viene esaminato un nuovo orientamento giurisprudenziale, proveniente dalla Sezione tributaria della Suprema Corte di Cassazione, secondo il quale, come ritenuto dall’Agenzia delle Entrate, per il perfezionamento della rivalutazione dei terreni ai sensi dell’art. 7, L. n. 448/2001, è necessario che l’atto di vendita indichi espressamente il valore periziato ai fini della rivalutazione del cespite venduto. Questo indirizzo si scontra tuttavia con altro, apparentemente più solido, in immediata precedenza affermato dalla Sezione Sesta della stessa Corte di Cassazione, il cui fondamento non sembra tuttavia in discussione. A new case law from the tax section of the Suprema Corte di Cassazione is examined. According to the judgement observed, as Agenzia delle Entrate believes, in order to benefit of the possibility to upgrade the value of a land plot for tax purposes according to art. 7, L. n. 448/2001, the bill of sale must expressly show the value that results from the expert estimate carried out for this purpose. This orientation clashes with another one, apparently stronger, stated just shortly before by the Sixth Section of the same Corte di Cassazione, which results nevertheless well-founded.

1. Una recente ordinanza della sez. tributaria della Suprema Corte di Cassazione (1) getta nuova incertezza sull’annosa questione della rideterminazione del valore dei terreni per effetto dell’art. 7, Legge 28 dicembre 2001, n. 448, e degli adempimenti necessari per il suo perfezionamento. Come noto, la predetta legge ha consentito, nelle “finestre temporali” susseguitesi (2), di aggiornare il valore fiscalmente riconosciuto di terreni edificabili

(1) Cass., sez. trib., ord. 13.10.2017, n. 24136. (2) Gli originari termini prevedevano infatti l’applicabilità della legge in questione nel caso di terreni posseduti al 1 gennaio 2002, con versamento dell’imposta sostitutiva entro il 30 settembre dello stesso anno. La stessa scadenza fu quindi prorogata dapprima, con il D.L. 24 settembre 2002, n. 209, al 30 novembre 2002 e infine al 16 dicembre 2002, per effetto della legge di conversione, 22 novembre 2002, n. 265. La riapertura dei termini è stata quindi successivamente disposta fino al 16 maggio 2003 con l’art. 2, D.L. 24 dicembre 2002, n. 282, oggetto di successive modifiche perlopiù ad opera di provvedimenti contenuti in leggi “finanziarie” o di bilancio, che hanno consentito, in breve, di fruire dell’istituto per la rivalutazione dei terreni posseduti negli anni 2003, 2005, 2008, 2010, 2011, 2013, 2014, 2015, 2016 e 2017. La stessa possibilità è stata infine prevista, per i terreni posseduti alla data del 1 gennaio 2018, per effetto dell’art. 1, comma 997, L. 27 dicembre 2017, n. 205. La continuità delle proroghe dell’istituto disposte ininterrottamente negli ultimi 7 anni porta ormai a considerare la misura in discorso come “strutturale”.


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e con destinazione agricola, corrispondendo una imposta sostitutiva proporzionale al valore del cespite, determinato mediante perizia giurata di stima (3). In tal modo, il costo fiscale del bene, potenzialmente oggetto nel frattempo di considerevole incremento di valore, viene aggiornato evitando quindi che, nel caso di sua alienazione, possa emergere una plusvalenza da computarsi secondo criteri ordinari, quindi come differenza tra il costo storico del cespite e il prezzo conseguito dalla vendita, che verrebbe integralmente tassata secondo le disposizioni generali in tema di imposte sui redditi. L’imposta in questione, espressamente qualificata “sostitutiva delle imposte sui redditi” (4), dovrebbe quindi assorbire integralmente la tassazione sulle plusvalenze “latenti”, ovvero potenziali, astrattamente conseguibili dal contribuente ove si addivenisse alla cessione del bene a prezzo corrispondente a quello di perizia. Per tale motivo, assolta la predetta imposta sostitutiva, ogni eventuale plusvalenza da cessione andrebbe calcolata esclusivamente come differenza tra il prezzo di vendita del bene e il valore di rivalutazione, senza possibilità di far valere in tale sede minusvalenze derivanti dalla cessione del bene a prezzo inferiore al valore periziato. L’Agenzia delle Entrate ritiene tuttavia che per il perfezionamento della fattispecie sia necessario il rispetto di requisiti ulteriori rispetto all’espletamento di perizia di stima e al pagamento dell’imposta sostitutiva, benché non espressamente previsti dalla legge (5). Pur non essendo previsto dalla legge, infatti, l’Agenzia delle Entrate, almeno fino al 2013 (6), riteneva imprescindibile, per poter derogare al metodo ordinario del calcolo delle plusvalenze, che il terreno in questione fosse ceduto a prezzo almeno pari a quello di perizia.

(3) Per un primo commento alla normativa e alla prassi immediatamente emanata, M. Illiano, I valori di acquisto di terreni edificabili e con destinazione agricola, in Corr. trib., 2002, 2956. (4) Art. 7, comma 1, L. n. 448/2001. (5) Tale interpretazione, pervicacemente sostenuta dall’Amministrazione finanziaria, viene fondata su una sofisticata lettura di una specifica disposizione contenuta nell’art. 7 della L. n. 448/2001 e in particolare, del comma 6 del citato articolo (su cui infra, par. 2), da cui originano gravi incertezze e conseguenze negative potenzialmente dirompenti, nel caso in cui il contribuente, come spesso ormai accade a causa della congiuntura economica, ceda il terreno “rivalutato” a prezzo inferiore rispetto al valore di perizia. (6) Tale orientamento, come si esporrà, è stato infatti temperato con l’adozione della circolare n. 1/E del 2013.


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Parte seconda

Solo a seguito di un ammorbidimento delle sue posizioni, l’Amministrazione finanziaria continua ora a richiedere quantomeno che il valore periziato sia espressamente indicato nell’atto di vendita (7), e ciò, come anticipato, senza che simili incombenze siano contemplate dalla legge. Diversamente, il contribuente non è ammesso al computo in via agevolata della plusvalenza derivante dall’alienazione del terreno, che viene quindi calcolata come differenza tra il prezzo di vendita ed il costo storico del cespite, anziché il valore indicato nella perizia redatta per la sua rideterminazione. Detta prassi sembrava in via di superamento in quanto censurata da ampia giurisprudenza di merito e infine da alcune ordinanze emanate dalla sez. VI della Corte di Cassazione nel 2016 (8), che avevano evidenziato il carattere contra legem di detta interpretazione, sottolineando il fatto che gli incombenti richiesti nelle circolari emanate non trovavano alcun fondamento nella legge, e dunque non erano in grado di inficiare la rivalutazione attuata dal contribuente. In questo contesto è ora intervenuta la sez. tributaria, che con una ordinanza del tutto inattesa (9), senza compiere alcun riferimento alle precedenti pronunce della VI sezione, ha pedissequamente aderito all’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate, ritenendo dunque necessario il rispetto, da parte del contribuente che si avvalga del procedimento di cui all’art. 7, L. n. 448/2001, degli ulteriori oneri evidenziati nelle circolari adottate. Si determina pertanto una situazione di grave incertezza, nella quale tuttavia deve essere evidenziata, a fronte del pregio argomentativo delle pronunce intervenute nel 2016, contrarie all’interpretazione ministeriale, la carenza, sullo stesso piano, della decisione in commento, alla quale pertanto non dovrebbe riconoscersi valore sistematico tale da sminuire gli orientamenti precedentemente espressi in seno alla Corte, come si va ad illustrare. 2. L’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate di cui si è dato conto è fondata su una lettura eccessivamente rigorosa del comma 6 dell’art. 7, L. n.

(7) Sul ripensamento in tal modo intervenuto, A. Montesano, Cessione di terreni a un valore inferiore a quello di perizia, in Fisco, 2013, I, 1760. In ordine alle ulteriori problematiche create dalle interpretazioni dell’Agenzia delle Entrate, si rinvia a G. Palumbo, Rivalutazione dei terreni, valore minimo legale e accertamenti su plusvalenze, in Fisco, 2009, I, 2342 (8) Per gli estremi ed una rapida ricognizione della giurisprudenza cui si fa riferimento, vd. Infra, par. 4. (9) Cass., ord. n. 24136/2017, cit.


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448/2001, il quale, come noto, prevede che «La rideterminazione del valore di acquisto dei terreni edificabili e con destinazione agricola di cui ai commi da 1 a 5 costituisce valore normale minimo di riferimento ai fini delle imposte sui redditi, dell’imposta di registro e dell’imposta ipotecaria e catastale». L’Agenzia “legge” tale disposizione attribuendole il senso per cui il valore di acquisto rideterminato a seguito di perizia “deve costituire” quello da indicare e assoggettare a imposizione anche ai fini dell’imposta di registro e dell’imposta ipotecaria e catastale, così imponendo un nuovo onere per il contribuente, che si aggiungerebbe a quelli espressamente previsti dalla legge (10). Questa necessità emerge chiaramente nei documenti di prassi emanati sul tema, ove viene espressamente indicato che «affinché il valore “rideterminato” possa assumere rilievo agli effetti del calcolo della plusvalenza, è necessario che esso costituisca valore normale minimo di riferimento anche ai fini delle imposte di registro, ipotecarie e catastali» (11). Il contribuente deve quindi indicare in atto il valore di rivalutazione del bene, unitamente al prezzo di vendita, con la conseguenza che tutti i tributi dovuti (imposte sui redditi per la plusvalenza in tal modo conseguita e già tassata in via sostitutiva, imposta di registro, ipotecaria e catastale) saranno calcolati sulla medesima base imponibile, e ciò anche qualora il prezzo effettivo di cessione fosse inferiore a quello stimato. Unica possibilità offerta per sminuire il divario tra prezzo di vendita e valore fiscale del terreno è quella di provvedere ad una nuova rideterminazione, con una stima inferiore rispetto a quella precedente e, in questo caso, senza corrispondere imposta sostitutiva (12), ma senza possibilità di ripetere la differenza corrisposta sul maggior valore emerso in precedenza (13). La spiegazione di questa interpretazione è indicata nella estrapolazione, dalla previsione testuale del sesto comma dell’art. 7 citato, di un principio «che prevede la omogeneità del valore fiscale del terreno ai fini delle impo-

(10) A tale proposito, parla di «valore minimo “dichiarabile”» S. Cannizzaro, Telefisco 2013, la circolare dell’Agenzia delle Entrate. Risposte ai quesiti sulla “rideterminazione” del valore dei terreni, Studi e Materiali, Consiglio nazionale del Notariato, 2013. (11) Agenzia Entrate, circolare n. 1/E del 15.02.2013, par. 4.1, che sul punto richiama le precedenti circolari n. 81/E del 2002 e n. 16/E del 2005. (12) Agenzia delle Entrate, Ris. 111/E del 22.10.2010. (13) Tale possibilità è testualmente indicata, con i relativi limiti, nella circolare n. 1/E del 2013.


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ste dirette e delle imposte di registro ipotecarie e catastali», e sulla base del quale, pertanto, avverrebbe che «nel caso in cui nell’atto di trasferimento sia indicato un valore inferiore a quello rivalutato, tornino applicabili le regole ordinarie di determinazione delle plusvalenze indicate nel richiamato articolo 82 del TUIR, senza tener conto del valore rideterminato» (14). La disamina può essere completata citando un argomento spesso richiamato negli accertamenti, unitamente a quelli indicati nelle circolari sopra richiamate. Gli Uffici impositori non mancano infatti di contestare al contribuente che, indicando nell’atto di cessione del terreno un valore inferiore a quello determinato con la perizia giurata di stima, egli non potrebbe far valere gli effetti della rivalutazione del bene, alla quale, in qualche modo, dimostrerebbe di voler rinunciare, esponendosi alla rettifica anche con riferimento alla determinazione della plusvalenza tassabile (15). Detta argomentazione trae con ogni probabilità origine nella risalente circolare n. 15/E del 2002, ove, con previsione immotivatamente rigida – come visto poi in qualche modo smussata nella circolare n. 1/2013 – si indicava che «Qualora, invece, il venditore intenda discostarsi del valore attribuito al terreno dalla perizia – ad esempio perché il terreno ha subito un deprezzamento per cause naturali o per effetto dell’adozione di nuovi strumenti urbanistici –, ai fini delle imposte di trasferimento valgono le regole sulla determinazione della base imponibile dettate dalle singole leggi d’imposta e per il calcolo della plusvalenza deve essere assunto, quale valore iniziale di riferimento, il costo o il valore di acquisto del terreno, secondo gli ordinari criteri indicati dall’articolo 82 del TUIR». 3. Avverso tale interpretazione si è quindi nel tempo pronunciata parte della giurisprudenza di merito, dalla quale è promanato un orientamento il cui fondamento giuridico appare, per la verità, difficilmente attaccabile. I Giudici tributari hanno infatti espressamente rilevato come la circostanza della indicazione del valore di perizia nell’atto traslativo inerente il terreno “rivalutato” non costituisca requisito stabilito dalla legge n. 448/2001 per va-

(14) Agenzia delle Entrate, circolare n. 81 del 06.11.2002. (15) L’utilizzo di tale argomento da parte dell’Amministrazione finanziaria emerge quantomeno dalla ricostruzione processuale compiuta nella sentenza della C.T.R. di Venezia, sez. XI, 29.03.2017, n. 427.


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lersi del regime impositivo ivi previsto, con la conseguenza che la mancanza di un tale elemento non può precludere i benefici stabiliti dalla legge. Lo stesso art. 7 della legge n. 448/2001 pone infatti quali uniche condizioni per l’assunzione del valore di perizia anziché di quello storico come dato per il calcolo di eventuali plusvalenze quelle per cui: 1) il valore stimato del terreno sia assoggettato ad una imposta sostitutiva e 2) che l’imposta sostitutiva medesima venga versata (16), il tutto entro i termini stabiliti dal legislatore. Quanto sopra costituirebbe elemento sufficiente a consentire al contribuente di valersi delle disposizioni agevolative di cui alla L. n. 448/2001, data la necessità, a tale scopo, di rispettare tutti (e solo questi) i requisiti previsti dal legislatore, in considerazione della riserva di legge stabilita in materia tributaria dall’art. 23 Cost. e del ben noto carattere non normativo dei pronunciamenti di prassi dell’Agenzia delle Entrate, insuscettibili di integrare un precetto di legge. Non si era peraltro mancato di evidenziare il carattere soverchiamente sanzionatorio, a fronte di violazioni importanti comunque perdite limitate per l’Erario, dell’interpretazione adottata dall’Agenzia delle Entrate, che venne finanche tacciata di “macroscopica iniquità” (17). Infatti, le conseguenze del disconoscimento ex-post della rivalutazione operata ai sensi della L. n. 448/2001 per il contribuente sono pesantissime, e costituite: dalla perdita dell’imposta sostitutiva versata, che rimane acquisita all’Erario, senza alcun corrispondente vantaggio; dal calcolo della plusvalenza come differenza tra il prezzo di cessione e quello storico di acquisto, con sottoposizione di tale importo alla tassazione ordinaria secondo gli artt. 67 e 68 TUIR, con il solo beneficio della tassazione separata ex art. 17, comma 1, lett. g-bis TUIR; dall’applicazione, infine, delle sanzioni per infedele dichiarazione ex art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 471/1997 per il mancato computo della plusvalenza che si assume conseguita quale reddito diverso.

(16) In questo preciso senso si esprimeva la C.T.R. di Milano, sez. XLIV, sent. 11.11.2011, n. 169. Ad analoghe conclusioni era giunta la C.T.R. di Torino, sez. V, sent. 10.02.2011, n. 11. (17) Interessanti le affermazioni della C.T.R. di Torino, sent. n. 11/2011, cit., ove si indicava che: «infondata, illegittima oltre che di “macroscopica iniquità” - come afferma la sentenza impugnata - si rivela la determinazione dell’Agenzia di assoggettare a tassazione, come sanzione impropria, una plusvalenza calcolata su un costo storico d’acquisto non più rilevante fiscalmente, perché sostituito per legge dal valore peritale, assodato che l’unica condizione posta dal legislatore, l’imposta sostitutiva, è stata soddisfatta dal contribuente».


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4. Su tali presupposti, la Suprema Corte di Cassazione era stata quindi chiamata ad intervenire su ricorsi presentati dall’Agenzia delle Entrate, posto che l’orientamento sostenuto dall’Amministrazione finanziaria nelle proprie circolari risultava messo in discussione nei suoi stessi fondamenti. Le aspettative erariali rimasero probabilmente disattese, date le posizioni particolarmente chiare manifestate nelle ordinanze che furono così emesse dalla sez. VI nel 2016 (18). I giudizi in questione riguardavano proprio casi di terreni oggetto di rivalutazione e poi ceduti a prezzi inferiori al valore determinato mediante la perizia giurata di stima fatta redigere dal contribuente, sul quale era stata corrisposta l’imposta sostitutiva. In un primo ricorso, facendo valere la sua citata interpretazione, l’Agenzia delle Entrate riteneva non applicabili i benefici di cui all’art. 7 per il semplice fatto che la vendita era avvenuta per un prezzo inferiore a quello di perizia. La Corte di Cassazione (19), lapidariamente, evidenziò che l’art. 7 della legge n. 448/2001 prevede, per il calcolo della plusvalenza in via “agevolata”, come differenza tra il prezzo di vendita e il valore rideterminato del terreno, due sole condizioni: 1) l’assoggettamento del valore del bene alla data indicata dal legislatore ad imposta sostitutiva pari al 4%; 2) il versamento di tale imposta entro i termini stabiliti dal legislatore. In maniera inequivocabile, la Corte indicava che «Non risulta nessun ulteriore requisito ai fini della facoltà di utilizzare la suddetta deroga di determinazione dell’imponibile, attesa l’assenza di ulteriori limitazioni poste dalla legge a tal proposito e l’irrilevanza di quanto invece previsto da atti non normativi, come le circolari amministrative». Quale conseguenza, si evidenziava che la mancata indicazione nel rogito di vendita dell’immobile del valore del cespite come rideterminato ex art. 7, L. n. 481/2001 non può costituire condizione ostativa per valersi della deroga ai normali criteri di determinazione delle plusvalenza che tale disposizione prevede. Ulteriore “attacco” alle tesi dell’Amministrazione finanziaria era intervenuto mediante una ordinanza di poco successiva, pronunciatasi sul tema della ipotetica inapplicabilità della rivalutazione, o di decadenza dalla stessa, o ancora di implicita rinuncia alla rideterminazione del valore, nel caso di vendita

(18) Il riferimento è alle ordinanze Cass., sez. VI, 28.09.2016, n. 19242 e 29.11.2016, n. 24310. (19) Cass., ord. 19242/2016, cit.


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del terreno a prezzo inferiore a quello di perizia, sostenuta, come visto, nella circolare n. 15/E del 2002. Riportando le identiche premesse della decisione citata poco sopra, la stessa sez. VI riteneva di esplicitare che a carico del contribuente che abbia approfittato della possibilità di rideterminare il valore del proprio terreno non sussiste alcun vincolo nella determinazione del corrispettivo di vendita del cespite, «non potendo in particolare ritenersi che il valore del cespite come rideterminato L. n. 448 del 2001, ex art. 7, costituisca valore legale inderogabile e condizione ostativa alla facoltà per il contribuente di alienare il bene ad un prezzo inferiore» (20), discendendone l’inesistenza di alcuna decadenza a carico del contribuente, e l’impossibilità per l’Agenzia delle Entrate di rideterminare la plusvalenza secondo gli ordinari criteri. 5. Tale indirizzo interpretativo sembrava ormai affermato e pacifico, come testimoniano alcune rilevanti sentenze di merito successive, nelle quali esso veniva dato ormai per consolidato, evidenziandosi la sua fondatezza e non essendovi quindi ragioni per porlo in dubbio (21). In questo scenario desta quindi perplessità il fatto che la nuova ordinanza in commento, emessa dalla sez. tributaria della Corte di Cassazione (22), sostanzialmente bypassi la precedente giurisprudenza, e aderisca, in maniera apparentemente acritica, all’interpretazione dell’art. 7, L. n. 448/2001, sostenuta dall’Agenzia delle Entrate.

(20) Cass., ord. 24310/2016, cit. In termini perfettamente analoghi, Cass., sez. VI, ord. 29.11.2016, n. 24316. (21) Si segnala C.T.R. di Roma, sez. V, sent. 30.05.2017, n. 3119, ove si argomenta che «l’appello merita accoglimento sulla base dell’interpretazione normativa, ormai accreditata da un univoco orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il fatto che il valore o costo di acquisto di un terreno sia stato rideterminato ai sensi dell’articolo 7, comma 1, della L. n. 448 del 2001, ai fini del computo delle plusvalenze e minusvalenze di cui all’articolo 81, comma 1, lettere a) e b), del TUIR, attraverso una perizia giurata di stima e mediante assoggettamento del valore rideterminato ad un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi, non esclude che in occasione di successivi atti traslativi il medesimo terreno sia alienato verso un corrispettivo anche inferiore all’entità del valore rideterminato, senza che in tale circostanza debba reputarsi riemergente, ai fini del computo della plusvalenza, il valore o costo di acquisto originario». Interessante, anche per la ricognizione della giurisprudenza di merito pronunciatasi negli anni immediatamente antecedenti, è inoltre la sentenza della C.T.R. di Venezia, sez. XI, 29.03.2017, n. 427, la quale pure compie finale riferimento alle citate ordinanze della Suprema Corte del 2016. (22) Cass., sez. trib., ord. 13.10.2017, n. 24136.


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Senza compiere alcun riferimento alle precedenti pronunce della sez. VI, la sez. tributaria è giunta infatti a disconoscere gli effetti della rivalutazione del terreno operata dal contribuente che aveva indicato, all’atto del rogito, un prezzo inferiore al valore di perizia, e così a considerare legittimo il computo della connessa plusvalenza secondo gli ordinari criteri di cui agli artt. 67 e 68 TUIR. Il problema fondamentale che questa decisione pone è probabilmente quello di avere messo in discussione un orientamento che si fondava su forti presupposti, e di averlo fatto con argomentazioni che appaiono per la verità non condivisibili. Il danno è forse ancora meglio percettibile, se si considera che almeno una successiva pronuncia, sempre della sez. tributaria (23), ha già aderito a questo stesso orientamento, anche in questo caso senza neppure dare conto della esistenza di una giurisprudenza perfettamente contraria sviluppatasi in seno alla sez. VI. Il contrasto è evidentissimo e l’incertezza che ne segue potenzialmente molto dannosa per tutto il contenzioso nel frattempo sviluppatosi. I presupposti su cui si fonda la decisione in commento appaiono, come si accennava, traballanti, e da questa circostanza emerge piuttosto chiaro il carattere forzato della conclusione raggiunta, tal quale risultava anche quello cui perveniva la prassi – contra legem, come evidenziato dalle pronunce citate più sopra – dell’Agenzia delle Entrate. L’argomento impiegato dalla sez. tributaria per giungere alle suddette conclusioni si fonda infatti sulla stessa lettura del comma 6 dell’art. 7, L. n. 448/2001, proposta dall’Agenzia delle Entrate, ossia sul ritenere che tale disposizione imponga al contribuente di indicare in atto, quale valore del terreno ceduto (24), quello indicato nella perizia. Un tale precetto può trarsi però soltanto da una lettura assolutamente forzata del citato comma 6. Questa disposizione ha infatti unicamente lo scopo di far sì che quello stesso valore, fino a concorrenza del quale, con il pagamento dell’imposta sostitutiva, il contribuente ha affrancato le plusvalenze reddituali potenzialmente conseguibili, sia assunto come minimo anche ai fini delle imposte di registro, ipotecaria e catastale.

(23) Cass., sez. trib., ord. 06.12.2017, n. 29184. (24) In realtà, dal dato testuale dell’ordinanza in commento, sembrerebbe che sia il prezzo di vendita a dover coincidere con il valore del terreno stimato ai fini della rivalutazione, sicché, per evitare il computo delle plusvalenze in via ordinaria, non sarebbe sufficiente neppure l’indicazione del valore stimato, ove superiore al prezzo effettivo di vendita.


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Ciò significa che, a prescindere dal prezzo di cessione, l’Ufficio è sempre legittimato a tassare l’atto ai fini delle imposte sui trasferimenti, eventualmente tramite accertamento, assumendo come base imponibile il valore di perizia (25). Quanto sopra costituisce logico corollario del differente riferimento compiuto, riguardo alle plusvalenze tassate nell’ambito delle imposte sui redditi, al corrispettivo di cessione, mentre nelle imposte di registro, ipotecaria e catastale la base imponibile è costituita dal valore del bene cui l’atto si riferisce. L’art. 51 del D.P.R. n. 131/1986, per la precisione, si riferisce, in caso di atti aventi ad oggetto beni immobili, al “valore venale in comune commercio”. Tale indicazione, letta in uno con il comma 6 dell’art. 7 citato, permette di capire il vero significato di quest’ultima disposizione, il cui scopo è quello di far sì che, una volta compiuta la rivalutazione, per valore venale in comune commercio del cespite debba inderogabilmente essere assunto quello di perizia. Questo spiega anche l’istruzione, in sé logica, dell’Agenzia delle Entrate (26) secondo cui il contribuente che veda il valore del terreno scendere dopo una prima rivalutazione può, qualora operante, ricorrere ad una nuova perizia per rideterminare al ribasso il valore del bene, e così evitare di dover corrispondere le imposte di registro, ipotecaria e catastale su un imponibile che, per via della crisi economica o altri fattori, potrebbe in seguito discostarsi significativamente dal più basso corrispettivo al quale il terreno potrebbe essere effettivamente ceduto. Il principio di diritto che la Corte richiama, secondo cui «il valore indicato nella perizia non limita l’accertamento dell’Ufficio», è inoltre un riferimento fuori luogo, essendo stato pronunciato dalla stessa Corte di Cassazione in un caso esattamente opposto a quello in oggetto (27), ossia nel quale i Supremi Giudici intendevano indicare che l’esistenza di una perizia non preclude all’Ufficio di accertare un valore effettivo del cespite ancora superiore, dato che la vendita potrebbe intervenire anche in seguito ad un successivo incremento del valore venale del bene.

(25) Può citarsi, a tal fine, la sentenza della C.T.R. della Sardegna, 27.03.2015, n. 134, che infatti spiega la dicitura di cui all’art. 7, comma 6, L. n. 448/2001, nel senso per cui «se pure l’immobile viene compravenduto ad un prezzo inferiore, la plusvalenza è comunque calcolata sulla base del valore superiore contenuto nella perizia giurata». (26) Circolari n. 111/E del 2010 e 1/E del 2013, cit. (27) Cass., sez, trib., sent. 28.05.2014, n. 11960, nella quale era appunto in discussione se sia consentito «all’Amministrazione di imporre al contribuente un valore superiore a quello determinato con perizia giurata ai sensi della L. n. 448 del 2001, art. 7».


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6. Non risulta quindi possibile rinvenire un effettivo fondamento per la tesi secondo cui, se il contribuente vende ad un prezzo inferiore a quello di perizia, la rivalutazione dovrebbe intendersi in qualche modo “rinunciata” e quindi l’Ufficio sarebbe in diritto di accertare la plusvalenza secondo i criteri ordinari, in base al costo storico del cespite. La ratio dell’imposta appare infatti ben ricostruita nella decisione in commento, che tuttavia giunge a conclusioni che non sembrano conciliabili con tali premesse. Come correttamente indica la Corte, «la natura dell’imposta sostitutiva in esame è quella di un’imposta “volontaria”, in quanto è frutto di una libera scelta del contribuente, il quale opta per la rideterminazione del valore del bene, con conseguente versamento dell’imposta sostitutiva, nella prospettiva, in caso di futura cessione, di un risparmio sull’imposta ordinaria altrimenti dovuta sulla plusvalenza non affrancata, ricevendone l’Amministrazione finanziaria un immediato introito fiscale» (28). Il contribuente, dunque, versa allo Stato immediatamente l’imposta che gli consente di evitare, eventualmente, l’imposizione ordinaria sulla plusvalenza, e con ciò, a fronte del vantaggio economico che gli deriverebbe nel caso in cui la vendita andasse a buon fine, assume il rischio di assolvere tale imposta anche nell’ipotesi in cui non dovesse poi effettivamente alienare il cespite, né quindi conseguire alcuna plusvalenza (29). Nella contemperazione di interessi così ricostruita, tuttavia, non è dato comprendere come lo Stato, secondo l’ordinanza in commento, potrebbe rimettere in discussione gli effetti del versamento dell’imposta sostitutiva sol perché il bene venga ceduto ad un prezzo inferiore al valore di perizia. Il comma 6 dell’art. 7 citato sta solo a significare, in applicazione di quel principio di «omogeneità del valore fiscale del terreno ai fini delle

(28) Cass., sez. trib., ord. n. 24136/2017, cit. (29) Il principio appare ben illustrato in una decisione della C.T.R. Puglia (sez. VII, sent. 15.05.2014, n. 1111), nei seguenti termini: «Ed ancora, non va trascurato che la finalità della norma agevolativa in questione (che non a caso è contenuta in una legge finanziaria) è stata e continua ad essere quella di fare “cassa” per ragioni di bilancio dello Stato. Onde la sua logica è quella di invogliare il contribuente a pagare anticipatamente l’imposta rispetto al momento della cessione del suolo affrancando la relativa plusvalenza nel momento in cui la stessa viene a realizzarsi. Appare del tutto ovvio, dunque, che nel limite del valore di perizia, qualunque prezzo riscosso dal cedente deve ritenersi aver già scontato la relativa imposta mentre, nel caso di maggior prezzo di vendita rispetto al suddetto valore è logico che verrebbe a realizzarsi una ulteriore plusvalenza che andrebbe assoggettata alla imposta prevista per la tassazione separata».


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imposte dirette e delle imposte di registro ipotecarie e catastali» che l’Agenzia indica come informatore della disposizione (30), che se l’imposizione sui redditi viene assolta, in via sostitutiva, sul valore di perizia (e questo a prescindere dall’eventuale minore prezzo di cessione), l’Ufficio è in diritto di applicare tale stesso valore per le imposte di registro, ipotecaria e catastale. A ben vedere, l’interpretazione sostenuta dall’Agenzia delle Entrate mostra un fondamento di carattere eminentemente pratico (31). Infatti, stanti i più brevi termini per l’accertamento delle imposte di registro, ipotecaria e catastale, rispetto a quelli previsti per le imposte sui redditi, ben potrebbe accadere che, nel momento in cui l’Ufficio proceda alla verifica della posizione del contribuente per accertarsi che la plusvalenza relativa alla vendita del terreno sia stata correttamente tassata, i termini per l’accertamento delle imposte sui trasferimenti siano già decorsi. Vi è dunque una necessità pratica, di evitare la perdita di gettito, sulla base della quale è stata fondata e viene sostenuta un’interpretazione contraria alla legge. Peraltro, il comportamento del contribuente che non evidenzi in atto l’intervenuto assolvimento dell’imposta sostitutiva di cui alla L. n. 448/2001 non pregiudica la capacità di accertamento dell’Ufficio, come invece sembra essere sostenuto dall’Amministrazione finanziaria (32). La “chiusura” del sistema si rinviene infatti nell’obbligo, per il contribuente, di indicare nella dichiarazione dei redditi il valore rivalutato e l’imposta sostitutiva dovuta in relazione ai terreni oggetto di rivalutazione. L’Amministrazione finanziaria dispone quindi di un chiaro “alert” con cui il contribuente evidenzia, a prescindere dal riferimento in atti sottoposti alla registrazione, di essersi avvalso della possibilità di rideterminare il valore fiscale del proprio terreno.

(30) Agenzia delle Entrate, Circ. n. 1/E del 2013, cit. (31) Come evidenzia S. Cannizzaro, Telefisco 2013, cit., ciò era stato osservato fin dalla emanazione dall’emanazione della circolare n. 81 del 2002. La commissione studi tributari del Consiglio nazionale del notariato, fornendo uno dei primi commenti di tale interpretazione dell’art. 7, comma 6, L. n. 448/2001, indicava infatti che «l’apparente logicità dell’interpretazione ministeriale, se ha il pregio di risolvere con facilità (comodità) i problemi di coordinamento che la norma in rassegna pone in relazione alla determinazione della base imponibile della cessione agli effetti delle imposte indirette, introduce un ulteriore obbligo a carico del contribuente (quello della dichiarazione in atto) assolutamente non previsto dalla legge» (C.N.N., Studio 9-2002/T, est. Colucci). (32) Agenzia delle Entrate, Ris. n. 53/E del 27.05.2015, ove si palesa una «esigenza di non intralciare l’attività di controllo» ai fini delle imposte di registro, ipotecaria e catastale.


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Questo dovrebbe far sì che, ove lo stesso contribuente sottoponga a registrazione un atto con il quale alieni un terreno, la rivalutazione effettuata possa essere oggetto di verifica, al fine di consentire, se del caso, l’accertamento del maggior valore, rispetto a quello dichiarato in atto, del cespite ai fini delle imposte di registro, ipotecaria e catastale. Tornando per un attimo sull’iniquità delle conseguenze cui il disconoscimento della rivalutazione espone il contribuente, la più soverchia ingiustizia sembra individuabile nel fatto che l’imposta sostitutiva corrisposta, nonostante il calcolo della plusvalenza, da parte dell’Ufficio, in relazione al costo storico del terreno, non verrebbe in alcun modo restituita. Ci si deve quindi perlomeno chiedere se ciò non determini un indebito oggettivo a carico dello Stato, e quindi una violazione degli articoli 53 e 23 della Costituzione, oltre che del divieto della doppia imposizione, posto che le somme verrebbero acquisite in relazione ad una capacità economica assoggettata (anche) a tassazione secondo gli ordinari criteri di cui agli artt. 67 e 68 TUIR, e che la formula testuale dell’art. 7, L. n. 448/2001, così come interpretata nelle ordinanze della sez. VI del 2016, risulterebbe violata per l’addizione in via amministrativa di una condizione ulteriore, per giovarsi di tale regime premiale, rispetto a quelle previste dalla legge. Il problema pare tuttavia superabile alla radice, considerato che quella che è stata indicata nelle ordinanze della VI sez. della Cassazione è l’unica lettura del comma 6 dell’art. 7, L. n. 448/2001 che risulta compatibile con il principio di legalità e con lo stesso impianto della agevolazione in discorso. L’ordinanza della sezione tributaria qui commentata, e così anche quella immediatamente successiva (33), di essa meramente ricognitiva, non sembrano pertanto dotate di rigore argomentativo sufficiente per scalfire il chiaro e dimostrato indirizzo sviluppatosi nella giurisprudenza di merito e infine confermato nelle decisioni di legittimità del 2016, il cui valore sistematico e interpretativo non appare quindi in alcun modo sminuito.

Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti

(33) Cass., sez. trib., ord. n. 29184/2017, cit.


Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli

La non punibilità del concorso tra emittente ed utilizzatore di fatture false e la penalizzazione “ricostruttiva” della giurisprudenza Sommario: 1. La “ratio” essenzialmente semplificatrice dell’intervento del Legislatore del 2000 – 2. Soggetti apparentemente diversi – 3. L’ art. 489 c.p. (uso di atto falso) – 4. L’ art. 6 D. Lgs 74/2000 e la non punibilità del tentativo.

Con l’ art. 9 D. Lgs 74/2000 (nuova norma) il Legislatore ha inteso tenere nettamente distinte le posizioni dell’ emittente e dell’ utilizzatore di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti onde evitare la celebrazione di processi con un numero enorme di imputati, che in precedenza avevano resa impossibile ed assai difficoltosa la loro celebrazione. Nello scritto vengono esaminate le diverse posizioni della dottrina, con analisi della relativa casistica completa, derivanti dall’ effettivo ambito di applicabilità di tale art. 9. Through art. 9 of Legislative Decree 74/2000 (new norm) the Legislator has intended to clearly distinguish the positions of the issuer and the user of invoices or other documents for non-existent transactions in order to avoid the celebration of trials with a huge number of defendants. In this paper the Author examines the different positions of the doctrine, by analysing the relative complete case studies, deriving from the actual scope of applicability of such art. 9.

1. La “ratio” essenzialmente semplificatrice dell’intervento del Legislatore del 2000. – Fino alla riforma dei reati tributari di cui al d.lgs..74/2000 la normativa prima vigente (L.516/1982) considerava punibili sullo stesso piano sia l’emittente che l’utilizzatore di fatture false (o documenti equiparati) dando luogo quindi ad una possibile, ed effettivamente sempre contestata, ipotesi di concorso tra i due soggetti punibile in base alla disposizione generalizzante di cui all’art. 110 c.p, in forza della quale “ quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti”.


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Non essendo possibile, né utile, in questa sede esaminare tutte le sfaccettature delle questioni sostanziali e processuali suscitate da tale scelta normativa, merita soltanto segnalare che sul piano pratico la scelta stessa conduceva al risultato di unire in un solo fascicolo tutte le posizioni degli emittenti e degli utilizzatori dei documenti falsi, chiamati appunto a rispondere dello stesso reato a titolo di concorso. Ne era derivata la necessaria celebrazione di procedimenti con numerosissimi imputati, talvolta anche centinaia, con sostanzialmente impossibile celebrazione e conseguenti frequentissime prescrizioni dei reati contestati. Di tale situazione ovviamente approfittavano i “venditori” delle fatture false, con la connessa creazione di vere e proprie “aziende” e relativi “rappresentanti”, sguinzagliati sul territorio nazionale alla ricerca di “clienti” allettati dalla facile riducibilità del proprio reddito; tanto più che, come agevolmente gli emittenti venivano creati, gli stessi erano anche poi fatti scomparire. La marea di procedimenti del genere, che venivano localizzati, per la loro celebrazione, nel luogo di cessazione della continuazione ex art. 81 cpv.c.p., aveva condotto alla sostanziale impunità di un fenomeno, non solo processualmente, ma anche economicamente e socialmente insostenibile, e quindi inevitabilmente alla richiesta da varie parti di modifiche della disciplina vigente (1). Con l’entrata in vigore della riforma dei reati tributari attuata con il d.lgs. 74/2000 si è, pertanto, deciso, da parte del Legislatore, di introdurre una norma speciale in materia di “concorso di persone nei casi di emissione o utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” (art. 9), in forza della quale “in deroga all’art. 110 del codice penale: a) l’emittente di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto dall’art. 2; b) chi si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto dall’art. 8” (2).

(1) In argomento, oltre alla normativa ed ai commentari, v., tra gli altri, con prospettive di revisione del sistema, V. Patalano, B. Assumma, F. Marchetti, La disciplina penale in materia di imposte dirette e di IVA, Firenze, 1985, ed ivi citazioni. Sulla problematica della competenza per territorio v. G. Lattanzi (a cura di), Codice di procedura penale annotato con la giurisprudenza, Milano, 2017, 100 ss. (2) Sulla normativa penale in questione v., tra i tanti, L. Imperato, Sanzioni penali,


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Il problema, così almeno si è creduto (e sperato), era in tal modo risolto. I procedimenti a carico dell’utilizzatore delle fatture false, e dei suoi concorrenti in qualsiasi modo, andavano radicati nella sede di utilizzazione; i procedimenti a carico dell’emittente e dei suoi concorrenti nella sede dell’emissione. Eventuali interferenze probatorie o decisionali reciproche avrebbero dovute essere risolte specificamente, ed esclusivamente, dai rispettivi giudici, senza automatiche interferenze, con possibili riflessi nei diversi giudizi, così come, sulla base delle norme del codice di procedura penale, è compito della giurisprudenza, anche per quanto riguarda gli eventuali conflitti di giudicati. Si pensi al caso che nel giudizio relativo all’emissione risulti che le operazioni economiche siano state effettivamente tenute e, contemporaneamente, che nel giudizio relativo all’utilizzazione risulti il contrario, con conseguente necessità di intervento della Cassazione per la risoluzione, nei modi possibili, del conflitto tra giudicati. 2. Soggetti apparentemente diversi. – È il caso, comunque, di dire che nella pratica criminale si è agevolmente trovato il sistema di aggirare l’ostacolo imputando le condotte rispettive a soggetti (persone fisiche o preferibilmente giuridiche) diverse, in modo da non far apparire, se non attraverso indagini specifiche, e talvolta approfondite, la coincidenza economica e/o sostanziale tra i due soggetti. Ad es., la società A emette i documenti alla società B, che risulta peraltro essere appartenente allo stesso gruppo; e simili (3).

in G. Falsitta - A. Fantozzi - A. Marongiu - F. Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie, t. II, Accertamento e sanzioni, a cura di F. Moschetti, Padova, 2011, 593 ss. Sulla normativa precedente, in prospettiva storica, G. Bersani, Procedura penale tributaria, Milano, 1999, 243 ss. Sul particolare problema della perdurante applicabilità dell’ art. 416 c.p. (associazione per delinquere) pur in presenza dell’ art. 9 cit. v. A. Traversi - S. Gennai, Diritto penale commerciale, 3° ed., Milano, 2017, 224, n. 58. In linea più generale v. l’analisi di R. Miceli, Il sistema sanzionatorio tributario, a cura di A. Fantozzi, Torino, 2012, 953 ss.; per specifiche questioni inerenti alle imprese v. R. Lupi (a cura di), Fiscalità d’impresa e reati tributari, Milano, 2000. (3) Per ampia ed acuta trattazione, sia scientifica che operativa, delle ipotesi concretamente realizzate (e /o realizzabili) in questa materia v. gli scritti (nel presente articolo ampiamente citati) di P. Corso, Effetti dei condoni sul concorso tra emissione e utilizzo di false fatture, in Corr. trib., 2004, 45, 3538; Id., Fatture per operazioni inesistenti: doppia condanna per il “self made”, ivi, 2012, 25, 1925, ai quali comunque si rinvia. Sulla specifica problematica del rischio dei professionisti nelle operazioni internazionali v. P. Valente - I. Caraccioli - R. Rizzardi, Responsabilità del professionista, gestione dei rischi nelle operazioni internazionali, Milano 2014, con ampia casistica.


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Così, ad esempio, la Cassazione ha recentemente affermato che “in tema di reati tributari la disciplina in deroga al concorso di persone nel reato prevista dall’art. 9 d.lgs. 74 non si applica laddove il soggetto emittente le fatture per operazioni inesistenti coincida con l’utilizzatore delle stesse; nella specie in relazione a persona fisica amministratore delle società, rispettivamente emittente ed utilizzatrice delle medesime fatture per operazioni inesistenti” (4). Principio ribadito ancora più recentemente: “Il divieto imposto all’art. 9, presupponendo la diversità delle persone fisiche dell’emittente e dell’utilizzatore, non potrebbe mai trovare applicazione nel caso in cui la persona fisica che procede all’emissione delle fatture oggettivamente inesistenti e alla loro utilizzazione nelle dichiarazioni di imposta sia la medesima” (5). Quello fin qui affermato, oltre ad essere chiarissimo nella sua evidenza, risulta comunque già da un’applicazione letterale della disposizione, la quale, riferendosi alla normativa del concorso di persone nel reato, non può che riguardare appunto le sole persone fisiche autrici dei comportamenti. In questa medesima linea si inserisce la precisazione giurisprudenziale secondo la quale “in tema di emissione di fatture per operazioni inesistenti ex art. 8 d.lgs. 74/2000 il regime derogatorio previsto dal successivo art. 9, se esclude la possibilità di concorso reciproco fra i reati di cui agli artt.2 e 8 d.lgs. 74, non introduce per questa seconda ipotesi delittuosa alcuna deroga ai principi generali in tema di concorso di persone nel reato fissati dall’art. 110 c.p.”. Pertanto “laddove il professionista si veda affidare il solo compito di redigere la dichiarazione sulla base di documenti annotati in contabilità direttamente dal contribuente e si renda conto, al momento di predisporre la dichiarazione, che una fattura passiva si riferisce ad operazioni inesistenti, non vi è dubbio che questi concorra con il cliente, nel caso concreto la società cartiera, nel reato, redigendo la dichiarazione” (6). Ed ancora che “il regime previsto dall’art. 9 d.lgs. 74/2000,che esclude la possibilità di concorso reciproco fra il reato previsto dall’art. 2 e quello previsto dall’art. 8 dello stesso decreto, ha la finalità di evitare che la medesima condotta sostanziale sia punita due volte, ma non introduce alcuna deroga ai

(4) Cass., sez. III pen., 25 ottobre 2016 n. 5434, in CED Cassazione, in Leggi d’Italia, 10/5/2018. (5) Cass., sez. III pen., 16 marzo 2017 n.11034, in Leggi d’Italia, 10/5/2018. (6) Cass.,sez.III pen.,11 febbraio 2015 n.19335,in Leggi d’Italia, 10/5/2018.


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principi generali in tema di concorso di persone nel reato fissati dall’art. 110 c.p., di talchè ben può configurarsi una responsabilità a titolo di concorso del soggetto nella condotta del destinatario del bollettario in bianco che, formando la fattura, abbia integrato il delitto di cui al predetto art. 2 d.lgs. 74/2000” (7). Alla stregua di tale precisazione la giurisprudenza ha, ad esempio, ritenuto che “risponde di concorso nella frode fiscale commessa dall’utilizzatore di fatture emesse per operazioni inesistenti l’autotrasportatore che sottoscriva per quietanza i documenti fittizi, così attestando l’avvenuto trasporto dei beni”, in quanto “la sottoscrizione per quietanza, a fronte di un rapporto fittizio, serve a rendere credibile l’esistenza di un rapporto reale che giustifica l’emissione della fattura” (8). Nella stessa linea, ancora, ”in tema di reati tributari la disciplina in deroga al concorso di persone nel reato prevista dall’art. 9 d.lgs. 74 non si applica laddove amministratore delle società, rispettivamente emittente ed utilizzatrice delle stesse fatture per operazioni inesistenti sia la medesima persona fisica” (9) e che “il potenziale utilizzatore di documenti o fatture emesse per operazioni inesistenti concorre con l’emittente secondo l’ordinaria disciplina dettata dall’art. 110 c.p., non essendo applicabile in tal caso il regime derogatorio previsto dall’art. 9 d.lgs. 74”,e ciò in quanto “una diversa interpretazione determinerebbe una situazione di irrilevanza penale nei confronti di chi abbia posto in essere comportamenti riconducibili alla previsione concorsuale in relazione all’emissione della documentazione fittizia, non utilizzando poi le fatture per essere avvenuti gli accertamenti prima della scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione, poiché questi non potrebbe essere sanzionato né a norma dell’art. 8, a titolo di concorso, né a norma dell’art. 2,a titolo di tentativo” (10). Parimenti si è precisato che “in tema di reati tributari la disciplina in deroga al concorso di persone nel reato prevista dall’art. 9 d.lgs. 74 non esclude il concorso nella condotta di chi emette la fattura o il documento per un’operazione inesistente (art. 8), in quanto si tratta di reato comune” (11).

(7) Cass., sez. III pen., 15 ottobre 2014 n. 50628, in Boll. trib., 2015, 11, 871. (8) Cass., sez. III pen., 7 luglio 2011 n. 35730, in Leggi d’Italia, 9/5/2018. (9) Cass., sez. III pen., 6 ottobre 2011 n. 47862, in Leggi d’Italia, 9/5/2018. (10) Cass., sez. III pen., 17 marzo 2010 n. 14862, in Leggi d’Italia, 9/5/2018. (11) V. n. 9. Per ampia trattazione della problematica suscitata dall’art. 9 cit. v. D.Badodi, in C. Nocerino - S. Putinati, La riforma dei reti tributari, Le novità del D. Lgs n. 158, Torino 2015, 145 ss.


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Il principio generale desumibile dalla corretta (e restrittiva) interpretazione dell’art. 9 cit. è, dunque, quello per cui l’emittente (che tale soltanto sia stato) non può essere chiamato a rispondere di concorso con l’utilizzatore e l’utilizzatore (che tale soltanto sia stato) non può essere chiamato a rispondere di concorso con l’emittente. Diverse – e quindi da escludere dalla sfera applicativa della disposizione dell’art. 9 – sono invece le condotte di chi abbia soltanto concorso nell’utilizzazione ovvero nell’emissione, in tal caso dovendosi fare ricorso soltanto alla regola generale dell’art. 110 c.p. Di tale reale disciplina effettivamente esclusa occorre, quindi, tener conto nella sua precisa realtà onde evitare che all’art. 9 si attribuiscano delle potenzialità eliminative di responsabilità penale che il Legislatore non ha inteso assolutamente voler prevedere. In questa linea interpretativa della norma “speciale” si è posta la migliore dottrina, secondo la quale “la scelta tra il punire chi risulti, al contempo, emittente ed utilizzatore degli stessi documenti o fatture per operazioni inesistenti come emittente o come utilizzatore non è rimessa alla discrezionalità dell’autorità giudiziaria, ma è operata direttamente dal Legislatore. La questione assume peculiare rilevanza alla luce della L.289/2002 che, in presenza di un comportamento fattivo del contribuente conforme alle aspettative del Legislatore, riconosce una causa di non punibilità per il delitto di utilizzo di false fatture e la esclude implicitamente per il delitto di emissione” (12). Di fronte a tale scelta legislativa potrebbe allora sorgere la superficiale impressione che in materia tributaria sia stata adottata una linea di favore per l’autore di reati allo scopo di garantirgli che alla commissione di due illeciti penali seguirà la sanzione per uno solo di essi, “favor rei” questo che sarebbe difficilmente compatibile, in linea di politica criminale, con il dichiarato obiettivo del Legislatore di rigore sanzionatorio perseguito dal d.lgs. 74. In realtà, invece, la motivazione offerta per questa scelta legislativa appare essere un’altra, di ordine logico e sistematico. L’art. 9 esclude, in deroga all’art. 110 c.p., la configurabilità del concorso dell’emittente nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso dall’utilizzatore e, specularmente, del concorso dell’utilizzatore nel reato di emissione.

(12) V. n. 3. V. in argomento, con altre citazioni, anche relative a noti casi giurisprudenziali, v. G. Gambogi, La riforma dei reati tributari, Commento al D.Lgs. 24 settembre 2015 n. 158, Milano, 2016, 185 ss.


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Per quanto attiene all’emittente la previsione mira a rendere inequivoca una soluzione comunque già ricavabile dai principi generali: essendo infatti l’emissione punita autonomamente già “a monte”, a prescindere dal successivo comportamento dell’utilizzatore, ammettere che l’emittente possa essere chiamato a rispondere tanto del delitto di emissione che di concorso in quello di dichiarazione fraudolenta significherebbe in sostanza punirlo due volte per il medesimo fatto. Diversamente per quel che riguarda l’utilizzatore la disposizione partecipa della medesima logica sottesa all’art. 6 d.lgs. 74, che è quella di ancorare comunque la punibilità al momento della dichiarazione, evitando una diretta “resurrezione” della figura del “reato prodromico”. In difetto dell’enunciato in esame, infatti, il soggetto a favore del quale venga emessa una fattura o altro documento per operazioni inesistenti potrebbe essere considerato, in buona parte dei casi, ancorchè egli non si sia successivamente avvalso della fattura o del documento stesso a supporto di una dichiarazione inveritiera, come egualmente punibile in veste di compartecipe, quantomeno morale, nel delitto di emissione, alla cui base sta normalmente un accordo tra emittente e beneficiario. In tale prospettiva è, dunque, certamente comprensibile che l’utilizzatore, in dichiarazione dei redditi o dell’IVA, delle fatture o dei documenti falsi sia punibile perché dall’atto prodromico (acquisizione delle fatture o dei documenti falsi) è passato al compimento del fatto produttivo di lesione (dichiarazione). Meno comprensibile sembra essere invece la punizione dell’emittente slegata dalla punizione dell’utilizzazione che altri può aver fatto a valle delle fatture o dei documenti falsi. Infatti, almeno nei casi nei quali non viene provato l’utilizzo a valle, viene ad essere sanzionata un’attività prodromica alla dichiarazione altrui, che non risulta esserci stata, ma evidentemente considerata foriera di pericolosità per gli interessi erariali e degna quindi di essere repressa; ditalché si è parlato di una “eccezione” giustificata e quindi non espressione di scelta legislativa irragionevole (13). Alla stregua delle quattro categorie di soggetti delineate: a) emittente di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti; b) concorrente con

(13) V. n. 3. V. ulteriormente, con interessanti riferimenti ad ipotesi giurisprudenziali e dottrinarie, E. Basso - A. Viglione, I nuovi reati tributari, Torino, 2017, 74 ss.


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l’emittente di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti; c) utilizzatore ovvero “chi si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti; d) concorrente con l’utilizzatore, risulta dunque che, a fronte della regola generale per cui ogni concorrente nel medesimo reato soggiace alla pena per questo stabilita ex art. 110 c.p., l’art. 9 esclude che gli appartenenti alle prime due categorie possano essere considerati concorrenti nel reato attribuito agli appartenenti alle ultime due e viceversa esclude che gli appartenenti alle due ultime categorie possano considerati concorrenti nel reato attribuito alle prime due. Di conseguenza il “concorso di persone nel medesimo reato” è configurabile tra gli appartenenti alla terza e quarta categoria, ma non tra gli appartenenti alla prima e seconda categoria e gli appartenenti alle categorie terza e quarta. In sostanza, quindi, colui al quale viene attribuito il reato di emissione non può essere chiamato a rispondere come concorrente nel reato di utilizzazione delle predette fatture o documenti e correlativamente colui che si vede attribuire il delitto di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti non può essere chiamato a rispondere del delitto di emissione (14). Da quanto precede potrebbe, dunque, derivare l’impressione che in materia tributaria sia emerso un “favor rei” per l’autore di reati, così da garantirgli che alla commissione di due illeciti penali seguirà la sanzione per uno soltanto di essi, “favor” che ovviamente sarebbe difficilmente coniugabile con il dichiarato obiettivo di rigore sanzionatorio perseguito dal d.lgs. 74. La motivazione offerta per questa scelta legislativa risulta peraltro essere di diverso ordine logico e sistematico, ossia la seguente. L’art. 9 esclude, in deroga all’art. 110 c.p., la configurabilità del concorso dell’emittente nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso dall’utilizzatore e specularmente del concorso dell’utilizzatore nel reato di emissione. Per quanto attiene all’emittente la previsione mira a rendere inequivoca una soluzione comunque già ricavabile dai principi: essendo, infatti, l’emissione punita autonomamente ed “a monte”, a prescindere dal successivo comportamento dell’utilizzatore, ammettere che l’emittente possa essere chiamato a rispondere tanto del delitto di emissione che di concorso in quello di dichiarazione fraudolenta significherebbe in sostanza punirlo due volte per lo stesso fatto.

(14) V. n. 3. Sulla problematica della competenza per territorio v. A. Iorio, I nuovi reati tributari, 2° Ed., Milano, 2015, 106 ss.


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Diversamente, per quanto riguarda l’utilizzatore, la disposizione partecipa della medesima logica sottesa all’art. 6: “I delitti previsti dagli artt. 2,3 e 4 non sono comunque punibili a titolo di tentativo”. Logica che risulta essere quella di ancorare comunque la punibilità al momento della dichiarazione, evitando quindi la “resurrezione” del reato prodromico. Invero, in difetto di tale enunciato, il soggetto a favore del quale venga emessa una fattura od altro documento per operazioni inesistenti potrebbe essere considerato, in buona parte dei casi – ancorché egli non si sia successivamente avvalso della fattura o del documento a supporto di una dichiarazione inveritiera – come egualmente punibile in veste di compartecipe, quantomeno morale, nel delitto di emissione, alla cui base sussiste normalmente un accordo tra emittente e beneficiario. In questa prospettiva appare allora comprensibile che l’utilizzatore in dichiarazione dei redditi od IVA delle fatture o dei documenti falsi sia punibile perché dall’atto prodromico (acquisizione delle fatture o dei documenti falsi) è passato al compimento del fatto produttivo di lesione (dichiarazione). Meno comprensibile appare invece la punizione dell’emittente slegata dall’utilizzo che altri può avere fatto a valle delle fatture o dei documenti falsi. Ed invero, almeno nei casi nei quali non viene provato l’utilizzo a valle, viene ad essere sanzionata un’attività prodromica alla dichiarazione altrui, che non risulta esserci stata, ma evidentemente considerata foriera di una pericolosità per gli interessi erariali degna comunque di essere repressa, tanto che si è parlato di “eccezione” giustificata e quindi non espressione di scelte legislative irrazionali. Alla stregua delle quattro categorie delineate (quali deducibili dallo stesso testo dell’art. 9) va ribadito che tutti i comportamenti rientranti in una delle predette categorie vanno assoggettati al regime sanzionatorio riservato alla stessa e che il divieto di “concorso nel reato” non può estendersi a soggetti diversi da quelli menzionati dal testo normativo. Colui che procura all’utilizzatore le fatture o i documenti per operazioni inesistenti, ma rimane estraneo al successivo utilizzo che di essi venga fatto in dichiarazione, non rientra nella quarta categoria in quanto non è concorrente con l’utilizzatore, ma può invece rientrare nella seconda categoria come concorrente nel reato dell’emittente, sussistendone i presupposti. L’utilizzatore di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, e chi concorre con esso, si sottrae comunque alle sanzioni dell’art. 8, anche se l’utilizzo che ne faccia non avvenga in sede di dichiarazione. Infatti l’art. 9 c.1 lett. b) non rinvia all’art. 2, ma descrive la condotta di “chi si avvale di fatture o


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altri documenti per operazioni inesistenti”, condotta che non evidenzia alcuna specifica forma di utilizzo e pertanto le abbraccia tutte. Di conseguenza non concorrerà con l’emittente non solo l’utilizzatore in dichiarazione, ma anche l’utilizzatore in altro modo dei predetti documenti e fatture. Quanto all’istigatore ad emettere fatture o altri documenti falsi, essendo l’istigazione una forma di concorso nel reato, non sarà punibile come concorrente nel delitto di emissione l’istigatore che coincida con l’utilizzatore (ad es., Tizio istiga Caio ad emettere fatture o documenti per operazioni inesistenti che poi Tizio utilizzerà in sede di dichiarazione). La sanzione sarà soltanto quella di cui all’art. 2 d.lgs. 74 per la dichiarazione fraudolenta e pertanto nemmeno questa sanzione vi sarà a carico di chi istighi taluno ad emettere fatture od operazioni inesistenti di cui l’istigatore farà uso ma non in dichiarazione. Sempre sulla base del tenore letterale dell’art. 9 (questa volta lett. a) l’emittente di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ed il suo concorrente vedranno esclusa la punibilità a titolo di concorso nel reato previsto dall’art. 2, ma non la punibilità a titolo di concorso in reati diversi dall’art. 2.Per cui ne consegue che, escluso il concorso nel delitto di utilizzo in dichiarazione, potranno rispondere penalmente dell’utilizzo in forma diversa ove detta utilizzazione fuori dichiarazione sia considerata di rilievo penale alla luce di diverse scelte legislative (15). Va aggiunto a quanto precede che l’esaustività del dettato dell’art. 9 entra in crisi con riguardo ad una fattispecie di reato spesso rinvenibile nella prassi, ossia quella del soggetto che, autore o concorrente nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti, le utilizzi in sede di propria dichiarazione dei redditi od IVA. È il caso, cioè, in cui l’utilizzatore in dichiarazione sia anche il creatore delle false fatture od un concorrente con il creatore delle stesse (e cioè con l’emittente) e quindi un concorrente con sè stesso. Si faccia il caso dell’imprenditore persona fisica che rediga una dichiarazione fraudolenta utilizzando false fatture c.d. “autoprodotte” o della persona fisica rappresentante di persone giuridiche che emetta o faccia emettere da una società fatture “di comodo” che poi utilizzerà nella dichiarazione dei redditi di altra persona giuridica. In questi casi in termini tributari il contribuente beneficiario sarà una persona giuridica, ma penalmente dell’utilizzo in violazione dell’art. 2 risponderà sempre la persona fisica.

(15) V. n. 3. V. ancora n. 11.


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3. L’ art. 489 c.p. (uso di atto falso). – Fiuriuscendo dal settore fiscale la regola appare comunque la seguente: l’autore del falso sarà punito come tale, ma non per l’uso del falso; l’utilizzatore del falso, che non sia autore della falsità o concorrente in essa, sarà punibile solo per tale uso ai sensi e nei limiti di cui all’art. 489 c.p. (16). Nel settore tributario, invece, il fatto che l’emittente e l’utilizzatore coincidano nella stessa persona fisica impone una disanima della fattispecie che prescinde dalla non coincidenza della persona fisica con il contribuente persona giuridica. Invero, mentre tributariamente emittente ed utilizzatore possono essere persone giuridiche diverse anche se entrambe rappresentate dalla medesima persona fisica, dal punto di vista penale va prestata esclusiva considerazione alla persona fisica che agisce come emittente (o in nome e per conto dell’emittente) e come utilizzatore (o in nome e per conto dell’utilizzatore). Nei casi allora in cui detta persona fisica coincida (eventualità che vale anche nelle ipotesi in cui la stessa persona fisica sia emittente e concorrente nell’utilizzo oppure concorrente nell’emissione e nell’utilizzazione) si pone il problema di come applicare l’art. 9, e la risposta non può che essere quella per cui la stessa persona fisica che sia emittente (o concorrente) e utilizzatore (o concorrente) in dichiarazione, anche se ha agito in nome e per conto di contribuenti diversi, non può essere punita ai sensi dell’art. 8 (quale emittente o concorrente),ma solo a titolo di utilizzatore (o concorrente) ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 74. Invero, se c’è un caso in cui, “a fortiori”, è contestabile solo la violazione del disposto dell’art. 2 è proprio quello dell’attribuzione delle due condotte illecite alla medesima persona fisica, perché è in tale caso che maggiormente si impone di evitare che la medesima “condotta sostanziale” possa essere punita due volte per due distinti titoli di reato. La dottrina si è anche occupata di un profilo professionalmente molto interessante, ossia quello per cui, in concreto, “se accade (come in effetti accade) che taluno si presti ad emettere fatture per operazioni inesistenti e che talaltro utilizzi dette fatture nelle proprie dichiarazioni, ciò può avvenire (e avviene) in presenza di un preciso e comune interesse perseguito da entrambi

(16) Per ampie citazioni giurisprudenziali su tale norma v. G. Lattanzi, Codice penale annotato con la giurisprudenza, 2017, 1486 ss. La disciplina dei reati tributari è, comunque, speciale rispetto alla normativa codificata; tale rapporto reciproco meriterebbe approfondimento.


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in danno dello Stato”. Pertanto, l’emittente sa già che si guarderà bene dal presentare la dichiarazione che dovrà tener conto degli elementi attivi in realtà non percepiti o che, in ipotesi residuale, non terrà conto nella dichiarazione presentata di quella fattura. Invero, “il ricevente la fattura attestante operazioni in realtà inesistenti sa che non pagherà il corrispettivo (o che se lo vedrà retrocedere in massima parte) e che, con minimo esborso, disporrà di una fattura che consente di indicare elementi passivi e di conseguire un risparmio fiscale, senza aver ricevuto alcuna prestazione e, soprattutto ed è ciò che rileva, senza averne veramente sostenuto il costo. A parità di assunzione del rischio penale, l’emittente incamera l’IVA e o un quid per essersi prestato alla manovra ed il ricevente conseguirà il risparmio fiscale collegato ai maggiori (e apparentemente documentati) elementi passivi di cui terrà conto in dichiarazione e recupererà integralmente l’IVA versata” (17). Casi del genere sono stati esaminati dalla Cassazione, in sentenze relative a fatti concreti in cui una persona aveva proceduto in proprio sia all’emissione delle fatture per operazioni inesistenti sia alla loro successiva utilizzazione, e ciò in forza del fatto di essere legale rappresentante della ditta individuale emittente e amministratore della società utilizzatrice: un “self made” che elimina i corrispettivi dovuti all’emittente e che, sul piano della tenuta dell’omertà, elimina quell’affidamento sul silenzio dell’altro, che potrebbe venir meno per le circostanze più disparate, e che quindi ridimensiona il rischio di avvalersi della c.d. “cartiera”(stamperia di fatture che, operando a favore di più soggetti, è più facilmente individuabile come tale da parte degli organi di controllo) (18). La persona fisica in oggetto, nel caso specifico, era stata imputata sia di art. 8 che di art. 2 d.lgs. 74, ma ne era seguita una sentenza di non luogo a procedere per il delitto dell’art. 8 e di un decreto disponente il giudizio con riguardo al delitto dell’art. 2. Tale sentenza era stata motivata con l’applicazione dell’art. 9.Su tale caso la Cassazione è stata successivamente chiamata a pronunciarsi a seguito del ricorso del P.M. avverso la sentenza di non luogo a procedere per il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti, concernente la portata dell’art. 9, il cui regime derogatorio rispetto alla disciplina dell’art. 110 c.p. impone

1.

(17) V. n. 3. (18) Cass., sez. III pen., 21 maggio-8 marzo 2012 n. 19247, cit. in P. Corso, Fatture, cit.,


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cautele avverso interpretazioni eccessivamente favorevoli nei confronti di chi abbia organizzato e perseguito la condotta finalizzata all’evasione fiscale. Secondo la S.C. dev’essere distinta l’ipotesi di due soggetti giuridici diversi che si accordino per realizzare una frode fiscale mediante emissioneutilizzazione di fatture per operazioni inesistenti da quella in cui un unico soggetto sia nello stesso tempo amministratore del soggetto giuridico che emette la fattura ed amministratore del soggetto giuridico che l’utilizza in dichiarazione. Quest’ultimo, infatti, non ha bisogno di correlarsi con un emittente in quanto ha “emesso in proprio” le fatture che la società utilizzatrice ha ricevuto, inserito in contabilità e valorizzato in dichiarazione, giungendo alla conclusione che “la particolare intraprendenza e determinazione di detto soggetto (persona fisica) che controlla e condiziona la gestione e le scelte contabili delle società emittente ed utilizzatrice, secondo la sentenza in esame, “è ragione valida e sufficiente per non mantenere il divieto di doppia punibilità, stante un’accentuata pericolosità sociale”. Ne è conseguita l’affermazione del principio in forza del quale la disposizione dell’art. 9, contenente una deroga alla regola generale dell’art. 110 c.p., esclude la rilevanza penale del concorso dell’utilizzatore nelle condotte del diverso soggetto emittente, non trova applicazione quando la medesima persona proceda in proprio sia all’emissione delle fatture per operazioni inesistenti sia alla loro successiva utilizzazione (19). Il risultato pratico del principio sostenuto è, dunque, quello di un disincentivo dal “self made” in materia di false fatture in quanto i vantaggi di una gestione “autarchica” delle fatture per operazioni inesistenti (nel momento dell’emissione e dell’utilizzo in dichiarazione) vengono pagati con una doppia incriminazione e, in prospettiva, con una doppia condanna per quanto mitigata dall’incontestabile vincolo di continuazione tra i due delitti tributari attribuiti alla medesima persona fisica. Per giungere a tale risultato la S.C., dopo aver ricordato la “ratio” della disciplina introdotta con l’art. 9,esclude che essa sia applicabile al “self made” di false fatture perché l’emittente non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto dall’art. 2 e ciò significa che non è punibile come concorrente di un (necessariamente diverso) soggetto che è l’autore principale del delitto di dichiarazione fraudolenta, ma non è punibile quando sia esso stesso anche il contribuente autore del delitto di cui allo stesso art. 2.

(19) V. n. 18.


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L’analogo discorso, ripetibile con riguardo all’autore della dichiarazione fraudolenta, che non concorre con il diverso soggetto emittente delle false fatture nel delitto dell’art. 8 conferma, secondo la sentenza in esame, che “emittente e utilizzatore devono essere persone fisiche diverse, altrimenti l’art. 9 non è applicabile, e che non rileva la diversità delle società cui la stessa persona fisica ha fatto emettere e da cui ha fatto utilizzare in dichiarazione le fatture per operazioni inesistenti”. In dottrina ci si è posti il problema dell’applicabilità in materia penaltributaria dell’art. 489 c.p. in ordine all’“uso di atto falso”, giungendosi alla conclusione secondo la quale, esclusa l’applicazione dell’art. 9, si possa ritenere applicabile detta norma comune, con la seguente conclusione: “il contribuente infedele sarà punibile a titolo di emittente e non sarà punibile come utilizzatore in dichiarazione: il risultato pratico che si delinea è la stessa pena, sia pure per un diverso delitto tributario, ma non la doppia punibilità”, e quindi “il self made non viene premiato ma nemmeno doppiamente punito”, per cui argutamente si conclude che “l’autarchia non è considerata più disdicevole della ricerca di un complice” (20). Dai principi emergenti dalla casistica fin qui esaminata risulta, dunque, che la regola dell’art. 9 non può essere applicata allorché si tratti di predisposizioni di comportamenti idonei o comunque tesi a far apparire una situazione normativa diversa dalla realtà, come appunto nei casi in cui: - lo stesso soggetto fisico o giuridico emette ed utilizza le fatture - l’emittente non coincide con l’utilizzatore (o viceversa), ma si tratta di soggetti appartenenti ad una medesima realtà economica finalizzata, anche solo parzialmente, al risparmio illecito di imposte - la predisposta coincidenza economica (ancorché non giuridica) tra emittente ed utilizzatore viene mascherata attraverso operazioni prive di reale contenuto economico e destinate soltanto a far figurare un passaggio di denaro tra i vari soggetti L’unico caso (o gli unici casi) in cui si tratta di effettiva deroga alla disciplina dell’art. 110 c.p., non mascherata dal ricorso a negozi di “mera apparenza”, si verifica dunque allorché si versi in presenza di soggetti giuridici veramente distinti nella realtà economico-fattuale oppure aventi anche eventualmente (taluni) rapporti giuridici non determinanti peraltro il ricorso a strutture appositamente create dalla medesima sfera direttiva.

(20) V. n. 18.


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Di conseguenza solo la valutazione approfondita della struttura e dei comportamenti delle diverse entità giuridiche, in concreto esaminate, può portare alla conclusione che si tratti, oppure no, di una corretta situazione di “non coincidenza” tra emittente ed utilizzatore delle fatture e dei documenti di cui trattasi nei vari casi. Con riferimento alla confisca la S.C. ha stabilito che “in tema di fatture per operazioni inesistenti non può essere disposta la confisca per equivalente sui beni dell’emittente per il valore corrispondente al profitto conseguito dall’utilizzatore delle fatture medesime poiché il regime derogatorio previsto dall’art. 9,escludendo la configurabilità del concorso reciproco tra chi emette le fatture per operazioni inesistenti e chi se ne avvale, impedisce l’applicazione in questo caso del principio solidaristico, valido nei soli casi di illecito plurisoggettivo” (21). 4. L’ art. 6 d.lgs. 74/200 e la non punibilità del tentativo. – La disciplina derogatoria di un principio generale del diritto penale (art. 110) con riferimento ai reati di emissione ed utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di cui all’art. 9 dev’essere coordinata con altra disciplina derogatoria prevista dall’art. 6 in materia di tentativo, secondo la quale “i delitti previsti dagli artt.2,3 e 4 non sono comunque punibili a titolo di tentativo” (22). In relazione a tale disposizione la giurisprudenza, ad esempio, ha affermato che “in tema di reati tributari non risponde del reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74, nemmeno a titolo di tentativo, l’amministratore di una società il quale, dopo aver acquistato e registrato una fattura per operazioni inesistenti, sia cessato dalla carica prima della presentazione della dichiarazione fiscale per la cui redazione la medesima fattura venga poi utilizzata dal suo successore”. Per quanto concerne i reati di cui agli artt.3 e 4 d.lgs. 74, che si differenziano tra di loro esclusivamente per la diversa natura delle condotte rispettivamente punibili (con frode nel primo reato e senza frode nel secondo),si deve comunque tenere presente che, solo con riferimento alla “dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici”, il Legislatore ha tenuto a specificare nel c.2 che “il fatto si considera commesso avvalendosi di documenti falsi quando

(21) Cass., sez. III pen., 4 febbraio 2016 n. 15458, in CED Cassazione, 10/5/2018. (22) Cfr. L. Imperato, in Sanzioni penali, cit., 574 ss.; A. Lanzi - S. Putinati, Istituzioni di diritto penale dell’economia, Milano 2007, 168 ss.; v. anche G. Bellagamba - G.Cariti, I nuovi reati tributari, Milano, 2000, 83 ss.


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tali documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria”. In mancanza, quindi, di tale registrazione (o dell’equivalente detenzione a fini di prova) ha rilevanza la mancata responsabilità, specificamente indicata nell’art. 6, a titolo di tentativo. Per quanto concerne la dichiarazione infedele (art. 4) il fenomeno del tentativo non punibile ex art. 6 si può verificare allorché, ad es., nel bilancio, poi trasfuso nella dichiarazione dei redditi di una società, siano indicati degli elementi valutativi ritenuti non conformi, e sia specificato in atti accompagnatori al bilancio che questa dev’essere la loro “valutazione” senza che poi ciò effettivamente avvenga in sede di dichiarazione (con tutte le diverse opzioni valutative che la tematica del “passaggio” dal bilancio alla dichiarazione dei redditi comporta) (23).

Ivo Caraccioli

(23) Cass., sez. III pen., 27 aprile 2012 n. 23229, in Cass. pen. Mass. ann., 2013, 11, 4138. Per altre sentenze della Suprema Corte degli ultimi anni v., ancora, Cass., sez. III pen., 8 marzo 2012 n. 19247, in Il Fisco, 2012, 27, 1, 4284, con nota di TURIS; Id., sez. III pen., 20 dicembre 2012 n. 19023, in ivi, 2013, 22, 3385; Id., sez. III pen., 26 settembre 2013 n. 42641, in CED Cassazione, 2013; Id., sez. III pen., 2 luglio 2014 n. 43320, ivi, 2014 ; Id., sez. III pen., 11 febbraio 2015 n. 19335, in Leggi d’Italia, 20/4/2018; Id., sez. III pen., 4 febbraio 2016 n. 15458 in CED Cassazione, 2016 ; Id., sez. III pen., 2 luglio 2016 n. 35459, in Quotid. giur., 2016; Id., sez. III pen., 25 ottobre 2016 n. 5434, ivi, 2017; Id., sez. III pen., 16 marzo 2017 n. 11034, in Leggi d’Italia, 20 aprile 2018.


Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte di Giustizia europea, sez. VII, 2 gennaio 2017 - 12 aprile 2018, C 8/2017; Pre. Rosas - Rel. Toader e Jarašiūnas Imposta sul valore aggiunto – Rettifica dell’imposta – Rivalsa dell’Iva da parte del fornitore – Termine per la detrazione in capo al cessionario – Decorrenza – Data della fattura originaria – Inapplicabilità – Data della nota di debito successiva – Applicabilità Il termine per la detrazione dell’IVA derivante da una rettifica dell’Amministrazione finanziaria decorre dalla data della nota di addebito emessa dal fornitore successivamente alla rettifica e non dalla data della prima fattura emessa con riferimento alla transazione oggetto di verifica. (1)

[Omissis] 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 63, 167, 168, da 178 a 180, 182 e 219 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva IVA»), nonché del principio di neutralità fiscale. 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia insorta tra la Biosafe – Indústria de Reciclagens SA (in prosieguo: «Biosafe») e Flexipiso – Pavimentos SA (in prosieguo: «Flexipiso»), a seguito del diniego di quest’ultima di rimborsare alla Biosafe un supplemento d’imposta sul valore aggiunto (IVA) versata da quest’ultima a seguito di avviso di accertamento di maggiore imposta. Contesto normativo Diritto dell’Unione 3 L’articolo 63 della direttiva IVA prevede quanto segue: «Il fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile nel momento in cui è effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi». 4 Il titolo X di tale direttiva, relativo alle detrazioni, contiene un capo 1, intitolato «Origine e portata del diritto a detrazione», e composto dagli articoli da 167 a 172 di essa. L’articolo 167 così dispone: «Il diritto a detrazione sorge quando l’imposta detraibile diventa esigibile». 5 Il successivo articolo 168 così recita:


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«Nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo ha il diritto, nello Stato membro in cui effettua tali operazioni, di detrarre dall’importo dell’imposta di cui è debitore gli importi seguenti: a) l’IVA dovuta o assolta in tale Stato membro per i beni che gli sono o gli saranno ceduti e per i servizi che gli sono o gli saranno resi da un altro soggetto passivo; (…)». 6 Il capo 4 del titolo X della direttiva IVA, intitolato «Modalità di esercizio del diritto a detrazione», comprende in particolare gli articoli da 178 a 183. Ai sensi dell’articolo 178: «Per poter esercitare il diritto a detrazione, il soggetto passivo deve soddisfare le condizioni seguenti: a) per la detrazione di cui all’articolo 168, lettera a), relativa alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi, essere in possesso di una fattura redatta conformemente agli articoli da 220 a 236 e agli articoli 238, 239 e 240; (…)». 7 Il successivo articolo 179 prevede quanto segue: «Il soggetto passivo opera la detrazione globalmente, sottraendo dall’importo dell’imposta dovuta per un periodo d’imposta l’ammontare dell’IVA per la quale il diritto a detrazione è sorto, nello stesso periodo, ed è esercitato secondo quanto previsto all’articolo 178. (…)». 8 Ai sensi del successivo articolo 180: «Gli Stati membri possono autorizzare un soggetto passivo a procedere ad una detrazione che non è stata effettuata conformemente agli articoli 178 e 179». 9 Ai termini del successivo articolo 182, «gli Stati membri determinano le condizioni e le modalità di applicazione degli articoli 180 e 181» della direttiva stessa. 10 L’articolo 219 della direttiva IVA così recita: «Sono assimilati a una fattura tutti i documenti o messaggi che modificano e fanno riferimento in modo specifico e inequivocabile alla fattura iniziale». Diritto portoghese 11 Il Código do Imposto sobre o Valor Acrescentado (Codice dell’imposta sul valore aggiunto), nel testo applicabile al procedimento principale (in prosieguo: il «CIVA»), così dispone al suo articolo 7, intitolato «Fatto generatore ed esigibilità dell’imposta»: «1. Fatto salvo quanto disposto nei successivi paragrafi, l’imposta è dovuta e diventa esigibile: a) Nelle trasmissioni di beni, quando i beni sono messi a disposizione dell’acquirente; (…)». 12 L’articolo 8 del codice medesimo così recita:


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«1. Salve le disposizioni dell’articolo precedente, a condizione che la trasmissione di beni o la prestazione di servizi implichi l’obbligo di emissione di fattura o di documento equivalente, ai sensi dell’articolo 29, l’imposta diventa esigibile: a) se è rispettato il termine previsto per l’emissione della fattura o del documento equivalente, al momento della sua emissione; (…)». 13 Il successivo articolo 19, intitolato «Diritto a detrazione», prevede, al paragrafo 2, quanto segue: «La detrazione dell’imposta è consentita unicamente a condizione che l’imposta stessa sia esposta nei documenti seguenti, emessi a nome del soggetto passivo ed in suo possesso: a) in fatture e documenti equivalenti redatti a norma di legge; (…)». 14 A termini dell’articolo 22, paragrafo 1, del codice medesimo: «Il diritto a detrazione sorge nel momento in cui l’imposta detraibile diventa esigibile, conformemente a quanto previsto agli articoli 7 e 8, detraendo dall’importo complessivo dell’imposta dovuta per le operazioni fiscali del soggetto passivo, durante un periodo d’imposta, l’importo dell’imposta detraibile divenuta esigibile nel corso del medesimo periodo». 15 Il successivo articolo 29, paragrafo 7, recita come segue: «Una fattura o un documento equivalente devono essere emessi anche in caso di modifica, per qualsivoglia motivo, della base imponibile di un’operazione o della corrispondente imposta, ivi inclusa l’ipotesi di inesattezza». 16 L’articolo 36, paragrafo 1, del CIVA, prevede che la fattura o un documento equivalente, ai sensi del precedente articolo 29, debbano essere emessi entro il quinto giorno lavorativo successivo alla data in cui l’imposta diventa esigibile ai sensi dell’articolo 7 del codice medesimo. Tuttavia, in caso di assolvimento dell’imposta relativa a una cessione di beni o a una prestazione di servizi non ancora effettuate, la data di emissione del documento giustificativo coinciderà sempre con il percepimento del relativo importo. 17 A termini del successivo articolo 37, paragrafo 1: «Per poter essere addebitato agli acquirenti delle merci o agli utilizzatori dei servizi, l’importo dell’imposta assolta dev’essere aggiunto al valore della fattura o del documento equivalente». 18 L’articolo 79, paragrafo 1, del codice medesimo così recita: «L’acquirente dei beni o dei servizi imponibili che sia uno dei soggetti passivi di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), che agisca in tale veste e che non sia in regime di esenzione, è responsabile in solido con il fornitore per il pagamento dell’imposta, qualora la fattura o il documento equivalente, la cui emissione sia obbligatoria ai sensi dell’articolo 29, non sia stata/o redatta/o, contenga un’indicazione inesatta riguardo al nome o all’indirizzo delle parti intervenienti, alla natura o alla quantità


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dei beni trasmessi o dei servizi forniti, al prezzo o all’importo dell’imposta dovuta». 19 Ai sensi del successivo articolo 98, paragrafo 2: «Fatte salve le disposizioni speciali, il diritto alla detrazione o al rimborso dell’eccedenza d’imposta può essere esercitato unicamente nei quattro anni successivi, rispettivamente, al sorgere del diritto a detrazione o al versamento dell’eccedenza d’imposta». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 20 Nel corso del periodo compreso tra il febbraio 2008 e il maggio 2010, la Biosafe cedeva alla Flexipiso, soggetta ad IVA, granulato di caucciù prodotto da pneumatici riciclati, per un importo totale di EUR 664 538,77, applicando l’aliquota IVA ridotta del 5%. 21 In esito ad una verifica fiscale effettuata nel corso del 2011, relativa agli esercizi d’imposta compresi tra il 2008 ed il 2010, l’amministrazione finanziaria portoghese riteneva invece applicabile l’aliquota IVA ordinaria del 21% e emettendo relativo avviso in rettifica dell’IVA per l’importo complessivo di EUR 100 906,50. 22 La Biosafe versava tale somma chiedendone il rimborso alla Flexipiso con invio di relative note di addebito. La Flexipiso rifiutava di pagare tale supplemento d’IVA rilevando, in particolare, che le sarebbe preclusa la relativa detrazione, considerato che il termine quadriennale previsto all’articolo 98, paragrafo 2, del CIVA per le operazioni effettuate fino al 24 ottobre 2008 sarebbe già scaduto anteriormente alla ricezione delle note di addebito, avvenuta il 24 ottobre 2012, e che essa non sarebbe quindi tenuta a sopportare le conseguenze di un errore di cui la Biosafe sarebbe l’unica responsabile. 23 A seguito di tale diniego, la Biosafe agiva in giudizio al fine di ottenere la condanna della Flexipiso al rimborso della somma che essa aveva assolto, oltre interessi di mora. La domanda veniva respinta dai giudici sia di primo grado sia d’appello in base al rilievo che, sebbene esista l’obbligo di ripercuotere a valle l’IVA, l’addebito dell’imposta all’acquirente dei beni è subordinato all’emissione delle fatture o dei documenti equivalenti in tempo utile da consentirgli di procedere alla relativa detrazione. I giudici medesimi rilevavano che, quanto alle note di addebito ricevute dalla Flexipiso ad oltre quattro anni dall’emissione delle fatture iniziali, la Biosafe non poteva ripercuotere l’IVA ad esse relativa sulla Flexipiso, essendo ormai preclusa a quest’ultima la detraibilità dell’imposta ed essendo certo che l’errore relativo all’aliquota applicabile era imputabile alla Biosafe. 24 La Biosafe ricorreva quindi per cassazione dinanzi al giudice del rinvio, il Supremo Tribunal de Justiça (Corte suprema, Portogallo). A parere di quest’ultimo è dubbio se gli articoli 63, 167, 168, da 178 a 180 e 182 della direttiva IVA, nonché il principio di neutralità fiscale, ostino ad una normativa nazionale per effetto della quale, in circostanze come quelle oggetto del procedimento principale, il termine entro il quale l’acquirente può procedere alla detrazione del supplemento IVA inizi a decorrere dalla data di emissione delle fatture iniziali e non dall’emissione o dalla ricezione


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dei documenti di rettifica. A suo avviso, sarebbe parimenti dubbio se, in circostanze di tal genere, l’acquirente possa rifiutare il pagamento del supplemento IVA a fronte dell’impossibilità di procedere alla relativa detrazione. 25 Alla luce delle suesposte considerazioni, il Supremo Tribunal da Justiça (Corte suprema) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se la direttiva [IVA] e, in particolare, i suoi articoli 63, 167, 168, 178, 179, 180, 182 e 219, nonché il principio di neutralità, ostino ad una normativa per effetto della quale – in una fattispecie in cui il venditore dei beni, soggetto passivo IVA, sia stato sottoposto a verifica fiscale da cui sia emerso che l’aliquota IVA da questi applicata fosse inferiore a quella dovuta, e questi abbia quindi versato allo Stato il relativo supplemento d’imposta intendendo poi ottenerne il rimborso dall’acquirente, anch’esso soggetto passivo IVA – il termine per quest’ultimo ai fini della detraibilità dell’imposta supplementare decorra dall’emissione delle fatture iniziali e non dall’emissione o dalla ricezione dei documenti rettificativi. 2) In caso di risposta negativa alla precedente questione pregiudiziale, se la direttiva medesima e, in particolare, le menzionate disposizioni nonché il principio di neutralità fiscale ostino ad una normativa per effetto della quale l’acquirente dei beni, una volta ricevuti i documenti rettificativi delle fatture iniziali, emessi a seguito dell’ispezione fiscale e del versamento allo Stato del supplementare imposta, diretti ad ottenere il pagamento dell’imposta medesima quando il termine per l’esercizio del diritto a detrazione sia già scaduto, possa legittimamente rifiutare di effettuare il pagamento sostenendo che l’impossibilità di detrarre l’imposta complementare giustificherebbe il diniego di traslazione dell’imposta». Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione 26 Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 63, 167, 168, da 178 a 180, 182 e 219 della direttiva IVA nonché il principio di neutralità fiscale debbano essere interpretati nel senso che ostino alla normativa di uno Stato membro in forza della quale, in circostanze come quelle oggetto del procedimento principale in cui, in seguito ad avviso di accertamento di maggiore imposta, a distanza di vari anni dalla cessione dei beni di cui trattasi, è stato versato allo Stato un supplemento di IVA con emissione dei relativi documenti di rettifica delle fatture iniziali, il beneficio del diritto alla detrazione dell’IVA sia escluso, con la motivazione che il termine previsto dalla normativa medesima ai fini dell’esercizio di tale diritto sarebbe iniziato a decorrere dalla data di emissione delle dette fatture iniziali e sarebbe quindi scaduto. 27 Al riguardo, occorre ricordare che, secondo costante giurisprudenza della Corte, il diritto dei soggetti passivi di detrarre dall’IVA di cui sono debitori l’IVA dovuta o versata a monte per i beni acquistati e per i servizi loro prestati costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA istituito dalla normativa dell’Unione


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(sentenza del 21 marzo 2018, Volkswagen, C533/16, EU:C:2018:204, punto 37 e la giurisprudenza ivi citata). 28 Il regime delle detrazioni mira a sgravare interamente l’imprenditore dall’onere dell’IVA dovuta o pagata nell’ambito di tutte le proprie attività economiche. Il principio della neutralità fiscale posto alla base del sistema comune dell’IVA garantisce quindi la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché queste siano di per sé soggette all’IVA (sentenza del 21 marzo 2018, Volkswagen, C533/16, EU:C:2018:204, punto 38 e la giurisprudenza ivi citata). 29 Come ripetutamente sottolineato dalla Corte, il diritto a detrazione previsto dagli articoli 167 e seguenti della direttiva IVA costituisce parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni. Tale diritto va esercitato immediatamente per tutte le imposte che hanno gravato le operazioni effettuate a monte (sentenza del 21 marzo 2018 Volkswagen, C533/16, EU:C:2018:204, punto 39 e la giurisprudenza ivi citata). 30 Il diritto alla detrazione dell’IVA è tuttavia subordinato all’osservanza di requisiti o di condizioni tanto sostanziali che formali (sentenza del 21 marzo 2018 Volkswagen, C533/16, EU:C:2018:204, punto 40 e la giurisprudenza ivi citata). 31 Con riferimento ai requisiti o alle condizioni sostanziali, dall’articolo 168, lettera a), della direttiva IVA risulta che, per poter beneficiare di tale diritto, occorre, da una parte, che l’interessato sia un «soggetto passivo» ai sensi della direttiva suddetta e, dall’altra, che i beni o i servizi invocati per fondare il diritto alla detrazione dell’IVA siano utilizzati a valle dal soggetto passivo per le esigenze delle proprie operazioni tassate e che, a monte, tali beni siano ceduti o tali servizi siano resi da un altro soggetto passivo (sentenza del 21 marzo 2018, Volkswagen, C533/16, EU:C:2018:204, punto 41 e la giurisprudenza ivi citata). 32 Quanto alle modalità di esercizio del diritto alla detrazione dell’IVA, assimilabili a requisiti o a condizioni di natura formale, l’articolo 178, lettera a), della direttiva IVA prevede che il soggetto passivo debba detenere una fattura redatta in conformità agli articoli da 220 a 236 e agli articoli da 238 a 240 di essa (sentenza del 21 marzo 2018, Volkswagen, C533/16, EU:C:2018:204, punto 42 e la giurisprudenza ivi citata). 33 Dai suesposti rilievi emerge che, sebbene il diritto a detrazione, conformemente all’articolo 167 della direttiva IVA, sorga contestualmente all’esigibilità dell’imposta, il suo esercizio è possibile, ai sensi dell’articolo 178 della direttiva medesima, solo dal momento in cui il soggetto passivo sia in possesso della fattura (sentenza del 21 marzo 2018 Volkswagen, C533/16, EU:C:2018:204, punto 43 e la giurisprudenza ivi citata). 34 A termini dell’articolo 167 e dell’articolo 179, primo comma, della direttiva IVA, il diritto a detrazione va esercitato, in linea di principio, durante lo stesso periodo in cui esso è sorto, ossia nel momento in cui l’imposta diventa esigibile. 35 Ciononostante, ai sensi degli articoli 180 e 182 della citata direttiva, il soggetto


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passivo può essere autorizzato ad operare la detrazione anche se non ha esercitato il proprio diritto nel periodo in cui questo è sorto, fatto salvo, peraltro, il rispetto delle condizioni e delle modalità fissate dalle normative nazionali (sentenza del 21 marzo 2018, Volkswagen, C533/16, EU:C:2018:204, punto 45 e la giurisprudenza ivi citata). 36 Tuttavia, la possibilità di esercitare il diritto alla detrazione dell’IVA senza alcuna limitazione temporale contrasterebbe col principio della certezza del diritto, il quale esige che la situazione fiscale del soggetto passivo, con riferimento ai diritti e agli obblighi dello stesso nei confronti dell’amministrazione finanziaria, non possa essere indefinitamente rimessa in discussione (sentenza del 21 marzo 2018, Volkswagen, C533/16, EU:C:2018:204, punto 46 e la giurisprudenza ivi citata). 37 La Corte ha quindi già avuto modo di dichiarare che un termine di decadenza la cui scadenza porti a sanzionare il contribuente non sufficientemente diligente, il quale abbia omesso di richiedere la detrazione dell’IVA a monte, privandolo del diritto a detrazione, non può essere considerato incompatibile col regime instaurato dalla direttiva IVA, purché, da un lato, detto termine si applichi allo stesso modo ai diritti analoghi in materia fiscale fondati sul diritto interno e a quelli fondati sul diritto dell’Unione (principio di equivalenza) e, dall’altro, esso non renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto a detrazione (principio di effettività) (sentenza del 21 marzo 2018, Volkswagen, C533/16, EU:C:2018:204, punto 47 e la giurisprudenza ivi citata). 38 Inoltre, ai sensi dell’articolo 273 della direttiva IVA, gli Stati membri possono stabilire altri obblighi che ritengano necessari per assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e per evitare le evasioni. La lotta contro ogni possibile frode, evasione ed abuso è un obiettivo riconosciuto e promosso da tale direttiva. Tuttavia, le misure che gli Stati membri possono adottare in forza dello stesso articolo 273 non devono eccedere quanto è necessario per conseguire tali obiettivi. Esse non possono, pertanto, essere adoperate in modo da rimettere sistematicamente in discussione il diritto alla detrazione dell’IVA e, quindi, la neutralità dell’IVA stessa (sentenza del 21 marzo 2018, Volkswagen, C533/16, EU:C:2018:204, punto 48 e la giurisprudenza ivi citata). 39 Poiché il diniego del diritto a detrazione è un’eccezione all’applicazione del principio fondamentale che tale diritto costituisce, incombe alle amministrazioni finanziarie competenti dimostrare in termini giuridicamente validi la sussistenza degli elementi oggettivi che comprovano l’esistenza di un’evasione o di un abuso. Spetta poi ai giudici nazionali verificare se le amministrazioni finanziarie interessate abbiano dimostrato l’esistenza di detti elementi oggettivi (sentenza del 28 luglio 2016, Astone, C332/15, EU:C:2016:614, punto 52 e la giurisprudenza ivi citata). 40 Nella specie, dalla decisione di rinvio risulta che, a seguito di ispezione fiscale svolta nel corso del 2011, l’amministrazione finanziaria portoghese ha effettuato talune rettifiche IVA riguardanti cessioni di beni compiute nel periodo compreso tra il mese di febbraio 2008 e il mese di maggio 2010 per le quali la Biosafe aveva erroneamente applicato l’aliquota IVA ridotta in luogo dell’aliquota ordinaria. La Biosafe ha


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quindi proceduto alla regolarizzazione dell’IVA versando un supplemento d’imposta ed emettendo talune note di addebito che, secondo il giudice del rinvio, costituiscono documenti di rettifica delle fatture iniziali. 41 A parere del governo portoghese, la Biosafe e la Flexipiso hanno attuato, deliberatamente e ripetutamente, per un periodo di almeno due anni e mezzo, pratiche sistematiche di frode ed evasione fiscale. L’esistenza di tali pratiche non può, in effetti, essere esclusa in tale contesto. Peraltro, nell’ambito del procedimento ex articolo 267 TFUE, basato su una netta separazione delle funzioni tra i giudici nazionali e la Corte, ogni valutazione dei fatti di causa ricade nella competenza del giudice nazionale. La Corte, in particolare, è autorizzata a pronunciarsi esclusivamente sull’interpretazione o sulla validità di un dettato normativo dell’Unione alla luce delle circostanze di fatto indicatele dal giudice nazionale (sentenza dell’8 maggio 2008, Danske Svineproducenter, C491/06, EU:C:2008:263, punto 23, nonché ordinanza del 14 novembre 2013, Krejci Lager & Umschlagbetrieb, C469/12, EU:C:2013:788, punto 28). Orbene, nella fattispecie, il giudice del rinvio fa presente che è certo che l’errore commesso nell’applicazione dell’aliquota dell’IVA è imputabile alla Biosafe. 42 Ciò premesso, risulta che la Flexipiso era nell’impossibilità oggettiva di esercitare il proprio diritto a detrazione anteriormente alla regolarizzazione dell’IVA effettuata dalla Biosafe, non disponendo precedentemente dei documenti di rettifica delle fatture iniziali e non essendo a conoscenza della debenza di un supplemento di IVA. 43 Infatti, soltanto in seguito a tale regolarizzazione sono sussistite le condizioni sostanziali e formali necessarie per il sorgere del diritto alla detrazione dell’IVA consentendo così alla Flexipiso di chiedere lo sgravio dall’onere dell’IVA dovuta o assolta conformemente alla direttiva IVA e al principio di neutralità fiscale. Pertanto, non avendo la Flexipiso dato prova di negligenza anteriormente alla ricezione delle note di addebito e, in assenza di abuso o di collusione fraudolenta con Biosafe, non poteva essere validamente opposto all’esercizio del diritto a detrazione dell’IVA un termine che sarebbe iniziato a decorrere dalla data di emissione delle fatture iniziali e che, per talune operazioni, sarebbe scaduto anteriormente a tale regolarizzazione (v. sentenza del 21 marzo 2018, Volkswagen, С533/16, EU:C:2018:204, punto 50). 44 Di conseguenza, si deve rispondere alla prima questione che gli articoli 63, 167, 168, da 178 a 180, 182 e 219 della direttiva IVA nonché il principio di neutralità fiscale devono essere interpretati nel senso che ostano alla normativa di uno Stato membro per effetto della quale, in circostanze come quelle oggetto del procedimento principale in cui, in seguito ad avviso di accertamento di maggiore imposta, a distanza di vari anni dalla cessione dei beni di cui trattasi, sia stato versato allo Stato un supplemento di IVA con emissione dei relativi documenti di rettifica delle fatture iniziali, il beneficio della detraibilità dell’IVA sia escluso, atteso che il termine previsto dalla normativa medesima ai fini dell’esercizio di tale diritto sarebbe iniziato a decorrere dalla data di emissione delle dette fatture iniziali e sarebbe quindi scaduto.


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Sulla seconda questione 45 Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se, in caso di risposta negativa alla prima questione, l’acquirente possa, in circostanze come quelle oggetto del procedimento principale, negare al fornitore il pagamento del supplemento IVA da quest’ultimo assolto, non potendo egli più procedere alla detrazione del supplemento d’imposta per decorso del termine previsto dalla normativa nazionale per l’esercizio del diritto a detrazione. 46 Dalla risposta alla prima questione deriva che ad un soggetto passivo non può essere negato, in circostanze di tal genere, il diritto alla detrazione del supplemento dell’IVA in quanto il termine previsto dalla normativa nazionale ai fini dell’esercizio di tale diritto sarebbe scaduto. Alla luce di tale risposta, non occorre procedere alla soluzione della seconda questione. Sulle spese 47 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. P.Q.M., la Corte (Settima Sezione) dichiara: gli articoli 63, 167, 168, da 178 a 180, 182 e 219 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, nonché il principio di neutralità fiscale devono essere interpretati nel senso che ostano alla normativa di uno Stato membro per effetto della quale, in circostanze come quelle oggetto del procedimento principale in cui, in seguito ad avviso di accertamento di maggiore imposta, a distanza di vari anni dalla cessione dei beni di cui trattasi, è stato versato allo Stato un supplemento di imposta sul valore aggiunto (IVA) con emissione dei relativi documenti di rettifica delle fatture iniziali, il beneficio del diritto della detrazione dell’IVA sia escluso, con la motivazione che il termine previsto dalla normativa medesima ai fini dell’esercizio di tale diritto sarebbe iniziato a decorrere dalla data di emissione delle dette fatture iniziali e sarebbe quindi scaduto. [Omissis]

(1) L’Iva addebitata in rivalsa a seguito di accertamento e la decorrenza del termine per la detrazione. Sommario: 1. Premessa. – 2. La detrazione nella normativa comunitaria. – 3. La

detrazione IVA da accertamento secondo la normativa portoghese. – 4. La normativa italiana e la detrazione dell’IVA da accertamento di maggior imposta. La Corte di Giustizia Europea è intervenuta sul termine massimo per la detrazione dell’IVA addebitata in rivalsa dal fornitore a seguito di un accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria. La normativa portoghese è stata ritenuta non conforme alla


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direttiva comunitaria n. 2006/122/EC nella parte in cui fa decorrere il termine dalla data di ricezione della prima fattura emessa dal fornitore e non dalla data di ricezione dei documenti modificativi a seguito della rettifica. La normativa italiana seppur allineata alle conclusioni della Corte di Giustizia - grazie alla modifica introdotta nell’art. 60, comma 7, del d.p.r. n. 633/1972 - non pare conforme nella parte in cui permette la detrazione dell’IVA solamente nell’ipotesi in cui il cessionario abbia corrisposto la maggiore imposta al fornitore. The Court of Justice of the European Union intervened on the time limits for the right of deduction of VAT charged by the supplier following an assessment of the Financial Administration. The Portuguese legislation was deemed not compliant to the Council Directive n. 2006/122/EC in so far as the term begins from the date of the first invoice received by the supplier and not from the date of receipt of the rectifying documents following the assessment. The Italian legislation although aligned with the conclusions of the Court of Justice of the European Union – due to the amendment introduced in art. 60, paragraph 7, of the Presidential Decree n. 633/1972 - does not appear to be compliant in the part in which VAT is deducted only in the case in which the client paid the assessed tax to the supplier.

1. Premessa. – La sentenza in commento concerne una domanda di pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione degli articoli 63, 167, 168, da 178 a 180, 182 e 219 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 (Direttiva). In particolare, la società ricorrente (Biosafe) era stata oggetto di una verifica fiscale dalla quale era emersa l’erronea applicazione di un’aliquota IVA, risultata inferiore a quella applicabile in base alla normativa portoghese (i.e. 5% vs. 21%). Dopo avere fatto acquiescenza alla richiesta dell’ufficio e aver corrisposto l’IVA oggetto di rettifica, la Biosafe ha emesso una nota di addebito nei confronti del proprio cliente (Flexipiso) esercitando quindi la rivalsa anche per la maggiore imposta oggetto di accertamento. Quest’ultima società si era rifiutata di versare l’IVA alla Biosafe sul presupposto che la normativa portoghese pro tempore vigente le avrebbe impedito di detrarre tale maggiore imposta dal momento che era ormai scaduto il termine quadriennale previsto dalle disposizioni nazionali regolatrici del diritto alla detrazione e che così operando solo la Flexipiso stessa sarebbe rimasta incisa dall’errore commesso dalla Biosafe nell’applicazione dell’aliquota ridotta. Sulla base delle considerazioni appena svolte, la Biosafe ha ritenuto indispensabile appurare se il termine massimo per la detrazione dell’IVA derivan-


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te dall’accertamento di maggiore imposta previsto dalla normativa portoghese fosse o meno in contrasto con la normativa comunitaria. 2. La detrazione nella normativa comunitaria. – Come è noto, il diritto dei soggetti passivi di detrarre l’IVA di cui sono debitori nei confronti dei propri danti causa nell’acquisizione di beni o servizi costituisce un principio cardine del sistema comune dell’IVA istituito dall’Unione Europea. Il complesso delle detrazioni, infatti, è finalizzato a sollevare integralmente l’imprenditore dall’onere dell’IVA dovuta nell’ambito delle sue attività economiche consentendo in tal modo la neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le proprie attività economiche purché le stesse siano, in linea di principio, soggette a IVA (principio di neutralità). A tal fine l’articolo 167 della Direttiva dispone che “il diritto a detrazione sorge quando l’imposta diventa esigibile” (1). La detrazione dell’IVA è subordinata al rispetto di requisiti sostanziali e formali (2). Con riferimento ai primi, l’articolo 168 della Direttiva dispone che l’IVA è detraibile solamente da parte di un soggetto passivo e nella misura in cui i beni e i servizi acquistati siano impiegati nell’ambito di operazioni attive, anch’esse soggette ad imposta. In tal caso, ai sensi dell’art. 168 lett. a) della Direttiva, è detraibile l’IVA dovuta o assolta nello Stato membro per i beni che gli sono o gli saranno ceduti e per i servizi che gli sono o gli saranno resi da un altro soggetto passivo. Con riferimento ai requisiti formali, l’art. 178 della Direttiva prevede che “per poter esercitare il diritto di detrazione, il soggetto passivo deve soddi-

(1) Per completezza espositiva si rileva che costituisce un’eccezione al principio di cui all’art. 167 in parola quanto previsto dal successivo art. 167-bis che prevede – nel quadro di un regime opzionale – che il diritto alla detrazione dell’IVA, seppur già esigibile, sia posposto fino al suo pagamento al fornitore/prestatore. La normativa italiana ha introdotto tale regime opzionale attraverso l’art. 32-bis del decreto legge 22 giugno 2012 n. 83 convertito con modificazioni con la legge 7 agosto 2012 n. 134. (2) In merito alla disamina dei requisiti sostanziali e formali per la detrazione dell’IVA, si veda anche la Corte di Giustizia, 21 marzo 2018, causa C-533/16, Volkswagen. In senso conforme anche la Circolare dell’Agenzia delle Entrate del 17 gennaio 2018 n. 1/E secondo la quale “il dies a quo da cui decorre il termine per l’esercizio della detrazione deve essere individuato nel momento in cui in capo al cessionario/committente si verifica la duplice condizione i) (sostanziale) dell’avvenuta esigibilità dell’imposta ii) (formale) del possesso di una valida fattura redatta conformemente alle disposizioni di cui all’art. 21 del menzionato D.P.R. n. 633”.


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sfare le condizioni seguenti: a) per la detrazione di cui all’art. 168, lettera a), relativa alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi, essere in possesso di una fattura redatta conformemente al titolo XI, capo 3, sezioni da 3 a 6”. Pertanto, sulla base di quanto sopra è possibile esercitare il diritto alla detrazione, in linea di principio, solo a partire dal momento in cui il soggetto passivo è in possesso di una fattura conforme a ben determinati requisiti (3). Ai sensi dell’art. 179, il suddetto diritto deve essere esercitato (pena la violazione del principio di certezza del diritto) entro il periodo di imposta nel quale il diritto stesso è sorto ed è esercitato secondo quanto previsto dal citato art. 178. In effetti, la possibilità di avvalersi del diritto alla detrazione dell’IVA senza alcuna limitazione temporale contrasterebbe con la necessità dell’Amministrazione finanziaria di effettuare eventuali verifiche della posizione fiscale del soggetto passivo entro un termine definito. A fini di ulteriore chiarimento, la Corte di Giustizia UE ha statuito che un termine di decadenza la cui scadenza porti a sanzionare il contribuente non sufficientemente diligente che abbia omesso di richiedere la detrazione dell’IVA a monte, privandolo del diritto alla detrazione, non può essere considerato incompatibile col regime instaurato dalla Direttiva, purché detto termine non renda praticamente impossibile o eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto a detrarre l’IVA (principio di effettività) (4). Il principio di effettività deve essere applicato anche considerando che ai sensi dell’art. 273 della Direttiva ogni Stato membro può stabilire altri obblighi ritenuti necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e ad evitare l’evasione. Gli obblighi eventualmente stabiliti non possono essere utilizzati in modo tale da rimettere sistematicamente in discussione il diritto alla detrazione dell’IVA (e quindi di conseguenza il principio di neutralità). 3. La detrazione IVA da accertamento secondo la normativa portoghese. – Dopo avere specificato i principi disciplinanti la detrazione dell’IVA così come delineati dalla Direttiva occorre verificare se nel caso sottoposto all’attenzione della Corte di Giustizia la normativa portoghese violasse il principio di neutralità nel senso che osta alla normativa di uno Stato membro, in seguito ad avviso di accertamento di maggiore imposta, emesso a distanza di vari anni

(3) Corte di Giustizia 15 settembre 2016, causa C-518/14, Senatex, punto 35 e giurisprudenza ivi citata. (4) In tal senso Corte di Giustizia, 28 luglio 2016, causa C-332/15, Astone.


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dalla cessione dei beni di cui trattasi, fissare il termine di detrazione alla data di emissione delle fatture iniziali e non dei documenti di rettifica delle fatture iniziali dai quali peraltro scaturisce il maggior debito per IVA (nel caso di specie peraltro debitamente versata allo Stato). Nel caso di specie la Corte di Giustizia, in sintonia con le conclusioni dell’avvocato generale Kokott presentate il 30 novembre 2017, ha affermato che non è possibile imporre al soggetto passivo un termine per la detrazione dell’IVA che sarebbe iniziato a decorrere dalla data di emissione delle fatture originariamente emesse; il principio di neutralità dell’IVA deve essere interpretato nel senso di permettere la detrazione dell’imposta a partire dalla data di ricezione dei documenti di rettifica delle fatture iniziali, negando quindi la legittimità della normativa portoghese laddove questa impone che il diritto alla detrazione sia esercitato diciamo così “in modo retroattivo” ovvero dalla data di emissione delle fatture iniziali. Di particolare interesse sono le conclusioni dell’avvocato generale che a proposito del diritto alla detrazione introduce una distinzione tra ciò che attiene all’an e ciò che attiene al quantum del diritto medesimo. Secondo il parere dell’avvocato generale, la Corte si è finora pronunciata sulla nascita del diritto alla detrazione principalmente sotto il profilo dell’an vale a dire secondo quanto regolamentato dal già citato art. 168 della Direttiva, mentre nel caso di specie occorre soffermarsi sulla nascita del diritto alla detrazione sotto il profilo del quantum. Quest’ultimo si può evincere dal combinato disposto degli artt. 178, lettera a), e 226, punto 10, della Direttiva (5). Il presupposto del possesso della fattura con esposizione dell’IVA costituisce un requisito per il diritto alla detrazione dell’imposta e ciò in quanto l’esposizione dell’imposta nel documento deve essere intesa come un’indispensabile correlazione tra l’imposta dovuta dal prestatore e l’imposta detraibile per il destinatario (6). Pertanto, nelle ipotesi di accertamento di maggiore IVA in capo ad un soggetto passivo, qualora il medesimo emetta fattura integrativa per la maggiore imposta ed eserciti in tal modo la rivalsa, il termine per la detrazione

(5) L’articolo 226, punto 10, della direttiva prevede che “nelle fatture emesse a norma degli articoli 2002 e 221 sono obbligatorie ai fini dell’IVA soltanto le indicazioni seguenti: … 10) l’importo dell’IVA da pagare”. (6) Paragrafi da 34 a 41 delle conclusioni dell’avvocato generale relative alla causa C-8/17.


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dell’imposta deve decorrere dalla ricezione del documento integrativo e non può esser fatto retroagire alla data di emissione dei documenti iniziali. 4. La normativa italiana e la detrazione dell’IVA da accertamento di maggior imposta. – La normativa italiana prevede all’art. 60, comma 7, del D.P.R. n. 633/1972 una specifica disciplina per la detrazione della maggiore IVA oggetto di rivalsa da parte del soggetto passivo interessato da un accertamento di una maggiore imposta (7). In particolare, il citato comma 7 dispone che “il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi. In tal caso, il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione”. Come si evince dalla lettura della norma sopra trascritta, il diritto alla detrazione spetta solamente dopo il pagamento dell’imposta o della maggiore imposta addebitata in via di rivalsa e tale diritto è esercitabile entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo al suddetto pagamento. In considerazione del fatto che il pagamento dell’imposta deriva appunto dalla rivalsa e quindi dalla necessaria emissione/ricezione di un documento integrativo, da questo punto di vista la normativa nazionale appare certamente conforme alle disposizioni comunitarie poiché quantifica il diritto alla detrazione della maggiore imposta sulla scorta del documento emesso dal soggetto passivo esercitante la rivalsa. L’elemento che ha destato perplessità nella formulazione della norma è quello relativo al collegamento del diritto alla detrazione al pagamento dell’IVA oggetto di rivalsa. Tale condizione non solo sembra contraria ai principi comunitari sopra de-

(7) L’art. 60, comma 7, del D.P.R. n. 633/172 è stato oggetto di modifica dall’art. 93, comma 1, del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1, convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 2012 n. 27 al fine di chiudere la procedura di infrazione comunitaria n. 2011/4081 del 24 novembre 2011.


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scritti, ma non pare nemmeno finalizzata a tutelare gli interessi erariali. Infatti, non v’è chi non veda che l’interesse erariale è già adeguatamente garantito dalla condizione prevista nel periodo iniziale del comma 7 in esame ove si prevede che il soggetto passivo ha diritto di rivalersi dell’IVA unicamente a seguito del pagamento della medesima (8). Da tale considerazione consegue peraltro che pare dubbio qualsiasi riferimento ad una eventuale deroga al principio di detrazione previsto dall’art. 273 della Direttiva non evidenziandosi alcuna necessità di tutelare l’esatta riscossione dell’IVA ed evitare evasioni. Pertanto, la detrazione subordinata al pagamento del fornitore introduce nella normativa IVA una cautela degli interessi del soggetto che esercita la rivalsa interponendosi così nel rapporto privatistico di credito/debito tra i soggetti passivi interessati alla transazione; tale cautela è indubbiamente un limite al principio di neutralità la cui ratio è difficilmente comprensibile (9). Quanto sopra descritto stride ancor di più con i principi di diritto comunitario se si considera che l’art. 26, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972 consente al soggetto passivo che non incassa l’IVA da rivalsa di rettificare in diminuzione l’IVA in dipendenza del mancato pagamento delle somme addebitate alle condizioni ivi stabilite. Considerata l’esistenza di tale meccanismo di tutela del fornitore per l’IVA non incassata, non c’era alcun bisogno di un’ulteriore norma di tutela quale quella di cui all’art. 60, comma 7, del D.P.R. n. 633/1972.

Mario Ravaccia

(8) Per una disamina approfondita delle criticità nella norma in commento si veda la denuncia del 1° dicembre 2013 n. 10 dell’Associazione Italiana Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili. (9) In merito all’irrilevanza del pagamento dell’IVA al fornitore al fine della detrazione della medesima si confrontino anche le sentenze della Corte di Giustizia 3 marzo 2004, causa C-395/02, Rechtbank (punto 26), 6 luglio 2006 cause riunite nn. C-439/04 Axel Kittel e C-440/04 Recolta Recycling (punto 49), e del 12 gennaio 2006, cause riunite nn. C-354/03 Optigen, C-355/03 Fulcrum Electronics e C-484/03 Bond House Systems (punto 54).



Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto

OECD (2018), Additional Guidance on the Attribution of Profits to Permanent Establishments, BEPS Action 7. La determinazione dell’utile della stabile organizzazione personale Sommario: 1. Introduzione. – 2. La zero sum theory. – 2.1. Distribuzione del’onere

della prova ai sensi del comma 1 dell’articolo 7. – 2.2. Critiche alla zero sum theory. – 3. La tesi del modello del distributore (fully fledged distributor/low risk distributor). – 3.1. Critiche alla tesi del modello del distributore. – 4. Elaborazione dell’OCSE. – 4.1. Le qualificazioni giuridiche presupposte dall’OCSE. – 4.2. Critiche avanzate da quella parte della dottrina che ritiene che l’approccio dell’OCSE sia eccessivamente prossimo alla zero sum theory. – 4.2.1. La core function dell’agente. – 4.2.2. I dealings. – 5. Applicazione del profit split per determinare l’utile della SO? – 6. Gli effetti del progetto BEPS. Il 22 marzo 2018 l’OCSE ha pubblicato il documento “Additional Guidance on the Attribution of Profits to Permanent Establishments” ad integrazione del documento del 2010 “Report on The Attribution of Profits to Permanent Establishments”. Il documento si occupa principalmente della determinazione dell’utile della stabile organizzazione personale, una questione molto dibattuta, anche tra i vari Stati, in particolare a causa della fragilità del nesso territoriale, in ispecie materiale, di questa forma di stabile organizzazione. Ciò posto si intende analizzare e commentare le varie tesi e argomenti sviluppati in materia. On 22 March 2018 the OECD published the report “Additional Guidance on the Attribution of Profits to Permanent Establishments” to supplement the 2010 report “Report on the Attribution of Profits to Permanent Establishments”. The report deals mainly with the attribution of profits to the agent-permanent establishment, a very debated issue, also among the various States, in particular because of the fragility of the territorial link, especially physical, of this form of permanent establishment. Given that, this contribution is intended to analyze and comment on the various theses and arguments developed on the subject.


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1. Introduzione. – L’Azione 7 (“Prevent the artificial avoidance of PE status”) dell’”Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting” (di seguito anche “Progetto BEPS”), pubblicato dall’OCSE il 19 luglio 2013, raccomandava di intervenire sulla definizione di stabile organizzazione prevista dall’articolo 5 del Modello OCSE, al fine di rendere inefficaci talune strategie utilizzate all’interno dei gruppi multinazionali per aggirare la sussistenza di una stabile organizzazione (1). Con riferimento a tale aspetto, i lavori dell’OCSE si sono conclusi il 5 ottobre 2015 con la pubblicazione del Rapporto “Preventing the Artificial Avoidance of Permanent Establishment Status, Action 7‑ 2015 Final Report” (di seguito anche “Rapporto finale 2015”), il quale suggerisce anche di modificare il paragrafo 5 dell’articolo 5 del Modello OCSE, al fine di ricomprendere nel perimetro della stabile organizzazione “personale” anche quelle figure che, pur non concludendo formalmente, nel territorio dello Stato, contratti in nome e per conto di imprese non residenti, esercitano funzioni economiche in detto territorio tali da giustificare il riconoscimento di una presenza ivi imponibile. In definitiva, l’intervento sul paragrafo 5 dell’articolo 5 del Modello OCSE, concretizzatosi con l’approvazione da parte del Consiglio dell’OCSE del Modello OCSE 2017 (2), è volto ad abbassare la soglia rilevante ai fini dell’integrazione dei requisiti per la sussistenza una stabile organizzazione personale, senza tuttavia modificarne sostanzialmente la natura. Per quanto riguarda le regole di attribuzione dei redditi alla stabile organizzazione, il Rapporto finale 2015 conferiva mandato all’OCSE di elaborare i necessari chiarimenti sull’applicazione dell’articolo 7, e delle relative linee guida già precedentemente elaborate (3), alle stabili organizzazioni risultanti dalle modifiche apportate dal Rapporto finale 2015. Ciò anche in considerazione delle modifiche apportate dal Rapporto finale relativo alle Azioni 8-10 del Progetto BEPS in materia di transfer pricing. Nell’ambito di tale mandato, il Committee on Fiscal Affairs dell’OCSE ha sottoposto all’attenzione delle parti interessate due discussion draft sull’attri-

(1) In particolare l’Action 7 prevede: “Develop changes to the definition of PE to prevent the artificial avoidance of PE status in relation to BEPS, including through the use of commissionaire arrangements and the specific activity exemptions. Work on these issues will also address related profit attribution issues”. (2) Http://www.oecd.org/ctp/treaties/oecd-approves-2017-update-model-tax-convention.htm. (3) OECD, 2010 Report on The Attribution of Profits to Permanent Establishments, Parigi 2010 che prevede il Authorized OECD Approach (“AOA”).


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buzione dei redditi alla stabile organizzazione (nel luglio 2016 e nel giugno 2017). A seguito dei commenti ricevuti, il 22 marzo 2018 l’OCSE ha pubblicato il documento finale denominato “Additional Guidance on the Attribution of Profits to Permanent Establishments” (di seguito “Rapporto 2018”). Il Rapporto 2018 offre lo spunto per alcune considerazioni in merito alla problematica della determinazione dell’utile della stabile organizzazione personale. Un connotato distintivo di quest’ultima è rappresentato dalla circostanza che, in linea di principio, l’attività dell’agente produce effetti fiscali bivalenti nei confronti, da un lato, dell’impresa non residente e, dall’altro lato, dell’agente stesso, che nella larga parte dei casi è residente nello Stato della fonte. Al riguardo, l’OCSE (4) ha espresso l’avviso che per la determinazione dell’utile della stabile organizzazione personale si debbano applicare gli stessi principi previsti, con riferimento alla stabile organizzazione materiale, dall’articolo 7 del Modello OCSE, in quanto da tale articolo non si possono ricavare regole specifiche applicabili alla stabile organizzazione personale. Secondo l’articolo 7 del Modello OCSE “gli utili che vanno attribuiti in ciascuno Stato contraente alla stabile organizzazione di cui al paragrafo 1 sono gli utili che si ritiene sarebbero stati da essa conseguiti, in particolare nelle operazioni con altre parti dell’impresa, se si fosse trattato di un’impresa distinta e separata svolgente attività identiche o analoghe in condizioni identiche o analoghe, tenendo conto delle funzioni svolte, dei beni utilizzati e dei rischi assunti dall’impresa tramite la stabile organizzazione e tramite le altre parti dell’impresa” (5). La disposizione in oggetto si fonda sul principio del valore di mercato (arm’s length), (6) che si applica quindi anche alla stabile organizzazione personale, con conseguente attribuzione alla stessa di quella parte dell’utile

(4) OECD, 2010 Report on The Attribution of Profits to Permanent Establishments, Parigi 2010 (http://www.oecd.org/ctp/transfer-pricing/45689524.pdf), punto 232; da ultimo OECD (2015), Preventing the Artificial Avoidance of Permanent Establishment Status, Action 7 - 2015 Final Report, OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, OECD Publishing, Paris, punto 19. (5) Traduzione a cura dell’autore. Tale norma di attribuzione degli utili alla stabile organizzazione ai fini delle imposte sui redditi è stata recepita nell’ordinamento italiano, all’articolo 152 del TUIR, per effetto dell’articolo 7 del D.Lgs. n. 147/2015. (6) Authorized OECD Approach (“AOA”) che si basa sul cosiddetto “functionally separate entity approach” che si contrappone al cosiddetto “business relevant approach”, previsto nella versione del Art. 7 precedente al 2010. Secondo quest’ultimo i dealing interni sono riconosciuti solo parzialmente. Cfr. punto 45 del Rapporto Finale 2018.


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dell’impresa non residente che riflette le funzioni esercitate, la titolarità economica dei beni materiali ed immateriali e i relativi rischi, tutti riferibili ed attribuibili alla stabile organizzazione. A tale fine, la stabile organizzazione è considerata come un’impresa indipendente e autonoma che effettua operazioni (dealings) con il resto dell’impresa di cui la stessa fa parte. È di tutta evidenza che l’applicazione dei principi previsti per la determinazione dell’utile della stabile organizzazione materiale alla stabile organizzazione personale si rileva, tuttavia, alquanto problematica e ha infatti alimentato un acceso dibattito in dottrina e divergenze nella prassi applicativa delle amministrazioni finanziarie di diversi Stati (ragione per la quale è stata e viene tuttora (7) avanzata la proposta di eliminare del tutto tale fattispecie tra quelle idonee a configurare una stabile organizzazione) (8). La ragione principale di tale problematicità consiste nel fatto che, a differenza della stabile organizzazione materiale, l’esistenza di una stabile organizzazione personale è, fatta eccezione per i casi in cui la conclusione dei contratti sia effettuata dai dipendenti dell’impresa non residente, dissociata da qualsivoglia presenza fisica permanente nel territorio dello Stato dell’impresa non residente (distinta da quella dell’agente dipendente), il che comporta tipicamente l’inesistenza di una sede fissa. La suddetta problematicità è stata acuita dalle modifiche apportate dal Rapporto finale 2015 al paragrafo 5 dell’articolo 5 del Modello OCSE. La suddetta fragilità del nesso territoriale, in ispecie materiale, è quindi alla radice del dibattito e ha variamente orientato le principali tesi concernenti la determinazione dell’utile della stabile organizzazione personale, nel caso di agente diverso da un lavoratore subordinato dell’impresa estera. Tali tesi ed argomenti, principalmente ascrivibili alla dottrina tedesca, saranno descritti e commentati nel prosieguo.

(7) X. Ditz, Die Fehlentwicklungen bei der Vertreterbetriebsstätte, in Steuer und Wirtschaft International (SWI) 2017, 282. (8) A. Pleijsier, The Agency Permanent Establishment: Allocation of Profits. Part Three, in Intertax 2001, Volume 29, Issue 8/9; P.Baker/R. Collier, 2008 OECD Model: Changes to the Commentary on Article 7 and the Attribution of Profits to Permanent Establishments, in Bulleting for International Taxation, May June 2009; Francine Barreiros Rosalem, The Agent Permanent Establishment Reconsidered: Application of Arts. 5, 7 and 9 of the OECD Model Convention, in International Transfer Pricing Journal, January/February 2010; C.E.C.M.A. Toro, Different Methods of Attributing Profits to Agency Pes, Tax Notes International, February 2, 2009, 421 ss.


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2. La zero sum theory. – Una prima tesi denominata “zero sum theory” (9), ipotizza che alla stabile organizzazione personale non vada attribuito né un utile né una perdita, in quanto sarebbe implicito nell’impianto stesso dell’istituto che il risultato debba essere sempre pari a zero, ossia che il reddito lordo attribuibile alla SO personale non può eccedere la remunerazione at arm’s length conseguita dall’agente (10). La zero sum theory critica l’impostazione secondo la quale, per ovviare al fatto che la stabile organizzazione personale non è in grado di esercitare funzioni in via autonoma (nel presupposto che non vi siano dipendenti dell’impresa estera operanti sul territorio dello Stato), le funzioni esercitate dall’agente si qualifichino quali funzioni esercitate direttamente dall’impresa estera e le si attribuiscano alla stabile organizzazione individuata nel territorio dello Stato. La zero sum theory ritiene che le funzioni ulteriori, rispetto a quella della conclusione dei contratti che dà luogo alla stabile organizzazione personale, siano funzioni soltanto eventuali e di carattere eccezionale (le quali si verificano nel caso in cui alla SO possa essere imputata l’attività d’impresa esercitata e propria della casa madre estera che non può per tale ragione essere attribuita all’agente residente nel territorio dello Stato). In generale, la SO personale può solo esercitare una funzione di intermediazione che si concreta nella attività gestoria delle vendite (11) che si manifesta e in sostanza esaurisce i suoi riflessi impositivi nel reddito conseguito dall’agente. In tal senso, la zero sum theory ritiene che siano tipiche dell’agente non tanto la gestione dell’inventario o la gestione dei crediti, quanto l’esercizio

(9) La zero-sum-theory, che viene ampiamente sostenuta dalla dottrina, trova applicazione nella pratica raramente. Di solito gli Stati concordano sul fatto che, una volta accertata l’esistenza della stabile organizzazione ai sensi dell’articolo 5, comma 5 del Modello OCSE, allo Stato della fonte vada riconosciuta la potestà impositiva su una parte della base imponibile dell’impresa estera generata dall’attività dell’agente. Si rimanda, per un quadro molto dettagliato della problematica, a U. Andresen, Die Vertreterbetriebsstätte, in Wassermeyer/Andresen/Ditz, Betriebsstättenhandbuch, 2. Auflage, Verlag Dr. Ottoschmidt, Colonia, 2018, pagg. 777 e seguenti. (10) H.K. Kroppen, in Gosch - Kroppen - Grotherr, DBA-Kommentar, Art. 7 OECDMA, 2015; H. Schaumburg, Internationales Steuerrecht, 4. Auflage, 2017, Verlag Dr. Otto Schmidt, Köln, 1150 ss.; G. Fort, La determinazione del reddito della stabile organizzazione secondo il TUIR ed il modello OCSE, in S. Mayr - B. Santacroce, La stabile organizzazione delle imprese industriali e commerciali, II Ed., 2016; Parzialmente di avviso diverso, inter alia, A. Hemmelrath, Art. 7, in Vogel/Lehner, DBA, 2015, Verlag C.H. Beck, 905 ss. (11) S. Bendlinger, Die “neue” Vertreterbetriebsstätte, in Internationales Steuerrecht (ISTR) 22/2016, 914; S. Bendlinger, Die Betriebsstätte, 2013, LexisNexis Verlag, Wien, 152 ss.; X. Ditz, Art. 7, in Schönfeld/Ditz, DBA, 2013, Verlag Dr. Otto Schmidt, Köln.


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abituale del potere di concludere contratti, in quanto è questa l’attività principale e propria dell’agente, che dà origine alla e configura la stabile organizzazione. L’agente esercita, nell’ambito della sua attività di conclusione di contratti, solo la funzione di intermediazione che si esprime nella prestazione di un servizio (12), che è di regola qualificata come routinaria (13), mentre l’attività d’impresa (c.d. ’entrepreneurial activity (14)) normalmente fa capo al soggetto non residente. Il risultato concreto che ne discende consiste nella configurazione, per effetto della suddetta attività di conclusione di contratti per conto della società non residente, di una stabile organizzazione caratterizzata da funzioni assai contenute, e inidonea a configurare una proprietà economica delle merci e dei ricavi e costi relativi alla loro compravendita (15) che potrebbero altrimenti essere considerati nell’ipotesi – diversa – di esercizio di funzioni aziendali tipiche del proprietario delle merci esercente l’attività d’impresa. In considerazione della marginale rilevanza delle funzioni esercitate, il contributo alla creazione di valore dell’impresa considerata nel suo complesso sarebbe quindi minima anche ai sensi dei principi espressi dai lavori dell’OCSE sulla erosione della base imponibile e sul trasferimento di utili tra stati nel contesto del progetto BEPS (16) ed in parte trasfusi nella convenzione multilaterale conclusa nel 2016 (17). Sulla scorta di tali considerazioni, alla stabile organizzazione personale dovrebbe essere attribuito esclusivamente un reddito – che rifletta i servizi prestati alla casa madre – misurato ed espresso nella differenza tra i ricavi (per la prestazione dei servizi alla casa madre) e i costi inerenti a tali servizi. Il rischio d’impresa espresso nelle sue varie articolazioni (dalla perdita o danneggiamento delle merci, alle mutevoli condizioni del mercato all’esigibilità dei crediti) dovrebbe quindi essere attribuito alla casa madre estera e non alla stabile organizzazione (18). Alla SO personale

(12) La SO non ha forza di attrazione Griemla 24/2005. (13) X. Ditz - S. Bärsch, Gewinnabgrenzung bei Vertreterbetriebsstätten nach dem AOA – ein Plädoyer für die Nullsummentheorie, in Internationales Steuerrecht (ISTR) 2013, 411. (14) Nella traduzione in italiano delle “OECD Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administrations” del luglio 2010 il termine “the entrepreneurial risks” è stato tradotto con “il rischio dell’imprenditore”. (15) Punti 36 e 37 del commentario OCSE all’articolo 7. (16) Base erosion and profit shifting (http://www.oecd.org/tax/beps/). (17) Multilateral Convention to implement Tax Treaty related measures to prevent base erosion and profit shifting (http://www.oecd.org/tax/treaties/multilateral-convention-to-implement-tax-treaty-related-measures-to-prevent-beps.htm). (18) Oestreicher, per esempio, sostiene che l’assunzione effettiva dei rischi non può es-


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dovrebbe conclusivamente essere attribuita, come unica componente positiva di reddito, una commissione d’intermediazione calcolata in una percentuale dei ricavi di vendita realizzati dalla casa madre per effetto della conclusione dei contratti ad opera dell’agente. Tale commissione dovrebbe corrispondere alla remunerazione che sarebbe stata conseguita da un agente autonomo e indipendente nell’esercizio della propria attività (applicando le metodologie di determinazione del reddito tipiche dei rapporti intercorrenti tra soggetti appartenenti al medesimo gruppo). Di converso, le componenti negative di reddito attribuibili alla SO personale dovrebbero ricomprendere i costi inerenti alla sua attività, ossia quelli effettivamente sostenuti dalla società non residente, compresa la provvigione effettivamente pagata all’agente (19). Quest’ultima, che è solitamente superiore ai costi sostenuti dall’agente, è un onere effettivamente sostenuto dalla impresa non residente che non può essere imputato alla casa madre, ma deve necessariamente essere attribuito alla stabile organizzazione personale, in quanto il suddetto costo trae origine nella sua stessa esistenza (20). In senso analogo, Griemla (21) sostiene che la SO personale “acquisti” dall’agente servizi di valore superiore al valore dei servizi acquistati dall’agente stesso. Alla SO personale deve invece essere imputato una componente positiva di reddito che si fonda sempre sulla fictio rappresentata dalla qualificazione della SO quale entità autonoma rispetto alla casa madre ai fini della determinazione del reddito territorialmente rilevante. Se pertanto l’agente è un agente indipendente e autonomo, diverso da una parte correlata, l’utile attribuibile alla SO personale dovrebbe sempre essere pari a zero (22) (anzi, potrebbe risultare minore di zero per effetto dei costi sostenuti dall’impresa non residente ed attribuiti alla stabile organizzazione). Parimenti, ove l’agente sia un’impresa correlata, l’utile attribuibile alla SO dovrebbe essere pari a zero in ragione del fatto che, ai sensi della discipli-

sere un criterio per la ripartizione tra casa madre e stabile organizzazione, dato che casa madre e stabile organizzazione costituiscono un’unica impresa e la stabile organizzazione non può assumere rischi. O.H. Jacobs, Internationale Besteuerung, C.H. Beck, 2016, 795 ss.; A. Oestreicher- S.v.d. Ham, Die Neuregelung der Betriebstättengewinnaufteilung in zwölf Fällen – zugleich eine Stellugnahme zum Entwurf der Betriebsstättengewinnaufteilungsverordnung, in Internationales Steuerrecht (ISTR) 4/2015, Beihefter, 2 ss. (19) Punto 234 del Rapporto OCSE del 2010. (20) H.K. Kroppen, DBA-Kommentar, cit. (21) S. Griemla, Welcher Gewinn ist einer Vertreterbetriebsstätte zuzuordnen?, in Internationales Steuerrecht (ISTR) 24/2005, 857, (22) In quanto la remunerazione corrisposta all’agente è per definizione at arm’s length.


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na nazionale sui prezzi di trasferimento (in Italia l’articolo 110, c. 7 del TUIR, come recentemente novellato), alla parte correlata dovrebbe essere riconosciuta una commissione a valore di mercato, la quale sarebbe poi deducibile dall’utile attribuibile alla stabile organizzazione che, a sua volta, avrebbe quale unico componente positivo di reddito una commissione di intermediazione di eguale ammontare. Un risultato diverso dallo zero potrebbe emergere, secondo la zero sum theory, solo nei casi in cui l’agente sia un dipendente dell’impresa estera. In tal caso la remunerazione ricevuta dal dipendente dovrebbe di regola essere inferiore a quella percepita da un agente indipendente e autonomo. Simile alla zero sum theory è il single tax payer approach (23), secondo il quale l’agente e la SO personale dovrebbero essere considerate ai fini della determinazione del reddito come un unico soggetto. Anche tale impostazione ricostruttiva del reddito prevede che lo Stato della fonte non abbia alcun potere impositivo nei confronti dell’impresa estera qualora il rappresentante indipendente abbia ricevuto una provvigione conforme ai principi dell’ at arm’s length. A questo proposito viene spesso richiamata la Convenzione tra la Germania e l’Austria contenente una disposizione che riflette tale criterio (single taxpayer approach (24)) (25) Anche tale metodologia ritiene che l’attribuzione di un utile

(23) D. Tracana, The Effect of the OECD/G20 BEPS Initiative on the Attribution of Profits to Permanent Establishments: The Special Case of Agency Permanent Establishments, Bulletin for international taxation, March/April 2017. (24) “It is agreed that in the case of associated enterprises, neither of these enterprises shall be treated as an agency permanent establishment of another associated enterprise, provided that the respective functions -- which would lead to the assumption of an agency permanent establishment in the absence of this agreement -- are compensated by appropriate transfer prices, which include a remaining profit of the associated enterprise.” (25) In proposito, Loukota afferma invece che questa disposizione non corrisponda alla zero sum theory proprio a causa dell’ultima parte del periodo (“which include a remaining profit of the associated enterprise”), che dovrebbe richiedere appunto il riconoscimento di un ulteriore utile tassabile in capo alla casa madre nello Stato della fonte. Secondo la tesi di Loukota, la suddetta clausola convenzionale pertanto avrebbe solo la funzione di alleggerire l’onere amministrativo scaturito dalla necessità di tassare due soggetti. Cfr. H. Loukota, Die Vertreterbetriebsstätte – das unbekannte Wesen, in Steuer und Wirtschaft International (SWI) 2017, 70. In questo contributo Loukota fa l’esempio della trasformazione di una società figlia da rivenditore a commissario con riferimento alla vendita dei beni della società madre non residente, con conseguente notevole riduzione della base imponibile nello stato di residenza della società figlia. Loukota sostiene che il principio della stabile organizzazione personale serva proprio, in costanza di funzioni esercitate nel territorio dello Stato prima e dopo la trasformazione, a ripristinare la situazione fiscale antecedente alla trasformazione in relazione alla potestà impositiva


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residuale pari all’utile medio conseguito da un operatore indipendente sarebbe, in ogni caso, in contrasto con il principio dell’arm’s length (26). 2.1. Distribuzione dell’onere della prova ai sensi del comma 1 dell’articolo 7. – A supporto della zero-sum theory, viene richiamato il comma 1 dell’articolo 7 del Modello OCSE (27) che esprimerebbe una presunzione di attribuzione del reddito alla casa madre nello stato di residenza imponendo all’amministrazione finanziaria l’onere probatorio in merito alla sussistenza di una fonte reddituale nello stato di ubicazione della stabile organizzazione. Quando i dipendenti dell’agente esercitano attività qualificabili come significant people functions, si porrebbe quindi la questione se tali attività generino “operazioni “ (dealing) tra casa madre e SO, oppure se esse siano esclusivamente riconducibili al servizio reso dall’agente alla casa madre (in questo caso, i rischi connessi a dette funzioni, resterebbero – anche economicamente – in capo alla casa madre). In altri termini, nel caso in cui dipendenti dell’agente gestiscano rischi connessi all’oggetto sociale dell’impresa estera, si tratta di verificare se le loro attività vadano imputate alla SO, oppure se siano qualificabili come prestazioni di servizi rese dall’agente all’impresa estera. Ad avviso di Kroppen, se la volontà dell’impresa estera di imputare tali rischi alla SO non viene provata dall’amministrazione finanziaria dello Stato in cui opera l’agente, l’attività svolta dai dipendenti dell’agente deve essere qualificata come un servizio prestato dall’agente alla casa madre estera che ne dovrebbe sopportare i relativi rischi. Tale impostazione discenderebbe dal comma 1 dell’articolo 7 del Modello OCSE che conterrebbe una (implicita) regola sulla distribuzione dell’onere probatorio: gli utili dell’impresa non residente andrebbero sempre imputati alla casa madre estera, a meno che non sia dimostrato che gli stessi siano imputabili alla stabile organizzazione. Detto onere potrebbe essere, ordinariamente, soddisfatto solo con riferimento alle provvigioni dovute in relazione all’attività di conclusione dei contratti, il che confermerebbe la correttezza della zero sum theory. 2.2. Critiche alla zero sum theory. – La zero-sum theory è stata criticata, in dottrina, sotto diversi profili. In primo luogo, essa è criticata con riferimento alla modalità di attribuzione dei componenti positivi e negativi di reddito alla stabile organizzazione.

dello Stato della fonte. (26) X. Ditz, Steuer und Wirtschaft International (SWI) 2017. (27) H.K. Kroppen, DBA-Kommentar, cit.


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Al riguardo, si rileva come, per esigenze di coerenza sistematica, ove alla stabile organizzazione sia imputata quale componente positivo di reddito una remunerazione fittizia, ossia la remunerazione di un agente indipendente e autonomo, anche sul versante dei componenti negativi di reddito dovrebbero essere attribuiti alla SO i costi che un agente indipendente e autonomo sosterrebbe ordinariamente nell’esercizio della sua attività. Alla stabile organizzazione personale andrebbero pertanto imputati quei costi che tipicamente sono sostenuti da un agente indipendente ed autonomo. La finzione di indipendenza di cui all’articolo 7, comma 2 del Modello OCSE non è, infatti, limitata alla sola attribuzione delle componenti positive di reddito, ma concerne l’attribuzione degli utili alla stabile organizzazione e quindi di una grandezza netta. La zero-sum theory applicherebbe, viceversa, la finzione dell’indipendenza di cui all’articolo 7, comma 2, solamente sul fronte dei componenti positivi di reddito. Sul lato dei costi, invece, la stessa si discosterebbe dalla disciplina positiva recata dall’articolo 7 del Modello OCSE, attribuendo alla SO il costo effettivamente sostenuto dalla società non residente. Il risultato netto, pari a zero, attribuibile alla SO deriverebbe pertanto da una non coerente applicazione della finzione di indipendenza (28) prevista dalla normativa tributaria ai fini della determinazione del reddito delle SO. La censura consiste, quindi, nel disallineamento tra componenti positive di reddito (valutate a valore normale) e componenti negative (determinate in base alla loro effettività). In secondo luogo, l’attribuzione alla SO di un provento pari alla remunerazione che sarebbe conseguita da un agente indipendente e autonomo sarebbe viziata da una contraddizione intrinseca, in quanto l’agente che dà origine alla stabile organizzazione non può mai essere un agente indipendente e autonomo, altrimenti non si darebbe luogo alla stabile organizzazione ai sensi dell’articolo 5, comma 6 del Modello OCSE (29). In terzo luogo, si ritiene censurabile la circostanza che alla SO venga attribuita una provvigione come componente positivo di reddito. Il servizio del procacciamento d’affari o altra forma di intermediazione commerciale dovrebbe essere remunerato ed è infatti remunerato solo una volta tramite provvigione (ma in capo all’agente). Alla SO personale, da trattare alla stre-

(28) M. Naumann, Abschmelzen (Stripping) von Funktionen im Konzern, steuerlich vergebliche Liebesmüh‘? – zur Verlagerung von Funktionen am Beispiel von Vertriebstochtergesellschaften, in Internationales Steuerrecht (ISTR) 2004, 246. (29) Cfr. S. Bendlinger, Die Betriebsstätte, 2013, LexisNexis Verlag, Wien, 259-260.


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gua di un’impresa indipendente ed autonoma e non quale mera duplicazione dell’agente, non andrebbe attribuita la provvigione, quale componente positiva di reddito, ma una quota ulteriore di utile che tenga conto delle funzioni complessivamente svolte e dei rischi, giuridicamente gravanti sull’impresa estera, che siano riconducibili a dette funzioni. Tale utile eccederebbe, in circostanze normali, il valore della remunerazione di mercato spettante all’agente. Né sarebbe sufficiente, per negare la correttezza di tale impostazione, eccepire che la SO personale non dispone di risorse umane o tecniche nello Stato della fonte. Difatti, la regola adottata dall’OCSE in merito alla determinazione del reddito delle SO deve essere considerata una finzione giuridica volta a ripartire la potestà impositiva sugli utili dell’impresa estera tra lo Stato di residenza e lo Stato della fonte. L’articolo 7 del Modello OCSE richiederebbe, quindi, che le funzioni di vendita e quelle ad esse accessorie siano puntualmente individuate e valorizzate nel contesto dell’insieme delle funzioni distributive dell’impresa estera e dell’agente (30), con conseguente ripartizione del margine complessivo di vendita in funzione del contributo apportato da ciascun soggetto e dall’esercizio di ciascuna funzione alla creazione del suddetto valore aggiunto, ossia secondo criteri di “inerenza” (31). Di talché, nella misura in cui l’utile (o la perdita) sia attribuibile alle funzioni esercitate dall’agente, esso va attribuito alla SO personale. Conseguentemente, ai fini della determinazione dell’utile della stabile organizzazione personale, l’attività della SO personale non andrebbe considerata in termini di provvigione, ma in termini di quota dell’utile complessivo della società non residente che sia attribuibile alle funzioni esercitate dall’agente. Ne discenderebbe che, ove fosse solo l’agente ad occuparsi della distribuzione, alla SO personale andrebbe imputata l’intera quota dell’utile attribuibile alle funzioni di vendita. In merito, Wassermeyer sostiene che il nodo centrale è appunto quello di individuare quella parte degli utili realizzati dalla società non residente che sia attribuibile alla SO personale. Tenuto conto del fatto che l’impresa estera

(30) Frotscher critica la zero-sum-theory sostenendo che secondo essa la SO personale non avrebbe per il principal un valore ulteriore rispetto al costo sostenuto, mentre andrebbe determinato il valore aggiunto creato dalla stabile organizzazione personale per il principale per effetto delle funzioni esercitate nello Stato della stabile organizzazione. Cfr. U. Löwenstein - C. Looks - O. Heinsen, Betriebsstättenbesteuerung, 2. Auflage, 2011, C.H.Beck, 390 ss. (31) Già Bundesfinanzhof (BFH) 28.6.1972 BStBl II 1972, 785.


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ricorre all’agente al fine di realizzare un maggiore utile, tale maggior utile dovrebbe essere attribuito alla stabile organizzazione personale (32). Ai fini della determinazione di detto utile (attribuibile alla SO), alcuni propongono di applicare il metodo del cost plus alla provvigione pagata all’agente (33) aggiungendovi un mark-up mentre altri propongono di applicare il resale price method (34). Una quarta critica si fonda sul necessario rispetto del principio della equa ripartizione della potestà impositiva tra Stati. I sostenitori della zero sum theory motivano la loro tesi sostenendo che il valore aggiunto generato dall’agente è già assoggettato a tassazione nello Stato della fonte in capo all’agente stesso di guisa che un’ulteriore attribuzione di base imponibile allo Stato della fonte non sarebbe giustificata. Tuttavia, un tale approccio priverebbe l’istituto della stabile organizzazione personale di ogni concreta rilevanza (35). Dal punto di vista dell’equità della ripartizione del potere impositivo tra gli Stati sarebbe invece necessario riconoscere una potestà impositiva ulteriore allo Stato della fonte, in considerazione della continuativa presenza economica della società estera che si estrinseca nell’abituale conclusione di contratti per conto di tale società da parte dell’agente. L’istituto della SO personale assolverebbe pertanto la funzione di attribuire tale ulteriore potestà impositiva allo Stato della fonte nei casi in cui l’attività dell’impresa estera nel territorio dello Stato abbia raggiunto un certo grado di intensità (36). 3. La tesi del modello del distributore (fully fledged distributor/low risk distributor). – Se, da un lato, è l’esercizio abituale del potere di concludere contratti a dare origine alla stabile organizzazione personale, non è detto che tale SO debba essere qualificata alla stregua di un agente indipendente ai fini dell’applicazione dell’articolo 7 del Modello OCSE. Detta qualificazione dipende, infatti, dalle circostanze del singolo caso e del modello organizza-

(32) F. Wassermeyer, Art. 5, par. 216, versione del 2000, in Debatin - Wassermeyer, Doppelbesteuerung, C.H. Beck, Monaco; anche F. Wassermeyer, Art. 7, par. 309, versione del 2013, in Wassermeyer, DBA, C.H. Beck, Monaco. (33) Cfr. S. Griemla, Welcher Gewinn ist einer Vertreterbetriebsstätte zuzuordnen?, cit. (34) Ibidem. (35) H. Pijl, The Zero-Sum Game, the Emperor’s Beard and the Authorized OECD Approach, in European Taxation, 2006, 29. (36) S. Bendlinger, Die “neue” Vertreterbetriebsstätte, in Internationales Steuerrecht (ISTR) 22/2016, 914.


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tivo che ai fini civilistici verrebbe scelto da parti indipendenti che operino sul mercato (37). In tale prospettiva, la SO può essere configurata secondo tre modelli: essa può agire in nome e per conto altrui (agente indipendente), in nome proprio ma per conto altrui (commissionario), oppure in nome e per conto proprio (distributore). Nei tre modelli sopra descritti, i beni ed i rischi attribuiti alla stabile organizzazione sono diversi e, quindi, diverso è anche l’utile alla stessa imputato (provvigione, oppure utile sulle vendita). L’applicazione alla SO personale del modello del rivenditore, a prescindere da qualsivoglia analisi fattuale, implica invece la presunzione che l’agente eserciti sempre, per conto della società non residente, le funzioni tipiche del distributore e che, pertanto, sia necessario qualificare la stabile organizzazione personale come distributore che operi in nome e per conto proprio, acquistando e rivendendo i beni ai propri clienti (38). Si presume che la stabile organizzazione personale, in qualità di distributore, assuma tutti i rischi tipici di tale operatore economico (rischio di mercato, rischio di credito, rischio di magazzini, etc.) e sia remunerata per le relative funzioni. Una stabile organizzazione personale non può, da un punto di vista concettuale, costituendo una parte integrante ed indivisibile dell’impresa estera stessa, qualificarsi come mero agente dell’impresa medesima (39). Questo approccio valorizzerebbe la ratio della norma, volta appunto ad evitare che, tramite l’utilizzo di agenti, venga trasferita base imponibile dallo Stato della fonte allo Stato della residenza. Per effetto di una tale presunzione, un modello di vendita basato su una rete di agenti (non indipendenti) verrebbe equiparato ad un modello di vendita imperniato sulla figura del rivenditore situato nel mercato di sbocco. La conseguenza di tale imposta-

(37) H.K. Kroppen, DBA-Kommentar, cit. (38) Cfr. OECD, Base Erosion and Profit Shifting, Public discussion draft, BEPS Action 7, Additional Guidance on the Attribution of Profits to Permanent Establishments, Paris, 2016; Base Erosion and Profit Shifting (BEPS), Public Discussion Draft, Additional Guidance on Attribution of Profits to Permanent Establishments, 2017, punto 25. Il concetto viene ripreso nell’esempio 2 del Rapporto finale 2018 in cui al punto 51 viene espressamente previsto che la stabile organizzazione personale deve essere considerata un rivenditore, in quanto l’agente conclude i contratti di vendita per conto della casa madre. Il Rapporto finale non indica nell’esempio 2 se l’acquisto delle merci da parte della SO personale debba essere valorizzato considerando anche in questo caso la stabile organizzazione un rivenditore. Nell’esempio n. 1, del draft del 2016 in cui si ipotizza che l’agente non svolga nessuna ulteriore funzione significativa, ai costi di acquisto veniva attribuito un valore tale che l’utile della stabile organizzazione risultasse pari a zero. Un’utile pari a zero non è né previsto né escluso nell’esempio 2 del rapporto finale. (39) H. Loukota, Die Vertreterbetriebsstätte, cit.


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zione è che alla SO personale (attraverso il metodo diretto, o il metodo indiretto) verrebbero imputati i ricavi di vendita realizzati nei confronti di terzi tramite la SO personale, i costi relativi agli acquisti delle merci vendute e quindi il relativo margine netto di vendita. Contestualmente verrebbe portata in deduzione la provvigione pagata all’agente oltre agli altri costi inerenti all’attività distributiva. Secondo il metodo diretto, l’utile della SO verrebbe determinato nel seguente modo: + ricavi dalla vendita della merce dalla casa madre - costi di acquisto delle merci dalla casa madre (valutati ai prezzi all’ingrosso) - remunerazione dell’agente - quote delle spese di amministrazione = utile della SO personale Secondo il metodo indiretto, l’utile complessivo verrebbe scomposto in utile della produzione ed in utile della distribuzione e quest’ultimo verrebbe attribuito per intero alla stabile organizzazione personale (40). 3.1. Critiche alla tesi del modello del distributore. – Una critica che si può muovere alla tesi del modello del distributore è che la stessa attribuisce alla SO personale funzioni diverse da quelle normalmente esercitate dall’agente. Il modello del distributore non trova neppure una base giuridica nel diritto convenzionale, secondo il quale sono rilevanti le funzioni effettivamente esercitate dall’agente. Quest’ultimo, quando conclude contratti per la vendita di prodotti o la prestazione di servizi, lo fa non in nome proprio e per conto proprio, ma in nome e per conto della impresa non residente, ovvero in nome proprio, ma per conto dell’impresa estera (commissionario). Egli non assume dunque i rischi tipici del distributore (rischio di perdita del bene, rischio di credito, rischio di mercato, rischio di garanzia, ecc.) e, pertanto, alla SO personale che si configura per effetto della sua attività non dovrebbero essere attribuite le funzioni, i rischi e gli utili tipici dei distributori. Nei limitati casi in cui l’agente dovesse operare, in concreto, come un fully fledged distributor, allora sarebbe il rapporto tra l’impresa estera e l’agente (di solito appartenente

(40) M. Naumann, Abschmelzen (Stripping) von Funktionen im Konzern, steuerlich vergebliche Liebesmüh‘? – zur Verlagerung von Funktionen am Beispiel von Vertriebstochtergesellschaften, in Internationales Steuerrecht (ISTR) 2004, 246.


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allo stesso gruppo di imprese) a dover essere sottoposto ad eventuali rettifiche in base al principio dell’arm’s length (41). 4. Elaborazione dell’OCSE. – Come accennato sopra, il Rapporto OCSE del 2010 prevede l’applicazione dell’AOA (Authorized OECD Approach) anche alla SO personale, principio confermato anche nel Rapporto Finale del 2018. L’AOA prevede un’applicazione illimitata del principio dell’arm’s length (di cui alle Transfer Pricing Guidelines) (42) ai fini della valorizzazione dei rapporti tra la stabile organizzazione e l’impresa estera. Il Rapporto OCSE del 2010 tratta anche lo specifico tema della determinazione dell’utile della stabile organizzazione personale, lasciando tuttavia diversi dubbi irrisolti (43). Secondo alcuni autori, l’OCSE avrebbe nella sostanza adottato la zero sum theory, in quanto ammette l’esistenza di situazioni in cui il risultato può essere pari a zero (44). Secondo altri, al contrario, l’OCSE avrebbe rigettato la zero sum theory, come emergerebbe dal fatto che l’eventuale assenza di un utile attribuibile alla SO sarebbe non l’indefettibile conseguenza dalla intrinseca natura della SO personale, ma soltanto il risultato dell’applicazione dell’analisi funzionale ai fatti ed alle circostanze della fattispecie concreta, il ché ben potrebbe condurre all’attribuzione di un utile positivo. Ad avviso dell’OCSE, l’agente può svolgere una serie di attività, oltre a quella di concludere contratti per conto dell’impresa non residente, quali la gestione del magazzino, i servizi di logistica, gli adempimenti doganali, la consegna dei prodotti, la fatturazione, l’incasso, i servizi di after sales, lo sviluppo delle possibilità di applicazione del prodotto presso i clienti, ecc. Stante tale premessa, da un lato l’OCSE rigetta il single taxpayer approach e distingue nettamente tra tassazione dell’agente e tassazione della SO personale, così confermando che lo Stato della fonte può esercitare la potestà impositiva su entrambi i soggetti, lasciando però aperta la possibilità di riscuotere le imposte esclusivamente dall’intermediario per ragioni di sem-

(41) X. Ditz, Die Fehlentwicklungen bei der Vertreterbetriebsstätte, in Steuer und Wirtschaft International (SWI) 2017, 282. (42) Punto 44 del Rapporto OCSE del 2010. (43) Rimasti parzialmente irrisolti anche a seguito del Rapporto finale del 2018, anche se questo ha fornito indicazioni più precise su alcuni aspetti. (44) Punto 228 del Rapporto OCSE del 2010, anche punto 41 del Rapporto finale OCSE del 2018.


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plificazione amministrativa (45). Tuttavia, ciò non significa che l’analisi funzionale debba necessariamente portare all’imputazione di un utile alla stabile organizzazione personale (46). Ed infatti, dall’altro lato, l’AOA impone di verificare tramite un’accurata analisi funzionale, da effettuare secondo il “functionally separate entity approach” (47), quali (ulteriori) funzioni vengano esercitate dall’agente (cioé dal suo personale dipendente) per conto dell’impresa estera (come espressamente enunciato dal comma 5 dell’articolo 5 del Modello OCSE). In base all’analisi funzionale sono quindi imputati alla SO i rischi, i beni e una dotazione di capitale (che secondo la zero sum theory andrebbero invece imputati alla casa madre) e viene attribuita rilevanza ai dealings tra casa madre e SO. L’analisi funzionale mira pertanto all’identificazione delle significant people functions (48) esercitate dall’agente per conto dell’impresa non residente, cioè quelle funzioni che sono rilevanti ai fini dell’assunzione e della gestione dei rischi di detta impresa (rischio di magazzino, di credito, di valuta, di mercato, di tasso d’interesse, rischio di garanzia) e dell’attribuzione della proprietà economica dei beni. A titolo esemplificativo, se l’agente viene incaricato di gestire i crediti verso i clienti e quindi il relativo rischio d’incasso (decidendo, ad esempio, se vendere un determinato prodotto ad un determinato cliente a seguito di un’analisi di solvibilità), allora il rischio di credito, secondo l’OCSE, va attribuito alla stabile organizzazione personale e anche i corrispondenti prezzi di trasferimento devono tenere conto di tale rischio. Se l’agente è responsabile del magazzino, cioè se deve prendere le decisioni rilevanti in merito alla dimensione ed alla composizione del magazzino, allora il rischio connesso al magazzino va attribuito, secondo l’OCSE, alla stabile organizzazione personale (49) e anche i corrispondenti prezzi di trasferimento devono

(45) In questo senso il punto 43 del Rapporto finale del 2018. Cfr. H. Loukota, Die Vertreterbetriebsstätte, cit. (46) Punto 228 del Rapporto OCSE del 2010, anche punto 41 del Rapporto finale OCSE del 2018. (47) Cfr. a tal proposito il punto 45 del Rapporto Finale del 2018, che evidenzia il fatto che molte Convenzioni non contemplano l’AOA e addirittura non consentono il riconoscimento di notional dealings tra SO e casa madre e che anche il diritto interno del singolo Stato può prevedere approcci diversi. (48) L’OCSE distingue tra “significant functions” e “support and ancillary functions”: punto 62, parte I, del Rapporto OCSE del 2010. (49) L’OCSE esemplifica il ragionamento con l’esempio dell’agente. “Under a typical sales agency agreement, the dependent agent enterprise never takes title to the goods, which


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tenere conto di tale rischio. All’agente, viceversa, spetterebbe in questi casi solo una remunerazione per il servizio di gestione dei rischi (50). Questo principio sembra essere confermato anche nel Rapporto 2018. In particolare, l’esempio 2 di tale Rapporto riguarda proprio la fattispecie del commissionario che dà origine ad una stabile organizzazione personale. Una società non residente (una cosiddetta trading company (51)) commercializza i beni nello Stato della fonte attraverso l’attività di un soggetto controllato che assume il ruolo di commissionario (“dependent agent enterprise”), vendendo i beni in nome proprio, ma per conto della società non residente. Il personale della società controllata gestisce il magazzino, decidendo anche in merito alla sua dimensione. Secondo l’OCSE i ricavi delle vendite concluse dalla società controllata devono essere imputati alla stabile organizzazione personale, come se la stabile organizzazione acquistasse i beni dalla casa madre e li rivendesse ai clienti finali. Inoltre, secondo l’OCSE, alla stabile organizzazione vanno imputati il rischio di magazzino e la titolarità economica dei beni, in quanto il personale del soggetto controllato, che con la sua attività dà luogo alla stabile organizzazione, esercita per conto dell’impresa non residente le relative significant people functions (52). In base a questa fictio juris, l’utile attribuibile alla stabile organizzazione emerge quale differenza tra, da un lato, i ricavi per la vendita dei prodotti e, dall’altro lato, il costo di acquisto delle merci dalla casa madre (valutato in base al principio del valore normale, ossia pari al prezzo che la casa madre avrebbe ottenuto dalla vendita dei medesimi

remain the property of the non-resident enterprise in whose name the contracts with customers are concluded.” (50) Cfr., in senso analogo, la circolare del Ministero delle finanze tedesco del 22.12.2016, punto 423. (51) Nel draft del 2016 l’impresa non residente era un’impresa manifatturiera. (52) “The functional and factual analysis also demonstrates that the significant people functions relevant to the assumption of inventory risk and to the disposition of the inventory are performed by the personnel of SellCo on behalf of TradeCo in Country S. Accordingly, the PE is hypothesised to be the economic owner of the inventory and the party assuming the inventory risk.” (punto 52 del Rapporto 2018). Si tratta però di conciliare questa affermazione con l’affermazione contenuta nel punto 40 del medesimo Rapporto: “where a risk is found to be assumed by the intermediary under the guidance in Section D.1.2 of Chapter I, such risk cannot be considered to be assumed by the non-resident enterprise or the PE for the purposes of Article 7”. Tra l’altro di questo si è tenuto conto nel punto 53 del discussion draft dell’OCSE del 2016 dal quale sembra risultare che la remunerazione dovuta all’agente debba tenere conto del rischio (di magazzino e di credito) assunto dall’agente, mentre l’attribuzione del medesimo rischio alla stabile organizzazione implicherebbe l’attribuzione della titolarità economica dei beni alla SO.


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beni ad un’entità indipendente svolgente attività identiche o analoghe a quelle della stabile organizzazione ed in condizioni identiche o analoghe), la remunerazione dovuta alla società controllata per le attività da essa svolte (valutata in base al principio del valore normale, in applicazione dell’articolo 9 del Modello OCSE, in quanto in questo caso l’agente è un soggetto che rientra nell’ambito di applicazione di tale disposizione) ed eventuali altri costi imputabili alla stabile organizzazione. L’approccio promosso dall’OCSE ruota dunque intorno alle significant people functions (53). In proposito, l’OCSE fa riferimento alle funzioni tipiche esercitate nel territorio dello Stato dai dipendenti dell’impresa non residente (54).Con riferimento alla SO personale, tuttavia, sorge il problema che la stessa solitamente non ha personale dipendente nel territorio dello Stato. Pertanto, l’approccio promosso dall’OCSE non può essere applicato in maniera diretta, ma solo indirettamente, attraverso una finzione giuridica che, in forza del comma 5 dell’articolo 5 del Modello OCSE, attribuisce alla SO le funzioni effettivamente esercitate dall’agente nel territorio dello Stato. In proposito, secondo l’OCSE, in alcune circostanze (“appropriate circumstances” (55)) alla SO personale può essere attribuito un utile limitato, o addirittura nullo. È questo il caso in cui l’agente eserciti esclusivamente l’attività di intermediazione e nessun’altra significant people functions e, di conseguenza, non sia possibile attribuire alla SO personale beni, rischi e proventi della impresa non residente (56).

(53) Peraltro, al difuori dell’ipotesi di stabile organizzazione personale questo approccio si rileva problematico in relazione a quei casi in cui all’interno della stabile organizzazione non operano persone come ad esempio nel caso dell’oleodotto come stabile organizzazione. (54) Punto 62 del Rapporto OCSE del 2010: “The functional and factual analysis takes account of the functions performed by the personnel of the enterprise as a whole including the PE – “people functions” – and assesses what significance if any they have in generating the profits of the business.” Cfr. Punto 12 del commentario OCSE all’articolo 7. (55) Punto 41 del Rapporto finale OCSE del 2018: “Depending on the facts and circumstances of a given case”. (56) 234. Issues arise as to whether there would remain any profits to be attributed to the dependent agent PE after an ar’s length reward has been given to the dependent agent enterprise. In accordance with the principles outlined above (and illustrated in the example below) the answer is that it depends on the precise facts and circumstances as revealed by the functional and factual analysis of the dependent agent and the non-resident enterprise. However, the authorised OECD approach recognises that it is possible in appropriate circumstances for such profits to be attributed to the dependent agent PE. 228. Consequently, there is no presumption that a dependent agent PE will have profits attributed to it. In some circumstances, the functional and factual analysis may determine that


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4.1. Le qualificazioni giuridiche presupposte dall’OCSE. – Larga parte delle criticità che caratterizzano l’approccio promosso dall’OCSE derivano dal fatto che la determinazione dell’utile attribuibile alla stabile organizzazione personale si basa su una serie di qualificazioni giuridiche che lasciano ampi margini di discrezionalità nell’applicazione dell’articolo 7 del Modello (57). Tali qualificazioni giuridiche possono essere catalogate come segue: 1. esistenza di una stabile organizzazione (commi 5 e 6 dell’articolo 5); 2. qualificazione della stabile organizzazione come impresa indipendente ed autonoma ai fini dell’AOA; 3. Attribuzione alla SO delle funzioni esercitate dall’agente ai fini dell’analisi funzionale; 4. Configurabilità di dealings tra stabile organizzazione personale e casa madre. 4.2. Critiche avanzate da quella parte della dottrina che ritiene che l’approccio dell’OCSE sia eccessivamente prossimo alla zero sum theory. – Da parte di chi ritiene che l’approccio dell’OCSE sia troppo vicino alla zero sum theory (58) viene criticato il fatto che, secondo l’AOA, debbano essere attribuiti utili alla SO personale solo se ad essa possano essere attribuiti rischi e beni della casa madre per effetto dell’esercizio da parte dell’agente di significant people functions. Ove l’agente non eserciti tali funzioni, l’utile attribuibile alla SO sarebbe pari a zero o minimo.

the amount to be attributed to the dependent agent PE is a negligible profit, nil or a loss. Il concetto viene ulteriormente sviluppato nel Rapporto finale del 2018: In particular, when the accurate delineation of the transaction under the guidance of Chapter I of the TPG indicates that the intermediary is assuming the risks of the transactions of the non-resident enterprise, the profits attributable to the PE could be minimal or even zero. Tuttavia, nell’esempio 2 del rapporto finale il rischio di magazzino viene attribuito tout court alla stabile organizzazione personale e non viene specificato se la remunerazione arm’s length dovuta all’agente sia comprensiva anche del servizio di gestione del magazzino e dell’assunzione del rischio relativo. A ciò si aggiunge il fatto che nel medesimo esempio 2 del rapporto finale 2018 alla stabile organizzazione vengono attribuiti i ricavi delle vendite generati dall’attività di conclusione dei contratti di vendita, il che potrebbe indurre a ritenere che l’OCSE abbia voluto prevedere la possibilità di attribuire alla SO le funzioni tipiche del distributor. (57) Ditz 2017 cit.: secondo Ditz queste problematicità sono la causa principale per la quale soprattutto paesi in via di sviluppo tendono ad avanzare pretese fiscali eccessive. In questo contesto Andresen (2018, cit.) richiama la prassi cinese di tassare sistematicamente una parte del margine di vendita. (58) Si veda, ad esempio, D. Niehaves, Art. 7, in Haase, Außensteuergesetz Doppelbesteuerungsabkommen, 2. Auflage, 2012, 911 ss.


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4.2.1. La core function dell’agente. – Nel Rapporto del 2010, l’OCSE discute in maniera analitica alcune delle funzioni che possono essere svolte dall’agente, quali la gestione del magazzino e dei crediti, ma evita di occuparsi della attività propria dell’agente, ossia dell’esercizio abituale del potere di concludere contratti (59). Alcuni autori criticano tale approccio, valorizzando il fatto che, senza questa funzione, nessuna SO personale verrebbe ad esistenza (60). Ad avviso di tale dottrina, l’impossibilità di attribuire alla SO beni e rischi relativi a funzioni diverse da quella di concludere contratti non dovrebbe comportare che alla SO personale non possa essere attribuito alcun utile. Se così fosse, alle SO personali “pure” non andrebbe mai attribuito alcun utile. Secondo Niehaves, viceversa, l’attività di intermediazione dovrebbe sempre comportare l’attribuzione di utili alla SO personale, in coerenza con i principi generali sottesi all’AOA, il quale attribuisce rilevanza a tutte le funzioni svolte, a prescindere dal fatto che esse siano o meno significant people functions o meno (61). 4.2.2. I dealings. – Secondo alcuni autori, l’AOA non rappresenterebbe in ogni caso un approccio adatto ai fini dell’attribuzione degli utili alla SO personale. Infatti, nell’ambito AOA, i dealings tra SO e casa madre assumono un ruolo fondamentale. Tali dealings, tuttavia, non si verificherebbero mai nell’ambito della SO personale. Le operazioni verrebbero infatti poste in essere esclusivamente tra l’agente e l’impresa estera, nonché tra quest’ultima ed il cliente finale. Inoltre, alla SO personale potrebbero essere attribuite esclusivamente funzioni esercitate da soggetti terzi e mai funzioni esercitate dall’impresa estera (62).

(59) Sia in senso sostanziale sia in senso formale (60) Si veda, ad esempio, Niehaves, Art. 7 cit.; e Id., Die Gewinnabgrenzung bei Vertreterbetriebsstätten, in Internationales Steuerrecht (ISTR) 2011, 373. (61) Punto 17, parte prima del Rapporto OCSE del 2010: “It should be noted that there is no presumption that functions other than significant people functions relevant to the assumption of risk and significant people functions relevant to the economic ownership of assets are by nature of low value. This will be determined by the functional and comparability analyses based on the particular facts and circumstances.” Punto 62, parte prima del Rapporto OCSE del 2010: “The functional and factual analysis takes account of the functions performed by the personnel of the enterprise as a whole including the PE – “people functions” – and assesses what significance if any they have in generating the profits of the business. People functions can range from support or ancillary functions to significant functions relevant to the attribution of economic ownership of assets and/or the assumption of risk.” (62) Nell’esempio 2 del Rapporto finale 2018 l’“internal dealing” presunto è l’acquisto delle merci dalla società madre che deriva necessariamente dall’imputazione dei ricavi di vendita alla SO personale.


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5. Applicazione del profit split per determinare l’utile della SO? – La determinazione dell’utile della stabile organizzazione personale deve tenere conto delle particolarità dell’istituto che costituisce ai fini della determinazione del reddito una costruzione virtuale posto che la SO personale non dispone di una sede fissa, non ha dipendenti, non intrattiene rapporti commerciali né con terzi né con la casa madre. Secondo alcuni autori si pone la questione se un’applicazione rigorosa dell’AOA e dei principi ivi previsti con riferimento alla SO materiale porti, nel caso della SO personale, a risultati ragionevoli (63). Per tali autori, né il modello della zero sum theory, né il modello del distributore risultano convincenti (64). Stante l’inadeguatezza di tali modelli, l’utile della SO personale dovrebbe essere determinato indirettamente, cioè tramite un riparto dell’utile tra la casa madre e la SO (65). Nella determinazione dell’utile della SO personale, l’utile derivante dalla funzione di vendita dovrebbe essere imputato pro quota alla SO personale, mentre l’utile derivante dalla produzione resterebbe sempre ed esclusivamente in capo alla casa madre. Di regola, infatti, non solo l’agente, ma anche la società non residente esercita funzioni di vendita. Andrebbero, pertanto, individuate quali funzione di vendita siano esercitate dall’agente e quali da dipendenti impiegati dalla casa madre, l’utile di vendita andrebbe quindi diviso in proporzione alla significatività delle une rispetto alle altre (66). In conformità a questo approccio, la SO personale non verrebbe considerata un mero prestatore di servizi, nella forma di agente, ma un’impresa autonoma e indipendente, e cioè una parte dell’impresa complessiva a cui viene attribuito un’utile (o una perdita) che deve essere adeguato in relazione al contributo da essa (tramite l’agente) concretamente apportato (67). Secondo la tesi in oggetto, alla SO personale andrebbe attribuita quella parte dell’utile che riflette l’importanza dell’attività dell’agente rispetto all’u-

(63) D. Niehaves, Art. 7 cit.; vedi anche S. Bendlinger, Die Betriebsstätte, 2013, LexisNexis Verlag, Wien, 260 ss. (64) D. Niehaves, Art. 7 cit. (65) Al punto 45 del Rapporto 2018 viene fatta menzione al fatto che vi possono essere Convenzioni che permettono l’applicazione di un “apportionment approach” e che vi possono essere Stati il cui diritto interno permette un tale approccio. (66) Una soluzione pragmatica potrebbe essere quella di utilizzare, quale criterio di riparto, il numero o il costo delle persone impiegate dalla casa madre e dall’agente (67) M. Naumann, Abschmelzen (Stripping) von Funktionen im Konzern, steuerlich vergebliche Liebesmüh?, cit.


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tile complessivo dell’impresa, ossia una quota appropriata del margine commerciale dell’impresa nel suo insieme. Giova in merito rilevare che, mentre detto metodo indiretto sembra essere stato rigettato dall’OCSE nel Rapporto del 2010, le Transfer Pricing Guidelines valorizzano il metodo del profit split ai fini di suddividere l’utile complessivo tra parti correlate, con particolare (sebbene non esclusivo) riguardo ai casi in cui l’applicazione degli altri metodi non garantisca l’affidabilità dei risultati. La maggiore criticità connessa all’applicazione del metodo del profit split ai fini della determinazione dell’utile della SO personale è che esso conduce sempre all’attribuzione alla SO di una quota degli utili conseguiti dall’impresa estera attraverso la funzione di vendita, anche nei casi in cui nello Stato della fonte sia svolta alcuna attività ulteriore rispetto a quella esercitata dall’agente, la quale è già remunerata (68). 6. Gli effetti del progetto BEPS. – Come menzionato in sede introduttiva, anche se il progetto BEPS ha ampliato la nozione di stabile organizzazione, il Rapporto finale 2015 ha chiarito che le regole di determinazione dell’utile della SO personale continuano ad essere quelle individuate dall’articolo 7 del Modello OCSE, come interpretato dal Rapporto OCSE del 2010. Tale principio è confermato anche dal Rapporto finale del 2018. Il tema merita, tuttavia, di essere fatto oggetto di qualche ulteriore riflessione alla luce degli sviluppi conseguenti alla pubblicazione del Rapporto finale relativo alle azioni 8-10 del progetto BEPS, che ha modificato, talvolta in maniera significativa, le regole di transfer pricing accettate a livello OCSE. È stato introdotto, ad esempio, il principio del controllo dei rischi, secondo il quale le funzioni e rischi sono correlati e possono essere imputati solamente in maniera simmetrica (69). I componenti di reddito connessi a determinati

(68) M. Naumann, Abschmelzen (Stripping) von Funktionen im Konzern, steuerlich vergebliche Liebesmüh?, cit. (69) H.K. Kroppen, Neue OECD-Richtlinien zur Gewinnaufteilung bei Vertreterbetriebsstätten, Verkannt, verrannt, was nun?, in Internationale Wirtschaftsbriefe (IWB) 2017, 257. Kroppen critica in particolar modo il fatto che i principi di TP sono stati adattati ai principi dell’AOA: un’imputazione simmetrica dei potenziali di reddito originati dai rischi e delle corrispondenti funzioni di controllo dei rischi non corrisponde all’arm’s length principle (esempio è il private equity); vedi anche G. Cappelleri - M. Severi, I recenti lavori OCSE in tema di stabile organizzazione, in Rivista di Diritto Tributario, supplemento online, 2016; R. Petruzzi R. Holzinger, Profit Attribution to Dependent Agent Permanent Establishments in a Post-BEPS Era, in World Tax Journal May 2017, 263; K. Dziurdz, Attribution of Functions and Profits to


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rischi possono essere imputati solamente a chi controlla tali rischi (ed inoltre a chi ha la capacità finanziaria di sopportare tali rischi) (70). Un’attribuzione contrattuale dei rischi che si discosti dalla effettiva funzione di controllo di tali rischi non viene riconosciuta ai fini del transfer pricing. Il concetto di significant people function, valorizzato nell’ambito dell’AOA è stato trasposto nell’ambito di applicazione dell’articolo 9 del Modello OCSE (anche se utilizzando termini diversi: “significant people function” da un lato e “risk control function” dall’altro lato), cioè nell’ambito dei rapporti tra parti correlate. In questo modo si è verificato un adattamento dei principi di cui all’articolo 9 ai principi di cui all’articolo 7. Se si applicano i principi enunciati nel Rapporto finale relativo alle azioni 8-10 del progetto BEPS alle operazioni che intervengono tra agente e impresa estera, appartenenti al medesimo gruppo, ne consegue una riqualificazione di tali operazioni nei casi in cui l’agente da un lato eserciti un controllo sui rischi che erano stati contrattualmente imputati alla casa madre e dall’altro lato disponga di una capacità finanziaria idonea a sopportare tali rischi. Ciò comporta la migrazione di utili e perdite dall’impresa estera all’agente situato nello stato della fonte. Tali utili o perdite, una volta imputati all’agente, non possono più essere imputati alla SO personale. Dunque, per effetto delle azioni 8-10 del progetto BEPS le SO personali tenderanno maggiormente, rispetto al passato, a conseguire utili nulli o estremamente esigui. Se, ad esempio, l’agente, facente parte del gruppo, disponesse di una proprio magazzino merci ed esercitasse funzioni di gestione dei crediti, esso verrebbe di fatto riqualificato alla stregua di un rivenditore che si assume rischi imprenditoriali propri (71). Infine, nell’intero progetto BEPS appare centrale il ruolo esercitato dalla nozione di value creation, che rappresenta un parametro primario di riferimento ai fini della allocazione dei redditi tra i vari Stati coinvolti. L’approccio BEPS della value creation rende il two taxpayer approach effettivamente problematico: se la creazione di valore da parte dell’agente viene giá adeguatamente remunerata in capo all’agente stesso, non rimane alcun spazio per una ulteriore remunerazione delle medesime funzioni in capo alla società estera

a Dependent Agent PE: Different Arm’s Length Principles under Articles 7(2) and 9?, in World Tax Journal June 2014, 263. (70) Maisto e Associati, Comments on the Public Discussion Draft on BEPS Action 7: Additional Guidance on Attribution of Profits to Permanent Establishments, 15 settembre 2017. (71) C. Looks - O. Heinsen, Betriebsstättenbesteuerung, 3. Auflage, 2017, C.H.Beck, 386.


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nello Stato della fonte (72), a meno che allo svolgimento delle rilevanti funzioni da parte dell’agente non corrisponda una traslazione del relativo rischio in capo allo stesso. In questa direzione sembra orientato anche il Rapporto 2018, laddove afferma che, qualora a seguito di un’analisi funzionale in applicazione delle Transfer Pricing Guidelines (73) dell’OCSE, il rischio risulti essere assunto dall’intermediario, tale rischio non può essere considerato parimenti assunto dall’impresa non residente o dalla sua stabile organizzazione ai fini dell’articolo 7 (74), con la conseguenza che l’utile da attribuire a quest’ultima (stabile organizzazione) sarà minimo, ovvero pari a zero (75). Infatti, secondo l’OCSE un approccio diverso comporterebbe rischi di doppia tassazione. Dall’altro lato l’OCSE sembra discostarsi dalla zero-sum theory come descritta sopra, quando sottolinea che il potere impositivo dello Stato della Fonte non necessariamente si esaurisce nella remunerazione at arm’s length pagata all’intermediario. Come detto, qualora all’esercizio delle funzioni da parte dell’agente non corrisponda una piena assunzione del relativo rischio da parte dello stesso, detto rischio dovrà essere remunerato in capo alla stabile organizzazione che si materializza per effetto delle funzioni svolte dall’agente.

Arno Crazzolara

(72) X. Ditz, Die Fehlentwicklungen bei der Vertreterbetriebsstätte, cit. (73) Sezione D.1.2 del capitolo 1. (74) Tuttavia, nell’esempio 2 del Rapporto 2018 si assume che dall’analisi funzionale risulti che il rischio di magazzino sia assunto dalla stabile organizzazione (punto 52 del Rapporto finale 2018). (75) Punto 41 del Rapporto 2018. Si veda anche il punto 234 del Rapporto 2010.


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