Rivista Diritto Tributario 3/2019

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Vol. XXIX - Giugno

Rivista di

Diritto Tributario

Fondatori: Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi

3

Rivista bimestrale

www.rivistadirittotributario.it

Vol. XXIX - Giugno 2019

3

Direzione scientifica Loredana Carpentieri - Angelo Contrino - Guglielmo Maisto - Franco Paparella Gaetano Ragucci - Roberto Schiavolin

2019

In evidenza: • Sul regime fiscale delle rinunzie nell’imposizione dei trasferimenti della ricchezza

Andrea Fedele • Giustizia tributaria e la sfida della tutela dei diritti fondamentali: la “road map” di un

possibile intervento riformatore Alberto Marcheselli • Evoluzione e regime intertemporale della disciplina fiscale delle stock option al cospetto

della clausola generale (statutaria) che vieta la retroattività per i tributi periodici Angelo Contrino • Definizione agevolata delle liti fiscali e concetto di atto impositivo: orientamenti della

giurisprudenza di legittimità e della prassi amministrativa Alessandro Turchi

ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Rivista di Diritto Tributario

Componenti onorari: Francesco D’Ayala Valva - Andrea Fedele - Piera Filippi Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo

Pacini



Indici In ricordo del Prof. Augusto Fantozzi........................................................................ V

DOTTRINA

Angelo Contrino

Evoluzione e regime intertemporale della disciplina fiscale delle stock option al cospetto della clausola generale (statutaria) che vieta la retroattività per i tributi periodici (nota a Cass. n. 18917/2018)...................................................................... II, 110 Andrea Fedele

Sul regime fiscale delle rinunzie nell’imposizione dei trasferimenti della ricchezza (nota a Cass. n. 2052/2019)................................................................................... II, 81 Alberto Marcheselli

Giustizia tributaria e la sfida della tutela dei diritti fondamentali: la “road map” di un possibile intervento riformatore............................................................................ I, 277 Giuseppe Mercuri

La cessazione della materia del contendere nei giudizi di rimborso........................ I, 301 Mario Ravaccia

Le spese della stabile organizzazione per la casa madre: la detrazione in base al prorata comunitario (nota a Corte Giustizia, C-165/17 del 2019)............................ IV, 51 Stefano Maria Ronco

La funzione della sanzione amministrativa tributaria nel quadro delle dinamiche della tax compliance................................................................................................... I, 329 Alessandro Turchi

Definizione agevolata delle liti fiscali e concetto di atto impositivo: orientamenti della giurisprudenza di legittimità e della prassi amministrativa (nota a Cass. n. 7099/2019).................................................................................................................. II, 134 Rubrica di diritto europeo

a cura di Piera Filippi.................................................................................................I V, 37

Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.


II

indici

INDICE ANALITICO

QUESTIONI GENERALI DEFINIZIONE AGEVOLATA LITI PENDENTI Cartella di pagamento avente ad oggetto imposte dichiarate e non versate – Ricorso proposto per vizi propri della cartella – Definizione agevolata della lite pendente – Esclusione (Cass. civ., sez. trib., 11 dicembre 2018 - 13 marzo 2019, n. 7099, con nota di Alessandro Turchi).................................................................... II, 133

IRPEF REDDITI DI LAVORO DIPENDENTE Stock option – Modifiche in corso d’anno – Inesistenza di norma transitoria – Applicabilità delle modifiche ai piani di stock option c.d. in corso – Sussiste – Violazione dei principi di retroattività, affidamento e certezza del diritto – Non sussiste – Divieto statutario di retroattività infrannuale – Requisito della periodicità della disciplina – Non sussiste – Clausola generale di diritto intertemporale – Inapplicabile (Cass. civ., Sez. V, 14 marzo 2018 - 17 luglio 2018, n. 18917, con nota di Angelo Contrino) ........................................................................................... II, 101 IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO Detrazione – Beni e servizi utilizzati sia per operazioni imponibili sia per operazioni esenti (beni e servizi ad uso promiscuo) – Determinazione del prorata di detrazione applicabile – Succursale stabilita in uno Stato membro diverso da quello della sede principale della società – Spese effettuate dalla succursale destinate esclusivamente alla realizzazione delle operazioni della casa madre – Spese generali della succursale concorrenti alla realizzazione sia delle proprie operazioni sia di quelle della casa madre (Corte Giust., sez. IV, sent. C-165/17 del 24 gennaio 2019, con nota di Mario Ravaccia).............................................................. IV, 37

IMPOSTE IPOTECARIE E CATASTALI Rinunzia a diritto reale immobiliare – Art. 1 Tariffa allegata al d.lgs. n. 347/1990 – Art. 1 Tariffa, parte prima, allegata al DPR n.131/1986 – Art. 2, comma 47, decreto-legge n. 262/2006, convertito in legge n. 286/2006 – Assoggettamento a imposta catastale in misura proporzionale (Cass. civ., Sez. VI, 6 dicem-


indici

III

bre 2018 - 28 gennaio 2019, n. 2052, con nota di Andrea Fedele) .......................... II, 79

INDICE CRONOLOGICO Corte Giust., sez. IV 24 gennaio 2019, C-165/17........................................................................................ IV, 37 *** Cass. 14 marzo 2018 - 17 luglio 2018, n. 18917................................................................. II, 101 Cass. 6 dicembre 2018 - 28 gennaio 2019, n. 2052............................................................ II, 79 Cass. 11 dicembre 2018 - 13 marzo 2019, n. 7099............................................................. II, 133

Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Roberto Cordeiro Guerra - Adriano Di Pietro - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Franco Gallo - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Giuseppe Tinelli - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio



V

In ricordo del Prof. Augusto Fantozzi Lo scorso 13 luglio è prematuramente scomparso a Roma il prof. Augusto Fantozzi, giurista raffinato e Maestro indiscusso del diritto tributario non solo per i Suoi numerosi allievi ma per l’intera comunità. In apertura del fascicolo la Direzione di questa Rivista intende onorare la memoria di un grande amico e di uno studioso colto e autorevole, ripercorrendo gli elementi essenziali della Sua prestigiosa carriera. Laureatosi, nel dicembre del 1962, con una tesi sulla tassazione in base a bilancio, relatori i proff. Cesare Cosciani e Giuseppe Ferri, il prof. Fantozzi è stato avviato giovanissimo alla carriera universitaria dal Suo Maestro, il Prof. Gian Antonio Micheli, conseguendo la libera docenza nel 1966. Nel 1968 gli è stato conferito il primo incarico di insegnamento presso l’Università degli Studi di Perugia; successivamente ha insegnato presso le Facoltà di Scienze politiche e di Economia e commercio dell’Università di Roma “La Sapienza” fino a succedere, nel 1980, al Suo Maestro nella cattedra presso la facoltà di Giurisprudenza. In questa facoltà ha svolto l’intera carriera universitaria fino al 2009, promuovendo numerosi cicli di dottorati e co-dirigendo il Master in diritto tributario “Gian Antonio Micheli”; ha insegnato anche presso la facoltà di Giurisprudenza della LUISS di Roma e le Scuole della Guardia di Finanza ed ha avuto altre intense esperienze di insegnamento presso Università straniere oltre a promuovere e partecipare a numerosi convegni, di rilievo nazionale e internazionale. Dal 2009 è divenuto Rettore dell’Università Telematica “Giustino Fortunato” di Benevento. Il Suo contributo è indiscusso anche nella vita delle Riviste scientifiche e nelle Collane dedicate alla materia. È stato co-fondatore, con il prof. Gaspare Falsitta, della Rivista di diritto tributario e membro di direzione e del comitato scientifico di numerose altre Riviste, tra le quali Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze e Giurisprudenza commerciale. In ambito internazionale è stato membro del comitato direttivo di EC Tax Review e di Tax Notes International. È stato co-fondatore e direttore, con il prof. Falsitta, della Collana “L’ordinamento tributario italiano”, nella quale sono state pubblicate monografie di primario valore scientifico che hanno segnato la carriera di più generazioni di professori di diritto tributario, e, a conferma di una spiccata capacità di aggre-


VI gare, dirigere e valorizzare studiosi di diversa età e interessi, ha curato volumi collettanei estremamente apprezzati dalla comunità scientifica. È stato tra i fondatori della “Società fra gli studiosi del diritto tributario”, membro dell’“Associazione per gli Studi e le ricerche sulla Riforma delle istituzioni democratiche e sull’innovazione delle amministrazioni pubbliche (ASTRID)” e membro dell’“Associazione Europea dei Professori di Diritto Tributario (EATLP)”. A Lui è riconducibile una produzione scientifica di oltre trecento pubblicazioni tra monografie, articoli, voci enciclopediche e note a sentenze, tutte contraddistinte da indiscussa chiarezza espositiva. Quanto ai lavori monografici e ai Suoi principali saggi, il contributo del prof. Fantozzi ha interessato molteplici aree del diritto tributario, sempre con apporti rilevanti, tuttora significativi nell’elaborazione teorica e giurisprudenziale, che sono punti di riferimento essenziali, anche per l’attenzione ai profili interdisciplinari e la particolare capacità di coniugare uno stile sobrio ad un elevato livello di analisi giuridica. Limitatamente ai profili di maggior rilievo ricostruttivo, secondo un ordine solo in parte cronologico, ma che dà anche conto del continuo bilanciamento ed equilibrio fra diritto sostanziale e procedimentale, diritto interno, internazionale e comunitario, si ricordano gli studi più noti e significativi. Innanzi tutto, il tema delle plusvalenze come elemento costitutivo del reddito mobiliare, nel cui ambito i Suoi articoli della metà degli anni Sessanta del secolo passato hanno impresso, in contrappunto ed in confronto dialettico con gli studi e le monografie del prof. Falsitta, un forte impulso all’analisi delle diverse e molteplici modalità in cui si manifesta la “produzione” del reddito piuttosto che agli indici di certezza e stabilità del risultato economico. La reiterata riproposizione della problematica, anche ben oltre l’ambito del reddito d’impresa, dimostra l’attualità di un approccio che riconduce la “realizzazione” a più generali categorie, utili ad individuare e determinare redditi di natura diversa. La prima, importante, monografia sulla solidarietà passiva (1968) coglie il nesso problematico delle relazioni fra situazioni giuridiche soggettive e modalità dell’attuazione del tributo, sottolineando la necessità di un continuo riferimento al presupposto del tributo come situazione di fatto che giustifica il prelievo, quindi di una sua determinazione unitaria, pur nella pluralità dei soggetti coinvolti. La soluzione poi seguita dalla giurisprudenza, che ha preteso di superare il problema tramite un mero (e tuttavia problematico) riferimento alla disciplina civilistica, si rivela ancor oggi non pienamente esaustiva ogni qual volta riemerge il tema (non necessariamente limitato alla


VII solidarietà) dell’“unitarietà” della situazione di fatto, che evoca nuovamente soluzioni ispirate al litisconsorzio necessario (con tutte le difficoltà operative conseguenti). La successiva monografia sull’impresa e l’imprenditore nel sistema delle imposte sui redditi e dell’IVA (1982) costituisce un contributo decisivo alla ricostruzione sistematica di istituti e discipline delineati, nella legge delega per la riforma tributaria e nei decreti attuativi, tramite un complesso sistema di riferimenti e rinvii alle norme del codice civile e agli istituti del diritto commerciale, ma improntati altresì a esigenze, propriamente fiscali, attinenti la definizione di categorie reddituali e attività economiche, prevenzione di possibili evasioni, elusioni, controllo e accertamento dell’Amministrazione finanziaria. Pur nel rispetto di un’impostazione legislativa sostanzialmente condizionata dalle categorie del diritto commerciale italiano, con particolare riferimento alla distinzione tra produzione e prestazione di servizi, l’assetto complessivo è comunque aperto alle nozioni di fatti ed attività economiche propri del diritto e della giurisprudenza comunitari con particolare riguardo all’esperienza dell’IVA. Tale monografia è stata la base teorica per numerosi altri contributi rivolti alle diverse modalità di esercizio dell’impresa fino a individuare un vero e proprio statuto fiscale dell’impresa, retto da regole e principi in larga parte di provenienza comunitaria, che ha trovato una sintesi compiuta nel manuale “Lezioni di diritto tributario dell’impresa” del 2014, scritto con il prof. Franco Paparella, che è stato oggetto di una revisione integrale, in corso di pubblicazione, negli ultimi due anni precedenti alla Sua scomparsa. Nel corso della Sua carriera accademica, il prof. Fantozzi ha dedicato molteplici contributi all’accertamento e alla riscossione dei tributi, elaborando, nel quadro di indirizzi di ricerca a suo tempo promossi dal prof. Micheli, una teoria unitaria dell’attuazione, cui concorrono, secondo moduli procedimentali, amministrazione e contribuenti; agli adempimenti dichiarativi di questi ultimi si contrappongono, in funzione di controllo e integrazione, attività e atti espressivi di pubblici poteri volti a una progressiva quantificazione e precisazione del tributo dovuto; in parallelo con questo processo di determinazione, con autoliquidazioni e versamenti dei contribuenti, liquidazioni autoritative, accertamenti, eventuali atti e attività di riscossione coattiva, si realizza l’acquisizione agli enti impositori delle somme dovute. Questa visione unitaria – contrapposta ad altre, che articolano diverse funzioni dell’attività amministrativa – consente un più agevole riferimento, in ogni fase dell’attuazione, ai principi costituzionali attinenti non solo l’attività amministrativa in quanto tale, ma anche il concorso, per razionale riparto, dei consociati alle pubbliche spese.


VIII Nel corso della sua intera attività di studio e ricerca, il Prof. Fantozzi, agevolato anche da una sicura conoscenza dei sistemi tributari dei Paesi a noi più vicini (indagati a partire dal volume sull’ordinamento tributario della Repubblica federale tedesca del 1965), ha rivolto un’attenzione costante al diritto tributario comunitario e internazionale. Nei numerosi contributi in tema di doppia imposizione, stabile organizzazione e altri istituti riguardanti i rapporti con l’estero, Egli ha raggiunto soluzioni razionali ed equilibrate apprezzate dalla comunità internazionale, fondate su approfondite elaborazioni dei dati normativi e giurisprudenziali, nell’ottica dell’adeguamento al diritto e alle istituzioni europei e internazionali. La valenza sistematica, gli impianti teorici e la complessità dei contributi scientifici qui solo accennati hanno trovato una sintesi compiuta nelle opere generali riservate agli studi universitari e post universitari; in questo contesto si colloca il volume “Diritto Tributario” (1991, 1998 e 2003), in seguito elaborato e sviluppato dagli allievi nell’ulteriore edizione del 2012, che segue le precedenti esperienze di manualistica risalenti al “Corso di diritto tributario” del 1969 del Suo Maestro (pubblicato con la specificazione della curatela dei proff.ri Fantozzi e Fedele) ma proseguito fino al 1989, e l’edizione minor “Corso di diritto tributario” (2003 e 2004). Non meno prestigiosa e autorevole è stata la Sua intensa attività professionale di avvocato cassazionista e di consulente fiscale. È stato Presidente del Comitato Scientifico Permanente dell’International Fiscal Association (associazione mondiale dei tributaristi accreditata presso le Nazioni Unite, l’OCSE e la CEE), Presidente di Banca Antonveneta, Presidente della SISAL e della SISAL Holding Finanziaria Spa, membro della Consulta dello Stato Città del Vaticano, consigliere di amministrazione di ENEL nonché consigliere di amministrazione e Presidente del collegio sindacale di altre società anche quotate (Lloyd Adriatico, Benetton Group, Citinvest, Ferretti ed altri). La Sua prolungata carriera professionale è stata contraddistinta da numerosi incarichi istituzionali nel corso dei quali ha manifestato un senso dello Stato e una capacità relazionale fuori dal comune. Oltre alle numerose commissioni ministeriali di cui ha fatto parte, tra i principali incarichi si ricordano la Presidenza di Ascotributi, la vice Presidenza del Consiglio Superiore delle Finanze, la presenza nel Comitato Esecutivo e nel Consiglio ABI e il ruolo di Commissario straordinario delle società del Gruppo Alitalia. I risultati raggiunti nel corso della carriera accademica e professionale hanno trovato l’espressione più alta tra il 1995 ed il 2001 quando è stato nominato in più legislature Ministro delle Finanze, del Commercio con l’Estero,


IX del Bilancio e delle Politiche comunitarie nonché Presidente della Commissione Bilancio della Camera dei Deputati. Anche in queste esperienze ha mostrato una caratura internazionale di primo piano, attestata dalla molteplici onorificenze ricevute, a partire da quella di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana e di Cavaliere della Legion d’Onore. Descrivere in poche righe la Sua personalità vivace, poliedrica e pragmatica è difficile, trattandosi di una persona eccezionale nel pensiero e nei modi. Chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo ha apprezzato il Suo pensiero illuminato, il rigore del metodo e l’originalità delle conclusioni ma anche la Sua straordinaria umanità, la disponibilità, la lealtà ed il garbo nel dispensare, con passione e dedizione, consigli preziosi e suggerimenti a chiunque. Lo ricordiamo con affetto e gratitudine nella convinzione che il Suo contributo per la diffusione del pensiero scientifico, i Suoi studi, la Sua personalità e la Sua umanità resteranno indelebili e continueranno ad essere un riferimento sicuro per la comunità scientifica e le generazioni future.



Dottrina

Giustizia tributaria e la sfida della tutela dei diritti fondamentali: la “road map” di un possibile intervento riformatore* Sommario: 1. Premessa: la ricerca della rotta nella riforma della giurisdizione tributaria. – 2. L’efficacia quantitativa della giurisdizione: arretrato e durata, due tendenze positive. – 3. L’efficacia qualitativa della giurisdizione: una misurazione difficile ma non impossibile. – 4. La giurisdizione tributaria è una giurisdizione cardine del sistema dei diritti civili. – 5. Processare meno per processare meglio o processare meglio per processare meno? – 6. Le pericolose manovre sul costo sociale della giustizia: il “pasticciaccio brutto” del contributo unificato. – 7. Il raddoppio del contributo unificato: una sanzione proporzionata ed equa? – 8. Le linee di un intervento riformatore. Il diritto processuale. – 9. La lunga agonia del diritto tributario sostanziale. – 10. New economy, funzione amministrativa e oggetto del processo. – 11. Occorre una cultura speciale della giurisdizione. – 12. Una giurisdizione indipendente. – 13. Il check up della attuale giurisdizione: la specializzazione. – 14. Un test di indipendenza. – 15. Una ipotesi di terapia. La revisione delle Commissioni tributarie e il mantenimento della giurisdizione speciale? – 16. (Segue). La devoluzione a una giurisdizione esistente. In particolare, la giurisdizione ordinaria o quella contabile? La giurisdizione tributaria è una giurisdizione cardine dello Stato di diritto, massimamente nei periodi di difficoltà economica, perché essenziale alla tutela dei diritti fondamentali, sia di chi fruisce dei servizi pubblici, sia di chi è chiamato ai doveri di solidarietà. Allo stato attuale della evoluzione economica e giuridica, la giurisdizione tributaria è e deve essere una giurisdizione di controllo dell’esercizio del potere amministrativo di applicazione dei tributi. Il giudice tributario deve essere indipendente e portatore di una cultura speciale della giurisdizione, che non coincide né è assimilabile né a quella del giurista generalista, né a quella del giudice civile, amministrativo, o del cultore dell’economia

* Il presente testo costituisce la raccolta delle riflessioni predisposte dall’Autore per la “Giornata di Studi. La giustizia tributaria tra riforme ordinamentali e del processo”, organizzata dalla “Associazione Magistrati tributari (A.M.T.)” – Sez, Regionale del Piemonte e Sez. Provinciale di Torino, “Unione Giudizi Tributari (U.G.T.)” – Sez. Regionale Piemonte, “Scuola Superiore della Magistratura (S.S.M.”– Struttura Didattica Territoriale del Distretto della Corte di Appello di Torino, e con il Patrocinio del “Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria (C.P.G.T)”, svoltasi il 7 giugno 2019 a Torino presso il Palazzo di Giustizia “Bruno Caccia”.


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Parte prima

aziendale o della contabilità di Stato. L’attuale assetto della giustizia tributaria ha molti punti di forza, dimostrati dall’analisi delle statistiche, ma necessita di una revisione che ne renda strutturalmente presidiate competenza e indipendenza. E, ancora più fondamentale, sarebbe il diffondersi di una maggiore cultura tributaria specialistica, negli ambienti politici e legislativi, la cui mancanza è oggetto di analisi, insieme cone le sue cause, in questo lavoro. Si tratta di un compito cui è chiamata la dottrina giuridica, finora non del tutto soddisfacente Tax jurisdiction is a key jurisdiction of the rule of law, mostly in the economic crisis era: it is an essential basis for fundamental rights protection. Rights to fundamental pubblic and fundamental rights of those called to solidarity duties are involved and jeopardized at the same time. Tax jurisdiction provides (and has to provide) an independent check on the exercise of the administrative tax power. The fiscal judge has to be independent and bearer of a peculiar “jurisdiction culture”, which neither coincides nor is comparable to that of the generalist jurist, nor to that of the civil or administrative judge, or expert in business economics or state accounting. The current structure of tax justice has many strengths, resulting from the statistic analysis, but needs a revision that reinforces competence and independence. And, even more fundamental, it would be the spread of a carefully specialized tax culture, in political and legislative areas, the lack of which is stressed along with its causes in this paper. This is a task to which legal doctrine is called, and yet to be achieved so far.

1. Premessa: la ricerca della rotta nella riforma della giurisdizione tributaria. – L’obiettivo di queste riflessioni è formulare qualche modesto auspicio sugli interventi che un legislatore virtuoso dovrebbe adottare nella materia della giustizia tributaria. Per quanto il recente passato appaia assai poco incoraggiante, l’assunto è che someday, maybe somewhere, magari in esito a una invasione aliena, un legislatore virtuoso getti un occhio sul settore che ci interessa. Cercheremo, in una prima parte, di analizzare con occhio critico l’esistente e, nella seconda parte, di formulare qualche ipotesi di lavoro. Ancora a livello di premessa, soggiungiamo che intendiamo muovere su due piani coordinati, quello della giurisdizione e quello del processo. Rispondere, cioè, a due domande: come migliorare la giurisdizione tributaria? Come migliorare il processo tributario? Si vedrà, peraltro, che gli interventi più importanti e incisivi appaiono richiesti a livello di giurisdizione: gli interventi necessari sulle regole processuali appaiono, ai nostri occhi di minor conto, e di assai rapida e indolore attuazione. Qualche parola, crediamo, vada spesa per motivare i due presupposti – logici – della rilevanza di quanto andiamo a dire. In effetti, vale la pena di


Dottrina

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occuparsi di tali riflessioni a patto che a) la giustizia tributaria richieda un intervento migliorativo; b) ne valga la pena. Che la giustizia tributaria sia migliorabile è una affermazione talmente condivisa da, apparentemente, non richiedere particolare approfondimento. 2. L’efficacia quantitativa della giurisdizione: arretrato e durata, due tendenze positive. – In realtà, deve formularsi qualche precisazione. Ad esempio, sul piano quantitativo – e non è poco – che tale plesso giurisdizionale sta già accelerando i suoi tempi. I dati, infatti, dicono che il processo tributario di merito (che è esattamente la parte della giurisdizione non ricadente in quella ordinaria e generalista civile) tende ad essere più veloce, specie in CTP (1) e pare orientato a diminuire sia i processi pendenti, in CTP, (2) e a definire più processi di quanti ne pervengono, specie

(1) A livello di media nazionale, il tempo medio del processo di primo grado è sceso di circa 100 giorni tra il 2015 e il 2017, in CTP (attestandosi a 758 giorni). È interessante osservare che il 46% delle CTP italiane definisce il processo entro l’anno, anche se vi sono commissioni (due soltanto, però) in cui il tempo di definizione medio è superiore ai 2000 giorni (e 10 hanno tempi compresi tra 1000 e 2000 giorni).Il tempo di definizione, che è evidentemente correlato con l’arretrato e il numero di processi pendenti, non sembra invece correlato con la dimensione della Commissione Tributaria o l’entità dei ricorsi (Napoli, ad esempio, è una CTP di grandi dimensioni e con un rilevante carico e definisce il processo in soli 219 giorni, ed esistono esempi di segno analogamente variabile per commissioni di piccole dimensioni). Per stabilire quanto e quando tali dati si spieghino come conseguenze di elementi strutturali (dotazioni adeguate o insufficienti degli uffici) o scelte organizzative, sarebbe necessario elaborare i dati, ponderati e diacronici, relativi alla dotazione di giudici e personale amministrativo e metterlo in relazione con i dati sul carico di lavoro. I dati sulle dotazioni di personale amministrativo, a prima vista, dicono che non pochi uffici, anche di grandi dimensioni, riescono a definire un numero di processi pro capite superiore alla media, non ostante un indice di carico di lavoro pro capite (numero di ricorsi pervenuti/personale assegnato) più alto della media: tali uffici si trovano sia al Nord che al Sud (es. Milano e Napoli, tra i grandi, Modena e Agrigento, tra i meno grandi). Fonte: Appendici Statistiche e Guida alla Relazione sul monitoraggio dello stato del contenzioso tributario e sulla attività delle Commissioni tributarie 2017, pubblicate nel giugno 2018, da cui proverranno, salva diversa indicazione, tutti i dati successivamente citati. (2) Nel 2017 la pendenza è diminuita del 17,11% in CTP, mentre è aumentata del 2,67% in CTR, per un evidente effetto di “digestione” dell’arretrato (è interessante osservare che la diminuzione della pendenza in primo grado non si è riversata in un pari ammontare in appello). La pendenza è diminuita in entrambi i gradi nei primi tre trimestri 2018 (fonte, Appendici statistiche al Rapporto trimestrale sul contenzioso tributario n. 27).


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Parte prima

in CTP (3), sia il numero di processi in entrata nel sistema (4). Tale ultimo dato, con particolare riguardo alla significativa – e consolidata negli ultimi 5 anni – diminuzione dei ricorsi in CTP, fermo il resto, pare indicare che, nel medio termine, la tendenza dovrebbe essere a un generale consolidamento del miglioramento degli altri indici. 3. L’efficacia qualitativa della giurisdizione: una misurazione difficile ma non impossibile. – Ovviamente è assai più difficile misurare, dopo l’efficienza quantitativa, quella qualitativa. Sul punto, sono piuttosto diffuse – ma da noi non condivise, se non nel senso sistemico che si dirà - voci critiche, o anche molto critiche. Se si deve cercare un aggancio oggettivo per tali considerazioni, probabilmente l’unico elemento in qualche modo indiziario in tale direzione dovrebbe essere individuato nella propensione alle (e nel risultato delle) impugnazioni. Per vero, il sillogismo per cui la bontà qualitativa di una giurisdizione si misurerebbe guardando al tasso delle impugnazioni merita qualche precisazione. La percentuale di impugnazioni, invero, dipende da fattori anche diversi, e in particolare la propensione, endogena o esogena, alla lite. Qui giocano molti – e assai efficaci – fattori, e non tutti sono indici della qualità. Se in senso negativo incide il relativo costo (le spese della difesa e soprattutto l’importo, sempre crescente e a tratti anche francamente disincentivante, del contributo unificato), esistono almeno due i fattori esogeni fortemente incentivanti. Il primo è il dato, empirico ma decisamente palpabile, di una accentuatissima incertezza sull’esito della lite, indotto dalla qualità della legislazione e favorito dalla notevole compromissione del ruolo nomofilattico della Corte di Cassazione, schiacciata anche da un arretrato cospicuo, che ha talvolta costretto, comprensibilmente, ma con effetti gravissimi, a privilegiare decisioni, per così dire “meno lente” ma “più deboli”, e, quindi, non suscettibili di consolidarsi, per effetto di revirement della stessa giurispru-

(3) Ad esempio, nel periodo 2004-2017, i processi definiti in CTP sono stati 243 mila in più di quelli pervenuti, mentre in CTR il saldo ha visto definire in CTR 31 mila processi in meno di quelli pervenuti (il dato è omologo a quello di cui alla nota precedente). Tutti questi dati, ovviamente, sono a monte degli effetti della c.d. pace fiscale. (4) La diminuzione dei pervenuti è un trend costante in CTP, dal 2012, mentre in CTR si è registrato un aumento nel 2014 e 2015 e una flessione nel 2016 e 2017 e almeno fino al 30 settembre 2018.


Dottrina

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denza (5) o di interventi del legislatore (6). Il secondo profilo spesso trascurato, sta nel ricorrere periodico di strumenti condonistici, che premiano il contribuente litigioso: litigare conviene, indipendentemente dalla prognosi sull’esito, se i suoi costi sono più che assorbiti dallo sconto derivante da una soluzione condonistica. Ciò significa che le impugnazioni possono essere sintomo di una giustizia che non funziona, ma non per colpa (solo, né prioritariamente) del giudice. Fatte queste premesse, non vi è dubbio che l’indice di impugnazione delle sentenze tributarie è piuttosto alto e, soprattutto, appare significativo l’indice di accoglimento (7). Non sembra potersi negare che la giurisprudenza tributaria può – e deve – pertanto migliorare, pur non essendo la sola (né, probabilmente, la principale) causa delle disfunzioni. 4. La giurisdizione tributaria è una giurisdizione cardine del sistema dei diritti civili. – Nessun dubbio, poi, una volta che si è confermato che sussistono margini di miglioramento, sul fatto che ne valga la pena.

(5) È appena il caso di notare, al di là di ogni considerazione di principio, che, se schiacciati dall’arretrato si è costretti a decidere un po’ meno meditatamente, l’effetto – benefico – di più accelerato smaltimento dell’arretrato è più che bilanciato da un effetto – malefico di feedback (le stesse decisioni più veloci – o meno lente – che consentono di eliminare dei fascicoli con soluzioni non dogmaticamente solide producono una incertezza che provoca più ricorsi: lo strumento che dovrebbe diminuire il carico di lavoro, insomma, in realtà, lo alimenta perversamente). Tale stato di fatto genera non poche perplessità se associato alla programmata sempre maggiore valorizzazione del peso del precedente giurisprudenziale. Non vi è dubbio che il vincolo del precedente sia un fattore di prevedibilità della decisione (e, in questo senso, di efficienza), ma non è un caso che tale vincolo operi efficientemente in ordinamenti con un carico processuale relativamente modesto. Ove la dogmatica giurisprudenziale sia debole, aumentare il peso del precedente o crea ingiustizia (irrigidendo giurisprudenze frettolose) o è illusorio (aggiustamenti di giurisprudenze frettolose indeboliscono la regola del vincolo precedente). Se si privilegia la velocità si avrà una cattiva giurisdizione, (che è tutto da dimostrare sia idonea a rendere efficiente la macchina processuale, noi ne dubitiamo), se si privilegia la qualità, allo stato il vincolo del precedente non sembra la soluzione, quantomeno non è la prima mossa da fare. Per come si rigiri il problema, non sembra uscirsi dalla strettoia che costituisce il leit motif di queste riflessioni: il punto nodale è processare bene. (6) Emblematica, in proposito la non bella – sotto il profilo della coerenza scientifica – serie di vicende relative alla portata dell’art. 20 T.U. registro. (7) In appello, sono riformate il 30% delle sentenze favorevoli all’Ufficio, il 38% di quelle favorevoli al contribuente e il 72% di quelle con esito incerto. In Cassazione, il tasso di accoglimento dei ricorsi della Agenzia delle Entrate è del 68,1% e quello dei ricorsi del contribuente il 35,4%.


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La funzione tributaria è una funzione cardinale non solo, né principalmente, sotto il profilo economico e monetario, ma sotto il profilo della civiltà giuridica e della stessa consistenza e sopravvivenza dello Stato di diritto. Non è solo vero oggi, come lo è stato sempre, che il diritto tributario è il primo e fondamentale volto dello Stato in cui ognuno si imbatte (si può vivere senza interagire con il diritto penale, si può vivere senza quasi avvertirsi del diritto amministrativo, ma come diceva B. Franklin, delle due cose certe della vita, una è la morte, l’altra le tasse). È anche, e tragicamente vero in tempi di particolari ristrettezze economiche, che il diritto finanziario è il baricentro dei diritti fondamentali di una collettività statuale. In tempi di contrazione della ricchezza o di aggravamento della disuguaglianza della sua distribuzione, il diritto finanziario è il garante materiale dei diritti fondamentali, e addirittura sotto un duplice profilo. Intanto perché, senza una spesa pubblica (efficiente e giusta) sono a rischio i diritti fondamentali: i servizi essenziali di tutela della dignità umana costano e il tributo (in attesa di individuare uno strumento alternativo) è ciò che li finanzia. E, poi, perché, in tempi di ristrettezze economiche e di prevalenza di logiche burocratico-contabili, è alto il rischio di privilegiare un malinteso concetto di efficienza, intesa patologicamente come gettito a basso costo (a carico delle categorie economiche deboli, in ogni accezione in cui può declinarsi tale debolezza), con lesione di giustizia e proporzionalità. In ogni caso, anche qualora questo non rilevasse, sta il fatto che il valore economico delle liti tributarie è altissimo (8). Se, quindi, ci si vuole incamminare lungo la via della riforma della giurisdizione, ci si può porre una serie di interrogativi operativi. 5. Processare meno per processare meglio o processare meglio per processare meno? – Il primo è se per processare meglio sia opportuno processare meno. Due dati sono inequivoci: a) i processi tributari sono tanti, specie in

(8) Il valore dei ricorsi definiti nelle Ctp nel 2017 è stato di 21 miliardi di euro di quelli pervenuti circa 16 miliardi e mezzo, in Ctr di 9 miliardi e 700 mila il valore delle liti definite, 12 miliardi e mezzo per quelle pervenute. Ancora più significativi i dati sul valore medio delle controversie: 200 mila euro quelle che pervengono in Ctr, 110 mila in Ctp. In Cassazione il pervenuto del solo 2017 vale 5 miliardi (e numericamente è poco meno di un quinto del totale della pendenza).


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Cassazione, (9) e b) meno processi a parità di giudici implicano maggiori spazi di approfondimento e, potenzialmente migliori decisioni. Il dato sull’arretrato va, comunque, valutato con maggiore attenzione: esso, infatti, nei gradi di merito è rimasto più o meno stabile dal 2004 al 2009, è cresciuto dal 2009 al 2011, quando ha incominciato un netto trend di decrescita. (10) Quindi, ammesso che i processi siano tanti, essi stanno fortemente diminuendo e questa è una prima ragione che segnala che, per quanto attiene al giudizio di merito e alla tendenza futura, non è (non sarà più) il numero dei processi il problema principale. Semmai è da segnalare un’altra considerazione, anche questa estratta dai dati: nei gradi di merito diminuiscono i processi, ma diminuiscono anche i giudici (nel 2017, ad esempio, il deficit di giudici in organico era percentualmente non lontano dal calo di processi: molto grossolanamente i processi erano diminuiti del 42% e i giudici mancanti erano il 35%). È del tutto evidente che, ammesso che il carico di lavoro sia un problema, non serve ridurre il numero complessivo di processi se parallelamente si diminuiscono i giudici. Più radicalmente, poi, è da domandarsi se, pacifico che se si processa meno, si può processare meglio, la diminuzione dei processi debba essere lo strumento del miglioramento, o solo un sintomo o un effetto. Intanto, ribadito che un diniego di accesso alla giustizia è sbarrato dai principi costituzionali (art. 113 e indirettamente 24 Cost.), resta da stabilire se esso possa essere reso meno necessario, o più difficile, o più costoso.

(9) I fascicoli pendenti nei primi due gradi di giudizio sono stati nel 2017 417 mila, ridottisi a 399 mila al 30 settembre 2018, prima dell’intervento, che si immagina impattante sui dati, della pace fiscale. In Cassazione, al lordo della pace fiscale, sono oltre 52 mila e rappresentano un astronomico 49% di tutta la pendenza davanti alla Suprema Corte. (Fonte: Cassazione civile Annuario statistico 2017). (10) Dai 721.007 fascicoli del 2011 si è progressivamente scesi ai 399 mila del settembre 2018, una diminuzione che si sta approssimando al 50%. Molto più problematica la situazione in Cassazione, ove la tendenza della pendenza è stata fino al 2017 nel senso dell’aumento. È interessante e da valutare il fatto che, mentre la materia tributaria rappresenta in Cassazione il 49% dell’arretrato, essa rappresenta il 37,5% del pervenuto: la materia tributaria, quindi, pesa di più nell’arretrato che nei processi nuovi (sarebbe da approfondire se ciò dipenda dal fatto che siano diminuiti i processi tributari in arrivo o se essi abbiano dei tempi di definizione più lunghi, o da altri fattori). È evidente che dalla causa del male dipende il suo rimedio, ma appare chiaro che, almeno per il futuro, la soluzione non pare tanto da trovarsi nel flusso delle giurisdizioni di merito, che è in notevolissima diminuzione, ma prima di tutto in interventi a livello di processo di cassazione.


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La prima direzione, con l’inserimento di strumenti precontenziosi efficaci e imparziali (ad esempio una fase conciliativa nanti un soggetto terzo) non pare avrebbe controindicazioni e sembra avere ancora margini di ampliamento (non è certo adeguata allo scopo né la previsione della adesione, né la c.d. mediazione (11), per la evidente mancanza di terzietà). La seconda direzione, la restrizione dell’accesso alla giustizia, oltre un certo limite, può infrangersi con limiti di principio invalicabili (perché può ledere il diritto, costituzionale, unionale e internazionale, alla effettività del diritto a un ricorso effettivo) (12), è già stata battuta (13) e appare per certi versi,

(11) Che un effetto significativo, comunque, lo ha: nel 2016, su 113 mila istanze, solo per 54 mila (il 48,1%) è seguito il ricorso: per buona parte delle altre può ipotizzarsi che vi sia stato un effetto di decongestionamento della fase processuale (non l’intero, perché non è detto che la mediazione non abbia anche incentivato i tentativi di soluzione, solo amministrativa). (12) Ovvero, oltre certi limiti, infrangere il divieto di sottrazione al giudice naturale di cui all’art. 25 Cost. ovvero il principio del giusto processo o le prerogative della Corte di Cassazione, art. 111 Cost. (13) Ad esempio, con la restrizione dei casi di censura in Cassazione del vizio di motivazione ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.c. In proposito potrebbe osservarsi che, più che interventi legislativi (che non possono né correggere errori concettuali né ricreare una dogmatica latitante, di cui è fondamentalmente responsabile la dottrina), occorrerebbe un deciso recupero delle corrette categorie giuridiche. Alcuni errori di inquadramento appaiono, infatti, corresponsabili della metastasi dell’arretrato nanti la Suprema Corte. Uno dei più gravi concerne una non esatta percezione del perimetro del giudizio di diritto. Citiamo due esempi, tra i tanti. Si tratta di casi in cui si riconducono al perimetro della applicazione delle norme attività giurisdizionali che consistono, invece, in giudizi di fatto. Così, a proposito dell’abuso del diritto, a lungo se ne è ritenuta la rilevabilità, anche in Cassazione e anche d’ufficio, asserendo che si sarebbe trattato di qualificazione giuridica, dimenticando che i fatti costitutivi dell’abuso (operazione vera ma contraria al sistema) di norma non coincidono, anzi sono incompatibili, con i fatti costitutivi della evasione (tipicamente, operazione non vera, quando si tratta di costi): si tratta di questioni di fatto (sono diversi i fatti!), prima che di diritto (a quei diversi fatti si applicano altre norme). Il secondo esempio, addirittura endemico, concerne l’inesatto inquadramento della regola dell’onere della prova. Onere della prova è la regola da applicarsi per stabilire chi vince in caso di mancata prova. Profilo completamente diverso è se sia stata raggiunta la prova, se i mezzi utilizzati siano sufficienti, se siano stati adeguatamente valutati, ecc. Questo secondo profilo è un giudizio di fatto e la Suprema Corte dovrebbe ricusarne l’esame. Si assiste invece, sempre più frequentemente alla surrettizia ammissione di tale giudizio in Cassazione, attraverso il passepartout della affermazione della esistenza di oneri di prova contraria. Motivi nei quali viene censurata, spessissimo dalla Avvocatura dello Stato, la valutazione della prova (profilo inammissibile in toto in Cassazione) ovvero la motivazione sulla prova (la cui ammissibilità andrebbe valutata negli stretti limiti di cui all’art. 360 n. 5), vengono trasformati in motivi, di diritto, sulla violazione delle regole sulla distribuzione dell’onere della prova primario e secondario (onere della prova contraria).


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eufemisiticamente, contraddittoria: a incentivare la litigiosità concorrono, in un circolo vizioso, per primi una legislazione sostanziale di pessima qualità e di nessuna stabilità e la mala prassi dei condoni periodici, che determinano una giurisprudenza incerta e, a cascata, un incentivo… alla lite. A fronte di ciò, colui che provoca il danno pretenderebbe di limitarlo… razionando l’accesso ai rimedi. Si tratta di una assurdità pari a quella della Amministrazione Comunale che, mal gestendo gli acquedotti, provocasse ricorrenti inondazioni e, a fronte dell’onere ritenuto eccessivo delle spese di recupero dei superstiti, ricorresse allo strampalato – per non dire poco civile – “rimedio” di limitare gli accessi al soccorso.

Ma si tratta di cose diverse. Una cosa è dire: in questa causa il giudice ha detto una cosa sensata affermando che l’ufficio ha provato l’evasione attraverso quella prova. Cosa completamente diversa è dire: se l’ufficio, in qualsiasi causa, porta quel tipo di prova (o, addirittura, afferma certi fatti), è il contribuente a dover dimostrare il contrario, se no il giudice è vincolato (da una norma che non esiste!). Così si trasforma un giudizio di fatto sulla singola controversia (il giudice e l’ufficio in questo caso hanno fatto bene) in una inesistente regola di diritto (d’ora in poi tutti i giudici dovranno fare così). Un caso plastico in questo senso lo si è visto a proposito della c.d. presunzione di ripartizione degli utili occulti della società a ristretta base. Il ragionamento probatorio secondo cui talvolta, o anche spesso, è irrilevante, dalla natura ristretta della società si possa desumere la ripartizione dell’utile occulto è stato – non correttamente e per effetto di linguaggio non sorvegliato – trasformato in una inesistente regola giuridica: data la base ristretta, l’utile è distribuito se il contribuente non dimostra il contrario. Ma una cosa è un ragionamento probatorio, un’altra una regola di diritto sull’onere dalla prova. Sarebbe lo stesso che, mostruosamente, affermare che se Tizio è stato condannato per omicidio di Caia perché le sue impronte erano sulla scena del delitto, tutti coloro le cui impronte sono sulla scena di tutti i delitti sono colpevoli, se non provano di essere innocenti, perché esiste una (inesistente!) regola di diritto che stabilisce l’onere della prova a carico dell’imputato/contribuente. Ciò è errato, perché se l’evasione viene provata dal Fisco non è che il contribuente deve provarne l’inesistenza (la mancanza di prova contraria è un di più: si ipotizzi una sentenza che affermi che, se Tizio ha lasciato le sue impronte sul collo della morta e aveva motivo per ucciderla, è colpevole, non risultando nessun altro elemento contrario. In questo caso, si condanna per omicidio perché ci sono movente e impronte, non perché manca …l’alibi). Ciò è errato e pericoloso, perché trasformare delle sentenze della Cassazione che, semplicemente, ritengono le sentenze impugnate adeguatamente fondate (o motivate) sulla prova, in sentenze sulla assenza della prova contraria richiesta da una (inesistente) legge rischia, ponendo troppa enfasi sulla inesistenza della prova contraria, di rovesciare la regola legale (fino all’approdo secondo cui sussiste l’evasione affermata se non se ne prova la insussistenza). Ciò, infine, moltiplica l’arretrato in Cassazione: perché, attraverso il grimaldello della violazione della regola (inesistente) sull’onere di prova contraria, fanno ingresso nel giudizio di legittimità motivi di fatto, che sarebbero inammissibili. E, in questo senso, risulta confermato che, non di rado, si processa tanto perché si processa male, e non viceversa. E che la causa della crisi è la cattiva salute della dogmatica giuridica, la cui responsabilità poggia sulle spalle della dottrina, più che di giudici o legislatori.


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6. Le pericolose manovre sul costo sociale della giustizia: il “pasticciaccio brutto” del contributo unificato. – La terza direzione (aumentare il costo della giustizia) ha, ugualmente, potenziali controindicazioni, oltre un certo limite perché può infrangersi contro le stesse obiezioni appena viste (lesione del diritto a un ricorso effettivo, giusto, processo, ecc.) e, ugualmente, è già stata battuta piuttosto intensamente, in particolare dalle regole sul contributo unificato. È appena il caso di rilevare che il ricorso abusivo al processo, e in particolare, al processo di cassazione è, oltre che dalla generalizzata condanna alle spese, ulteriormente scoraggiato da due ulteriori fattori. Il primo è il costo, tutt’altro che trascurabile, dell’accesso alla giustizia, in base alle ultime riforme (si pensi al valore del contributo unificato e alla regola del suo raddoppio in caso di rigetto totale del ricorso, ritenuti applicabili al processo tributario di legittimità) e il secondo è il fatto che tale accesso, a differenza di quanto accade in altri settori, ad esempio quello penale, non sempre si presta a finalità dilatorie, atteso che la sua presentazione non comporta effetti di automatica sospensione della esecuzione dei crediti tributari. In proposito, e in particolare quanto alla disciplina del contributo unificato, può svolgersi anche qualche considerazione critica. Intanto, quanto all’istituto della prenotazione a debito, per come inteso nella prevalente giurisprudenza, che assume che le Amministrazioni dello Stato sono esenti perché non avrebbe senso che lo Stato paghi, se stesso e, quindi, l’obbligazione non sorgerebbe. Questo ragionamento, apparentemente ineccepibile, presta il fianco a una critica, atteso che pare sovrapporre la logica contabile a quella giuridica. È vero che lo Stato pagherebbe sé stesso, ma ciò non significa affatto che non sussista, a rigore, il fondamento per il pagamento del contributo. La prenotazione a debito, così concepita, è un istituto potenzialmente distorsivo, sia alla luce della logica strutturale che lo sostiene, sia in vista della sua destinazione funzionale, sia alla luce dei principi costituzionali che regolano la Pubblica Amministrazione. La prenotazione a debito così concepita è distorsiva sotto il primo profilo, strutturale (il contributo è una tassa): se con il contributo paghi per il servizio, c’è chi consuma servizi senza pagare e chi deve pagare per avere il servizio: a identico presupposto non corrisponde uguale trattamento tributario. La prenotazione a debito è distorsiva sotto il secondo profilo, funzionale (il contributo serve ad accedere al processo), per la disparità di trattamento: per una delle parti del processo tributario la giustizia è sempre a pagamento (salvo rimborso successivo, nel caso di ragione), per l’altra parte del giudizio il processo è


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sempre gratis. E se ciò potrebbe ancora ammettersi in primo grado, visto che è il contribuente a impugnare, ciò non si giustifica in appello e in cassazione. Appare a rischio la parità delle parti nel processo, la effettività del diritto di azione, di difesa, la ragionevolezza e uguaglianza del suo accesso. La prenotazione a debito è, poi, distorsiva, sotto il terzo profilo, quello della efficienza amministrativa (profilo che è sfuggito alla giurisprudenza eurounitaria che si è occupata del tema solo in termini di effettività della tutela giudiziaria, CGUE 30 giugno 2016, in causa C‑205/15): se la parte pubblica non paga per consumare il servizio, può consumarne all’infinito, in modo anche inefficiente, senza che il relativo costo emerga in alcun modo. Esiste una differenza tra non pagare perché non si consuma, e non pagare ciò che si consuma, non importa quanto si consuma: una risorsa distribuita gratuitamente corre il rischio di essere sprecata. Non convince allora del tutto affermare che non ha senso che lo Stato paghi se stesso: non si tratta di un unico soggetto, ma di amministrazioni autonome, come decisioni di spesa. Ad esempio, l’Agenzia delle entrate consuma risorse della giustizia (in cassazione, metà dei ricorsi sono, doverosamente, introdotti dall’Avvocatura dello Stato) e pare distorsivo assumere che, quanto al contributo, una delle parti si identifichi con la giustizia e pertanto non debba pagare, perché entrambe sono Stato: in effetti è vero il contrario una è una parte processuale, l’altra il giudice. D’altro canto, perché anche le parti pubbliche consumano le risorse e di tale consumo ci deve essere traccia e correlata eventuale responsabilità (anche in ordine al raggiungimento degli obiettivi economici: consumare giustizia è un costo delle azioni della P.A. che non può essere nascosto). 7. Il raddoppio del contributo unificato: una sanzione proporzionata ed equa? – L’altro caposaldo della disciplina del contributo che genera qualche perplessità concerne la norma che prevede che il contributo raddoppia se l’impugnazione è totalmente respinta o dichiarata inammissibile (art. 13 comma 1 quater TU spese giustizia). Qualche perplessità genera, intanto, il fatto che chi ha torto debba pagare di più. Lo stumento, pur ispirato ai più lodevoli fini, sembra, in effetti, eccedere lo scopo. Una ratio senza dubbio proporzionata è che va punito chi abusa della giustizia. Ma non è affatto detto, specie nel diritto tributario odierno, come si vedrà oltre nel testo, che abusi della giustizia o ne consumi di più chi, semplicemente, ha torto: chi, semplicemente, avanza una sola domanda che si rivela infondata, non è detto che sia stato temerario, e, di sicuro, non ha consumato più servizio giustizia di chi ha presentato 39 motivi di fantasia e uno fondato. Il secondo paga il contributo singolo (perché


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non tutta la domanda è infondata) e il primo lo paga doppio, ma il secondo ha sicuramente abusato del servizio giustizia e il primo no. Tali perplessità sembrano aggravarsi se si considera che il raddoppio non è previsto a carico della parte pubblica: essa non sostiene mai il costo del servizio, sia che ne usi, sia che, non importa in quanti pochi casi, ne abusi, la parte privata paga sempre, e a volte il doppio, anche se non ne abusa. È appena il caso di notare, sul piano quantitativo, che, in Cassazione, le decisioni di rigetto o inammissibilità a carico degli enti impositori rappresentano il 41,55% delle decisioni di rigetto o inammissibilità: (14) il differenziale con il contribuente (il residuo 58,45%) è apprezzabile ma non particolarmente pronunciato (16,90%) e delle due l’una: o anche la parte pubblica abusa del processo (ed è responsabile del 41,5% di tale abuso) e non ne patisce le conseguenze o, se non ne abusa, non ne abusa manco la parte privata (quanto meno, non ne abusa fino alla soglia del 41,55%). Sia come sia, la regola del raddoppio appare allora di problematica giustificazione. Ma c’è di più. Ammesso che si processi troppo, il fatto che il problema non stia nelle regole di accesso al processo è reso evidente da un dato già valorizzato sopra: il tasso di accoglimento dei ricorsi, in tutti i gradi, è decisamente alto: il problema non è pertanto, che è troppo facile fare ricorsi pretestuosi (che quindi vanno scoraggiati), ma, al contrario, che c’è troppo bisogno, oggettivo, di fare ricorso. (15) Pensare di limitare l’accesso al rimedio è come risolvere il problema della salute pubblica, rilevato il sovraffollamento di malati negli ospedali, limitando l’accesso alle cure. Bisogna curare le malattie, non limitare le cure: quando il saggio indica la luna, non guardare il dito, ma il satellite. 8. Le linee di un intervento riformatore. Il diritto processuale. – Le cause possibili, dei fenomeni disfunzionali descritti nella prima parte, sembrano doversi cercare, nell’ambito delle cause giuridiche, in una delle tre seguenti direzioni: il diritto processuale, il diritto sostanziale, e l’ordinamento giudiziario. Per quanto le regole di svolgimento del processo possano indubbiamente incidere sulla qualità del suo esito, non sembrano essere individuabili fattori

(14) Tra i rigetti, quelli degli enti impositori sono 1208 su un totale di 2984, le inammissibilità 356 su un totale di 780, dati 2017. (15) Per limitarsi alla Corte di Cassazione e ai dati 2017, il 53% dei ricorsi viene accolto, per cui suona addirittura paradossale, purtroppo, la tesi secondo cui il problema sarebbe nell’eccessiva facilità di accesso al giudice: la causa è altrove.


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patologici al riguardo nella giustizia tributaria: il processo tributario è il giudizio sulla legittimità e fondatezza di una pretesa veicolata in un atto autoritativo, che si svolge essenzialmente su fonti scritte: i temi processuali sono, per definizione, secondari, in un tale contesto, anche se certamente esistono profili emendabili. Ne costituisce indiretta conferma, meramente indiziaria ma significativa, il fatto che le ipotesi di riforma che vengono avanzate per il rito tributario sono, tendenzialmente, nell’ottica della deformalizzazione ulteriore o semplificazione (abolizione dell’appello e sostituzione con un reclamo, riduzione delle ipotesi di collegialità, e simili). Ma la deformalizzazione o la riduzione di collegialità non sembrano, per vero, rafforzare la qualità del contenuto della decisione (evidentemente, sono interventi neutrali o, al limite, rischiano di ridurla), con la logica conseguenza che l’assunto di fondo è che la qualità delle decisioni non dipenda dal rito processuale. Sono ipotizzabili degli interventi, ma di poca complessità e facile attuazione (16).

(16) Per favorire la celerità concentrazione e speditezza del processo tributario, per esempio, si potrebbero apportare al Decreto legislativo 31/12/1992 n. 546 le seguenti, semplici, modifiche: a) All’Art. 7 Poteri delle commissioni tributarie, sostituire il comma 1 come segue 1 Oggetto del processo tributario è, nei giudizi di impugnazione di atti impositivi, la pretesa per come delineata, anche quanto ai fatti costitutivi e alle relative prove, nell’atto impugnato e nei limiti dei motivi di impugnazione, senza possibilità di modifica o integrazione successiva in giudizio. Le commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ ente locale da ciascuna legge d’imposta soltanto nel caso e nei limiti in cui le parti non abbiano potuto assolvere per ragioni oggettive e cogenti ai propri oneri probatori. b) all’art. 23 Costituzione in giudizio della parte resistente sostituire il comma 1 come segue L’ente impositore, l’agente della riscossione ed i soggetti iscritti all’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 nei cui confronti è stato proposto il ricorso si costituiscono in giudizio, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dal giorno in cui il ricorso è stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale sostituire il comma 3 come segue 3. Nelle controdeduzioni la parte resistente espone le sue difese prendendo posizione sui motivi dedotti dal ricorrente in ossequio al principio di contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., proponendo altresì, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ ufficio e instando, se del caso, per la chiamata di terzi in causa . c) all’art. Art. 24 Produzione di documenti e motivi aggiunti sostituire il comma 2 come segue 2. L’integrazione dei motivi di ricorso, resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione, nei limiti di cui al comma 1


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Restano le altre due ipotesi di lavoro. 9. La lunga agonia del diritto tributario sostanziale. – Non vi è, invero, alcun dubbio circa il fatto che la qualità tecnica del diritto finanziario sia gravemente deficitaria e che questa sia la causa prima e fondamentale del problema, anzi di un problema che nella sede processuale mostra solo la piccola punta di un iceberg assai più grande (che è la inadeguatezza di non pochi profili del sistema tributario italiano rispetto alle sfide della attualità, che comporta una nuova idea di economia ma una sempre uguale esigenza di giustizia). Ciò dipende da molti fattori, uno dei meno trascurabili dei quali è la decisa prevalenza di un ragionare e progettare regole sulla spinta emergenziale, vera o presunta, della sola contingenza economica. Un doppio errore, sia perché implica una costante rinuncia al ragionamento di sistema, sia perché comporta l’altrettanto costante appiattimento del diritto sulla contingenza economica, invece che la necessaria dialettica. Non è difficile ipotizzare che non pochi dei difetti degli odierni assetti economici (e probabilmente anche la stessa crisi economica, che è certamente collegata a modelli econometrici risultati errati), prima ancora che della pessima qualità del diritto tributario odierno, derivino dall’eclisse della cultura giuridica finanziaria. L’incertezza (di tutti gli utenti del diritto tributario, cioè di tutti, visto che tutti pagano tasse e consumano pubblici servizi) è poi moltiplicata dalla circostanza che un dato normativo, soggetto a continuo mutamento e di pessima qualità quale quello descritto, finisce per concentrare le risorse degli operatori (contribuenti, funzionari, giudici) su questioni esegetiche e formali, sempre nuove, e sempre opinabili e per distogliere l’attenzione dalla giusta e preminente attenzione sui temi di fatto (investigativi e istruttori). Ne risulta un diritto tributario applicato capzioso, formale, labirintico, con un netto prevalere

dell’art. 7, è ammessa entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data in cui l’interessato ha notizia di tale deposito. d) all’Art. 34 Discussione in pubblica udienza sostituire il comma 1 come segue 1. All’udienza pubblica il relatore espone al collegio i fatti e le questioni della controversia e quindi il presidente ammette le parti presenti alla discussione. Il difensore della parte privata ha il diritto di parlare per ultimo, nei giudizi relativi ad atti in cui siano applicate sanzioni e) all’Art. 58 Nuove prove in appello Il comma 2 è abrogato


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di contestazioni meramente interpretative e correlata debolezza e incertezza dei profili probatori. Provvedimenti che applicano norme mutevoli ed oscure, che assorbono risorse rispetto all’istruttoria sono intrinsecamente tali da incentivare il contenzioso, sia perché aventi ad oggetto questioni per definizione opinabili, sia perché spesso deboli sul piano fattuale. Un diritto con queste caratteristiche è un diritto incerto che, patologicamente, rinvia alla fase processuale la ricerca di un– impossibile – punto di stabilità. La prima patologia si registra già nell’accesso alla giustizia: nella fisiologia l’attuazione del tributo dovrebbe esaurirsi nella fase dell’adempimento spontaneo o amministrativa. Degli atti emessi dalle Agenzie fiscali, invece, 1 su 11 circa viene impugnato davanti al giudice (17). 10. New economy, funzione amministrativa e oggetto del processo. – Per restare nel campo di interesse della presente riflessione, che non concerne temi di diritto sostanziale ed è limitato alla giustizia tributaria di merito, possiamo ora interrogarci quale giudice occorra per far fronte a tale realtà. In proposito, non si può sottacere che, nell’ultimo secolo, approssimativamente, si è verificata una evoluzione epocale: essa ha riguardato la realtà economica, prima, e, al seguito, la funzione amministrativa tributaria. A tale evoluzione tiene dietro, la funzione giuridizionale. Schematizzando, per ragioni di sintesi, in economia si è partiti dalla struttura economica tradizionale, incentrata, per larga parte, sulla ricchezza fondiaria e attività individuali o comunque poco organizzate sul piano amministrativo (la coltivazione dei terreni, le attività artigiane, le attività commerciali a struttura semplice e le prime realtà industriali). Rispetto ad esse, l’applicazione del tributo avveniva essenzialmente nella

(17) Secondo i dati della Agenzia delle Entrate (relativi peraltro al 2015, e fino a quel momento costanti) venivano impugnati 65.644 provvedimenti su 666.582, pari a un indice di impugnazione dell’8.96%. A ciò, si aggiunga, come indizio di incertezza, il fatto che, prima del giudizio, sono oggetto di istanza di mediazione 115 mila provvedimenti, di cui 61.135 definiti in mediazione (una significativa percentuale delle quali, è da ritenere, con rettifica almeno parziale del provvedimento). Fonte, Agenzia delle Entrate, Esiti del contenzioso tributario: la lettura dei dati relativi al 2015. Si può, pertanto, affermare che si potrebbe anche amministrare meglio, prima ancora che giudicare meglio (e meno). Anche qua, la causa sembra essere la cattiva salute della dogmatica giuridica e la sua scarsa penetrazione nella Pubblica Amministrazione, verosimilmente per difetto più (o almeno altrettanto) della dottrina (che dovrebbe fornire adeguata formazione) che della Amministrazione (che dovrebbe riceverla, metabolizzarla e applicarla).


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forma di una stima esteriore. I tributi non venivano autoliquidati, ma determinati dall’ente impositore, stimando la ricchezza prodotta. Il progresso tecnonologico ha stravolto la struttura della economia, creandosi strutture complesse (industrie, grande distribuzione), relazioni complesse (datori di lavoro con migliaia di salariati e fornitori) e consolidando anche le strutture organizzative interne (uffici amministrativi e contabili) delle realtà produttive (che sono forme di tracciamento interno della ricchezza), affiancando ad esse anche innovazioni tecnologiche idonee a tracciare la ricchezza (basti pensare ai dati dei conti correnti bancari). Diviene possibile quantomeno ipotizzare non più di stimare la ricchezza, ma fotografarla con esattezza: è possibile farlo per il lavoratore dipendente o autonomo che subisca la ritenuta d’acconto, per la struttura molto organizzata che è costretta a tenere una contabilità, ecc. Diviene possibile passare da una funzione amministrativa di stima a una funzione amministrativa di controllo (della ricchezza contabilizzata e dichiarata direttamente dal contribuente). Da una funzione amministrativa il cui compito precipuo è valutare si passa a una funzione amministrativa il cui compito precipuo è controllare. Nasce una Agenzia delle Entrate come, doveroso, organo di indagine, cui via via sono, opportunamente, attribuiti sempre maggiori poteri. Attualmente, la funzione di accertamento riassume in sé, nella fase preparatoria, molte caratteristiche della funzione di un Pubblico Ministero, privo in pratica, soltanto del potere di fare richieste limitative della libertà personale o di captazione di comunicazioni riservate. A tale evoluzione corrisponde, anche se non sempre avvertita, la evoluzione della figura del giudice. Nell’era delle stime, le Commissioni tributarie erano organi amministrativi, cui ci si rivolgeva per rivedere o completare l’operazione di valutazione. L’intervento del giudice, ordinario, era solo a valle e diverso: al giudice erano precluse proprio le questioni di semplice estimazione. Ma nella transizione al nuovo sistema, con il trasformarsi della funzione amministrativa in un potere di controllo, emanazione di provvedimenti amministrativi (dal 2011 anche direttamente esecutivi), la giurisdizione ha dovuto effettuare, quale pianeta gemello, un movimento di rivoluzione esattamente simmetrico. Tralasciando i passaggi intermedi, è divenuto patrimonio comune della giurisprudenza della Suprema Corte la massima secondo cui la funzione della giurisdizione tributaria è il controllo sul corretto esercizio del potere tributa-


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rio. L’attuazione dell’art. 53 della Costituzione e dei doveri di solidarietà è affidato, in prima battuta alla Pubblica Amministrazione, con la attribuzione di rilevanti poteri, istruttori e provvedimentali e la giurisdizione tributaria è una sovrana giurisdizione di controllo sull’esercizio di tali poteri. In essa si valuta sia la legittimità che il merito, sia la conformità della serie procedimentale e provvedimentale alla legge, sia la fondatezza della pretesa, ma alla luce dell’esercizio amministrativo del potere. Così, insegna la Suprema Corte: l’oggetto del processo è l’accertamento della legittimità della pretesa in quanto avanzata con l’atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in tale atto indicati (18): sia nelle impugnazioni degli avvisi di accertamento che dei dinieghi di rimborso la posizione della Amministrazione è quella, non modificabile né integrabile (se non attraverso il ritiro dell’atto e la sua sostituzione in autotutela), espressa nel provvedimento impugnato (19). Il giudice tributario è il garante e guardiano del corretto esercizio della funzione tributaria. È appena il caso di notare che tale assetto, oltre che determinato da (e coerente con) l’evoluzione dell’ordinamento, ha anche un valore prezioso in termini sistematici. Solo una giurisdizione di controllo è in grado di assicurare un corretto e adeguato esercizio della funzione amministrativa: ove il giudice tributario regredisse alla antica funzione delle Commissioni tributarie (completare la determinazione del tributo) non solo mortificherebbe l’evoluzione storica, non solo regredirebbe alla antica funzione amministrativa, di evidente dubbia compatibilità con l’assetto giurisdizionale del giusto processo (che richiede un giudice indipendente e imparziale e non un giudice che completi la funzione amministrativa di una delle parti in giudizio), ma abdicherebbe anche al ruolo di guardiano della Amministrazione, con evidente lesione, indiretta, del principio di imparzialità e buon andamento. Se un provvedimento amministrativo tributario illegittimo o infondato potesse essere salvato perché integrato in giudizio, la funzione amministrativa potrebbe continuare a essere esercitata in forma patologica, grazie al paracadute giudiziario: un siffatto giudice sarebbe inadeguato all’evoluzione del sistema giuridico, inadeguato rispetto al modello del giusto processo e inadeguato alla sua funzione di propulsione verso una sana ed efficiente amministrazione.

(18) Ex plurimis, Cass. 23.9.2011 n. 19533. (19) Ex plurimis, Cass., 3.2.2016, n. 2066.


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11. Occorre una cultura speciale della giurisdizione. – Definito l’oggetto del processo, resta da definire la materia giuridica, resta cioè da individuare quale sia lo strumentario giuridico che il giudice tributario deve maneggiare. Al riguardo va detto che, al netto di tutte le incertezze dottrinarie e teoriche, è pacifico che il giudizio tributario ha ad oggetto una obbligazione accertata in esito a un complesso esercizio di poteri autoritativi, inquadrati in una articolata serie procedimentale. La materia non coincide e non è neppure assimilabile sostanzialmente, allora e innanzitutto, né alla materia civilistica, né a quella amministrativistica, né alla contabilità di Stato. Da un lato, non si tratta di relazione tra soggetti in posizione paritaria (ma vi è un creditore procedente in via amministrativa) e la logica che preesiste e regola l’obbligazione non è quella negoziale e sinallagmatica, ma quella della misurazione della ricchezza, nelle sue svariate forme. Orientarsi nella obbligazione tributaria richiede un articolato complesso di conoscenze che sono completamente estranee alla formazione sia del giurista generalista, sia del civilista, sia dell’amministrativista, sia del cultore della contabilità di Stato, come del resto è reso evidente dalla provvidenziale estensione della facoltà di difendere agli esperti in materie contabili e aziendali. Definire e misurare e gestire l’obbligazione tributaria implica conoscere i fondamenti della economia aziendale, orientarsi con sicurezza nei temi correlati alle tecniche contabili e valutazioni di bilancio, e cogliere una dogmatica estranea alle altre materie (è necessaria la sicura percezione di simmetrie concettuali che non vi sono in nessun altro campo, si pensi alla sempre fraintesa simmetria costi-ricavi, al principio della continuità dei valori, la neutralità delle operazioni societarie e via enumerando). Né, venendo al confronto con la materia amministrativistica e volgendosi agli aspetti autoritativi della materia, essa coincide o è assimilabile al diritto amministrativo generale: non si tratta della determinazione discrezionale degli strumenti di raggiungimento degli interessi pubblici, come nel diritto amministrativo generale. La misurazione della ricchezza richiede competenze specialistiche raffinate, sia nei territori della economia aziendale e affini e, sul piano procedimentale, i poteri e l’istruttoria presentano delle assolute peculiarità, proprie di un procedimento volto all’accertamento, sempre indiziario, di un oggetto economico, preesistente e oggetto di un sapere specialistico. La prima indicazione che ne scaturisce è che per la decisione delle controversie tributarie occorre, allora, una cultura speciale della giurisdizione, che non si esaurisce, a ben vedere, nella cultura giuridica generalista, propria


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della giurisdizione ordinaria, e nemmeno si può esaurire nel completo e specialistico dominio delle materie amministrative (o della contabilità di Stato), ma non coincide neppure con il solo dominio delle discipline economiche e aziendalistiche, atteso che richiede il sicuro dominio dei temi procedimentali e processuali applicati a materie commerciali e all’impresa e ricchezza priva: il giudice tributario già è, nei fatti, un tribunale amministrativo dei tributi, chiamato a verificare il corretto esercizio dei poteri della P.A. deputata a controllare il corretto adempimento dei doveri di solidarietà fiscale. Testimonianza indiretta e storica di tale fondamentale assetto della giurisdizione tributaria, oltre agli approdi più recenti e avvertiti della giurisprudenza in ordine all’oggetto del processo tributario, è la partecipazione ad essi, finora, di “cittadini estranei alla magistratura” (i c.d. componenti laici), la cui presenza a integrare gli organi si raccorda con l’art. 102, comma 2 Costituzione. La presenza di esperti nelle materie aziendalistiche ed economiche negli organi della giurisdizione tributaria è quindi, storicamente e costituzionalmente, null’altro che il riconoscimento della preziosa, indefettibile e speciale cultura della giurisdizione richiesta all’organo giudiziario chiamato a decidere liti dal contenuto specialistico elevato e uno dei modi per cercare di attuare tale speciale cultura. 12. Una giurisdizione indipendente. – Decisamente più semplice, perché sostanzialmente intuitivo ma, come si vedrà oltre, tutt’altro che banale, è il secondo requisito, pienamente ordinamentale. Prima ancora che in forza dell’art. 111 Cost., in ossequio alla consustanzialità della nozione di giudice, il giudice tributario deve essere terzo e imparziale. Poiché esso è il giudice chiamato a controllare il corretto esercizio, da parte della Autorità, dei poteri di controllo sull’adempimento degli obblighi di solidarietà dei contribuenti, egli deve essere pienamente indipendente dalle due parti. Ne consegue, in particolare, che la giurisdizione tributaria deve essere, oltre che specializzata (nel senso di affidata a giudici sicuri portatori delle cultura speciale della giurisdizione sopra descritta) anche pienamente indipendente. 13. Il check up della attuale giurisdizione: la specializzazione. – Dalle premesse poste sopra emerge che tale specializzazione rileva nel senso di competenza tecnica, e cioè culturale: ciò che occorre è – banalmente - che il giudice conosca con sicurezza la materia su cui è chiamato ad operare. Poiché tale materia non coincide con la preparazione generale del giurista, né con la speciale preparazione civilistica, o amministrativa (e neanche con quella aziendalistica o della contabilità di Stato), occorre un sapere specialistico.


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Soddisfa tale standard l’attuale assetto della giurisdizione tributaria? Se l’analisi potesse – o dovesse – limitarsi al dato esteriore e ordinamentale la risposta sarebbe positiva. Attualmente il giudice tributario è, infatti, un giudice speciale, nelle fasi di merito. Passando dall’astratto al concreto (cioè, dalla specialità del giudice alla sua necessaria cultura specialitica), due profili debbono essere scrutinati: se l’accesso a tale giurisdizione e le verifiche di professionalità durante lo svolgimento della attività siano idonee a garantire tale speciale competenza. L’originario disegno del legislatore puntava, probabilmente, a garantire la specializzazione avendo in mente un modello di collegio misto, ove a un presidente di solida formazione giuridica generalista si affiancassero professionalità diverse e più specificamente attinenti alla materia. Una sorta di pregevole melting pot giuridico-professionale, non privo di saggezza, confermato dalla del tutto opportuna (e sicuramente da mantenere) estensione della legittimazione a difendere alle categorie degli esperti nelle materie contabili e aziendali. Tale modello, però, alla prova pratica, rischia di aver colto solo molto parzialmente l’obiettivo. Intanto, per la assenza di regole cogenti sulla composizione dei collegi, che sarebbero del tutto opportune, ma sarebbero praticamente inattuabili in un contesto di contrazione delle risorse personali (i c.d. laici sono ormai una ridotta minoranza). Il modello è, inoltre, messo in gravissima crisi, frankly speaking, dalla ormai diffusa crisi del modello del giudice collegiale e dal fatto, ancora più rilevante, ma spesso pietosamente sottaciuto, che, per necessità indotta e cogente causata dalla pressione dell’arretrato, anche laddove resiste il modello del giudice collegiale, si è notevolmente, non ostante l’eroica laboriosità del corpo giudicante, impoverita, fino, in qualche caso, a divenire labilissima, per causa di forza maggiore, la dialettica della camera di consiglio. In un tale contesto, se la cultura speciale della giurisdizione poteva nascere dalla contaminazione dei diversi saperi in camera di consiglio, può ritenersi che il modello mostra evidenti elementi di debolezza. Essi paiono aggravarsi ulteriormente ove ci si sposti al profilo dell’aggiornamento professionale. Pur essendo indubbio che la pratica professionale costituisce una buona fonte di (auto)formazione, qualche ragione di perplessità resta. In un contesto nel quale l’attività giurisdizionale è talmente mal retribuita da assumere le caratteristiche sostanziali di una attività quasi volontaria (per la quale le molte isole di eccellenza professionale di quella giurisdizione meritano il massimo plauso, trattandosi di attività di alta qualità svolta, essenzialmente, per sola passione e spirito di servizio), è difficilmente esigibile, in pratica, una formazione professionale obbligatoria.


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Ne consegue che il test di specializzazione dà un risultato in chiaroscuro e sommamente diseguale, certamente bisognoso di emenda. 14. Un test di indipendenza. – Risultati nettamente insoddisfacenti dà, invece, il test di indipendenza, con particolare riguardo al profilo della apparenza di indipendenza (20). Qui sono molteplici i profili di tensione con i principi. La lesione del principio del giusto processo, e in particolare del canone di apparente indipendenza e terzietà del giudice tributario, sembra infatti evidenziabile sotto i seguenti aspetti: a) la mancanza d’indipendenza almeno apparente della magistratura tributaria rispetto al potere esecutivo quanto all’inquadramento ordinamentale dei giudici, inquadrati nel Ministero delle Finanze; b) l’assenza di gerarchia (almeno) funzionale dei magistrati tributari rispetto al personale ausiliario, ossia l’indisponibilità effettiva da parte dei giudici del personale amministrativo e il deficit di indipendenza di esso; c) l’assenza (di almeno un nucleo) di autonomia contabile della magistratura tributaria, ossia l’assenza di autonoma gestione dei mezzi finanziari e la apparente dipendenza finanziaria; d) l’inadeguatezza del sistema di retribuzione dei magistrati tributari. 15. Una ipotesi di terapia. La revisione delle Commissioni tributarie e il mantenimento della giurisdizione speciale? – Dall’analisi che precede emerge che la appassionata dedizione che il corpo dei giudici tributari dedica allo svolgimento della sua preziosissima attività non basta a colmare delle lacune strutturali gravi, indotte dal mancato adeguamento della giurisdizione tributaria alle esigenze del moderno contenzioso e moderna economia. Occorre porvi mano, con urgenza.

(20) In tema si può rilevare la consolidata giurisprudenza della Cedu, certamente rilevante, atteso che nel processo tributario si controverte, oltre che di tributi, di sanzioni con contenuto e natura afflittiva (Corte Edu, Jussila c. Finlandia, 23 novembre 2006): in tema di giusto processo la Corte di Strasburgo ha costantemente richiamato la consustanzialità al principio suddetto dei requisiti di indipendenza anche apparente e di imparzialità del giudice (su cui v., ex multis, Corte Edu Sutyagin c. Russia, 3 maggio 2011; Bochan c. Ucraina, 3 maggio 2007; Agrokompleks c. Ucraina, 6 ottobre 2001; Ninn-Hansen c. Denmark, 18 maggio 1999; Findlay c. Regno Unito, 25 ottobre 1997; Procola c. Lussemburgo, 28 settembre 1995; Campbell and Fell c. Regno Unito, 28 giugno 1984; Piersack c. Belgio, 1 ottobre 1982).


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Non paiono esservi emergenze, quanto ai profili processuali, ma paiono sussisterne di gravi sotto il profilo ordinamentale. Una prima possibile direttrice di intervento potrebbe essere quella del mantenimento della giurisdizione speciale che, en passant, dovrebbe forse dismettere la antica denominazione di Commissione (figlia delle passate funzioni amministrative), per assumere quella più acconcia di Tribunale (21). Al di là di tale intervento simbolico, l’intervento riformatore dovrebbe essere profondo e strutturale, implicando, indefettibilmente: a) l’immediato sganciamento della giustizia tributaria dal Ministero della Economia, lesivo della (apparenza di) indipendenza; b) la creazione di un contingente di giudici tributari a tempo pieno, con adeguato riconoscimento economico e correlata formazione e aggiornamento professionale, specialistica e continua. A livello operativo, se si intendesse seguire questa direzione, è ipotizzabile scandire il processo in una fase transitoria, che attui immediatamente il passaggio della giustizia tributaria sotto altra amministrazione (22) e, in preparazione dell’assetto finale, conservi gli attuali giudici tributari nello status, recentemente riformato, del giudice onorario. Attesa l’età media dei componenti della giurisdizione, tale ruolo potrebbe essere tranquillamente conservato ad esaurimento. Per i giudici già professionali potrebbe essere prevista, al termine del periodo transitorio, la possibilità di opzione. 16. (Segue), La devoluzione a una giurisdizione esistente. In particolare, la giurisdizione ordinaria o quella contabile? – La seconda possibile direttrice di lavoro è la devoluzione delle controversie tributarie a una delle giurisdizioni esistenti. In pratica, mentre la prima traiettoria implicherebbe dotare dei caratteri di giurisdizione forte e pienamente indipendente la giurisdizione tributaria, la seconda porterebbe, inversamente, le controversie tributarie a giuridisdizioni che già hanno in modo consolidato tali caratteristiche. A tutta prima, questa seconda operazione potrebbe parere preferibile, perché apparentemente più semplice: teoricamente essa potrebbe farsi solo con una modifica delle regole sull’oggetto della giurisdizione, attribuendo al ples-

(21) Così, per esempio, nel d.d.l. Senato n. 759. (22) Il Ministero della Giustizia o la Presidenza del Consiglio. Il mantenimento della specialità della giurisdizione non comporterebbe immediati problemi di armonizzazione del trattamento e stato giuridico del personale delle segreterie delle commissioni, che è differente da quello del personale della giustizia ordinaria.


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so giudiziario prescelto la materia tributaria. Ciò che pare agevole, tuttavia, non è così immediato. Intanto, va rammentato che il pervenuto annuale di primo grado, nella giurisdizione tributaria è di 148 mila 500 ricorsi, e, in secondo grado, di 62 mila appelli. Risulta difficile ipotizzare che una giurisdizione esistente, sia esso il Giudice Ordinario, il Giudice Amministrativo o la Corte dei Conti, possa assorbire, in toto, l’impatto di un tale carico di lavoro a risorse invariate. Non solo, ma, al sorprendente dato numerico appena descritto si aggiunge la necessità di dotare la giurisdizione di destinazione delle necessarie competenze tecniche: come si è diffusamente argomentato sopra, infatti, nessuna delle giurisdizioni esistenti è allo stato tecnicamente adeguata alla trattazione delle controversie tributarie. Al robusto innesto di personale giudicante dovrebbe, pertanto, affiancarsi un adeguato percorso di formazione professionale. È appena il caso di notare che esso, di non agevole acquisizione, una volta acquisito andrebbe comunque opportunamente preservato: non paiono assolutamente soddisfacenti, al riguardo, assegnazioni dei giudici alle funzioni tributarie meramente tabellari, ma necessaria l’istituzione di sezioni specializzate scarsamente permeabili alla mobilità tabellare e a un rapido turn over. Chi svolgesse le funzioni tributarie in un plesso giudiziario generale dovrebbe comunque restarvi assegnato con una particolare stabilità: acquisire le relative competenze è operazione lunga e laboriosa e la relativa esperienza non va dispersa. Analoghe considerazioni sembrano potersi svolgere rispetto alla prospettiva di conferimento della giurisdizione tributaria a un plesso giurisdizionale speciale esistente. Tra questi, il più prossimo potrebbe essere la giurisdizione della Corte dei Conti.

Tale conferimento si presenta indubbiamente come suggestivo per molti aspetti (23). Innanzitutto, per una simmetria concettuale: la Corte dei Conti già si occupa della finanza pubblica dal lato della spesa. Si tratterebbe allora di attribuirle giurisdizione anche sul coté delle pubbliche entrate.

(23) Va precisato che tale operazione è costituzionalmente legittima se si intende il divieto di istituzione di giudici speciali come non ostativo all’accorpamento di giurisdizioni speciali già esistenti (come in effetti pare coerente la ratio del divieto).


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Più precisamente la Corte diverrebbe la giurisdizione di controllo sulla legalità (ed efficienza) della funzione amministrativa di applicazione coattiva dei tributi. La elevata specializzazione della Corte e la cultura del controllo della funzione amministrativa potrebbero, forse, essere buone basi di partenza per la creazione di una giurisdizione tributaria moderna e adeguata: nell’ambito della giurisdizione di controllo della funzione amministrativa generale, si inserirebbe una giurisdizione speciale sulla funzione amministrativa di recupero delle entrate. Due, almeno, sarebbero gli aggiustamenti da curare. Il primo concerne, sul versante delle strutture, la difficoltà materiale di trasferire tout court, tutto il processo tributario nanti la Corte dei Conti. Si tratta, come sopra si diceva, di un carico di lavoro notevolmente oneroso. Una possibile soluzione di compromesso potrebbe essere assorbire nella giurisdizione della Corte dei Conti la struttura della Commissione tributaria provinciale (di primo grado), valorizzando le più elevate professionalità esistenti in quella giurisdizione, eventualmente prelevando anche risorse dalle attuali Commissioni Regionali. In questo modo il primo grado verrebbe attratto nella Corte dei Conti ma utilizzando mezzi personali in tutto o in parte esistenti. Il grado di appello invece potrebbe essere pienamente assorbito, anche sotto il profilo della composizione dei collegi, dalla Corte dei Conti, di cui potrebbe essere particolarmente enfatizzato il ruolo di controllo di legittimità (conformità al diritto). Potrebbe così essere opportunamente coordinato tale grado di appello, ridisegnato, con le funzioni della Suprema Corte di Cassazione, in modo da circoscriverne la reale funzione nomofilattica (ridurre un pervenuto in grado di cassazione particolarmente elevato). Il secondo aspetto concerne la necessità di un adeguamento delle competenze giuridiche. Come sopra si rilevava, il controllo della funzione tributaria richiede un articolato complesso di conoscenze che sono completamente estranee alla formazione sia del giurista generalista, sia del civilista, sia dell’amministrativista, sia del cultore della contabilità di Stato. Una sfida complessa, ma che varrebbe la pena di accettare.

Alberto Marcheselli


La cessazione della materia del contendere nei giudizi di rimborso Sommario: 1. Introduzione – 2. L’estinzione del giudizio per cessata materia del

contendere nel processo tributario – 3. Giudizi di rimborso: il rischio che l’iniziativa giudiziaria si risolva in un “nulla di fatto” – 4. Conclusioni.

Il principio di effettività della tutela giurisdizionale è la chiave di volta del sistema processuale. In questa ottica, nei giudizi di rimborso, si pone la necessità di assicurare al contribuente una piena soddisfazione del proprio credito di imposta. Infatti, il mero riconoscimento del diritto da parte dell’Amministrazione finanziaria non può essere sufficiente ai fini della cessazione della materia del contendere. The principle of effective judicial protection is a linchpin of the justice system. In this view, in the judgments of the tax refund, it arises the need to ensure the taxpayer a complete satisfaction of such right by the tax. Indeed, the mere recognition of the right by tax authorities is not sufficient to generate the termination of the dispute.

1. Introduzione. – Talvolta, in sede di applicazione del diritto si assiste ad un fenomeno in base al quale il richiamo ad istituti recati dallo Statuto del contribuente ed a (presunti) dogmi di teoria generale del diritto finisce per far perdere di vista l’essenza della tutela giurisdizionale e cioè la sua effettività. E difatti, l’affermazione chiovendiana secondo cui «il processo deve dare, per quanto possibile, praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire» (1) si è rivelata per essere unanimemente

(1) G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1935, 39 ss. Il concetto è stato approfondito da A. Proto Pisani, Lezioni di Diritto Processuale Civile, Napoli, 2006, 32 ss., ove l’Autore rimarca che il carattere strumentale del processo fa il pari con un divieto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (artt. 392 e 393 c.p.), cosicché – a fronte del


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percepita come una fondamentale direttrice della funzione processuale, tanto da essere riflessa a livello costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.). Sennonché, il generale consenso su uno dei fondamentali postulati del sistema processuale (e non solo di quello italiano) talvolta si scontra con una tendenza (per vero, minoritaria) della giurisprudenza di merito, là dove la strumentalità del processo risulta per essere totalmente negletta. Il tema di indagine quivi affrontato riguarda, in generale, quello della cessazione della materia del contendere (d’ora in avanti, per brevità, anche “c.m.c.”) e, in specie, il suo peculiare atteggiarsi nell’ambito dei giudizi di rimborso. Non è infrequente, difatti, che, a fronte della formazione del silenzio-rifiuto su un’istanza di rimborso e dopo l’instaurazione del contenzioso da parte del contribuente, l’Agenzia rappresenti di aver riconosciuto il credito mediante convalida, ma di non poter ancora erogare le somme spettanti per mancanza di fondi, chiedendo nondimeno alla Commissione la declaratoria di estinzione del giudizio per cessata materia del contendere.

difetto di cooperazione doverosa da parte dei consociati – il processo è orientato a far ottenere al titolare di una situazione di vantaggio i medesimi risultati (oppure – ove ciò non sia più possibile per le più varie ragioni – risultati equivalenti) che quest’ultimo avrebbe dovuto ottenere in ragione della spontanea cooperazione da parte degli altri consociati. Sul punto, è plastica la considerazione dell’Autore secondo cui «senza diritto processuale il diritto sostanziale non può esistere in un ordinamento caratterizzato dal divieto di autotutela privata (quanto meno non può esistere come fenomeno giuridico, in quanto la sua attuazione, anziché essere garantita dallo Stato, è rimessa ai meri rapporti di forza: con la conseguenza che il detentore o i detentori del potere di fatto divengono i detentori del potere legale, indipendentemente da quanto dispongono le norme sostanziali e che i conflitti di interesse si risolvono non secondo «giustizia», alla stregua dei criteri legali, bensì secondo i rapporti di forza)» (v. A. Proto Pisani, Lezioni, ult. op. cit., 5). Nel processo tributario, la crisi di cooperazione concerne il contribuente e l’Ente impositore (sia esso lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune) e può consistere (i) nella contestazione/vanto del diritto (ciò che accade nelle azioni di accertamento negativo della pretesa dell’ente creditore avanzata per il tramite di un atto) oppure (ii) nella violazione di obblighi di pagare somme di danaro (trattasi delle azioni di condanna al rimborso dei tributi ex artt. 38 e 42-bis del d.P.R. 602/1973). Sulla crisi di cooperazione nell’emanazione degli atti dell’Amministrazione finanziaria, G. Fransoni, Il giudizio di primo grado, in P. Russo, Manuale di diritto tributario – il processo tributario, Torino, 2013, 129-130. Per un approccio incentrato sul carattere “amministrativistico” del processo tributario, vedasi M. Basilavecchia - R. Lupi, Diritto tributario, giudici e processo, in Dialoghi Tributari, 2013, fasc. 4, 431434, là dove Basilavecchia riafferma la matrice amministrativa della disciplina de qua nella prospettiva di «dare risposte al conflitto tra poteri e tutela». Sulla struttura impugnatoria del processo tributario e sulla connotazione della relativa tutela «contro manifestazioni di potere», vedansi M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela – Lezioni sul processo tributario, Torino, 2009, 43 ss.; C. Glendi, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984.


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Ebbene, con il surricordato orientamento, una parte minoritaria della giurisprudenza ritiene di poter dichiarare l’estinzione del giudizio per c.m.c. In particolare e a giustificazione di tale conclusione, si sostiene che il bene della vita richiesto dal ricorrente risiederebbe soltanto «nel riconoscimento della esistenza del suo diritto soggettivo al rimborso» e che, siccome l’Amministrazione finanziaria ha acclarato l’esistenza del ridetto diritto «con fatti concludenti», «non occorre uno specifico atto amministrativo in tal senso»; pertanto, «se manca l’atto, non si integra neanche un interesse legittimo». Da ciò deriverebbe che «non occorre una sentenza di condanna, perché andrebbe a snaturarsi la natura del processo tributario». Né sarebbe necessaria una sentenza di condanna onde esperire l’eventuale giudizio di ottemperanza, in quanto «tale giudizio sovviene quando l’A.F. non rispetta una decisione del giudice di demolizione di un atto amministrativo, con condanna al rimborso di quanto nelle more processuali venisse pagato, e si può attivare quando la sentenza passa in giudicato». Da ultimo, secondo questa lettura, alla luce della mera convalida del rimborso, il processo non avrebbe «più ragion d’essere», anche perché «l’attività persuasoria, sollecitatoria al rimborso» sarebbe assicurata «dal Garante del contribuente, art. 13 c. 10 legge 212/2000 e dall’art. 4, c. 2 stessa legge, che prevede l’obbligo della informativa dell’A.F. al contribuente di ogni fatto e circostanza a sua conoscenza dai quali possa derivare il mancato riconoscimento del credito» (2).

(2) Esattamente in questi termini, leggesi C.T.P. di Bari, sent. 5 settembre 2016, n. 2552. Sulla rilevanza del riconoscimento del credito ai fini della declaratoria di c.m.c., nella giurisprudenza di merito, vedansi C.T.R. di Firenze sent. 21 novembre 2017, n. 2449; C.T.R. di Perugia, sent. 1 dicembre 2015, n. 611; C.T. di II grado di Trento, sent. 15 ottobre 2013, n. 46 (sulla declaratoria di c.m.c. a fronte dell’annullamento in autotutela del diniego di rimborso); C.T.P. di Bari, sent. 7 maggio 2012, n. 60; C.T.P. di Pisa, sent. 11 maggio 2001, n. 43; C.T.P. di Firenze, sent. 3 aprile 2001, n. 24. In senso diametralmente opposto, vedasi Cass. sent. 30 dicembre 2015, n. 26107 secondo cui «il fatto determinativo della cessazione della materia del contendere non coincide (…) con la condotta processuale con la quale si “riconosce il diritto” in contestazione (aderendo alla domanda) o si “rinuncia alla pretesa” fatta valere in giudizio (rinuncia all’azione), che determinano in ogni caso una pronuncia di merito sul rapporto dedotto in giudizio». Cfr. ex plurimis, C.T.R. del Lazio, sent. 14 febbraio 2013, n. 77, ove leggesi che «qualora l’ufficio non dimostri l’avvenuto rimborso non può essere dichiarata la cessazione della materia del contendere, dal momento che il contribuente, fino a quando non ha materialmente percepito il dovuto rimborso, ha tutto il diritto di vedere proseguire il giudizio e chiedere la pronuncia di condanna dell’Amministrazione». Nello stesso senso, v. anche C.T.C., decis. 24 gennaio 2003, n. 516; C.T.R. della Puglia, sent. 12 marzo 2015, n. 514; C.T.R. del Lazio, sent. 24 febbraio 2014, n. 1135; C.T.R. della Puglia, sent. 29 aprile 2013, n. 51; C.T.R. della Toscana, sent. 2 ottobre 2004, n. 12; C.T.P. di Lecce, sent. 30


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2. L’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere. – Tale modo di opinare appare, anzitutto, frutto di un’evidente forzatura teorica che frustra il soddisfacimento pratico del diritto del contribuente, giacché si pretende di poter affermare l’esercizio di una sorta di autotutela sul silenzio-rifiuto (e, quindi, del venir meno dell’oggetto della lite di rimborso) in ragione del mero riconoscimento del credito da parte dell’Amministrazione finanziaria, mentre ci si sarebbe dovuti chiedere se, al fine della pronuncia di c.m.c., possa veramente ritenersi sufficiente la mera ricognizione dell’Agenzia e, segnatamente, se la condotta processuale dell’Ufficio (giustappunto, l’avallo della pretesa avanzata dal ricorrente) consenta al contribuente di precostituirsi uno strumento per il cui tramite ottenere, dipoi e concretamente, l’erogazione pecuniaria (ossia l’effettiva tutela del proprio diritto). A tale domanda è dato rispondere negativamente per un molteplice ordine di ragioni. 2.1. Ma prima ancora di scendere nel dettaglio delle peculiarità dei giudizi di rimborso, s’impone una domanda limitrofa alla prima in ordine alla fattispecie della c.m.c. In questa prospettiva, è opportuno ricordare dapprima come la fattispecie di “cessata materia” assuma dei connotati del tutto peculiari nel processo tributario, essa risentendo della struttura di impugnazione-merito di quest’ultimo: e invero, senza poter indugiare in questa sede sulle diverse teorie circa la natura e l’oggetto del processo, si può rilevare come la giurisprudenza sia pressoché unanimemente orientata a ritenere che il processo, quanto al profilo formale, trae origine dall’impugnazione di un atto oppure, di un mero comportamento fattuale dell’Amministrazione che assurge, in virtù di una fictio iuris, ad atto implicito di diniego di rimborso, quale giustappunto la formazione del silenzio-rifiuto (3), ma, al contempo, si risolve in un giudizio concernente il

dicembre 2016, n. 3647; C.T.P. di Cremona, sent. 29 ottobre 2013, n. 107; C.T.P. di Torino, sent. 19 ottobre 2004, n. 31; C.T.P. di Padova, sent. 2 aprile 2003, n. 65. In una posizione intermedia fra i due filoni giurisprudenziali, v. Cass., sent. 12 maggio 2011, n. 10431, secondo cui «la semplice dichiarazione di desistenza dell’interesse alla prosecuzione del giudizio non potrebbe in nessun caso avere l’efficacia di sostituirsi ad una pronuncia di condanna mai adottata in riferimento al chiesto rimborso, non potendo sicuramente valere come una sorta, di virtuale atto di autotutela dell’Amministrazione Finanziaria in rispetto ad un provvedimento di silenzio-rifiuto, per rimuovere il quale occorrerebbe comunque un provvedimento espresso di riconoscimento dell’obbligazione restitutoria ovvero l’adempimento della stessa». (3) In tal senso, P. Russo, Manuale di diritto tributario – il processo tributario, Milano, 2013, 131-132.


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merito del rapporto tributario, cosicché la sentenza diviene sostitutiva dell’atto dell’Ufficio (4). Più nel dettaglio, l’art. 46 del d.lgs. n. 546/1992 annovera la c.m.c. fra i casi di estinzione del processo tributario. Sembrerebbe, quindi, una “vicenda anormale” del processo per ciò che quest’ultimo non si chiude con una sentenza che statuisce espressamente su chi ha torto e chi ha ragione. In realtà, occorre fare dei distinguo. L’estinzione del processo trova la sua giustificazione nella necessità di evitare un inutile dispendio di energie processuali (e cioè di costi per lo Stato), a fronte dell’accordo delle parti in caso di rinuncia agli atti (in quanto – come è ben noto – alla rinuncia si deve accompagnare l’accettazione della parte resistente) oppure per condotta concludente in ipotesi di inattività (in quanto la mancata prosecuzione, riassunzione o integrazione del giudizio fa presumere il disinteresse delle parti rispetto alla coltivazione del contenzioso) (5). Ma la c.m.c. è qualcosa di più rispetto alle predette fattispecie. Non è un

(4) Da ultimo, in giurisprudenza, sulla natura del processo tributario, v. ex multis Cass. civ., Sez. VI, ord. 3 aprile 2019, n. 9202; Cass. civ., Sez. VI, ord. 22 marzo 2019, n. 8250; Cass. civ., Sez. VI, ord. 21 giugno 2018, n. 16380; Cass. civ. Sez. V, 29 novembre 2017, n. 28543; Cass. civ. Sez. V, 15 marzo 2017, n. 6719; Cass. civ. Sez. V, 15 febbraio 2017, n. 3983; Cass. civ. Sez. V, sent. 20 marzo 2013, n. 6918; Cass. civ. Sez. VI, ord., 24 luglio 2012, n. 13034, Cass. civ. Sez. V, sent. 13 luglio 2012, n. 11935; Cass. Sez. V, 12 luglio 2006, n. 15825; Cass. civ. Sez. V, 03 agosto 2016, n. 16154, secondo cui «per giurisprudenza consolidata di questa Corte il processo tributario non è annoverabile tra quelli di “impugnazione-annullamento”, ma tra quelli di “impugnazione-merito”, in quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, che dell’accertamento dell’ufficio; di conseguenza, ove il giudice tributario ritenga invalido l’avviso di accertamento non per motivi formali (ossia per vizi di forma talmente gravi da impedire l’identificazione dei presupposti impositivi, e precludere l’esame del merito del rapporto tributario), ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte». In dottrina, per una lettura del processo tributario incentrata sull’impugnazione dell’atto, vedansi F. Tesauro, Profili sistematici del processo tributario, Padova, 1980; C. Glendi, L’oggetto, cit.; M. Basilavecchia, Funzione impositiva, ult. op. cit.; G. Tremonti, Imposizione e definitività nel diritto tributario, Milano, 1977, 145 ss., secondo cui «dinanzi al giudice tributario non si fa questione di un rapporto sostanziale a contenuto patrimoniale, quanto alla conformità di una norma di legge di quel tratto dell’agire pubblico che trova il suo punto di emersione nell’atto impugnato». (5) Cfr. C. Mandrioli - A. Caratta, Diritto processuale civile – il processo ordinario di cognizione, Torino, 2014, 393.


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caso – difatti e come è stato osservato (6) – che la sezione V del Capo I del Titolo II del d.lgs. n. 546/1992 e gli artt. 44 (rinuncia al ricorso) e 45 (inattività delle parti) siano rubricati con riferimento all’“estinzione del processo”, mentre l’art. 46 cit. utilizza il termine “estinzione del giudizio”. L’elemento differenziante dalle altre ipotesi di estinzione è dato dal venir meno dell’oggetto del giudizio e cioè della res litigiosa. Infatti, la fattispecie della c.m.c. risulta caratterizzata dalla propria ontologica autonomia rispetto alla “rinuncia” e all’inattività delle parti, ancorché l’estinzione per c.m.c. sia accomunata alle altre due fattispecie dall’essere (processualmente) una forma atipica di chiusura del giudizio rispetto al suo “naturale epilogo” (7); il tutto con un’identità strutturale che peraltro pare essere comune in tutti i tipi processuali (8), ricorrendo sempre l’elisione dell’og-

(6) C. Glendi, Sulla rilevabilità in appello della cessazione della materia del contendere sopravvenuta in primo grado, in Corr. Giur., 2016, 11, 1423. (7) In termini, P. Russo, L’estinzione del giudizio nel processo tributario, in Dir. prat. trib., 1994, I, 433 ss.; Id., Manuale di diritto tributario – il processo tributario, Milano, 2013, 260-262; in particolare, l’Autore sottolinea come sia del tutto improprio annoverare la “cessazione della materia” del contendere fra le cause di estinzione del giudizio, trattandosi di una fattispecie ben diversa da quelle recate dal codice di procedura civile. E invero, la differenza fra la “cessata materia” e l’estinzione scaturente dalla rinuncia agli atti o dalla inattività delle parti appare netta sol ove si consideri che solo la prima fattispecie si riconnette necessariamente al verificarsi di fatti la cui sussistenza nel corso del processo è tale da rendere ridondante la prosecuzione del giudizio verso il suo “naturale epilogo”. Sicché, l’assimilazione della fattispecie all’estinzione sarebbe esclusivamente quoad effectum, atteso che il provvedimento relativo alla “cessata materia” avrebbe medesima forma e sarebbe soggetto ai medesimi rimedi previsti per le pronunce di estinzione del processo. Secondo F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, 186-187, il principale connotato distintivo della c.m.c. rispetto alle altre cause di estinzione risiederebbe nella circostanza che detta fattispecie sarebbe una «vicenda sostanziale», la quale inciderebbe sull’oggetto del processo (eliminandolo). Per una recente ricognizione sul tema della c.m.c., vedasi anche M. Busico, L’estinzione del processo tributario, Milano, 2019, 97 ss. (8) L’istituto della c.m.c. non è espressamente previsto nel codice di rito civile, là dove si annoverano solo l’inattività delle parti (artt. 181, 307 e 309 c.p.c.) e la rinuncia agli atti del giudizio (art. 306 c.p.c.). La giurisprudenza civile ha mutuato l’istituto dalla normativa in tema di giustizia amministrativa e, segnatamente, dall’art. 23, comma 7, l. n. 1034/1971 (oggi art. 35, d.lgs. n. 104/2010) a mente del quale «se entro il termine per la fissazione dell’udienza l’amministrazione annulla o riforma l’atto impugnato in modo conforme alla istanza del ricorrente, il tribunale amministrativo regionale dà atto della c.m.c. e provvede sulle spese». In dottrina, B. Sassani, (voce) Cessata materia del contendere (dir. proc. civ.), in Enc. giur. Trecc., VI, 1988 ha messo in luce come, in realtà, l’addentellato normativo cui far riferimento nel codice di rito civile sia rinvenibile nell’art. 100 c.p.c.


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getto del giudizio (9). A fronte di tale circostanza, la prosecuzione del giudizio sarebbe del tutto contraria al principio di proporzionalità. E difatti, posto che il difetto di cooperazione iniziale è stato superato per altra via (e.g. con una conciliazione) oppure in ragione di un fatto sopravvenuto e rilevante nella fattispecie sostanziale (quale può essere l’annullamento in autotutela dell’atto di accertamento), l’impossibilità di ritrarre un’utilità dal processo rende inidonei i mezzi (ossia quelli della Giustizia che sono impegnati dalle attività processuali delle parti) rispetto al fine per cui tali strumenti sono predisposti (ossia la risoluzione del conflitto causato dalla mancanza di spontanea cooperazione nell’attuazione del diritto sostanziale). E quindi, l’intervento dello Stato non risulta più necessario, siccome il conflitto è stato risolto aliunde oppure ha trovato composizione in base ad un altro fatto giuridicamente rilevante nella fattispecie sub iudice. Detto in altri termini, si tratta di casi in cui l’ulteriore svolgimento dell’attività processuale sarebbe un vero e proprio spreco (10). Questi dati risultano ben visibili nelle fattispecie che danno luogo alla figura processuale. A tal riguardo, l’art. 46 cit. fa genericamente riferimento «ad ogni … caso di cessazione della materia del contendere», nel cui novero rientrano tutti i fatti (estintivi, modificativi o impeditivi) sopravvenuti all’instaurazione del contenzioso che hanno incidenza sul rapporto sostanziale dedotto in giudizio, mutando lo status quo ante al ricorso introduttivo e, segnatamente, risolvendo l’originaria crisi di cooperazione nell’attuazione del diritto sostanziale. Al genus appena tratteggiato è dato ricondurre: (A) nei giudizi di

(9) Si pensi nel processo civile ad una causa tipica di c.m.c., quale la morte di uno dei coniugi nel giudizio di separazione, oppure, nel processo amministrativo, all’annullamento d’ufficio del provvedimento che impone al cittadino un facere. (10) R. Caponi, Il principio di proporzionalità nella giustizia civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2, 2011, 389-406, là dove – secondo l’Autore – il principio di proporzionalità è da intendere nel senso proprio dell’art. 1 delle Rules of civil procedure inglesi secondo cui una quota di risorse da attribuire per la trattazione di una causa deve tener conto della necessità di riservare le risorse per gli altri casi. Nel nostro ordinamento, il principio può essere ritratto in ambito processuale quale «aspetto dell’efficienza della disciplina del processo» desumibile dalla necessità della sua “ragionevole durata” (art. 111 Cost.). La proporzionalità – secondo l’Autore – può assurgere a criterio per determinare un giusto «equilibrio tra la protezione degli interessi individuali coinvolti nella singola vicenda e la protezione degli interessi collettivi alla gestione razionale dell’insieme dei processi». Più in generale, sull’origine germanica, sulla diffusione nell’ordinamento europeo e sulla portata del principio di proporzionalità, vedasi G. Bizioli, Imposizione e Costituzione europea, in Riv. dir. trib., 2005, fasc. 3, 250-251.


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accertamento negativo (là dove la tutela investe la pretesa avanzata dall’Ente impositore mediante uno degli atti di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 546/1992 e la relativa obbligazione tributaria), (A.1) il ritiro dell’atto impugnato per l’annullamento (11) o revoca in autotutela; (A.2) il pagamento delle imposte (oppure la definizione in sede di procedimento di accertamento con adesione) da parte di un altro dei coobbligati solidali (12); (A.3) l’adempimento

(11) Sempreché, si possa parlare di vero “annullamento d’ufficio” nei termini del diritto amministrativo, atteso che si può dubitare circa la necessità di un apprezzamento delle ragioni di interesse pubblico in presenza di un atto dell’Amministrazione finanziaria illegittimo e/o infondato (valutazione viceversa richiesta ai sensi dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990). La esclude, infatti ed alla luce del potere vincolato esercitato dagli Enti impositori, F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario – parte generale, Milano, 2016, 179. (12) V. Cass., ord. 23 agosto 2017, n. 20305. Secondo i Supremi Giudici, il pagamento dell’intero debito tributario, da parte di uno solo degli obbligati, dà luogo all’estinzione della pretesa e, quindi, alla cessazione della materia del contendere con l’Erario, facendo venire meno l’interesse alla lite da parte dei non aderenti. L’argomentazione poggia sull’assunto che l’assolvimento del tributo in sede di adesione da parte del coobbligato fa venire meno l’interesse del contribuente a far valere l’illegittimità dell’originaria pretesa tributaria. Una prima considerazione viene svolta sul piano “civilistico”. Nei rapporti fra obbligati in solido, l’azione di regresso non è esercitabile in relazione all’imposta di registro, là dove la controparte non sia stata coinvolta nel procedimento di accertamento con adesione. Si rammenta, difatti, che l’azione presuppone l’adempimento di un’obbligazione del terzo, la cui esistenza ed entità siano divenute certe per fatti o atti giuridici opponibili a questi (artt. 1203, n. 3 e 1299 c.c.; cfr. Cass., sent. 7 maggio 2014, n. 9859). Sotto tale profilo, il procedimento di accertamento con adesione non è opponibile ai contribuenti che non vi hanno partecipato, in quanto l’atto di adesione equivale al riconoscimento del debito e, come tale, non ha effetto nei riguardi del condebitore che non l’abbia compiuto (cfr. art. 1309 c.c.). Per quanto concerne la disciplina fiscale, si sottolinea altresì che: (1) l’accertamento può essere definito con adesione «anche di uno solo dei coobbligati» (art. 1, comma 2 d.lgs. n. 218/1997); (2) con il perfezionamento dell’adesione «anche di uno solo degli obbligati», gli avvisi d’accertamento relativi alla pretesa tributaria perdono efficacia (art. 12, comma 4 del d.lgs. n. 218/1997); (3) l’accertamento definito con adesione non è soggetto ad impugnazione (art. 3, comma 4 del d.lgs. n. 218/1997). Tenuto conto degli effetti sostanziali prodotti dal pagamento del coobbligato (per quanto riguarda il rapporto civilistico acquirente/venditore) e quelli scaturenti dall’accertamento con adesione (per quanto riguarda il rapporto contribuente/ Erario), sotto il profilo processuale viene meno l’interesse ad agire del coobbligato che non ha aderito al procedimento di adesione, proprio perché (a) l’avviso impugnato ha perso efficacia a fronte del perfezionamento dell’adesione da parte del coobbligato; (b) non risulta predicabile un interesse ad ottenere la declaratoria di illegittimità dell’atto da far valere in un (eventuale) giudizio di regresso, atteso che il diritto del coobbligato di rivalersi rispetto agli altri debitori in solido postula l’imputabilità o la “coimputabilità” a quest’ultimo del fatto costitutivo del debito e, quindi, non spetta a chi adempia un debito discendente esclusivamente da fatto proprio (qual è il perfezionamento dell’accertamento con adesione “in autonomia”). Sicché, il fatto che incide sulla vicenda sostanziale (fatto estintivo) espande i propri effetti sul


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spontaneo del contribuente, in base al quale sia dimostrabile la piena adesione alle posizioni dell’ufficio (13); (B) nei giudizi avverso l’atto di contestazione e di irrogazione delle sanzioni, la morte del ricorrente (ciò in ragione della ben nota intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi ex art. 8 del d.lgs. n. 472/1997); (C) nei giudizi di rimborso, per le ragioni che si articoleranno amplius nel prosieguo, il (solo) pagamento del credito di imposta; (D) nei giudizi aventi ad oggetto una controversia relativa all’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni, la conclusione di una mutual agreement procedure fra l’Amministrazione finanziaria e le Autorità fiscali di altri Stati attraverso cui viene risolta la duplicazione di imposta (14).

piano processuale, dando luogo all’elisione (dell’interesse del ricorrente e, quindi,) della res decidenda. Il che si traduce nel perfezionamento della fattispecie di cessazione della materia del contendere ex art. 46 del d.lgs. n. 546/1992. (13) La spontaneità non può sussistere, là dove la legge preveda l’obbligo di pagamento entro un termine, pena l’irrogazione delle sanzioni di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 471/1997. Da ultimo, la Suprema Corte di Cassazione ha escluso che si possa configurare acquiescenza in caso di rateizzazione richiesta dal contribuente, in quanto «costituisce principio generale nel diritto tributario che non si possa attribuire al puro e semplice riconoscimento, esplicito o implicito, fatto dal contribuente d’essere tenuto al pagamento di un tributo e contenuto in atti della procedura di accertamento e di riscossione (denunce, adesioni, pagamenti, domande di rateizzazione o di altri benefici), l’effetto di precludere ogni contestazione in ordine all’an debeatur, salvo che non siano scaduti i termini di impugnazione e non possa considerarsi estinto il rapporto tributario. Siffatto riconoscimento esula, infatti, da tale procedura, regolata rigidamente e inderogabilmente dalla legge, la quale non ammette che l’obbligazione tributaria trovi la sua base nella volontà del contribuente. Le manifestazioni di volontà del contribuente, pertanto, quando non esprimano una chiara rinunzia al diritto di contestare l’an debeatur, debbono ritenersi giuridicamente rilevanti solo per ciò che concerne il quantum debeatur, nel senso di vincolare il contribuente ai dati a tal fine forniti o accettati. Ciò non esclude che il contribuente possa validamente rinunciare a contestare la pretesa del Fisco, ma, perché tale forma di acquiescenza si verifichi, è necessario il concorso dei requisiti indispensabili per la configurazione di una rinuncia, e cioè: 1) che una controversia tra contribuente e Fisco sia già nata e risulti chiaramente nei suoi termini di diritto o, almeno, sia determinabile oggettivamente in base agli atti del procedimento; 2) che la rinuncia del contribuente sia manifestata con una dichiarazione espressa o con un comportamento sintomatico particolare, purché entrambi assolutamente inequivoci» (Cass. sent. 8 febbraio 2017, n. 3347; Cass. sent. 19 giugno 1975, n. 2463). (14) Tali strumenti sono molteplici e riguardano: la Convenzione 90/436/CEE del 23 luglio 1990 relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili delle imprese associate; l’art. 25 dell’OECD Model Tax Convention on income and capital (cui fanno riferimento numerose convenzioni bilaterali); l’art. 16 del Multilateral convention to implement tax treaty related measures to prevent base erosion and profit shifting (c.d. MLI); l’art. 4 della direttiva (UE) n. 2017/1852 del Consiglio del 10 ottobre 2017 sui meccanismi di risoluzione delle controversie in materia fiscale nell’Unione europea. In caso di apertura di una procedura


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Alle suddette ipotesi si affiancano – parrebbe in un rapporto di species a genus – i casi di «definizione delle pendenze tributarie» previsti ex lege. Rispetto a tale categoria, trattasi di un fatto, descritto dalla norma e in relazione al quale si produce un effetto novativo sul rapporto sostanziale. Al riguardo, senza alcuna pretesa di esaustività, si rammentano: a) la conciliazione (fuori udienza o in udienza) ex artt. 48 e 48-bis del d.lgs. n. 546/1992, a mente dei quali – a fronte dell’iter procedimentale che trova origine nell’istanza di parte e che si chiude con la sottoscrizione dell’accordo conciliativo o del processo verbale – viene definito il modo d’essere (oppure, in caso di definizione parziale, solo un segmento) del rapporto di imposta (15); b) la transazione fiscale ex art. 182-ter della legge fall., secondo cui la chiusura della procedura di concordato preventivo (coincidente con la pubblicazione del decreto di omologazione) dà luogo alla cessata materia delle liti fiscali pendenti in costanza della crisi dell’impresa (16); c) tutte le definizioni agevolate costellanti la nostra storia repubblicana e variamente denominate (17) rispetto alle quali l’effetto è

amichevole, l’art. 39, comma 1-ter del d.lgs. n. 546/1992 prevede la sospensione del processo tributario (su richiesta conforme delle parti). Tuttavia, la fattispecie di sospensione riguarda solo le MAP relative alle “Convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni stipulate dall’Italia” e quelle della “Convenzione n. 90/463/CEE del 23 luglio 1990”. (15) Sulla conciliazione, G. Fransoni, Il giudizio di primo grado, in P. Russo, Manuale, cit., 236-237; F. Randazzo, La conciliazione giudiziale tributaria nell’interpretazione della giurisprudenza: casi e materiali per un’analisi critica dell’istituto, in Riv. dir. trib., fasc. 11, 2007, 987. (16) V. amplius sull’argomento, C. Attardi, Sul carattere necessario del procedimento amministrativo di transazione fiscale, in Riv. dir. trib., fasc. 5, 2012, 553, il quale sottolinea come la cessata materia del contendere si configuri per fatti che involgono «l’esigibilità del credito fiscale» e non già «l’an e il quantum dell’obbligazione tributaria», ciò darebbe luogo a «riflessi processuali extra ordinem» in considerazione del fatto che l’atto impugnato viene ritirato non per ragioni di illegittimità e/o infondatezza della pretesa, bensì per mere esigenze di economicità amministrativa e processuale. Sotto questo profilo, «è come se, per effetto dell’omologazione del concordato, il debitore prestasse acquiescenza per la parte di debito che sarà soddisfatta in moneta concorsuale e l’Agenzia delle Entrate, dal canto suo, ritirasse l’atto impugnato per la parte falcidiata». (17) Sulla distinzione fra i “condoni” e “definizioni agevolate”, vedasi F. Batistoni Ferrara, voce Condoni (diritto tributario), in Enc. dir., Agg. V, Milano, 2001. Per un excursus sulle principali forme di condono, v. G. Ingrao, voce Condono tributario, in Enc. Treccani – Diritto on line (2016), www.treccani.it/enciclopedia/condono-tributario. Più di recente, si è fatto comunemente riferimento alla c.d. “rottamazione delle cartelle” ex art. 6, d.l. n. 193/2016, quale fattispecie di definizione dei carichi affidati all’Agente della riscossione. La norma è di interesse ai nostri fini per ciò che nella dichiarazione con cui si avvia il procedimento il contribuente deve assumere «l’impegno a rinunciare agli stessi giudizi». Al riguardo i dubbi investono le conseguenze derivanti dalla circostanza che il contribuente non depositi l’atto


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di tipo sostitutivo dei normali criteri di determinazione della pretesa. Ciò che caratterizza la fattispecie, in definitiva, pare potersi rinvenire nella circostanza che, a fronte dell’allegazione del fatto (primario, in quanto incidente sul rapporto sostanziale, ed estintivo, modificativo o impeditivo della fattispecie), vi è la carenza (sopravvenuta) di interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), atteso che quest’ultimo – in difetto di cooperazione nell’attuazione del diritto sostanziale (nei rapporti fra contribuente ed Amministrazione finanziaria) – si concretizza nella indispensabilità del ricorso al giudice per evitare un danno ingiusto ad una situazione giuridica soggettiva del ricorrente (lesione della sfera patrimoniale, nei casi di accertamento, oppure la privazione di un bene, ossia la mancata refusione delle imposte

di rinuncia presso la Commissione Tributaria. Al riguardo, è lecito chiedersi (a) se, a fronte dell’accoglimento dell’istanza da parte del concessionario, ricorra una fattispecie di cessata materia del contendere (con relativa declaratoria della Commissione) oppure (b) se non sia sufficiente il mero impegno a rinunciare (riversato nella dichiarazione), essendo necessaria la rinuncia vera e propria quale condicio sine qua non per il perfezionamento della definizione agevolata; secondo tale ultima prospettiva, l’inadempimento del contribuente/ricorrente darebbe luogo alla decadenza dalla definizione agevolata. Ma a ben vedere, l’istituto della rottamazione – collocandosi nel novero dei casi di definizione agevolata – finisce per dar luogo al venir meno della res litigiosa e, quindi, integra un’ipotesi di cessazione della materia del contendere, giacché con il perfezionamento della fattispecie si sostituisce il rapporto sostanziale dedotto in giudizio. In tal senso, vedasi Agenzia delle Entrate, circolare 08/03/2017, n. 2/E, 22. Da ultimo la quaestio iuris si è riproposta rispetto alla definizione agevolata dei carichi affidati all’Agente della riscossione recata dal d.l. n. 119/2018: e invero, l’art. 3 richiede che il contribuente presenti all’Agente della riscossione una dichiarazione per il cui tramite il debitore – oltre a dover indicare l’eventuale pendenza di giudizi aventi ad oggetto i carichi in essa ricompresi – deve assumere l’impegno a rinunciare agli stessi giudizi. Anche in tal caso, ove il contribuente ometta di impegnarsi in dichiarazione, si produrrà l’effetto processuale dell’estinzione del giudizio per c.m.c., purché 1) il carico definito abbia ad oggetto l’intero valore in contestazione e sempreché 2) il contribuente provveda al pagamento di quanto dovuto ai fini del perfezionamento della definizione (Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, nota 16 novembre 2018, n. 123013/RU). Ma ciò dovrebbe valere quand’anche il contribuente non dia seguito all’impegno mediante la rinuncia al ricorso, purché il giudice abbia cognizione del versamento idoneo al perfezionamento della fattispecie (ciò che può avvenire, in specie, anche a fronte della pertinente produzione documentale effettuata dalla parte pubblica). Altro chiarimento intervenuto con la predetta nota riguarda la posizione dei debitori in solido, là dove il perfezionamento dell’adesione sia realizzato da uno dei condebitori. In tal caso, gli Uffici non devono proseguire le azioni di recupero nei confronti degli altri obbligati in solido, ove la definizione abbia investito l’intero debito, dovendo chiedere la declaratoria l’estinzione per c.m.c. del processo incardinato dal condebitore ed avente ad oggetto l’impugnazione degli atti relativi ai carichi definiti. Per converso, le iniziative intraprese dall’Erario avranno seguito, laddove residui una frazione di debito che non è stata fatta oggetto di definizione.


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versate in eccedenza). L’indefettibile esigenza di giustificazione sistematica dell’istituto della c.m.c. conduce a porre il focus proprio sull’interesse ad agire, in quanto tale condizione dell’azione richiede che il ricorrente possa conseguire un risultato utile e giuridicamente apprezzabile non altrimenti se non proprio mediante la proposizione della domanda e, quindi, se non per il tramite dell’esercizio del potere giurisdizionale del giudice. Più nel dettaglio, nella disciplina processual-tributaria, l’interesse ad agire rimane parzialmente assorbito dalla struttura (come già ribadito, solo formalmente) impugnatoria del processo, nel senso che, impugnando un atto recato dall’art. 19 del d.lgs. n. 546/1992, il contribuente può evitare la potenziale ed irrimediabile lesione dei propri diritti, quale derivante dall’illegittimità e/o infondatezza dell’atto dell’Amministrazione finanziaria. Sotto tale profilo, l’interesse ad agire risulta essere il prisma attraverso il quale è dato comprendere se sussista o meno il ricorrere di un’ipotesi di c.m.c., trattandosi invero di due fenomeni che in un certo qual senso rappresentano il riflesso processuale (in quanto l’interesse è condizione processuale e la c.m.c. è declaratoria di chiusura del processo) di una vicenda sostanziale alla stregua di un Giano Bifronte: e difatti, lo è l’interesse ad agire, per ciò che concerne la possibilità di conseguire un risultato utile e rilevante per il diritto mediante la domanda; lo è la c.m.c., atteso che la fattispecie de qua poggia sulla sopravvenienza di un fatto (estintivo, modificativo o impeditivo) alla luce del quale il ricorrente (o il resistente) non possono più ottenere alcuna utilità nella prosecuzione del giudizio. 2.2. L’art. 46 cit., tuttavia, non indica espressamente a chi spetti il potere di rilevazione dei fatti ai fini dell’integrazione della fattispecie di c.m.c.. In altri termini, la norma non esplicita se il potere di rilevazione in discorso sia riservato alle parti oppure se il giudice possa rilevare d’ufficio la cessata materia. Per risolvere detta questione, occorre fare un passo indietro e, quindi, recuperare quanto detto in ordine all’assimilazione (solo) “processuale” della cessata materia rispetto alle altre due fattispecie di estinzione. E difatti, nella dinamica processale, sia la rinuncia sia l’estinzione per “inattività”, richiedono una convergenza nelle dichiarazioni di volontà (siccome la rinuncia al ricorso dev’essere accompagnata dall’accettazione della parte resistente) oppure un comportamento giuridicamente rilevante (atteso che la mancata prosecuzione/riassunzione/integrazione del giudizio di entrambe le parti dev’essere inteso come indifferenza oppure mera noncuranza rispetto all’ulteriore prosecuzione del processo).


Dottrina

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Secondo una parte della giurisprudenza di legittimità, l’art. 46 – proprio in ragione dell’equiparazione normativa quoad effectum alle altre fattispecie (processuali) di estinzione e, quindi, alla dialettica processuale che si ritrae negli artt. 44 e 45 del d.lgs. n. 546/1992 – richiederebbe che entrambe le parti debbano essere concordi nelle proprie conclusioni sull’accertamento del fatto, nonché sull’effetto (estintivo, modificativo o impeditivo) e, segnatamente, sul (sopravvenuto) venir meno di interesse all’ulteriore corso del processo. E, quindi, se mancasse detta “convergenza” e cioè in caso di opposizione di una delle parti (opposizione che, nel processo tributario, mancando le memorie conclusionali previste nel processo civile, può essere manifestata in sede di memoria illustrativa oppure in udienza), la declaratoria di c.m.c. si mostrerebbe per essere viziata per violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c. (18), giacché la Commissione adita – pur rimanendo ferma la domanda del ricorrente circa il modo d’essere del rapporto e, quindi, dovendo decidere sul merito – incorrerebbe in un’omessa pronuncia. Sennonché, la tesi sposata dalla Corte Suprema di Cassazione – seppur resa suggestiva dal nomen juris dell’istituto (proprio perché la cessazione della materia del contendere fa pensare giustappunto alla composizione del contrasto e, quindi, ad una domanda conforme delle parti) –, in realtà, affonda le proprie radici nella giurisprudenza delle Sezioni civili, là dove in ragione

(18) Cfr. in giurisprudenza, v. Cass. civ. Sez. VI - 5, ord., 13 novembre 2015, n. 23340, Cass. Sez. VI - 5, 10. dicembre 2013, n. 27598, Cass. civ. Sez. V, 24 giugno 2000, n. 8607, Cass. Sez. II civ., 22 gennaio 1997, n. 622;, ove leggesi che «la cessazione della materia del contendere […] in tanto può essere dichiarata, in quanto i contendenti si diano reciprocamente atto dell’intervenuto mutamento della situazione revocata in controversia e sottopongano al giudice conclusioni conformi, intese a sollecitare l’adozione di una declaratoria della cessazione cennata, dovendosi escludere, quindi, che il giudice, senza far luogo a pronuncia extra petita, possa dichiarare cessata la materia del contendere per avere una delle parti allegato, ed eventualmente provato, l’insorgenza di fatti astrattamente idonei a privare essa e/o il contraddittore di interesse e titolo all’esperimento della coltivata pretesa, quando, nelle rispettive conclusioni, ciascuno dei contendenti abbia insistito sulle domande originarie, così manifestando la determinazione di ottenere una decisione sul merito della vertenza»; v. anche S. Forni, Ricorso avverso il rifiuto tacito al rimborso di crediti d’imposta: riconoscimento del debito in corso di causa e cessata materia del contendere, in Dir. prat. trib., II, 2006, 20349. Nello stesso senso, si è espressa anche la giurisprudenza di merito: cfr. ex plurimis, C.T.R. della Lombardia, sent. 20 febbraio 2014, n. 948, C.T.R. della Toscana, sent. 2 ottobre 2004, n. 12.


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dell’assenza nel codice di procedura civile di una (espressa) definizione della figura si poneva il problema di dover ricavare la normativa processuale dalle fattispecie estintive ivi previste (19). Invero, la suddetta tesi deve confrontarsi con le argomentazioni che, invece, condurrebbero ad affermare la rilevabilità ex officio dell’estinzione, ove dalle emergenze processuali di causa risulti integrata la figura in discorso. Al riguardo, l’art. 46 cit. utilizza una formula che farebbe pensare ad una estinzione ope legis, atteso che in presenza di un caso di cessata materia o di definizione agevolata (recte: a fronte dei presupposti della fattispecie) «il giudizio si estingue». A ciò aggiungasi che, a ben vedere, l’equiparazione quoad effectum alle altre fattispecie processuali consente di ricavare la dinamica processuale per derivazione dalla fattispecie di cessata materia per “inattività delle parti” (rispetto alla quale la causa di estinzione è rilevata anche d’ufficio). In tal senso, depone altresì la considerazione che la c.m.c. è il risvolto processuale del mutamento della situazione sostanziale e, quindi, della sopravvenuta carenza d’interesse ad agire: in questa logica, trattandosi del venir meno di una condizione processuale dell’azione, la Commissione avrebbe il dovere di rilevare la questione d’ufficio. Secondo altra prospettiva recepita recentemente dalle Sezioni Unite (20), la questione rilevabile d’ufficio in ordine all’immediata estinzione del giudizio sarebbe diretto precipitato di esigenze pubblicistiche scaturenti dall’elisione della pretesa impositiva in ipotesi di definizione agevolata. Il che, però, non deve far perdere di vista il doveroso rispetto del principio del contraddittorio. E invero, il giudice – nel sollevare la questione circa l’esistenza di un fatto modificativo, estintivo o impeditivo risultante ex actis – deve compulsare le parti, assegnando un termine (non inferiore a venti giorni, né superiore a quaranta giorni) per il deposito delle memorie illustrative recanti osservazioni in ordine all’accertamento del fatto e sugli effetti prodotti sul rapporto dedotto in giudizio (art. 102 c.p.c.). Resta fermo che non è possibile predicare la rilevabilità d’ufficio della causa di estinzione e, al contempo, richiedere l’accordo delle parti sull’esistenza del presupposto della cessata materia. Ciò si rivelerebbe contraddittorio e, oltretutto, erroneo, in quanto

(19) Al riguardo, la sentenza capostipite pare essere Cass. civ. Sez. II, 22 gennaio 1997, n. 622. (20) Cfr. in tema di fattispecie di definizione agevolata, Cass. civ. Sez. Unite, sent., 27 gennaio 2016, n. 1518, Cass. civ. Sez. V sent., 3 dicembre 2007, n. 25239; Cass. civ. Sez. V sent., 24 giugno 2008, n. 17142; Cass. civ. Sez. VI - 5 ord., 9 marzo 2012, n. 3841.


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l’esercizio del potere giudiziale verrebbe fatto dipendere dall’accordo (recte: dall’incontro di volontà) delle parti (21). Sicché, la soluzione più coerente con il sistema sembra quella secondo cui la c.m.c. deve essere pronunciata in ogni stato e grado del giudizio, anche d’ufficio, quando il fatto sia ritualmente acquisito nel processo (stante il divieto di utilizzazione del sapere privato) oppure una delle parti abbia dedotto il fatto stesso (ancorché permanga il contrasto sulla rilevanza assunta sul rapporto sub iudice). Non occorre, quindi e per le ragioni suddette, un vero accordo. In ogni caso, quanto alle possibili iniziative da intraprendere nel caso in cui la declaratoria sia emessa in carenza dei presupposti di cui all’art. 46 cit., è dato proporre impugnazione quand’anche la pronuncia rivesta la forma di ordinanza (22). 2.3. Quanto, invece, agli effetti della sentenza in esame, v’è da segnalare come vi siano opinioni discordi in dottrina e in giurisprudenza (23).

(21) Cfr. Cass. civ. Sez. V, sent., 12 maggio 2011, n. 10431; Cass. civ. Sez. I, sent., 07 maggio 2009, n. 10553: in specie, in tale ultima pronuncia i Supremi Giudici argomentano l’approdo ermeneutico cui sono pervenuti, osservando che, se fosse necessario un accordo sulle ragioni che hanno dato luogo alla lite, difetterebbero i presupposti per apprezzare la soccombenza virtuale ai fini delle spese. (22) Sul punto, pare appena il caso di rammentare che – ai sensi dell’art. 46 del d.lgs. 546/1922 – la cessata materia del contendere dev’essere dichiarata con sentenza oppure con decreto del Presidente della Sezione, reclamabile al Collegio ex art. 28, d.lgs. n. 546/1992. Anteriormente alla riforma ad opera del d.lgs. n. 156/2015, l’art. 46 individuava le forme della declaratoria nella sentenza o nel decreto, facendo «salvo quanto diversamente disposto da singole norme di legge». La riserva era diretta ad ammettere altre forme recate in speciali disposizioni di legge, quali quelle sui condoni: e difatti, la pronuncia con ordinanza era prevista in ipotesi di definizione delle pendenze per condono di cui alla l. 30 dicembre 1991, n. 413 (cfr. in tal senso, Cass. civ., Sez. VI, 2 dicembre 2014, n. 25453). In ogni altro caso, trovava (e trova) applicazione il principio di prevalenza della sostanza sulla forma degli atti processuali, per modo che la declaratoria di cessata materia – avendo contenuto e vigore di sentenza – era (ed è) suscettibile di impugnazione (v. Cass. civ. Sez. V, sent. 11 giugno 2007, n. 13588). Con la ricordata novella normativa (art. 9 comma 1, lett. q del d.lgs. n. 156/2015), il legislatore ha espunto l’inciso relativo alla “clausola di riserva”, onde confermare che l’estinzione del giudizio in caso di cessazione dev’essere dichiarata con sentenza o con decreto presidenziale (così la Relazione illustrativa, 34 reperita sul sito www.governo.it). (23) In particolare, il dibattito sul tema della natura e degli effetti nel processo civile è stato molto vivace. E invero, in quel sistema processuale, la scaturigine pretoria – pur non riducendo il vitalismo dell’istituto – ha obiettivamente segnato le maggiori asperità nella definizione dei connotati essenziali della fattispecie (e, in specie, nell’individuazione della natura e degli effetti della pronuncia). Si rammenta, difatti, che una parte della dottrina ha attribuito natura processuale alla declaratoria di c.m.c. in ragione del difetto di interesse di entrambe le


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Secondo una prima tesi ricostruttiva, la declaratoria di c.m.c. non avrebbe

parti alla naturale conclusione del giudizio, quale carenza sopravvenuta in pendenza di lite: al riguardo, vedansi G. De Stefano, La cessazione della materia del contendere, Milano, 1972, 16 ss. e 56 ss.; C. Ferri, Struttura del processo e modificazione della domanda, Padova, 1975, 111 s.; E. Garbagnati, Cessazione della materia del contendere e giudizio di cassazione, in Riv. dir. processuale, 1982, 609 ss. Quanto invece alla tesi che riconosceva natura di pronuncia di merito, leggesi in tal senso E. Redenti, Diritto processuale civile, II, Milano, 1957, 287, ove l’Autore riteneva che la deduzione in giudizio della transazione intercorsa fra le parti generi una eccezione di merito (appunto di c.m.c.) a fronte della quale si dà impulso ad un accertamento del giudice; v. anche E. Grasso, Della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali, in Commentario del codice di procedura civile, (diretto da) E. Allorio, I, 2, Torino, 1973, 995; C. Consolo, Il cumulo condizionale di domande, I, Struttura e funzione, Padova 1985, 449, secondo cui la decisione di merito dipende dal venir meno della situazione giuridica sostanziale (oggetto del giudizio di merito); E. Vianello, Note sulla natura delle pronunce che dichiarano la cessazione della materia del contendere, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 698. E ancora, in una prospettiva “relativista” leggesi A. Panzarola, Cessazione della materia del contendere, in Enc. Dir., Agg., VI, Milano, 2002, 224, secondo cui l’operazione di reductio ad unum del fenomeno è destinata a rimanere frustrata in ragione dei molteplici fatti che possono venire in rilievo ai fini della fattispecie processuale de qua; tuttavia si ritiene maggiormente condivisibile la considerazione circa la «concreta incidenza del fatto estintivo sostanziale sul merito della res in iudicium deducta e la sua idoneità indubbia a provocare una pronuncia sulla infondatezza sopravvenuta della domanda». Quanto alla giurisprudenza, si rammenta la Cass., Sez. Un., 28 settembre 2000, n. 1048 (recante una ricognizione dei casi di c.m.c. nel processo civile) intervenuta a risolvere il contrasto esistente fra Cass. sent. 11 marzo 1997 n. 2161 (secondo cui la declaratoria di c.mc. deciderebbe sul merito della controversia, trattandosi di una pronuncia di rigetto della domanda dedotta in giudizio, con la conseguenza che si determina un giudicato sul merito, preclusivo per il lavoratore, della proposizione di un secondo giudizio avente ad oggetto il riconoscimento della computabilità di un diverso ed ulteriore emolumento nella base di calcolo ai fini del T.f.r.) e Cass. sent. 6 maggio 1998 n. 4583 (secondo cui, viceversa, la declaratoria non sarebbe suscettibile di formare un giudicato di merito in ordine alla pretesa sostanziale azionata e quindi non opererebbe il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile). Su tale contrasto, le Sezioni Unite hanno enucleato il principio di diritto secondo cui, nel rito contenzioso ordinario, la cessazione della materia del contendere costituisce una ipotesi di «estinzione del processo» da pronunciare con sentenza (d’ufficio o su istanza di parte) ove non si possa fare luogo alla definizione del giudizio per rinuncia agli atti o alla pretesa sostanziale. Tale pronuncia accerta solo il venire meno dell’interesse e, quindi, non ha alcuna idoneità ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere. Sicché, il giudicato si forma solo sul venir meno dell’interesse, allorquando la relativa pronuncia non sia impugnata con i mezzi propri del grado in cui è emessa (sul punto, vedansi la nota di F. Auletta, Quando si dice che un accordo è meglio di una causa vinta: la moltiplicazione dei diritti dell’attore per effetto della dichiarazione di adesione del convenuto all’originaria pretesa contro di lui, in Giust. civ., 2000, I, 2817). Le Sezioni Unite sono, dipoi, tornate nuovamente sul tema con Cass. civ., Sez. Unite, sent. 18 maggio 2000, n. 368 (con nota di A. Scala, Sulla dichiarazione di cessazione della materia del contendere nel processo civile, in Foro it., 2001, I, 954, nonché con nota di C. Consolo, Cassazione senza rinvio e cessazione della materia del contendere:


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natura di sentenza sul merito (24), in quanto l’accertamento compiuto avrebbe ad oggetto esclusivamente la sopravvenuta carenza di interesse (25), con la conseguenza che la declaratoria in discorso (e/o la valutazione di soccombenza virtuale per la liquidazione delle relative spese di lite) non sarebbero idonee ad acquistare autorità di giudicato sul merito e, come tali, non sarebbero preclusive della riproposizione della domanda. Venendo meno la necessità di una regolamentazione ab externo, si ritiene che la disciplina concreta degli interessi alla luce delle precedenti statuizioni non sia più attuale. Sotto tale profilo, le già ricordate peculiarità della c.m.c. – quale fenomeno lato sensu estintivo – inducono alla conclusione che non è applicabile l’art. 310, comma 2 c.p.c., là dove fa salve le sentenze di merito pronunciate nel corso del giudizio; e la pronuncia di c.m.c. darebbe luogo ad un giudicato con valenza esclusivamente processuale (26). Di diverso avviso è chi sostiene che la sentenza dichiarativa della c.m.c. rechi un accertamento della situazione sostanziale e cioè l’accertamento della rimozione della causa della lite. La sentenza – allorquando ricorra una rico-

prospettive evolutive, in Giur. It., 2001, 1). (24) Cfr. Cass. civ. Sez. Unite, 11 dicembre 2003, n. 18956; ex plurimis, Cass. civ. Sez. III, 31 agosto 2015, n. 17312; Cass. civ. Sez. V, 13 luglio 2016, n. 14258, ove leggesi che – allorquando la declaratoria giunga in sede di legittimità – essa determina (i) la caducazione di tutte le pronunce emanate nei precedenti gradi di giudizio e non passate in cosa giudicata, nonché (ii) la sua assoluta inidoneità ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere. Viceversa, ove sia pronunciata alla stregua di una sentenza che cassa senza rinvio ex art. 382 c.p.c., comma 3 (per improseguibilità della causa) in ragione dell’avvenuta composizione della controversia, la pronuncia in discorso comporta conseguenze di ordine sostanziale sul contenuto delle domande proposte e delle successive sentenze. Quanto alle problematiche che emergono in sede di legittimità sotto il profilo probatorio si rinvia per tutti ad A. Panzarola, Cessazione della materia del contendere, cit., il quale rammenta che l’art. 372 c.p.c. consentendo la produzione di documenti (non depositati nei precedenti gradi) sol ove siano riferibili alla nullità della sentenza impugnata o alla ammissibilità del ricorso o del controricorso. Al riguardo, la giurisprudenza ha negato che si possa incorrere nel divieto di produzione di documenti attestanti il fatto sopravvenuto integrante una fattispecie di c.m.c., sull’assunto che alla sopravvenuta carenza dell’interesse alla definizione del giudizio (i.e. ad una pronuncia sul merito dell’impugnazione) dovrebbe seguire una declaratoria di inammissibilità del ricorso (v. Cass., Sez. Un., sent. 18 maggio 2000, n. 368, cit.; Cass. sent. 6 aprile 2000, n. 5344; Cass. sent. 18 febbraio 2000, n. 1854; Cass. sent. 18 gennaio 2000, n. 489). (25) Cfr. Cass. civ. Sez. V, sent., 15 ottobre 2007, n. 21529. (26) In tal senso leggesi, F. Randazzo, ult. op. cit., n. 12, il quale osserva che il surricordato orientamento di legittimità si porrebbe in frizione rispetto agli effetti che scaturiscono dall’improcedibilità del giudizio rescindente.


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gnizione di tal fatta – esplicherebbe efficacia di giudicato, precludendo nuovi giudizi sul medesimo oggetto, ancorché non sia intervenuta decadenza rispetto al potere di proporre l’azione (27). Sul punto, si condivide l’autorevole tesi secondo cui la sentenza di cessata materia del contendere «accerta la causa (consistente, di solito, in un fatto collocantesi sul terreno del diritto sostanziale) che dà luogo alla cessazione della materia del contendere, onde in questi limiti (ma solo in questi limiti) fa altresì stato tra le parti» (28). 2.4. In via di stretta correlazione alla quaestio iuris concernente l’assimilabilità quoad effectum della declaratoria di c.m.c. alle altre ipotesi di estinzione, per lungo tempo si è discusso circa la spettanza delle spese: e invero, secondo

(27) A. Scala, La cessazione della materia del contendere nel processo civile, Torino, 2002, 151 ss., ove l’Autore si sofferma sulla natura “di merito” della pronuncia di cessazione della materia del contendere nel processo tributario. Più nel dettaglio, nei casi di condono e di conciliazione vi sarebbe l’accertamento della «sostituzione della fonte dei rapporti tra fisco e contribuente» e, in caso di annullamento in autotutela e di pagamento da parte dell’Ufficio nei giudizi di rimborso, la pronuncia recherebbe la verifica della «realizzazione della pretesa del ricorrente». In dottrina, si è anche ritenuto che l’espunzione dall’art. 46 cit. della clausola di riserva relativa alla forma della declaratoria di cessata materia (là dove, nel prevedere la forma di sentenza o di decreto, si faceva «salvo quanto diversamente disposto da singole norme di legge») sia dovuta dalla considerazione che la forma dell’ordinanza non sia appropriata alla declaratoria di cessata materia; e difatti, secondo questa tesi, la forma della sentenza sarebbe congeniale all’accertamento del venir meno dell’oggetto del giudizio, la declaratoria di cessata materia «assumendo quindi sempre una portata ed una rilevanza sostanziale» (così C. Glendi, C. Consolo - A. Contrino, Abuso del diritto e novità sul processo tributario – commento al d.lgs. 5 agosto 2015, n. 218 e al d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, Milano, 2016, 204). Inoltre, F. Tesauro, ult. op. cit., 187, sostiene che gli effetti dell’estinzione per cessata materia si differenziano dall’estinzione per motivi processuali: e invero, secondo questa tesi ricostruttiva, «gli effetti di diritto sostanziale sono determinati dall’evento che ha fatto venir meno la ragion d’essere del processo». (28) V. P. Russo, Cessazione della materia del contendere (diritto tributario), in Enc. Giur. Treccani, VI, Roma, 1988, 2, ove l’Autore esemplifica tale rilievo, rimarcando che «se la materia del contendere viene dichiarata cessata a seguito del pagamento del debito, l’avvenuta effettuazione di quest’ultimo non potrà in seguito essere messa in discussione, ferma restando peraltro la facoltà di colui che ha pagato di agire in ripetizione dell’indebito e se la dichiarazione di cui sopra si collega all’emanazione di un nuovo atto satisfattivo dell’interesse del ricorrente, questo potrà essere a sua volta annullato o riformato ma resterà acquisito per sempre che l’atto primitivamente emanato non può più ritenersi esistente nel mondo giuridico». V. A. Marcheselli, Contenzioso tributario 2015, Ipsoa, 2015, 1188, secondo cui «posto che la declaratoria di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere non comporta gli effetti del giudicato sostanziale, l’ufficio, se ancora nei termini, potrebbe nuovamente notificare l’atto. Per contro, nel caso in cui il contribuente ottenga un giudicato sull’infondatezza della pretesa, la questione sarebbe “coperta”, appunto, da tale giudicato».


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la versione originaria dell’art. 46 cit., le spese dovevano restare «a carico della parte che le aveva anticipate, salvo diverse disposizioni di legge» (29). La norma de qua aveva sollevato dei dubbi di legittimità costituzionale in relazione ai parametri di cui agli artt. 3, 24 e 97 Cost. e, segnatamente, per irragionevolezza rispetto alla disciplina dell’art. 23, comma 7 della l. n. 1034/1971 (là dove la disciplina del processo amministrativo, a fronte dell’annullamento in autotutela dell’atto impugnato, riconosceva al giudice il potere di dichiarare la cessata materia e di provvedere sulle spese). Con la sentenza 12 luglio 2005, n. 274, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 46 cit. nella parte in cui si riferiva alle ipotesi di cessazione della materia del contendere diverse dai casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge, dovendo, pertanto, in tali ipotesi la Commissione Tributaria pronunciarsi sulle spese ex art. 15, del d.lgs. n. 546/1992 secondo il c.d. criterio della soccombenza virtuale: a fronte dell’accertamento del venir meno della res litigiosa, il giudice ha il potere/dovere di effettuare un giudizio prognostico in ordine all’esito del processo (ossia su chi avrebbe avuto torto) se non vi fosse stata la situazione obiettiva che ha dato luogo alla c.m.c., gravando quindi delle spese la parte che – alla stregua di tale valutazione – sarebbe stata soccombente (30). In ossequio al dictum della rammentata sentenza, la riforma introdotta ad opera dell’art. 9, comma 1, lett. q) del d.lgs. n. 156/2015 è intervenuta sulla disciplina delle spese in sede di c.m.c., accollando le spese alla parte che le ha anticipate solo nei casi di definizione delle pendenze tributarie previste dalla legge (quali i condoni). In tutte le altre ipotesi, trova applicazione l’art. 15 cit. secondo il criterio della soccombenza virtuale, salvo compensazione a fronte della soccombenza reciproca oppure della sussistenza di gravi ed eccezionali motivi (31).

(29) Sul dibattito anteriore alla sentenza 12 luglio 2005, n. 274 della Corte Costituzionale, vedansi M. Milanese, Compensazione delle spese di lite nella cessazione della materia del contendere, in Riv. dir. trib., 2003, 9, 763; A. Benigni, Condanna alle spese e responsabilità aggravata nella cessata materia del contendere, in Riv. dir. trib., 2002, 5, 347. (30) Per un commento sulla sentenza della Corte Costituzionale, vedasi C. Glendi, La Consulta boccia la norma sulle spese compensate per cessata materia del contendere, in Corr. Trib., 34, 2005, 2695. (31) Cfr. Cass., ord. 3 aprile 2018, n. 8090, secondo cui «nei casi di definizione delle pendenze tributarie previste dalla legge le spese del giudizio estinto restano a carico della parte che le ha anticipate, dovendo, altrimenti, il giudice di merito, ove non si sia in presenza di definizione di pendenze tributarie previste dalla legge, liquidare le spese secondo il criterio della soccombenza virtuale, salvo che non ritenga sussistenti gravi ed eccezionali ragioni,


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3. Giudizi di rimborso: il rischio che l’iniziativa giudiziaria si risolva in un “nulla di fatto”. – Ciò detto in punto di disciplina, occorre soffermarci sulle peculiarità dei giudizi di rimborso e, segnatamente, sui casi in cui, nell’ambito di tali giudizi, sia predicabile il venir meno della res litigiosa (32). A tal proposito e riprendendo le fila del discorso appena accennato supra, il processo tributario riveste generalmente una struttura formalmente impugnatoria, ma il suo oggetto non è l’annullamento dell’atto. La lite fra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria in tema di rimborso ha ad oggetto non già l’impugnazione del diniego (sia esso atto “espresso” oppure un fatto concludente che diventa atto in ragione di una fictio iuris), vertendo piuttosto sulla condanna dell’Amministrazione finanziaria al rimborso delle imposte per la cui ripetizione si agisce. E difatti, a fronte della proposizione della domanda, sarà il giudice a dover decidere sul merito, accertando il buon diritto al rimborso delle imposte (an) e, quindi, condannando l’Ufficio al quantum debeatur. E difatti, poco senso avrebbe l’impugnazione dell’atto di diniego per motivi meramente formali (quale ad es. il difetto di motivazione), atteso che le ragioni sostanziali relative al disconoscimento del credito rimarrebbero del tutto impregiudicate. Sicché, l’eventuale “demolizione dell’atto” non varrebbe certo a far ottenere il tanto agognato rimborso al contribuente, allorquando quest’ultimo non abbia proposto un motivo sull’an e sul quantum del credito e cioè un motivo avente, quale causa petendi, l’indebito versamento di imposte per errore di fatto o di diritto, per duplicazione o inesistenza dell’obbligo impositivo (33).

espressamente motivate, che giustifichino la compensazione delle spese di lite» (32) Per onor di sintesi, in questa sede, v’è solo da rammentare come, nei casi di azioni di accertamento negativo, la quaestio iuris agitata sia avvertita in misura molto più blanda, atteso che l’annullamento in autotutela dell’atto impugnato (anche per vizi meramente formali) e lo sgravio delle imposte sono atti del tutto idonei a dar luogo alla cessata materia, venendo meno l’“instrumentum” per il cui tramite si manifesta la pretesa erariale. Il problema potrebbe porsi rispetto a ciò che è stato assolto dal contribuente a titolo di riscossione frazionata in pendenza di giudizio, ma al riguardo preme rimarcare che l’Ufficio è tenuto al rimborso d’ufficio entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza e, in caso di inadempienza, il contribuente può esperire l’ottemperanza (art. 68, comma 2 d.lgs. n. 546/1992, come modificato a decorrere dal 1° gennaio 2016, dall’art. 9, comma 1, lett. ff), n. 2), d.lgs. 156/2015). (33) In termini, P. Russo, Cessazione della materia del contendere (diritto tributario), ult. op. cit.; L. Castaldi, Artt. 44-46, in AA.VV., Il nuovo processo tributario, a cura di T. Baglione - S. Menchini - M. Miccinesi, Milano, 1997, 384. In senso conforme, da ultimo vedasi altresì anche M. Busico, L’estinzione del processo tributario, cit., 104 ss., il quale segnala una certa convergenza fra i sostenitori della tesi dichiarativa e i fautori della teoria costitutiva


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Né, del resto, avrebbe valore satisfattivo l’espresso riconoscimento del diritto al rimborso, anteriore all’instaurazione del processo dinanzi alle Commissioni, ben potendo l’Amministrazione finanziaria tardare nell’erogazione delle somme per chissà quanto. Ma come rammentato nel precedente paragrafo in generale, ai fini della declaratoria, il fatto deve avere carattere estintivo/satisfattivo rispetto al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, per modo che venga meno qualsivoglia possibilità di conseguire un ulteriore risultato utile dalla prosecuzione della causa. E difatti, l’istituto processuale della c.m.c. trova fondamento in una vicenda satisfattoria che è idonea ad elidere l’interesse e che si verifica successivamente all’instaurazione del giudizio. Al riguardo, nelle obbligazioni pecuniarie di dare (qual è sicuramente quella relativa all’esercizio del diritto di rimborso), il fatto estintivo per eccellenza è dato dal pagamento delle somme (34).

sulla soluzione interpretativa relativa all’insufficienza del riconoscimento del credito (ancorché si pervenga a tale approdo per differenti vie argomentative). In giurisprudenza, v. Cass., sent. 8.11.2004, n. 21275, secondo cui «il prospetto di liquidazione per il rimborso della imposta non determina la cessazione della materia del contendere in ordine alla somma di cui si prospetta la restituzione. Essendo a tal fine necessaria l’avvenuta esecuzione del rimborso»; nello stesso senso, Cass., sent. 15 novembre 2013, n. 25669, là dove la Suprema Corte si sofferma sull’annullamento del diniego di rimborso, ritenendo che il mero venir meno degli effetti dell’atto «non si traduce nella definitiva realizzazione dell’interesse del contribuente, giacché l’atto di annullamento non contiene l’accertamento relativo al rapporto tributario controverso e alla pretesa sostanziale vantata dall’interessato di siffatta realizzazione; pretesa che, nel caso in questione, si è estesa, sin dal primo grado, alla istanza di condanna dell’amministrazione al pagamento della somma oggetto della richiesta di rimborso». Sull’insufficienza della dichiarazione di desistenza dell’Ufficio ai fini della cessata materia del contendere, cfr. Cass. 12 maggio 2011, n. 10431. Nella giurisprudenza di merito, v. C.T.R. della Lombardia, sent. 20 febbraio 2014, n. 948; C.T.R. della Puglia, sent. 29 aprile 2013, n. 51; C.T.R. della Toscana, sent. 2 ottobre 2004, n. 12. Più di recente, i Supremi Giudici – anche adottando un’impostazione “amministrativistica” del processo tributario – hanno confermato l’anzidetto principio di diritto per ciò che l’annullamento in autotutela del diniego di rimborso non si traduce nella definitiva realizzazione dell’interesse del contribuente, giacché l’atto di annullamento non reca l’accertamento relativo alla pretesa sostanziale di cui all’«istanza di condanna» riversata nel ricorso introduttivo (Cass. sent., 15 novembre 2013, n. 25670). La soluzione esegetica prospettata nella rammentata pronuncia poggia essenzialmente sulla distinzione elaborata dalla giurisprudenza amministrativa secondo cui sarebbe dato distinguere anche nel processo tributario fra cessata materia satisfattiva (allorquando un atto nuovo determini un risultato non inferiore per il ricorrente a quello ritraibile dal giudicato) e cessata materia non satisfattiva (là dove ricorre solo la sopravvenuta carenza di interesse per ciò che l’atto impugnato ha cessato di produrre i propri effetti o, comunque, il processo non possa, per qualsiasi motivo, produrre un risultato utile per il ricorrente). (34) Sotto questo profilo, anche la conciliazione giudiziale (che come è noto è stata estesa


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Per contro, il ritiro dell’atto di diniego oppure il riconoscimento del credito non possono essere considerati fatti impeditivi/modificativi e, come tali, non possono essere rilevanti ai fini della fattispecie di c.m.c., in quanto dette circostanze non possono avere alcuna attitudine ad incidere sul rapporto sostanziale. E invero, l’annullamento o il riconoscimento non risolvono la crisi di cooperazione che nasce dalla mancata restituzione da parte dell’Amministrazione finanziaria delle imposte versate in eccesso dal contribuente e che trova la propria soluzione solo nel soddisfacimento della pretesa. Allo stato attuale, invece, il rischio che i Giudici incorrano in errori interpretativi risente delle peculiarità dei giudizi di rimborso e, in particolare, della complessa disciplina “amministrativa” relativa all’esecuzione dei medesimi. E invero, nelle more del giudizio, può ben accadere che l’Ufficio proceda alla mera “convalida” del rimborso, ancorché tale atto non sia dipoi accompagnato dall’emissione dell’ordinativo di pagamento. Il che significa non avere alcuna certezza nel soddisfacimento del diritto di rimborso, in quanto la convalida è un mero atto interno con cui si certifica – a seguito dei controlli effettuati – la spettanza del rimborso ed è suscettibile di essere annullato (35). L’ordinativo di pagamento, invece, consiste nell’ordine di versamento del rimborso (convalidato e liquidato) emesso a favore del contribuente/creditore, previa predisposizione delle risorse da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze (36). E proprio i tempi di attesa nel reperimento della provvista finanziaria rendono evidente come sia del tutto irrilevante il mero riconoscimento (recte: la convalida) senza l’ordinativo, in quanto l’atto amministrativo

dal d.lgs. n. 156/2015 anche alle liti di rimborso) è causa di cessata materia del contendere. Il che è del tutto coerente con la ricostruzione della fattispecie processuale, sol ove si rammenti che – secondo i documenti interpretativi di prassi (cfr. Agenzia delle Entrate, circ. n. 38/E del 2015) – la conciliazione avrebbe natura novativa e, quindi, avrebbe valenza effettuale estintiva sul rapporto dedotto in giudizio. (35) Cfr. A.d.E. circ. 21.04.2006, “Gestione dei rimborsi II.DD. disposti dall’Ufficio – Guida operativa linea web”, 17-18. (36) Si sottolinea che l’emissione dell’ordinativo dà certezza circa il soddisfacimento della pretesa avanzata dal contribuente, tant’è che la disciplina in materia di rimborsi assume tale momento a termine finale di decorrenza degli interessi (art. 44, d.P.R. n. 602/1973). In tema di procedure interne di rimborso, vedasi Provv. 7-2-2014, “Provvedimento di individuazione dei rimborsi da eseguire mediante procedure automatizzate e di determinazione delle relative modalità di esecuzione”.


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non è sufficiente ad incidere sul rapporto sostanziale (estinguendolo) e, quindi, ad elidere la res decidenda. Sicché, la declaratoria di c.m.c. – a fronte della mera conferma della spettanza del credito da parte dell’Ufficio – non realizzerebbe l’esigenza di tutela richiesta dal contribuente (37), il quale verserebbe in un limbo ad attendere senza aver notizia sicura circa il momento in cui verrà erogato il rimborso. A ben vedere, là dove si pervenisse alla soluzione esegetica opposta (secondo cui, la modifica o sostituzione del diniego influenzerebbe, sic et simpliciter, il giudizio), si finirebbe per ammettere una chiusura del processo nient’affatto (o solo teoricamente) satisfattiva per il contribuente, giacché la pretesa avanzata con l’istanza di rimborso rimarrebbe ancora incerta non già nell’an o nel quantum, bensì in ordine all’effettivo conseguimento delle somme che l’Amministrazione finanziaria ha riconosciuto di dover erogare, non potendosi neppure escludere il perdurare sine die dell’inadempienza. Il tutto si risolverebbe, quindi e in pratica, in un vero e proprio diniego di giustizia con beffa per il contribuente (il quale, pur avendo sostenuto le spese processuali per intraprendere l’iniziativa giudiziaria, non riceve alcuna risposta sulla domanda proposta) e con onta per lo Stato (il quale, pur avendo messo in moto la macchina della Giustizia su impulso del contribuente, non è stato in grado di assolvere compiutamente la funzione giurisdizionale). Secondo una certa giurisprudenza (38), la mera convalida avrebbe un diverso valore. Tale atto, limitatamente al profilo probatorio, sarebbe assimilabi-

(37) Sul punto, Cass., Sez. V, 30 giugno 2016, n. 13382, là dove i Supremi Giudici hanno ritenuto erronea la declaratoria di cessata materia in virtù della nota di sgravio prodotta dall’Amministrazione, atteso che secondo le norme in tema di contabilità generale dello Stato, il dovere dell’Ufficio consiste nelle fasi della ordinazione e della liquidazione che si concludono con l’ordinativo di pagamento per il cui tramite si realizza l’effettiva soddisfazione del beneficiario. (38) C.T.R. della Toscana, sent. 2 ottobre 2004, n. 12, commentata da S. Forni, Ricorso avverso il rifiuto tacito al rimborso di crediti d’imposta: riconoscimento del debito in corso di causa e cessata materia del contendere, cit. Vedasi da ultimo C.T.P. di Lecce, sent. 30.12.2016, n. 3647, secondo cui – pur a fronte del riconoscimento del rimborso da parte dell’Ufficio – «non può trovare accoglimento la richiesta di parte resistente tesa alla declaratoria di cessazione della materia del contendere, in quanto la predetta non ha, ancora, provveduto al rimborso della somma suindicata e, quindi, la materia del contendere non può ritenersi cessata, non essendo sufficiente il riconoscimento della fondatezza della richiesta di parte ricorrente; una eventuale declaratoria di cessazione della materia del contendere priverebbe parte ricorrente degli strumenti processuali necessari per ottenere il rimborso, in caso di perdurante inerzia dell’Agenzia delle Entrate».


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le ad una confessione giudiziale spontanea ex art. 229 c.p.c., vincolando il giudice al risultato probatorio circa l’an e il quantum del credito del contribuente. Tuttavia, la tesi non convince appieno per la ragione che la confessione non può concernere fatti relativi a diritti indisponibili (art. 2733 c.c.); il che si pone in netta frizione con il concetto dell’indisponibilità del credito tributario, ancorché tale dogma, di recente, sia stato messo in discussione da una parte della dottrina a fronte dell’introduzione degli istituti dell’accertamento con adesione e della transazione fiscale (39). Quindi, la mera convalida (o, comunque, il riconoscimento del rimborso dell’Amministrazione finanziaria) senza nessuna attività di realizzazione della pretesa del contribuente non è suscettibile di produrre l’estinzione/modificazione del rapporto sostanziale. A fronte dell’avvenuto riconoscimento, la Commissione deve condannare l’Agenzia con pronuncia suscettibile di formare giudicato in ordine al diritto fatto valere dal contribuente. In ogni caso, il collegio non è esonerato dalla valutazione in iure circa la fondatezza della domanda, tenuto conto della indisponibilità dei diritti nel processo tributario. E difatti, se è da escludere la possibilità di riconoscere la valenza di confessione rispetto alla condotta dell’Amministrazione finanziaria, l’atto potrebbe essere considerato quale mero argomento di prova ai sensi dell’art. 116 c.p.c. (40). Ammettere una limitata efficacia al riconoscimento su un piano probatorio consente di evitare disarticolazioni nel rapporto esistente fra il ruolo delle parti e quello (pubblicistico) del giudice; viceversa, se si attribuisse un effetto vincolante si appaleserebbe la compressione della libertà di valutazione del giudice. L’accoglimento della domanda consente al contribuente di conseguire la rapida formazione del titolo (la sentenza) per ottenere il pieno soddisfacimento del proprio diritto (riconosciuto, ma non realizzato dall’Amministrazione finanziaria). Ciò che può avvenire esperendo il giudizio di ottemperanza

(39) R. Lupi, Insolvenza, fallimento e disposizione del credito, in Dial. Trib., 246, 457; M. Versiglioni, Accordi e disposizione nel diritto tributario. Contributo allo studio dell’accertamento con adesione e della conciliazione giudiziale, Milano, 2001, 203. (40) Sulla rilevanza del comportamento non contestativo nei giudizi vertenti su diritti indisponibili, vedansi A. Proto Pisani, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione nel processo civile, in Foro it., 2003, 607, secondo cui la non contestazione può assumere rilievo «come fatto secondario di origine processuale di cui il giudice ha immediata percezione e da cui (se del caso in concorso con altri fatti secondari) può desumere l’esistenza del fatto ignoto non contestato». Secondo altri, il contegno della parte può essere liberamente apprezzato anche se vengono in rilievo diritti indisponibili, ma non ha efficacia vincolante. In tal senso, F. Santangeli, La non contestazione come prova liberamente valutabile, in www.judicium.it, 20-21.


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rispetto agli obblighi derivanti dalla sentenza (ossia l’esecuzione del rimborso spettante) (41). Venendo quindi ad una sintesi ricostruttiva, nei giudizi di rimborso (che apprestano una tutela di condanna a favore del contribuente/debitore), è dato distinguere due differenti situazioni cui conseguono differenti effetti: 1) ove l’Amministrazione finanziaria convalidi il credito, riconosca in giudizio la fondatezza della domanda di rimborso e dia luogo alle attività realizzative della pretesa del contribuente (ordinativo di pagamento o erogazione), la Commissione deve dichiarare la c.m.c. proprio perché il conflitto nell’attuazione del diritto sostanziale è stato superato dalle parti e, come tale, il rapporto dedotto in giudizio non richiede alcuna regolamentazione ab externo. In altri termini, l’intervento del giudice su una situazione sostanziale mutata in ragione del fatto sopravvenuto sarebbe del tutto sproporzionato e sarebbe addirittura contra ius (in quanto andrebbe a decidere su premesse non più attuali); 2) ove invece l’Amministrazione si limiti alla mera convalida (ed

(41) Sarebbe difficile immaginare l’instaurazione dell’ottemperanza rispetto ad una declaratoria di cessata materia del contendere rispetto alla quale non parrebbe possibile individuare un vero e proprio comando (i.e. gli obblighi che scaturiscono dalla sentenza), tenuto conto della circostanza che la Commissione emette una pronuncia in cui si accerta il fatto sopravvenuto e la sua idoneità a determinare un nuovo assetto sostanziale rispetto al rapporto originariamente dedotto in giudizio. Manca, quindi, una pronuncia espressa o implicita con cui la Commissione condanna l’Amministrazione finanziaria a un facere. In giurisprudenza, cfr. C.T.R. dell’Abruzzo, sent. 12 dicembre 2006, n. 44. In dottrina, P. Russo, Contenzioso Tributario (I agg.), in Dig. Disc. Priv. – Sez. Comm., 1998 556-557, secondo cui «presupposto necessario affinché il giudizio di ottemperanza possa essere esperito è che la sentenza di condanna costituisca titolo esecutivo»; F. Tesauro, Processo Tributario (III agg.), in Dig. Disc. Priv. – Sez. Comm., 2017, 339, secondo cui lo studio del d.lgs. n. 546/1992 (nella versione successiva alla riforma ad opera del d.lgs. n. 156/2015) conduce a ritenere che «l’ottemperanza può essere richiesta non solo in base alle sentenze passate in giudicato (art. 70, d.lgs. n. 546), ma anche, data la immediata esecutività delle sentenze tributarie, per il rimborso di quanto pagato in via provvisoria in misura superiore a quanto deciso con sentenza di accoglimento di ricorsi contro atti impositivi (art. 68, d.lgs. n. 546) e per l’esecuzione delle sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente (art. 69, d.lgs. n. 546)». Secondo un’altra ricostruzione (S. Buttus, Cessazione della materia del contendere e giudizio di ottemperanza, in Giust. Trib., 2, 2007, 384), pur dovendosi riconoscere che la sentenza di cessata materia del contendere «non enuclea una regula iuris del caso concreto valevole nel futuro fra le parti con efficacia vincolante», si sostiene che nei limiti in cui «ad una tale pronuncia possa riconoscersi l’idoneità a divenire cosa giudicata sostanziale, è possibile altresì individuare ambiti di applicabilità per il giudizio di ottemperanza: se, successivamente alla pronuncia, l’amministrazione revocasse il comportamento tenuto ai fini della dichiarazione della cessata materia del contendere, la stessa violerebbe il giudicato e il ricorrente potrebbe agire in ottemperanza per ottenere rimedio a tale violazione».


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a rappresentare tale fatto in giudizio), la Commissione – potendo ritrarre dalla condotta un argomento di prova – dovrà decidere sulla domanda del contribuente, in quanto manca il momento satisfattivo del diritto fatto valere in giudizio (ossia l’esecuzione del rimborso). Altrimenti opinando, la c.m.c. – in difetto di erogazione delle somme riconosciute spettanti – potrebbe consentire all’Amministrazione finanziaria di sottrarsi agli effetti della pronuncia di condanna (i.e. alla possibilità per il contribuente di esperire il giudizio di ottemperanza). 4. Conclusioni. – Alla luce delle considerazioni sopra svolte, risulta chiaro come, in difetto della mancata erogazione del rimborso (o – il che è equivalente – dell’emissione dell’ordinativo di pagamento), ritenere che la declaratoria di c.m.c. possa essere pronunciata in presenza della (poco significativa) convalida del credito si rivela per essere una tesi assolutamente contraria al senso strumentale del processo tributario. Sicché, nei giudizi di rimborso, la sentenza di c.m.c. emessa in difetto di un fatto estintivo e/o satisfattivo (ossia in carenza dei suoi presupposti) si renderebbe impugnabile per violazione della legge processuale ai sensi dell’art. 46 del d.lgs. n. 546/1992, siccome viziata da error in procedendo. Né si pensi che la centralità della funzione giurisdizionale possa essere infranta dalla presenza di altri (presunti) strumenti di tutela “stragiudiziale”, quale quello richiamato dalla giurisprudenza rammentata sub § 1, ossia il Garante del contribuente. E difatti, tale figura – ben lungi dall’incarnare il ruolo dell’ombudsman dei paesi scandinavi – si disvela nel nostro ordinamento quale mero “profeta disarmato” (42): e difatti, il Garante – pur disponendo di poteri di impulso delle procedure di autotutela da parte dell’Amministrazione finanziaria, di richiesta di documenti o chiarimenti agli Uffici

(42) L’espressione calzante è di U. Loi, L’attività del Garante del contribuente dalla sua istituzione, in Rivista dei dottori commercialisti, 2006, 2. Al riguardo, vedasi amplius sulle origini della figura in una prospettiva comparatistica, C. Sacchetto, Il garante del contribuente: prime esperienze in Italia e all’estero, in Riv. GdF., 2005, 523. In termini riduttivi delle funzioni attribuite dallo Statuto del contribuente al Garante, v. F. D’Ayala Valva, Dall’Ombudsman al Garante del contribuente. Studio di un percorso normativo, in Riv. dir. trib., 2000, 1037 ss; L. Salvini, Il garante del contribuente, in Lo Statuto dei diritti del contribuente, a cura di G. Marongiu, Torino, 2004. Sulla valorizzazione dell’istituto nella prospettiva di rafforzamento di un sistema fiscale poggiante sull’adempimento spontaneo e la tax compliance, v. S. Forestieri, Il ruolo del Garante del contribuente: dal dialogo con il Fisco all’attivazione dell’autotutela, in Il Fisco, 31, 2015, 1-3057.


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(a fronte delle segnalazioni dei contribuenti circa disfunzioni, irregolarità, scorrettezze, prassi amministrative anomale o irragionevoli), di accesso agli uffici finanziari nonché di controllo dei servizi (art. 13 Stat. contr.) –, anzitutto, non ha poteri decisori (a differenza del suo omologo svedese) e, quel che è più grave, non ha nemmeno un potere sanzionatorio dell’Ufficio colpevolmente inadempiente.

Giuseppe Mercuri



La funzione della sanzione amministrativa tributaria nel quadro delle dinamiche della tax compliance Sommario: 1. Introduzione. – 2. Considerazioni in merito alla perdurante concezione

della sanzione amministrativa tributaria quale ‘accessorio’ del tributo nel contesto della riforma del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. – 3. La forza dell’interesse finanziario ed i suoi risvolti in sede sanzionatoria…quale spazio per una funzionalizzazione della sanzione in termini special-preventivi? – 4. La sanzione amministrativa tributaria e l’influsso delle esigenze di prevenzione: crisi del principio di colpevolezza ed emersione della dinamica della tax compliance. – 4.1. Modello personalistico e dimensione della colpevolezza nel disegno del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e cause del suo progressivo abbandono nel diritto vivente. – 4.2. Un inquadramento della tax compliance in chiave sanzionatoria. Conferme dell’orientamento del modulo sanzionatorio in chiave special-preventiva? – 4.3. Cenni di sintesi alla luce del modello personalistico del D.Lgs. 472/1997 e dell’inquadramento in termini sanzionatori degli istituti di tax compliance. – 5. I criteri di ascrizione soggettiva dell’illecito tributario nei confronti degli enti collettivi. – 5.1. Con particolare riferimento alle diverse teoriche in merito allo statuto dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269. – 6. Per una rimeditazione dello statuto della sanzione nei confronti di società ed enti: l’opportunità di una configurazione della responsabilità amministrativa dell’ente collettivo orientata a criteri di matrice punitiva. – 6.1. Breve inquadramento delle sollecitazioni di derivazione sovranazionale. – 6.2. …e l’esigenza di una riforma della responsabilità amministrativa tributaria degli enti collettivi. – 6.3. Il modulo punitivo ex D.Lgs. 231/2001 nel mutato contesto degli strumenti di contrasto agli illeciti in campo economico e l’esigenza di una responsabilità ‘per fatto proprio’ dell’ente. – 6.4. Responsabilità sanzionatoria dell’ente per ‘fatto proprio’ ed interrelazione con la dimensione della tax compliance? Considerazioni alla luce dell’istituto dell’adempimento collaborativo. – 7. Cenni conclusivi: la dimensione special-preventiva della sanzione ed il recupero del principio della colpevolezza quali coordinate di un sistema punitivo unitario di stampo amministrativo.

Il contributo prende in esame la disciplina sanzionatoria amministrativa tributaria con l’obiettivo di interrogarsi sulle prospettive per una riforma del modello sanzionatorio amministrativo tributario, improntato al principio della colpevolezza ed orientato in termini di special-prevenzione. Esaminate alcune criticità dell’assetto attuale e considerato il progressivo indebolimento dei principi a fondamento del percorso di riforma delineato a fine degli anni ’90, si prova a recuperare un approccio sistematico alla materia alla luce delle


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mutate coordinate di riferimento dell’esercizio del potere impositivo, improntato anche al modello della c.d. ‘tax compliance’. Si dà conto di alcuni stimoli provenienti dal diritto dell’Unione Europea, che potrebbero costituire l’occasione per avviare un processo di riforma che conduca ad una rinnovata configurazione del sistema sanzionatorio tributario nei suoi tratti essenziali. Ci si sofferma, in ultimo, sui criteri di riferibilità della sanzione nei confronti degli enti collettivi, ragionando sulla possibilità di introdurre una responsabilità amministrativa ‘per fatto proprio’ dell’ente, anche sulla scia dell’esperienza maturata nell’ambito del D.Lgs. n. 231/2001. In this article the Author focuses on the administrative tax penalty regime with the aim of researching upon the prospects for a legislative overhaul, based on the principle of guilt and oriented in terms of special-prevention. In this regard, examined certain critical aspects of the current statutory regime and considered the weakening of the underlying principles that had contributed to the reform in the late ’90s, an attempt is made to recover a systematic approach, also in light of the conceptual framework of the ‘tax-compliance’. Some brief remarks are paid to recently-enacted provisions of EU law, which could trigger a legislative process that could ultimately lead to a renewed configuration of the essential features of the tax penalty regime. Finally, careful attention is devoted to the criteria for imposing administrative sanctions upon legal entities, with a view to investigate whether it could be possible to introduce an administrative liability regime for tax violations, in the wake of the experience drawn from the application of the Legislative Decree No. 231 of 2001.

1. Introduzione. – La comprensione delle coordinate di riferimento della disciplina sanzionatoria amministrativa tributaria costituisce oggi un obiettivo di non facile portata, considerato il sovrapporsi tumultuoso e non ordinato di sollecitazioni di stampo prettamente pretorio e la progressiva frammentazione ed indebolimento dei principi a fondamento del percorso di riforma delineato a fine degli anni ’90. Ciò parrebbe spingere, a prima impressione, verso il definitivo superamento di ogni tentativo di ricerca di un approccio sistematico alla materia, finalizzato ad individuare uno statuto proprio ed autonomo a tale branca del diritto ‘punitivo’ nel più ampio contesto degli strumenti di contrasto agli illeciti economici, con il risultato ultimo di ‘accettare’ che la sanzione amministrativa tributaria assuma una funzione quantomeno ambivalente e, comunque, non compiutamente definita, idonea ad essere plasmata nel ‘diritto vivente’ a seconda delle esigenze contingenti. Le cause profonde di tale fenomeno non appaiono di immediata individuazione, ma traggono origine, in ultima istanza, dal sovrapporsi di una pluralità di processi che sono, da un lato, interni alla disciplina tributaria e, dall’altro lato, originano in una mutata sensibilità al contrasto degli illeciti


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economici nella più ampia dimensione del diritto punitivo complessivamente inteso. In tale contesto di riferimento, tuttavia, l’obiettivo che ci si prefigge è di approfondire tali aspetti con esclusivo riguardo alla dimensione sanzionatoria amministrativa di conio tributario, provando a recuperare, nella misura del possibile, un approccio sistematico alla materia alla luce delle mutate coordinate di riferimento dell’esercizio del potere impositivo, improntato anche al modello della c.d. ‘tax compliance’, nel quale il ruolo della sanzione assume coordinate più sfumate e non immediatamente riconducibili alla logica ‘punitiva’. Come si avrà modo di argomentare, si tratta di una ricerca complessa, considerata la difficoltà di individuare la funzione della sanzione de qua, alla luce di uno statuto legale apparentemente sempre più inadatto a rappresentare le coordinate di fondo in chiave effettuale, così come risultante nel ‘diritto vivente’. D’altro canto, in un’ottica non del tutto assimilabile, l’instabilità della funzione della sanzione amministrativa tributaria risulta aggravata dalla difficoltà di coniugare efficacemente gli istituti del diritto sanzionatorio amministrativo con le esigenze, sempre più pressanti, di tutela degli interessi finanziari, che, come noto, assumono portata centrale in materia tributaria e che hanno l’effetto di imprimere una torsione agli istituti in questione che, a ben vedere, non pare essere pienamente allineata né rispetto agli obiettivi sottesi al modello della c.d. ‘tax compliance’, né rispetto alla tipologia di funzioni che tradizionalmente contraddistinguono lo strumento punitivo in subiecta materia. Soprattutto, si riconosce come le evoluzioni che stanno interessando la disciplina sanzionatoria tributaria di conio amministrativo non possano prescindere dalla precomprensione di alcuni fenomeni ‘interni’ alla materia tributaria. In specie, ci si domanda come conciliare efficacemente la vis punitiva propria dello strumento sanzionatorio a fronte dei cambiamenti che interessano il modulo impositivo, la cui portata applicativa trova massima espressione con riguardo alle società di più grandi dimensioni nell’ambito del meccanismo dell’adempimento collaborativo, ma la cui progressiva estensione sotto altre forme anche con riguardo alle imprese di minori dimensioni ed alle persone fisiche costituisce ormai un dato acquisito. In tale quadro concettuale di riferimento, la materia sanzionatoria amministrativa tributaria costituisce, quindi, un ‘terreno fertile’ di ricerca, in quanto si caratterizza per la stratificazione di un articolato regime punitivo, la cui coerenza, a fronte delle plurime sollecitazioni cui è stato soggetto negli ultimi


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anni, merita di essere sottoposta a rimeditazione critica. È inoltre un settore del diritto tributario in cui si potrebbe prospettare, grazie ad alcuni stimoli provenienti dal diritto dell’Unione Europea, la concreta possibilità di avviare un processo di riforma che conduca ad una rinnovata configurazione nei suoi tratti essenziali. Occorre, quindi, ragionare sulle possibili prospettive di sviluppo che sono conseguenza delle evoluzioni appena accennate, adottando un percorso di ricerca che provi a non obliterare le peculiarità della materia, con particolare riferimento al regime sanzionatorio disciplinato per gli enti collettivi. 2. Considerazioni in merito alla perdurante concezione della sanzione amministrativa tributaria quale ‘accessorio’ del tributo nel contesto della riforma del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. – La tradizionale configurazione della sanzione amministrativa tributaria derivante dalla sistematica del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, come noto, muoveva dal presupposto che godesse di uno status propriamente punitivo, improntato, cioè, a canoni di derivazione penalistica. È, indubbio, infatti come il legislatore avesse inteso nel contesto della riforma attribuire a tale disciplina una precisa funzione afflittiva, appiattendosi su un’impostazione marcatamente penalistica della sanzione tributaria (1). In tale contesto, cioè, pareva auspicarsi un superamento della precedente concezione in termini primariamente ‘risarcitori’ della sanzione amministrativa tributaria, di fatto concepita come forma di ‘finanziamento aggiuntivo’ della spesa pubblica, con l’obiettivo di addivenire, invece, ad una sua funzionalizzazione in vista di finalità retributive e general-preventive, proprie dello strumento punitivo in senso formale. A corollario di tale disegno, il legislatore aveva espressamente riconosciuto l’operatività di svariati istituti di matrice penalistica (2), in primis il principio di legalità in materia di sanzioni tributarie, secondo cui, come statuito all’art. 3, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 il trasgressore può essere assoggettato a sanzione esclusivamente nei casi considerati dalla legge (3), in

(1) Cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2014, 557; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2016, 311. (2) Basti pensare agli istituti di cui agli artt. 9 e 10, D.Lgs. 472/1997, relativi, rispettivamente, alla disciplina del concorso di persone e dell’autore mediato; previsioni chiaramente improntate ad una logica di stampo punitivo. (3) S. Riondato, Sub art. 3, in F. Moschetti-L. Tosi, Commentario alle disposizioni


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continuità con le acquisizioni della Legge 24 novembre 1981, n. 689. Rispondeva, soprattutto, a tale obiettivo di fondo la valorizzazione dei criteri di ascrizione soggettiva dell’illecito orientati ad individuare nella persona fisica autrice della violazione il terminale di riferimento della reazione punitiva, la cui concreta attingibilità a sanzione avrebbe dovuto dipendere da un esercizio di prudente parametrazione e graduazione della sanzione, a seconda della tipologia e gravità della violazione, improntata ai criteri classici di derivazione penalistica. Più nello specifico, in tale modulo la punizione della persona fisica autrice dell’illecito sarebbe dovuta avvenire sulla base di un giudizio che giungesse ad attribuire la condotta vietata al ricorrere di uno stato soggettivo improntato ai canoni della colpevolezza di stampo penalistico, nel quale, cioè, l’imputazione soggettiva del fatto all’agente può essere ammessa soltanto qualora se ne dimostri il dolo o la colpa (4). Malgrado, come accennato, l’impianto della riforma avesse posto al centro del sistema sanzionatorio amministrativo istituti orientati ai canoni di derivazione penalistica, tale opzione teorica è andata incontro a difficoltà sul piano prettamente applicativo, complessivamente tali da snaturarne fortemente alcune caratteristiche essenziali. Peraltro, tale opzione neppure è stata perseguita nel tempo dal legislatore con piena convinzione. Da un lato, non è mai venuto meno l’orientamento che legge in ottica svalutativa le garanzie offerte al contribuente in materia di sanzioni amministrative e che attribuisce loro una funzione di più semplice impiego, in base a considerazioni legate in prevalenza al principio di efficienza nella lotta all’illecito (5), rispetto alle quali le esigenze di tutela a fronte dell’irrogazione di sanzioni afflittive assumerebbero natura recessiva (6). Un tale orientamento origina, in ultima istanza, dalla concezione secondo

generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria, Padova, 2000, 126. In specie, tale Autore evidenzia come il principio di legalità si connoti per tre corollari: la riserva di legge, il principio di irretroattività ed il principio di tassatività-determinatezza. Si veda anche, A. Lanzi-P. Aldrovandi, L’illecito tributario, Padova, 1999, 8. (4) M. Di Siena, Dal velleitarismo preventivo al pragmatismo retributivo: brevi considerazioni in tema di politica punitiva tributaria a margine delle nuove modalità di definizione agevolata delle sanzioni amministrative, in Riv. dir. trib., I, 2010, 1002; M. Pierro, Il responsabile per la sanzione amministrativa tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1999, I, 224 ss. (5) S. Riondato, Sub art. 1, in F. Moschetti-L. Tosi, Commentario alle disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria, cit., 38-39. (6) Su tali profili P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002, 371 ss.


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cui non potrebbe sostenersi l’esistenza di una categoria unitaria in materia di ius puniendi (7), dovendosi necessariamente distinguere tra sanzione penale in senso formale, oggetto delle più penetranti tutele costituzionali offerte dall’art. 25 Cost. e sanzione, per quanto afflittiva, di stampo amministrativo, per la quale opererebbero i più blandi presidi costituzionali enucleati dagli artt. 23 e 97 Cost. (8). Ciò sul presupposto ultimo che tale differenziazione troverebbe giustificazione nella diversità dei beni giuridici tutelati dalle due discipline, considerato che la risposta punitiva di stampo amministrativo non atterrebbe alla tutela delle libertà individuali del reo, ma risponderebbe primariamente all’obiettivo di facilitare l’attività dell’Amministrazione finanziaria di regolare percezione dei tributi, rispetto alla quale le ragioni di garanzia procedimentale del contribuente dovrebbero assumere portata recessiva. Da un altro lato, nella prassi dell’Amministrazione finanziaria non si è mai addivenuti ad una convinta accettazione del fatto che la sanzione amministrativa, in quanto misura ‘afflittiva’, avrebbe dovuto essere irrogata sulla base di un percorso motivazionale che desse puntualmente conto sia delle modalità tramite cui si pervenga alla riferibilità della sanzione in capo ad un determinato soggetto, sia delle ragioni che possano giustificare una determinata graduazione del carico sanzionatorio alla luce delle concrete vicende del caso, in ossequio al principio di colpevolezza. Certo è che, in un’ottica di più ampia portata, tale situazione è stata concretamente favorita dal ricorrere di un insieme di circostanze, le quali, valutate complessivamente, hanno concorso a svalutare grandemente

(7) R. Cordeiro Guerra, Illecito tributario e sanzioni amministrative, Milano, 1996, 6 ss. Sui caratteri della categoria unitaria cfr. F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2013, 870 che afferma che nel genus del diritto punitivo rientra non solo il diritto criminale o penale in senso stretto, ma anche il diritto punitivo amministrativo o, con denominazione già in uso, il diritto penale amministrativo: cioè non soltanto il complesso di norme giuridiche che prevedono quei particolari fatti illeciti per i quali sono comminate sanzioni penali strictu sensu, ma anche quel complesso di norme che prevedono quei fatti illeciti per i quali sono comminate sanzioni extrapenali aventi carattere punitivo. (8) Si veda, a tale riguardo, L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 51 ss. In specie, tale Autore afferma come l’individuazione del volto costituzionale dell’illecito amministrativo costituisca oggetto di un ampio dibattito tra coloro che concepiscono la “materia penale” in senso ampio, come diritto punitivo e coloro che invece ne hanno una visione selettiva, limitata al diritto penale in senso stretto (diritto criminale). In tal senso si vedano anche C.E. Paliero - A. Travi, La sanzione amministrativa, Milano, 1988, 325 ss.; F. Bricola, Tecniche di tutela penale e tecniche alternative di tutela, in Aa.Vv., Funzioni e limiti del diritto penale (alternative di tutela), Padova, 1984, 75 ss.


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l’impronta ‘punitiva’ e personalistica che il legislatore aveva, in una certa misura, indicato quale ‘stella polare’ del processo di riforma delle sanzioni tributarie amministrative nel ’97, e su cui ci si soffermerà meglio nei prossimi paragrafi. Basti al riguardo ricordare la difficoltà di demandare ad un organo amministrativo, primariamente chiamato all’accertamento del tributo, l’ulteriore onere di compiere autonome valutazioni e giudizi la cui effettiva completezza si scontra con le significative limitazioni di ordine probatorio proprie del procedimento tributario e che, in altri settori dell’ordinamento improntati anch’essi ai canoni del diritto punitivo, vengono demandati al vaglio della sola Autorità giurisdizionale. Soprattutto, a spingere per una svalutazione ‘applicativa’ del ruolo della sanzione tributaria e, di conseguenza, della sua funzione secondo le tradizionali coordinate punitive hanno anche militato alcuni istituti deflattivi del contenzioso, tra i cui elementi di maggior ‘successo’ va annoverata l’esistenza, appunto, di meccanismi di riduzione percentuale del carico sanzionatorio, diversamente modulati a seconda delle circostanze, al ricorrere di un’adesione, parziale o totale, da parte del contribuente alla ripresa a tassazione posta in essere dall’Amministrazione finanziaria (9). Sebbene strumenti di tipo deflattivo trovino applicazione anche in altri settori dell’ordinamento – si pensi, ad esempio, all’istituto del c.d. patteggiamento nel procedimento penale (10) – rimane la consapevolezza di come, pur a fronte di un impianto di tipo ‘punitivo’, la sanzione amministrativa tributaria abbia assunto, in una molteplicità di circostanze, una funzione di vero e proprio ‘accessorio’ del tributo, in ultima istanza ‘negoziabile’ nel contesto di uno dei vari procedimenti di definizione della vertenza tributaria che, a più riprese, possono essere attivati dal contribuente nel corso della fase procedimentale o, anche, giurisdizionale. Conferma di una loro intrinseca ‘rimettibilità’ è venuta, da ultimo, dai ripetuti interventi del legislatore che, mosso da valutazioni politiche, a volte di decongestione del sistema della giustizia tributaria, a volte di mera ‘cassa’,

(9) Ci si intende riferire, in questa sede, agli effetti in punto sanzionatorio di una serie disparata di istituti, quali l’accertamento con adesione, la mediazione obbligatoria, la conciliazione e l’istituto della definizione delle sole sanzioni ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. 472/1997. (10) Si veda, sulle criticità di tale istituto, ex multis, G. Mannozzi, Giustizia penale e giustizia riparativa: alternativita’ o destini incrociati?, in Themis, Novembre 2011, 36.


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ha più volte inteso incentivare la chiusura delle liti e vertenze tributarie tra Fisco e contribuenti con l’elisione integrale del carico sanzionatorio, anche in contesti in cui il provvedimento di irrogazione delle sanzioni aveva superato il vaglio giurisdizionale o, addirittura, era andato incontro a definitività. 3. La forza dell’interesse finanziario ed i suoi risvolti in sede sanzionatoria…quale spazio per una funzionalizzazione della sanzione in termini special-preventivi? – Le considerazioni fin qui esposte hanno permesso di evidenziare, sebbene per sommi capi, che, malgrado l’impronta punitiva che ha contraddistinto l’opzione teorica favorita dal legislatore del ’97, perduri una concezione della sanzione amministrativa tributaria quale ‘accessorio’ del tributo, che ha l’effetto di subordinare la funzione afflittiva propria dello strumento punitivo all’interesse finanziario dello Stato alla percezione del tributo. In termini generali, una tale conclusione parrebbe collocarsi in continuità con la ben nota teorica che riconosce alla materia tributaria, complessivamente intesa, una spiccata peculiarità, la cui origine andrebbe ricercata nella centralità dell’interesse fiscale nella dinamica tributaria. Sulla scorta di tale principio sarebbe ammissibile la compressione, anche significativa, di beni della vita di rilevanza primaria, in considerazione della finalità pubblicistica della materia tributaria, preordinata al conseguimento di fini di rilevanza collettiva che possono giustificare previsioni ‘odiose’ o, comunque, tali da dare prevalenza alle ragioni ed agli interessi erariali rispetto a quelli del contribuente. In tale contesto, è difficile negare che in tempi recenti si stia assistendo, specie alla luce delle indicazioni della giurisprudenza Taricco-1 (11), anche ad una sottoposizione delle garanzie proprie dello strumento punitivo alle esigenze di tutela degli interessi finanziari dell’Unione e di effettività delle misure sanzionatorie a presidio degli stessi. Più in generale ancora, va sottolineato che la rilevanza degli interessi erariali – tra cui primeggia il principio del pareggio di bilancio - costituisce ormai acquisizione di portata generale, atta a rappresentare, così come statuito dall’art. 81 Cost., un valore di portata sostanziale, in grado di bilanciare ed, eventualmente, anche comprimere altri valori di portata costituzionale, come negli ultimi anni espressamente riconosciuto nella giurisprudenza della Corte costituzionale (12).

(11) Corte Giust. CE, procedimento C-105/14. (12) Si veda C. Cost., 11 febbraio 2015, n. 10. Per una prima analisi di tale pronuncia si vedano, ex multis, D. Stevanato, Robin Hood Tax tra incostituzionalità e aperture della


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Di per sé, però, una tale conclusione non dovrebbe necessariamente portare ad una radicale svalutazione della funzione afflittiva della sanzione amministrativa tributaria, considerato che la prevalenza dell’obiettivo di tutela dell’interesse erariale potrebbe trovare accoglimento nella sistematica punitiva, per quanto non senza difficoltà ed adattamenti, qualora si abbandoni una visione della sanzione de qua in termini retributivi e la si valuti secondo le lenti delle teorie preventive della pena e, in particolare, in chiave specialpreventiva. In specie, la special-prevenzione vuole assegnare alla pena la funzione fondamentale di prevenire la recidivanza dell’autore del reato. Ora, in sede penalistica, la special-prevenzione è stata declinata quasi esclusivamente sotto il profilo della rieducazione del condannato, anche se, al di là dei pregevoli sforzi di migliorare il rapporto del detenuto con la Società offrendogli le chances del reinserimento sociale, è rimasta sempre in sospeso la risposta al quesito attinente la portata e l’esatta individuazione degli obiettivi di rieducazione valorizzati dal legislatore (13). A tale riguardo, occorre rilevare che la special-prevenzione è concetto che ricomprende sì la rieducazione, ma non pare esaurirsi in essa: se, come prima detto, la special-prevenzione ha per obiettivo che il reo non ricada nel reato, la modalità più congrua per raggiungere questo obiettivo è che il reo comprenda,

Corte a discriminazioni qualitative dei redditi societari, in Corr. trib., 2015, 951 ss.; G. Della Valle, Incostituzionalità della Robin Tax solo pro futuro ed esclusione delle sanzioni, in Fisco, 2015, 2433 ss.; G. Fransoni, L’efficacia nel tempo della declaratoria di incostituzionalità della ‘Robin Hood Tax’, in Corr. trib., 2015, 967 ss.; M. Basilavecchia, Graduale abolizione della ‘Robin Hood tax’, in Corr. trib., 2015, 1979 ss.; P. Boria, L’illegittimità costituzionale della ‘Robin Hood Tax’ e l’enunciazione di alcuni principii informatori del sistema di finanza pubblica, in GT – Riv. giur. trib., 2015, 388 ss. (13) Una lettura di carattere special-preventivo pare avvalorata da quelle teoriche secondo cui occorre sempre più privilegiare, anche in sede penale, le istanze di ‘giustizia riparativa’, in cui l’esigenza di pena viene ad essere mitigata a cagione delle condotte susseguenti al fatto, con le quali il reo abbia dimostrato una volontà collaborativa, di reintegrazione e di riparazione. Su questi aspetti si vedano, ex multis, G. Mannozzi, Pena e riparazione. Un binomio non irriducibile, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di E. Dolcini-C.E. Paliero, Milano, 2006, 1129 ss.; Id., Giustizia penale e giustizia riparativa: alternativita’ o destini incrociati?, cit., 39; M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in Riv. trim. dir. pen. cont., 2, 2015, 236 ss. Per una prospettiva generale si veda Aa.Vv., Verso una giustizia penale ‘conciliativa’. Il volto delineato dalla legge sulla competenza penale del giudice di pace, a cura di L. Picotti-G. Spangher, Milano, 2002. Si veda anche la Relazione di accompagnamento al format presentato dal Tavolo 13 – Giustizia riparativa, tutela delle vittime e mediazione coordinato da Mannozzi.


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tramite l’applicazione della pena, che il reato non paga (14). Su questa traiettoria di pensiero è evidente che il diritto punitivo dell’economia - intendendo per questo non soltanto quello dei tradizionali reati contro gli interessi direttamente economici, ma anche l’ampio settore degli illeciti motivati da fini di profitto, tra cui anche gli illeciti tributari di conio amministrativo – si sta muovendo verso l’uso di ‘pene’ di stretto contenuto specialpreventivo; pene cioè che sottraggono il profitto del reato manifestando in tal modo al reo che l’illecito non paga (15). Tale conclusione va, tuttavia, meglio spiegata e giustificata: non vi è dubbio, infatti, che la tutela degli interessi erariali assume rilievo in materia sanzionatoria in quanto obiettivo – in termini penalistici, vero e proprio bene giuridico – alla cui tutela mira il legislatore tramite la predisposizione dell’apparato di misure sanzionatorie. Un tale approccio riflette in buona sostanza la funzionalizzazione dello strumento punitivo inteso nella sua dimensione fondamentalmente generalpreventiva, finalizzato, cioè, a dissuadere la collettività dei consociati dal porre in essere atti illeciti grazie al deterrente della minaccia dell’imposizione di una sanzione effettiva ed afflittiva. Tuttavia, a ben vedere, una impronta in chiave general-preventiva lascia insoddisfatti: infatti, il presupposto della logica della prevenzione generale insiste sul fatto che la pena minacciata, affinché possa essere effettivamente efficace, deve necessariamente venire eseguita, altrimenti perderebbe definitivamente il suo potere deterrente. In conseguenza, una pena di siffatta natura, al fine di non vanificare gli scopi per cui è stata comminata, deve essere inflitta quanto prima possibile e, pur sempre senza cadere nell’arbitrarietà ed irragionevolezza, venire applicata in una misura gravosa e pienamente afflittiva. Si conferma allora la sensazione, alla luce di tali considerazioni mutuate dal diritto penale – ma che paiono di immediata rilevanza anche nel campo delle misure ‘afflittive’ di matrice amministrativa – che la funzione della sanzione tributaria appaia sfuggente e non pienamente definita: se essa, come brevemente argomentato, non può pianamente essere ricondotta ai canoni della teoria retributiva in considerazione della accentuata connotazione in termini

(14) Cfr. M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, cit., 248. (15) In questo senso, si veda, in generale con riguardo ai reati con fine di profitto, G. Caia, Sull’applicabilità della causa di estinzione del reato per condotte riparatorie in sede di legittimità, in Arch. pen., 1, 2019, 1 ss.


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‘accessori’ al tributo, anche le altre soluzioni secondo le lenti proprie delle teorie preventive della pena non paiono del tutto soddisfacenti (16). In specie, la teoria della prevenzione generale, per quanto a prima vista giustificabile, trova non irrilevanti ostacoli nel fatto che un suo lineare accoglimento da parte del legislatore avrebbe richiesto, prima di tutto, l’ideale abbandono dei meccanismi ‘premiali’ ed ‘incentivanti’, la cui vera finalità appare quella di favorire quanto più possibile il ristoro del danno erariale causato dall’illecito del contribuente, semplificando l’attività di recupero dell’Amministrazione finanziaria in sede procedimentale e processuale. Si delinea, allora, un quadro complessivo che non può che portare l’interprete ad ‘accettare’ che tale tipologia di pena assuma, a seconda delle esigenze contingenti, una funzione quantomeno ambivalente, seppure forse riconducibile, in ultima istanza, ad una funzione special-preventiva. Esigenze punitive, tuttavia, la cui compiuta declinazione pratica soffre grandemente l’influsso e la forza di attrazione della teorica dell’interesse erariale, intesa quale esigenza di addivenire, in qualche modo ed al di fuori di canoni teorici precostituiti, al recupero nella misura massima possibile del gettito fiscale non percetto, anche qualora ciò implichi una ‘corruzione’ e perdita di centro della funzione degli istituti sanzionatori in subiecta materia. 4. La sanzione amministrativa tributaria e l’influsso delle esigenze di prevenzione: crisi del principio di colpevolezza ed emersione della dinamica della tax compliance. – Se, allora, la sanzione amministrativa tributaria conserva una natura quantomeno ambivalente e non compiutamente definita, occorre domandarsi fino a che punto tale stato di cose sia stato, in qualche modo, reso possibile o, almeno, facilitato da debolezze ‘intrinseche’ allo stesso modello punitivo delineato dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. Ci si intende, in altre parole, domandare se e fino a che punto la, prima

(16) In questo senso M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, cit., 247 parla, in sede penale, di ‘delitto riparato’, intendendo “quel delitto dove, dopo la sua consumazione, il soggetto ripara l’offesa (lesione o messa in pericolo del bene protetto) – per es. restituisce la cosa rubata e in aggiunta neutralizza con condotta ulteriore l’offesa della condotta dolosa che la restituzione da sola non annulla, reintegra i beni sociali distratti prima del fallimento, ripristina la verità di un falso documentale, di una diffamazione etc. – oppure comunque offre una volontaria prestazione riparativa in favore della vittima o della comunità, sostitutiva di un’offesa che non sia integralmente o affatto neutralizzabile ex post, dando altresì un contributo volontario e personale al risarcimento dei danni cagionati”.


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enunciata, ‘svolta personalistica’ intentata dal legislatore con il citato decreto, pur effettivamente orientata a canoni punitivi, abbia contestualmente ‘accettato’ l’innesto di alcune previsioni derogatorie, che ne hanno, di fatto, mitigato l’originario inquadramento in termini personalistici, assurgendo così a sintomo del riconoscimento della difficoltà di attuare con compiutezza i criteri di stampo punitivo, specie in ordine alla configurazione dell’elemento della colpevolezza, in subiecta materia. Una tale ricerca, per quanto indubbiamente complessa, e che in questa sede non potrà che essere condotta in termini necessariamente parziali, pare imprescindibile al fine di comprendere se tale status della sanzione amministrativa tributaria trovi origine in caratteristiche ‘interne’ alla disciplina punitiva tributaria. Ciò non solo al fine di valutare la perdurante conformità dello statuto legale al volto effettuale della sanzione, così come applicata nel ‘diritto vivente’, ma al fine di poter saggiare se e quali possano essere le strade per ponderare una eventuale rimeditazione complessiva dello strumento de quo. Rimeditazione che, nello specifico, si intenderà porre in essere avvalendosi delle coordinate di riferimento offerte dal modello della c.d. ‘tax compliance’, inteso quale insieme di istituti finalizzato a promuovere un rapporto di collaborazione tra contribuente ed Amministrazione finanziaria (17). 4.1. Modello personalistico e dimensione della colpevolezza nel disegno del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e cause del suo progressivo abbandono nel diritto vivente. – Tra gli aspetti, come si accennava, maggiormente caratterizzanti la riforma del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 in chiave personalistica stava la valorizzazione del principio di colpevolezza, inteso quale espressione di istanze garantistiche nel contesto di un modulo sanzionatorio di tipo afflittivo, pienamente riconducibile alla logica ‘punitiva’. Espressione forse più interessante di tale opzione ideologica è data dalla disciplina dell’errore ‘sul precetto’, che, come noto, costituisce una figura ‘speciale’ di errore, sostanzialmente sconosciuta in altre branche del diritto

(17) Per una prima introduzione si vedano, senza pretesa di completezza, G. Selicato, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001; L. Strianese, La tax compliance nell’attività conoscitiva dell’Amministrazione finanziaria, Roma, 2014; Lupi, Evasione fiscale, istituzioni e accordi, in Autorità e consenso nel diritto tributario, a cura di R. La Rosa, Milano, 2007, 49 ss.; M. Basilavecchia, La determinazione concordata della ricchezza, in Riv. trim. dir. trib., 2015, 582; G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla Tax Compliance, Torino, 2018.


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punitivo e che si colloca nel novero delle cause di esclusione della colpevolezza (18). Non è chi non veda, infatti, come il legislatore sia stato attento a riconoscere la natura ‘peculiare’ della disciplina sanzionatoria tributaria, nella misura in cui ha statuito – prima di tutto all’art. 6, comma 2, D.Lgs. 472/1997 – la portata di ‘clausola di esclusione della colpevolezza’ all’errore di diritto, al di là dei rigidi requisiti previsti ordinariamente nella disciplina di matrice penalistica e nell’ambito di altri moduli punitivi di matrice amministrativa (19). Peraltro, l’attenzione per la tutela del contribuente a fronte di norme di ‘incerta’ applicazione e, quindi, tali da legittimare una sua esenzione da pena costituisce un aspetto ricorrente nel formante legislativo, come dimostrato dal fatto che, aldilà del citato art. 6, comma 2, previsioni con finalità assimilabili sono contenute all’art. 8, D.Lgs. 546/1992 ed all’art. 10, comma 3 dello Statuto dei contribuenti. Dall’insieme di tali disposizioni si evince con nettezza la consapevolezza del legislatore che, a cagione dei connotati di intrinseca incertezza che contraddistinguono la materia tributaria, soggetta più di altri settori a modifiche normative di frequente e spesso non coordinata introduzione, una lineare applicazione del principio di colpevolezza sul versante sanzionatorio richiede necessariamente l’introduzione di norme ad hoc, tali da garantire che la misura afflittiva venga irrogata soltanto nel rispetto dei principi garantistici propri del principio personalistico di impronta punitiva. Tuttavia, l’esatta individuazione del campo di applicazione di tali norme, così come la loro relazione con il principio dell’ignoranza inescusabile codificato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 364 del 1988 non è priva di incertezze (20). Inoltre, nel diritto vivente pare assistersi ad un sostanziale ‘scolorimento’ ed assimilazione delle esigenze di tutela rafforzate che contraddistinguerebbero l’istituto speciale di matrice tributaria, con l’effetto di ricondurre la sfera di applicazione dell’esclusione della colpevolezza di cui all’art. 6, comma 2, D.Lgs. 472/1997 al novero dell’ignoranza inescusabile, in continuità con i principi statuiti dalla Corte costituzionale nella citata pro-

(18) E.M. Ambrosetti, I reati tributari, in Diritto penale dell’impresa, cit., 474. (19) In parallelo, una norma con finalità assimilabile è prevista all’art. 15, d.lgs. n. 74/2000. A tale riguardo si veda, ex multis, E.M. Ambrosetti, I reati tributari, in Diritto penale dell’impresa, cit., 474-478. (20) E.M. Ambrosetti, I reati tributari, in Diritto penale dell’impresa, cit., 477.


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nuncia del 1988 (21). Soprattutto, tale pregevole sensibilità manifestata dal legislatore per la particolarità della materia sanzionatoria pare recedere innanzi la contrapposta esigenza di non arrecare un eccessivo pregiudizio all’efficacia deterrente della sanzione. Come sostenuto in dottrina, infatti, il rischio legato ad una estesa applicazione dei principi garantistici propri del giudizio di colpevolezza, che demandano all’Amministrazione finanziaria ed al Giudice il compito di muovere al contribuente un addebito a titolo almeno colposo può condurre a “circoscrivere l’area dell’illecito a un numero più contenuto di fattispecie rispetto a quelle che potrebbero individuarsi alla stregua del più ampio criterio della mera coscienza e volontà”, con l’effetto ultimo di allargare l’area di impunità e ridurre, di converso, l’efficacia general-preventiva della sanzione (22). Preoccupazione, quest’ultima, che trova particolare rilievo nell’ambito degli illeciti di stampo economico, rispetto ai quali la sottoposizione a punizione anche con riguardo a comportamenti incolpevoli può essere giustificata sotto l’aspetto dell’efficacia deterrente (23). In questo senso, quindi, la concreta portata applicativa degli anzidetti istituti e, più in generale, la portata cogente del principio di colpevolezza, quale architrave del modello sanzionatorio del ’97, è stata severamente limitata allorché ci si è accontentati negli orientamenti giurisprudenziali di riconoscere la sufficienza, quali parametri idonei sia per la riferibilità sia per la commisu-

(21) Di ciò è forse sintomo la giurisprudenza della Cassazione secondo cui le “obiettive incertezze” nell’applicazione della norma tributaria possono ricorrere allorché, in sostanza, il contribuente versi in una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria e, di conseguenza, si trovi nell’impossibilità “esistente in sé ed accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie” (Cass. civ., 12 luglio 2018, n. 18405). Su tali aspetti si veda M. Cicala, Esclusione delle sanzioni per incertezza della portata della norma tributaria. Brevi note pratiche, in Fondazione Nazionale dei Commercialisti, 15 settembre 2016, 2-6. Peraltro, come rilevato sempre da M. Cicala, Esclusione delle sanzioni per incertezza della portata della norma tributaria. Brevi note pratiche, cit., 6, vi è in giurisprudenza anche una tendenza ad assimilare il giudizio inerente i presupposti per l’applicazione delle fattispecie proprie di “esclusione delle sanzioni in quanto la norma violata è di interpretazione incerta” rispetto a quello adottato con riguardo alle fattispecie tributarie che, invece, “scusano” il contribuente in quanto sia incorso nella infrazione a seguito di una errata o confusa informazione proveniente dal Fisco”. (22) Cfr. G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla tax compliance, cit., 111. (23) Ibidem, 111.


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razione della sanzione sotto il profilo soggettivo, dei soli criteri della coscienza e volontà, obliterando l’esigenza di valorizzare autonomamente anche il requisito della colpa o del dolo. La svalutazione del giudizio di colpevolezza in materia di sanzioni amministrative tributarie è, infatti, l’esito di un percorso giurisprudenziale, la cui origine può forse ricercarsi in una non pienamente ponderata interpretazione del campo di applicazione dell’art. 11, comma 2, D.Lgs. 472/1997, secondo cui “fino a prova contraria, si presume autore della violazione chi ha sottoscritto ovvero compiuto gli atti illegittimi”. A ben vedere, infatti, tale ultima previsione si colloca all’interno delle norme dettate per le società ed enti e, pertanto, ad una lettura sistematica, ha come obiettivo quello di introdurre una mera “presunzione d’individuazione del soggetto potenzialmente colpevole, non già una presunzione di colpevolezza”, con riguardo alle società ed enti non personificati (24). In altre parole, la logica della previsione de qua risponderebbe unicamente alla funzione di facilitare l’attività di controllo ed irrogazione della sanzione dell’Amministrazione finanziaria legittimando, in sostanza, l’individuazione in via presuntiva dell’individuo cui riferire la condotta vietata, salvo prova contraria. Essa, di conseguenza, non legittimerebbe una totale pretermissione del giudizio di colpevolezza inteso in senso pieno, specie in ordine al momento attinente alla commisurazione della sanzione in base all’intensità dell’elemento soggettivo ed andrebbe, pertanto, vista come una semplificazione procedurale a favore dell’Amministrazione finanziaria, che dovrebbe, tuttavia, trovare riscontro in forza di ulteriori verifiche e venire supportata da idonei elementi probatori in sede di giudizio contenzioso (25). Peraltro, tale previsione, per quanto discutibile sotto l’aspetto della limitazione dei principi garantistici propri dei moduli punitivi in senso proprio, può forse essere giustificata e contestualizzata con riguardo agli enti di cui all’art. 11 citato, considerata la ben nota ‘ritrosia’ del legislatore fiscale ad ammettere deleghe di funzioni in materia tributaria, perfino in enti societari complessi. Ciò con il risultato ultimo che tranne in casi particolari a rispondere ‘formal-

(24) In questo senso, F. Batistoni-Ferrara, Sub art. 11, in Aa.Vv., Commentario breve alle leggi tributarie. Accertamento e sanzioni. Tomo II, a cura di F. Moschetti, Padova, 2011, 756. (25) Ibidem, 756.


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mente’ dell’infedeltà dichiarativa o dell’esecuzione dell’atto illegittimo viene comunque posto il legale rappresentante, anche qualora abbia scarsa conoscenza delle questioni sottostanti e si sia affidato a propri sottoposti per porre in essere le valutazioni necessarie, attesa l’inefficacia esterna di eventuali deleghe di funzioni. D’altro canto ed in ultimo, la complessiva non irragionevolezza di tale regime presuntivo trova giustificazione alla luce del fatto, su cui ci si soffermerà funditus nel prosieguo, che i criteri di riferibilità della sanzione nei confronti degli enti collettivi godono di un trattamento spiccatamente derogatorio, che ha l’effetto di annullare, in buona sostanza, l’applicazione della sanzione nei confronti della persona fisica autrice della violazione. Di conseguenza, anche per gli enti non personificati è frequente che la persona fisica autrice della violazione non subisca concretamente gli effetti afflittivi della sanzione a cagione dell’assunzione, anche integrale, del debito da parte dell’ente quale responsabile per la sanzione. A ben vedere, quindi, l’approccio prima accennato, che giunge ad una radicale limitazione del dispiegarsi del giudizio di colpevolezza, tale da obliterare l’indagine sulla sussistenza e sull’intensità dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, non trova diretto riferimento nel dato normativo interno al D.Lgs. 472/1997 stesso e pare, piuttosto, l’esito di un percorso giurisprudenziale, consolidatosi ed affermatosi nel diritto vivente, secondo cui, in ultima istanza, l’elemento soggettivo del dolo o della colpa si dà per presunto, salvo prova contraria da parte del contribuente (26). Ciò malgrado tale conclusione rappresenti un’interpretazione fortemente distonica rispetto a quanto prescrive letteralmente l’art. 5, comma 1, D.Lgs. 472/1997. Tale norma, infatti specifica espressamente che “nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”, demandando

(26) In questo senso si veda, ex multis, Cass. civ., 13 settembre 2018, n. 22329, che afferma sul punto “in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, l’art. 5, d.lgs. n. 472/1997, applicando alla materia fiscale il principio generale sancito dall’art. 3 della Legge 24 novembre 1981, n. 689, stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta, anche, la consapevolezza del contribuente, al quale deve potersi imputare un comportamento quanto meno negligente, ancorché non necessariamente doloso. È, insomma, sufficiente una condotta cosciente e volontaria, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa (o di un intento fraudolento), atteso che la norma pone una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, gravandolo dell’onere di provare il contrario”.


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all’interprete di non limitare l’indagine in punto di colpevolezza alla sola sussistenza dei requisiti di coscienza e volontà dell’autore materiale, ma soffermandosi puntualmente anche sulla dimostrazione positiva circa la sussistenza dell’elemento soggettivo rappresentato, alternativamente, dal dolo o dalla colpa (27), in continuità con il dettato dell’art 3 della L. 24 novembre 1981, n. 689 che costituisce il corpus normativo generale in materia di sanzioni amministrative. Percorso giurisprudenziale, peraltro, in cui il concreto dispiegarsi del giudizio in tema di colpevolezza pone, da un lato, in capo al trasgressore l’arduo compito di dare la prova positiva in ordine all’assenza dell’elemento soggettivo presuntivamente affermato, malgrado le limitazioni probatorie che contraddistinguono il processo tributario rendano ciò ordinariamente di difficile fattibilità. Dall’altro, esso soffre dell’ulteriore limitazione causata da una, spesso significativa, subordinazione delle ragioni garantistiche che lo dovrebbero contraddistinguere alle rigide limitazioni dettate dagli istituti di carattere processuale, propri del giudizio impugnatorio di matrice tributaria (28). 4.2. Un inquadramento della tax compliance in chiave sanzionatoria. Conferme dell’orientamento del modulo sanzionatorio in chiave special-preventiva? – L’analisi fin qui condotta non sarebbe completa se non si desse rilevanza, sebbene necessariamente per sommi capi, alle evoluzioni recenti nei rapporti tra Fisco e contribuenti, che muovono all’insegna dell’obiettivo di addivenire all’instaurazione di un rapporto caratterizzato da lealtà e collaborazione nel contesto di un quadro complessivo di trasparenza orientato ai canoni della ‘tax compliance’. È evidente, pertanto, che occorra testare e verificare se e fino a che punto gli influssi di tale approccio legislativo abbiano risvolti sul versante sanzionatorio e, in tale caso, quale possa ritenersi l’inquadramento teorico più appropriato per interpretare tale complessiva dinamica. In via di prima approssimazione, le finalità della ‘tax compliance’, tra i

(27) Tale inquadramento è ulteriormente avvalorato dal fatto che il legislatore, nei successivi commi del citato art. 5, si dilunga a dettagliare i casi e le condizioni al cui ricorrere l’autore materiale ha agito in colpa grave o per dolo. (28) Basti al riguardo prendere in considerazione l’orientamento della giurisprudenza secondo cui parte ricorrente ha l’obbligo, fin dal ricorso introduttivo, di porre in essere una articolata deduzione nei motivi di ricorso delle censure fondate su aspetti sanzionatori. In questo senso, ex multis, Cass. civ., 19 giugno 2015, n. 12768.


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cui esempi più recenti si colloca l’istituto dell’adempimento collaborativo, mira, tramite meccanismi di controllo amministrativo ex ante, a facilitare l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria grazie all’imposizione di oneri di trasparenza e leale collaborazione in capo al contribuente per quanto riguarda le decisioni fiscali, garantendo, per altro verso, al contribuente una tendenziale maggiore certezza nei rapporti con il Fisco, oltre ad una strutturale riduzione della sfera di rischio tributario. Come noto, un tale approccio si iscrive nel solco di un percorso normativo che ha trovato nuova linfa negli ultimi anni a livello domestico – venuti meno i presupposti della ‘legislazione di emergenza’ del 2011 – e che affida all’Amministrazione finanziaria un ruolo di promozione della tax compliance, di fatto accantonando la visione che inquadra i rapporti tra Fisco e contribuente unicamente in chiave ‘autoritativa’ e ‘repressiva’ (29). Come si evince immediatamente, l’insieme degli istituti che possono essere ricondotti a grandi linee a tale schema di riferimento è di ampia portata e difficilmente riconducibile ad unità; pertanto non se ne intende qui offrire una ricostruzione sistematica, ma unicamente soffermarsi su alcuni di essi per metterne in luce gli aspetti di interesse per quanto concerne l’indagine che si sta portando avanti. L’assenza di un quadro unitario si riflette anche sul versante sanzionatorio, in cui si assiste alla mancanza di una disciplina uniforme e coordinata che valorizzi le peculiarità di tali istituti di più recente conio rispetto all’ordinario dispiegarsi del modulo sanzionatorio nel modello impositivo tradizionalmente inteso; da ciò si è fondatamente sostenuto in dottrina l’esigenza di una valutazione di tale fenomeno anche secondo le lenti del diritto punitivo, al fine di comprendere se ne sia postulabile una ricostruzione in termini sistematici, alla luce delle direttrici proprie del campo punitivo. Una tale analisi richiede di tracciare una fondamentale differenziazione tra gli istituti di tax compliance, a seconda dei loro destinatari ‘tipici’, intendendosi con ciò mettere in luce una demarcazione che permetta di dare giustificazione al regime sanzionatorio in funzione della tipologia di contribuenti che il singolo istituto ha ordinariamente come terminale di riferimento (30).

(29) J. Freedman-G. Loomer-J. Vella, Corporate Tax Risk and Tax Avoidance: New Approaches, in British Tax Review, 1, 2009, 624. (30) G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla tax compliance, cit., 16-17; G. Melis, Tax compliance e sanzione tributaria, in Rass. trib., 2017, 751 ss.


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Tale approccio pare il più fecondo in chiave punitiva, in quanto in grado, meglio di altri criteri discretivi, di dare ragione dell’eventuale trattamento afflittivo prescelto dal legislatore alla luce degli obiettivi di politica punitiva ad esso sottesi; obiettivi che non possono evidentemente prescindere, ma anzi presuppongono necessariamente, la precomprensione circa il destinatario cui la fattispecie sanzionatoria si rivolge, altrimenti venendosi a perdere, o almeno a depotenziarsi grandemente, la funzione propria – sia essa retributiva, general o special-preventiva – che imprescindibilmente innerva qualsiasi strumento punitivo. In questo senso, allora, a parametro di riferimento può validamente assumersi la circostanza se l’istituto si rivolge alla generalità dei contribuenti e, in buona misura, può essere ricondotto all’insieme degli istituti di derivazione statutaria, oppure se trova come destinatario naturale il contribuente che opera in forma d’impresa e, più nello specifico, se appartiene alla dimensione della grande impresa, primariamente di stampo multinazionale. Ciò sul presupposto – su cui ci si soffermerà a breve - che nella logica di contrasto all’illecito di stampo economico in campo tributario il fenomeno della responsabilità dell’impresa gode già di un regime sanzionatorio con tratti di profonda autonomia rispetto alle coordinate punitive dettate dal D.Lgs. 472/1997 e richiede, pertanto, di essere analizzato a partire dalle sue specificità nel quadro generale della disciplina punitiva vigente dettata dall’art. 11, D.Lgs. 472/1997 e dall’art. 7, D.L. 269/2003. Venendo allora all’indagine degli istituti di portata generale, importanza centrale assume l’istituto del ravvedimento che, nella versione post riforma, è stato disciplinato, come noto, all’art. 13, D.Lgs. 472/1997. La funzione di tale misura costituisce oggi questione controversa, considerato il fatto che essa contribuisce a determinare una significativa riduzione del carico sanzionatorio a fronte di due macro-tipologie di situazioni tra loro non assimilabili. Tale istituto risponde infatti, prima di tutto all’esigenza di garantire al contribuente che si adopera spontaneamente per regolarizzare la propria posizione con il Fisco, nella più parte dei casi a mezzo di dichiarazione integrativa ‘a sfavore’, una riduzione degli effetti sanzionatori sfavorevoli altrimenti connessi a tale disclosure, posto che, come noto, l’emersione del maggior debito erariale di per sé non conduce all’elisione dell’illecito amministrativo a cui presidio è posta la disciplina sanzionatoria de qua (31).

(31)

G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla


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Il campo di applicazione del novellato ravvedimento operoso è, tuttavia, più ampio, in quanto l’accesso al beneficio della riduzione sanzionatoria non trova più limite, almeno con riguardo ai tributi amministrati dall’Agenzia delle Entrate, nell’inizio delle attività di controllo e neppure nell’avvenuta constatazione della violazione in sede di processo verbale di constatazione, potendo così il contribuente godere di un significativo ridimensionamento della sanzione anche in un contesto in cui egli non ha inteso dare corso ad alcun comportamento trasparente o collaborativo, ma si è limitato ad accettare l’esito della ripresa a tassazione nei suoi confronti, sostanziatasi con la presentazione della dichiarazione integrativa a sfavore, il pagamento del tributo e della relativa sanzione in misura ridotta. Si tratta, come noto, di un tratto distintivo dell’istituto in questione, la cui rilevanza sistematica in ottica punitiva non può essere sottaciuta considerata la portata tendenzialmente generale nei confronti della platea dei contribuenti ed il suo notevole ricorso in termini applicativi. Evidente, fin da subito, come tale previsione dia conferma di una funzionalizzazione della sanzione amministrativa in termini non general-preventivi: non è chi non vede, infatti, come la possibilità del contribuente di ottenere una riduzione della sanzione nei termini di cui all’art. 13 citato, anche qualora la violazione sia stata rilevata e constatata dai verificatori, non si colloca linearmente in un modulo punitivo che mira alla fedeltà fiscale del contribuente tramite la minaccia di sanzioni effettive e dissuasive (32). La corretta individuazione del termine di riferimento in chiave teorica di tale modulo sanzionatorio va allora ricercata valorizzandone i requisiti di accesso, che subordinano il godimento del ridimensionamento in punto sanzionatorio al pagamento in via immediata del tributo e della sanzione ridotta e, soprattutto, alla presentazione di dichiarazione integrativa, con la quale il contribuente, in ultima istanza, manifesta formalmente il riconoscimento della legittimità della pretesa fiscale erariale e concorre, in spirito di collaborazione, all’eliminazione dell’illecito. In questo senso, allora, pare che la lente di riferimento offerta dalla spe-

tax compliance, cit., 54. (32) G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla tax compliance, cit., 43. In posizione critica rispetto al meccanismo del ravvedimento operoso in punto sanzionatorio si veda, in particolare, D. Conte, Il gene mutante del ravvedimento operoso ed i suoi effetti sul nuovo modello di attuazione del prelievo, in Riv. dir. trib., I, 2015, 443 ss.


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cial-prevenzione possa costituire la migliore chiave di lettura dell’istituto in questione: da un lato, il legislatore si sincera che tutto il profitto dell’illecito sia immediatamente sottratto al contribuente, subordinando l’applicazione della misura sanzionatoria ridotta al pagamento integrale del tributo dovuto, oltre che della sanzione stessa e, così, garantendo il conseguimento di una definitiva riparazione, ristabilendo la situazione giuridica pregiudicata dal reo (33). Da un altro lato, si invera anche l’ulteriore fine di rieducazione a cui mira, come prima visto, la logica della special-prevenzione, che si sostanzia, oltre che nel pagamento immediato di quanto dovuto – con il quale si dimostra al reo che l’illecito non paga – soprattutto nel riconoscimento da parte di quest’ultimo della devianza della propria condotta; il che si attua precipuamente con l’assolvimento dell’obbligo di presentazione di idonea dichiarazione integrativa atta a recepire i rilievi mossi dall’Amministrazione finanziaria (34). Pare anche che la valorizzazione del principio di colpevolezza venga in questo istituto pienamente mantenuta: infatti, pur avendo il contribuente posto in essere una violazione colpevole della disciplina fiscale – e, perciò, ponendosi ab origine rispetto all’ordinamento nella medesima posizione in cui si troverebbe qualsiasi altro contribuente che non intenda ‘ravvedersi’ – egli, effettuando la dichiarazione integrativa e versando il dovuto, abbisogna di una minor ‘pena’ e, pertanto, gode di un trattamento sanzionatorio particolarmente favorevole. Ciò dà giustificazione, in ultima istanza, della sussistenza

(33) Cfr. G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla tax compliance, cit., p. 53 che, pur collocando l’istituto in esame in una logica “rieducativoriparatoria”, conclude come esso risponderebbe “a una logica diversa dalla prevenzione speciale”, in quanto, diversamente dalla funzione special-preventiva della sanzione l’interesse prevalente sarebbe quello di favorire l’instaurazione “di un rapporto di reciproco affidamento, in forza del quale il contribuente opti per la collaborazione (in concreto: per la correzione della dichiarazione).” Similmente, con riguardo alla disciplina penale si veda M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, cit., 248, che sottolinea come “nel caso del delitto riparato, peraltro, avremmo una figura generale di titolo autonomo di reato, una degradazione sanzionatoria che prevede pur sempre una pena, anche se fortemente attenuata”. (34) Certo un tale approccio non può obliterare anche i rilevanti vantaggi a favore dell’Amministrazione finanziaria che esso garantisce. Basti pensare, come rilevato in dottrina, al fatto che il ravvedimento operoso nella sua versione post riforma da un lato garantisce un “incremento del numero delle posizioni vagliate, rispetto a quelle astrattamente attingibili in base alla capacità operativa degli uffici” e, dall’altro, offre “una riduzione dei costi dell’ulteriore attività resa in tale modo superflua, anche nell’ottica della liberazione di margini di operatività per il contrasto delle forme di evasione sottoposte a controllo […]” G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla tax compliance, cit., 43).


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di una declinazione del giudizio di colpevolezza nella fase della graduazione dell’illecito, nel contesto di una funzionalizzazione della sanzione in ottica spiccatamente special-preventiva (35). A logiche differenti paiono doversi ricondurre, invece, le principali tipologie di interpello risultanti dalla complessiva riforma del D.Lgs. 156/2015, a cui si può assimilare anche l’ipotesi di non punibilità delineata dall’art. 10, comma 2 dello Statuto dei contribuenti. In tali circostanze, infatti, l’elisione del carico sanzionatorio a vantaggio del contribuente non origina, a ben vedere, dal medesimo nucleo concettuale degli istituti appena visti, ma richiama, nei suoi termini essenziali, una concezione della sanzione orientata ai canoni della colpevolezza. Non sarebbe, in altre parole, tanto la dinamica di collaborazione e trasparenza nei rapporti tra contribuente ed Amministrazione finanziaria a costituire la giustificazione di tali ipotesi di non punibilità, quanto, piuttosto, il riconoscimento, su coordinate non dissimili da quelle, prima viste, che informano l’istituto dell’errore sul precetto, che l’errore causativo del danno all’Erario ha inciso sul processo di formazione della volontà – colpevole o dolosa – del contribuente. In sostanza, tale nucleo di fattispecie parteciperebbe, insieme con le ipotesi di obiettiva incertezza della norma e di ignoranza inescusabile della stessa, ad una comune logica finalizzata ad escluderne la rilevanza sotto il profilo punitivo per assenza di colpevolezza, ma se ne differenzierebbe quanto alle cause di innesco, considerato che nelle ultime la sanzione verrebbe meno a cagione di un ‘difetto’ riconducibile, a grandi linee, al formante legislativo, mentre nelle altre sarebbe conseguenza di un’indicazione proveniente dall’Amministrazione finanziaria, rispetto alla quale il contribuente ha diritto a fare pieno affidamento (36). In altre parole, di nuovo la dimensione del principio di colpevolezza trova espressione piena: l’atteggiamento colpevole del contribuente fin dall’inizio è assente e, pertanto, non vi può essere alcuna esigenza di pena.

(35) Conclusivamente, a favore della natura riparativa della ‘pena’ si veda M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, cit., 248, che sottolinea come l’obiettivo di tale modello di giustizia riparativa “non ha valenza solo esimente, dunque, ma il suo obiettivo generale è quello di una riduzione complessiva del male per autore e vittima insieme, non certo il raddoppio del male, senza vantaggi per nessuno, o l’impunità senza condizioni […]”. Similmente, G. Mannozzi, Pena e riparazione. Un binomio non irriducibile, cit., 1163. (36) M. Cicala, Esclusione delle sanzioni per incertezza della portata della norma tributaria. Brevi note pratiche, cit., 3-4.


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In ultimo, merita segnalare come in una logica forse non del tutto differente da quella che contraddistingue l’istituto del ravvedimento operoso possa essere, invece, collocato l’istituto dell’interpello di tipo disapplicativo, che merita, quindi, di essere brevemente approfondito per quanto concerne le conseguenze in punto sanzionatorio in caso di omessa presentazione preventiva dell’istanza. Senza voler qui soffermarsi sulle complesse questioni problematiche che tale disciplina ha sollevato nel quadro della riforma degli interpelli di cui al D.Lgs. 156/2015, è previsto, infatti, che la mancata formulazione dell’interpello disapplicativo costituisca un comportamento meritevole di sanzione di per sé, indipendentemente, cioè, dal fatto che la norma sostanziale – per la disapplicazione della quale non si è presentata l’istanza di interpello in via preventiva – venga comunque fatta oggetto di disapplicazione all’esito dell’eventuale istruttoria precedente l’emissione dell’avviso di accertamento; ciò sul presupposto fondamentale che in tali circostanze si vorrebbe tutelare prima di tutto l’interesse del Fisco a ricevere in via preventiva la segnalazione circa la potenziale abusività di un determinata condotta che il contribuente intende porre in essere, al fine di facilitare più efficaci e puntuali controlli. Certo una tale disposizione sanzionatoria richiede soprattutto, per poter essere ponderata adeguatamente, la precomprensione e valorizzazione delle ragioni di tutela degli interessi erariali che sono a fondamento delle norme con finalità antielusiva e, in una chiave più ampia, manifesta la preoccupazione dell’Amministrazione finanziaria di garantire la sussistenza di un insieme di presidi, anche sotto il versante sanzionatorio, atti a rafforzare l’intelaiatura di contrasto alle forme di abuso ed elusione, come noto particolarmente insidiose e di non facile individuazione e contrasto. Di ciò è testimonianza anche il fatto che, allorché il legislatore penal-tributario è intervenuto nel 2015 per sancire l’irrilevanza sul piano penale delle condotte elusive e dell’abuso del diritto all’art. 10-bis, l. 212/00 (37), ha, nel contempo, confermato che per tali fattispecie permanesse la legittimità dell’applicazione della sanzione amministrativa tributaria prevista per la dichiarazione infedele, così implicitamente sancendo che condotte non assimilabili sotto il profilo della pericolosità sociale - la dichiarazione infedele in conseguenza di un comportamento evasivo

(37) Ex multis, F. Gallo, L’abuso del diritto nell’art. 6 della Direttiva 2016/1164/UE e nell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente: confronto fra le due nozioni, in Rass. trib., 2018, 271 ss.


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oppure abusivo - venissero, di fatto, assoggettate ad un medesimo tipo di risposta punitiva (38). Ciò detto, pur a fronte di tali aspetti di peculiarità che paiono innervare in profondità gli istituti sanzionatori de quibus e che danno testimonianza di un ‘sottoinsieme’ sanzionatorio proprio alle fattispecie di contrasto alle forme di abuso ed elusione caratterizzato in termini marcatamente general-preventivi, può riconoscersi che il trattamento sanzionatorio collegato all’omessa presentazione dell’interpello disapplicativo può anche essere letto, almeno in parte, in termini di tipo special-preventivo. Infatti, l’irrogazione della sanzione, anche nel caso in cui la disapplicazione venga infine concessa dall’Amministrazione finanziaria nel corso dell’istruttoria, andrebbe compresa e giustificata come espressione dell’autonomo disvalore che il legislatore manifesta per la condotta del contribuente che, pur messo di fronte alla possibilità di impedire l’offesa all’interesse salvaguardato dalla fattispecie de qua, persegue consapevolmente una strada di ‘maggior pericolosità sociale’, così aumentando il rischio di una lesione al bene giuridico protetto e ponendosi su una strada di rafforzamento del proprio proposito antigiuridico. 4.3. Cenni di sintesi alla luce del modello personalistico del D.Lgs. 472/1997 e dell’inquadramento in termini sanzionatori degli istituti di tax compliance. – Alla luce delle analisi fin qui esposte si è evinto che l’impalcatura originaria del D.Lgs. 472/1997 offrisse appigli importanti a favore di una sua qualificazione – almeno nei confronti delle persone fisiche - in termini personalistici e mirasse compiutamente ad una attenta valorizzazione del principio di colpevolezza quale criterio guida per l’applicazione della sanzione amministrativa tributaria sotto il versante soggettivo. Si sono mostrati in precedenza gli aspetti per i quali l’avvicinamento delle sanzioni amministrative tributarie a tale modello è in una certa misura naufra-

(38) G. Ragucci, La riforma delle sanzioni amministrative tributarie, in Aa.Vv., Per un nuovo ordinamento tributario, a cura di G. Glendi, G. Corasaniti, C. Corrado Oliva, P. De Capitani di Vimercate, Tomo II, 2019, 1551, in cui si evidenzia come “i primi commentatori hanno rilevato criticamente che tale disciplina non consente di graduare la risposta punitiva a fronte di condotte caratterizzate da un diverso grado di pericolosità sociale, posto che solo nell’evasione si riscontra un inadempimento dell’obbligazione d’imposta riconducibile alla violazione del precetto. E’ tuttavia chiaro che, alla base, v’è una fondamentale sottovalutazione – certo indotta dalle caratteristiche della condotta abusiva – del principio di tipicità dell’illecito, corollario di una riserva di legge che soltanto una chiara delimitazione delle condotte vietate avrebbe potuto soddisfare”.


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gato, in ragione, da un lato, di una sua funzionalizzazione in chiave di ‘accessorietà’ a servizio del recupero del tributo non pagato e, dall’altro, delle spinte derivanti dal ‘diritto vivente’, che hanno in misura significativa depotenziato la rilevanza del principio di colpevolezza a cagione di un utilizzo praeter legem del meccanismo della presunzione di colpa, in via distonica rispetto alle intenzioni e al dettato letterale dell’art. 5, D.Lgs. 472/1997. Una tale configurazione complessiva del sistema non ha portato, però, ad una pretermissione della funzione afflittiva della sanzione amministrativa né al recupero delle categorie risarcitorie civilistiche; da ciò discende la consapevolezza che il modulo sanzionatorio amministrativo costituisce tuttora espressione di una reazione all’illecito tributario in chiave prettamente punitiva, sebbene fortemente orientata alla tutela degli interessi erariali. Risposta afflittiva, tuttavia, che pur richiamando concezioni di matrice preventiva, pare inadatta a farsi ricondurre linearmente nel prisma delle teorie general-preventive. Ne offre prova evidente, come argomentato, la presenza nel sistema procedimentale e processuale di stampo tributario di una costellazione, variamente modulata, di meccanismi ‘premiali’ ed ‘incentivanti’, che riconnettono al recupero del debito erariale la mitigazione del carico afflittivo nei confronti del contribuente, il cui attuarsi pare incompatibile con la funzione stessa della pena in chiave general-preventiva. Residua, allora, una configurazione del sistema sanzionatorio verso canoni recuperatori sì, ma pur sempre orientati in ottica punitiva, secondo un modello riconducibile, a grandi linee, alla special-prevenzione. Tale conclusione non è priva di incertezze; certo, vi è la sensazione di un ordito complessivo in cui la finalità della pena ha come obiettivo ultimo la rieducazione del reo tramite la sottrazione integrale del profitto illecito e nel quale, comunque, il rispetto del principio di colpevolezza non pare obliterato. Conferma di ciò si ha dall’analisi di determinati istituti di tax compliance, la cui applicazione nel sistema tributario sembra preludere ad una ancora più netta caratterizzazione della sanzione in termini ‘riparatori’, tesa sempre più alla rieducazione dell’autore ed al ripristino della situazione giuridica da quest’ultimo pregiudicata. Al centro del sistema affiora quindi una tipologia di sanzione a forte connotazione di stampo special-preventivo; è certo che l’autore dell’illecito: i) non deve trarre profitto dalla violazione, rendendosi conto ineludibilmente che esso non paga (fine special-preventivo); ii) può aderire spontaneamente all’obbligo violato, traendone beneficio in ordine alla misura delle sanzioni. Anche in questo caso l’obiettivo della premialità è far comprendere al con-


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tribuente il vantaggio dell’osservanza della norma e lo svantaggio della devianza, con l’ovvio perseguimento del fine special-preventivo. Chi aderisce spontaneamente mostra di inserirsi in una logica prospettica di non recidivanza nell’illecito, avendo compreso che l’adesione al dettato della legge – compliance – è più conveniente della lesione ai valori da essa rappresentati e, pertanto, ha un minore bisogno di pena (39). D’altra parte, e in ultimo, un tale orientamento potrebbe condurre ad una più lineare sistematizzazione dei confini ‘interni’ e dei relativi spazi di manovra del complessivo sistema punitivo, inteso nella sua dimensione amministrativa e penal-tributaria. Se, infatti, l’ingresso nel diritto punitivo di conio amministrativo di forme di reazione fondate sul criterio della riparazione non mette in discussione il carattere punitivo della reazione, comunque riconducibile a grandi linee a canoni special-preventivi, ad essere messa in discussione potrebbe allora essere la perdurante legittimità di un modulo penale, i cui tratti essenziali si stanno avvicinando, in primis tramite le cause di esclusione della punibilità e le previsioni confiscatorie, a funzioni proprie del diritto sanzionatorio amministrativo, ‘barattando’ così le esigenze retributive proprie dello strumento penale in senso formale con l’interesse recuperatorio di derivazione amministrativa, già da tale settore del diritto autonomamente presidiato. Si tratta, come evidente, di questioni che necessiterebbero di ben altro approfondimento; tuttavia, vi è la sensazione che una tale prospettiva consentirebbe di superare le difficoltà in cui si trova oggi il complessivo sistema punitivo. Il quadro presenta infatti un affollamento, non adeguatamente coordinato, delle fonti e delle ipotesi punitive con il rischio ultimo di pregiudicare definitivamente la ragion d’essere dello stesso principio del ‘doppio binario’ nei rapporti tra sanzioni in campo tributario e determinare, così, l’attuarsi di cumuli punitivi di dubbia compatibilità con i principi costituzionali, eurounitari e convenzionali. Ne dovrebbe, in conclusione, discendere l’esigenza di una funzionalizzazione della pena in chiave special-preventiva che, da un lato, miri al recupero del tributo sul versante sanzionatorio amministrativo – ma sempre sulla base di un giudizio attento alla dimensione della colpevolezza – e, dall’altro, focalizzi l’intervento di matrice penale in chiave di extrema ratio, modulandolo

(39) Cfr. G. Mannozzi, Pena e riparazione. Un binomio non irriducibile, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, cit. 1163.


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verso canoni che, pur attenti a ponderare efficacemente le esigenze generalpreventive con i principi di proporzionalità, anche di derivazione sovranazionale (40), sia orientato primariamente alla rieducazione del reo, tramite un plesso di misure che vedono nella riparazione dell’illecito e nel recupero della devianza gli obiettivi fondamentali della risposta punitiva. Risultato, quest’ultimo, che pare porsi, in ultimo, in continuità con l’obiettivo che il legislatore ha inteso manifestare proprio nel contesto della riforma del 2015 anche sul versante penal-tributario, teso, come noto, a delimitare la sfera di intervento penale verso le sole fattispecie caratterizzate da un più elevato grado di offensività. 5. I criteri di ascrizione soggettiva dell’illecito tributario nei confronti degli enti collettivi. – L’analisi che si sta portando avanti non potrebbe essere soddisfacente se non si prestasse attenzione al rilievo della disciplina sanzionatoria amministrativa applicabile nei confronti di società ed enti, con o senza personalità giuridica, contraddistinta, come noto, da profondi tratti di ‘autonomia’ rispetto alle coordinate fin qui delineate. Infatti, si è fin dall’origine assistito ad un significativo temperamento del principio personalistico, come dimostrato dalla incerta collocazione sistematica dei criteri di riferibilità soggettiva previsti dall’art. 11, D.Lgs. 472/1997 per le società di persone ed enti privi di personalità giuridica (41). Soprattutto, la ‘devianza’ rispetto al modulo personalistico si è resa ancora più evidente con l’introduzione dell’istituto dell’esclusiva responsabilità per la sanzione in capo alle società di capitali ed enti con personalità giuridica ai sensi dell’art. 7, D.L. 269/2003. Istituto la cui riconduzione sistematica all’ordito ed alla logica dell’impianto originario del D.Lgs. 472/1997 è apparsa, malgrado gli sforzi della dottrina, un esercizio di difficile esperibilità (42).

(40) Per un importante richiamo al principio di proporzionalità in subiecta materia si veda la sentenza Menci, causa C-524/15, 20 marzo 2018. (41) A. Giovannini, Per una riforma del sistema sanzionatorio amministrativo, in Aa.Vv., Diritto sanzionatorio amministrativo, a cura di A. Giovannini-A. Di Martino- E. Marzaduri, Milano, 2016, 1386-1388; C. Fava, Sanzioni tributarie e persone giuridiche tra modelli penalistici e specificità del settore, Milano, 2006, 116. (42) Per un primo approfondimento di tale disposizione si vedano, ex multis, F. BatistoniFerrara, Sub Art. 7, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, in Aa.Vv., Commentario breve alle leggi tributarie. Accertamento e sanzioni, diretto da G. Falsitta - A. Fantozzi - G. Marongiu - F. Moschetti, Padova, 2011, 809 ss.; C. Fava, Sanzioni tributarie e persone giuridiche tra modelli penalistici e specificità del settore, cit. L. Del Federico, Sanzioni amministrative relative a


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Al riguardo merita domandarsi se ed in che misura possa postularsi un percorso di riforma di tali istituti, tale da poter essere ricondotto alle più ampie coordinate della ricerca che si è svolta nei precedenti paragrafi. Una tale percorso di ricerca pare particolarmente fecondo nel momento attuale, considerate alcune prospettive di sviluppo, conseguenza di stimoli provenienti dal diritto dell’Unione Europea, che potrebbero rappresentare la concreta possibilità di avviare un processo di riforma che conduca ad una rinnovata configurazione, nei loro tratti essenziali, degli istituti sanzionatori amministrativi riferiti agli enti collettivi. Opportunità, quest’ultima, che dovrebbe così rendere nuovamente attuale il dibattito (43) in ordine all’opportunità di prevedere un autonomo regime sanzionatorio ex D.Lgs. n. 231/2001 nei confronti degli enti anche per violazioni attinenti alla materia tributaria. In specie, si intende rilevare come l’opportunità di una revisione di tale modello sanzionatorio amministrativo potrebbe essere offerta dalle previsioni contenute nella Direttiva 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2017 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (la ‘Direttiva PIF’) e nella Direttiva 2018/1673 del 23 ottobre 2018 sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale (la ‘Direttiva Antiriciclaggio’). Infatti, la trasposizione di tali Direttive potrebbe condurre il legislatore ad estendere il modello normativo di responsabilità degli enti da reato ex d.lgs. 231/2001 anche per le violazioni attinenti alla materia tributaria, così metten-

persone giuridiche e favor libertatis, in Giust. trib., 3, 2007, 4 ss. Va evidenziato che in dottrina è discussa la natura di tale disposizione. Secondo una parte della dottrina (A. Giovannini, Per una riforma del sistema sanzionatorio amministrativo, in Aa.Vv., Diritto sanzionatorio amministrativo, cit., 1387) tale norma andrebbe intesa come “una speciale obbligazione di stampo civilistico, ovvero e più propriamente una speciale forma di espromissione, che tolta alla disponibilità negoziale delle parti, il legislatore avrebbe preordinato in tutti i suoi elementi e quoad effectum”. Secondo altra dottrina (F. Gallo, L’impresa e la responsabilità per le sanzioni amministrative tributarie, in Rass. trib., 2005, 32- 33) tale previsione non negherebbe il principio di personalità della sanzione amministrativa, ma si limiterebbe a elidere il vincolo di solidarietà tra la persona giuridica e l’autore materiale della violazione. Per ulteriori approfondimenti in dottrina sui diversi approdi dottrinali si rinvia a C. Fava, Sanzioni tributarie e persone giuridiche tra modelli penalistici e specificità del settore, cit., 118-120. (43) Si vedano, per un primo approfondimento, R. Alagna, I reati tributari ed il regime della responsabilità da reato degli enti, in Riv. trim. dir. pen. econom., 2012, 397 ss..; F. D’arcangelo, La responsabilità degli enti per i delitti tributari dopo le SS.UU. 1235/2010, in Rivista 231, 2011, 125 s.; O. Mazza, Il caso Unicredit al vaglio della cassazione: il patrimonio dell’ente non è confiscabile per equivalente in caso di reati tributari commessi dagli amministratori a vantaggio della società, in Diritto penale contemporaneo, 25 gennaio 2013.


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do in crisi l’attuale regime di riferibilità della sanzione alla persona giuridica ai sensi del predetto art. 7, d.l. 269/2003, nonché il modulo sanzionatorio di cui all’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 per le società ed enti collettivi privi di personalità giuridica. Si presenterebbe così l’occasione per dare una definitiva sistemazione al modello sanzionatorio tributario nei confronti degli enti collettivi, superando la dicotomia oggi esistente tra sanzioni tributarie applicate nei confronti degli enti con o senza personalità giuridica e adottando così un uniforme modello sanzionatorio generale, atto ad attrarre a sanzione, in egual misura, sia le violazioni commesse a favore degli enti collettivi personificati che a favore degli enti non personificati. Modello sanzionatorio, quello di matrice parapenalistica ex d.lgs. 231/2001, che ha dimostrato in questi anni di rispondere efficacemente alle esigenze di carattere punitivo nei confronti degli enti collettivi, senza per questo palesare criticità per quanto concerne il rispetto delle garanzie fondamentali proprie di un regime di matrice punitivo. Ciò posto, merita anche domandarsi se un tale processo di riforma sia compatibile con gli esiti delle ricerche che si sono fin qui condotte in merito alla funzione della sanzione punitiva di conio amministrativo nel rispetto del principio di colpevolezza, e se tali interventi di modifica possano concorrere anch’essi, sebbene in assenza di un’opzione pubblicamente enunciata e discussa prima della loro messa alla prova, ad una qualche forma di ‘recupero’ al modello punitivo che si è andato poc’anzi a delineare, secondo coordinate assimilabili a quelle che ispirano gli istituti della tax compliance in punto sanzionatorio e che, più in generale, si sono finora ravvisate nell’ambito del modulo punitivo. 5.1. Con particolare riferimento alle diverse teoriche in merito allo statuto dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269. – Si menzionavano i tratti di notevole ‘peculiarità’ che contraddistinguono il modulo sanzionatorio nei confronti degli enti collettivi. Ai tratti di ‘autonomia’ si accompagna, come noto, l’assenza di un criterio unitario quale meccanismo di ascrizione soggettiva dell’illecito valevole per tutte le tipologie di enti collettivi. La disciplina sanzionatoria amministrativa alla luce del dettato dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269 porta, infatti, ad una strutturale differenziazione tra le società a base capitalistica e le persone giuridiche – nei cui confronti opera una autonoma riferibilità della sanzione amministrativa tributaria – rispetto a tutti gli altri enti collettivi, nei confronti dei quali il meccanismo di attribuzione della sanzione amministrativa rimane improntato, seppure temperato dal dispiegarsi del principio del beneficio, al principio di personalità della


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sanzione in capo all’autore della violazione. Diversamente dalla previsione dell’art. 7 citato, in sostanza, la disciplina introdotta dall’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 per tali ultimi soggetti regola espressamente l’ipotesi della responsabilità a titolo di sanzione amministrativa in capo al legale rappresentante o amministratore, anche di fatto, sottoponendo tale soggetto – l’autore materiale dell’illecito - a ‘pena’ e, contestualmente, introduce un regime di solidarietà per il pagamento della detta sanzione in capo al contribuente nel cui interesse è stata posta in essere la violazione (44). Ciò si evince dalla formulazione dell’art. 11, primo comma, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, che compie un espresso riferimento alla sanzionabilità dell’illecito commesso dall’amministratore di ente privo di personalità giuridica e che individua proprio nell’agire “nell’interesse” dell’ente la condizione dirimente del regime di solidarietà, quale condizione essenziale per giustificare il criterio di responsabilità solidale tra contribuente ‘beneficiato’ ed autore materiale della violazione (45). Si tratta di una previsione normativa che risulta, invece, del tutto assente nel testo dell’art. 7, D.L. n. 269/2003, dal quale parrebbe evincersi, a contrario, una presunzione di riferibilità assoluta della sanzione tributaria alla persona giuridica per fatti che sono stati commessi in suo nome, indipenden-

(44) In questo senso, si vedano C. Fava, Sanzioni tributarie e persone giuridiche tra modelli penalistici e specificità del settore, cit., 120, dove si evidenzia come la previsione di cui all’art. 7, d.l. n. 269/2003 “pone le sanzioni a carico delle persone giuridiche a prescindere dal fatto che le violazioni da esse commesse diano luogo ad un beneficio loro od altrui”, nonché F. Batistoni Ferrara, Sub Art. 11, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in G. Falsitta-A. Fantozzi-G. Marongiu-F. Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo II – Accertamento e sanzioni, cit., 755. (45) Ciò risulta ancora più chiaramente qualora si prenda in esame la previsione enucleata all’art. 11, primo comma, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 che limita la responsabilità solidale dell’autore materiale della violazione al pagamento di una somma massima pari ad euro 50.000,00 a condizione che l’autore materiale non abbia tratto un “diretto vantaggio” dalla violazione contestata e che il trasgressore non abbia posto in essere l’illecito con “dolo o colpa grave”. Peraltro, va notato che anche in tale circostanza in cui non opera la limitazione della responsabilità solidale al di sopra dei 50.000,00 euro a favore del trasgressore, permane il regime di solidarietà tra contribuente beneficiario della violazione ed autore materiale. Cfr. R. Cordeiro Guerra, Il principio di personalità, cit., 1449-1450, in cui si evidenzia come con tali previsioni dell’art. 11, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 il legislatore “prende atto che chi agisce nell’interesse di un soggetto diverso, pur realizzando la violazione, non ne trae un beneficio proporzionale al tributo evaso e, dunque, introduce nei suoi confronti un meccanismo di limitazione dell’ammontare della sanzione”.


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temente dall’esistenza di un effettivo vantaggio o interesse che consegua alla commissione della violazione da parte dell’autore materiale (46). Tale ultima previsione costituisce, allora, una fattispecie dai tratti di significativa ‘deviazione’ rispetto al modulo personalistico, i cui tentativi di giustificazione in chiave sistematica, certamente pregevoli, sono addivenuti a risultati tra loro inconciliabili e, in ultima istanza, forse non del tutto appaganti. Può dirsi, in via di estrema sintesi, che due sono state le principali linee interpretative che hanno provato a dare giustificazione del dato normativo de quo, la cui cifra distintiva insiste sulla diversa concezione della natura della sanzione in esame, con ricadute importanti per quanto concerne la valorizzazione dei principi del beneficio e della personalità in subiecta materia, e circa il riconoscimento dell’autonomia concettuale della figura dell’autore materiale della violazione rispetto all’ente giuridico, quest’ultimo comunque esclusivo termine di riferimento per l’applicazione della sanzione. Secondo un primo inquadramento sistematico, infatti, la norma de qua costituirebbe una vera e propria ipotesi di responsabilità oggettiva “da posizione”, tale da non lasciare alcun margine per una valorizzazione ponderata del principio di colpevolezza e, in ultima istanza, inconciliabile con le coordinate di riferimento proprie del principio di personalità (47). Inoltre, avvalorando una concezione dell’istituto de quo secondo i canoni della responsabilità oggettiva, tale teorica giunge a disconoscere del tutto una possibile ricostruzione, anche parziale, del modulo sanzionatorio in questione secondo la logica del principio del beneficio, così ulteriormente accentuando il solco rispetto al parallelo meccanismo sanzionatorio ideato dall’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 con riguardo agli enti privi di personalità giuridica. Al contrario, secondo una diversa linea interpretativa, la comprensione sistematica dell’istituto di cui al citato art. 7 non dovrebbe giungere, seppure con le dovute cautele, ad una radicale pretermissione del principio di personalità, sul presupposto che tale modulo sanzionatorio negherebbe “solo la sussistenza di un vincolo di solidarietà tra autore materiale dell’illecito e contribuente in ordine all’adempimento di un’obbligazione tributaria” (48), senza

(46) In questi termini R. Cordeiro Guerra, Il principio di personalità, cit., 1455, dove si sottolinea come “si delinea […] una sorta di ‘doppio binario’ nella applicazione delle sanzioni amministrative a seguito della novella del 2003”. (47) Cfr. L. Murciano, La ‘nuova’ responsabilità tributaria delle società e degli enti dotati di personalità giuridica: l’art. 7 del DL n. 269/2003, in Riv. dir. trib., I, 2004, 674. (48) F. Gallo, L’impresa e la responsabilità per le sanzioni amministrative tributarie,


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per questo elidere l’applicazione dei criteri soggettivi di ascrizione dell’illecito che sono alla base del modello punitivo delineato in via generale dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. In sostanza, tale teorica assicurerebbe, sebbene con tutte le limitazioni e difficoltà interpretative del caso, il mantenimento di un certo coordinamento, almeno sul piano prettamente teorico, con gli ordinari criteri che vedono – in conformità al principio personalistico esplicitato all’art. 2, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 - nella persona fisica, autrice e beneficiaria dell’illecito tributario, il soggetto nei cui confronti comminare la sanzione. Da tale ricostruzione deriverebbe, peraltro, l’impossibilità di obliterare del tutto la funzione del principio del beneficio, che troverebbe rilievo quale condizione ‘implicita’ del modulo punitivo, finalizzata a garantire che la sanzione permanga orientata a colpire, in ultima istanza, il contribuente – in questo caso l’ente con personalità giuridica – che si è avvantaggiato sotto il profilo economico dell’illecito posto in essere per suo conto e nel suo interesse dall’autore materiale. Tale lettura troverebbe anche conforto in una lettura dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269 nel quadro del dettato dell’art. 2, lett. l), Legge delega del 7 aprile 2003, n. 80, secondo cui la sanzione dovrebbe rivolgersi nei confronti del “soggetto che ha tratto effettivo beneficio dalla violazione” e confermerebbe il rilievo del principio del beneficio quale criterio di riferimento anche dell’istituto ex art. 7, D.L. n. 269/2003, tale per cui non dovrebbe essere pretermessa una valutazione finalizzata all’individuazione del soggetto che ha effettivamente tratto beneficio economico dall’illecito. La perdurante rilevanza del criterio del beneficio quale elemento strutturale implicito della fattispecie sanzionatoria dell’art. 7 D.L. n. 269/2003 troverebbe, in ultimo, riscontro anche nel ‘diritto vivente’ nonché conferma, più in particolare, in quel filone giurisprudenziale che si è soffermato sulle conseguenze sanzionatorie dell’utilizzo abusivo dello schermo societario da parte di terzi estranei alla società (49) e sulla legittimità della deroga, in queste circostanze, al criterio dell’esclusiva riferibilità della sanzione in capo all’ente, in considerazione della mancata funzionalizzazione dell’agire dell’autore materiale della violazione nell’interesse dell’ente collettivo.

cit., 33. (49) Si permetta di rinviare a S.M. Ronco, Limiti alla riferibilità della sanzione alla persona giuridica, principio del beneficio e rilievo dell’autore materiale: considerazioni e prospettive di riforma, in Riv. dir. trib., I, 2018, 594-596.


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6. Per una rimeditazione dello statuto della sanzione nei confronti di società ed enti: l’opportunità di una configurazione della responsabilità amministrativa dell’ente collettivo orientata a criteri di matrice punitiva. – La sintetica analisi che si è fin qui condotta ha permesso di mettere in luce la difficoltà di un’esatta individuazione dei criteri guida della sanzione amministrativa nei confronti degli enti collettivi: vi è, infatti, la sensazione che un tale stato di cose appaia complessivamente poco soddisfacente e non privo di aspetti di intrinseca irragionevolezza, considerato che il sistema così configurato giustifica una piena differenziazione in punto di ascrizione della sanzione amministrativa sulla base del mero dato rappresentato dalla forma giuridica prescelta dal contribuente, senza che ad esso possa accompagnarsi alcuna altra valida ragione secondo le logiche proprie del modello ‘punitivo’. Certo, l’accoglimento di un modello sostanzialmente ‘spurio’ e la ritrosia rispetto ad una integrale adozione dei criteri propri del modulo personalistico andrebbe forse ricercata nella tradizionale concezione di matrice penale secondo cui, come noto, dovrebbe negarsi la possibilità di addebitare ad un ente collettivo una responsabilità a titolo punitivo, sulla base del principio societas delinquere non potest, in forza del quale la responsabilità penale può essere ascritta unicamente alla persona fisica in ossequio al precetto dell’art. 27 Cost. (50). Occorre sottolineare, tuttavia, che tale originario inquadramento in campo penale è stato in tempi più recenti sottoposto a rimeditazione critica, attesa l’introduzione di meccanismi sanzionatori para-penali – in particolare la disciplina di cui D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 in tema di responsabilità amministrativa da reato delle società e degli enti – che hanno legittimato l’attingibilità dell’ente collettivo a sanzione in via autonoma rispetto alla persona fisica. Si assiste, inoltre, ad un trend giurisprudenziale che mira, in certe circostanze, ad una svalutazione della portata applicativa del principio di esclusiva riferibilità alla persona giuridica della sanzione amministrative ai sensi dell’art. 7, D.L. n. 269/2003: ciò proprio sul presupposto che l’irrogazione della sanzione amministrativa in capo all’ente può essere giustificata, quale regime di tipo ‘derogatorio’ rispetto al complessivo sistema sanzionatorio, a condizione che la condotta illecita dell’autore materiale sia finalizzata a be-

(50) Si veda, ex multis, R. Cordeiro Guerra, Il principio di personalità, in Aa.Vv., Diritto sanzionatorio amministrativo, cit., 1439 ss.


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neficiare l’ente collettivo responsabile della sanzione. In altre parole, qualora vi sia una strutturale divaricazione tra società o persona giuridica attingibile a sanzione tributaria nel quadro dell’art. 7, D.L. n. 269/2003 e soggetto ‘beneficiario’ della violazione fiscale, che strumentalmente opera in modo illecito tramite lo ‘schermo giuridico’ societario al fine di godere di una sostanziale impunità sotto il profilo sanzionatorio tributario, l’istituto de quo faticherebbe ad esplicare effetti soddisfacenti e a dispiegare una risposta punitiva ‘effettiva’ e, di conseguenza, legittimerebbe l’intervento di stampo pretorio orientato a contrastare l’utilizzo abusivo della forma giuridica capitalistica. Certo, si tratta di un filone giurisprudenziale che, allo stato, mira a contrastare nella maniera più ampia possibile forme di abusi conclamati, che si verificano quando lo schermo giuridico sia adoperato come un mezzo per permettere la strutturale commissione di illeciti e rendere più difficoltosa l’individuazione dell’autore delle condotte frodatorie e non può, pertanto, essere generalizzato (51). Tuttavia, esso pare confermare l’esistenza di un crescente ‘malessere’ della Giurisdizione avverso uno specifico tipo di modulo sanzionatorio – quello di cui al citato art. 7 – percepito come una indebita forma di ‘impunità fiscale’ predisposta a favore, di fatto, dei soli enti commerciali, che si vedrebbero illegittimamente incentivati – essi soltanto - ad assumere rischi di matrice fiscale nella consapevolezza che, almeno per quanto concerne la dimensione sanzionatoria amministrativa, le loro figure di vertice non soggiacerebbero ad alcuna conseguenza diretta di matrice afflittiva. Ma considerazioni non del tutto dissimili possono essere svolte anche a riguardo del modulo sanzionatorio solidale per gli enti collettivi privi di personalità giuridica, sul presupposto che, in una maggioranza dei casi, gli effetti della sanzione sono integralmente assorbiti dall’ente stesso, come oggi esplicitamente sancito all’art. 11, comma 6, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472; disposizione, quest’ultima, che, di fatto, può permettere una sostanziale elisione della vis afflittiva della sanzione nei confronti dell’autore materiale anche nel contesto di tali enti collettivi. 6.1. Breve inquadramento delle sollecitazioni di derivazione sovranazionale. – Se, quindi, le considerazioni formulate in questi ultimi paragrafi hanno

(51) S.M. Ronco, Limiti alla riferibilità della sanzione alla persona giuridica, principio del beneficio e rilievo dell’autore materiale: considerazioni e prospettive di riforma, cit., 599-600.


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permesso di evidenziare la sussistenza di alcune debolezze di fondo nell’impalcatura del sistema sanzionatorio applicabile nei confronti degli enti collettivi, l’esigenza di un intervento di riforma che fornisca un assetto unitario a tale complessivo regime sanzionatorio pare allora auspicabile (52). Tali aspettative tuttavia, non sono state accolte dal legislatore, neanche nel contesto dell’ultimo intervento di riforma che ha interessato più parti della disciplina sanzionatoria tributaria ad opera del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158: neppure in tale sede il legislatore ha, infatti, preso in esame in maniera esplicita la questione concernente il coordinamento dell’art. 7, D.L. n. 269/2003 con l’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e più in generale con gli altri istituti del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 stesso (53). Rimane, tuttavia, il fatto che la relazione tra il predetto art. 7, D.L. n. 269/2003 e l’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, già tradizionalmente oggetto di perplessità e considerata censurabile in quanto fonte di discriminazione tra tipologie diverse di enti collettivi sulla base della sola forma giuridica prescelta, continua a destare interrogativi di non poco momento. In tale contesto di incertezza va, quindi, evidenziato come rinnovate aspettative di riforma potrebbero essere conseguenza dell’introduzione della Direttiva PIF: tale Direttiva, la cui analisi esula dalle finalità del presente lavoro, ha l’obiettivo di definire il perimetro degli obblighi di criminalizzazione cui sono tenuti gli Stati membri dell’Unione Europea allo scopo di assicurare la sanzionabilità, tramite misure effettive e dissuasive, delle frodi gravi in danno degli interessi economici dell’Unione Europea (54). In sostanza, la Direttiva intende raggiungere un livello ‘minimo’ di armonizzazione (55) con riferimento ad un ampio spettro di ipotesi riconducibili,

(52) Cfr. F. Gallo, L’impresa e la responsabilità per le sanzioni amministrative tributarie, cit.; L. Murciano, La ‘nuova’ responsabilità tributaria delle società e degli enti dotati di personalità giuridica: l’art. 7 del DL n. 269/2003, cit. Si veda altresì A. Giovannini, Persona giuridica e sanzione tributaria: idee per una riforma, in Rass. trib., 2013, 509 ss. (53) Per una panoramica di tale riforma si veda, ex multis, D. Coppa, Questioni attuali in tema di sanzioni amministrative, in Rass. trib., 2016, 1023 ss. (54) Per un primo commento si vedano F. Basile, Brevi note sulla nuova direttiva PIF. Luci e ombre del processo di integrazione UE in materia penale, in Diritto penale contemporaneo, 12, 2017, 63 ss. Si permetta altresì di rinviare a S.M. Ronco, Frodi ‘gravi’ IVA e tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea: quali ricadute nell’ordinamento interno alla luce della Direttiva 2017/1371 del 5 luglio 2017?”, in Arch. pen., n. 3, 2017, 1 ss. (55) Il recepimento della Direttiva è previsto da parte degli Stati membri entro il 6 luglio 2019.


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in sostanza, alle frodi ed alle altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, impregiudicata la possibilità di mantenere in vigore o introdurre discipline domestiche più rigorose (56). Ebbene, merita sottolineare come tale testo normativo introduca un obbligo di criminalizzazione esteso alle persone giuridiche con riguardo a tutte le ipotesi di reato che rientrano nel campo di applicazione della Direttiva, tra cui viene esplicitamente ricompresa anche l’ipotesi della frode ‘grave’ IVA (57). Ne discende che l’Italia è tenuta, entro il termine per il recepimento della

(56) Cfr. il considerando n. 16 della Direttiva, secondo cui “poiché la presente direttiva detta soltanto norme minime, gli Stati membri hanno facoltà di mantenere in vigore o adottare norme più rigorose per reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione” e come anche indicato all’art. 1 della Direttiva, che prevede che “la presente direttiva stabilisce norme minime riguardo alla definizione di reati e di sanzioni in materia di lotta contro la frode e altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, al fine di rafforzare la protezione contro reati che ledono tali interessi finanziari, in conformità dell’acquis dell’Unione in questo settore”. Va, peraltro, sottolineato che la Direttiva prevede una definizione molto lata di “interesse finanziario dell’Unione”, riconducendolo, all’art. 2, a tutte le “entrate, le spese e i beni” che sono “coperti o acquisiti oppure dovuti” in base al bilancio dell’Unione stessa oppure al bilancio di propri istituzioni, organi ed organismi. Ai successivi artt. 3 e 4 è introdotto un elenco di fattispecie di reato che danno luogo ad una lesione degli interessi finanziari dell’Unione, che devono essere oggetto di criminalizzazione da parte degli Stati membri. (57) Si tratta di una definizione particolarmente importante, disciplinata sia all’art. 3, secondo comma, lett. d) - che dispone che requisiti indispensabili per l’integrazione della frode IVA ‘grave’ siano la fraudolenza e la transnazionalità della condotta, che all’art. 2, secondo comma, che prevede una soglia quantitativa al ricorrere della quale può presumersi che la frode IVA assuma i connotati della ‘gravità’: tale parametro quantitativo viene, nello specifico, individuato in Euro 10.000.000,00. L’art. 3, secondo comma, lett. d) della Direttiva prevede che “in materia di entrate derivanti dalle risorse proprie provenienti dall’IVA, l’azione od omissione commessa in sistemi fraudolenti transfrontalieri in relazione: i) all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti relativi all’IVA, cui consegua la diminuzione di risorse del bilancio dell’Unione; ii) alla mancata comunicazione di un’informazione relativa all’IVA in violazione di un obbligo specifico, cui consegua lo stesso effetto; ovvero iii) alla presentazione di dichiarazioni esatte relative all’IVA per dissimulare in maniera fraudolenta il mancato pagamento o la costituzione illecita di diritti a rimborsi dell’IVA”. L’art. 2, secondo comma della Direttiva prevede che “in materia di entrate derivanti dalle risorse proprie provenienti dall’IVA, la presente direttiva si applica unicamente ai casi di reati gravi contro il sistema comune dell’IVA. Ai fini della presente direttiva, i reati contro il sistema comune dell’IVA sono considerati gravi qualora le azioni od omissioni di carattere intenzionale secondo la definizione di cui all’art. 3, paragrafo 2, lettera d), siano connesse al territorio di due o più Stati membri dell’Unione e comportino un danno complessivo pari ad almeno 10 000 000 EUR”. Si permetta di rinviare, per una trattazione più approfondita di tale nozione della Direttiva, ai contributi citati supra, alla nota 36.


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Direttiva, a prevedere una specifica ipotesi di sanzione di tipo penale applicabile nei confronti della persona giuridica. Ciò a condizione che si verta nel quadro di un’ipotesi di reato di frode ‘grave’ dell’IVA, commessa a vantaggio dell’ente “da qualsiasi soggetto, a titolo individuale o in quanto membro di un organo della persona giuridica, e che detenga una posizione preminente in seno alla persona giuridica basata: a) sul potere di rappresentanza della persona giuridica; b) sul potere di adottare decisioni per conto della persona giuridica; oppure c) sull’autorità di esercitare un controllo in seno alla persona giuridica” (58). La Direttiva prevede tra l’altro, all’art. 9, un elenco di misure sanzionatorie nei confronti della persona giuridica, di tipo sia pecuniario penale che non penale, che possono riguardare anche “l’esclusione dal godimento di un beneficio o di un aiuto pubblico; b) l’esclusione temporanea o permanente dalle procedure di gara pubblica; c) l’interdizione temporanea o permanente di esercitare un’attività commerciale; d) l’assoggettamento a sorveglianza giudiziaria; e) provvedimenti giudiziari di scioglimento; f) la chiusura temporanea o permanente degli stabilimenti che sono stati usati per commettere il reato”. D’altra parte, ad ulteriore conferma della sussistenza di un collegamento potenziale sempre più stretto tra materia sanzionatoria amministrativa di conio tributario e responsabilità amministrativa degli enti vanno segnalati anche i contenuti della poc’anzi citata Direttiva Antiriciclaggio. Ad una preliminare analisi, anche tale Direttiva pare dia ulteriore evidenza della tendenza del legislatore dell’Unione di estendere nei confronti dell’ente una responsabilità di tipo para-penale per quanto concerne le violazioni di matrice penal-tributaria commesse dal suo legale rappresentante (59). In specie, la Direttiva in questione, oltre a prevedere la sanzionabilità, a titolo di riciclaggio ed autoriciclaggio, di una serie di ‘attività criminose’ tra cui rientrano anche i ‘reati fiscali relativi ad imposte dirette ed indirette, conformemente al diritto nazionale’ (60), dispone che per i predetti reati di riciclaggio ed autoriciclaggio sia introdotta anche un’autonoma responsabilità della persona giuridica (61).

(58) Art. 6 della Direttiva. (59) Si veda al riguardo l’art. 7 della Direttiva Antiriciclaggio. (60) Si veda l’art. 3 Direttiva Antiriciclaggio, in combinato disposto con l’art. 2, comma 1, q), che ricomprende nella nozione di “attività criminosa” anche i “reati fiscali relativi a imposte dirette e indirette, conformemente al diritto nazionale”. (61) Come espressamente previsto all’art. 1, comma 2 della Direttiva Antiriciclaggio,


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Parte prima

Sembra, allora, pur con tutte le cautele del caso, che se si ammettesse la sanzionabilità della persona giuridica a titolo di autoriciclaggio con riferimento alle ‘attività criminose’ presupposto, tra cui ricadono, alla luce della Direttiva in questione, tutti i reati fiscali di impronta domestica - non già autonomamente protetti dalla Direttiva PIF - il risultato inevitabile a cui si dovrebbe giungere è che la persona giuridica si troverà a dover rispondere in via amministrativa per tutti i reati del D.Lgs. 74/2000. Risultato, quest’ultimo che pare doversi ritenere probabile, considerato che il risparmio d’imposta del delitto fiscale è, in ultima istanza, proprio il profitto tipico di gran parte dei reati del D.Lgs. 74/2000 e questo ‘risparmio-profitto’ rischia, a sua volta, di essere sempre ed inevitabilmente l’oggetto materiale della condotta di autoriciclaggio dell’ente, che conduce alla sua attingibilità a sanzione in sede para-penale. 6.2. …e l’esigenza di una riforma della responsabilità amministrativa tributaria degli enti collettivi. – Le considerazioni esposte nel paragrafo precedente permettono di evidenziare come il legislatore domestico potrebbe trovarsi di fronte alla necessità di intervenire, anche in maniera importante, sulla disciplina sanzionatoria tributaria prevista per gli enti collettivi qualora dovesse addivenirsi all’inserimento dei reati tributari nel catalogo dei reati presupposto del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231. L’occasione è offerta dal fatto che l’art. 3 del D.d.l. n. 1201 di delegazione europea 2018 - già approvato alla Camera dei Deputati ed ora in discussione in Senato - ha espressamente previsto che la responsabilità amministrativa da reato ai sensi del D.Lgs. 231/2001 si estenda anche ai reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione Europea, tra cui assumono rilievo in chiave tributaria le frodi gravi IVA. Ebbene, qualora tale testo divenisse definitivo sarà compito del Governo, in sede di decretazione delegata, individuare una modalità adeguata di implementazione di tale istituto nel contesto di una materia che già vede, come noto, un autonomo regime di sanzione amministrativa di stampo tributario nei confronti dell’ente collettivo. Non pare, al riguardo, che la soluzione preferibile possa essere quella di

essa non risulterebbe applicabile a quegli illeciti che vulnerano un interesse finanziario dell’Unione, per i quali rimarrebbe ferma l’applicabilità esclusiva delle regole indicate nella Direttiva PIF.


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limitarsi ad ‘aggiungere’ il nuovo regime ex D.Lgs. 231/2001 in via ulteriore e parallela al già esistente meccanismo sanzionatorio risultante dal combinato disposto dell’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269. A ciò osterebbe l’esigenza di coordinare il plesso di sanzioni amministrative nei confronti dell’ente ex D.Lgs. n. 231/2001 nel quadro di un doveroso rispetto del divieto di bis in idem e del principio di proporzionalità (62), atteso che, nella sistematica oggi accolta, già le sanzioni tributarie assumono natura ‘punitiva’ ed il regime sanzionatorio introdotto dalla Direttiva PIF – al pari di quello della Direttiva Antiriciclaggio - prevede un insieme ampio di misure afflittive e risarcitorie sostanzialmente omnicomprensivo. La questione è, tuttavia, molto complessa. Da un lato, il legislatore potrebbe essere ‘tentato’ a mantenere il regime sanzionatorio amministrativo attuale, senza porre in essere modificazione alcuna, sul presupposto che gli istituti di cui agli artt. 11 e 7 citati già costituiscono idonei presidi atti a conformarsi alle esigenze punitive rappresentate nelle Direttive, tali da garantire una effettiva sanzionabilità dell’ente in via di equivalenza rispetto al modulo di stampo para-penale proprio del D.Lgs. n. 231/2001. Si tratta di una soluzione discutibile, ma indubbiamente di massima ‘semplicità’ sotto il profilo applicativo, che forse potrebbe trovare giustificazione con riguardo agli enti collettivi costituiti in forma personificata – cui si applica il regime dell’esclusiva riferibilità della sanzione – ma certamente meno idonea a soddisfare pienamente le indicazioni di matrice eurounitaria con riguardo agli altri enti collettivi, in forma non personificata, rispetto ai quali si assiste ad una forma di responsabilità solidale difficilmente riconducibile alle logiche che informano le istanze punitive nei confronti dell’ente esplicitate nelle Direttive citate. Da un altro lato, sempre con l’obiettivo di conformarsi ai dettami di diritto eurounitario senza stravolgere il regime esistente, a rigore il legislatore potrebbe limitarsi ad introdurre il regime punitivo nei confronti dell’ente

(62) Si veda, in proposito il considerando n. 17 della Direttiva che afferma che “la presente direttiva non preclude l’adeguata ed efficace applicazione di misure disciplinari o di sanzioni diverse da quelle di natura penale. Le sanzioni non assimilabili a sanzioni penali, che sono irrogate nei confronti della stessa persona per la stessa condotta possono essere tenute in considerazione in sede di condanna della persona in questione per un reato definito nella presente direttiva. Per gli altri tipi di sanzione dovrebbe essere pienamente rispettato il principio del divieto di essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato (ne bis in idem)”.


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Parte prima

sulla scorta dei canoni ex D.Lgs. n. 231/2001 unicamente con riferimento a quelle fattispecie che rientrano nel campo di applicazione della Direttiva e, perciò, solo con riguardo ai casi in cui la responsabilità amministrativa dell’ente trova presupposto nella responsabilità penale della persona fisica. Alla stregua di ciò, in altre parole, il legislatore potrebbe dare corso ad un micro-sistema sanzionatorio apposito, senza per questo modificare in profondità le coordinate di riferimento del modulo sanzionatorio oggi vigente nei confronti degli enti collettivi rispetto a tutte quelle fattispecie in cui l’illecito rimane punibile soltanto a livello amministrativo. Si tratterebbe, anche in questa seconda ipotesi, di un intervento di minore portata, certamente comprensibile attesi i rischi insiti in un percorso di riforma che intendesse ‘mettere mano’ in maniera radicale al modulo sanzionatorio de quo. Rimane, tuttavia, il fatto che anche una tale riforma di ‘manutenzione’ minima del sistema non si paleserebbe priva di conseguenze sistematiche, potenzialmente atte a mettere in dubbio la complessiva conformità del meccanismo sanzionatorio così delineato sotto il profilo della ragionevolezza. Basti al riguardo accennare, senza pretesa di esaustività: (i) alla diversità del carico sanzionatorio a seconda che venga in rilievo il modulo sanzionatorio ex D.Lgs. n. 231/2001 rispetto a quello proprio della sanzione amministrativa tributaria ex artt. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269; (ii) alle differenze radicali in punto di modalità di irrogazione e di vaglio giurisdizionale per quanto concerne la debenza e graduazione della sanzione che ne deriverebbero; (iii) all’applicazione asimmetrica dell’istituto della confisca; (iv) alla potenziale diversa destinazione dei fondi appresi all’esito del giudizio sanzionatorio nel bilancio dello Stato. Inoltre, non si può dimenticare il fatto che eventuali interventi di manutenzione ‘minima’ del sistema si potrebbero palesare inadeguati nella prospettiva di ampliamento della sfera degli interessi finanziari dell’Unione in campo tributario, che costituisce oggetto di attenta considerazione nel dibattito eurounitario (63).

(63) In quelle sedi, infatti, si era sostenuto che le modalità di formazione del bilancio dell’Unione dovessero essere oggetto di revisione, con l’obiettivo di addivenire ad una progressiva evoluzione del meccanismo di finanziamento basato sull’entrata derivante dall’applicazione di un’aliquota uniforme dell’IVA orientato a “rendere l’IVA una risorsa gestita e riscossa al pari dei dazi doganali e dei diritti agricoli”. Su tale linea, in tempi più recenti si è attestato anche il documento ‘Future financing of the EU. Final report and recommendations of the High Level


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Infatti, se è vero che, alla luce del campo di applicazione della Direttiva PIF, l’area degli illeciti che si pongono in contrasto con gli interessi finanziari dell’Unione è oggi limitata alla sola IVA, tale prospettiva potrebbe radicalmente mutare qualora si addivenisse ad un’estensione del novero delle risorse proprie dell’Unione, tale da ricomprendere appositi tributi di pertinenza esclusivamente unionale come mezzi di finanziamento propri ed autonomi rispetto alle risorse devolute dagli Stati membri. In tale circostanza, il risultato ultimo sotto il profilo punitivo non potrebbe che essere quello di un’estensione delle condotte destinate ad assumere rilevanza sotto il profilo para-penale nei confronti degli enti collettivi, alla stregua dei medesimi criteri punitivi che già oggi contraddistinguono il meccanismo della Direttiva PIF. Occorre allora, come già accennato, provare a ragionare, pur nella consapevolezza delle difficoltà insiste in tale ricerca, sull’opportunità di un percorso alternativo, che ‘sfrutti’ l’occasione offerta dalle sollecitazioni di diritto sovranazionale per ripensare il modulo punitivo nei confronti degli enti collettivi, senza con ciò venire meno all’esigenza di carattere sistematico, di garantire un coordinamento, per quanto imperfetto, con i principi generali che informano il modulo sanzionatorio amministrativo, su cui ci si è soffermati prima. Per le ragioni già anticipate, si ritiene che un punto di partenza imprescindibile di tale ricerca sia offerto dal modello sanzionatorio para-penalistico ex D.Lgs. n. 231/2001, il quale, come già anticipato, ha assunto progressivamente sempre più rilievo ed i cui contenuti fondamentali - ai fini della ricerca che si sta conducendo - possono qui di seguito essere riassunti, in via di estrema sintesi Come noto, esso, da un lato, introduce un autonomo regime sanzionatorio – in parallelo al regime di responsabilità penale della persona fisica – di carattere para-penale, fondato su due tipologie di sanzioni, pecuniarie ed interdittive, in aggiunta alle misure della confisca e della pubblicazione della sentenza

Group on Own Resources’ del dicembre 2016, nel quale, dopo l’analisi circa le modalità di formazione del bilancio unionale, si è riconosciuto che, similmente alla risorsa proveniente dall’aliquota uniforme del prodotto interno lordo, anche le entrate ricollegate all’IVA non possono essere assimilate alle altre ‘risorse proprie’ intese in senso ‘tradizionale’, poiché si fondano su aggregati statistici che le rendono maggiormente riconducibili alla categoria propria dei contributi statali dovuti a titolo di finanziamento Si permetta anche di rinviare a S.M. Ronco, Reati tributari ed interesse finanziario dell’Unione Europea, in Digesto, Disc. pen., Aggiornamento X, 2018, 616 ss.


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di condanna, per un catalogo di reati presupposto – tassativamente individuati in ossequio al principio di legalità nel d.lgs. 231/01 stesso – commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente dalle figure apicali e dalle persone sottoposte alla loro vigilanza. Dall’altro, al suo interno si prevede un complesso meccanismo di esonero da responsabilità che può trovare applicazione qualora l’ente predisponga un apposito ‘modello organizzativo’, concretamente idoneo a prevenire reati della specie di quelli eventualmente verificatisi (64). Si tratta di una modalità di elisione della responsabilità a titolo sanzionatorio nel quale assume rilievo decisivo la predisposizione di un apposito organismo di vigilanza dell’ente, dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo, il cui compito è quello di effettuare una continuativa vigilanza circa il funzionamento, l’osservanza e l’aggiornamento del modello organizzativo predisposto dall’ente. Così brevemente definiti i contenuti essenziali della disciplina ex D.Lgs. 231/01, varie sono le ragioni che possono essere poste a fondamento di tale scelta in una prospettiva de jure condendo. Già si è detto del fatto che tale istituto si è dimostrato negli anni funzionale a garantire le esigenze punitive nei confronti degli enti collettivi, senza, di converso, sacrificare il nucleo dei diritti e delle garanzie proprie di un regime di conio punitivo costituzionalmente orientato. Ma vi sono anche altre argomenti che ne potrebbero favorire un’implementazione in campo sanzionatorio tributario, che insistono, da un lato, su ragioni sistematici, finalizzati alla ricerca di coordinate comuni della complessiva materia punitiva verso il recupero della dimensione punitiva e, più in particolare, del principio della colpevolezza in subiecta materia e, dall’altro, muovono da riscontri, anticipazioni e conferme che possono trarsi, in assenza di un disegno precostituito ex ante, da alcuni istituti e tendenze del formante legislativo. Profili su cui ci si soffermerà nei paragrafi seguenti. 6.3. Il modulo punitivo ex D.Lgs. 231/2001 nel mutato contesto degli strumenti di contrasto agli illeciti in campo economico e l’esigenza di una respon-

(64) Più articolate riflessioni dovrebbero essere formulate qualora il reato presupposto sia stato commesso da una persona in posizione di vertice, in quanto in tali casi la responsabilità dell’ente può essere elisa soltanto a fronte della dimostrazione che l’autore ha agito fraudolentemente, eludendo il modello organizzativo predisposto dall’ente. A tale riguardo si veda, ex multis, E.M. Ambrosetti, Soggetti e responsabilità individuale e collettiva, in Diritto penale dell’impresa, cit., 68 ss.


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sabilità ‘per fatto proprio’ dell’ente. – Un intervento di riforma della disciplina sanzionatoria amministrativa applicabile nei confronti degli enti collettivi sulla linea di tali principi andrebbe visto con favore prima di tutto perché si iscriverebbe linearmente nel solco di un processo di mutamento delle coordinate di fondo degli strumenti di contrasto agli illeciti afferenti la materia dell’economia, per i quali si assiste sempre più ad un rafforzamento dei presidi di tutela ex ante, a mezzo di meccanismi di tipo amministrativo del genere command and control, rispetto al ricorso allo strumento sanzionatorio ex post visto, quest’ultimo, come inadatto a contrastare efficacemente le esternalità generate da condotte illecite nel settore dell’economia. Al riguardo, occorre infatti dare conto di quanto autorevole dottrina penalistica ha sottolineato circa l’urgenza di introdurre un rinnovato complesso di strumenti destinati all’enforcement del diritto dell’economia, imperniato sulla responsabilità dell’impresa come organizzazione: “[...] come organisational negligence ovvero come politica (criminale) d’impresa: l’analogo della responsabilità dolosa” (65). In questo contesto l’impresa è concepita – in continuità con le elaborazioni formulate dai teorici della corporate social responsibility – prima che attraverso la configurazione giuridica definita dal complesso di norme che ne disciplinano l’operatività, nella sua dimensione economico-organizzativa che rileva in modo autonomo, con rilevanti effetti nel mondo della finanza e dell’economia. Ciò implica la dilatazione di forme di responsabilità di tipo penale o para-penale dell’impresa, nella linea di un processo ormai entrato a pieno titolo negli ordinamenti europei, tra cui quello italiano (66). Si sostiene, in particolare a seguito della grave crisi finanziaria originatasi negli Stati Uniti nel 2008, che l’approccio del diritto penale dell’economia deve assumere una funzione ‘regolativa’, imperniata “sulla duplicazione della soggettività penale attiva” (67).

(65) G. Marinucci, Diritto penale dell’impresa: il futuro è già cominciato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 1477. (66) La letteratura sulla responsabilità para-penale dell’impresa è amplissima. Per un approccio iniziale si vedano P. Veneziani - G. Garuti - A. Cadoppi, Enti e responsabilità da reato, Torino, 2010; A. Di Amato - A. D’Avirro, La responsabilità da reato degli enti, in Trattato di diritto penale dell’impresa, Milano 2009; G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano, 2008. (67) M. Ronco, Problemi attuali del diritto penale dell’economia, in Diritto penale dell’impresa, cit., 8.


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In tale mutato paradigma di contrasto all’illecito economico la funzione del diritto punitivo diviene allora parte di un’ampia rete di meccanismi di controllo, sia esterna (68) che ‘interna’ all’ente collettivo, con l’obiettivo di contrastare in maniera più efficace e rapida le violazioni che incidono nel campo del diritto dell’economia, nella consapevolezza che il ricorso allo strumento punitivo secondo modalità per così dire “tradizionali” si palesa di per sé inidoneo a contenere con immediatezza le conseguenze dannose degli illeciti economici, e solo un intervento ‘anticipato’, necessariamente sulla base di meccanismi di tipo command and control, può tentare di limitarne gli effetti collaterali che, come noto, possono avere pesanti effetti sulla collettività. In sostanza, a fianco della responsabilità penale della persona fisica che ha posto in essere la condotta criminosa, dovrebbe accompagnarsi la sanzionabilità para-penale dell’impresa, grazie all’adozione di meccanismi di controllo fondati sulla ‘colpa dell’impresa’ legati all’accertamento della mancata o insufficiente predisposizione di “tutte le misure organizzative indispensabili per impedire un pericolo di danno ai terzi, alla salute, all’ambiente e alle esigenze sociali di equo sfruttamento delle risorse” (69). Si tratta di un modulo sanzionatorio – la cui massima estrinsecazione nel formante legislativo domestico viene tradizionalmente ricondotta proprio agli schemi dell’istituto della responsabilità para-penale dell’ente ex D.Lgs. 231/2001 - secondo il quale, in conclusione, occorrerebbe giungere all’affermazione della responsabilità dell’ente per fatto proprio, adottando un modello di ascrizione soggettiva della sanzione fondata sul criterio della ‘colpa da organizzazione’ e configurando un tipo di pena che colpisca direttamente l’ente collettivo in maniera pienamente afflittiva (70). Ciò, da un lato, sul presupposto che sia ormai necessario superare un concetto personalistico di pena che mira a sanzionare soltanto la persona fisica, atteso che nelle organizzazioni d’impresa, spesso altamente complesse, le scelte decisionali fanno riferimento all’ente giuridico stesso, posto che “in contesti

(68) Nei cui alveo si collocano, ad esempio, le autorità amministrative di controllo così come gli strumenti di enforcement di matrice privatistica. (69) M. Ronco, Problemi attuali del diritto penale dell’economia, in Diritto penale dell’impresa, cit., 8. (70) C.E. Paliero-C. Piergallini, La colpa di organizzazione, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 3, 2006, 167 ss.; C. Santoriello, Riflessioni sulla possibile responsabilità degli enti collettivi in presenza dei reati colposi, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 4, 2011, 73.


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simili, i poteri decisori dell’ente subiscono […] una dispersione direttamente proporzionale alle dimensioni e alla complessità dell’organizzazione di cui si avvale” (71). Ciò con il risultato ultimo che l’applicazione della pena nei confronti della persona fisica ha ormai un effetto di limitata portata in quanto non riesce a punire effettivamente ed efficacemente l’ente collettivo quale soggetto nel cui interesse l’illecito è stato posto in essere (72). Da un altro lato, non vi è dubbio che tale stato di cose incida altresì sulla rilevanza dell’elemento soggettivo, posto che la volontà dell’ente si esplica tramite una complessiva politica d’impresa che viene in essere grazie a decisioni tra loro ‘parcellizzate’ prese da una pluralità di soggetti, in cui può essere di frequente arduo riconoscere la sussistenza di una responsabilità a titolo di colpa in capo agli individui di vertice chiamati a rappresentare l’ente nei rapporti verso l’esterno (73). La trasposizione di un tale meccanismo in sede sanzionatoria tributaria quindi andrebbe vista con favore in quanto permetterebbe di portare ad un recupero della dimensione della colpevolezza nel contesto del modulo di responsabilità degli enti collettivi, secondo coordinate finalizzate a riconoscere la specificità del percorso di formazione della volontà dell’ente, nel quale, come prima argomentato, spesso non è possibile attribuire con nettezza una data decisione ad uno specifico individuo (74). Certo non possono dimenticarsi i problemi che anche una tale soluzione potrebbe comportare, su cui merita soffermarsi brevemente prendendo a riferimento l’esperienza applicativa del D.Lgs. 231/2001 stesso e ‘calandola’ nel contesto sanzionatorio amministrativo tributario. Da un lato, non può omettersi di ricordare che il modulo de quo intesse una stretta relazione – potremmo dire quasi ‘simbiotica’ – con la responsabilità da delitto – ed ‘a monte’ – della persona fisica, che deve aver commesso il reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente (75). Ciò comporta che allorché

(71) G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla tax compliance, cit., 106. (72) E.M. Ambrosetti, Soggetti e responsabilità individuale e collettiva, in Diritto penale dell’impresa, cit., 45. (73) G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla tax compliance, cit., 107. (74) G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla tax compliance, cit., 108. (75) Non ci si intende soffermare in questa sede sulle problematiche che hanno sollevato i termini ‘interesse’ e ‘vantaggio’ utilizzati nel testo del D.Lgs. 231/2001. Si rinvia al riguardo


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l’autore del reato penale abbia agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi nessuna responsabilità potrebbe essere attribuibile all’ente stesso. Da un altro lato, va sottolineata la particolare problematicità che potrebbe avere l’estensione di un modello fondato sui canoni ex D.Lgs. 231/2001 al contesto sanzionatorio amministrativo tributario, qualora non venga adeguatamente coordinata con la conformazione degli obblighi di firma delle dichiarazioni fiscalmente rilevanti che incombono, ai sensi dell’art. 1, comma quattro, D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, in capo al legale rappresentante ed in assenza di una attribuzione di rilevanza, nei rapporti con l’Erario, dell’istituto della delega di funzioni. Si intende, cioè, rilevare come, nell’attuale configurazione del modello ex D.Lgs. 231/2001, l’ascrizione della responsabilità all’ente – e di converso, i margini di elisione della stessa – risultano nella pratica significativamente pregiudicati allorché l’autore del reato presupposto sia un soggetto in posizione apicale. In tale circostanza, infatti, si mette in luce in dottrina come sorga “una responsabilità tendenzialmente automatica ed assoluta dell’ente” (76), diversamente dal differente caso in cui l’autore del reato presupposto rientri nella categoria dei soggetti sottoposti all’altrui direzione, che non rivestono, cioè, funzioni apicali di rappresentanza o amministrazione. In sostanza, il rischio che si potrebbe allora palesare implementando sic et simpliciter il modulo ex D.Lgs. 231/2001 in subiecta materia è, nuovamente, quello di uno ‘scoloramento’ del rilievo del principio di colpevolezza, a cagione della ben nota difficoltà per l’ente in sede para-penale di assolvere all’onere della prova su di esso gravante, di dimostrare l’idoneità ed efficacia del modello organizzativo e la piena osservanza degli obblighi di direzione e vigilanza malgrado un proprio rappresentante in posizione apicale abbia commesso un delitto presupposto. A ciò si aggiunge la consapevolezza circa la tradizionale ritrosia della giurisprudenza in sede di responsabilità para-penale ex D.Lgs. 231/2001 di dare piena rilevanza all’efficacia esimente del modello organizzativo sul presupposto, estraneo alla logica giuridica ma espressione di una massima esperienziale, che allorché sia stato commesso un illecito che fonda la responsabilità

a E.M. Ambrosetti, Soggetti e responsabilità individuale e collettiva, in Diritto penale dell’impresa, cit., 58-59. (76) E.M. Ambrosetti, Soggetti e responsabilità individuale e collettiva, in Diritto penale dell’impresa, cit., 61.


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amministrativa dell’ente, i presidi di tutela apprestati nel modello organizzativo dell’ente si sono dimostrati inadeguati e, di conseguenza, la sua funzione preventiva non ha sortito effetti positivi. Da ciò è discesa, come conseguenza automatica nel ‘diritto vivente’, il formarsi di un meccanismo di presunzione di colpa, in cui l’ente si trova nella difficoltà di dare alcuna valida prova a propria discolpa (77). Difficoltà che, peraltro, si acuirebbero ancora più qualora non si prestasse attenzione alle peculiarità del meccanismo di attuazione degli obblighi, prima di tutto dichiarativi, in campo tributario che, in buona sostanza, attribuiscono alla sola figura di vertice la responsabilità esclusiva di assumersi la paternità della totalità delle scelte fiscali dell’ente, senza ammettere alcuna forma di ‘parcellizzazione’ di tali oneri in capo ad altri soggetti. Ne discende allora come un possibile adattamento del modulo punitivo ex D.Lgs. 231/2001 all’ambito tributario si renda comunque necessario: in specie, ciò dovrebbe avvenire favorendo un’implementazione piena del criterio di responsabilizzazione della ‘colpa da organizzazione’, che subordini – ed in una certa misura tralasci – il ruolo dell’autore materiale nella commissione dell’illecito ed attribuisca rilevanza decisiva all’efficacia ed idoneità del modello organizzativo quale strumento per contrastare la commissione dell’illecito tributario. Un tale percorso avrebbe l’effetto, inevitabilmente, di rinunciare alla verifica dell’elemento psicologico della persona fisica che ha agito nell’interesse dell’ente – oggi requisito essenziale dell’illecito para-penale nonché criterio guida di graduazione della sanzione nel quadro del D.Lgs. 231/2001 – senza, tuttavia, obliterare il conseguimento di un giudizio improntato ai criteri della colpevolezza. Certo, si tratterebbe di una valutazione dell’elemento soggettivo alieno da una valorizzazione del criterio del dolo e della colpa in termini, anche solo latamente, psicologici e tale da fondarsi unicamente su criteri di tipo normativo e sociale, in cui, non senza difficoltà, “all’indagine sul processo motivazionale dell’agente, implicita nella concezione normativa della colpevolezza declinata con riferimento alla persona, si sostituisce la valutazione del modello organizzativo” (78).

(77) In questo senso si veda G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla tax compliance, cit., p.109, nota 23. (78) C.E. Paliero - C. Piergallini, La colpa di organizzazione, cit., 169; G. Ragucci,


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In una tale configurazione, in conclusione, il rimprovero legato alla violazione del precetto potrebbe essere ascritto all’ente qualora si dimostrasse che esso non ha adottato tutte le cautele necessarie al fine di prevenire l’illecito, munendosi di idoneo modello organizzativo e vigilando assiduamente affinché venga concretamente rispettato nell’attività d’impresa ed indipendentemente dal fatto che tale illecito abbia fatto sorgere un addebito a titolo di responsabilità penale nei confronti dell’autore materiale, che ha agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso (79). 6.4. – Responsabilità sanzionatoria dell’ente per ‘fatto proprio’ ed interrelazione con la dimensione della tax compliance? Considerazioni alla luce dell’istituto dell’adempimento collaborativo. — Merita, a questo punto, ancora domandarsi in che termini una tale configurazione delle coordinate della materia punitiva di conio amministrativo nei confronti degli enti collettivi si ponga rispetto alla dinamica, prima vista, degli istituti di tax compliance e se possa essere postulata, almeno sotto l’aspetto punitivo, una continuità d’intenti tra i rispettivi ambiti di riferimento. Non vi è dubbio, infatti, che parallelamente al mutare degli strumenti di contrasto agli illeciti in campo economico nei confronti degli enti – su cui ci si è appena soffermati – il rafforzamento dei presidi di controllo dell’attività d’impresa fondati su meccanismi di controllo ex ante – che fanno leva, appunto, sulla predisposizione, da parte dell’ente stesso, di misure organizzative idonee a gestire, controllare ed impedire la commissione di illeciti – risponda anche ad esigenze di più generale trasparenza e lealtà nei confronti della collettività che devono connotare l’agire dell’impresa nel contesto sociale. In questo vi è indubbiamente un ravvicinamento tra le finalità che contraddistinguono i meccanismi di controllo ex ante – tra cui, in primis, l’impianto improntato al modello organizzativo di derivazione ex d.lgs. 231/2001 – nel contesto delle misure di contrasto agli illeciti di stampo economico e gli obiettivi, prima accennati, che innervano gli istituti di tax compliance. Si assiste,

Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla tax compliance, cit., p.108, nota 20. L’Autore sottolinea, peraltro, come tale indagine non potrebbe obliterare, in ogni caso, l’esigenza di valutare “l’eventuale presenza di fattori anomali capaci di impedire al soggetto di agire diversamente”. (79) C.E. Paliero - C. Piergallini, La colpa di organizzazione, cit., in particolare, 181182. In questo senso anche G. Ragucci, La riforma delle sanzioni amministrative tributarie, cit., 1559.


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cioè, in entrambe tali tipologie di strumenti ad una imposizione di oneri che sono accomunati dalla condivisa esigenza di favorire una maggiore trasparenza da parte dell’organizzazione imprenditoriale nei rapporti con l’esterno improntata, in ultima istanza, a conseguire un maggior grado di collaborazione nei confronti della Pubblica amministrazione, latamente intesa. Vi sono, tuttavia, non irrilevanti differenze – su cui in questa sede non è possibile soffermarsi compiutamente – che danno l’impressione che una totale assimilazione tra le finalità che contraddistinguono gli strumenti riconducibili ai due ambiti di riferimento sia, tuttavia, difficilmente postulabile in una prospettiva di tipo sostanziale e procedimentale (80). Infatti, pur con tutte le incertezze del caso, il tratto comune degli istituti di tax compliance d’impresa pare riflettere una dinamica nei rapporti tra Fisco e contribuente orientata sì ai canoni di partecipazione e buona fede, ma che non si esaurisce in essa, considerata la più stretta collaborazione che si instaura anche al fine di una determinazione, in alcuni casi, concordata dei profili sostanziali del tributo. A conferma di ciò si pongono, soprattutto, gli istituti degli accordi preventivi e dell’interpello sui nuovi investimenti, nei quali si assiste, seppure con modalità diverse, ad una definizione condivisa, financo antecedente al venire in essere del presupposto, del quantum dovuto dal contribuente (81). La centralità della dinamica ‘preventiva’ che contraddistingue i citati istituti rende, come evidente, recessiva la dimensione di tipo sanzionatorio, che pare incontrare in questa sede una minore rilevanza applicativa, pur rimanendo ferma l’impressione di una sostanziale continuità e condivisione di obiettivi tra gli istituti di tax compliance ‘speciali’ al contesto d’impresa e quelli, prima visti, di applicazione generale e derivazione statutaria sotto l’aspetto sanzionatorio.

(80) Si veda a tale riguardo G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla tax compliance, cit., 60. In dottrina, per un primo approfondimento di tali istituti, senza pretesa di completezza cfr. M. Grandinetti, Gli accordi preventivi per le imprese con attività internazionale, in Rass. trib., 2017, 660; D. Conte Imposizione fiscale e nuovi accordi preventivi per le imprese con attività internazionale, in Riv. dir. trib., I, 2016, 677. Si permetta di rinviare anche a S. Gianoncelli-S.M. Ronco, La gestione del rischio fiscale: adempimento collaborativo, sistema punitivo tributario e prospettive de jure condendo, in corso di pubblicazione, 364 ss. (81) Si vedano anche G. Vanz, Investitori esteri e interpello sui nuovi investimenti, in Rass. trib., 947 ss.; P. Mastellone, Accordi preventivi per imprese con attività internazionale, in Aa.Vv., Fiscalità della internazionalizzazione delle imprese. Studi sul D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147, a cura di A. Vicini Ronchetti, Torino, 2018.


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Rispetto a tale quadro complessivo costituisce, tuttavia, eccezione l’istituto dell’adempimento collaborativo, che meglio degli altri moduli di tax compliance d’impresa si presta a considerazioni di rilievo per la ricerca in punto sanzionatorio che si sta portando avanti (82). Ebbene, senza potersi qui approfondire i profili sostanziali di tale istituto, è noto che l’adozione di una legislazione volta a promuovere l’adempimento collaborativo delle multinazionali trovi origine nell’esigenza di ‘regolamentare’ in maniera più efficace le strategie di pianificazione fiscale di tali gruppi, con l’obiettivo di distinguere tra tipologie di scelte fiscali ‘accettabili’ e comportamenti vietati o potenzialmente riconducibili al fenomeno dell’abuso del diritto. Tra gli obiettivi dell’adempimento collaborativo vi è, infatti, soprattutto quello di contrastare le forme di pianificazione fiscale aggressiva spesso adottate dalle società che operano nel mercato globale, in adesione al mutato assetto della fiscalità internazionale post BEPS, tramite un meccanismo di controllo amministrativo ex ante, che, da un lato, facilita l’attività di auditing dell’Amministrazione finanziaria grazie all’imposizione di oneri di trasparenza e leale collaborazione in capo alla società contribuente per quanto riguarda le decisioni fiscali, e, dall’altro, garantisce al contribuente una radicale riduzione della sfera di rischio tributario nonché significativi vantaggi, come accennato, sotto il profilo procedimentale e sanzionatorio. Un simile approccio pare iscriversi, quindi, nel solco di quell’orientamento poc’anzi ricordato, che affida all’Amministrazione finanziaria un ruolo di promozione della tax compliance e che ha contribuito, insieme a valutazioni di promozione e facilitazione degli investimenti esteri nel territorio nazionale, alla sua introduzione nell’ordinamento interno. Non aliene alla logica dell’istituto sono, infine, preoccupazioni legate alla consapevolezza circa la complessità di una corretta applicazione della legge fiscale in contesti, quali quelli di tipo transnazionale, in cui si assiste a significative condizioni di incertezza del diritto, rispetto alle quali una gestione condivisa del rischio costituisce la migliore modalità per evitare successive riprese a tassazione fondate su contestazioni di tipo antiabuso o, più in generale, basate su una mera diversa interpretazione giuridica degli elementi dichiarati dal contribuente stesso.

(82) Per un’analisi di tale istituto si veda, ex multis, G. Salanitro, Profili giuridici dell’adempimento collaborativo, tra la tutela dell’affidamento e il risarcimento del danno, in Riv. dir. trib., I, 2016, 623 ss.


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Ciò posto in linea generale e venendo agli aspetti di tale istituto di interesse ai fini di questa ricerca, merita sottolineare come esso mostri l’adesione del legislatore a favore di moduli che attribuiscono portata centrale ai modelli di stampo organizzativo dell’ente, finalizzati, sulla scia del modello di prevenzione degli illeciti previsto dal d.lgs. 231/01, a contrastare la commissione di illeciti di stampo tributario e, in senso più ampio, a gestire in maniera efficace la dimensione del rischio fiscale nel contesto d’impresa. Come noto, infatti, una delle caratteristiche distintive di tale regime è costituita proprio dall’introduzione del sistema di “rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale”, da intendersi, ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, quale rischio di operare in violazione di norme tributarie o in contrasto con i principi o con le finalità dell’ordinamento in cui esse si inseriscono. Ebbene, non paiono del tutto irrilevanti i punti di contatto di tale disciplina con la logica che ispira il d.lgs. 231/01, atteso che – ad una prima lettura – la funzione del sistema di “rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio – quale definito dall’art. 3, D.Lgs. 128/2015 – presenta più di un profilo di contatto con gli obiettivi che contraddistinguono il modello organizzativo enucleato nel D.Lgs. 231/2001. Pur con le dovute differenze (83) e fermi restando alcuni profili di criticità su cui non è possibile in questa sede soffermarsi compiutamente (84), vi è la sensazione che non sussistano divergenze concettuali significative tra le due tipologie di ‘modelli organizzativi’ quanto alla loro comune funzione preventiva, intesa, cioè, come espressione di una condivisa esigenza di favorire un agire dell’impresa orientato al contrasto in via anticipata dell’illecito. Per altro verso, soprattutto, l’istituto dell’adempimento collaborativo pare collocarsi linearmente nelle coordinate di impronta special-preventiva che contraddistinguono la risposta punitiva nel contesto degli istituti di tax compliance.

(83) Va, infatti, subito ricordato che – fermo restando le considerazioni formulate nei paragrafi precedenti con riguardo all’implementazione delle Direttive PIF e Antiriciclaggio – i reati tributari sono assenti dalla lista dei delitti presupposto della responsabilità dell’ente ai sensi del d.lgs. 231/01. Di conseguenza, allo stato, il campo di applicazione oggettivo dei due ‘modelli’ non presenta profili di sovrapposizione, andando a prevenire tipologie di reati presupposto tra loro astrattamente non coincidenti. (84) Si permetta di rinviare al riguardo a S. Gianoncelli-S.M. Ronco, La gestione del rischio fiscale: adempimento collaborativo, sistema punitivo tributario e prospettive de jure condendo, in corso di pubblicazione, 373 ss.


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A favore di ciò va sottolineata la centralità dell’agire del contribuente improntato al rispetto dei canoni di lealtà e trasparenza nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, che, in buona sostanza, pervade in maniera trasversale l’istituto de quo. Soprattutto, la rilevanza del comportamento trasparente del contribuente assume rilievo determinante sotto l’aspetto sanzionatorio amministrativo, considerato che, ai sensi dell’art. 6, comma 3, d.lg.128/15, la tempestiva ed esauriente comunicazione dei rischi di natura fiscale all’Agenzia delle Entrate, ancorché quest’ultima non condivida la posizione dell’impresa in ordine alla loro gestione, garantisce comunque la riduzione delle sanzioni alla metà, e, in ogni caso, la loro irrogazione in misura non superiore al minimo edittale. Pacifico come in tale caso non sia postulabile una qualificazione della sanzione de qua in chiave general-preventiva e neppure orientata a canoni retributivi. La sanzione amministrativa, infatti, viene ridotta alla metà sul presupposto che il contribuente ha, con trasparenza, portato a conoscenza dell’Amministrazione finanziaria una scelta fiscale che egli sa essere in contrasto con l’interpretazione favorita dall’Agenzia delle Entrate e che, ciò nonostante, ha inteso perseguire fino in fondo. Da qui si evince, allora, come l’irrogazione della sanzione in esame, sebbene dimidiata, risulti in ultima istanza ragionevole e tale da collocarsi linearmente in un modulo propriamente punitivo ed improntato ai criteri della special-prevenzione. In tale situazione, infatti, la previsione sanzionatoria manifesta come il legislatore non riconosca alla (sola) trasparenza del contribuente un carattere pienamente elidente la sanzione amministrativa, sul presupposto che la mancata condivisione dell’orientamento dell’Amministrazione finanziaria ha comunque rappresentato una scelta deviante consapevole e colpevole da parte di quest’ultimo. Al contempo, tuttavia, la dimidiazione della sanzione conferma la centralità di un giudizio improntato alle coordinate della colpevolezza, nella sua dimensione di graduazione e commisurazione della ‘pena’ all’esito di una ponderazione che tiene debitamente in considerazione la significatività della condotta trasparente del contribuente, sul presupposto che essa manifesta una minore attitudine deviante nei confronti dell’ordinamento e, pertanto, pone quest’ultimo in una condizione di abbisognare di una minore ‘pena’ (85).

(85) In ottica penalistica cfr. G. Mannozzi, Pena e riparazione. Un binomio non irriducibile, cit., 1163.


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7. Cenni conclusivi: la dimensione special-preventiva della sanzione ed il recupero del principio della colpevolezza quali coordinate di un sistema punitivo unitario di stampo amministrativo. – Occorre, a questo punto, riprendere le fila del discorso con l’obiettivo di formulare brevi cenni conclusivi alla luce delle riflessioni che si sono fin qui esposte. Centrale, in questa ricerca, è stato il tentativo di valorizzare lo strumento sanzionatorio amministrativo tributario in una logica che cerchi di darne giustificazione comune, sia nei confronti delle persone fisiche che nei confronti degli enti collettivi, assumendo al cuore del sistema di reazione punitiva una configurazione i) in termini sostanzialmente special-preventivi e ii) che non metta in disparte il principio della colpevolezza, quale espressione della dimensione personalistica della sanzione. Si tratta di un percorso, come visto, irto di ostacoli a fronte delle ben note pulsioni svalutative a cui si assiste nel ‘diritto vivente’ e che oggi si scontra, specie per quanto concerne la dinamica della sanzione nei confronti degli enti collettivi, con plurime difficoltà applicative. Se, infatti, la ritrosia a riconoscere la dimensione punitiva della sanzione nei confronti degli enti originava da tradizionali concezioni di stampo penale secondo cui la responsabilità penale può essere ascritta unicamente alla persona fisica in ossequio al precetto dell’art. 27 Cost., la mancata riflessione circa la perdurante opportunità di mantenere intatto tale micro-sistema derogatorio rispetto alle coordinate del D.Lgs. 472/1997 a fronte dell’introduzione di regimi – quali la disciplina ex D.Lgs. 231/2001 – che oggi legittimano pianamente l’ascrizione della responsabilità di matrice punitiva in capo all’ente, ha portato a risultati nel tempo sempre meno giustificabili. Soprattutto, pare ormai venuto il momento, in considerazione delle sollecitazioni di fonte UE, che il legislatore proceda alla revisione della disciplina relativa ai rapporti tra moduli sanzionatori nei confronti degli enti nel quadro di un rinnovato contrasto alla criminalità economica d’impresa. Altrimenti argomentando, vi è il concreto rischio che le problematiche attinenti i profili di sovrapposizione tra sanzione amministrativa tributaria sull’ente; disciplina sanzionatoria contenuta nel d.lgs. 231/2001 e relativa confisca diventino, a ben vedere, difficilmente governabili, con il rischio di ingenerare plurimi fenomeni di bis in idem. Infatti, malgrado la disciplina ex D.Lgs. 231/2001 oggi non ricomprenda i reati tributari nel catalogo dei reati presupposto che costituiscono fonte di responsabilità dell’ente, una volta che dovesse venire introdotta una disciplina di responsabilità in linea con le Direttive citate, si rappresenterebbero


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concretamente più casi in cui, a ben vedere, le contestazioni di matrice tributaria si ‘riverberano’ nel procedimento ex d.lgs. 231/2001, onde si renderebbe necessario svolgere un’analisi circa i profili di interrelazione e ‘concorso’ tra sanzioni ‘punitive’ di origine tributaria e sistema sanzionatorio in tema di responsabilità amministrativa degli enti ex d.lgs. 231/2001 (86). Rischi di bis in idem, peraltro, che paiono ancora più significativi qualora si ponga mente – ma si tratta di aspetti che necessiterebbero ben altri approfondimenti – anche all’ulteriore, potenziale, concorso con le sanzioni – e con le relative confische – che prendono a riferimento la persona fisica nella dimensione formalmente penale, al ricorrere delle condizioni previste dal D.Lgs. 74/2000 nonché dall’art. 648-ter.1, c.p. per quanto concerne la fattispecie di autoriciclaggio. Se allora tale è lo stato di cose ed effettivamente vi è l’esigenza di una manutenzione importante del sistema, la strada che si è provato ad indicare in queste pagine è di promuovere una riforma che dia sì risposta alle esigenze contingenti, senza obliterare, però, le ragioni di coerenza sistematica che militano a favore di un intervento che valorizzi la logica ‘punitiva’ della disciplina delle sanzioni amministrative, secondo un inquadramento che riconosca l’imprescindibilità del richiamo alla dimensione del principio di colpevolezza. Importanza centrale per delineare un tale percorso potrebbe essere offerta dagli istituti della tax compliance, in cui si assiste, trasversalmente all’ambito di applicazione della disciplina de qua nei confronti sia delle persone fisiche che degli enti collettivi, alla riemersione del principio – oggi messo ai margini nel ‘diritto vivente’ – rappresentato dalla colpevolezza. Permane, infatti, l’esigenza che l’agire del contribuente sia stato ab origine colpevole, quale autonoma condizione affinché la sanzione sia legittimamente applicata. Soprattutto, in continuità con una configurazione del modulo punitivo che pare, in ultima istanza, finalizzato a funzionalizzare la ‘pena’ secondo esigenze proprie delle logiche della special-prevenzione, il bisogno di sanzione a fronte di un fatto colpevole deve essere graduato a seconda del

(86) Aspetti problematici, questi ultimi, che potrebbero risultare ulteriormente acuiti qualora si ponga mente alle paventate prospettive di riforma del meccanismo di finanziamento del sistema eurounitario tramite idonei tributi propri amministrati esclusivamente nell’interesse dell’Unione; circostanza che imporrebbe un’estensione dei moduli di tutela di stampo parapenale nei confronti degli enti collettivi, oggi enucleati dalla Direttiva PIF per la sola IVA, anche a tale più ampio insieme di interessi finanziari.


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comportamento successivo del contribuente stesso: esso non riduce la colpevolezza del fatto, ma incide sul bisogno di pena. Se questa è allora la tendenza che affiora in recenti interventi del legislatore in materia sanzionatoria amministrativa – e che, a ben vedere, si pone in continuità con le finalità punitive che avevano contraddistinto, fin dall’inizio, il formante normativo nel contesto della riforma del ’97 – l’unica soluzione per ‘tenere insieme’ anche il meccanismo di ascrizione della responsabilità applicabile agli enti collettivi ‘sfruttando’ le contingenti esigenze di riforma anzidette, non può che essere quella di dare rinnovata valorizzazione a criteri di stampo innovativo della ‘colpa’ in capo all’ente, sulla scorta, cioè, delle acquisizioni teoriche della ‘colpa dell’organizzazione’, di cui la disciplina ex d.lgs. 231/2001 è manifestazione concreta nell’ordinamento vigente. Certo, come si è avuto modo di accennare, l’adattamento della disciplina di cui al d.lgs. 231/2001 al campo del diritto sanzionatorio amministrativo tributario ‘puro’ non potrebbe limitarsi ad una automatica trasposizione dei suoi istituti, considerata la relazione ‘biunivoca’ che esiste in tale contesto tra reato-presupposto e sanzione amministrativa sull’ente e la radicale diversità nelle modalità di contestazione, irrogazione e graduazione della ‘pena’ seguite in tale ambito rispetto a quelle oggi adottate in sede sanzionatoria amministrativa tributaria. Non solo, rimangono presenti non irrilevanti aspetti di criticità in ordine al rischio di addivenire ad uno ‘svuotamento’ ex post della funzione del principio della colpevolezza, attesa la mancanza, in un modello di colpa da organizzazione ‘puro’, di un collegamento stabile con un autore materiale-persona fisica, quale termine di riferimento ai fini della ponderazione dell’elemento soggettivo, e considerata, soprattutto, la ‘sfiducia’ che oggi circonda la valenza esimente dei modelli organizzativi nel regime ex d.lgs. 231/2001 (87). In questo, forse, si potrebbero trarre utili spunti di riflessione alla luce del regime sanzionatorio in materia bancaria e finanziaria come risultante a seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. 12 maggio 2015 n. 72, al Titolo VIII - Sanzioni – del D.Lgs. 1° settembre 1993 n. 385 (T.U.B.) ed alla Parte V – Sanzioni - del D.Lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 (T.U.F.) (88). In tale ambito,

(87) Sull’opportunità che il modulo sanzionatorio nei confronti degli enti collettivi prenda in considerazione anche la responsabilità dei vertici apicali si veda G. Ragucci, La riforma delle sanzioni amministrative tributarie, cit., 1562. (88) In generale su tali aspetti, per una prima introduzione, si veda R. Della Vecchia - P. Tumbarello, Il regime sanzionatorio in materia bancaria e finanziaria: novità normative


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pur con tutte le differenze del caso, si è, infatti, prescelto un modulo sanzionatorio che incentra la risposta punitiva sulla persona giuridica e che addiviene ad attrarre a ‘pena’ gli esponenti aziendali stessi solo qualora la violazione sia conseguenza dell’autonoma e distinta violazione da parte di questi dei doveri propri o dell’organo di appartenenza (89). In ultimo, ma si tratta di considerazione per certi versi ovvia, l’adozione generalizzata di una colpa da organizzazione al campo delle sanzioni amministrative tributarie nei confronti degli enti dovrebbe muovere di pari passo ad una riconsiderazione dei modelli organizzativi quali strumenti idonei a prevenire efficacemente la commissione dell’illecito. Circostanza, quest’ultima, che conduce nuovamente ad interrogarsi sulla valenza esimente attribuita agli stessi e che, seppure giustificata – come in una certa misura pare confermare l’istituto dell’adempimento collaborativo – con riguardo agli enti di più grande dimensione, risulta di difficile configurabilità con riferimento agli enti morali non personificati ed alla ampia platea delle piccole – e piccolissime – imprese, specie se costituite secondo i tipi societari personalistici, rispetto ai quali è difficile pensare che la predisposizione astratta di un modello, anche se presidiato ed aggiornato nel tempo, possa essere in grado, di per sé, di elidere il carico sanzionatorio di matrice amministrativa. A testimonianza di tali difficoltà è, a ben vedere, la stessa configurazione dei modelli di gestione e prevenzione del rischio disciplinati in sede di adempimento collaborativo, alla cui (sola) predisposizione ed attuazione da parte del contribuente il legislatore non collega immediati effetti lenitivi in punto sanzionatorio, atteso che tale adempimento assume rilievo solamente in una dinamica di interlocuzione continuativa ed immediata con l’Amministrazione finanziaria in una prospettiva ex ante, a fronte della quale il modello de quo deve essere continuamente aggiornato e, se del caso, modificato ed implementato. Se queste sono le condizioni di partenza è inutile ribadire che ci si trova di fronte ad una sfida davvero complessa: rimane la speranza di aver offerto un contributo minimo utile al dibattito in corso, con l’auspicio che il legislatore, anche incoraggiato dall’esigenza di conformarsi alle Direttive in esame, si impegni, sia pure in termini che consentano una ragionevole riflessione, alla

e spunti di riflessione, in Dirittobancario.it, luglio 2016. (89) Affinché vi sia la responsabilità della persona fisica devono anche ricorrere specifiche condizioni elencate agli artt. 144-ter TUB e 190-bis T.U.F. Cfr. R. Della Vecchia - P. Tumbarello, Il regime sanzionatorio in materia bancaria e finanziaria: novità normative e spunti di riflessione, cit., 4.


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revisione della disciplina relativa ai rapporti tra sanzioni punitive di conio amministrativo nei confronti degli enti collettivi, seguendo canoni che rispecchino un’adesione ad una concezione della pena in chiave special-preventiva e riparativa ed improntati, per quanto possibile, al recupero della dimensione del principio di colpevolezza. Ciò in una prospettiva di uniformazione dei criteri di ascrizione della sanzione amministrativa tra persone fisiche ed enti, indipendentemente dalla forma giuridica ed in continuitĂ con quelli che sono i tratti distintivi degli istituti di tax compliance in punto sanzionatorio.

Stefano Maria Ronco



Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Cass. Civ., Sez. VI, 6 dicembre 2018 - 28 gennaio 2019, n. 2052 – Pres. Iacobellis – rel. La Torre Rinunzia a diritto reale immobiliare – art. 1 Tariffa allegata al d.lgs. n. 347/1990 – art. 1 Tariffa, parte prima, allegata al D. P. R. n.131/1986 – art. 2, c. 47, D. L. n. 262/2006, conv. L. n. 286/2006 – Assoggettamento ad imposta catastale in misura proporzionale L’art. 1, parte prima, della Tariffa allegata al D. P. R. n. 131 del 1986, espressamente richiamata nel TUIC, prevede che siano assoggettati ad imposta proporzionale di registro gli atti traslativi o costitutivi di diritti reali di godimento “compresa la rinuncia pura e semplice agli stessi”. Ai fini fiscali la rinuncia ai diritti reali si considera alla stregua di un trasferimento, in quanto generativa di un arricchimento nella sfera giuridica altrui, come tale soggetto ad imposta ipocatastale. In conformità alla prassi amministrativa:tra gli atti a titolo gratuito sono compresi i trasferimenti di beni e diritti privi dell’animus donandi, compresa la rinunzia pura e semplice a diritti reali immobiliari di godimento, qualora la causa di tali atti non sia costituita da una controprestazione economicamente rilevante; la rinunzia a titolo gratuito al diritto di usufrutto, in favore del nudo proprietario, configurando una forma di donazione indiretta, è soggetta ad imposta sulle donazioni, nonché alle imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale. (1)

(Omissis) Ritenuto che: l’Agenzia delle entrate ricorre per la cassazione della sentenza della CTR della Lombardia, indicata in epigrafe, che su impugnazione di avviso di liquidazione per iscrizione ipotecaria anno 2015, relativo al recupero dell’imposta proporzionale nella misura del 2% d.lgs. n. 347 del 1990, Tariffa all., ex art. 1, su contratto rogato dal notaio M. reg. il (OMISSIS) n. (OMISSIS), ha rigettato l’appello dell’Ufficio. La CTR ha qualificato la rinuncia all’usufrutto atto abdicativo cui consegue l’estinzione del diritto e non il suo trasferimento. M.A. si è costituito con controricorso e ha depositato memoria. Considerato che: con l’unico motivo del ricorso si deduce violazione del d.lgs. n. 347 del 1990, Tariffa all., art. 1, e del d.lgs. n. 347 del 1990, artt. 2 e 10, ex art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto il D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47, come mod. dalla L. n. 248 del 2006 individua l’ambito di riferimento dell’imposta ai “trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vin-


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coli di destinazione”. Derivando dalla rinuncia un arricchimento del nudo proprietario è evidente che tra l’atto di rinuncia e l’arricchimento esiste un nesso di causalità, per cui la rinuncia a una quota di usufrutto è riconducibile agli atti di trasferimento del diritto che scontano le imposte ipotecarie e catastali. Il motivo è fondato. Va premesso che al Testo unico delle imposte ipotecarie e catastali, tariffa allegata, art. 1 (TUIC n. 347 del 1990) recante “Indicazione della formalità. Trascrizioni diverse. Misura dell’imposta”, dispone che l’imposta ipocatastale si applica nella misura fissa per i trasferimenti soggetti all’imposta sul valore aggiunto, nonchè per quelli di cui al testo unico disposizioni imposta di registro, tariffa, parte 1, art. 1, comma 1, quarto e quinto periodo, approvato con D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131; l’art. 2, comma 1 stabilisce altresì che L’imposta proporzionale dovuta sulle trascrizioni è commisurata alla base imponibile determinata ai fini dell’imposta di registro o dell’imposta sulle successioni e donazioni. Il D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47, conv. L. n. 286 del 2006 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria) dispone poi che: È istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001, fatto salvo quanto previsto dai commi da 48 a 54), in connessione con al d.lgs. n. 346 del 1990, art. 1, comma 2 (Imposta sulle successioni e donazioni), prevedendo che la rinunzia a diritti reali costituisce presupposto per l’applicazione dell’imposta di donazione; secondo il D.P.R. n. 131 del 1986, Tariffa, Parte 1, art. 1, sull’imposta di registro, l’aliquota proporzionale si applica infatti alla ‘rinuncia pura e semplicè a diritti reali immobiliari di godimento”. Ciò premesso, la questione posta con il ricorso, che impone la qualificazione della rinuncia al diritto reale con specifico riferimento alle norme dettate in materia fiscale, trova soluzione nella giurisprudenza di questa Corte, posto che l’art. 1 della parte prima della tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, espressamente richiamata dal TUIC, prevede che siano assoggettati ad imposta proporzionale di registro gli atti traslativi o costitutivi di diritti immobiliari di godimento, “compresa la rinuncia pura e semplice agli stessi” (Cass. n. 27480/2016; n. 24512/2005; confr., in motivazione, n. 10979/2007, n. 6398/2006; n. 7417/2003). Ai fini fiscali, pertanto, la rinuncia ai diritti reali si considera alla stregua di un trasferimento, in quanto generativa di un arricchimento nella sfera giuridica altrui, come tale soggetta a imposta ipocatastale. La indicata giurisprudenza, applicabile alla fattispecie in esame stante l’espresso richiamo alle norme sull’imposta di registro, ha affermato che anche “la rinuncia all’usufrutto rientra a pieno titolo tra questi ultimi atti, essendo l’usufrutto un tipico diritto reale di godimento”, per cui “il venir meno della cosiddetta imposta di con-


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solidazione, alla luce delle comuni regole deducibili dall’ordinamento tributario, ha comportato l’assenza di imposizione ove il consolidamento derivi da un fatto (morte dell’usufruttuario, scadenza del termine), ma non ove il trasferimento derivi da un atto negoziale, cioè da uno specifico atto ben distinto dall’atto di separazione della proprietà dall’usufrutto”. “Non vi sarebbe alcun logico motivo per assoggettare ad imposta la cessione dell’usufrutto di cui all’art. 980 c.c. e non la rinuncia negoziale al diritto stesso, che arreca al nudo proprietario un arricchimento identico a quello conseguito da chi riceve l’usufrutto”. Tale interpretazione è peraltro conforme alla prassi amministrativa (v. circolare n. 28 del 2008), cui il notaio rogante è vincolato, che in merito agli atti a titolo gratuito ha specificato “che tra gli atti a titolo gratuito sono ricompresi tutti i trasferimenti di beni e diritti privi dell’animus donandi, ossia della volontà del donante di arricchire il donatario con contestuale suo impoverimento. Rientrano, ad esempio, nella categoria degli atti a titolo gratuito gli atti costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento, compresa la rinuncia pura e semplice agli stessi, qualora la causa dei tali atti non sia costituita da una controprestazione economicamente rilevante”. Con la risoluzione 16 febbraio 2007, n. 25, l’Agenzia delle entrate aveva già precisato che l’atto di rinuncia a titolo gratuito del diritto di usufrutto in favore del nudo proprietario, configurando una forma di donazione indiretta, è soggetto all’imposta prevista dal d.lgs. n. 346 del 1990, come reintrodotto dalla L. n. 286 del 2006, di conversione del D.L. n. 262, nonché alle imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale. La sentenza impugnata, pertanto, va cassata e potendo la causa essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, il ricorso introduttivo del contribuente va respinto. La particolarità della questione trattata, e l’assenza di un apprezzabile numero di precedenti specifici, inducono il Collegio a disporre la compensazione delle spese dell’intero giudizio. P.Q.M. Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente. Compensa le spese dell’intero processo.

(Omissis)

(1) Sul regime fiscale delle rinunzie nell’imposizione dei trasferimenti della ricchezza. Sommario: 1. La scelta della Cassazione e le sue motivazioni. – 2. Il regime delle

rinunzie nella disciplina del registro e dell’imposta sulle successioni e donazioni. – 3. L’applicazione delle imposte ipotecarie e catastali alle rinunzie a diritti reali immobiliari. – 3.1. L’estensione ai tributi ipocatastali dell’ “equiparazione” delle rinunzie ad atti traslativi: a) dati testuali e valenza dei principi; – 3.2. segue: b) la definizione dei presupposti “dipende” da quella delle correlative fattispecie imponibili nella disciplina del registro e dell’imposta sulle successioni e donazioni. – 4. La rinunzia “pura e semplice” e i tributi ipocatastali.


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La Cassazione ritiene che tutte le rinunzie a diritti reali siano soggette ad imposta sulle successioni e donazioni, e quindi alle imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale, in quanto atti a titolo gratuito. Un esame della complessiva disciplina delle imposte sui trasferimenti della ricchezza fa propendere per l’assoggettamento all’imposta sulle successioni e donazioni delle sole rinunzie che realizzino attribuzioni liberali; le altre rinunzie sarebbero invece soggette ad imposta di registro e ad imposte ipotecarie e catastali in misura fissa ridotta, in virtù dell’equiparazione a trasferimenti a titolo oneroso. The Supreme Court holds that all waivers to in rem rights are subject to the inheritance and donation tax, and consequently to mortgage and registration tax on a proportional basis. Such position is based on the assumption that waivers are gratuitous acts. A review of the aggregate set of regulations concerning taxes on transfers of assets or rights supports a different interpretation, pursuant to which only the waivers made as a gift are subject to inheritance and donation tax. Based on such interpretation, waivers which are not intended as a gift (animus donandi) would be subject to registration tax and to mortgage and registration taxes in a reduced fixed amount, as they would be considered transfers for consideration.

1. La scelta della Cassazione e le sue motivazioni. – Dall’ordinanza annotata si desume che la controversia trae origine dall’impugnazione di un avviso di liquidazione “per iscrizione ipotecaria anno 2015”. Parrebbe dovuto a mero errore materiale il riferimento all’ “iscrizione” (e non alla “trascrizione”) ipotecaria. Si dovrebbe comunque dedurre da quell’espressione che l’atto notarile di rinunzia a quota di usufrutto su immobile, richiamato nel fatto, ma di cui sono omessi gli estremi di registrazione, sia stato stipulato successivamente al 1° gennaio 2014. La Cassazione conclude per l’applicabilità delle imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale. La motivazione dell’ordinanza si incentra sulla “riconducibilità” della rinunzia ad usufrutto agli “atti di trasferimento del diritto che scontano le imposte ipotecarie e catastali”. L’affermazione che “ai fini fiscali… la rinuncia ai diritti reali si considera alla stregua di un trasferimento” parrebbe fondata da un richiamo effettuato dal Testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale ed è suffragata da precedenti della Cassazione stessa relativi all’applicazione dell’imposta di registro a rinunzie ad usufrutto. In effetti, nella Nota all’art. 1 Tariffa allegata al d.lgs. 31.10.1990, n. 347, e nell’art. 10 del d.lgs. medesimo si rinviene un rinvio ad alcuni periodi del c. 1 dell’art. 1 Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. 26.4.1986, n. 131, ma, come si dirà, non sembra oggi possibile attribuire a quel dato testuale alcun valore


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normativo. Comunque, nel seguito della motivazione si afferma espressamente che l’atto di rinunzia in questione costituisce “atto a titolo gratuito, soggetto ad imposta sulle successioni e donazioni”, citando la Circolare n. 28/E/20008 e la risoluzione n. 25/2007 dell’Agenzia delle entrate, che ambedue sostengono l’assoggettabilità a tale imposta delle rinunzie a diritti reali di godimento, la prima qualora “la causa di tali atti non sia costituita da una controprestazione economicamente rilevante”, la seconda perché “la rinuncia a titolo gratuito del diritto di usufrutto in favore del nudo proprietario” configura “una forma di donazione indiretta”. La qualificazione delle rinunzie ai fini dell’applicazione delle imposte di registro e di successione e donazione sembra quindi condizionare il problema relativo alla misura dell’imposta ipotecaria di trascrizione (e dell’imposta catastale), ma secondo una relazione logico - giuridica non chiaramente evidenziata nella sentenza. Sembra dunque necessario chiarire preliminarmente quale sia il regime delle rinunzie nell’applicazione delle imposte “principali” sui trasferimenti della ricchezza, caratterizzate da fattispecie imponibili in relazione di alternatività, o, forse meglio, di complementarietà, in quanto, ove si ritenga un atto tra vivi non soggetto ad imposta sulle donazioni, esso rientra necessariamente nell’area di operatività dell’imposta di registro. 2. Il regime delle rinunzie nella disciplina del registro e dell’imposta sulle successioni e donazioni. – Consideriamo pertanto i dati normativi sulla base dei quali deve essere risolto il problema dell’assoggettabilità degli atti di rinunzia all’imposta sulle donazioni o all’imposta di registro. Sul piano testuale, il primo riferimento alle rinunzie era contenuto nell’art. 1, c. 1, Tariffa, parte prima, Allegato A, al D.P.R. 26.10.1972, n. 634, ove si menzionavano, assoggettandoli ad imposta proporzionale di registro, gli “atti traslativi o costitutivi di diritti reali di godimento, compresa la rinuncia pura e semplice agli stessi”(prima della riforma, vigente l’imposta di consolidazione, si riteneva che la rinunzia abdicativa all’usufrutto fosse soggetta alla sola imposta fissa (1)). La formula, stando al tenore letterale, era riferibile alle sole rinunzie a diritti reali di godimento, non alle rinunzie a quote di comproprietà o alla proprietà tout court. Il correlativo art. 1, c. 1, D.P.R. 26.10.1972, n. 637,

(1) Cfr. A. Uckmar, La legge di registro, I, Padova, 1958, 280; E. Jammarino, Commento alle leggi di registro, Torino, 1959, 109.


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assoggettava ad imposta sulle successioni e donazioni i “trasferimenti a titolo gratuito di beni e diritti per atto tra vivi”, precisando, al c. 3 del medesimo articolo, che “si intende per trasferimento anche la costituzione di un diritto reale di godimento”. Il dato letterale deponeva quindi per l’assoggettamento ad imposta di registro di tutte le rinunzie a diritti reali di godimento, visto che i “trasferimenti a titolo gratuito”, in quanto tali oggettivamente liberali, non includono il mero intento abdicativo (si poteva forse dubitare, ad es., del trattamento riservato ad una “donazione liberatoria”, ove la si ritenesse civilisticamente possibile, perché il risultato liberale derivava dal solo effetto estintivo della rinunzia). Nel Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, approvato con il D.P.R. n. 131/1986, il primo comma, primo periodo, dell’art. 1 Tariffa, parte prima, risulta lievemente modificato, come segue: “Atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili in genere e atti traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari, compresi la rinuncia pura e semplice agli stessi, i provvedimenti di espropriazione per pubblica utilità e i trasferimenti coattivi.”; questa nuova formula consente di includere nella previsione anche le rinunzie alla proprietà (od a quote di comproprietà), diritto cui, con qualche sforzo, può essere riferito il termine “stessi”. L’equiparazione ai trasferimenti si estende alle rinunzie relative a diritti su beni diversi dagli immobili (beni mobili, beni immateriali, titoli di credito) per effetto del richiamo agli “atti di cui al comma 1 dell’art.1” contenuto nell’art. 2 Tariffa, parte prima. Quattro anni dopo, nel Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, approvato con d.lgs. 31.10.1990, n. 346, i primi due comma dell’art. 1 risultano così formulati: “1- L’imposta sulle successioni e donazioni si applica ai trasferimenti di beni e diritti per successione a causa di morte ed ai trasferimenti di beni e diritti per donazione o altra liberalità tra vivi. 2- Si considerano trasferimenti anche la costituzione di diritti reali di godimento, la rinunzia a diritti reali o di credito e la costituzione di rendite o pensioni.”. Il c. 47 dell’art. 2 D. L. 3.10.2006, n. 262, come risulta a seguito delle modificazioni introdotte con la legge di conversione 24.11.2006, n. 286, per quanto qui interessa recita: “È istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, nel teso vigente alla data del 24 ottobre 2001, fatto salvo quanto disposto dai commi da 48 a 54”.


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Sulla base dei testi degli atti normativi attualmente in vigore sembra si possa sostenere: a) che la previsione delle rinunzie a diritti reali quali presupposti dell’imposta di registro potrebbe, in via interpretativa, essere estesa superando l’originaria limitazione alle rinunzie a diritti reali di godimento, alle rinunzie a tutti i diritti reali (come la proprietà o, ad es., il diritto del concedente l’enfiteusi, se considerato diverso dalla proprietà, il “diritto di cubatura”, se considerato reale e non di godimento, e così via); e ciò anche in virtù di un’evoluzione normativa che trova corrispondenza in quella delle disposizioni in materia di imposte sulle successioni e donazioni; b) che nell’area delle rinunzie si riscontra il già menzionato rapporto di complementarietà tra le due imposte; il criterio discretivo va dunque tratto dalle disposizioni che definiscono il presupposto del tributo sulle successioni e donazioni, quando riferibile ad atti tra vivi, ma considerandole in rapporto di deroga con quelle che disciplinano il presupposto dell’imposta di registro; a tal fine è innanzi tutto necessario individuare i dati testuali cui fare riferimento. Va preliminarmente esclusa la possibilità di prendere in considerazione i soli atti normativi relativi alle imposte di successione e donazione (il D. L. n. 362/2006, come modificato dalla legge di conversione n. 286/2006, anche nella parte in cui rinvia al d.lgs. n. 346/1990 “nel testo vigente alla data del 24.10.2001”), che, entrati in vigore successivamente al 1°.7.1986, data di entrata in vigore del D.P.R. n. 131/1986, avrebbero abrogato tacitamente, per incompatibilità, la previsione delle rinunzie nell’art. 1 tariffa, parte prima, allegata a quest’ultimo D.P.R. Infatti, a prescindere dalle considerazioni di cui oltre circa la portata necessariamente più ampia delle norme che definiscono il presupposto dell’imposta di registro (tendenzialmente qualificabili, rispetto alla corrispondente disciplina in tema di imposta sulle donazioni, come lex generalis), il comma 1 dell’art. 1 Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986 è stato integralmente sostituito, con effetto dal 1.1.2014, dall’art. 10, c. 1, lett. a), d.lgs. 14.3.2011, n. 23. Poiché nel testo attualmente in vigore del suddetto art. 1 Tariffa l’inciso relativo alle rinunzie è identico a quello contenuto nel precedente testo, non è possibile considerarlo abrogato, anzi, potrebbe perfino ipotizzarsi la soluzione inversa. D’altronde, anche volendo risolvere la questione esclusivamente sulla base delle disposizioni relative all’imposta sulle donazioni, si deve ammettere che sono soggette ad imposta di registro le rinunzie a diritti reali “verso corrispettivo” (al più, si potrebbe contestare che, in assetti corrispettivi, non


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di rinunzia si tratta, ma di alienazione del diritto, e tuttavia l’argomento non si attaglierebbe alle rinunzie a diritti non alienabili autonomamente, come le servitù e gli stessi diritti di uso ed abitazione). Si devono quindi prendere in considerazione come dati testuali dai quali desumere il criterio discretivo per l’assoggettamento delle rinunzie all’una o all’altra imposta sia le disposizioni in tema di imposta di registro che quelle relative all’imposta sulle successioni e donazioni. Va innanzi tutto rilevato che, nella tradizione del registro e sino alla riforma, tutti gli atti tra vivi erano soggetti alla sola imposta di registro; quindi il problema non si poneva. Quando, nell’attuare la riforma, si vollero trasferire nell’ambito di operatività del tributo successorio i negozi liberali, si utilizzò la formula “trasferimenti a titolo gratuito di beni e diritti per atto tra vivi”. Questa espressione, tecnicamente intesa, è riferibile a negozi che producono direttamente l’incremento di un patrimonio ed il decremento di un altro, ambedue attuali e determinati (il “trasferimento”, appunto) non compensati da ulteriori effetti giuridici che riequilibrino, in tutto o in parte, quelle variazioni patrimoniali. In questa prospettiva, orientata essenzialmente a valutare gli effetti diretti di negozi tipici, risultava logico precisare l’equiparazione degli effetti derivativo – costitutivi a quelli traslativi e, in considerazione delle eventuali conseguenze ulteriori dei loro effetti estintivi, inserire le rinunzie ai diritti reali di godimento nella tariffa del registro. Solo nel Testo unico del 1990 l’esigenza, all’epoca già emersa, di confermare l’assoggettamento al tributo successorio delle liberalità non donative, chiaramente espressa dalle parole “o altra liberalità tra vivi” aggiunte all’originaria previsione delle donazioni, induce ad ampliare espressamente, nel secondo comma dell’art. 1 del d.lgs. n. 346/1990, l’equiparazione ai “trasferimenti”, estesa dalle costituzioni di diritti reali di godimento anche alla “rinunzia a diritti reali o di credito”, oltre che alla costituzione di rendite e pensioni. Mi sembra particolarmente significativa la connessione fra l’aggiunta della specifica menzione delle “altre liberalità tra vivi” ed il riferimento alle rinunzie, spesso utilizzate per effettuare liberalità senza ricorrere al negozio tipico di donazione. In quel contesto l’equiparazione di cui al c. 2 dell’art. 1 d.lgs. n. 346/1990 assume, a mio avviso, il valore di un riconoscimento della possibilità e della frequenza di “donazioni indirette” realizzate tramite rinunzie. Invero, le altre tipologie di effetti menzionate nel medesimo comma (costituzione di diritti reali di godimento e di rendite o pensioni), se prodotte in assetti negoziali non onerosi, danno sicuramente luogo a donazioni in senso proprio. La sostituzione, nei comma 47 e seguenti dell’art. 2 D. L.


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n. 262/2006, come modificato dalla legge di conversione n. 286/2006, della formula “o altra liberalità tra vivi” con l’attuale “o a titolo gratuito” (che riproduce esattamente quella esistente nel D.P.R. n. 637/1972), sempre riferita ai “trasferimenti”, non modifica sostanzialmente il significato dell’intera disposizione: un “trasferimento di beni o diritti”, in senso tecnico, che non sia oneroso, è oggettivamente liberale; nella determinazione del disponente, esso implica una valutazione del depauperamento del proprio patrimonio come strumentale al risultato “finale” dell’arricchimento del beneficiario. Quando si adotta uno schema causale meramente “abdicativo”, quindi “neutro”, come la rinunzia, questa valutazione non è connaturata allo schema stesso, ma deve risultare da ulteriori indici di un effettivo intento liberale. Nelle disposizioni in tema di imposta di registro, l’inclusione delle rinunzie nella voce di tariffa relativa ai trasferimenti a titolo oneroso di diritti reali immobiliari (e, per effetto del rinvio di cui all’art. 2 della Tariffa, anche degli altri diritti reali) assume, sin dall’origine, una valenza più ampia rispetto alle contestuali “equiparazioni” relative alle costituzioni di diritti reali di godimento, ai provvedimenti di espropriazione per pubblica utilità e ai trasferimenti coattivi, che sono categorie di effetti o atti (i provvedimenti di espropriazione) sempre identificabili con (o produttivi di) attribuzioni patrimoniali ad un determinato soggetto corrispondenti a depauperamento di altro soggetto; queste attribuzioni o sono onerose o sono liberali, non vi è possibilità di qualificazioni intermedie, non le si possono definire meramente gratuite, né, tanto meno, “neutre”. Dunque la loro espressa menzione nell’art. 1 Tariffa, parte prima, ha valore puramente esplicativo: ad esse si applica l’imposta di registro se ed in quanto si realizzino in assetti onerosi. Le rinunzie, in quanto tali, sono invece estranee all’alternativa onerosità – gratuità, anche se possono inserirsi in contratti a prestazioni corrispettive (ad es., transazioni), assetti negoziali onerosi, ma non specificamente corrispettivi (si pensi alla rinunzia “liberatoria” di cui all’art. 1104, c. 1 e 2, c.c.), ovvero propriamente liberali (come nelle donazioni “liberatorie” o comunque ove realizzino “donazioni indirette”). Poiché il presupposto dell’imposta di registro poteva estendersi, nel sistema dell’imposizione indiretta instauratosi con la riforma, a tutti gli atti di cui all’art. 2 D.P.R. n. 634/1972 (poi trasfuso nell’art. 2 D.P.R. n. 131/1986), la scelta, effettuata sin dalla prima attuazione della legge delega n. 825/1971, di inserire in Tariffa l’espressa menzione delle rinunzie conferma l’assoggettamento all’imposta, con le aliquote proprie degli atti traslativi, di tutte le rinunzie, a prescindere dalla loro riconduzione alle categorie degli atti onerosi, gratuiti o “neutri”. Quando, nel 1990, fu approvato il Testo unico delle


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disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, la menzione, nel c. 2 dell’art. 1, delle rinunzie, coeva all’inserimento, nel c. 1, dell’espressa previsione delle “altre liberalità tra vivi”, aveva evidentemente riguardo alla possibilità di rinunzie che realizzino indirettamente liberalità; tenendo conto della definizione del presupposto del tributo successorio, incentrata sull’arricchimento del beneficiario causalmente connesso al dissolversi od al depauperarsi di altro patrimonio, il riferimento alle rinunzie doveva dunque intendersi come limitato alle sole ipotesi in cui loro tramite si realizzassero attribuzioni liberali. Le successive vicende normative che hanno interessato l’imposta sulle successioni e donazioni non sembrano aver sostanzialmente modificato il dato testuale sul quale si basa questa interpretazione, visto che le parole “trasferimenti … a titolo gratuito”, riprese dal testo originario dell’art. 1 D. P. R. n. 637/1972, indicano necessariamente liberalità, come già si è accennato. Un’interpretazione attenta al dato testuale ed alla sequenza temporale delle scelte normative induce dunque a concludere che le rinunzie sono, in linea di principio e per regola generale, soggette ad imposta di registro, con le aliquote proprie dei trasferimenti a titolo oneroso; solo quando risultino integrare attribuzioni liberali rientrano nell’area di operatività dell’imposta sulle successioni e donazioni. A questa soluzione si oppone però un orientamento, in primo luogo dell’amministrazione finanziaria, che fa leva su di una nozione, a mio avviso indebitamente ristretta, di onerosità degli atti e delle prestazioni, che viene fatta coincidere con la sola corrispettività, con il sinallagma contrattuale. Il risultato pratico di questa scelta interpretativa è l’affermazione che tutti gli assetti negoziali non corrispettivi sono “gratuiti”, dunque danno luogo all’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni (così forzando il dato testuale, giacché il D.L. n. 262/2006, come modificato in sede di conversione, utilizza la risalente formula “trasferimenti … a titolo gratuito”, non dispone l’assoggettamento al tributo degli “atti a titolo gratuito”); all’imposta di registro sarebbero quindi assoggettati solo contratti caratterizzati dalla relazione corrispettiva tra le prestazioni. Poiché la categoria della gratuità è, in questa prospettazione “aperta” (è gratuito tutto ciò che non è corrispettivo), il rapporto di complementarietà fra i due tributi si inverte: è il presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni a presentare il carattere della residualità, non quello dell’imposta di registro. Non è questo il luogo per un’esauriente contestazione di questa tesi. Basterà ricordare, limitandoci alla tematica dei trasferimenti, che non si può escludere la sussistenza di assetti negoziali onerosi, ma non corrispettivi (perché


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caratterizzati, ad es., da causa solvendi, come la dazione in pagamento, ovvero da funzione restitutoria, come le “prestazioni derivanti dalla risoluzione” di cui all’art. 28, c. 2, D.P.R. n. 131/1986, e così via). Sembra però evidente che ad essa siano talvolta ispirati interventi dell’Agenzia delle entrate, opinioni dottrinali e decisioni dei giudici. Appaiono dunque chiaramente delineati, sul tema in esame, due approcci interpretativi. L’uno, consapevole dei vincoli sistematici e della specifica valenza delle successive modifiche legislative, conclude per l’assoggettamento all’imposta sulle successioni e donazioni delle sole rinunzie che possano integrare “trasferimenti a titolo gratuito” e pertanto liberalità (donative, nella prospettiva della donazione liberatoria, o non donative, soprattutto nell’ottica del negozio, o procedimento, indiretto), con esclusione quindi degli assetti negoziali “neutri”, per loro natura esclusi dalla gratuità. L’altro, fondato su di una definizione, apoditticamente adottata dall’Agenzia delle entrate, per cui è “gratuito” ogni negozio che non preveda prestazioni corrispettive, e che conclude per l’assoggettamento al tributo successorio di tutte le rinunzie, salvo quelle di cui si dimostri l’effettuazione “verso corrispettivo” (secondo schemi negoziali tipici, come quello della transazione in cui una delle reciproche concessioni, od ambedue, consistano in rinunzie a diritti spettanti alle parti o da loro vantati, ovvero più o meno atipici, come, ad es., la rinunzia a servitù dietro corrispettivo, pecuniario o meno). Ritengo, ovviamente preferibile il primo orientamento, che rispetta l’originario criterio distintivo fra gli ambiti di operatività dell’imposta di registro e dell’imposta sulle successioni e donazioni, che riservava (ed a mio avviso tuttora riserva) a quest’ultima le sole attribuzioni liberali, in quanto tali logicamente coordinabili con le attribuzioni successorie in un complesso di fattispecie imponibili riconducibili ad un’unitaria ratio impositiva (e mi sembra che vada da ultimo errando la Cassazione nel negare le ragioni di un coordinamento fra le relative applicazioni, ad es., ai fini della determinazione delle franchigie). D’altra parte, la soluzione sostenuta dall’amministrazione, e che qui, come in altri casi, sembra presupposta dalla Cassazione, comporta incongruenze ed insormontabili difficoltà applicative. Si profilano invero non giustificabili disparità di trattamento, ad es.: - fra rinunzia al credito e remissione del debito (espressamente prevista nell’art. 6 Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986), di cui si possono discutere eventuali differenze strutturali e nelle quali resta ferma la diversa incidenza sugli effetti della volontà del debitore, ma che presen-


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tano il medesimo profilo causale (tipicamente neutrale, ma orientabile ad assetti liberali ovvero inseribile in contesti onerosi); - fra rinunzia al diritto in contestazione, che può anche aggiungersi alla rinunzia agli atti del giudizio, e rinunzie inserite in transazioni, sicuramente soggette ad imposta di registro, ma potenzialmente espressione di un analogo intento abdicativo. Per altro verso, l’amministrazione intende assoggettare ad imposta sulle successioni e donazioni, il cui unico soggetto passivo è il beneficiario (il rinvio alla disciplina del registro – art. 55, c. 1, d.lgs. n. 346/1990 – riguarda il solo procedimento), atti unilaterali nel cui contenuto l’individuazione del soggetto o dei soggetti indirettamente avvantaggiati dall’estinzione del diritto rinunziato non è necessaria (e talvolta appare pressoché impossibile: si pensi alle rinunzie a quote di comproprietà su immobili i cui comproprietari sono, a seguito di successioni non dichiarate e del decorso del tempo, praticamente non rintracciabili); nel caso poi della rinunzia alla proprietà piena, cui dovrebbe conseguire l’acquisto da parte dello Stato (non sempre gradito, si veda il parere dell’Avvocatura dello stato A.L. 37243/17/ Sez. III), è dubbia l’applicabilità dell’art. 57 D.P.R. n. 131/1986; anche ad ammettere, oltre a quella del notaio (se intervenuto), tipicamente connessa al procedimento attuativo del registro, la responsabilità del rinunziante (quale “parte contraente”?; ma si dovrebbe forzare il senso del rinvio succitato), si avrebbero ipotesi di coobbligati “dipendenti” in relazione ad un obbligato “principale” che potrebbe essere ignoto od irrintracciabile. Infine, si imporrebbe, nella redazione di tutti gli atti di rinunzia in cui manchi l’espressa menzione del “corrispettivo”, l’indicazione, con i valori di “quanto donato”, delle donazioni precedentemente fatte allo stesso beneficiario (art. 57, c. 2, d.lgs. n. 346/1990); la disposizione risulta incongrua con riferimento alle ipotesi di rinunzia effettivamente “abdicativa”, strutturalmente unilaterali, ed ancor più incongrua sarebbe l’irrogazione, in solido, al disponente ed al “beneficiario” (quest’ultimo potenzialmente ignaro), della pena pecuniaria ivi prevista. Sembra assai più ragionevole e funzionale l’altro orientamento interpretativo, per il quale sono soggette ad imposta di registro (obbligato principale il solo rinunziante) tutte le rinunzie, tranne quelle di cui sia enunciata (o congruamente provata dall’amministrazione finanziaria) la specifica natura liberale, per la struttura tipica evidenziata (sempre che si ammetta la possibilità di porre in essere negozi tipici, come la donazione, la dotazione della fondazione, il contributo ad enti del terzo settore, ecc., realizzando l’attribuzione


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liberale mediante rinunzia) oppure perché danno luogo o concorrono a dar luogo a liberalità non donative, tramite negozi (procedimenti o collegamenti negoziali) indiretti. Nell’ordinanza annotata il problema dell’assoggettabilità dell’atto ad imposta di registro o sulle successioni e donazioni non è affrontato, ma, come vedremo, la sua soluzione è essenziale per la corretta determinazione della misura delle imposte ipotecarie e catastali dovute. 3. L’applicazione delle imposte ipotecarie e catastali alle rinunzie a diritti reali immobiliari. 3.1. L’estensione ai tributi ipocatastali dell’“equiparazione” delle rinunzie ad atti traslativi: a) dati testuali e valenza dei principi. – Si deve, invero, prendere atto che, nella disciplina delle imposte ipotecarie di trascrizione (ed anche di quella catastale) manca qualsiasi riferimento testuale alla rinunzia a diritti reali immobiliari. La tariffa allegata al d.lgs. n.347/1990 si limita a distinguere le “trascrizioni di atti e sentenze che importano trasferimento di proprietà di beni immobili o costituzione o trasferimento di diritti reali immobiliari sugli stessi”, in relazione alle quali sono dovute, in linea di principio, imposte proporzionali (artt. 1 e 1 bis), dalle trascrizioni di atti o sentenze che non importano tali effetti, in relazione alle quali sono dovute imposte fisse. La motivazione dell’ordinanza qui commentata sembra, come già si è detto, fondare la sua decisione innanzi tutto su di un rinvio all’art. 1 Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986, ed in effetti nella Nota all’art 1 Tariffa allegata al d.lgs. n. 347/1990 risulta un rinvio al D.P.R. n.131/1986 (rinvio ripetuto, con le stesse parole, nel c. 1 dell’art. 10 del medesimo d.lgs. n. 347/1990, che disciplina l’imposta catastale). Tuttavia, nelle disposizioni succitate, il rinvio serviva esclusivamente ad individuare categorie di atti, pur traslativi, ma di cui si disponeva l’assoggettamento alla sola imposta fissa; più precisamente, sono menzionati gli atti “di cui all’art. 1, comma 1, quarto e quinto periodo, della tariffa, parte prima, allegata al testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, approvato con D.P.R. 26 aprile, 1986, n.131”, non l’intero primo comma e comunque non il suo primo periodo, ove nel 1990 si disponeva, e tuttora nel testo attuale si dispone, l’equiparazione delle rinunzie ai trasferimenti. Inoltre, i periodi quarto e quinto del medesimo comma primo, cui hanno riferimento le disposizioni rinvianti, risultavano nel testo di tale disposizione in vigore all’entrata in vigore del d.lgs. n. 346/1990, ma non sussistono più nel testo attuale, in vigore dal 1° gennaio 2014. Il nuovo testo ha mantenuto, nel


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primo periodo, l’equiparazione delle rinunzie ai trasferimenti, ma nei successivi periodi è totalmente diverso dal precedente. Sembra che la soluzione interpretativa più ragionevole consista oggi nel considerare il rinvio in questione come ormai privo di qualsiasi efficacia normativa, giacché, se assunto come fisso, individuerebbe categorie di atti ormai non più soggetti ad un regime differenziato ai fini del registro, se assunto come mobile sarebbe privo di effetto quanto al “quinto” periodo (o capoverso), non più esistente nel testo, mentre il “quarto” periodo, introdotto solo a decorrere dal 1° gennaio 2016, prevede un’aliquota dell’imposta di registro proporzionale ma agevolata per trasferimenti a banche ed intermediari finanziari connessi a concessioni in leasing di case di abitazione. D’altra parte, fermo restando che il rinvio, sin dall’origine, non riguardava l’equiparazione qui considerata, a decorrere dal 1°gennaio 2014, tutti gli atti traslativi a titolo oneroso di cui al c. 1 dell’art. 1 Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n.131/1986 sono soggetti alle imposte ipotecarie e catastali in misura fissa ridotta; non avrebbe quindi alcun senso ritenere in vigore discriminazioni fra di loro. Si potrebbe allora considerare il ragionamento della Corte come fondato, non tanto sull’efficacia normativa propria di un rinvio, che è comunque limitata al suo specifico oggetto, ma sull’implicita assunzione a principio generale, valido per tutte le imposte sui trasferimenti della ricchezza, dell’equiparazione delle rinunzie a trasferimenti. Non sembra tuttavia più sostenibile, al giorno d’oggi, la risalente tesi secondo la quale dalla disciplina del registro, in origine tributo ad ambito generale di applicazione e regolato da leggi di più antica ed esaustiva elaborazione, si potevano desumere principi e regole idonei ad integrare, ove necessario, la disciplina di altri tributi. All’imposta di registro il sistema tributario non riconosce più un ambito di efficacia generale, neppure relativamente a tutti gli atti scritti produttivi di effetti giuridici (anzi, nel potenziale concorso con l’IVA la sua applicazione in misura proporzionale è esclusa nell’area di operatività di quest’ultima imposta). Insomma, l’inserimento di una disposizione fra quelle concernenti l’imposta di registro non è sufficiente ad attribuire ai suoi effetti normativi valore di principio, operante anche rispetto ad altri istituti giuridici. D’altronde a quella risalente impostazione teorica si faceva riferimento per integrare con la più completa disciplina del registro, regole ed istituti attinenti, in linea di massima, l’attuazione di altri tributi, non la definizione dei loro presupposti, dei soggetti, dell’imponibile o la determinazione quantitativa. In realtà, l’equiparazione di fattispecie a fattispecie imponibile è disciplina sostanziale, che integra la definizione del presupposto e può fondarsi solo


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su basi testuali (in particolare disposizioni comprese in atti normativi di rango primario) specificamente riferibili (seppure in via indiretta, si pensi alle tecniche del rinvio e della presupposizione) al tributo che da quel presupposto è caratterizzato. Anche l’estensione analogica, la cui ammissibilità nell’ambito della disciplina dei presupposti del tributo è da sempre oggetto di discussione, non può che operare con riguardo ad un principio di riferimento, l’indice di capacità contributiva cui è ordinato ciascun istituto tributario, necessariamente diverso da tributo a tributo. La soluzione del problema affrontato dalla Corte deve quindi essere innanzi tutto ricercata nell’interpretazione delle disposizioni relative alle imposte ipotecarie e catastali, muovendo, ovviamente, dalla disciplina dei loro presupposti. 3.2. La definizione dei presupposti “dipende” da quella delle correlative fattispecie imponibili nella disciplina del registro e dell’imposta sulle successioni e donazioni. – L’art. 1 del d.lgs. n. 347/1990 così definisce l’ “oggetto” dell’imposta ipotecaria: “Le formalità di trascrizione, iscrizione, rinnovazione e annotazione eseguite nei pubblici registri immobiliari sono soggette all’imposta ipotecaria secondo le disposizioni del presente testo unico e dell’allegata tariffa.” L’art. 10, c. 1, del medesimo d.lgs. analogamente così definisce l’oggetto dell’imposta catastale: “Le volture catastali sono soggette all’imposta del 10 per mille sul valore dei beni immobili e dei diritti reali immobiliari determinato a norma dell’art. 2…”. Ambedue le disposizioni surriportate sembrano identificare la fattispecie imponibile dei due tributi, rispettivamente, con le formalità di trascrizione, iscrizione, rinnovazione e annotazione eseguite nei pubblici registri immobiliari e con le “volture catastali”. Tuttavia, si deve tener presente che, a prescindere da qualsiasi formula definitoria contenuta nelle disposizioni di legge, presupposto del tributo è la situazione di fatto al verificarsi della quale il singolo concorso alle pubbliche spese si rende giuridicamente necessario e, in ragione della situazione stessa, definitivo (cioè non riducibile se non a seguito dell’accertamento di un diverso modo di essere del presupposto medesimo). Ora, se si prende in considerazione la disciplina dell’attuazione dei due tributi in questione, si deve prendere atto che, sin dalla originaria previsione normativa, la loro applicazione in misura proporzionale in relazione a trasferimenti immobiliari è sempre stata collegata con l’applicazione delle imposte di registro e di successione. Il collegamento non ha riflessi solo


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sulla competenza per la riscossione e l’accertamento (attribuita agli uffici competenti per le suddette imposte “principali” quando si tratti di “atti che importano trasferimenti di beni immobili ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali immobiliari” – art. 12 d.lgs. n. 347/1990), ma anche per la disciplina dell’imponibile (oggetto di rinvio a quella dei tributi “principali” quando per le imposte ipotecarie e catastali è prevista l’aliquota proporzionale – art. 2 d.lgs. n. 347/1990) e, soprattutto, per la stessa disciplina del presupposto. Infatti, sin dall’origine, le imposte ipotecarie di trascrizione (e le imposte catastali) stabilite in misura proporzionale (all’epoca praticamente tutte quelle connesse con atti traslativi della proprietà o di diritti reali immobiliari) dovevano essere riscosse contestualmente a quelle di registro e di successione, in ragione di elementi fattuali venuti a conoscenza degli uffici secondo le procedure proprie di tali imposte (quindi per registrazione, denunzia od accertamento) e coincidenti con i presupposti delle stesse, con l’unica specificazione che l’applicazione dell’imposta di trascrizione era possibile solo se l’atto aveva forma idonea per l’esecuzione della relativa formalità, che tuttavia non integrava la fattispecie imponibile. Infatti era ben chiaro che l’effettiva esecuzione delle formalità di trascrizione e di voltura di atti e successioni ad effetti traslativi fosse del tutto irrilevante ai fini dell’applicazione e della definitiva acquisizione del tributo (per la trascrizione l’autonomia rispetto al pagamento dell’imposta di registro, quindi anche dell’imposta ipotecaria, risultava, ed in parte ancora risulta, dall’art.2669 c.c.; per la voltura catastale era stabilito un procedimento del tutto autonomo rispetto alla registrazione dell’atto od alla denunzia di successione). Insomma, la mancata esecuzione delle formalità era irrilevante ai fini dell’applicazione delle imposte e non dava luogo ad alcun rimborso; il mancato versamento dei tributi non impediva l’esecuzione della trascrizione (che poteva attivare un controllo, tramite la “terza nota”, e la registrazione dell’atto) e forse neppure la voltura catastale. Il presupposto delle imposte ipotecarie e catastali coincideva quindi con la formazione dell’atto (in forma idonea alla trascrizione) o con l’apertura della successione. Il diverso regime delle imposte ipotecarie e catastali relative ad atti “traslativi” è stato poi confermato con le previsioni di autoliquidazione e versamento tramite delega bancaria anticipati rispetto alla denunzia, controllo della stessa ed eventuale accertamento in caso di successione mortis causa (art. 33, c. 1 bis, d.lgs. n. 346/1990 e 13, c. 2 bis d.lgs. n. 347/1990) e di autoliquidazione con versamento tramite “adempimento unico” per gli atti notarili (art. 3 bis d.lgs. n. 463/1997, aggiunto con l’art. 1 d.lgs. n. 9/2000). A determinare il


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concorso alle pubbliche spese è sempre il perfezionarsi delle fattispecie (successione a causa di morte, confezione dell’atto notarile ad effetti traslativi) assunte a presupposto delle imposte di successione o di registro, mentre risulta irrilevante l’esecuzione delle “formalità”. Infine, con decorrenza dal 1°.1.2014, le aliquote delle imposte ipotecaria e catastale già stabilite in misura proporzionale per gli atti traslativi della proprietà o di diritti reali immobiliari a titolo oneroso sono state “assorbite” dall’imposta di registro con le nuove aliquote proporzionali e “minime” di cui all’art. 1 Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986 oggi in vigore; per tali atti le imposte ipotecarie e catastali sono attualmente dovute per l’importo fisso “ridotto” di euro 50 (art. 10, c. 3, d.lgs. 14.3.2011, n. 23, come sostituito dall’art. 26, c.1, D.L. 12.9.2013, n, 104, convertito, con modificazioni, dalla L. 8. 11.2013, n. 128). La riduzione alla misura fissa delle imposte ipotecarie e catastali relative ad atti traslativi a titolo oneroso potrebbe spiegare la successiva attribuzione agli uffici dei registri immobiliari della competenza a riscuotere tali imposte se dovute su atti giudiziari, per i quali la richiesta della trascrizione è obbligo (art. 6, c. 2, d.lgs. n. 347/1990) dei cancellieri (che non sono responsabili d’imposta) e viene eseguita a debito (art. 16, c. 1, lett. c, d.lgs. n. 347/1990, come modificato dall’art. 6, c. 5 terdecies, lett. b, del D.L. 2.3.2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla L. 26.4.2012, n. 44) con successiva liquidazione e riscossione da parte degli uffici medesimi (art. 16, c. 2 bis, d.lgs.: n. 347/1990, aggiunto dall’art. 6, c. 5 terdecies, lett. c, del medesimo D.L. n. 16/2012). Infatti, non essendo ipotizzabili atti giudiziari che comportino trasferimenti a titolo liberale, ogni atto traslativo per il quale spetta al cancelliere l’obbligo di richiedere la trascrizione è soggetto alla sola imposta fissa ridotta (l’art. 8 Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986 rinvia all’art. 1), gli uffici dei registri immobiliari non devono determinare il valore imponibile dei beni e diritti trasferiti. Resta fermo, però, che anche in questi casi la qualificazione degli atti come “onerosi” (originariamente non rilevante e non menzionata nella disciplina delle imposte ipotecarie e catastali) va effettuata sulla base dei criteri desumibili dalla disciplina dell’ imposta di registro. La disciplina attuativa specificamente prevista dal d.lgs. n. 347/1990 (art. 13, c. 2), e caratterizzata dall’anticipazione del versamento all’atto della richiesta, si applica solo per le imposte ipotecarie di iscrizione ed annotamento ad iscrizione (commisurate all’importo dell’ipoteca iscritta o ridotta) e per quelle di trascrizione ed annotamento a trascrizione non relative ad atti che importano trasferimento di beni immobili o trasferimento di diritti reali immo-


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biliari. In questi casi il presupposto del tributo è sicuramente costituito dalla “formalità” dell’iscrizione, trascrizione od annotamento. Questa sommaria esposizione della disciplina attuativa dei tributi ipotecari e catastali mi sembra dimostrare che i fatti determinanti l’an ed il quantum delle imposte relative ad atti traslativi di proprietà od altri diritti reali immobiliari ed a successioni mortis causa si identificano con il perfezionarsi degli atti stessi o della vicenda successoria, a prescindere dalla effettiva esecuzione delle “formalità”, che, con riguardo agli atti tra vivi, rileva esclusivamente nella prospettiva dell’eseguibilità, in quanto l’imposta è dovuta solo se l’atto costituisce titolo idoneo alla trascrizione (ma la mancata esecuzione della trascrizione o della voltura non da luogo a rimborso). Le fattispecie che determinano la giuridica necessità del concorso alle pubbliche spese consistono dunque nel perfezionarsi degli atti e nell’acquisto di eredità o legati che realizzano tali vicende “traslative”. Questa conclusione si rivela d’altronde pienamente rispettosa del principio dell’interpretazione conforme a costituzione. Ogni definizione del presupposto di tributi eccedenti una moderata misura fissa che assuma ad evento determinante del concorso alle pubbliche spese la mera “formalità” della trascrizione (e tanto più della voltura catastale), senza collegamento alcuno con vicende patrimoniali espressive di capacità contributiva, risulterebbe in contrasto con l’art. 53, c. 1, della costituzione. Neanche l’efficacia “dichiarativa” della trascrizione può essere addotta a giustificazione di una scelta interpretativa che individui nella trascrizione stessa il presupposto del tributo: tale efficacia manca infatti alla trascrizione del certificato di successione, di cui all’art. 5 d.lgs. n.347/1990, mentre l’imposta è dovuta comunque per la successione, a prescindere dalla trascrizione degli acquisti mortis causa (che peraltro non ha effetto dichiarativo); in ogni caso, ancor minore è l’efficacia giuridica riconducibile alla voltura catastale; è dunque evidente che la vicenda rilevante in termini di capacità contributiva è proprio quella “traslativa”, effetto dell’atto o della successione. Diverso sarebbe il discorso per gli effetti “costitutivi” riconosciuti ad alcune forme di pubblicità (come le iscrizioni ed alcuni annotamenti ad iscrizione, che, come si è detto, costituiscono effettivamente il presupposto delle relative imposte). Piuttosto, è la stessa previsione di imposte in misura fissa aventi a presupposto la mera esecuzione di formalità che potrebbe essere sottoposta a scrutinio nell’ottica del principio di capacità contributiva, soprattutto laddove esse concorrano con le “tasse ipotecarie” di cu alla Tabella, allegato 2, al d.lgs. n. 347/1990. Le disposizioni contenute nel suddetto d.lgs. n. 347/1990 sono però assolutamente insufficienti, nel loro contenuto regolamentare, ad una analitica


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definizione e disciplina delle fattispecie imponibili, sia in relazione alla determinazione dell’an e del quantum del prelievo, sia in ordine a modalità e procedure attuative; queste disposizioni si limitano ad un riferimento implicito alla disciplina delle imposte di registro e di successione e donazione. L’intrinseca correlazione dei presupposti e la necessità di coordinare l’azione attuativa degli uffici inducono ad ipotizzare, nel sistema delle imposte ipotecarie e catastali, una sorta di presupposizione dell’intero assetto normativo dei tributi di registro e sulle successioni e donazioni. Si giustificano così, sulla base della disciplina dei tributi “principali”, taluni risultati interpretativi che non troverebbero riscontro nella disciplina direttamente desumibile dal d.lgs. n. 347/1990. Non ha specifico rilievo per la decisione nel caso in esame, ma presenta un certo interesse sistematico, l’estensione della categoria degli atti traslativi a tutti quelli aventi ad oggetto trasferimento o costituzione di diritti reali immobiliari (non solo di quelli relativi a diritti reali di godimento), a mio avviso desumibile da una considerazione complessiva delle disposizioni relative sia alle imposte ipotecarie e catastali, ove si ritrova la formula “diritti reali immobiliari” (artt. 5 e 10 d.lgs. n.347/1990, 1 e 4 Tariffa allegata al d.lgs. medesimo), sia all’imposta sulle successioni e donazioni, ove si parla di “beni e diritti” o di “diritti reali” (artt. 2, c. 47 D.L. n.262/2006, come modificato dalla legge di conversione n. 286/2006; art.1 c. 1 e 2 d.lgs. n. 346/1990). Decisiva, invece, per stabilire il regime cui è soggetto l’atto cui si riferisce l’ordinanza appare l’equiparazione delle rinunzie ai trasferimenti, come si è visto espressamente disposta nella disciplina delle imposte di registro e di successione, non menzionata nel testo del d.lgs. n.347/1990. L’identificazione dei presupposti delle imposte ipotecarie e catastali sugli atti e le successioni “traslativi” di diritti reali immobiliari con i corrispondenti presupposti delle imposte “principali” di registro (sugli atti traslativi idonei alla trascrizione) e di successione e donazione (quando la successione o la donazione comportino trasferimenti immobiliari) implica l’operatività di tutti i criteri definitori di questi ultimi, compresa l’equiparazione delle rinunzie agli atti propriamente traslativi. Tuttavia, poiché l’equiparazione risulta sia nella disciplina del registro che in quella dell’imposta sulle successioni e donazioni, assume rilievo altrettanto decisivo la distinzione, espressa nelle disposizioni relative alle imposte principali, ma non nel d.lgs. n. 347/1990, perché all’origine non rilevante ai fini della determinazione quantitativa delle imposte ipotecarie e catastali, fra atti traslativi a titolo oneroso, soggetti a registro, ma a decorrere dal 1°.1.2014, ad imposte ipotecarie e catastali in misura fissa ridotta, e “tra-


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sferimenti a titolo gratuito”, soggetti ad imposta sulle donazioni e ad imposte ipotecarie e catastali con aliquota proporzionale. 4. La rinunzia “pura e semplice” e i tributi ipocatastali. – Tornando all’ordinanza annotata, sembra evidente che la decisione adottata, nel caso di specie, dalla Cassazione è condizionata dalla tesi, fortemente sostenuta dall’amministrazione finanziaria, secondo la quale fra gli atti soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni sono compresi i trasferimenti di beni e diritti “la cui causa non è costituita da una controprestazione economicamente rilevante”, anche se privi “dell’animus donandi ossia della volontà del donante di arricchire il donatario con contestuale suo impoverimento” (circ. n. 28/E/2008). In questa prospettiva, gli atti tipicamente “neutri”, come la rinunzia, sono assoggettati, salva l’operatività delle franchigie, ad imposta sulle donazioni, e per conseguenza ad imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale, senza alcuna necessità di ulteriori accertamenti (e prove) della circostanza che la rinunzia sia stata effettuata “in favore” del soggetto avvantaggiato dai riflessi indiretti dell’estinzione del diritto rinunziato e quindi configuri una “donazione indiretta” (come dalla ris. n. 25 del 2007, pure citata in motivazione). Si è già accennato alla singolarità degli effetti propriamente fiscali che secondo questa opinione si collegherebbero ad un atto strutturalmente unilaterale e non ordinato, sul piano della causa tipica (quella “concreta” non risulta minimamente indagata e dimostrata), all’arricchimento di alcuno: soggetti passivi dei tributi applicabili sarebbero infatti soggetti non partecipi alla confezione dell’atto, forse neppure in esso nominati ed eventualmente di difficile individuazione, cui dovrebbero rivolgersi la pretesa del fisco, peraltro assistita da privilegio speciale, e, ove questi preferisse rivolgersi al notaio e/o al rinunziante (superando i dubbi già esposti) il regresso (per il primo anche in surrogazione ex art. 58 D.P.R. n. 131/1986) di questi ultimi. La rinunzia alla proprietà (piena, non per quota) di beni immobili porrebbe poi il problema dell’identificazione dell’unico possibile beneficiario con lo stato (che acquista la proprietà dell’immobile vacante ex art. 827 c.c.); qui la soluzione potrebbe essere quella (già prospettata per gli acquisti ex art. 586 c.c.) dell’inapplicabilità di tutte le imposte sui trasferimenti (l’operatività dell’art. 57, c.7, D.P.R. n. 131/1986, che peraltro disciplina “i contratti di cui è parte lo stato”, sarebbe esclusa dall’opzione per il regime degli “atti a titolo gratuito”). Ci si potrebbe allora domandare, visto che la Cassazione non è “vincolata” alla prassi amministrativa (ed in effetti non lo è neppure il “notaio rogante”,


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malgrado il non felice inciso nella motivazione), se non fosse più opportuno (eventualmente fissando il principio di diritto e rimettendo al giudice del merito l’accertamento) approfondire l’indagine circa la natura effettivamente liberale del negozio posto in essere e gli elementi probatori eventualmente addotti. Si noti che l’accoglimento di un diverso indirizzo interpretativo, che assegni all’ambito di operatività dell’imposta sulle successioni e donazioni le sole attribuzioni liberali, riconducendo nell’area del registro tutti gli altri atti tra vivi, non porterebbe a risultati irragionevoli né ad eccessive attenuazioni del carico fiscale per chi riuscisse ad occultare l’effettivo intento liberale (ferma sempre restando l’operatività dell’art. 10 bis L. n. 212/2000). Infatti, la rinunzia di cui non sia dimostrato l’intento liberale sarebbe, in quest’ottica, soggetta ad imposte fisse ipotecarie e catastali, ma anche, stante l’equiparazione agli “atti traslativi a titolo oneroso”, ad imposta di registro con l’aliquota proporzionale del 9%, quindi ad un prelievo superiore a quello proprio dei correlativi atti liberali, per lo meno laddove operino franchigie ed aliquote del 4% (l’aliquota del 6%, sommata al 2% dell’imposta ipotecaria ed all’1% della catastale, equivale all’aliquota ordinaria del registro per i trasferimenti a titolo oneroso). In quest’ambito, potrebbe risultare addirittura più conveniente per le parti evidenziare l’intento liberale. Il discorso si fa, ovviamente, più complesso se si ha poi riguardo alle agevolazioni fiscali previste per le varie imposte ed all’eventualità di una loro applicazione anche alle rinunzie in forza dell’equiparazione ai trasferimenti. In termini più generali, si può infine notare che l’evoluzione del nostro ordinamento tributario sembra orientata all’ “assorbimento” nell’aliquota ordinaria del registro delle aliquote proporzionali di imposte ipotecarie e catastali, non più previste per quasi tutti i trasferimenti a titolo oneroso (restano, infatti, solo le aliquote, rispettivamente del 3% e dell’1% applicabili ai trasferimenti degli immobili strumentali di cui all’art. 10, c. 1, n. 8 ter, D.P.R. n. 633/1972 – cfr. artt. 1 bis Tariffa allegata al d.lgs. n. 347/1990 e 10, c. 1, del d.lgs. medesimo – ma in questi casi le imposte ipotecarie e catastali concorrono con l’IVA). Invece, per tutti i trasferimenti a titolo gratuito di immobili e diritti reali immobiliari si è mantenuta la previsione delle originarie aliquote proporzionali (del 2% e dell’ 1%) per le imposte ipotecarie e catastali. In una prospettiva di razionalizzazione dell’intero settore dell’imposizione dei trasferimenti della ricchezza, si potrebbe pensare ad una definitiva “incorporazione” di queste ultime imposte in quelle di registro e di successione e donazione; naturalmente si dovrebbero, a tal fine, modulare le discipline delle franchigie (attualmen-


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te non previste per le imposte ipotecarie e catastali e che dovrebbero essere riviste nel quadro di un nuovo disegno della progressivitĂ del prelievo sulle attribuzioni liberali) e delle aliquote.

Andrea Fedele


Cass. civ., Sez. V, 14 marzo 2018 - 17 luglio 2018, n. 18917; Pres.: Crucitti; Rel. Federici Reddito di lavoro dipendente – Agevolazione in materia di stock option – Modifiche in corso d’anno – Inesistenza di norma transitoria – Applicabilità delle modifiche ai piani di stock option c.d. in corso – Sussiste – Violazione dei principi di retroattività, di affidamento e di certezza del diritto – Non sussiste – Divieto statutario di retroattività infrannuale – Requisito della periodicità della disciplina – Non sussiste – Clausola generale di diritto intertemporale – Inapplicabile In presenza di modifiche normative, per i piani di stock option c.d. in corso la disciplina di tassazione applicabile ratione temporis va individuata in quella vigente al momento dell’esercizio del diritto di opzione da parte del lavoratore, indipendentemente dal momento in cui l’opzione sia stata offerta, dovendosi escludere che il momento perfezionativo del presupposto generatore della esenzione vada ricondotto alla offerta del diritto di opzione e non all’esercizio della opzione. Tale conclusione non determina alcuna violazione del divieto di retroattività della norma tributaria, né alcun contrasto con i principi dell’affidamento e della certezza del diritto. È, inoltre, inapplicabile l’art. 3, co. 1 della I. 212 del 2000, secondo cui le modifiche relative ai tributi periodici entrano in vigore dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono, in quanto presupposto applicativo di tale principio è la periodicità e, nel caso di specie, alla regolamentazione fiscale delle stock options è del tutto estraneo il carattere della periodicità, non potendosi neppure configurare una tipologia di agevolazione con carattere pluriennale. (1)

(Omissis) S.S., con tre motivi, ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 114/22/10, depositata il 21.10.2010 dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia. Ha rappresentato che il contenzioso traeva origine dal silenzio rifiuto opposto dalla Amministrazione finanziaria alla richiesta di rimborso di € 2.471.227,10, corrispondenti a quanto ritenuto alla fonte dalla società Toro Ass.ni, in relazione alla tassazione di operazioni di assegnazione di azioni della società, conseguenti l’esercizio di una stock option. Più a monte la vicenda traeva origine dall’aumento di capitale sociale che la Toro


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Ass.ni aveva deliberato il 9 maggio 2005 e dal regolamento relativo al “Piano di stock options Toro Assicurazioni 2005-2008 riservato ad amministratori”. In relazione a tale piano erano attribuite al S., all’epoca amministratore delegato della società, opzioni per la sottoscrizione di 585.000 azioni, al prezzo di esercizio di € 11,25. Nel giugno del 2005, in un quadro complessivo di rinegoziazione delle componenti remunerative del suo rapporto di lavoro con la società, il S. aderiva al piano, con mail che ne anticipava l’adesione, trasmessa 1’8 maggio 2005. Il piano prevedeva la data di esercitabilità dell’opzione nel periodo 16 marzo 2008/16 settembre 2008. Nelle difese il ricorrente afferma che l’adesione trovava ragione nel trattamento fiscale agevolato di cui all’epoca godeva tale componente remuneratoria. Successivamente si verificava che: 1) nell’anno 2006 il gruppo di controllo della società cedeva la sua partecipazione alle Assicurazioni Generali; 2) il nuovo consiglio di amministrazione il 4 ottobre 2006 deliberava l’anticipazione del periodo di esercizio della opzione, fissandolo tra il 5 ottobre 2006 ed il 15 novembre 2006; 3) nel novembre 2006 il dott. S. esercitava l’opzione con sottoscrizione delle 585.000 azioni al corrispettivo di € 6.581.250,00 (secondo il prezzo fissato di € 11.25); 4) al momento dell’esercizio della opzione il valore delle azioni era pari di € 21,074, sicché il valore dei titoli complessivamente assegnati era di € 12.328.290,00; 5) nelle more erano intanto intervenute due modifiche normative sul trattamento fiscale di tale tipologia di operazioni, precedentemente disciplinate nell’art. 48 del TUIR -nella nuova numerazione del d.P.R. n. 917 del 1986 divenuto art. 51, lett. g bis- e precisamente quelle introdotte con il d.l. 223 del 4 luglio 2006 (art. 36 co. 25), conv. con modificazioni in I. 248 del 2006, e successivamente con il d.l. 3 ottobre 2006 (art. 2, co. 29), conv. con modificazioni in I. n. 286 del 2006; 6) queste modificazioni, introducendo un comma 2 bis nell’art. 51, riducevano l’area applicativa della disciplina agevolativa richiedendo requisiti più stringenti per la sua applicazione alle operazioni di stock options (per mera completezza l’art. 82, co. 23 del d.l. n. 112 del 2008, conv. in I. n. 133 del 2008, ha definitivamente abrogato il regime agevolato); 7) tenendo conto della disciplina sopravvenuta, la società riteneva di sottoporre a tassazione la differenza tra il prezzo delle azioni fissato al momento della attribuzione del diritto di opzione e il prezzo delle azioni al momento dell’esercizio del diritto di opzione e conseguente assegnazione delle azioni; 8) era dunque eseguita una ritenuta alla fonte complessiva di C 2.471.227,10 corrispondente alla aliquota del 43% applicabile al contribuente; 9) il S. ritenendo invece non dovuta la tassazione, chiedeva alla Amministrazione il rimborso delle imposte versate, ricevendone il silenzio rifiuto. Nel contenzioso seguitone la Commissione Tributaria Provinciale di Milano rigettava il ricorso con sentenza depositata il 20.11.2008. Adita la Commissione Tributaria Regionale lombarda, con la sentenza ora impugnata era rigettato anche l’appello. Il S. censura la sentenza: con il primo motivo per violazione e falsa applicazione dell’art. 3, co. 12, del d.l. n. 262 del 2006, conv. in I. n. 286 del 2006, dell’art. 11 Preleggi, degli artt. 3 e 10 della


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I. n. 212 del 2000, del’art. 41 Cost., in relazione all’art. 360 co. 1, n. 3 c.p.c., per essere stato erroneamente ritenuto che il presupposto della agevolazione (introdotta per la prima volta dall’art. 13, del d.lgs. n. 505 del 1999) fosse individuabile nella assegnazione delle azioni anziché nell’adesione del dipendente al piano di stock options, conseguentemente applicando al caso di specie la normativa restrittiva sopravvenuta; con il secondo motivo per violazione e falsa applicazione dell’art. 3, co. 12, del d.l. n. 262 del 2006, conv. in I. n. 286 del 2006, dell’art. 11 Preleggi, degli artt. 3 e 10 della I. n. 212 del 2000, dell’art. 41 Cost., in relazione all’art. 360 co. 1, n. 3 c.p.c., per non aver tenuto conto, se fosse stato anche correttamente ricondotto il presupposto applicativo della agevolazione alla assegnazione delle azioni, che, trattandosi di imposta periodica, le disposizioni innovative vanno applicate dall’anno d’imposta successivo, come previsto espressamente dall’art. 3 dello Statuto del contribuente, e dunque non dal 2006 ma dal periodo d’imposta 2007; con il terzo motivo per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1 n. 4, per omessa pronuncia sulla ulteriore eccezione sollevata dal contribuente, relativa alla circostanza che i tempi di esercizio del diritto di opzione erano stati modificati, con conseguente inapplicabilità del regime agevolativo, non per volontà del contribuente, costringendolo pertanto ad una scelta obbligata e priva di alternative. In conclusione chiedeva la cassazione della sentenza; in subordine che fosse sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, co. 12, del d.l. 262 del 2006, conv. in I. 286 del 2006 per violazione degli artt. 53 e 41 Cost., nonché degli artt. 3 e 10 I. 212 del 2000. Si è costituita l’Agenzia, che ha insistito nella correttezza delle ragioni esposte dal giudice regionale, chiedendo il rigetto del ricorso. Alla pubblica udienza del 14 marzo 2018, dopo la discussione, il P.G e le parti hanno concluso. La causa è stata trattenuta in decisione. Motivi della decisione. – Con il primo motivo il contribuente censura la sentenza laddove questa identifica il verificarsi del presupposto applicativo della disciplina agevolativa nel momento di esercizio del diritto di opzione e assegnazione delle azioni e non in quello, anteriore, di adesione del beneficiario al piano di stock option. A sostegno della tesi contraria a quella assunta dal giudice regionale invoca il principio di irretroattività del d.l. n. 262 del 2006, si appella all’individuazione del momento in cui si è perfezionato il presupposto generatore della esenzione, invoca la tutela del’affidamento e della certezza del diritto, sollevando questione di legittimità costituzionale della disciplina, avverte la diversa costruzione della disciplina introdotta dal d.l. 262 del 2006, rispetto a quella del d.l. 233 del 2006 e quella del d.l. 112 del 2008. Con il primo ordine di argomentazioni evidenzia che la disciplina restrittiva intervenuta nelle more della vicenda sia comunque successiva alla adesione del contribuente al piano di stock options deliberato nel 2005, sicché l’applicazione della normativa sopravvenuta al caso di specie avrebbe effetti retroattivi. Ciò sarebbe vie-


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tato sia dal principio enunciato dall’art. 11 Preleggi, sia, nella specificità del rapporto tributario, dall’art. 3, co. 1, della I. 212 del 2000. Con il secondo ordine di argomentazioni sostiene che il presupposto generatore della esenzione fiscale, che se relazionata ad imposte periodiche è diverso dal presupposto impositivo della tassazione, va ricondotto alla finalità per la quale l’agevolazione stessa sia stata concessa. Nel caso di specie, quando l’esenzione fu originariamente introdotta (nel ‘99), la finalità perseguita dal legislatore con l’esenzione fiscale era stata quella di stimolare i dipendenti al miglioramento produttivo della azienda, così che, collegando mediante le stock options parte della retribuzione ad una componente variabile che si incrementava con la crescita di valore della azienda stessa, trovava causa nel maggior impegno profuso dal dipendente, incentivato dalla prospettiva di maggiori guadagni; con la disciplina introdotta nel 2006 invece le finalità perseguite dal legislatore erano state mutate e si identificavano nella fidelizzazione del dipendente (di qui l’introduzione dei requisiti più stringenti sotto il profilo della tipologia di società cui applicare la disciplina, e, soprattutto con le modifiche del d.l. 262 del 2006, la previsione di tempi minimi per l’esercizio del diritto di opzione nonché per la cessione delle azioni medesime). Sotto il profilo teleologico la difesa sostiene che nel caso di specie l’adesione al piano risaliva alla formulazione originaria della disciplina e dunque a quel momento andava ricondotto il presupposto generatore delle agevolazioni, sicché l’applicazione della normativa successiva avrebbe comportato la retroattività di un meccanismo di funzionamento della struttura agevolativa avente finalità del tutto distinte rispetto all’originario meccanismo generatore. Con il terzo ordine di argomentazioni si duole che una diversa interpretazione si porrebbe in insanabile contrasto con principi di rango costituzionale e comunitario, posti a tutela del legittimo affidamento del cittadino, in particolare con l’art. 41 Cost. e con l’art. 10 dello Statuto del contribuente. In sintesi denuncia che il contribuente intanto aderì al piano di stock option, nella rideterminazione delle componenti del suo trattamento remunerativo, in quanto la prospettiva era economicamente più vantaggiosa per l’esenzione da tassazione delle plusvalenze che avrebbe conseguito nell’acquisto delle azioni al momento dell’esercizio della opzione e della assegnazione delle medesime. Tale affidamento sarebbe stato disatteso se di quelle agevolazioni non avesse potuto più goderne. Di qui i profili di illegittimità costituzionale della disciplina introdotta dal d.l. 262 cit., se interpretata nel senso statuito dal giudice regionale. Con il quarto ordine di argomentazioni si appella alla interpretazione sistematica del d.l. 262 cit., perché, a differenza del d.l. n. 233 del 2006 e del d.l. 112 del 2008, nelle quali vi è una espressa previsione di applicabilità della disciplina a partire dalle assegnazioni delle azioni avvenute (rispettivamente) dal 4 luglio 2006 e dal 25 giugno 2008, cioè dalla loro entrata in vigore, quella del novembre 2006 nulla dice in materia. Da ciò, secondo la difesa, se ne ricava che il d.l. n. 262 sia applicabile solo alle fattispecie in cui dal 3 ottobre 2006 fossero stati deliberati i piani di stock options, e non anche alle ipotesi in cui i deliberati fossero di data anteriore.


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Queste in sintesi le articolate difese del contribuente, la sentenza del giudice regionale ha ritenuto che «per le azioni riservate all’ex amministratore, rientrate nella sua disponibilità giuridica solo in data 24/11/2006 quando si è avvalso della opzione, trovano applicazione le nuove disposizioni che, non prevedendo l’esclusione dalla formazione del reddito di lavoro dipendente della differenza tra il valore delle azioni al momento della loro assegnazione ed il prezzo del relativo esercizio, confermano l’imposta trattenuta sul reddito accertato di € 5.747.000,00.». Ciò perché ha condiviso l’impostazione secondo cui il trasferimento di proprietà dei titoli azionari e dei diritti in essa incorporati si perfeziona con l’assegnazione delle azioni. Occorre pertanto valutare se l’interpretazione resa dal giudice regionale sia o meno corretta. La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo, anche di recente, di pronunciarsi sulla materia, in particolare su quale sia il presupposto generatore della disciplina agevolativa applicabile, affermando che in tema di determinazione del reddito di lavoro dipendente la disciplina di tassazione applicabile ratione temporis alle cosiddette “stock options” va individuata in quella vigente al momento dell’esercizio del diritto di opzione da parte del lavoratore, indipendentemente dal momento in cui l’opzione sia stata offerta, atteso che l’operazione cui consegue la tassazione non va identificata nell’attribuzione gratuita del diritto di opzione, che non è soggetta a imposizione tributaria, ma nell’effettivo esercizio di tale diritto mediante l’acquisto delle azioni, il quale costituisce il presupposto dell’imposizione commisurata proprio sul prezzo delle stesse e che è rimesso alla libera scelta del beneficiato (Cass., Sez. 5, sent. n. 9465 del 2017). Questa risoluzione era stata già affermata dal giudice di legittimità anche con riferimento alla disciplina vigente in epoca anteriore alle modifiche portate nel 2006, avvertendosi che il presupposto impositivo insorge non al momento della offerta della opzione ma in quello del suo esercizio (cfr. Cass., Sez. 5, sent. n. 11413 del 2015; ord. n. 13088 del 2012, in quest’ultima riconoscendosi l’applicabilità del regime agevolativo in una ipotesi in cui il diritto di opzione era stato offerto nel 1997, epoca anteriore alla introduzione della esenzione a mezzo del d.lgs. n. 505 del 1999, ed era stato esercitato nel 2001). A tale orientamento, che questo collegio condivide e a cui ritiene di dare seguito, non sono opposte in questa causa ragioni che inducano a motivarne una discontinuità. Non si ritiene infatti di condividere le argomentazioni riferite alla violazione del divieto di retroattività della norma tributaria. Il ragionamento della difesa implica una premessa giuridica non corretta, ossia che il presupposto generatore della disciplina agevolativa introdotta nel ‘99 sia riferito all’offerta (gratuita) del diritto di opzione. Sennonché, il diritto di opzione, che non ha un significato diverso nel sistema giuridico tributario rispetto alla struttura civilistica, è un contratto, certo distinto dalla unilaterale proposta irrevocabile, ma con il quale una delle parti resta parimenti vincolata alla propria dichiarazione, con gli effetti della proposta irrevocabile previsti dall’art. 1329 c.c. Con esso l’optato assume una obbligazione a ciò solo limitata, senza che tuttavia l’oggetto del diritto di opzione sia


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Parte seconda

ancora divenuto oggetto del negozio in funzione del quale l’opzione è assunta, tant’è che l’opzionario non è a sua volta vincolato ad accettare la proposta, anzi quella sua “facoltà di accettare o meno” costituisce la seconda situazione giuridica essenziale della fattispecie prevista dall’art. 1331 c.c., il che esclude che sino all’esercizio di quella libertà di scelta possa ritenersi in qualche modo venuto ad esistenza il contratto finale, men che meno che possano prodursi i suoi effetti (con il che è coerente anche la generale negazione, in dottrina e in giurisprudenza, della trascrivibilità del patto di opzione). Ancorché dunque voglia ritenersi che l’opzione si atteggi come fase preparatoria del negozio optato (in dottrina si parla della funzione preparatoria della futura costituzione negoziale di un regolamento di interessi), ciò non sarebbe sufficiente per ritenere insorto il presupposto generatore di una imposta diretta, e di una agevolazione ad essa collegata, non potendosi ricondurre la complessiva vicenda negoziale neppure nelle fattispecie a formazione progressiva. Il diritto di opzione, pur sotteso all’interesse di apprendere nella sfera patrimoniale dell’opzionario un bene giuridico oggetto di opzione – potendo costituire espressione di un reddito o di un patrimonio generatore del presupposto d’imposta solo questa apprensione –, è teleologicamente contraddistinto solo dall’(eventuale) esercizio di quel diritto di scelta. Peraltro, poiché il diritto d’opzione è economicamente identificato dalla prospettiva che le potenzialità espresse da un bene giuridico si traducano in un vantaggio – inducendo l’opzionario ad accettare la proposta cui si è vincolato il concedente –, allora esso esprime l’esatto contrario dell’evento generatore di ricchezza, soprattutto in fattispecie come la presente, in cui il diritto di opzione afferisce alla assegnazione di azioni di una società. Infatti esso sottostà al dubbio che la ricchezza stessa non sia generata nel prosieguo degli sviluppi della vicenda economica, per la qual ragione l’opzionario attende, restando libero di scegliere. In tale contesto la prospettiva della applicazione di una disciplina agevolativa fiscale costituisce un ulteriore, e “altro”, vantaggio per l’opzionario, comunque dipendente dal verificarsi delle condizioni che rendono opportuno l’esercizio della opzione. Il vantaggio principale e primario resta invece proprio il verificarsi dell’incremento di valore del bene (nel caso di specie le azioni) offerto in opzione, senza il cui evento non vi sarebbe alcun aumento di ricchezza, e per conseguenza nessun presupposto applicativo di agevolazioni fiscali. A ben vedere anzi, al momento in cui è stato offerto il diritto di opzione, l’evento generatore di ricchezza, cioè l’incremento di valore delle azioni rispetto al prezzo d’acquisto fissato per l’esercizio della stock option, era futuro ed incerto, sicché non era insorto alcun presupposto generatore di imposta. Per conseguenza non poteva essere insorto alcun presupposto generatore di esenzione, essendo illogico che si generi il presupposto di una esenzione fiscale se non vi è ancora il presupposto generatore dell’imposta cui applicare quella esenzione. Di contro l’indice generatore di un reddito, e dunque l’insorgere del presupposto impositivo, è intervenuto nel momento in cui la ricchezza si è manifestata con l’e-


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sercizio del diritto di opzione e l’assegnazione delle azioni verso il pagamento di un corrispettivo inferiore al valore espresso dai quei medesimi titoli al momento dell’acquisto. L’insorgenza del presupposto d’imposta ha coinciso dunque con l’astratta insorgenza del diritto alle agevolazioni, in concreto poi spettanti o meno se e nella misura in cui fossero stati riscontrati i requisiti richiesti dal legislatore per la sua fruizione. Ciò chiarito, deve in conclusione escludersi che l’applicazione della disciplina entrata in vigore dal 3 ottobre 2006 abbia violato il principio di non retroattività della norma tributaria, così come deve escludersi che il momento perfezionativo del presupposto generatore della esenzione vada ricondotto alla offerta del diritto di opzione e non all’esercizio della opzione. Non sono condivisibili neppure le critiche mosse dalla difesa che denuncia come le conclusioni cui perviene il giudice regionale siano in contrasto con i principi dell’affidamento e della certezza del diritto. Se il diritto di opzione che, nello spazio temporale della attesa che maturino le condizioni di vantaggio per il suo esercizio, può assicurare una speranza di conseguimento di una ricchezza ma alcuna certezza in tal senso, deve escludersi che il contribuente possa aver fatto affidamento sulla cristallizzazione di una disciplina agevolativa. Se non vi era certezza nell’incremento di valore delle azioni al momento della offerta del diritto di opzione risulta incomprensibile anche quale danno sarebbe ascrivibile al mutamento di disciplina rispetto ad una situazione che, tanto in punto di diritto quanto in termini economici, costituiva una speranza di incremento di valore e null’altro. D’altronde è nello stesso ricorso che la scelta di riconsiderare le componenti remuneratorie della retribuzione sostituendo o riducendo alcune voci fisse con le stock options era legata ad una scommessa, l’assicurare cioè obiettivi più performanti alla società. Ed è appena il caso di evidenziare che una scommessa esprime una condizione ancor più incerta e aleatoria di una aspettativa. Se poi il S., come riferisce, avesse attribuito importanza decisiva alla disciplina fiscale favorevole vigente all’epoca in cui aderì al piano di attribuzione di azioni con l’offerta gratuita del diritto di opzione, questo attiene alla sfera dei motivi della scelta assunta, irrilevante anche nei confronti della controparte (e qualora ritenuto decisivo per la conclusione dell’accordo in relazione della mail trasmessa al contribuente 1’8 maggio 2005, da far valere verso questa) e ancor più rispetto alla disciplina erariale. A margine, è appena il caso di rammentare come la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale sia sempre più attenta a vagliare la costituzionalità di una disciplina, quand’anche sia denunciato che con essa possa essere stato violato il valore del legittimo affidamento, riposto dal cittadino in una normativa poi abrogata, e che trova copertura costituzionale nell’art. 3 Cost., in un quadro complessivo che tenga conto dei principi di equilibrio del bilancio, di cui all’art. 81 Cost., affermando che «il valore del legittimo affidamento non esclude che il legislatore possa assumere disposizioni che modifichino in senso sfavorevole agli interessati la disciplina di rapporti giuridici “anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti”, purché


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ciò avvenga alla condizione “che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica». (cfr. C. Costituzionale, sent. n. 149 del 2017). Nel caso che ci occupa né ci sono diritti soggettivi perfetti riconoscibili, né le successive modifiche alla disciplina dettata in materia di agevolazioni nel trattamento fiscale delle stock options appare irrazionale e irragionevole. Con il che vanno definitivamente accantonati tutti i dubbi sulla legittimità costituzionale della disciplina. Non possono essere condivise, ancora, le conclusioni che il ricorrente pretende di trarre dalla interpretazione sistematica della disciplina introdotta dal d.l. 262 cit., laddove, mentre nei d.l. 223 del 2006 (che introduceva le prime restrizioni della disciplina) e nel d.l. 112 del 2008 (abrogativo delle agevolazioni) era espressamente prevista la applicabilità delle nuove norme alle azioni assegnate ai dipendenti a partire dalla loro entrata in vigore, nulla si specifica nel d.l. 262 cit.; da ciò desumendosi che quest’ultima normativa sarebbe applicabile solo alle ipotesi di offerta del diritto di opzione successiva alla sua entrata in vigore (3 ottobre 2006). A parte che tali conclusioni implicano sempre lo stesso presupposto, ossia l’unicità e la rilevanza ai fini della disciplina agevolativa di tutto l’iter, a partire dalla adesione al piano di stock options, con offerta gratuita del diritto di opzione, l’argomentazione prova troppo. Oltre quanto già evidenziato, è qui sufficiente rilevare che se così fosse si andrebbe incontro ad una irrazionale disciplina che, succedendosi anche a breve distanza, avrebbe ad oggetto la regolamentazione di fattispecie diverse, nell’un caso l’intero iter che culmina nell’assegnazione delle azioni, negli altri due casi la sola fase finale della assegnazione delle azioni; inoltre determinerebbe conseguenze irragionevoli con singolari disparità, atteso che sarebbero esonerate tendenzialmente operazioni di stock option più recenti e comunque si creerebbero disparità evidenti tra operazioni che abbiano avuto inizio in periodi anche coevi; infine, non è privo di rilievo che tutta la disciplina preposta alla regolamentazione delle agevolazioni fiscali in materia di stock option non ha mutato le sue finalità di fondo, dalla sua originaria introduzione nel ‘99 alla sua definitiva abrogazione. Nel senso che, pur se si riscontra il mutamento dei requisiti, più restrittivi per la sua fruizione a partire dal 2006, e pur se si avverte il passaggio dal puro obiettivo del perseguimento della incentivazione dei dipendenti, in ragione dell’aumento di produttività (1999), al diverso intento di assicurare una maggiore fidelizzazione del dipendente (novelle del 2006), la finalità della disciplina complessiva è rimasta sempre quella della parziale sostituzione del criterio remunerativo del lavoro compensato solo con elementi fissi, con un criterio più fluido, relazionato ad una maggiore responsabilizzazione del dipendente alla sorte della azienda. Conseguentemente il denunciato mutamento delle finalità della normativa, sotto il profilo della interpretazione teleologica, è meno marcato quando non del tutto irrilevante, così che irragionevoli sarebbero interpretazioni che identificassero diversi momenti


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applicativi delle modificazioni normative. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia l’illegittimità della sentenza ove non considera che ai sensi dell’art. 3, co. 1 della I. 212 del 2000 le modifiche relative ai tributi periodici entrano in vigore dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono. A parte i profili di novità del motivo rispetto alle questioni trattate nel precedenti gradi di giudizio, è qui sufficiente evidenziare che, quand’anche il principio possa riguardare modifiche normative introdotte in materia di esenzione da imposta, resta fermo che il presupposto applicativo sia la periodicità. Nel caso che ci occupa all’oggetto della disciplina -la regolamentazione fiscale delle stock options- è del tutto estraneo il carattere della periodicità, non potendosi neppure configurare una tipologia di agevolazione con carattere pluriennale. Il motivo va dunque rigettato. Deve invece accogliersi il terzo motivo, con il quale si lamenta l’omessa pronuncia sulla ulteriore eccezione sollevata dal contribuente, relativa alla circostanza che i tempi di esercizio del diritto di opzione erano stati modificati, con conseguente inapplicabilità del regime agevolativo, non per volontà del contribuente, costringendolo pertanto ad una scelta obbligata e priva di alternative. Sul punto risultano riportate le difese articolate dal contribuente e non risulta che la sentenza abbia inteso pronunciarsi, sicché essa è viziata ex art. 112 per mancata corrispondenza tra il chiesto e pronunciato. Trattandosi comunque di questione di diritto, per la quale non vi è necessità di accertamenti di fatto, il motivo può essere deciso nel merito dinanzi a questa Corte ai sensi dell’art. 384, co. 2, c.p.c. Anche tale censura è infondata e va rigettata. Il contribuente ha sostenuto che il mancato rispetto dei requisiti prescritti dall’art. 51 co. 2 bis TUIR, come modificato dall’art. 2, co. 29 del d.l. n. 262 cit., sia dipeso dalla società, che intese anticipare il momento di esercizio del diritto di opzione, così di fatto impedendo il decorso del periodo minimo di tre anni dalla sua attribuzione previsto dalla norma (lett. a). A parte che nel caso di specie il contribuente ha violato anche il requisito di cui alla lett. c), ossia la cessione delle azioni prima del decorso del quinquennio dall’esercizio della opzione, e questo non per volontà della società, ma di sua iniziativa, sul punto la giurisprudenza di legittimità, già intervenuta, ha condivisibilmente affermato che «l’esercizio del diritto di opzione non è un atto necessitato al quale il dipendente beneficiato non può sottrarsi, ma è il frutto di una libera scelta, di guisa che non può ipotizzarsi alcuna costrizione nel dipendente che decide di esercitare il diritto anche in assenza del termine triennale previsto dall’art. 51, co. 2 bis, lett. a) del TUIR» (Sent. n. 9465/2017 cit.). Deve peraltro aggiungersi che non ha alcuna influenza sulla interpretazione ora resa la risoluzione n. 118/E del 12 agosto 2005 della Agenzia delle Entrate, che fa rife-


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rimento ad una fattispecie in cui il mancato rispetto del requisito del periodo minimo di trasferimento delle azioni era stato imposto ex lege, ciò che qui non si è verificato. In conclusione il ricorso introduttivo è infondato e va rigettato. (Omissis)

(1) Evoluzione e regime intertemporale della disciplina fiscale delle stock option al cospetto della clausola generale (statutaria) che vieta la retroattività per i tributi periodici. Sommario: 1. La fattispecie vagliata dalla Suprema Corte, con le pronunce precedenti e successive in termini, e la rilevanza del caso sul piano dei principi generali di fonte statutaria. – 2. L’evoluzione della disciplina agevolativa sulle stock option (a seguito dei tre interventi di modifica avvenuti nel 2006), la questione controversa relativa al regime fiscale in concreto applicabile e la soluzione (quella di parte pubblica) accolta dalla giurisprudenza di legittimità. – 3. La centralità dell’art. 3, comma 1, ult. periodo, L. n. 212/2000, per la risoluzione della questione controversa, l’importanza (invero, sottovalutata, se non addirittura svalutata) di tale disposizione nel sistema e la sua automatica applicabilità nel caso di specie in quanto “clausola generale di diritto intertemporale”. – 4. Non è possibile escludere l’applicabilità dell’art. 3, comma 1, argomentando che la disciplina sulle stock option non è “periodica”, perché essa non costituisce regime fiscale autonomo, ma regime speciale dell’Irpef, che è “tributo periodico”, irrilevante essendo la previsione del pagamento di una forma di prelievo sostitutiva dell’Irpef. – 5. Sulle ragioni che ostano alla possibilità di dare continuità all’orientamento giurisprudenziale di legittimità riguardante la disciplina fiscale delle stock option di cui al D.lgs. n. 505/1999, che è stato seguito (in modo acritico) per il caso oggetto della sentenza in commento e gli altri casi analoghi, più recenti, oggetto di disamina. – 6. L’inapplicabilità al caso vagliato dalla Suprema Corte (ma anche ai casi analoghi decisi nelle altre pronunce), avente ad oggetto le modifiche introdotte dal D.L. n. 262/2006, della “norma transitoria” recata dal D.L. n. 223/2006, la quale, in ogni caso, non prevede una deroga “espressa” alla clausola generale (statutaria) di diritto intertemporale. Nella sentenza in commento è stata esclusa l’applicabilità dell’art. 3, comma 1, L. n. 212/2000, quale clausola generale di diritto intertemporale operante in assenza di un regime transitorio in deroga espressa, ed è stata ritenuta applicabile ai c.d. piani in corso la nuova (e peggiorativa) disciplina fiscale in materia di stock option recata dal D.L. n. 262/2006, sul presupposto che tale disciplina fiscale non integri il requisito della “periodicità”: invero, tale requisito va riferito e accertato con riguardo al “tributo” su cui si innesta la disciplina fiscale in questione, ossia l’Irpef, non costituendo regime fiscale autonomo. Inoltre, e contrariamente a quanto ritenuto in altre pronunce di legittimità anteriori e successive a quella in commento, l’operatività della clausola statutaria e il susseguente rinvio dell’efficacia del D.L. n. 262/2006 non possono essere esclusi richiamando la giurisprudenza formatasi con riguardo alla disciplina fiscale delle stock option di cui al D.lgs. n. 505/1999, né applicando la disposizione transitoria del D. L. n. 223/2006, che aveva modificato la disciplina fiscale in materia di stock option prevista dal Testo Unico anteriormente al D. L. n. 262/2006, applicabile alle fattispecie sottoposte al vaglio della Suprema Corte.


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The Italian Supreme Court, in several recent judgments, ruled that article 3 of the Law n. 212/2000 (according to which any Law that amends the discipline of “periodic taxes” shall take effect from the fiscal year following the one in which that Law has entered into force) doesn’t cover the stock options’ tax discipline set forth in the decree (“decreto legge”) n. 262/2006. More specifically, according to the Court, this discipline applies to all stock options plans that, in the date of the entry into force of the decree n. 262/2006, were already granted to – but not yet exercised by – their owners. This Article challenges the grounds of these decisions and demonstrates that, pursuant to article 3 of the Law n. 212/2000, the decree n. 262/2006 is applicable only to stock options plans that have been both granted and exercised after the 1st of January 2007, i.e. after the fiscal year following the one in which such decree has entered into force.

1. La fattispecie vagliata dalla Suprema Corte, con le pronunce precedenti e successive in termini, e la rilevanza del caso sul piano dei principi generali di fonte statutaria. – In questa sentenza la Suprema Corte è stata chiamata a decidere la disciplina fiscale in materia di stock option applicabile in un caso in cui tra il momento di assegnazione dei diritti di opzione e il momento di esercizio dei medesimi diritti, con assegnazione delle azioni, erano intervenute ben tre modifiche all’art. 51, comma 2, lett. g-bis), t.u.i.r., in origine vigente, non accompagnate da altrettante clausole transitorie in deroga espressa all’art. 3, comma 1, ult. periodo, della L. n. 212/2000, per la disciplina dei c.d. piani in corso; espressione, questa, con cui si indicano i piani di stock option – come quello oggetto del caso vagliato – già deliberati alla data di “entrata in vigore” del nuovo regime fiscale risultante dall’intervento di modifica, ma i cui diritti di opzione non erano stati ancora esercitati dal dipendente per scelta o per mancata scadenza del periodo di vesting (ossia il lasso di tempo durante il quale l’opzione non è esercitabile), normalmente previsto nei piani in questione. La pronuncia merita di essere annotata perché affronta una tematica che, al di là della fattispecie vagliata, è molto importante sul piano dei principi generali, soffermandosi anche sulla rilevanza – e sui termini di rilevanza – della clausola generale di diritto intertemporale di cui al citato art. 3, comma 1, ult. periodo, che sancisce il divieto di retroattività infrannuale per gli interventi modificativi in corso d’anno riguardanti, sotto ogni profilo sostanziale, la disciplina di tributi periodici (1). E ciò dopo avere escluso, con argomentazioni opinabili, che la

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Su tale disposizione, per un inquadramento generale, G. Marongiu, Disposizione


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soluzione rassegnata – secondo cui per i piani di stock option c.d. in corso la disciplina di tassazione applicabile ratione temporis debba essere individuata in quella vigente al momento dell’esercizio del diritto di opzione da parte del lavoratore, indipendentemente dal momento in cui l’opzione sia stata offerta – comporti la violazione del divieto di retroattività della norma tributaria e il contrasto con i principi dell’affidamento e della certezza del diritto. La sentenza in esame non è, invero, la prima ad affrontare la questione con riguardo alla disciplina agevolativa delle stock option: come infatti risulta dalla relativa motivazione, vi sono due precedenti in termini – in ispecie, la sentenza Cass., sez. trib., 12 aprile 2017, n. 9465 (ove, come nel caso di specie, parte ricorrente era il contribuente) e l’ordinanza Cass., sez. trib., 20 giugno 2018, n. 16227 (ove, invece, parte ricorrente era l’Agenzia delle Entrate) –, precedenti che sono stati richiamati, in talune parti, per argomentare la conclusione raggiunta; inoltre, nelle more della pubblicazione della presente nota, vi è stata un’altra pronuncia sulla medesima questione – si tratta dell’ordinanza Cass., sez. trib., 6 febbraio 2019, n. 3458 (ove parte ricorrente era sempre l’Agenzia) – di cui si terrà parimenti e facilmente conto, ancorché emanata a nota chiusa, in quanto la relativa motivazione è la mera sintesi dei passaggi centrali delle motivazioni della sentenza che si annota e dell’ultima ordinanza sopra richiamata. Per comprendere appieno la problematica oggetto della sentenza in commento, che è comune alle altre pronunce di legittimità sopra richiamate, è necessario riepilogare l’evoluzione della disciplina agevolativa in materia di stock option, essendo la controversia sorta – come si è detto – in conseguenza delle molteplici modifiche succedutesi nell’anno 2006, non accompagnate da “norme transitorie” o disposizioni analoghe sulla “decorrenza” che, in deroga “espressa” all’art. 3, comma 1, ult. periodo dello Statuto del contribuente, dessero regolamentazione ai c.d. piani in corso (2).

sulla legge tributaria in generale, in Dir. prat. trib., 1994, I, 333 ss.; A. Uricchio, Statuto dei diritti del contribuente, in Disc. Priv., Sez. Comm., Aggior., IV, Utet, Torino, 2008, 890-891; e, in modo specifico, V. Mastroiacovo, L’efficacia della norma tributaria nel tempo, in A. Fantozzi e A. Fedele (a cura di), Lo statuto dei diritti del contribuente, Milano, 2005, 107 ss., e Id., Art. 3 della L. 27 luglio 2000, n. 212, in G. Falsitta, A. Fantozzi - G. Marongiu - F. Moschetti (diretto da), Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo I. Diritto costituzionale tributario e Statuto del contribuente (a cura di G. Falsitta), Padova, 2011, 488-489, nonché, se si vuole, A. Contrino, Modifiche fiscali in corso di periodo e divieto di retroattività “non autentica” nello Statuto del contribuente, in Rass. trib., 2012, 589 ss. (2) Sulla specifica questione oggetto della presente nota v. anche N. Dolfin, Conflitto


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2. L’evoluzione della disciplina agevolativa sulle stock option (a seguito dei tre interventi di modifica avvenuti nel 2006), la questione controversa relativa al regime fiscale in concreto applicabile e la soluzione (quella di parte pubblica) accolta dalla giurisprudenza di legittimità. – La disposizione di riferimento, per la disciplina in questione, è – come noto – l’art. 51, comma 2, lett. g-bis) del t.u.i.r. (3). Nel caso di specie, ma anche in quelli oggetto delle altre pronunce, al momento dell’attribuzione dei diritti di opzione la citata disposizione prevedeva, in chiave agevolativa, l’esclusione dal reddito di lavoro dipendente dell’incremento di valore delle azioni generatosi fra il momento di attribuzione delle opzioni e il momento di esercizio delle stesse (e corrispondente alla differenza fra il valore normale delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal beneficiario per l’esercizio dell’opzione): l’incremento di valore era imponibile solo all’atto della successiva vendita delle azioni ottenute mediante l’esercizio dei diritti di opzione, scontando la tassazione del 12,50% prevista per i capital gain. L’accesso al regime agevolativo era subordinato al rispetto di due condizioni: (i) che l’ammontare corrisposto dal beneficiario per l’esercizio dell’opzione (e, dunque, per l’acquisto delle azioni) fosse “almeno pari” al valore delle azioni al momento dell’offerta; (ii) che le partecipazioni possedute dal beneficiario, conteggiando anche i titoli acquisiti con l’esercizio dell’opzione, non rappresentassero una percentuale dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria o di partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 10 per cento. Nel corso del 2006 la disciplina illustrata è stata oggetto di tre diversi

temporale tra norme agevolative in materia di stock option, in Riv. dir. trib., 2009, II, 629 ss., a commento di Comm. trib. prov. di Torino, sez. IV, 29 gennaio 2009, n. 234 e A. Marcheselli, Lo statuto del contribuente è rafforzato dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo: il caso delle ‘stock options’, in Gt – Giur. Trib. 2012, 869-875, a commento adesivo in Comm. trib. reg. Piemonte, sez. V, 23 luglio 2012, n. 41, favorevole al contribuente, in richiamo anche di Conseil d’État, sotto sez. riunite 3-8-9-10, 4 giugno 2012, n. 308996. (3) Sul tema, C. Turchet, La disciplina tributaria delle stock option: profili strutturali e recenti sviluppi, in Dir. prat. trib., 2008, I, 1037 ss.; F. Crovato, La remunerazione dei “manager” dopo l’abrogazione dell’agevolazione alle “stock option”, in Corr. trib. 2008, 2410 ss.; G. Stancati, Effetti sulle politiche del lavoro e previdenziali dell’abrogazione del regime sulle “stock option”, in Corr. trib., 2008, 3433, ss.; F. delli Falconi - G. Marianetti, La partecipazione dei dipendenti ai piani di stock option, in Corr. trib., 2007, 861 ss.; E. Fusa, Le stock option e l’evoluzione della normativa fiscale: l’indecisione tra la promozione dello strumento e la paura dei benefici gratuiti, in Il fisco, 2007, 1-788 ss.


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interventi di modifica. Con il primo, ossia il D.L. n. 223/06, ne è stata sancita l’abrogazione, con la conseguenza di attrarre a tassazione ordinaria, come reddito di lavoro dipendente, l’incremento di valore prima escluso da tale categoria e tassato al 12,50% come capital gain (4). Con il secondo intervento, ossia la L. n. 248/06 di conversione del suddetto decreto legge, la disciplina prima abrogata è stata reintrodotta, ma con l’aggiunta di due nuove condizioni applicative (5): in ispecie, per l’esclusione dell’incremento dal reddito di lavoro dipendente, e la tassazione come capital gain, oltre al rispetto delle condizioni sub (i) e sub (ii), è stato richiesto che: (iii) le azioni ricevute non fossero cedute o costituite in garanzia nei cinque anni successivi alla data di assegnazione; (iv) il valore delle azioni assegnate non superasse l’importo della retribuzione lorda annua relativa al periodo di imposta precedente a quello di assegnazione. Entrambi gli interventi illustrati erano dotati di una stessa “norma transitoria” che sanciva l’applicazione delle modifiche introdotte “alle azioni la cui assegnazione ai dipendenti si effettua successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”; non era, però, previsto in modo espresso che tale regime intertemporale si applicasse in deroga all’art. 3, comma 1, ult. periodo, L. n. 212/2000. Con il terzo intervento modificativo, ossia il D.L. n. 262/06 così come convertito con mod. dalla L. n. 286/06, è stata eliminata la condizione sub (iv), è stata modificata quella sub (iii) e sono state inserite due ulteriori condizioni applicative (6); per effetto di tale ultimo intervento – ferme restando le con-

(4) Decreto legge 4.07.2006, n. 223. Art. 36 - Recupero di base imponibile (testo in vigore dal 4 luglio 2006 all’11 agosto 2006; testo originario): “25. All’articolo 51, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, la lettera g-bis) è soppressa. 26. La disposizione di cui al comma 25 si applica alle azioni la cui assegnazione ai dipendenti si effettua successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. (5) Decreto legge 4.07.2006, n. 223, così come convertito, con mod., dalla L. n. 248/2006. Art. 36 - Recupero di base imponibile (testo in vigore dal 12 agosto 2006 al 2 ottobre 2006; testo risultante dopo le modifiche apportate, in sede di conversione, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248): “25. All’ articolo 51, comma 2-bis, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono aggiunti i seguenti periodi: (omissis). (…) 26. La disposizione di cui al comma 25 si applica alle azioni la cui assegnazione ai dipendenti si effettua successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. (6) Decreto legge 3.10.2006, n. 262, così come convertito, con mod., dalla L. n. 286/2006. Art. 2 (testo in vigore dal 29 novembre 2006 al 31 dicembre 2006; testo risultante


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dizioni sub (i) e (ii) previste dall’originario regime di cui al citato art. 51, 2° comma, lett. g-bis), t.u.i.r. – sono state in definitiva introdotte le tre seguenti, ulteriori condizioni di accesso alla disciplina agevolativa: (iii) il mantenimento, nei cinque anni successivi alla data di assegnazione, di un investimento nelle azioni ricevute almeno pari alla differenza tra il valore normale delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal beneficiario; (iv) l’esercitabilità dell’opzione “non prima” che siano scaduti tre anni dalla sua attribuzione; (v) la quotazione delle azioni oggetto delle stock option quando l’opzione diviene esercitabile. Quest’ultimo intervento modificativo era privo, in radice, di “norma transitoria” o disposizione analoga sulla “decorrenza” che disciplinasse la sorte dei piani di stock option “in corso” (come sopra definiti). La controversia oggetto della sentenza in esame, ma anche quelle oggetto delle altre pronunce richiamate, nasce dal fatto che al momento dell’esercizio dell’opzione, con assegnazione delle relative azioni, le due condizioni sub (i) e (ii) – previste dall’originaria disciplina vigente al momento di attribuzione delle stock option – risultavano integrate dal contribuente, ma non lo erano, contemporaneamente, le altre tre condizioni previste dal D.L. n. 262/06 (così come convertito con mod. dalla L. n. 286/06), da ultimo illustrate; in questo decreto – come già evidenziato – non vi era, tuttavia, una “norma transitoria” o disposizione analoga sulla “decorrenza”, e ciò a differenza dei due precedenti interventi modificativi, dove, però, l’esistente e comune norma transitoria non recava una deroga “espressa” all’art. 3, comma 1, ult. periodo dello Statuto: donde il problema della corretta individuazione della disciplina ratione temporis applicabile. In mancanza di una norma transitoria o di una disposizione analoga sulla decorrenza in deroga espressa all’art. 3, comma 1, ult. periodo, l’Agenzia delle entrate ha ritenuto che la nuova disciplina risultante dalle ultime modifiche fosse applicabile alle assegnazioni di azioni effettuate dopo il 3 ottobre 2006, che è la data di “entrata in vigore” del D.L. n. 262/2006, com’era nel caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte, ove i diritti di opzione erano stati

dopo le modifiche apportate, in sede di conversione, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286; il comma 29 è stato aggiunto in sede di conversione): “29. I periodi secondo, terzo e quarto del comma 2-bis dell’ articolo 51 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, come introdotti dal comma 25 dell’ articolo 36 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sono sostituiti dai seguenti: (omissis)”.


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esercitati – e le correlate azioni assegnate – dopo tale data, con susseguente concorso del differenziale alla formazione dell’imponibile Irpef e tassazione ordinaria. Il contribuente riteneva, invece, che la nuova disciplina risultante dal citato D.L. n. 262/2006 fosse applicabile ai soli diritti di opzione esercitati (e, dunque, alle azioni assegnate) sì dopo la data di entrata in vigore (3 ottobre 2006) ma a partire dal periodo di imposta 2007, ossia – come statuito, in via generale, dal citato art. 3, comma 1, ultimo periodo dello Statuto – il primo successivo a quello in corso al momento di entrata in vigore delle modifiche, con susseguente assoggettamento a tassazione del differenziale alla tassazione agevolata del 12,50 per cento, a titolo di capital gain, in applicazione del regime originario di cui all’art. 51, 2° co., lett. g-bis), t.u.i.r. (nella formulazione vigente fino al 4 luglio 2006, ossia prima delle tre modifiche di cui si è dato conto e culminate nella nuova disciplina di cui al citato D.L. n. 262/2006). Con la sentenza in esame la Suprema Corte ha accolto la soluzione indicata dall’Agenzia delle Entrate, richiamando in certi passaggi – e, soprattutto, nella prima parte della motivazione – anche stralci dei precedenti che sono stati indicati all’inizio. E lo stesso ha fatto nell’ultima ordinanza del 6 febbraio 2019, la quale è, addirittura, una mirabile e pedissequa sintesi dei citati precedenti, senza alcuna replica agli argomenti addotti dal contribuente a sostegno della opposta soluzione, e ciò a differenza della sentenza in commento ove l’estensore si è correttamente premurato di confutare le ragioni della parte privata. La disamina critica di questa sentenza – e, incidentalmente, delle altre pronunce da questa richiamate, ma anche dell’ultima ordinanza sopravvenuta, che, a sua volta, la richiama e la fa propria – non può che prendere le mosse da una breve ricognizione dell’art. 3, comma 1, ult. periodo dello Statuto, e del suo ruolo nel sistema, posto che l’applicabilità o meno della relativa clausola è centrale per la risoluzione della questione controversa a favore dell’una o dell’altra parte. 3. La centralità dell’art. 3, comma 1, ult. periodo, L. n. 212/2000, per la risoluzione della questione controversa, l’importanza (invero, sottovalutata, se non addirittura svalutata) di tale disposizione nel sistema e la sua automatica applicabilità nel caso di specie in quanto “clausola generale di diritto intertemporale”. – La centralità di tale clausola ai fini della decisione del caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità è di tutta evidenza. Ed infatti, l’applicabilità dell’art. 51, comma 2, lett. g-bis), t.u.i.r., nella versione anteriore alle tre modifiche intervenute nel corso del 2006 – in luogo


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della versione della disciplina risultante dall’ultimo intervento modificativo di cui al D.L. n. 262/2006 ritenuta applicabile dall’Agenzia – è stata sostenuta dal contribuente, fra l’altro, in forza dell’art. 3, comma 1, ult. periodo, L. n. 212/2000, in quanto l’ultimo intervento modificativo è privo di una “disciplina transitoria” o una disposizione analoga in deroga “espressa” al citato art. 3, comma 1, ult. periodo. Questa circostanza – da quanto è dato capire – non è stata contestata dall’Agenzia, e ciò correttamente, perché in effetti non contestabile, risultando l’assenza di una norma transitoria per tabulas. Ma, ciò nonostante, la parte pubblica ha sostenuto l’applicabilità della nuova disciplina di cui al D.L. n. 262/2006 per il mero fatto che l’assegnazione delle azioni, in conseguenza dell’esercizio del diritto di opzione, sia avvenuta dopo la data di “entrata in vigore” del citato decreto, che è il 3 ottobre 2006, omettendo tuttavia di interrogarsi e valutare se fosse applicabile la clausola di cui al citato art. 3 dello Statuto. Tale valutazione era, invero, obbligata in quanto – nel sancire che “Relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono” – la citata disposizione statutaria vieta che le modifiche alla disciplina dei tributi periodici emanate in corso d’anno retroagiscano all’inizio dello stesso, facendone acquisire efficacia soltanto dall’inizio del periodo d’imposta successivo, sempreché – si badi – l’intervento modificativo risulti privo di una disciplina transitoria o comunque di una specifica regola sulla “decorrenza” ovvero, se dovesse esserne dotato, l’una o l’altra non presenti una deroga “espressa” all’art. 3, comma 1, secondo periodo, in esame, come risulta dalla lettura combinata di tale disposizione con l’art. 1, comma 1, del medesimo Statuto (su questo profilo ci soffermerà infra). Con tale disposizione si è proceduto a conferire autonoma rilevanza e tutela giuridica alle condotte fiscalmente rilevanti che sono state poste in essere dal contribuente sotto l’imperio di un certa disciplina tributaria, e confidando nell’applicazione di tale disciplina alla fattispecie concreta, garantendogli, in presenza di una modificazione normativa sopravvenuta, l’invarianza del carico fiscale preventivato per le fattispecie imponibili già realizzate o in previsione di essere realizzate in corso d’anno e, ove possibile, la possibilità, per il futuro, di adattare le proprie scelte alla nuova disciplina nell’arco temporale compreso tra il momento di entrata in vigore della modifica e l’inizio del periodo di imposta successivo.


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La portata della clausola in esame è di grande impatto nel sistema. Ed infatti, nel prevedere l’applicazione delle leggi modificative della disciplina dei tributi periodici “solo a partire dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore”, l’art. 3, comma 1, secondo periodo, sancisce una strutturale scissione fra la “entrata in vigore” della legge modificativa (art. 73 Cost.), che corrisponde all’inizio dell’obbligatorietà (art. 10 delle preleggi), e la “efficacia” nel tempo della stessa (art. 11 delle preleggi), fissando la seconda, ossia la “efficacia”, al primo giorno del successivo periodo di imposta: con la “entrata in vigore” la legge modificativa di un tributo periodico è perfetta, e vigente, ma i suoi effetti sono differiti al periodo d’imposta successivo a quello di entrata in vigore. E ciò – come si è anticipato – in tutti (e solo) i casi in cui la legge modificativa risulti priva di una disciplina transitoria o, comunque, di una specifica regola sulla “decorrenza”, ovvero, se dovesse esserne dotata, l’una o l’altra non presenti una deroga “espressa” all’art. 3, comma 1, secondo periodo, in esame: l’art. 1, comma 1, del medesimo Statuto è, infatti, imperativo nel sancire che tutte le disposizioni statutarie possono essere derogate soltanto in modo espresso e non è, pertanto, possibile interpretare la mera presenza di una disciplina transitoria o di altra norma sulla decorrenza, senza deroga espressa, come volontà implicita del legislatore di derogare alla clausola in esame. In ragione di ciò, il divieto di retroattività di cui all’art. 3, comma 1, ult. periodo, ivi previsto si atteggia a “clausola generale di diritto intertemporale”, che rinvia automaticamente l’efficacia della disposizione modificativa al primo periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore allorquando difetti una “disciplina transitoria” o altra disposizione sulla “decorrenza” in espressa deroga al predetto divieto. L’introduzione di tale disposizione segna l’abbandono della tradizionale nozione di retroattività, siccome forgiata dal giudice delle leggi, e l’affermarsi di una nuova, più ampia e unitaria nozione che supera la dicotomia retroattività “autentica” e “non autentica” (7), conferendosi rilevanza anche a quelle forme di retroazione che intaccano variamente la capacità economica già espressa o in procinto di essere espressa dal contribuente, per effetto della realizzazione del fatto imponibile, ancorché essa possa dirsi ancora “attuale”:

(7) Secondo quanto già da tempo suggerito, per l’analoga distinzione affermatasi giurisprudenzialmente nell’ordinamento tributario tedesco, da J. Lang, Verfassungsrechtliche Zulässigkeit rückwirkender Steuergesetze, in Die Wirtschaftsprüfung, 1998, 172 ss.


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in effetti, anche questo è un caso in cui si rivaluta un fatto pregresso ad opera di una legge tributaria successiva. Per i tributi periodici, l’art. 3, comma 1, ult. periodo, ha spostato l’asse di valutazione dall’obbligazione tributaria alle singole fattispecie imponibili, rendendo irrilevante la funzione costitutiva del tempo che in questi tributi configura il relativo presupposto quale somma delle singole fattispecie al termine del periodo, espressione unitaria di capacità contributiva. Adesso è qualificabile come retroattivo, e come tale soggetto alla citata disposizione, ogni intervento normativo effettuato nel corso del periodo d’imposta che sostituisce o soltanto modifica la vigente disciplina fiscale e che, incidendo sugli elementi costitutivi della fattispecie imponibile astratta, fa susseguentemente acquisire alla fattispecie concreta, realizzata o programmata, una forza espressiva di capacità contributiva diversa da quella riferibile al momento della realizzazione o della programmazione (8). I profili di dirompente rilevanza nel sistema del citato art. 3, comma 1, ult. periodo, sono stati pienamente colti dalla Suprema Corte in una delle (oramai rare) sentenze illuminate aventi ad oggetto disposizioni dello Statuto dei del

(8) Poiché appronta tutela contro le modifiche sopravvenute che, aggravando l’onerosità fiscale, incidono negativamente sulle scelte compiute o anche solo programmate dal contribuente in un periodo già iniziato, e poiché prescinde dall’attualità della capacità economica espressa o esprimibile da tali scelte, è giocoforza affermare che l’art. 3, comma 1, secondo periodo, è finalizzato a valorizzare e a garantire nella misura massima la fiducia del cittadinocontribuente nella durata della regola fiscale, e in ispecie l’aspettativa di vedere disciplinate le proprie condotte, nel corso dell’intero periodo di imposta, dalle sole norme tributarie conosciute e conoscibili all’inizio del periodo. La citata disposizione affonda le radici nell’affidamento del cittadino-contribuente nella stabilità dell’ordinamento giuridico, garantito nella specie avverso modifiche di norme fiscali “a partita iniziata” e soltanto fino al termine della stessa, che rappresenta – come la Consulta insegna (si vedano, ad esempio, Corte Cost., 4 novembre 1999, n. 426 e Corte Cost., 22 novembre 2000, n. 525, e, più in là nel tempo, Corte Cost., 16 giugno 1964, n. 45, nonché, seppur non riguardanti la materia tributaria, Corte Cost. 10 luglio 2009, n. 206 e Corte Cost. 8 maggio 2007, n. 156) – un interesse costituzionalmente protetto, divenuto oramai valore in sé (nel senso proprio dei valori quali “beni finali, da perseguire attraverso attività teleologicamente orientate”, distinti dai principi quali “beni iniziali, da realizzare attraverso attività consequenzialmente determinate”, secondo la classificazione di G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, 205 ss.), di cui s’individua il referente unico nel principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., negandosi, invece, la riferibilità all’art. 2 Cost. sui diritti inviolabili (v., in modo espresso, Corte Cost., ord. 15 gennaio 2003, n. 11, ma contra F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico, Milano, 2001, 5 ss., e, prima, ne L’affidamento del cittadino, Milano, 1970, 48 ss.) e ignorandosi, a torto, l’art. 41 Cost. sul diritto alla libera iniziativa economica. E poiché tra affidamento e certezza del diritto vi è una stretta correlazione – trattandosi, in ispecie, di due modi di riguardare allo stesso fenomeno e allo stesso valore – essa risponde in definitiva a un’esigenza sussumibile nella formula della “certezza del diritto”.


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contribuente (9). Il caso ivi esaminato verteva su un regolamento ministeriale (in ispecie, il D.P.C.M. 16.12.2001) che aveva modificato la tariffa relativa all’imposta sulla pubblicità, prevedendo come decorrenza (efficacia) il 1° marzo 2001, anziché – in applicazione dell’art. 3, comma 1, ult. periodo dello Statuto – il 1° gennaio 2002 (ossia il primo periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore). La Suprema Corte ha concluso che “Tale provvedimento, però, deve ritenersi, quanto alla sua efficacia temporale – fissata, come detto, a decorrere dal 1 marzo 2001 -, illegittimo per contrasto con la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente), il quale, al comma 1, dopo aver stabilito, in linea generale, il principio di irretroattività delle disposizioni tributarie (fatte salve, a determinate condizioni, quelle di natura interpretativa), prevede, in particolare, che «relativamente ai tributi periodici le modificazioni introdotte si applicano solo a partire dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono». Anche tale norma, così come tutte quelle della L. n. 212 del 2000, è stata emanata in attuazione degli art. 3, 23, 53 e 97 Cost., costituisce principio generale dell’ordinamento tributario e può essere derogata soltanto in modo espresso (art. 1, comma 1, della legge stessa)”. Alla luce di tale ricostruzione, nel caso vagliato dalla Suprema Corte la soluzione sostenuta dall’Agenzia delle Entrate e accolta dalla sentenza in commento – ma anche dagli altri due pronunciamenti precedenti e dall’ordinanza successiva di recente emanazione sulla medesima fattispecie – si pone in aperto contrasto la clausola generale di diritto intertemporale di cui all’art. 3, comma 1, ult. periodo dello Statuto del contribuente. Ed infatti, se è vero, com’è vero, che il D.L. n. 262/2006 (convertito, con mod., dalla L.n. 286/06) non contiene una “disciplina transitoria” o una disposizione analoga sulla decorrenza delle modifiche (la circostanza non risulta essere contestata dall’Agenzia delle Entrate, in quanto – come detto – non era in effetti contestabile), né esiste altra “disciplina transitoria” o disposizione analoga sulla decorrenza delle modifiche “in astratto” applicabile perché in “deroga espressa” all’art. 3, comma 1, dello Statuto (si rammenta che neanche la norma transitoria dei primi due interventi modificativi recava una deroga espressa alla suddetta disposizione), era d’uopo l’applicazione della clausola generale di diritto intertemporale di cui alla citata disposizione statutaria, con automatico rinvio al

(9)

Il riferimento è a Cass., sez. trib., 30 giugno 2010, n. 15528.


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periodo d’imposta 2007 dell’efficacia della nuova disciplina modificativa recata dal D.L. n. 262/2006 (così come convertito con mod. dalla L.n. 286/06), e susseguente applicabilità del regime fiscale originario di cui all’art. 51, 2° co., lett. g-bis), t.u.i.r., nella formulazione vigente fino al 4 luglio 2006, ossia prima dei tre interventi di modifica riassunti nel precedente paragrafo. Questa conclusione coincide, peraltro, con la soluzione (correttamente) adottata dalla stessa Agenzia delle Entrate nel caso, identico, delle modifiche apportate col D.L. n. 79/2009 alla normativa fiscale sulle c.d. “CFC companies” (artt. 167 e 168 del t.u.i.r.), ove – in assenza, come nel caso oggetto della sentenza in commento, di una “disciplina transitoria” o altra regola sulla decorrenza in deroga “espressa” all’art. 3, comma 1, ult. periodo” – l’Agenzia ha riconosciuto che le modifiche fossero applicabili, e dunque che avessero “efficacia”, a partire dal primo periodo di imposta successivo a quello di “entrata in vigore”, in piana ed espressa applicazione della clausola generale di diritto intertemporale di cui al citato art. 3, comma 1 (10). 4. Non è possibile escludere l’applicabilità dell’art. 3, comma 1, argomentando che la disciplina sulle stock option non è “periodica”, perché essa non costituisce regime fiscale autonomo, ma regime speciale dell’Irpef, che è “tributo periodico”, irrilevante essendo la previsione del pagamento di una forma di prelievo sostitutiva dell’Irpef. – Come risulta dalla parte in fatto, nel caso oggetto della sentenza in commento la difesa del contribuente sulla questione controversa era incentrata su due motivi: (a) col primo si è sostenuto che la tesi di parte pubblica, accolta dal giudice di appello, dell’applicabilità della disciplina vigente al momento dell’assegnazione delle azioni contrastasse, per un verso, con il principio di irretroattività del D.L. n. 262/2006 (perché rilevava il momento in cui si è perfezionato il presupposto generatore dell’agevolazione); per altro verso, con la tutela dell’affidamento e della certezza

(10) Si veda la Circ. Ag. Entr., 6 ottobre 2010, n. 51, ove – dopo aver evidenziato che “l’articolo 26 del decreto n. 78 del 2009 prevede che le disposizioni in esso contenute entrano in vigore «il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana», avvenuta nel n. 150 del 1° luglio 2009” – l’Agenzia delle Entrate ha richiamato l’art. 3, comma 1, secondo periodo in esame e, applicandolo, è giunta alla (corretta) conclusione che “le modifiche apportate alla disciplina CFC dall’articolo 13 del decreto legge n. 78 del 2009 trovano applicazione a partire dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 1° luglio 2009, ovvero per i soggetti con periodo di imposta coincidente con l’anno solare, a partire dal 1° gennaio 2010”.


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del diritto; e, infine, con la ratio e struttura della disciplina introdotta dal D.L. n. 262/2006, rispetto a quella del D.L. n. 233/2006 e del D.L. n. 112/2008; (b) col secondo motivo si è censurata la sentenza impugnata per il fatto di non avere considerato che ai sensi dell’art. 3, co. 1, L. n. 212/00 le modifiche relative ai tributi periodici entrano in vigore dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono. Analiticamente esclusa – con argomenti, invero, opinabili – la fondatezza del primo motivo di doglianza, la Suprema Corte ha rigettato anche il secondo motivo di doglianza – che era idoneo, da solo, a consentire la cassazione della sentenza di appello – così brevemente argomentando: “A parte i profili di novità del motivo rispetto alle questioni trattate nei precedenti gradi di giudizio, è qui sufficiente evidenziare che, quand’anche il principio possa riguardare modifiche normative introdotte in materia di esenzione da imposta, resta fermo che il presupposto applicativo sia la periodicità. Nel caso che ci occupa all’oggetto della disciplina – la regolamentazione fiscale delle stock option – è del tutto estraneo il carattere della periodicità, non potendosi neppure configurare una tipologia di agevolazione con carattere pluriennale. Il motivo va dunque rigettato”. Quest’argomento è stato testualmente richiamato e riprodotto dalla Cassazione nella recentissima ordinanza n. 3458/2019 (in ispecie, a pag. 7), per accogliere la doglianza dell’Agenzia, parte ricorrente, secondo cui la CTR aveva errato nel riconoscere l’applicabilità dell’art. 3, comma 1, ult. periodo, in un caso analogo, ritenendo sussistente anche il requisito della “periodicità”. Tale modo di argomentare e la susseguente conclusione della Suprema Corte non sono affatto condivisibili, in quanto non è corretto, ma frutto di un equivoco, riferire il carattere della “periodicità” alla disciplina delle stock option ed escluderne, per tale via, la sussistenza nel caso di specie (11).

(11) È appena il caso di ricordare il divieto di retroattività infrannuale riguarda soltanto i tributi “periodici” – e, dunque, la “periodicità” del tributo è un requisito applicativo ell’art. 3, comma 1, ult. periodo, in esame – per la seguente ragione: nei tributi istantanei – ove “per ogni avvenimento, che ne forma il presupposto, sorge una distinta ed unica obbligazione, cosicché la ripetizione del medesimo fatto dà origine ad una nuova obbligazione” (così, A. D. Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, 177), sebbene, si soggiunge, ciò avvenga nel medesimo anno solare o esercizio sociale – l’introduzione di una disposizione modificativa in corso d’anno con efficacia retroattiva all’inizio dello stesso non è suscettibile di provocare un aggravio impositivo e una retroazione fiscalmente stigmatizzabile; e ciò diversamente da quanto accade nel caso dei tributi periodici, ove una disposizione di tal fatta determina


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Per dimostrare ciò è necessario preliminarmente ricordare che: (i) la “regolamentazione fiscale delle stock option” – com’è chiamata nella sentenza in esame – si colloca nell’art. 51, 2° comma, lett. g-bis) del t.u.i.r.; (ii) tutti gli interventi modificativi della disciplina sulle stock option (il D.L. n. 223/06; la L. n. 248/06 di conversione del suddetto decreto legge; e il D.L. n. 262/06, i cui testi sono riportati retro in nota) sono intervenuti e hanno inciso sul testo del citato art. 51, 2° comma, lett. g-bis) del t.u.i.r.; (iii) quest’articolo è rubricato “Determinazione del reddito di lavoro dipendente” e si colloca all’interno del “Capo IV – Reddito di lavoro dipendente”; (iv) questo “capo” si colloca, a sua volta, all’interno del “Titolo I – Imposta sul reddito delle persone fisiche” (Irpef), che è pacificamente un “tributo periodico”. La “regolamentazione fiscale delle stock option” – cui fa riferimento la sentenza in esame per valutare il requisito della “periodicità” – non costituisce, dunque, un’agevolazione fiscale sganciata dall’Irpef, come ha ritenuto, equivocando, la Suprema Corte nella sentenza in esame: se così fosse, infatti, vi sarebbe una disciplina diversa, autonoma e completa in ogni sua parte, che manca nel caso di specie; non a caso, in sede di commento generale della disciplina modificativa di cui si discute, la stessa Agenzia delle Entrate ha affermato che “L’art. 2, comma 29 del decreto [D.L. n. 262/2006] ha sostituito i periodi secondo, terzo e quarto del comma 2-bis dell’art. 51 del TUIR” (12). In conseguenza di ciò, la “periodicità” non può essere riferita – come ha fatto la Suprema Corte – alla “regolamentazione fiscale delle stock option”, perché non è regime fiscale autonomo e completo; ma tale requisito va valutato in relazione al “tributo” su cui la predetta regolamentazione s’innesta, che nel nostro caso è pacificamente l’Irpef, il quale è altrettanto pacificamente un “tributo periodico”: l’art. 3, comma 1, ult. periodo, della L. n. 212/00, prevede, infatti, l’applicabilità della clausola generale di diritto intertemporale “Relativamente ai tributi periodici”, a prescindere dal fatto che le fattispecie reddituali colpite siano o meno periodiche. I tributi periodici – cui fa riferimento la suddetta disposizione – sono i tributi la cui disciplina prevede un obbligo di dichiarazione che si rinnova periodicamente, com’è per le imposte sui redditi, l’Irap ma anche l’Iva, ancorché possano esservi regimi speciali che escludono in parte l’obbligo in questio-

una retroazione “non autentica” che incide, aggravandola, sull’onerosità fiscale delle fattispecie imponibili realizzate nell’arco temporale di riferimento. (12) Così Circ. Ag. Entr. n. 1/E/2007, pag. 61.


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ne (13), con la conseguenza che, ai fini della qualificazione di un tributo come “periodico”, è irrilevante la ripetitività o meno dell’atto o fatto che costituisce presupposto d’imposta e/o delle redditi appartenenti alle varie categorie; ciò che rileva è soltanto l’obbligo della dichiarazione periodica, che non sussiste nel caso dei tributi “istantanei” (14), come sono l’imposta di registro e l’imposta successoria. In base a questa definizione è possibile qualificare come periodica anche l’Iva, per la quale la liquidazione avviene su base annuale in base a un’apposita dichiarazione; conclusione, questa, che è condivisa dalla stessa prassi amministrativa, la quale ha applicato in più occasioni l’art. 3, comma 1, secondo periodo, L.n. 212/2000 a disposizioni modificative proprio della disciplina Iva, statuendo il rinvio della loro efficacia al primo periodo di imposta successivo a quello di entrata in vigore (15), così confermando anche la definizione di tributo periodico ai fini di tale clausola che è stata sopra rassegnata. Non solo la “periodicità” non può essere riferita – come ha fatto la Suprema Corte – alla “regolamentazione fiscale delle stock option”, perché non costituisce regime fiscale autonomo, ma regime speciale dell’Irpef, che è tributo periodico; ma è anche irrilevante il fatto che il predetto regime speciale prevedesse il pagamento di una forma di imposizione sostitutiva dell’Irpef. Ed infatti, là dove l’imposizione sostitutiva non si traduca nella creazione di un tributo avente sostanziale autonomia rispetto all’imposta sostituita (16), la natura “periodica” del tributo va accertata in relazione all’imposta “sostituita”, nella specie l’Irpef, poiché la imposta “sostitutiva” assoggetta a tassazione – com’è, in effetti, accaduto nel caso di specie – lo stesso presupposto fattuale dell’imposta “sostituita”, e le regole ordinarie relative a quest’ultima

(13) Sul punto, cfr. F. Gallo, L’influenza della disciplina formale nella ricostruzione della natura giuridica di un tributo surrogatorio, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1977, I, 252, il quale già da tempo aveva definito “periodiche” le imposte in cui il decorso di un certo intervallo di tempo rende attuali alcuni obblighi formali e sostanziali. In tema d’imposizione periodica e sulla nozione di “periodo d’imposta” in relazione ai diversi tributi, v., in particolare, F. Crovato, L’imputazione a periodo nelle imposte sui redditi, Padova, 1996, 2 ss., G. Fransoni, Giudicato tributario e attività dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2001, 273 ss. e A. Carinci, L’invalidità del contratto nelle imposte sui redditi, Padova, 2003, 55 ss. (14) V., per la relativa nozione, la definizione – riportata retro – di A. D. Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario, cit., 177. (15) Cfr., ad esempio, Circ. Ag. Entr., 14 maggio 2002, n. 44/E; Ris. Ag. Entr., 5 marzo 2002, n. 74/E e Circ. Min., 16 novembre 2000, n. 207/E. (16) V., ad esempio, per l’imposta sulle assicurazioni, F. Gallo, L’imposta sulle assicurazioni, Torino, 1970, 72 ss.


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operano automaticamente – com’è, in effetti, accaduto nel caso di specie – al venir meno del tributo “sostitutivo”. E lo stesso vale per le ritenute alla fonte a titolo d’imposta, le quali altro non sono se non modalità applicative e articolazioni disciplinari delle imposte sui redditi. Non a caso, è pacificamente accettata e non è stata mai messa in discussione l’autorevole opinione che, nella teoria generale del diritto tributario, configura l’imposta sostitutiva come “figlia” delle imposte sostituite o “madri”, attribuendo alle prime la stessa natura giuridica delle seconde e ritenendo operanti per le prime gli stessi principi e criteri impositivi delle seconde (17). In conclusione, quanto affermato e concluso dalla Suprema Corte nella sentenza in esame sarebbe stato corretto se vi fosse stata una disciplina agevolativa “autonoma” in materia di stock option, con un tributo avente autonomia rispetto al tributo “sostituito”, ma così non è. L’errata conclusione di tale sentenza ha, tuttavia, finito per essere acriticamente reiterata e utilizzata come precedente n ella successiva ordinanza n. 3458/2019, avente ad oggetto un caso analogo, con conseguente, identica decisione negativa per il contribuente-resistente. 5. Sulle ragioni che ostano alla possibilità di dare continuità all’orientamento giurisprudenziale di legittimità riguardante la disciplina fiscale delle stock option di cui al D.lgs. n. 505/1999, che è stato seguito (in modo acritico) per il caso oggetto della sentenza in commento e gli altri casi analoghi più recenti. – Nella sentenza in esame la Suprema Corte ha ritenuto inapplicabile al caso vagliato – per l’equivoco concernente il requisito della “periodicità” – la “clausola generale di diritto intertemporale” recata dall’art. 3, comma 1, ult. periodo, e deciso di dare continuità, in quanto espressamente condiviso, al principio applicato in un caso analogo da Cass., sez. trib., 12 aprile 2017, n. 9465, e forgiato dalla medesima giurisprudenza di legittimità in alcune sentenze anteriori (si tratta di Cass., nn. 11214/2011, 13088/2012, 11413/2015), riguardanti la disciplina fiscale delle stock option di cui al D.lgs. n. 505/1999, anch’esse esplicitamente richiamate. In particolare, la Suprema Corte ha prestato adesione all’orientamento secondo cui “in tema di determinazione del reddito di lavoro dipendente la disciplina di tassazione applicabile «ratione temporis» alle cosiddette «stock options» va individuata in quella vigente al momento dell’esercizio del diritto

(17) Cfr. A. Hensel, Diritto tributario, Milano, 1956, 80 ss.


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di opzione da parte del lavoratore, indipendentemente dal momento in cui l’opzione sia stata offerta, atteso che l’operazione cui consegue la tassazione non va identificata nell’attribuzione gratuita del diritto di opzione, che non è soggetta a imposizione tributaria, ma nell’effettivo esercizio di tale diritto mediante l’acquisto delle azioni, che costituisce il presupposto dell’imposizione commisurata proprio sul prezzo delle stesse e che è rimesso alla libera scelta del beneficiato”. Tale principio è stato richiamato anche nelle successive ordinanze Cass., sez. trib., 20 giugno 2018, n. 16227 (v., in ispecie, pag. 5), e Cass., sez. trib., 6 febbraio 2019, n. 3458 (v., in ispecie, pag. 6), ove parte ricorrente era l’Agenzia, per decidere, sempre, casi analoghi a quello oggetto della sentenza in commento e, sempre, a favore della parte pubblica. Invero, la Suprema Corte non avrebbe dovuto, acriticamente, seguire l’orientamento pregresso e applicare il relativo principio per decidere il caso oggetto della sentenza in commento e gli altri casi analoghi sia precedenti (sent. n. 9465/2017) sia successivi (ord. n. 16227/2018 e ord. n. 3458/2019), e ciò per una semplice e oggettiva ragione che legittimava una discontinuità: i vecchi precedenti richiamati – ossia Cass., nn. 11214/2011, 13088/2012, 11413/2015 – riguardano una disciplina connotata dalla presenza di una “norma transitoria” relativa ai c.d. piani in corso, che è stata puntualmente applicata dalla Suprema Corte, diversamente dal D.L. n. 262/2006 concernente il caso oggetto di decisione, ma anche quelli decisi con le altre pronunce, ove – com’è pacifico – manca in radice una “norma transitoria” di tal fatta. Ed infatti, se si leggono le motivazioni delle tre vecchie pronunce richiamate, le affermazioni di cui consta il principio ivi fissato – applicato dalla Suprema Corte in tutti i casi recentemente scrutinati – costituiscono mera applicazione della “norma transitoria” recata dall’art. 13, comma 2, del D.Lgs. n. 505/99, la quale era stata specificamente introdotta per regolamentare la transizione dalla vecchia disciplina delle stock option (quella prevista dall’art. 48 del vecchio t.u.i.r., così come novellato dall’art. 3 del D. Lgs. n. 314/97) alla nuova disciplina risultante dal citato art. 13 del D. Lgs. n. 505, che ha modificato le lett. g) e g-bis) del citato art. 48 (18).

(18) Su tale disciplina, v., per tutti, F. Crovato, Le nuove stock option tra favor e riconoscimento delle componenti aleatorie della retribuzione, in Rass. trib., 1999, 1676 ss.; F. Tundo, Le cd. Stock option nell’imposizione sui redditi: problematiche interpretative e profili applicativi, in N. D’Amati (a cura di), La disciplina tributaria del lavoro dipendente, Padova, 2003, 407 ss. e V. Mastroiacovo, Le stock option: le problematiche applicative, in V. Ficari


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In particolare, il citato art. 13, comma 2 – dopo avere sancito che “Le disposizioni del comma 1 [recante anche le modifiche alle lett. g) e g-bis) dell’art. 48 in materia di stock option] si applicano a decorrere dal 1° gennaio 2000” – prevede che “Le disposizioni di cui alle lettere b), n. 2) e n. 3) [ossia, specificamente, le modifiche alle lett. g) e g-bis) di cui sopra] non si applicano alle assegnazioni di titoli effettuate anteriormente alla predetta data, nonché a quelle derivanti dall’esercizio di opzioni attribuite dal 1° gennaio 1998 fino alla data di entrata in vigore del presente decreto”. Nei tre pronunciamenti richiamati, direttamente o indirettamente, dalla sentenza in commento e dalle due ordinanze successive – lungi dal fissare principi di carattere generale, in quanto tali applicabili anche alle discipline diverse e successive in materia di stock option – la Suprema Corte ha soltanto e specificamente stabilito che “la disposizione contenuta nell’art. 48, comma 2, lett. g bis), cit. T.U.I.R., aggiunta dal D. Lgs. n. 505 del 1999, art. 13, comma 1, lett. b), relativa ai criteri di tassazione delle cosiddette <stock option>, si applica secondo l’art. 13, comma 2, a decorrere dal 1 gennaio 2000 e, quindi alle assegnazioni dei titoli avvenute dopo tale data, indipendentemente dal momento in cui sia stata offerta l’opzione (Cass. 11214/2011). È di tutta evidenza come, dunque, all’ipotesi di plusvalenze derivanti dall’esercizio del diritto di opzione relativo ad un piano di <stock option> sottoscritto nel 1997 ma esercitato solamente nel 2001, sia applicabile la disciplina prevista dall’art. 48 T.U.I.R., così come novellato dal D. Lgs. n. 505 del 1999” (così, per tutte, Cass., n. 13088/2012). In sostanza, la Suprema Corte si è limitata a interpretare e applicare ai casi sottoposti al suo vaglio – ove l’attribuzione dei diritti di opzione era anteriore alla data di “efficacia” della nuova disciplina (espressamente fissata al 1° gennaio 2000) e l’assegnazione delle azioni successiva alla medesima data (c.d. “piani in corso”) – la “norma transitoria” recata dall’art. 13, comma 2, specificamente per i “piani in corso”: ergo, l’attribuzione di rilevanza al momento “assegnazione dei titoli” per l’individuazione della disciplina fiscale applicabile, da parte della Suprema Corte, è soluzione specifica e non generalizzabile, in quanto prevista espressamente e valida solo per regolamentare i c.d. “piani in corso” nel passaggio dalla vecchia disciplina delle stock option di cui all’art. 48 del vecchio t.u.i.r., così come novellato dall’art. 3 del D. Lgs. n. 314/97, alla nuova disciplina risultante dalle modifiche apportate al citato

(a cura di), I redditi di lavoro dipendente, Torino, 2003, 184 ss.


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art. 48, lett. g) e g-bis), sempre t.u.i.r., dall’art. 13 del D. Lgs. n. 505/99. Quanto osservato – ricavabile, lo si ripete, dalla mera lettura del testo dei tre precedenti richiamati in modo acritico e, verosimilmente, in ragione della sola massima – vale a dimostrare l’ulteriore errore in cui è incorsa la Corte di Cassazione nella sentenza in commento e nelle due ordinanze successive, e la necessità per il futuro, ove dovessero presentarsi altri casi analoghi, di una discontinuità rispetto al vecchio orientamento impropriamente rinvigorito e rafforzato dalla recente giurisprudenza di legittimità in commento. 6. L’inapplicabilità al caso vagliato dalla Suprema Corte (ma anche ai casi analoghi decisi nelle altre pronunce), avente ad oggetto le modifiche introdotte dal D.L. n. 262/2006, della “norma transitoria” recata dal D.L. n. 223/2006, la quale, in ogni caso, non prevede una deroga “espressa” alla clausola generale (statutaria) di diritto intertemporale. – Nella sentenza in commento si richiamano il precedente costituito da Cass., n. 9465/2017 e le pronunce anteriori Cass., nn. 11214/2011, 13088/2012, 11413/2015, relative alla precedente disciplina, ma non anche l’ordinanza Cass., sez. trib., 20 giugno 2018, n. 16227, anteriore di quasi un mese, la quale – oltre a uniformarsi, come evidenziato nel paragrafo precedente, al vecchio e non pertinente orientamento della giurisprudenza di legittimità – ha vagliato ed escluso per altra via l’operatività dell’art. 3, comma 1, ult. periodo, in un caso analogo a quello oggetto della sentenza in esame. In tale ordinanza – dopo avere affermato che le norme statutarie sono rilevanti in sede interpretativa per risolvere eventuali dubbi ermeneutici, ma che, in base alla gerarchia delle fonti, non possono fungere da parametro di costituzionalità (sul punto si ritornerà infra) – la Suprema Corte ha argomentato che, “in tema di efficacia nel tempo di norme tributarie, in base all’art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (cosiddetto Statuto del contribuente), il quale ha codificato nella materia fiscale il principio generale di irretroattività delle leggi stabilito dall’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, va esclusa l’applicazione delle medesime salvo che sia espressamente prevista (Cass. Civ. 9 dicembre 2009, n. 25722). Del resto, l’art. 36 comma 25 del D.L. n. 223 del 4-7-2006, convertito in legge 248/2006, laddove modifica l’art. 51 comma 2-bis del d.p.r. 917/1986, si applica, ai sensi del comma 26 dell’art. 36 «alle azioni la cui assegnazione ai dipendenti si effettua successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto” (così a pag. 6 di tale sentenza). La ragione del mancato richiamo di questo precedente, e la scelta compiuta nella sentenza in commento di escludere l’operatività della clausola statu-


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taria argomentando (sia pur in modo errato) sul requisito della “periodicità”, è presto spiegata: nella citata ordinanza l’estensore ha fatto applicazione, errando, di una norma relativa al D.L. n. 223/2006 che non era riferibile né può essere riferita al D.L. n. 262/2006, ossia l’ultimo intervento di modifica, di cui si discuteva l’applicabilità nel caso esaminato dall’ordinanza e in quello analogo deciso nella sentenza in commento. Tanto è evidente se si considera quanto segue. Come si è riassunto all’inizio, riportando in nota i testi normativi cui si rinvia, con D.L. n. 223/2006, art. 36, comma 25 (entrato in vigore il 4 luglio 2006), era stata sancita l’abrogazione del regime originario di agevolazione in materia di stock option, di cui alla lett. g-bis) dell’art. 51, 2° co., del Testo Unico, prevedendosi, al successivo comma 26, che “La disposizione di cui al comma 25 si applica alle azioni la cui assegnazione ai dipendenti si effettua successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. Con la L. n. 248/2006 di conversione con mod. del suddetto D.L. n. 223/2006 (entrata in vigore il 12 agosto 2006), il citato comma 25 dell’art. 36 è stato modificato prevedendosi, in sostanza, la reintroduzione della disciplina prima abrogata [lett. g-bis)], con l’aggiunta di due nuove condizioni applicative e mantenendo fermo il successivo comma 26 secondo cui “La disposizione di cui al comma 25 si applica alle azioni la cui assegnazione ai dipendenti si effettua successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. Con il D.L. n. 262/2006 così come convertito con mod. dalla L.n. 286/06 (entrato in vigore il 29 novembre 2006), la nuova disciplina delineata dalla L. n. 248/2006, di conversione con mod. del D.L. n. 223/2006, è stata significativamente emendata, eliminando una delle condizioni ivi previste, modificandone un’altra e introducendone due completamente nuove, senza tuttavia riprodurre né in alcun modo prevedere una disposizione come quella di cui al surriportato comma 26. Una piana e obiettiva lettura di tali interventi modificativi palesa che il D.L. n. 262/2006 ha inciso sulla L. n. 248/2006, di conversione con mod. del D.L. n. 223/2006, sia sotto il profilo sostanziale che temporale, determinando – in ragione dell’assenza di una “norma transitoria” o comunque di una disposizione analoga sulla decorrenza, con conseguente, automatico ingresso della clausola generale di diritto intertemporale di cui all’art. 3, comma 1, ult. periodo – l’operatività senza soluzione di continuità della disciplina fiscale delle stock option vigente anteriormente alla primo degli interventi di modifica, ossia il regime originario di cui all’art. 51, 2° co., lett. g-bis), del Testo Unico, nella formulazione anteriore al D.L. n. 223/2006 (prima della


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conversione): diversamente opinando, si oblitererebbero arbitrariamente il collegamento tra i profili sostanziali e temporali degli interventi normativi che si sono susseguiti. Ma anche, in via di mera ipotesi, a ritenere – come ha ritenuto la Suprema Corte nella ordinanza n. 16227/2018 – che la disposizione sulla decorrenza del D.L. n. 223/2006 possa essere riferita al D.L. n. 262/2006, la conclusione raggiunta non può comunque considerarsi corretta. Ciò perché la citata disposizione sulla decorrenza di cui all’art. 36, comma 26, D.L. n. 223/2006 – nel prevedere, con riguardo al primo intervento modificativo dal precedente comma 25 – che “La disposizione di cui al comma 25 si applica alle azioni la cui assegnazione ai dipendenti si effettua successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto” – non reca, come risulta per tabulas, una deroga “espressa” all’art. 3, comma 1, L. n. 212/00, con la conseguenza che: (i) la clausola generale di diritto intertemporale ivi prevista trova comunque applicazione; e, dunque, (ii) l’efficacia delle modifiche è automaticamente rinviata al 1° gennaio 2007. Infatti, come si è già osservato, la mera previsione di una norma transitoria non è sufficiente a impedire l’operatività dell’art. 3, comma 1, ult. periodo, dello Statuto del contribuente: l’art. 1, comma 1, è imperativo – lo si ripete – nel sancire che le disposizioni statutarie possono essere derogate soltanto in modo “espresso”, vietando così ogni deroga ai principi generali dello Statuto – ivi compresi quelli recati dall’art. 3, comma 1, in esame – che non sia formulata in maniera espressa e contenuta in leggi generali (c.d. clausole di «fissità rinforzata»). E ciò è stato riconosciuto dalla stessa Suprema Corte con riferimento proprio al secondo periodo dell’art. 3, comma 1, di nostro interesse, la quale ha affermato che “Anche tale norma, così come tutte quelle della L. n. 212 del 2000, è stata emanata in attuazione degli art. 3, 23, 53 e 97 Cost., costituisce principio generale dell’ordinamento tributario e può essere derogata soltanto in modo espresso (art. 1, comma 1, della legge stessa)” (19). Ed è, inoltre, conforme e dà piena attuazione al principio lucidamente affermato sempre dalla giurisprudenza di legittimità, ancorché precedente, secondo cui “ogni qualvolta una normativa fiscale sia suscettibile di una duplice interpretazione, una che ne comporti la retroattività e una che l’escluda, l’interprete dovrà dare preferenza a questa seconda interpretazione come conforme ai criteri generali introdotti con lo Statuto del contribuente e attraverso di essi

(19) Così, Cass., sez. trib., 30 giugno 2010, n. 15528, cit.


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ai valori costituzionali intesi in senso ampio e interpretati direttamente dallo stesso legislatore attraverso lo Statuto” (20). Peraltro, lo stesso art. 36 del D.L. n. 223/2006 – che reca la disposizione sulla decorrenza ritenuta dalla Suprema Corte riferibile anche al successivo D.L. n. 262/2006, senza tenere conto che è in ogni caso priva di deroga “espressa” – contiene una serie di disposizioni sull’efficacia temporale o norme transitorie, relativi ad altri interventi modificativi, che recano una deroga “espressa” (21). Invece, nel comma 26 del medesimo art. 36, D. L. n.

(20) Così, Cass., sez. trib., 14 aprile 2004, n. 7080; in termini, anteriormente, Cass., sez. trib., 10 dicembre 2002, n. 17576 e Cass., sez. trib., 20 marzo 2001, n. 4760. Opinare come ha opinato la Suprema Corte nelle pronunce n. 3458/2019 e n. 16227/2018 – ove si è affermato, in modo identico ma apodittico, che “le disposizioni dello statuto del contribuente, che costituiscono meri criteri guida per il giudice, in sede di applicazione ed interpretazione delle norme tributarie, anche anteriormente vigenti, per risolvere eventuali dubbi ermeneutici, non hanno, nella gerarchia delle fonti, rango superiore alla legge ordinaria, con la conseguenza che essere non possono fungere da parametro di costituzionalità, né consentire la disapplicazione della norma tributaria in asserito contrasto con le stesse” – significa obliterare totalmente l’efficacia della clausola di autorafforzamento, rendendola inutiler data e rendendo susseguentemente e sostanzialmente inutiler data anche (fra le altre) la disposizione recata dall’art. 3, comma 1, secondo periodo, la quale finisce con l’operare soltanto nei confronti delle fonti subordinate: ogni legge modificativa emanata in corso d’anno, relativa a tributi di carattere periodico e priva di una deroga espressa alla citata disposizione può far retroagire la sua efficacia all’inizio del periodo di imposta. Invero, se si valorizza – com’è d’uopo – il dato irrefutabile delle disposizioni statutarie quale estrinsecazione e attuazione dei principi costituzionali in materia fiscale e, in ogni caso e in modo decisivo, la matrice europea dei principi di tutela dell’affidamento e di certezza del diritto, che – come evidenziato retro in nota 8 – costituiscono i referenti della clausola generale di diritto intertemporale in esame, è possibile fondatamente sostenere – contrariamente a quanto affermato in via generale dalla Suprema Corte – la disapplicabilità di ogni legge modificativa emanata in violazione dell’art. 3, comma 1, secondo periodo: per gli approfondimenti in merito si rinvia ad A. Contrino, Modifiche fiscali in corso di periodo e divieto di retroattività “non autentica” nello Statuto del contribuente, cit., 589 ss., par. 6. (21) “D.L. 4 luglio 2006, n. 223, così come convertito, con mod., dalla L. n. 248/2006, Art. 36: (…) 8. In deroga all’articolo 3, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente, le norme di cui ai precedenti commi 7 e 7-bis si applicano a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto anche per le quote di ammortamento e i canoni di leasing relativi ai fabbricati acquistati o acquisiti a partire da periodi d’imposta precedenti”. (…) 30. In deroga all’ articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, le disposizioni di cui al comma 10 dell’ articolo 165 del testo unico delle imposte sui redditi di cui al [3-4] decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi riferite anche ai crediti d’imposta relativi ai redditi di cui al comma 8-bis dell’ articolo 51 del medesimo testo unico. (…) 34. In deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, nella determinazione dell’acconto dovuto dai soggetti di cui all’ articolo 73 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, ai fini dell’imposta sul reddito delle società e


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223/2006 non vi è alcuna deroga “espressa” all’art. 3 dello Statuto del contribuente, prevedendosi soltanto – come si è visto – che: “26. La disposizione di cui al comma 25 si applica alle azioni la cui assegnazione ai dipendenti si effettua successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”: in assenza di una deroga “espressa” non può che avere automatico ingresso, in ogni caso, la clausola generale di diritto intertemporale di cui all’art. 3, comma 1, L. n. 212/2000.

Angelo Contrino

dell’imposta regionale sulle attività produttive per il periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, si assume, quale imposta del periodo precedente, quella che si sarebbe determinata applicando le disposizioni del presente decreto; eventuali conguagli sono versati insieme alla seconda ovvero unica rata dell’acconto. (…) 34-bis. In deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, la disposizione di cui al comma 4 dell’ articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 , si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’ articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi”.


Cass. civ., Sez. Trib., 11 dicembre 2018 - 13 marzo 2019, n. 7099 – Pres. Cirillo; Rel. Crucitti Imposte e tasse in genere – Processo tributario – Cartella di pagamento avente ad oggetto imposte dichiarate e non versate – Ricorso proposto per vizi propri della cartella – Definizione agevolata della lite pendente – Esclusione Non è definibile ai sensi dell’art. 6, D.L. 23 ottobre 2018, n. 119 la lite tributaria avente ad oggetto una cartella di pagamento emessa a seguito di liquidazione informatica di imposte dichiarate e non versate e impugnata solo per vizi propri, non attinenti al merito della pretesa erariale, non essendo tale provvedimento un atto impositivo rientrante nel perimetro della definizione. (1)

(Omissis) Nella controversia concernente l’impugnazione da parte di F.R. di cartella di pagamento, emessa ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, e portante Irpef, addizionali, interessi e sanzioni dell’anno di imposta 2000, la Commissione tributaria regionale del Lazio dichiarava l’appello - proposto dalla contribuente avverso la prima decisione, sfavorevole - inammissibile, per il mancato deposito di copia presso la Segreteria della Commissione tributaria provinciale. Avverso la sentenza ricorre la contribuente affidandosi a quattro censure. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso. Nell’imminenza della data fissata per la trattazione del ricorso in pubblica udienza la ricorrente ha depositato istanza di sospensione del processo ai sensi del D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, art.6. Diritto Ragioni della decisione 1. Preliminarmente va disattesa l’istanza di sospensione del processo, presentata dalla ricorrente, ai sensi del D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, art. 6. Tale norma, al comma 10, rimasto invariato in sede di conversione nella L. 17 dicembre 2018, n. 136, prevede la possibilità per il contribuente di chiedere la sospensione del processo sino al 10 giugno 2019 facendone apposita richiesta al giudice e dichiarando di volersi avvalere delle disposizioni dello stesso articolo.


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Il primo comma dell’articolo prevede testualmente che possono essere definite le controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte l’Agenzia delle entrate, aventi ad oggetto atti impositivi, pendenti in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello in Cassazione e anche a seguito di rinvio. Nel caso in esame, l’oggetto della controversia è l’impugnazione di una cartella di pagamento, emessa ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, a seguito di omesso o carente versamento dell’Irpef e impugnata solo per vizi propri (per come risulta pacificamente dalla sentenza impugnata). Tale cartella, peraltro non impugnata nel merito della pretesa erariale, non può ritenersi atto impositivo derivando, per quanto attiene ai versamenti, da una mera liquidazione dei tributi già esposti dal contribuente e, con riferimento alle sanzioni, da un riscontro puramente formale dell’omissione, senza alcuna autonomia e discrezionalità da parte dell’Amministrazione (cfr. tra le altre Cass. n. 28064 del 02/11/2018). Ne deriva che la controversia non rientra tra quelle passibili di definizione agevolata ai sensi della normativa citata con conseguente rigetto dell’istanza di sospensione. (Omissis)

(1) Definizione agevolata delle liti fiscali e concetto di atto impositivo: orientamenti della giurisprudenza di legittimità e della prassi amministrativa. Sommario: 1. Premessa. – 2. Il variabile concetto di atto impositivo assunto dalla Suprema Corte. – 3. La posizione dell’Agenzia delle entrate. – 4. Alcune considerazioni sui princìpi espressi dalla sentenza in commento. Come in occasione di precedenti sanatorie fiscali, anche la disciplina della definizione agevolata delle liti fiscali pendenti prevista dall’art. 6, D.L. 23 ottobre 2018, n. 119 circoscrive l’applicazione dell’istituto alle liti aventi ad oggetto atti impositivi. Sul concetto di atto impositivo si sono espresse più volte la Corte di cassazione e l’Agenzia delle entrate. Anche la sentenza in commento si pronuncia sul punto, adottando una posizione che si discosta dall’orientamento prevalentemente sostenuto in passato. As in previous tax amnesties, the regulation of the definition of pending tax disputes provided for by art. 6, D.L. October 23, 2018, n. 119 circumscribes the application of the institute to disputes concerning tax provisions. The Court of Cassation and the Inland Revenue have repeatedly expressed their views on the concept of tax provision. Also the sentence in comment pronounces on the point, adopting a position that differs from the orientation prevalently supported in the past.

1. Premessa. – I provvedimenti normativi che hanno regolato le diverse


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forme di definizione agevolata delle liti fiscali previste negli ultimi vent’anni hanno quasi sempre circoscritto il perimetro applicativo dell’istituto alle controversie aventi ad oggetto “atti impositivi”. Così è avvenuto nel 2002, nel 2011 e nel 2018; solo nel 2017 il legislatore non ha limitato sotto questo profilo la possibilità di aderire alla sanatoria. Da tempo, quindi, il problema di individuare il concetto di atto impositivo è emerso all’attenzione degli operatori assumendo un’indubbia valenza pratica oltre che teorica. Nel 2002 la sanatoria fiscale riguardò le liti pendenti “in cui è parte l’Amministrazione Finanziaria dello Stato aventi ad oggetto avvisi di accertamento, provvedimenti di irrogazione delle sanzioni e ogni altro atto di imposizione” (art. 16, comma 3, lett. a), L. 27 dicembre 2002, n. 289). La norma fu richiamata dall’art. 39, comma 12, D.L. 6 luglio 2011, n. 98, che dichiarò applicabili le disposizioni dell’art. 16 alle liti fiscali di valore non superiore a 20.000 euro in cui fosse parte l’Agenzia delle entrate, pendenti alla data del 31 dicembre 2011 dinanzi alle commissioni tributarie o al giudice ordinario. Il riferimento agli atti impositivi non è stato riproposto dall’art. 11, D.L. 24 aprile 2017, n. 50 (che ha disciplinato la definizione delle liti fiscali pendenti alla data del 24 aprile 2017), ma è riemerso nell’art. 6, D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, ai sensi del quale “possono essere definite le controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte l’Agenzia delle entrate, aventi ad oggetto atti impositivi”, pendenti in ogni stato e grado del giudizio alla data del 24 ottobre 2018. La Corte di cassazione si è espressa più volte in materia, e la pronuncia qui commentata si inserisce all’interno di filoni giurisprudenziali non uniformi, che lasciano alcuni margini di perplessità. 2. Il variabile concetto di atto impositivo assunto dalla Suprema Corte. – La sentenza in commento afferma che, ai sensi dell’art. 6, D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, non può essere considerata atto impositivo la cartella di pagamento formata ai sensi dell’art. 36-bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 al fine di liquidare imposte dichiarate e non versate dal contribuente e irrogare le relative sanzioni “senza alcuna autonomia e discrezionalità da parte dell’Amministrazione” e senza che, nel proprio ricorso, il contribuente abbia formulato contestazioni “nel merito della pretesa erariale”. Si tratta – se ben si comprende – di un orientamento che, pur negando in concreto la possibilità di definire la lite, non esclude in via di principio che anche le controversie promosse in impugnazione di cartelle formate in sede di controllo automatico delle dichiarazioni possano essere definite in via agevolata: e si colloca perciò


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in posizione intermedia fra l’indirizzo più rigoroso, che nega sempre la definibilità delle liti de quibus, e quello più benevolo, che la riconosce invece a prescindere dall’oggetto dei relativi giudizi e dunque dal fatto che il contribuente formuli motivi afferenti al “merito della pretesa erariale”. 2.1. Il primo indirizzo nega natura impositiva alla cartella emessa ex art. 36-bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 per liquidare imposte dichiarate e non versate, trattandosi di provvedimento che non rettifica i dati dichiarati e non comporta aumento dell’imposta dovuta. Ritiene irrilevante il fatto che la cartella sia il primo atto notificato al contribuente, e che siano allegati motivi di ricorso attinenti all’an o al quantum della pretesa fiscale. Ne sono espressione diverse pronunce degli ultimi anni. Ad esempio quella del 2014 – richiamata anche dalla circolare dell’Agenzia delle entrate n. 6 del 1° aprile 2019 – secondo cui la definizione agevolata regolata dall’art. 39, comma 12, D.L. 6 luglio 2011, n. 98 avrebbe riguardato le “sole liti aventi ad oggetto un atto di imposizione fiscale, e cioè un atto con il quale l’Amministrazione finanziaria dello Stato imponga un tributo maggiore, ulteriore o diverso rispetto a quello dichiarato dal contribuente, con esclusione quindi di tutte le controversie aventi ad oggetto la mera liquidazione di un’imposta in base a quanto dichiarato (direttamente e/o indirettamente) dal contribuente stesso”: dovendosi dunque distinguere fra atti di riscossione di imposte “nella misura risultante dalla stessa dichiarazione” e atti volti a rettificare i risultati della dichiarazione “attraverso la correzione di errori materiali e di calcolo, o la esclusione (o riduzione) di scomputi di ritenute, di detrazioni o deduzioni, di crediti d’imposta; casi nei quali si è in presenza di un’attività impositiva vera e propria, rientrante per definizione in quella di accertamento” (1). O quelle che, negli anni successivi, hanno ribadito il principio in controversie aventi ad oggetto cartelle impugnate sia per vizi propri (omessa allegazione dell’estratto di ruolo, omessa motivazione sull’ammontare degli interessi pretesi) che per motivi di merito (decadenza dell’ufficio

(1) Cass., 26 febbraio 2014, n. 4608, in Banca Dati Fiscopiù, riguardante una cartella impugnata per decadenza dell’ufficio dal potere di controllo automatico (“solo nella prima ipotesi la lite, concernendo un atto meramente liquidatorio, non rientra tra quelle suscettibili di definizione agevolata, laddove nella seconda ipotesi non vi è ragione di escluderla, in presenza di un atto con il quale, al di là della sua qualificazione formale, l’Amministrazione esercita per la prima volta una pretesa sostanzialmente impositiva, in contrasto con quanto evidenziato dal contribuente nella dichiarazione”).


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dal potere di riscossione dell’imposta, illegittimità dell’Irap iscritta a ruolo per assenza di autonoma organizzazione del professionista interessato) (2). A volte, la Corte ha espressamente ritenuto non definibile la lite “al di là delle contestazioni sulla pretesa tributaria, spiegate dal contribuente nel giudizio avverso la cartella” (3). 2.2. Il secondo indirizzo, opposto al primo, include invece la cartella di cui all’art. 36-bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 tra gli atti impositivi, perché essa costituisce il primo e unico provvedimento notificato al contribuente e può essere impugnato anche “nel merito della pretesa erariale” (ossia per errori commessi nella redazione della dichiarazione). Ritiene irrilevante il fatto che tali errori siano allegati nel ricorso introduttivo. In sostanza, queste pronunce considerano atti impositivi anche quelli che non aumentano le imposte dichiarate, purché non preceduti da altri atti e impugnati o impugnabili per vizi di merito. In questo senso, è stata cassata la sentenza d’appello che “non si è conformata ai princìpi sopra esposti, poiché non ha considerato, per l’un verso, che oggetto della cartella a suo tempo notificata era la richiesta di pagamento di tributo Irap per la prima volta preteso dall’ufficio e, per altro verso, che tale atto, essendo il primo impugnabile dal contribuente, non poteva essere escluso dal novero degli atti condonabili, anche considerando che lo stesso contemplava pure il pagamento di sanzioni” (4); ed è stato ribadito – senza nemmeno menzionare i motivi di impugnazione formulati dal contribuente – che “rientrano nel concetto di lite pendente, con possibilità di definizione agevolata ai sensi dell’art. 16, comma 3, L. 27 dicembre 2002, n. 289, le controversie relative a cartella esattoriale emessa ex art. 36-bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 non preceduta da precedente atto di accertamento, la quale, come tale, è impugnabile non solo per vizi propri, ma anche per motivi attinenti al merito della pretesa impositiva, trattandosi del primo e unico atto con cui la pretesa fiscale viene comunicata al contribuente” (5). Il principio è stato richiamato da altra recente sentenza che, in un caso diverso da quelli in esame, ha escluso la definibilità della lite perché la car-

(2) Cass., 28 gennaio 2015, n. 1571, in Banca Dati Fiscopiù; Id., 13 aprile 2016, n. 7279, ibid.; Id., 8 giugno 2017, n. 14344, ibid. (3) Cass., 2 novembre 2018, n. 28064, in Banca Dati Fiscopiù. (4) Cass., 18 novembre 2016, n. 23486, in Banca Dati Fiscopiù. (5) Cass., 17 gennaio 2019, n. 1158, in Banca Dati Fiscopiù.


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tella impugnata non rappresentava il primo atto notificato al contribuente, ma ha comunque affermato che “l’accesso alla definizione agevolata in discorso, per gli atti di riscossione – quali la cartella di pagamento – è ammissibile solo quando questa sia stata emessa a seguito di controllo automatizzato e in assenza di un previo avviso di accertamento, trattandosi in definitiva del primo e unico atto con cui la pretesa fiscale viene comunicata al contribuente. Ove invece sia stato precedentemente emesso un autonomo atto d’accertamento (come nella specie, atto oggetto del giudicato), la notifica della cartella non costituisce nuovo ed autonomo atto impositivo, ma atto di mera esecuzione di una pretesa ormai definitiva” (6). 2.3. In posizione mediana fra i due orientamenti appena segnalati si collocano le pronunce che riconoscono natura impositiva alle cartelle emesse in sede di controllo automatizzato delle dichiarazioni, quali primi provvedimenti notificati ai contribuenti, purché impugnate “nel merito della pretesa erariale”. Si afferma allora la possibilità di definire le relative liti pendenti, essendo “irrilevante la circostanza che la cartella contenga la liquidazione di imposte dichiarate e non versate, una volta che, da un lato, si tratta del primo atto con cui l’Amministrazione ha esercitato la propria pretesa nei confronti del contribuente, e, dall’altro, quest’ultimo ha instaurato una controversia effettiva, facendo valere, nell’impugnare la cartella, il proprio diritto alla emendabilità, in sede contenziosa, della dichiarazione” (7). Secondo questo indirizzo, la natura (impositiva o di mera riscossione) della cartella impugnata non dipende dal suo contenuto ma dalla sequenza procedimentale in cui essa si inscrive e dalla condotta processuale del contribuente, che alleghi nel ricorso errori commessi in sede di dichiarazione.

(6) Cass., 8 febbraio 2019, n. 3759, in Banca Dati Fiscopiù. (7) Cass., 29 novembre 2017, n. 28611, in Banca Dati Fisconline, con riguardo a una cartella di pagamento per imposte dichiarate e non versate, che il contribuente aveva impugnato contestando tra l’altro la mancata prova degli elementi giustificativi del quantum preteso e la mancata rideterminazione delle sanzioni. Nello stesso senso Id., 27 settembre 2018, n. 23269, ibid., con riferimento a una cartella avente ad oggetto il recupero di crediti d’imposta dichiarati nell’anno del controllo ma non in quelli di maturazione (“è di per sé irrilevante la circostanza che la cartella contenga la liquidazione di imposte dichiarate e non versate, una volta che, da un lato, si tratta del primo atto con cui l’Amministrazione ha esercitato la propria pretesa nei confronti del contribuente e, dall’altro, quest’ultimo ha instaurato una controversia effettiva, facendo valere, nell’impugnare la cartella, il proprio diritto alla emendabilità, in sede contenziosa, della dichiarazione”).


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Come accennato, sembra essere questa la strada battuta dalla sentenza in commento, che ha escluso la possibilità di definire una lite avente ad oggetto una cartella non impugnata per errori dichiarativi, lasciando però intendere che la decisione avrebbe potuto essere diversa se diversi fossero stati i motivi del ricorso di primo grado. La sentenza crea un certo disorientamento quando richiama la pronuncia n. 28064 del 2 novembre 2018 che – lo si è visto – pare orientata a escludere sempre e comunque la definibilità delle liti riguardanti cartelle di pagamento per imposte dichiarate e non versate. 3. La posizione dell’Agenzia delle entrate. – A fronte di questi oscillanti orientamenti giurisprudenziali, l’Agenzia delle entrate ha da tempo assunto una posizione monolitica, che esclude in ogni caso la natura impositiva delle cartelle emanate al fine di riscuotere imposte dichiarate e non versate e nega di conseguenza la possibilità di definire in via agevolata le relative controversie. Il principio è stato affermato in occasione di ognuna delle sanatorie fiscali sopra ricordate. Nella circolare n. 12/E del 21 febbraio 2003 si legge che non sono definibili l’avviso di liquidazione, l’ingiunzione e il ruolo, “in considerazione della natura di tali atti, non riconducibili nella categoria degli atti impositivi in quanto finalizzati alla mera liquidazione e riscossione del tributo e degli accessori”. Né sono definibili le liti aventi ad oggetto i ruoli emessi per imposte e ritenute dichiarate e non versate, il cui recupero “non costituisce atto impositivo che presuppone la rettifica della dichiarazione, ma atto di mera riscossione di quanto indicato dal contribuente o dal sostituto nella dichiarazione”. Diverso discorso per i ruoli emessi in rettifica delle dichiarazioni, perché la pretesa di imposte in misura superiore a quella dichiarata e liquidata dai contribuenti induce a riconoscere al ruolo “una funzione di provvedimento impositivo, affatto diversa dal recupero di imposte dichiarate e non versate”. Questi concetti sono stati ripresi dalla circolare n. 48/E del 24 ottobre 2011, secondo cui “in linea generale, non sono definibili le liti fiscali aventi ad oggetto i ruoli emessi per imposte e ritenute indicate dai contribuenti e dai sostituti di imposta nelle dichiarazioni presentate, ma non versate”, al cui recupero si provvede con “atto di mera riscossione, ricognitivo di quanto indicato dal contribuente o dal sostituto nella dichiarazione”. Così anche per i ruoli emessi a fronte dell’omesso versamento dell’Irap dichiarata dai lavoratori autonomi che ritengano di non disporre di autonoma organizzazione e impugnino perciò la successiva cartella, dal momento che “ai fini della definizione della lite occorre avere riguardo alla tipologia di atto impugnato e non


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alle eccezioni sollevate dal ricorrente”. Definibili invece le liti riguardanti i ruoli emessi in sede di controllo formale così come gli avvisi di liquidazione dell’imposta principale di successione, se finalizzati non solo (o non tanto) a correggere errori materiali o di calcolo commessi dal dichiarante e oggettivamente desumibili dal contesto della dichiarazione, quanto ad escludere riduzioni e detrazioni non spettanti o non documentate. Stesso discorso per le liti generate da ricorsi contro ruoli che, non essendo stati preceduti dalla (doverosa) notifica di atti impositivi presupposti, portino per la prima volta il contribuente a conoscenza della pretesa tributaria. Anche la circolare n. 6/E del 1° aprile 2019 esclude la possibilità di definire le controversie su “atti di mera riscossione, quali ruoli, cartelle di pagamento e avvisi di liquidazione (ad esempio, ruoli per imposte e ritenute che, sebbene indicate in dichiarazione, non risultano versate)”, fatta eccezione per le ipotesi in cui i ruoli – seppur derivanti da attività di controllo automatizzato o formale – comportino la rettifica di dati indicati nelle dichiarazioni. 4. Alcune considerazioni sui princìpi espressi dalla sentenza in commento. – La sentenza n. 7099 del 13 marzo 2019 lascia spazio ad alcune osservazioni critiche, legate alla scelta di identificare la natura impositiva dell’atto impugnato (nella specie, cartella di pagamento ex art. 36-bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600) sulla base di un elemento estrinseco al contenuto dell’atto stesso, quale è la motivazione del ricorso proposto dal contribuente: elemento che, proprio perché estraneo all’atto, non dovrebbe rilevare ai fini in esame. La natura impositiva del provvedimento appare strettamente correlata agli effetti che esso determina nella sfera giuridico-patrimoniale del destinatario, id est all’effetto costitutivo dell’obbligazione tributaria. E’ atto impositivo quello che determina e pretende un’imposta maggiore di quella dichiarata dal contribuente, oppure elide una situazione giuridica di vantaggio (ad esempio, negando un’agevolazione o recuperando un credito d’imposta (8)); non sembra tale, al contrario, quello che non incide sul piano dell’imposizione perché non ha efficacia autoritativa e lesiva (avviso bonario, sollecito di pagamento) o perché – pur essendo autoritativo e lesivo – si limita a riscuotere somme

(8) La natura impositiva dell’avviso di recupero dei crediti d’imposta regolato dall’art. 1, comma 421, L. 30 dicembre 2004, n. 311 è stata ribadita da Cass., 14 marzo 2018, n. 6347, in Banca Dati Fisconline, conforme a Cass., 7 marzo 2018, n. 5422 e a Cass., 31 marzo 2017, n. 8429, ibid., che pure hanno riconosciuto all’avviso di recupero “valenza di atto impositivo autonomamente impugnabile”.


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già dichiarate dal contribuente o accertate dall’ufficio, e circoscrive quindi i propri effetti al versante della riscossione. La natura dell’atto si coglie dunque in relazione al suo contenuto e ai suoi effetti: ed è pacifico – come da tempo riconoscono la Suprema Corte e l’Agenzia delle entrate – che anche le iscrizioni a ruolo e le cartelle di pagamento assumano natura impositiva quando pretendono imposte diverse e maggiori di quelle dichiarate o accertate. Le iscrizioni a ruolo formate ai sensi dell’art. 36-ter, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – che disconoscono spese od oneri deducibili o detraibili (interessi passivi, spese di ristrutturazione o riqualificazione energetica e così via) con conseguente rettifica dell’imposta dichiarata – sono solo il primo e più frequente dei casi in cui ciò può verificarsi. Altri casi sono prospettabili in riferimento ai ruoli che pongono in riscossione tributi il cui pagamento sia stato richiesto con precedenti atti non autoritativi (9), oppure tributi maggiori di quelli dovuti in base agli avvisi di accertamento che dovrebbero costituirne titolo, involgendo profili direttamente attinenti alla determinazione dell’an o del quantum dell’obbligazione tributaria o sanzionatoria: si pensi all’iscrizione a ruolo che riproduca integralmente il contenuto di un avviso in parte annullato dall’ufficio o dal giudice tributario; al ruolo che riporti tributi superiori a quelli originariamente accertati; al ruolo avente ad oggetto l’intera sanzione irrogata nell’avviso di accertamento, sul presupposto della mancata o irregolare applicazione dell’istituto deflattivo di cui all’art. 15, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218. In tutte queste situazioni il provvedimento di riscossione riveste anche natura impositiva, e la lite tributaria di cui forma oggetto è senz’altro definibile in via agevolata.

(9) Emblematico il caso del ruolo emesso per la riscossione della tariffa di igiene ambientale sulla base di una diffida al pagamento o di una fattura che costituiscono gli unici atti notificati al contribuente. La diffida o la fattura non sono atti impositivi e – pur se ritenuti facoltativamente impugnabili dalla Corte di cassazione – non producono effetti immediatamente lesivi nei confronti del destinatario; natura impositiva rivestono invece il ruolo e la cartella che, per la prima e unica volta, formalizzano con efficacia autoritativa la pretesa tributaria. Si veda in termini Cass., 11 maggio 2018, n. 11471, in Banca Dati Fisconline, che ribadisce il noto indirizzo secondo cui “l’impugnazione da parte del contribuente di un atto non espressamente indicato dall’art. 19, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 che, tuttavia, sia espressivo di una pretesa tributaria ormai definita (nella specie, atto recante intimazione di pagamento) è una facoltà e non un onere, costituendo un’estensione della tutela, sicché la sua omissione non determina la cristallizzazione della pretesa tributaria, né preclude la successiva impugnazione di uno degli atti tipici previsti dall’art. 19”.


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A conclusioni opposte sembra doversi giungere quando il ruolo e la cartella si limitano a riscuotere imposte dichiarate (o accertate) e non versate dal contribuente, come avvenuto nel caso in esame. E’ vero che, se il ruolo si basa sulla dichiarazione, il contribuente può impugnare facendo valere gli errori commessi in sede dichiarativa e interloquire sul “merito della pretesa erariale”: ma questo potere processuale, riconosciuto dalla giurisprudenza e dallo stesso legislatore (10), non trasforma il ruolo in un atto di imposizione. Non si deve infatti confondere tra prerogative processuali riconosciute al contribuente (il potere di formulare motivi di “merito” nel ricorso contro il ruolo) e natura dell’atto impugnato (che non può mutare a posteriori in ragione del fatto che tali motivi siano allegati). Il ruolo e la cartella aventi ad oggetto imposte dichiarate e non versate sono atti di riscossione, e tali rimangono anche se il contribuente li impugna per emendare errori commessi nella dichiarazione (11). Le liti relative non sono pertanto definibili in via agevolata, posto che – come ben osserva l’Agenzia delle entrate – “ai fini della definizione della lite occorre avere riguardo alla tipologia di atto impugnato e non alle eccezioni sollevate dal ricorrente”, e – come altrettanto correttamente rileva la giurisprudenza richiamata al par. 2.1. – la definizione è in tali casi preclusa “al di là delle contestazioni sulla pretesa tributaria, spiegate dal contribuente nel giudizio avverso la cartella”. Nemmeno può condividersi l’orientamento giurisprudenziale che ritiene definibili le liti de quibus perché la cartella notificata ex art. 36-bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 è il “primo e unico atto con cui la pretesa fiscale viene comunicata al contribuente”. E’ vero infatti che la cartella emessa a seguito di controllo automatizzato non è preceduta dall’avviso di accertamento ed è il primo atto notificato al contribuente: ma è altrettanto vero che essa non assu-

(10) L’art. 2, comma 8-bis, D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322 riconosce al contribuente “la possibilità di far valere, anche in sede di accertamento o di giudizio, eventuali errori, di fatto o di diritto, che abbiano inciso sull’obbligazione tributaria, determinando l’indicazione di un maggiore imponibile, di un maggiore debito d’imposta o, comunque, di un minore credito”. (11) Come ben osservava F. Tesauro, Manuale del processo tributario, 5ª ed., Torino, 2017, 70, “nel caso di iscrizione a ruolo che si fonda sulla dichiarazione, i vizi della dichiarazione, che si riflettono sulla iscrizione a ruolo, possono essere fatti valere impugnando il ruolo. Si profila così l’annullabilità di un atto amministrativo per ragioni estranee all’attività dell’organo che lo ha formato. La fattispecie che genera (per il contribuente) il potere di chiedere, e, per il giudice, il dovere di disporre l’annullamento del ruolo, è qui data, non da un vizio dell’atto, ma dal vizio di un atto-presupposto (la dichiarazione, appunto)”.


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me natura impositiva, perché non costituisce alcuna obbligazione tributaria. Diversa l’ipotesi in cui la cartella sia notificata quale “primo atto” in difetto della previa doverosa notifica dell’avviso di accertamento. L’art. 19, comma 3, d.lgs. n. 546/92 consente di impugnare il ruolo unitamente all’atto presupposto non notificato, di cui la cartella riproduce il contenuto (12): sicché il contribuente può contestare il “merito della pretesa” pur in assenza di notifica di un provvedimento costitutivo dell’obbligazione d’imposta. In questo caso, l’atto notificato (la cartella) non contiene alcuna autonoma pretesa, mentre l’atto presupposto (che tale pretesa contiene) non è notificato: c’è dunque uno scollamento tra effetti dell’atto notificato, che attengono al versante della riscossione, e oggetto del processo (il “merito” della pretesa implicato dall’atto presupposto non notificato). La lite promossa in impugnazione congiunta dei due provvedimenti pare definibile in via agevolata, esistendo in effetti un atto impositivo che, proprio perché impugnato dal destinatario nell’esercizio del potere conferito dalla legge, forma oggetto del giudizio pendente. Si verifica insomma un fenomeno del tutto peculiare, nel quale l’atto impositivo c’è ma non è notificato, e la lite che lo riguarda è instaurata per scelta, non per onere, del contribuente, tramite l’impugnazione del provvedimento di riscossione successivamente emanato dall’ufficio.

Alessandro Turchi

(12) Si veda al riguardo M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, 2ª ed., Torino, 2013, 56, il quale osserva che “premesso che l’omissione della notifica si traduce comunque in un vizio invalidante, al ricorrente viene consentita la scelta tra un ricorso impostato sulla sola deduzione di quel vizio, e un ricorso che colga invece l’occasione di contestare anche l’atto presupposto”.



Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte Giust., sez. IV, 24 gennaio 2019 – C-165/17; Pres. T. von Danwitz – Rel. C. Vajda Rinvio pregiudiziale – Fiscalità – Imposta sul valore aggiunto (IVA) – Sesta direttiva 77/388/CEE – Direttiva 2006/112/CE – Detrazione dell’imposta assolta a monte – Beni e servizi utilizzati sia per operazioni imponibili sia per operazioni esenti (beni e servizi ad uso promiscuo) – Determinazione del prorata di detrazione applicabile – Succursale stabilita in uno Stato membro diverso da quello della sede principale della società – Spese effettuate dalla succursale, destinate esclusivamente alla realizzazione delle operazioni della casa madre – Spese generali della succursale concorrenti alla realizzazione sia delle proprie operazioni sia di quelle della casa madre Il prorata di detrazione in ipotesi di spese sostenute da una stabile organizzazione situata in uno Stato membro a favore di una casa madre situata in un altro Stato membro deve essere determinato utilizzando - al numeratore - unicamente le attività svolte dalla casa madre rilevanti ai fini Iva (secondo entrambe le normative dei due Stati membri) e – al denominatore – tutte le attività svolte dalla casa madre. Le suddette attività devono comunque avere un nesso diretto e immediato con le spese sostenute a cui si fa riferimento per la detrazione dell’IVA. Nell’ipotesi invece di spese utilizzate sia per la casa madre sia per la stabile organizzazione il prorata di detrazione oltre alle attività della casa madre deve comprendere anche le attività svolte dalla stabile organizzazione. (1)

(Omissis) 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 17, paragrafi 2, 3 e 5, e dell’articolo 19, paragrafo 1, della Sesta direttiva 77/388/ CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (GU 1977, L 145, pag. 1; in prosieguo: la «Sesta direttiva»), nonché degli articoli 168, 169 e da 173 a 175 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1).


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2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia che oppone la Morgan Stanley & Co International plc (in prosieguo: la «Morgan Stanley») al Ministre de l’Économie et des Finances (Ministro dell’Economia e delle Finanze, Francia) (in prosieguo: l’«amministrazione tributaria»), avente ad oggetto la detrazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) assolta dalla succursale parigina della Morgan Stanley (in prosieguo: la «succursale parigina»), in primo luogo, per le spese destinate alla realizzazione delle operazioni della casa madre situata nel Regno Unito e, in secondo luogo, per le spese generali concorrenti alla realizzazione sia delle operazioni della casa madre che di quelle della succursale. Contesto normativo Sesta direttiva 3 A norma dell’articolo 4, paragrafo 1, della Sesta direttiva, si considera soggetto passivo chiunque esercita in modo indipendente e in qualsiasi luogo una delle attività economiche di cui al paragrafo 2 del medesimo articolo 4, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività. 4 L’articolo 13, punto B, lettera d), della citata direttiva enunciava che le operazioni finanziarie menzionate in tale disposizione erano esentate dall’IVA. 5 L’articolo 13, punto C, della medesima direttiva recitava: «Gli Stati membri possono accordare ai loro soggetti passivi il diritto di optare per l’imposizione nel caso di: (…) b) operazioni di cui al punto B, lettere d), (…) (…)». 6 L’articolo 17, paragrafi 2, 3 e 5, della Sesta direttiva disponeva: «2. Nella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre dall’imposta di cui è debitore: l’[IVA] dovuta o assolta per le merci che gli sono o gli saranno fornite e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo; (…) 3. Gli Stati membri accordano altresì ad ogni soggetto passivo la deduzione o il rimborso dell’[IVA] di cui al paragrafo 2 nella misura in cui i beni e i servizi sono utilizzati ai fini: a) di sue operazioni relative alle attività economiche di cui all’articolo 4, paragrafo 2, effettuate all’estero, che darebbero diritto a deduzione se fossero effettuate all’interno del paese; (…) 5. Per quanto riguarda i beni ed i servizi utilizzati da un soggetto passivo sia per operazioni che danno diritto a deduzione di cui ai paragrafi 2 e 3, sia per operazioni che non conferiscono tale diritto, la deduzione è ammessa soltanto per il prorata dell’[IVA] relativo alla prima categoria di operazioni.


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Detto prorata è determinato ai sensi dell’articolo 19 per il complesso delle operazioni compiute dal soggetto passivo. (…)». 7 L’articolo 19, paragrafo 1, della Sesta direttiva era così formulato: «Il pro - rata di deduzione previsto dall’articolo 17, paragrafo 5, primo comma, risulta da una frazione avente: al numeratore l’importo totale della cifra d’affari annua, al netto dell’[IVA], relativo alle operazioni che danno diritto a deduzione ai sensi dell’articolo 17, paragrafi 2 e 3, al denominatore l’importo totale della cifra d’affari annua, al netto dell’[IVA], relativo alle operazioni che figurano al numeratore e a quelle che non danno diritto a deduzione. Gli Stati membri possono includere anche nel denominatore l’importo di sovvenzioni diverse da quelle di cui all’articolo 11 A, paragrafo 1, lettera a). Il prorata viene determinato su base annuale, in percentuale e viene arrotondato all’unità superiore». 8 A partire dal 1° gennaio 2007, nell’ambito di una rifusione della Sesta direttiva, le disposizioni di quest’ultima sono state sostituite da quelle della direttiva 2006/112. Direttiva 2006/112 9 L’articolo 9, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2006/112 prevede quanto segue: «Si considera “soggetto passivo” chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività». 10 L’articolo 137, paragrafo 1, lettera a), di detta direttiva stabilisce che gli Stati membri possono concedere ai loro soggetti passivi il diritto di optare per l’imposizione delle operazioni finanziarie contemplate all’articolo 135, paragrafo 1, lettere da b) a g), della medesima direttiva. 11 L’articolo 168 della citata direttiva recita: «Nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo ha il diritto, nello Stato membro in cui effettua tali operazioni, di detrarre dall’importo dell’imposta di cui è debitore gli importi seguenti: l’IVA dovuta o assolta in tale Stato membro per i beni che gli sono o gli saranno ceduti e per i servizi che gli sono o gli saranno resi da un altro soggetto passivo; (…)». 12 L’articolo 169 della medesima direttiva è così formulato: «Oltre alla detrazione di cui all’articolo 168, il soggetto passivo ha il diritto di detrarre l’IVA ivi prevista nella misura in cui i beni e i servizi sono utilizzati ai fini delle operazioni seguenti:


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sue operazioni relative alle attività di cui all’articolo 9, paragrafo 1, secondo comma, effettuate fuori dello Stato membro in cui l’imposta è dovuta o assolta, che darebbero diritto a detrazione se fossero effettuate in tale Stato membro; (…)». 13 L’articolo 173, paragrafo 1, della direttiva 2006/112 ha il seguente tenore: «Per quanto riguarda i beni ed i servizi utilizzati da un soggetto passivo sia per operazioni che danno diritto a detrazione di cui agli articoli 168, 169 e 170, sia per operazioni che non danno tale diritto, la detrazione è ammessa soltanto per il prorata dell’IVA relativo alla prima categoria di operazioni. Il prorata di detrazione è determinato, conformemente agli articoli 174 e 175, per il complesso delle operazioni effettuate dal soggetto passivo». 14 L’articolo 174, paragrafo 1, della citata direttiva è così formulato: «Il prorata di detrazione risulta da una frazione che presenta i seguenti importi: al numeratore, l’importo totale del volume d’affari annuo, al netto dell’IVA, relativo alle operazioni che danno diritto a detrazione a norma degli articoli 168 e 169; al denominatore, l’importo totale del volume d’affari annuo, al netto dell’IVA, relativo alle operazioni che figurano al numeratore e a quelle che non danno diritto a detrazione. (…)». 15 L’articolo 175, paragrafo 1, della citata direttiva precisa che il prorata di detrazione è determinato su base annuale, è stabilito in percentuale e viene arrotondato all’unità superiore. Procedimento principale e questioni pregiudiziali 16 Risulta dalla decisione di rinvio che la succursale parigina, in quanto stabile organizzazione, è assoggettata all’IVA in Francia. Essa è stata sottoposta a due verifiche contabili vertenti, in relazione a tale imposta, sui periodi dal 1o dicembre 2002 al 30 aprile 2005 e dal 1o dicembre 2005 al 30 aprile 2009. 17 In occasione di tali verifiche si è constatato che la succursale suddetta, da un lato, realizzava operazioni bancarie e finanziarie per i propri clienti locali, per le quali essa aveva optato per l’assoggettamento all’IVA, e, dall’altro, forniva servizi alla casa madre situata nel Regno Unito, a fronte dei quali essa riceveva dei bonifici. Detta succursale ha detratto la totalità dell’IVA che aveva gravato sulle spese relative a queste due categorie di prestazioni. 18 L’amministrazione tributaria ha considerato che l’IVA che aveva gravato sull’acquisto dei beni e dei servizi utilizzati esclusivamente per le operazioni interne realizzate con la casa madre situata nel Regno Unito non poteva conferire un diritto a detrazione in quanto tali operazioni erano situate al di fuori dell’ambito di applicazione dell’IVA, ma ha nondimeno ammesso, a titolo di misura di correzione equitativa, la detrazione di una frazione dell’imposta in questione mediante applicazione del prorata di detrazione della casa madre suddetta, fatte salve le esclusioni del diritto a detrazione vigenti in Francia. Relativamente alle spese miste, concernenti le operazio-


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ni realizzate contemporaneamente con la casa madre situata nel Regno Unito e con i clienti della succursale parigina, l’amministrazione tributaria ha considerato che esse erano detraibili soltanto parzialmente ed ha applicato il prorata di detrazione della casa madre, con una correzione corrispondente al volume d’affari della succursale parigina conferente un diritto a detrazione, fatte salve le esclusioni del diritto a detrazione vigenti in Francia. 19 In considerazione di tali rettifiche, l’amministrazione tributaria ha inviato alla Morgan Stanley degli avvisi di accertamento per il pagamento dell’IVA richiesta. Il Tribunal administratif de Montreuil (Tribunale amministrativo di Montreuil, Francia) ha respinto le domande della Morgan Stanley intese ad ottenere lo sgravio dal pagamento dei relativi importi. Gli appelli interposti contro le decisioni di tale giudice sono stati, a loro volta, respinti dalla Cour administrative d’appel de Versailles (Corte amministrativa d’appello di Versailles, Francia). 20 Investito di un’impugnazione proposta contro la sentenza emessa in appello, il Conseil d’État (Consiglio di Stato, Francia) si chiede, da un lato, per quanto riguarda le spese sostenute da una succursale stabilita in un primo Stato membro, che siano destinate esclusivamente alla realizzazione di operazioni della sua casa madre stabilita in un altro Stato membro, se le disposizioni della Sesta direttiva e quelle della direttiva 2006/112 implichino che lo Stato membro di immatricolazione della succursale applichi a tali spese il prorata di detrazione della succursale, quello della casa madre, oppure ancora un prorata di detrazione specifico, ispirandosi alla soluzione adottata, per quanto riguarda il diritto al rimborso, nella sentenza del 13 luglio 2000, Monte dei Paschi di Siena (C‑136/99, EU:C:2000:408), che combini le norme applicabili negli Stati membri di immatricolazione della succursale e della casa madre, in particolare tenendo conto dell’eventuale esistenza di un regime di opzione per l’assoggettamento ad IVA delle operazioni. 21 Dall’altro lato, il giudice del rinvio s’interroga in merito alle norme applicabili alle spese sopportate da una succursale, le quali concorrano alla realizzazione delle sue operazioni nel suo Stato membro di immatricolazione e alla realizzazione delle operazioni della casa madre, segnatamente con riguardo alla nozione di spese generali ed al prorata di detrazione. 22 Alla luce di tali circostanze, il Conseil d’État (Consiglio di Stato) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se, nel caso in cui le spese sopportate da una succursale stabilita in un primo Stato membro siano destinate esclusivamente alla realizzazione delle operazioni della sua casa madre stabilita in un altro Stato membro, le disposizioni di cui agli articoli 17, paragrafi 2, 3 e 5, e 19, paragrafo 1, della Sesta direttiva (…), riprese negli articoli 168, 169 e da 173 a 175 della direttiva [2006/112], debbano essere interpretate nel senso che esse implicano che lo Stato membro della succursale applichi a tali spese il prorata di detrazione della succursale, determinato in funzione delle operazioni da


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questa realizzate nel proprio Stato di immatricolazione e delle norme applicabili in tale Stato, oppure il prorata di detrazione della casa madre, oppure ancora un prorata di detrazione specifico combinante le norme applicabili negli Stati membri di immatricolazione della succursale e della casa madre, in particolare tenendo conto dell’eventuale esistenza di un regime di opzione per l’assoggettamento delle operazioni all’[IVA]. 2) Quali norme occorra applicare nell’ipotesi particolare in cui le spese sopportate dalla succursale concorrano alla realizzazione delle sue operazioni nel suo Stato di immatricolazione e alla realizzazione delle operazioni della casa madre, segnatamente con riguardo alla nozione di spese generali ed al prorata di detrazione». Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione 23 In via preliminare, occorre rilevare che la controversia di cui al procedimento principale riguarda i periodi d’imposta che vanno dall’anno 2002 all’anno 2009. Date tali circostanze, a tale controversia sono applicabili tanto la Sesta direttiva quanto la direttiva 2006/112, che ha proceduto alla rifusione della Sesta direttiva a partire dal 1° gennaio 2007. 24 Inoltre, nella misura in cui la prima questione pregiudiziale verte sul prorata di detrazione che la succursale parigina deve applicare alle spese da essa sopportate per la realizzazione delle operazioni della casa madre situata nel Regno Unito, occorre considerare che tale questione si riferisce alle spese, sostenute da detta succursale, che siano destinate, in via esclusiva, sia ad operazioni assoggettate all’IVA sia ad operazioni esentate da tale imposta nello Stato membro della casa madre suddetta (in prosieguo: le «spese per usi promiscui»), ciò che d’altronde è stato confermato nelle osservazioni scritte della Morgan Stanley. 25 Da tali osservazioni risulta altresì che il regime di opzione menzionato nella prima questione si riferisce all’opzione esercitata dalla succursale parigina, in applicazione della normativa nazionale che ha trasposto l’articolo 13, punto C, primo comma, della Sesta direttiva e l’articolo 137, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2006/112, al fine di assoggettare all’IVA le operazioni bancarie e finanziarie della Morgan Stanley in Francia, le quali sarebbero esentate da tale imposta in caso di mancato esercizio dell’opzione suddetta. 26 Pertanto, con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 17, paragrafi 2, 3 e 5, e l’articolo 19, paragrafo 1, della Sesta direttiva, nonché gli articoli 168, 169 e da 173 a 175 della direttiva 2006/112, debbano essere interpretati nel senso che, per quanto riguarda le spese sostenute da una succursale immatricolata in uno Stato membro, le quali siano destinate, in via esclusiva, sia ad operazioni assoggettate all’IVA sia ad operazioni esentate da tale imposta, realizzate dalla casa madre di detta succursale situata in un altro Stato membro, occorre applicare il prorata di detrazione della succursale in parola, determinato in funzione delle operazioni da questa realizzate nel proprio Stato membro di immatricolazione e delle


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norme applicabili in tale Stato, il prorata di detrazione della summenzionata casa madre, oppure un prorata di detrazione specifico, combinante le norme applicabili nello Stato membro di immatricolazione della succursale suddetta e le norme applicabili nello Stato membro della casa madre di cui sopra, nell’ipotesi in cui tale succursale abbia optato per assoggettare all’IVA le operazioni realizzate nel suo Stato membro di immatricolazione, le quali sarebbero state esentate da questa imposta in caso di mancato esercizio di tale opzione. 27 Per rispondere a tale questione, occorre, in primo luogo, ricordare che, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte, il diritto dei soggetti passivi di detrarre dall’IVA di cui sono debitori l’IVA dovuta o versata per i beni da essi acquistati e i servizi da loro ricevuti a monte costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA istituito dalla normativa dell’Unione. Tale diritto a detrazione costituisce parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in linea di principio, non può essere assoggettato a limitazioni. Tale diritto si esercita immediatamente per la totalità delle imposte che hanno gravato sulle operazioni effettuate a monte (sentenza del 15 settembre 2016, Barlis 06 – Investimentos Imobiliários e Turísticos, C‑516/14, EU:C:2016:690, punti 37 e 38 nonché la giurisprudenza ivi citata). 28 Il sistema delle detrazioni è inteso a sgravare interamente l’imprenditore dal peso dell’IVA dovuta o assolta nell’ambito di tutte le sue attività economiche. Il sistema comune dell’IVA garantisce, di conseguenza, la neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di tali attività, purché queste ultime siano, in linea di principio, esse stesse assoggettate all’IVA (sentenza del 15 settembre 2016, Barlis 06 – Investimentos Imobiliários e Turísticos, C‑516/14, EU:C:2016:690, punto 39 e la giurisprudenza ivi citata). 29 A questo proposito, risulta dall’articolo 17, paragrafo 2, lettera a), della Sesta direttiva e dall’articolo 168, lettera a), della direttiva 2006/112 che il soggetto passivo ha diritto, nello Stato membro nel quale effettua le proprie operazioni soggette ad imposta, di detrarre dall’importo dell’imposta di cui è debitore l’IVA dovuta o pagata in tale Stato membro per beni e servizi, qualora tali beni o servizi siano stati utilizzati a valle da detto soggetto passivo ai fini delle operazioni summenzionate (v., in tal senso, sentenza del 15 settembre 2016, Barlis 06 – Investimentos Imobiliários e Turísticos, C‑516/14, EU:C:2016:690, punto 40 e la giurisprudenza ivi citata). 30 La Corte ha così statuito che, affinché l’IVA sia detraibile, le operazioni effettuate a monte devono presentare un nesso diretto e immediato con operazioni realizzate a valle, conferenti un diritto a detrazione. Infatti, il diritto di detrarre l’IVA gravante sull’acquisto di beni o servizi a monte presuppone che le spese effettuate per acquistare questi ultimi facciano parte degli elementi costitutivi del prezzo delle operazioni tassate a valle, conferenti un diritto a detrazione (sentenza del 16 luglio 2015, Larentia + Minerva e Marenave Schiffahrt, C‑108/14 e C‑109/14, EU:C:2015:496, punto 23 e la giurisprudenza ivi citata).


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31 Inoltre, a norma dell’articolo 17, paragrafo 3, lettera a), della Sesta direttiva e dell’articolo 169, lettera a), della direttiva 2006/112, il soggetto passivo è legittimato a detrarre l’imposta dovuta o pagata per i beni e i servizi utilizzati ai fini delle operazioni effettuate al di fuori dello Stato membro contemplato al punto 29 della presente sentenza, le quali conferirebbero un diritto a detrazione qualora fossero effettuate in tale Stato membro. 32 Pertanto, il diritto a detrazione previsto dalle disposizioni citate al punto precedente sussiste alla duplice condizione, da un lato, che le operazioni di un soggetto passivo effettuate in uno Stato membro diverso dallo Stato nel quale l’IVA è dovuta o pagata per i beni e i servizi utilizzati ai fini della realizzazione di queste operazioni vengano tassate nel primo dei suddetti Stati membri e, dall’altro, che tali operazioni siano del pari tassate qualora vengano effettuate nel secondo dei suddetti Stati (v., in tal senso, sentenze del 13 luglio 2000, Monte Dei Paschi Di Siena, C‑136/99, EU:C:2000:408, punto 28, e del 22 dicembre 2010, RBS Deutschland Holdings, C‑277/09, EU:C:2010:810, punti 31 e 32). 33 Per quanto riguarda la seconda di queste condizioni, in assenza di ulteriori precisazioni all’articolo 17, paragrafo 3, lettera a), della Sesta direttiva e all’articolo 169, lettera a), della direttiva 2006/112, occorre considerare che essa risulta in particolare soddisfatta in una situazione, come quella di cui al procedimento principale, nella quale le operazioni tassate nello Stato membro della casa madre sono tassate anche nello Stato membro di immatricolazione della succursale che ha sostenuto le spese ad esse correlate in ragione di un’opzione esercitata dalla succursale medesima in base alla normativa nazionale che ha trasposto l’articolo 13, punto C, primo comma, della Sesta direttiva e l’articolo 137, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2006/112. 34 In secondo luogo, occorre ricordare che l’articolo 4, paragrafo 1, della Sesta direttiva e l’articolo 9, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2006/112 definiscono i «soggetti passivi» ai fini dell’IVA come i soggetti che esercitano un’attività economica «in modo indipendente» (v., in tal senso, sentenze del 23 marzo 2006, FCE Bank, C‑210/04, EU:C:2006:196, punto 33, e del 7 agosto 2018, TGE Gas Engineering, C‑16/17, EU:C:2018:647, punto 40). 35 Nel caso di una società la cui sede centrale si trovi in uno Stato membro e la cui succursale sia immatricolata in un altro Stato membro, risulta dalla giurisprudenza della Corte che la casa madre e la succursale costituiscono un unico e medesimo soggetto passivo ai fini dell’IVA, salvo che sia dimostrato che la succursale svolge un’attività economica indipendente, ciò che si realizzerebbe in particolare nel caso in cui detta succursale sopportasse il rischio economico inerente alla sua attività (v., in tal senso, sentenza del 7 agosto 2018, TGE Gas Engineering, C‑16/17, EU:C:2018:647, punto 41 e la giurisprudenza ivi citata). 36 Nel caso di specie, nessun elemento del fascicolo a disposizione della Corte lascia supporre che la succursale parigina agisca in modo indipendente rispetto alla casa madre situata nel Regno Unito, ai sensi della giurisprudenza citata al punto


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35 della presente sentenza. Pertanto, e salvo verifica da parte del giudice del rinvio, occorre considerare che detta succursale e detta casa madre costituiscono un unico soggetto passivo ai fini dell’IVA. 37 In tale contesto, occorre ricordare che una prestazione è imponibile soltanto qualora esista tra il prestatore e il destinatario un rapporto giuridico nell’ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni (sentenze del 23 marzo 2006, FCE Bank, C‑210/04, EU:C:2006:196, punto 34, e del 17 settembre 2014, Skandia America (USA), filial Sverige, C‑7/13, EU:C:2014:2225, punto 24). 38 Dunque, occorre rilevare che, in mancanza di un rapporto giuridico tra una succursale e la sua casa madre, che insieme formano un unico soggetto passivo, le prestazioni reciproche scambiate tra tali entità costituiscono flussi interni non imponibili, a differenza delle operazioni soggette ad imposta realizzate con soggetti terzi. 39 Ne consegue che una succursale immatricolata in uno Stato membro è legittimata a detrarre, in questo Stato, l’IVA gravante sui beni e sui servizi acquistati che presentino un nesso diretto e immediato con la realizzazione delle operazioni soggette ad imposta, ivi comprese quelle della sua casa madre stabilita in un altro Stato membro, con la quale tale succursale forma un unico soggetto passivo, a condizione che queste ultime operazioni conferiscano un diritto a detrazione anche qualora siano state effettuate nello Stato di immatricolazione della succursale suddetta. 40 In terzo luogo, per quanto riguarda i beni e i servizi utilizzati da un soggetto passivo per effettuare sia operazioni che danno diritto a detrazione sia operazioni che non conferiscono tale diritto, la detrazione è ammessa, a norma dell’articolo 173, paragrafo 1, della direttiva 2006/112, che corrisponde all’articolo 17, paragrafo 5, della Sesta direttiva, soltanto per il prorata dell’IVA relativo alla prima categoria di operazioni. A questo scopo, un prorata di detrazione deve essere determinato, in conformità degli articoli 174 e 175 della citata direttiva 2006/112, «per il complesso delle operazioni effettuate dal soggetto passivo». 41 Tale regime di prorata si applica, in particolare, nel caso in cui una succursale immatricolata in uno Stato membro sostenga delle spese ai fini sia delle operazioni soggette ad imposta sia delle operazioni esentate da IVA realizzate dalla sua casa madre stabilita in un altro Stato membro (v., in tal senso, sentenza del 13 luglio 2000, Monte Dei Paschi Di Siena, C‑136/99, EU:C:2000:408, punti da 26 a 28). 42 La Corte ha avuto modo di precisare che il regime di detrazione previsto dall’articolo 17, paragrafo 5, della Sesta direttiva e dall’articolo 173, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/112, nonché i metodi di detrazione che tale regime comporta, si applicano soltanto ai beni e ai servizi utilizzati da un soggetto passivo per effettuare sia operazioni economiche che conferiscono un diritto a detrazione, sia operazioni economiche che non conferiscono tale diritto a detrazione, vale a dire soltanto a beni e servizi ad uso promiscuo (v., in tal senso, sentenze del 6 settembre 2012, Portugal Telecom, C‑496/11, EU:C:2012:557, punto 40; del 16 luglio 2015, Larentia + Minerva e Marenave Schiffahrt, C‑108/14 e C‑109/14, EU:C:2015:496, punto 26, nonché del


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9 giugno 2016, Wolfgang und Dr. Wilfried Rey Grundstücksgemeinschaft, C‑332/14, EU:C:2016:417, punto 26). 43 Al contrario, i beni e i servizi utilizzati dal soggetto passivo unicamente per effettuare operazioni economiche che danno diritto a detrazione non rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 17, paragrafo 5, della Sesta direttiva o dell’articolo 173, paragrafo 1, della direttiva 2006/112, bensì ricadono, per quanto riguarda il regime di detrazione, rispettivamente sotto l’articolo 17, paragrafo 2, della Sesta direttiva e sotto l’articolo 168 della citata direttiva 2006/112 (sentenza del 6 settembre 2012, Portugal Telecom, C‑496/11, EU:C:2012:557, punto 41). 44 Discende da tale giurisprudenza che, come in sostanza rilevato dalla Commissione all’udienza, la precisazione contenuta all’articolo 17, paragrafo 5, secondo comma, della Sesta direttiva e all’articolo 173, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2006/112, secondo cui, per i beni ed i servizi utilizzati da un soggetto passivo al fine di realizzare sia operazioni soggette ad imposta sia operazioni esentate dall’IVA, il prorata di detrazione deve essere determinato «per il complesso delle operazioni effettuate dal soggetto passivo», si riferisce alla totalità delle operazioni di cui sopra, alle quali siano stati destinati i summenzionati beni e servizi ad uso promiscuo acquistati dal soggetto passivo, ad esclusione delle altre operazioni economiche realizzate da quest’ultimo. 45 Pertanto, nella misura in cui, in aggiunta alle spese per usi promiscui, il soggetto passivo acquisti beni e servizi che vengono utilizzati esclusivamente per operazioni assoggettate all’IVA, l’IVA gravante su tali beni e servizi può essere integralmente detratta, in conformità dell’articolo 17, paragrafi 2 e 3, della Sesta direttiva, nonché degli articoli 168 e 169 della direttiva 2006/112 (v., in tal senso, sentenza del 14 settembre 2017, Iberdrola Inmobiliaria Real Estate Investments, C‑132/16, EU:C:2017:683, punto 27 e la giurisprudenza ivi citata). Viceversa, l’IVA gravante sui beni e sui servizi utilizzati esclusivamente ai fini di eventuali operazioni esentate da tale imposta non conferisce alcun diritto a detrazione. 46 Ne consegue che, nel caso delle spese per usi promiscui sostenute da una succursale immatricolata in uno Stato membro, destinate, in via esclusiva, sia ad operazioni soggette ad imposta sia ad operazioni esentate dall’IVA realizzate dalla casa madre di detta succursale, stabilita in un altro Stato membro, occorre applicare un prorata di detrazione, il cui denominatore è costituito dal volume d’affari, al netto dell’IVA, relativo all’insieme di tali operazioni, ad esclusione delle altre operazioni realizzate dal soggetto passivo, seguendo la metodologia contemplata dall’articolo 19, paragrafo 1, della Sesta direttiva nonché dagli articoli 174 e 175 della direttiva 2006/112. A questo proposito, occorre precisare che, in conformità dell’articolo 17, paragrafo 3, della Sesta direttiva e dell’articolo 169, lettera a), della direttiva 2006/112, nonché della giurisprudenza citata al punto 32 della presente sentenza, soltanto il volume d’affari, al netto dell’IVA, relativo alle operazioni soggette ad imposta realizzate dalla casa madre che conferirebbero un diritto a detrazione anche qualora fossero effettuate nello


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Stato membro di immatricolazione della succursale, può figurare al numeratore della frazione che costituisce il prorata di detrazione. 47 Occorre inoltre precisare che il prorata di detrazione indicato al punto precedente non può necessariamente essere qualificato come «prorata di detrazione della casa madre», così come prospettato nella prima questione pregiudiziale sollevata. Infatti, vengono in considerazione soltanto le operazioni realizzate dalla casa madre alle quali siano state destinate le spese per usi promiscui della succursale. 48 La Morgan Stanley sostiene che lo Stato membro di immatricolazione della succursale deve applicare all’insieme delle sue spese sostenute a monte, quale che sia il loro nesso con l’attività della casa madre stabilita in un altro Stato membro, il prorata di detrazione della succursale medesima, determinato in funzione delle sole operazioni che quest’ultima realizza nello Stato in cui è immatricolata. Tuttavia, tale interpretazione non può essere accolta. 49 Infatti, ai fini del calcolo del prorata di detrazione applicabile alle spese per usi promiscui di una succursale, una soluzione siffatta non tiene conto, in contrasto con la giurisprudenza citata al punto 30 della presente sentenza, delle operazioni realizzate dalla casa madre di quest’ultima con le quali tali spese presentino un nesso diretto e immediato. 50 Tale interpretazione non è inficiata dalla giurisprudenza risultante dalla sentenza del 12 settembre 2013, Le Crédit Lyonnais (C‑388/11, EU:C:2013:541), giurisprudenza che la Morgan Stanley cita a sostegno della propria argomentazione. Vero è che, ai punti 40 e 55 di tale sentenza, la Corte ha statuito che, per la determinazione del prorata di detrazione dell’IVA ad essa applicabile in virtù del regime di detrazione previsto dall’articolo 17, paragrafo 5, della Sesta direttiva, una società la cui sede sia situata in uno Stato membro non può prendere in considerazione il volume d’affari realizzato dalle sue succursali stabilite in altri Stati membri. 51 Tuttavia, a questo proposito occorre rilevare che, come risulta in particolare dal punto 19 di detta sentenza, la Corte veniva interrogata in quella causa in merito alla possibilità di prendere in considerazione il volume d’affari complessivo di tali succursali, inteso come l’insieme delle loro entrate. Così, la Corte ha sottolineato in particolare, al punto 38 della sentenza del 12 settembre 2013, Le Crédit Lyonnais (C‑388/11, EU:C:2013:541), che il fatto di tener conto del volume d’affari realizzato da tutte le stabili organizzazioni di cui il soggetto passivo dispone in altri Stati membri, al fine di determinare il prorata di detrazione applicabile alla casa madre, avrebbe l’effetto di far aumentare, per tutti gli acquisti che tale soggetto passivo ha effettuato nello Stato membro nel quale si trova la sua sede principale, la quota di IVA che tale sede può detrarre, quand’anche una parte di tali acquisti non abbia alcun nesso con le attività delle stabili organizzazioni stabilite al di fuori di detto Stato. Pertanto, il valore del prorata di detrazione applicabile sarebbe falsato. 52 Ne consegue che, nella sentenza suddetta, la Corte ha escluso la presa in considerazione, nel calcolo del prorata di detrazione della sede centrale di un soggetto


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passivo, del volume d’affari delle succursali situate in altri Stati membri, a motivo del fatto che almeno una parte di tale volume d’affari non presentava alcun nesso con gli acquisti effettuati a monte da tale sede centrale. Di conseguenza, la Corte non ha inteso escludere, nella determinazione dell’entità del diritto a detrazione di una stabile organizzazione di un soggetto passivo situata in uno Stato membro, la presa in considerazione delle operazioni realizzate da una stabile organizzazione del medesimo soggetto passivo, situata in un altro Stato membro, le quali presentino un nesso diretto e immediato con spese sostenute dalla prima di queste stabili organizzazioni. 53 Peraltro, il calcolo del prorata relativo alle suddette operazioni effettuate dalla citata sede principale non può neppure essere fondato sul volume d’affari che tale succursale realizza con la sede centrale summenzionata, come propone il governo francese. Infatti, come si è ricordato al punto 38 della presente sentenza, tale volume d’affari consiste in flussi interni non assoggettati ad imposta del soggetto passivo, mentre, in conformità dell’articolo 17, paragrafo 5, della Sesta direttiva e dell’articolo 173, paragrafo 1, della direttiva 2006/112, occorre tener conto, ai fini del calcolo del prorata di detrazione, delle operazioni soggette ad imposta e di quelle esentate dall’IVA che un soggetto passivo realizza con soggetti terzi. 54 Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’articolo 17, paragrafi 2, 3 e 5, e l’articolo 19, paragrafo 1, della Sesta direttiva, nonché gli articoli 168, 169 e da 173 a 175 della direttiva 2006/112, devono essere interpretati nel senso che, per quanto riguarda le spese sostenute da una succursale immatricolata in uno Stato membro, le quali siano destinate, in via esclusiva, sia ad operazioni assoggettate all’IVA sia ad operazioni esentate da tale imposta, realizzate dalla casa madre di detta succursale stabilita in un altro Stato membro, occorre applicare un prorata di detrazione corrispondente ad una frazione il cui denominatore è rappresentato dal volume d’affari, al netto dell’IVA, costituito da queste sole operazioni ed il cui numeratore è rappresentato dalle operazioni soggette ad imposta che conferirebbero un diritto a detrazione anche qualora fossero effettuate nello Stato membro di immatricolazione della succursale di cui sopra, compreso il caso in cui tale diritto a detrazione consegua dall’esercizio di un’opzione, esercitata da tale succursale, consistente nell’assoggettare ad IVA le operazioni realizzate in quest’ultimo Stato. Sulla seconda questione 55 Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, in che modo occorra interpretare l’articolo 17, paragrafi 2, 3 e 5, e l’articolo 19, paragrafo 1, della Sesta direttiva, nonché gli articoli 168, 169 e da 173 a 175 della direttiva 2006/112, al fine di determinare il prorata di detrazione applicabile alle spese generali di una succursale immatricolata in uno Stato membro, che concorrano alla realizzazione sia delle operazioni effettuate da tale succursale in questo Stato, sia delle operazioni realizzate dalla casa madre di tale succursale, stabilita in un altro Stato membro.


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56 A questo proposito, occorre ricordare, da un lato, che l’esistenza di un nesso diretto ed immediato tra una specifica operazione realizzata a monte ed una o più operazioni effettuate a valle conferenti un diritto a detrazione, ai sensi della giurisprudenza citata al punto 30 della presente sentenza, è in linea di principio necessaria affinché un diritto a detrazione dell’IVA assolta a monte sia riconosciuto al soggetto passivo e al fine di determinare la portata di tale diritto. Il diritto a detrarre l’IVA gravante sull’acquisto di beni o servizi a monte presuppone che le spese compiute per acquistare questi ultimi facciano parte degli elementi costitutivi del prezzo delle operazioni tassate a valle, conferenti un diritto a detrazione (sentenza del 14 settembre 2017, Iberdrola Inmobiliaria Real Estate Investments, C‑132/16, EU:C:2017:683, punto 28 e la giurisprudenza ivi citata). 57 Tuttavia, dall’altro lato, un diritto a detrazione è parimenti ammesso a beneficio del soggetto passivo, anche in mancanza di un nesso diretto e immediato tra una specifica operazione realizzata a monte e una o più operazioni effettuate a valle, conferenti un diritto a detrazione, qualora i costi dei servizi in questione facciano parte delle spese generali del soggetto passivo e siano, in quanto tali, elementi costitutivi del prezzo dei beni o dei servizi che esso fornisce. Dei costi siffatti presentano, infatti, un nesso diretto e immediato con l’insieme delle attività economiche del soggetto passivo (sentenza del 14 settembre 2017, Iberdrola Inmobiliaria Real Estate Investments, C‑132/16, EU:C:2017:683, punto 29 e la giurisprudenza ivi citata). 58 Date tali circostanze, qualora l’attività economica del soggetto passivo consista sia in operazioni soggette ad imposta sia in operazioni esentate dall’IVA, occorre applicare alle spese generali di tale soggetto passivo il regime di detrazione previsto dall’articolo 17, paragrafo 5, della Sesta direttiva e dall’articolo 173, paragrafo 1, della direttiva 2006/112. In conformità delle considerazioni esposte ai punti da 40 a 46 della presente sentenza, il prorata di detrazione relativo alle suddette spese generali deve essere fondato sull’insieme delle operazioni economiche realizzate dal soggetto passivo, seguendo la metodologia contemplata dall’articolo 19, paragrafo 1, della Sesta direttiva nonché dagli articoli 174 e 175 della direttiva 2006/112. 59 Quanto al prorata di detrazione da applicare alle spese generali di una succursale immatricolata in uno Stato membro, qualora il soggetto passivo realizzi operazioni sia in tale Stato sia nello Stato membro nel quale è stabilita la sua casa madre, nel numeratore della frazione costituente detto prorata di detrazione devono figurare, oltre alle operazioni soggette ad imposta effettuate da detta succursale, soltanto le operazioni soggette ad imposta realizzate dalla casa madre suddetta che conferirebbero un diritto a detrazione anche qualora fossero effettuate nello Stato di immatricolazione della succursale in parola. 60 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla seconda questione dichiarando che l’articolo 17, paragrafi 2, 3 e 5, e l’articolo 19, paragrafo 1, della Sesta direttiva, nonché gli articoli 168, 169 e da 173 a 175 della direttiva 2006/112, devono essere interpretati nel senso che, al fine di determinare il prorata di


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detrazione applicabile alle spese generali di una succursale immatricolata in uno Stato membro che concorrono alla realizzazione sia delle operazioni di tale succursale effettuate in questo Stato sia delle operazioni realizzate dalla casa madre della succursale di cui sopra stabilita in un altro Stato membro, occorre tener conto, nel denominatore della frazione costituente tale prorata di detrazione, delle operazioni realizzate tanto dalla summenzionata succursale quanto dalla sua casa madre, con la precisazione che nel numeratore della frazione di cui sopra devono figurare, oltre alle operazioni soggette ad imposta effettuate da detta succursale, soltanto le operazioni soggette ad imposta realizzate dalla casa madre suddetta che conferirebbero un diritto a detrazione anche qualora fossero effettuate nello Stato di immatricolazione della succursale in parola. Sulle spese 61 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara: 1) L’articolo 17, paragrafi 2, 3 e 5, e l’articolo 19, paragrafo 1, della Sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, nonché gli articoli 168, 169 e da 173 a 175 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, devono essere interpretati nel senso che, per quanto riguarda le spese sostenute da una succursale immatricolata in uno Stato membro, le quali siano destinate, in via esclusiva, sia ad operazioni assoggettate all’imposta sul valore aggiunto sia ad operazioni esentate da tale imposta, realizzate dalla casa madre di detta succursale stabilita in un altro Stato membro, occorre applicare un prorata di detrazione corrispondente ad una frazione il cui denominatore è rappresentato dal volume d’affari, al netto dell’imposta sul valore aggiunto, costituito da queste sole operazioni ed il cui numeratore è rappresentato dalle operazioni soggette ad imposta che conferirebbero un diritto a detrazione anche qualora fossero effettuate nello Stato membro di immatricolazione della succursale di cui sopra, compreso il caso in cui tale diritto a detrazione consegua dall’esercizio di un’opzione, esercitata da tale succursale, consistente nell’assoggettare all’imposta sul valore aggiunto le operazioni realizzate in quest’ultimo Stato. 2) L’articolo 17, paragrafi 2, 3 e 5, e l’articolo 19, paragrafo 1, della Sesta direttiva 77/388, nonché gli articoli 168, 169 e da 173 a 175 della direttiva 2006/112, devono essere interpretati nel senso che, al fine di determinare il prorata di detrazione applicabile alle spese generali di una succursale immatricolata in uno Stato membro che concorrono alla realizzazione sia delle operazioni di tale succursale effettuate in questo Stato sia delle operazioni realizzate dalla casa madre della succursale di cui


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sopra stabilita in un altro Stato membro, occorre tener conto, nel denominatore della frazione costituente tale prorata di detrazione, delle operazioni realizzate tanto dalla summenzionata succursale quanto dalla sua casa madre, con la precisazione che nel numeratore della frazione di cui sopra devono figurare, oltre alle operazioni soggette ad imposta effettuate da detta succursale, soltanto le operazioni soggette ad imposta realizzate dalla casa madre suddetta che conferirebbero un diritto a detrazione anche qualora fossero effettuate nello Stato di immatricolazione della succursale in parola.

(1) Le spese della stabile organizzazione per la casa madre: la detrazione in base al prorata comunitario. Sommario: 1. Premessa. – 2. La prestazione di servizi nei confronti della casa madre e l’unicità del soggetto passivo. – 3. Il diritto alla detrazione e l’IVA sulle spese per prestazioni alla casa madre. – 4. Confronto della sentenza in commento con la sentenza Le Crédit Lyonnais (C-388/11). – 5. Il diritto alla detrazione e l’IVA sulle spese per prestazioni destinate alla realizzazione di operazioni della succursale e della casa madre. La Corte di Giustizia Europea è intervenuta sulla modalità di determinazione del prorata di detraibilità dell’IVA assolta da una stabile organizzazione di uno Stato membro sugli acquisti destinati da un lato alla prestazione di servizi da parte della casa madre stabilita in un altro Stato membro e dall’altro alla prestazione di servizi imponibili IVA indistintamente svolti dalla casa madre e dalla succursale. Il prorata nel primo caso dovrà essere determinato considerando al denominatore il volume d’affari dalle operazioni effettuate dalla casa madre e al numeratore dalle operazioni della casa madre che conferirebbero un diritto di detrazione secondo la disciplina IVA di entrambi gli Stati membri. Il prorata nella seconda fattispecie dovrà essere determinato considerando al denominatore il volume d’affari costituito dalle operazioni effettuate sia dalla casa madre che dalla succursale e al numeratore le operazioni soggette ad imposta della succursale e le operazioni rilevanti ai fini IVA effettuate della casa madre nel proprio Stato di immatricolazione. The European Court of Justice has intervened on the method for determining the deductible proportion of VAT paid by a permanent establishment of a Member State on purchases intended, on the one hand, for the provision of services by the principal establishment established in another Member State and on the other hand to the provision of VAT taxable services indiscriminately performed by the principal establishment and the branch. In the first case, the prorata must be determined by considering in the denominator the turnover from the operations carried out by the principal establishment and in the numerator from the operations of the principal establishment which would have given a right of deduction according to the VAT legislation of both the Member States. The prorata in the second case must be determined by considering in the denominator the turnover represented by the operations carried out by both the principal establishment and the branch and in the numerator, transactions relevant for VAT purposes carried out by the branch and by the principal establishment.


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1. Premessa. – La sentenza in commento concerne una domanda di pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione dell’articolo 17, paragrafi 2, 3 e 5 e dell’articolo 19, paragrafo 1, della Sesta Direttiva (77/388/CEE) del Consiglio del 17 maggio 1977 nonché degli articoli 168, 169 e da 173 a 175 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 (Direttiva) (1). La fattispecie si riferisce ad una controversia sorta tra la società inglese Morgan Stanley & Co International plc (di seguito Morgan Stanley) e il Ministero dell’Economia e delle Finanze francese in merito alla detrazione dell’IVA assolta dalla stabile organizzazione francese della Morgan Stanley situata a Londra nel Regno Unito, sugli acquisti destinati alla realizzazione di operazioni della casa madre e su quelli destinati ad operazioni afferenti sia la casa madre che la succursale francese (2). In occasione di due verifiche fiscali effettuate dall’amministrazione finanziaria francese è stato accertato che la stabile organizzazione realizzava operazioni bancarie e finanziarie per i clienti francesi assoggettando ad IVA i relativi corrispettivi in quanto così aveva optato in applicazione della normativa francese, giusta il disposto dell’articolo 13, punto C, primo comma, della Sesta Direttiva e dell’articolo 137, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2006/112/CE. Oltre ai servizi resi alla clientela francese, la succursale prestava alcuni servizi alla casa madre inglese a fronte dei quali riceveva bonifici per la copertura delle spese sostenute (3). L’IVA assolta sulle spese destinate alla prestazione dei servizi nei confronti delle due tipologie di destinatari (i.e. clientela francese e della casa madre) era integralmente detratta dalla stabile organizzazione. Le conclusioni della verifica fiscale erano diverse: (i) l’IVA assolta sulle spese destinate alle prestazioni verso clienti nazionali era integralmente detraibile;

(1) Per un commento alle conclusioni dell’Avvocato Generale si confronti Centore, Il (difficile) rapporto fra società madre e filiale ai fini IVA, in Corr. trib. n. 1/2019. La sentenza è è stata commentata anche da Peirolo, Dall’Unione Europea – Modalità di calcolo del prorata di detrazione dell’IVA, in L’Iva n. 3/2019. (2) Per un commento alla sentenza si veda anche Bologna, sul sito Assonime,in Giur. imp., sentenza n. 165/17. (3) Dalle conclusioni dell’Avv. gen. risulta che i bonifici erano destinati a coprire le spese sopportate dalla succursale francese ai fini delle operazioni “Equity Sales” (operazioni relative a mercati azionari) e “Fixed Income Sales” (operazioni relative a mercati obbligazionari, derivati su cambi o su materie prime) effettuate dalla sede centrale londinese.


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(ii) l’IVA sugli acquisti destinati esclusivamente alla realizzazione di operazioni della casa madre situata nel Regno Unito non poteva essere integralmente detratta in quanto le operazioni svolte nei confronti della casa madre erano da considerarsi fuori dall’ambito di applicazione dell’IVA; tale imposta era detraibile, invece, in base al prorata di detrazione della medesima casa madre; (iii) l’IVA sugli acquisti destinati indistintamente alle operazioni relative alla casa madre e alla succursale francese era detraibile sulla base del prorata della casa madre opportunamente corretto considerando il volume di affari della succursale parigina (che avrebbe provocato un incremento del prorata di detraibilità). Il Consiglio di Stato francese, investito della controversia, ha ritenuto di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia Europea due questioni pregiudiziali: - se l’IVA indicata nel precedente punto ii. potesse essere detratta applicando in Francia: - il prorata di detrazione della succursale ivi stabilita (determinato in funzione delle operazioni da questa realizzate nel medesimo Stato e in base alle norme quivi vigenti); - il prorata di detrazione della casa madre; - un prorata di detrazione specifico, determinato combinando le norme vigenti in Francia e nel Regno Unito e tenendo quindi conto del regime di opzione per l’assoggettamento ad IVA nel territorio francese. - quali norme applicare in relazione alla detrazione dell’IVA indicata nel precedente punto iii. al fine di determinare il prorata di detrazione. 2. La prestazione di servizi nei confronti della casa madre e l’unicità del soggetto passivo. – Come è noto, il diritto alla detrazione dell’IVA costituisce l’elemento fondamentale per garantire il principio di neutralità della stessa sulla base del quale l’imprenditore è interamente sgravato dall’imposta nella misura in cui le proprie attività economiche sono esse stesse assoggettate ad IVA. Al fine di permettere la detrazione dell’imposta, tale principio prevede la verifica dell’esistenza di un nesso diretto e immediato tra le operazioni passive effettuate a monte e le operazioni attive rilevanti ai fini IVA per la detrazione e realizzate a valle. Infatti, il diritto di detrarre l’IVA gravante sull’acquisto di beni o servizi a monte presuppone che le spese effettuate per acquistare questi ultimi facciano


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parte degli elementi costitutivi del prezzo delle operazioni tassate a valle, conferenti un diritto a detrazione. A tal proposito l’articolo 168, lettera a), della direttiva n. 2006/112/CE (nel quale è stata rifusa la disposizione recata dall’art. 17, paragrafo 2, lettera a) della Sesta Direttiva) prevede appunto che “nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo ha il diritto, nello Stato membro in cui effettua tali operazioni, di detrarre dall’importo dell’imposta di cui è debitore gli importi seguenti: l’IVA dovuta o assolta in tale Stato membro per i beni che gli sono o gli saranno ceduti e per i servizi che gli sono o gli saranno resi da un altro soggetto passivo”. Con riferimento alle spese sostenute per attività svolte dalla casa madre, inoltre, risulterebbe applicabile quanto previsto dall’articolo 17, paragrafo 3, lettera a), della Sesta Direttiva e dell’articolo 169, lettera a), della direttiva n. 2006/112/CE secondo il quale “oltre alla detrazione di cui all’articolo 168, il soggetto passivo ha il diritto di detrarre l’IVA ivi prevista nella misura in cui i beni e i servizi sono utilizzati ai fini delle operazioni seguenti: sue operazioni relative alle attività di cui all’articolo 9, paragrafo 1, secondo comma, effettuate fuori dello Stato membro in cui l’imposta è dovuta o assolta, che darebbero diritto a detrazione se fossero effettuate in tale Stato membro”. In altre parole, nell’ipotesi di IVA assolta su acquisti in uno Stato membro (primo Stato) per operazioni attive effettuate in un altro Stato membro (secondo Stato) occorre verificare, oltre all’esistenza di un nesso diretto e immediato tra gli acquisti e le operazioni attive, anche che queste ultime – svolte nel secondo Stato – siano rilevanti ai fini IVA in detto secondo Stato membro e che tali operazioni, sarebbero del pari tassate (anche se a seguito di opzione) nel primo Stato (4).

(4) In senso conforme Corte Giustizia UE, sentenza 13 luglio 2000, causa C-136/99, paragrafo 28 “così, nel caso di un soggetto passivo che effettui operazioni soggette ad imposta e operazioni esenti nello Stato membro in cui è stabilito, occorre accertare se le prime attribuirebbero altresì un diritto a deduzione nello Stato membro del rimborso ove fossero effettuate in quest’ultimo. Se non ricorre tale ipotesi, le dette operazioni soggette ad imposta non possono essere prese in considerazione ai fini del calcolo dell’importo del rimborso. La quota proporzionale determinata in conformità delle disposizioni dell’art. 19 della sesta direttiva deve quindi essere eventualmente modulata in funzione delle operazioni che, ove fossero effettuate nello Stato membro del rimborso, attribuirebbero un diritto a deduzione”.


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Tutto ciò premesso, appare preliminare alla trattazione delle due questioni pregiudiziali inquadrare correttamente ai fini dell’IVA la natura delle prestazioni di servizi rese dalla succursale alla casa madre. Tali attività, infatti, potrebbero essere qualificate come prestazioni di servizio a titolo oneroso (a fronte dei bonifici ricevuti) oppure potrebbero non costituire alcuna prestazione di servizio dal momento che la succursale e la casa madre costituirebbero un unico soggetto passivo ai fini IVA (e ciò ancorché la succursale sia identificata ai fini IVA nel territorio di un altro Stato membro). In merito alla verifica se la succursale e la casa madre costituiscano un soggetto passivo unico, la Corte non è stata espressamente sollecitata; infatti, tutte le parti interessate (Morgan Stanley, governo francese nonché i giudici nazionali aditi) (5) hanno interpretato la fattispecie nel medesimo senso. Ciononostante, la nozione di soggetto passivo unico è stata comunque oggetto di analisi da parte della Corte, nello specifico nei paragrafi 35 e 36. In sintesi, sulla base del disposto dall’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva n. 2006/112/CE e del costante orientamento della Corte di Giustizia Europea, affinché una succursale possa costituire un soggetto passivo IVA distinto dalla casa madre occorre che la medesima succursale svolga un’attività economica indipendente e ciò si realizzerebbe in particolare soltanto nel caso in cui detta succursale sopportasse il rischio economico inerente alla sua attività (6) (7).

(5) Su tale aspetto, il Cons. Stato francese ha ricordato la soluzione adottata dalla Corte Giustizia UE, nell’ordinanza 21 giugno 2016, causa C-393/15 la quale ha deciso che una succursale, immatricolata in uno Stato membro per il versamento dell’IVA, di una società stabilita in un altro Stato membro e che effettua principalmente operazioni interne, non assoggettate a tale imposta, a vantaggio di tale società, ma altresì, occasionalmente, operazioni soggette ad imposta nel suo Stato di immatricolazione, ha il diritto di detrarre l’IVA assolta a monte in quest’ultimo Stato, gravante sui beni e sui servizi utilizzati ai fini delle operazioni soggette ad imposta della suddetta società, effettuate nell’altro Stato membro in cui quest’ultima è stabilita. Il testo della decisione in francese è il seguente “qu’une succursale, immatriculée dans un État membre pour le paiement de la taxe sur la valeur ajoutée, d’une société établie dans un autre État membre et qui effectue principalement des opérations internes, non soumises à cette taxe, au profit de cette société mais aussi, occasionnellement, des opérations taxées dans son État membre d’immatriculation, a le droit de déduire la taxe sur la valeur ajoutée acquittée en amont dans ce dernier État, grevant les biens et les services utilisés pour les besoins des opérations taxées de ladite société, effectuées dans l’autre État membre où celle-ci est établie”. (6) L’articolo 9, paragrafo 1, della dir. n. 2006/112/CE dispone che “si considera «soggetto passivo» chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività”. (7) In senso conforme si rinvia a Corte Giustizia UE, sentenza 7 agosto 2018, causa C-16/17, punto 41; sentenza 12 settembre 2013, causa C-388/11, punto 34; sentenza 16 lu-


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Nel medesimo senso anche le conclusioni dell’avvocato generale Paolo Mengozzi laddove si legge, al punto 13, che “né il giudice del rinvio, né le parti che hanno partecipato al procedimento dinanzi alla Corte hanno rilevato elementi che consentano di ritenere che tale stabile organizzazione godrebbe di piena autonomia rispetto alla sede centrale londinese nel senso che la succursale francese si assumerebbe il rischio connesso all’attività economica che la stessa esercita. Pertanto è ragionevole presumere, come osservato dal governo portoghese,” (8) “che la succursale francese non sia, in quanto tale, un «soggetto passivo» ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della sesta direttiva e dell’articolo 9, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2006/112, vale a dire che, al contrario della filiale di una società, essa non soddisfa il requisito dell’esercizio «in modo indipendente» di un’attività economica, indipendentemente dallo scopo e dai risultati di detta attività. Una siffatta attività economica indipendente è invece esercitata dall’ente composto dalla succursale francese insieme alla sede centrale londinese, cosicché, ai sensi della giurisprudenza della Corte, è tale ente che deve essere considerato come un unico soggetto passivo, ai fini dell’interpretazione delle norme relative all’IVA”. A meri fini di completezza, si ricorda che la circostanza che la casa madre e la propria stabile organizzazione costituiscano un unico soggetto IVA ha comportato (9) nella normativa italiana la modifica dell’art. 38-ter del d.p.r. n. 633/1972 nella parte in cui tale norma non consentiva alla stabile orga-

glio 2009, causa C-244/08, punto 38; sentenza 23 marzo 2006, causa C-210/04, punto 35. Per un commento si vedano Lavazza - Zanatto, La rilevanza dei rapporti tra lo stabilimento principale e la propria stabile organizzazione appartenente ad un gruppo IVA, in Boll.trib. n. 22/2014. (8) Come emerge dalla lettura della sentenza (punto n. 10), i governi francese e portoghese nonché la Commissione hanno presentato osservazioni scritte nel corso del giudizio. (9) Si veda Corte Giustizia UE,sentenza 16 luglio 2009, causa C-244/08, che ha dichiarato l’illegittimità della normativa italiana in tema di rimborso IVA ad un soggetto non residente con stabile organizzazione in Italia. Tale pronuncia ha provocato l’integrazione dell’art. 38-ter d.P.R. 633/72 mediante l’art. 11, comma primo, lett. b), n. 1 del d.l. 25 settembre 2009, n. 135 con l’inciso “senza stabile organizzazione in Italia”, con ciò prevedendo che il rimborso dell’IVA non potesse più essere richiesto direttamente dai soggetti non residenti titolari di una stabile organizzazione in Italia i quali, pertanto, potevano procedere a liquidare l’imposta per tutti gli acquisti ivi effettuati. Si veda in merito Buccico, Il rimborso dell’Iva assolta da soggetti passivi non residenti, in Rass.trib. n. 4/2010. Sulla supposta incompatibilità della normativa italiana rispetto alla dir. 2006/112/CE per esclusione della possibilità di rimborso in presenza di stabile organizzazione Iva in Italia si confronti Peirolo, Rimborsi Iva ai soggetti non residenti, in Il fisco n. 18/2014, Centore, Il rimborso IVA diretto è ammesso anche in presenza di una stabile organizzazione, in Corr.trib. n. 46/2012


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nizzazione italiana di un soggetto stabilito in altro Stato membro di detrarre l’IVA sugli acquisiti effettuati in Italia direttamente dalla casa madre, con la conseguenza che il credito IVA derivante da tali acquisti non avrebbe potuto essere compensato con l’eventuale debito IVA derivante invece dalle operazioni effettuate direttamente dalla stabile organizzazione (10). Poiché la casa madre e la sua succursale devono considerarsi un unico soggetto, anche la liquidazione dell’imposta doveva essere unitaria e quindi per recuperare l’IVA assolta sulle spese sostenute dalla casa madre nel paese di insediamento della stabile organizzazione, la stessa sede principale poteva far concorrere tale imposta alla liquidazione della propria succursale, senza dover passare dalla più onerosa procedura di rimborso. Una volta assodata l’unicità del soggetto passivo occorre valutare la rilevanza IVA (o meno) dei flussi tra succursale e casa madre in quanto determinante al fine dell’attribuzione e della portata del diritto alla detrazione dell’IVA gravante sulle spese sostenute dalla succursale a beneficio, nel caso di specie, della sede londinese (spese individuate al punto ii. nel paragrafo precedente). Il primo corollario della sentenza è costituito dalla constatazione che tutte le prestazioni svolte nei confronti della casa madre dalla propria succursale costituiscono prestazioni effettuate verso sé stessi e come tali non possono costituire operazioni rilevanti ai fini IVA. In assenza di un rapporto giuridico tra la succursale e la casa madre, che insieme appunto non costituiscono soggetti distinti, le prestazioni scambiate tra tali entità costituiscono meri flussi interni non rilevanti ai fini IVA, a dif-

(10) In senso conforme si rinvia anche a Grandinetti, L’Iva di gruppo tra esigenze di armonizzazione europea e profili di diritto interno, Rass. trib. n. 4/2012. A fini di completezza si segnala che l’Agenzia delle Entrate ha precisato con circ.n. 19/E del 31 ottobre 2018 che “nell’ambito del Gruppo IVA in ipotesi di adesione al Gruppo IVA di una stabile organizzazione ovvero di una casa madre comporta che venga reciso di fatto il legame che intercorre tra le stesse, venendo meno l’unitarietà soggettiva tra la casa madre e la propria stabile organizzazione. Pertanto, in caso di adesione ad un Gruppo IVA, non trova applicazione il principio secondo cui la stabile organizzazione e casa madre estera costituiscono un solo ed unico soggetto passivo, ai sensi dell’articolo 9 della citata Direttiva (cfr. Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza 23 marzo 2006, C-210/04, FCE Bank)”.


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ferenza delle operazioni realizzate con soggetti terzi che sono naturalmente soggette ad imposta (11) (12). 3. Il diritto alla detrazione e l’IVA sulle spese per prestazioni alla casa madre. – Al fine di dirimere la prima questione pregiudiziale, occorre fare riferimento a quanto previsto dall’articolo 17, paragrafo 3, lettera a), della Sesta Direttiva (ora articolo 169, lettera a), della direttiva 2006/112/CE) il quale consente di detrarre l’IVA assolta sugli acquisiti a monte anche laddove i beni o servizi acquistati siano funzionali ad operazioni economiche effettuate a valle, fuori dal territorio dello Stato membro in cui l’IVA è stata assolta (nel caso di specie, la Francia), sempre che tali ultime operazioni, qualora fossero effettuate nello Stato di stabilimento della succursale, diano diritto alla detrazione. Sulla portata applicativa delle citate disposizioni, nelle proprie conclusioni (si veda il paragrafo 37) l’avvocato generale ha posto una questione interpretativa di non poco momento ovvero se il principio, che si potrebbe definire come una sorta di estensione della “portata territoriale” del diritto di detrazione, possa essere considerato anche come un’estensione della “portata sostanziale” del medesimo diritto. L’interrogativo posto era il seguente: - se da quanto previsto dal citato articolo 169, lettera a), della direttiva n. 2006/112/CE discenda l’obbligo di verificare esclusivamente l’imponibilità teorica dei servizi svolti dalla casa madre nel proprio Stato membro (Regno Unito); o - se occorra anche valutare se gli stessi servizi, cui le spese afferiscono, siano relativi a prestazioni che sarebbero state soggette ad imposta anche nello Stato membro della succursale (Francia). La soluzione adottata dalla Corte è stata la seconda: occorre non solo verificare la teorica imponibilità dei suddetti servizi nel territorio dello Stato

(11) In senso conforme anche la prassi ministeriale italiana che con ris.16 giugno 2006, n. 81 a seguito della sentenza 23 marzo 2006 della Corte Giustizia UE, causa C-210/04, ha stabilito che “occorre quindi chiarire che le prestazioni di servizio intercorrenti tra casa madre estera e stabile organizzazione italiana ovvero tra casa madre italiana e stabile organizzazione estera sono fuori campo di applicazione del tributo”. (12) Per un commento in dottrina si vedano Rossi, La autonomia soggettiva della stabile organizzazione nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. prat. trib., n. 1/2005 nonché Santi, Fuori campo Iva i servizi tra casa madre e stabile organizzazione, in Corr. trib. n.30/2006 e Targa - Venegoni, Regime Iva applicabile ai servizi resi dalla stabile organizzazione non residente alla casa madre, in Fiscalità int., n. 6/2006.


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membro dove è situata casa madre, ma anche tenere conto dell’inquadramento IVA delle suddette prestazioni nello Stato membro ove risiede la stabile organizzazione. Il processo di verifica si articola nei seguenti passaggi: - stabilire a quali operazioni attive realizzate nello Stato membro di residenza della casa madre si riferiscano gli acquisti la cui IVA è stata assolta nell’altro Stato membro (verifica dell’esistenza del nesso diretto ed immediato) (13); - successivamente, in caso di imponibilità delle operazioni nello Stato membro di localizzazione della casa madre (14), occorre anche verificare se le medesime operazioni sarebbero state teoricamente soggette ad IVA nello Stato membro di insediamento della stabile organizzazione. Il percorso appena esposto ha il pregio di costituire un punto di equilibrio tra il doveroso rispetto del principio di neutralità dell’IVA (detrazione dell’IVA sugli acquisti riferiti alle attività svolte) e la ripartizione delle sfere d’applicazione della normativa IVA degli Stati membri coinvolti nella fattispecie (verifica del regime IVA in entrambi gli Stati coinvolti) (15). Sulla base di quanto sopra, è certamente possibile affermare che: - giusta l’articolo 169, lettera a), della direttiva n. 2006/112/CE, la richiesta di detrazione dell’IVA assolta sull’acquisto di beni e servizi destinati unicamente alle prestazioni rese dalla casa madre non può essere negata anche se tali servizi sono rimborsati a mezzo di versamenti interni che non hanno alcuna rilevanza ai fini IVA;

(13) Il paragrafo 47 della sentenza in commento afferma che “occorre inoltre precisare che il prorata di detrazione indicato al punto precedente non può necessariamente essere qualificato come «prorata di detrazione della casa madre», così come prospettato nella prima questione pregiudiziale sollevata. Infatti, vengono in considerazione soltanto le operazioni realizzate dalla casa madre alle quali siano state destinate le spese per usi promiscui della succursale”. (14) Nell’ipotesi di effettuazione di sole operazioni esenti da parte della casa madre, la detrazione sarebbe integralmente negata, senza necessità di verifica di imponibilità nello Stato membro di residenza della stabile organizzazione. (15) In tal senso, si confronti il punto 49 delle conclusioni dell’Avv. gen. alla sentenza in commento dove si legge che “infatti, sebbene, in forza del primo principio” (i.e. il principio di neutralità) “a un soggetto passivo che svolge la propria attività nel territorio di vari Stati membri non possa essere negato, in ragione di tale mera circostanza, il diritto di detrarre l’IVA assolta a monte, resta il fatto che tale soggetto passivo non può beneficiare, nello Stato membro in cui lo stesso chiede la detrazione dell’IVA, conformemente alla normativa tributaria del suddetto Stato membro, di un trattamento più favorevole rispetto ai soggetti passivi che svolgerebbero tutte le loro attività economiche nel territorio di detto Stato membro”.


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- al fine della verifica della suddetta detraibilità, è errato considerare le prestazioni effettuate dalla succursale francese e ciò in quanto così operando non si terrebbe in giusta considerazione l’unicità del soggetto passivo (come disposto dell’art. 9, paragrafo 1, della direttiva n. 2006/112/CE) nelle sue articolazioni di succursale e di casa madre; - occorre verificare le operazioni svolte dalla casa madre a cui si riferiscono gli acquisti e successivamente verificare il regime IVA di tali operazioni nello Stato di immatricolazione della succursale. Pertanto, la sentenza conclude che nel calcolo del prorata, al fine della detrazione dell’IVA assolta sulle spese destinate alla casa madre, occorre considerare: - al numeratore, il volume di affari annuo, al netto dell’IVA, relativo alle operazioni che danno diritto alla detrazione effettuate dalla casa madre (ovviamente solo quelle collegate alle spese effettuate); - al denominatore, il volume di affari, al netto dell’IVA, relativo al complesso delle operazioni della casa madre. Tale modalità di computo aritmetico si discosterebbe da quanto rassegnato nelle conclusioni dell’avvocato generale il quale aveva suggerito di considerare sia le operazioni svolte dalla casa madre, a cui appunto si riferiscono le spese, sia quelle svolte dalla succursale francese, nel cui Stato è stata assolta l’IVA di cui si chiede la detrazione. In ogni caso, la conseguenza della soluzione adottata dalla Corte è che, in presenza di succursali, il volume di affari di queste ultime sarebbe comunque irrilevante per il calcolo del prorata di detraibilità delle spese sostenute nel Paese dove la succursale è situata (in Francia) e ciò in quanto il volume di affari delle succursali non avrebbe alcun nesso diretto e immediato con le spese ivi sostenute per la casa madre. 4. Confronto della sentenza in commento con la sentenza Le Crédit Lyonnais (C-388/11). – Prima di passare ad esaminare la seconda questione pregiudiziale posta dal Consiglio di Stato francese è interessante confrontare la pronuncia in esame con quanto deciso nella sentenza 12 settembre 2013, Le Crédit Lyonnais – LCL (C-388/11) (16). Tale ultima pronuncia ha affrontato la tematica della modalità di determinazione del prorata di una casa madre (nella fattispecie stabilita in Francia)

(16) Per un commento si rinvia a Centore, Pro rata mondiale o pro rata nazionale IVA:


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che aveva sviluppato la propria attività anche attraverso diverse succursali localizzate in altri Stati membri (17). La richiesta della ricorrente era quella di calcolare il prorata di detrazione delle spese sostenute in Francia tenendo conto al numeratore e al denominatore anche del volume di affari annuo sviluppato da tutte le succursali stabilite negli altri Stati membri. Al paragrafo 35 della sentenza n. C-388/11, la Corte ha così disposto: “orbene, poiché le modalità di calcolo del prorata costituiscono un elemento fondamentale del regime delle detrazioni, non si può, senza rimettere seriamente in dubbio sia la ripartizione razionale delle sfere d’applicazione delle normative nazionali in materia di IVA sia la ragion d’essere di detto prorata, tenere conto, nel calcolo del prorata applicabile alla sede principale di un soggetto passivo stabilito in uno Stato membro, del fatturato realizzato da tutte le stabili organizzazioni di cui tale soggetto passivo dispone negli altri Stati membri”. Il punto era stato sostenuto anche dall’avvocato generale Villalon il quale nel paragrafo 67 delle proprie conclusioni aveva affermato che “è pur vero che, come emerge anche dalla giurisprudenza della Corte analizzata supra, il diritto a detrazione deve corrispondere, in linea di principio e per quanto possibile, all’IVA versata a monte sull’acquisizione di beni e di servizi utilizzati per operazioni non esenti. Tale requisito non implica tuttavia, necessariamente, l’obbligo per gli Stati membri di prevedere che venga presa sistematicamente in considerazione, nel calcolo del prorata di detrazione di una società soggetto di imposta, previsto agli articoli 17, paragrafo 5, primo e secondo comma, e 19 della sesta direttiva, la sua cifra d’affari totale, vale a dire sia quella della sede centrale sia quella di tutte le sue succursali stabilite in altri Stati membri, col rischio, come è stato sottolineato da tutti i governi degli Stati membri che hanno presentato osservazioni e dalla Commissione, di falsare il significato stesso del prorata di detrazione” (18).

la scelta della Corte di giustizia, in Corr. trib. n. 41/2013 e Olivieri, Una società la cui sede è stabilita in uno Stato membro non può prendere in considerazione, nel calcolare il proprio prorata di detrazione dell’Iva, la cifra d’affari delle sue succursali stabilite in altri Stati membri, in Le Società, n. 11/2013. (17) Per un commento in dottrina della sentenza 12 settembre 2013 della Corte Giustizia UE, causa C-388/11 si veda Centore, Pro rata mondiale o pro rata nazionale Iva, cit., nonché in tema di stabile organizzazione e IVA Comelli, I rapporti, sotto il profilo dell’Iva, tra stabile organizzazione, casa madre e terzi, in Dir. prat. trib. n. 4/2014; Fantozzi, La stabile organizzazione, in Riv. dir. trib., n. 2, 2013. (18) Sottolineatura del testo inserita dallo scrivente.


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Sulla base di tale intervento sembrerebbe potersi affermare il principio che il prorata debba essere determinato senza tenere conto del fatturato delle singole stabili organizzazioni in quanto il coacervo del fatturato delle stesse metterebbe in discussione la ripartizione delle potestà impositive dei singoli Stati membri (nel caso di specie dello Stato membro in cui è localizzata la sede centrale). La stessa sentenza afferma anche che “inoltre, come il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord ha fatto giustamente valere, tale modalità di determinare il prorata di detrazione applicabile alla sede principale di un soggetto passivo produrrebbe la conseguenza di far aumentare, per tutti gli acquisti che tale soggetto passivo ha effettuato nello Stato membro nel quale si trova la sua sede principale, la quota di IVA che tale sede può detrarre anche qualora una parte di tali acquisti non abbia alcun nesso con le attività delle stabili organizzazioni site fuori di detto Stato. Pertanto, il valore del prorata di detrazione applicabile sarebbe falsato”. L’avvocato generale Villalon così conclude: “va sottolineato al riguardo, come hanno fatto il governo del Regno Unito e la Commissione nelle loro osservazioni scritte, che il fine cui tendono gli argomenti della LCL è di invitare la Corte a definire, in termini generali, i principi teorici che devono presiedere alla determinazione del prorata di detrazione nel caso di una società la cui sede centrale, stabilita in uno Stato membro, centralizzi le spese destinate in particolare ad operazioni effettuate dalle sue succursali in altri Stati membri, senza fornire la benché minima precisazione in termini numerici né sull’importo globale delle suddette spese comuni, né sulla parte di operazioni soggette a imposta delle succursali che utilizzano queste ultime, né la benché minima indicazione riguardo al collegamento immediato e diretto, richiesto dalla giurisprudenza della Corte, tra le spese a monte effettuate dalla sede centrale di detta società e le operazioni a valle che danno diritto a detrazione effettuate dalle succursali di quest’ultima” (19). Respingendo la domanda di LCL, la sentenza conferma a fortiori la necessità di dimostrare, al fine di detrarre l’IVA applicata sugli acquisti, l’esistenza di un nesso/collegamento tra questi ultimi e le attività (rilevanti ai fini IVA), ancorché le stesse siano state effettuate dalle stabili organizzazioni situate al di fuori dello Stato membro di residenza della sede centrale.

(19) Sottolineatura del testo inserita dallo scrivente.


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Le conclusioni cui giunge la Corte sono affidate al paragrafo 40 della sentenza: “alla luce dell’insieme delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che gli articoli 17, paragrafi 2 e 5, nonché 19, paragrafo 1, della sesta direttiva devono essere interpretati nel senso che, ai fini della determinazione del prorata di detrazione dell’IVA ad essa applicabile, una società, la cui sede principale sia situata in uno Stato membro, non può prendere in considerazione la cifra d’affari realizzata dalle sue succursali stabilite in altri Stati membri” (20). Il punto è ribadito anche al paragrafo 55 ove si legge che “ne deriva che uno Stato membro non può, sulla base delle disposizioni di cui all’articolo 17, paragrafo 5, terzo comma, consentire ad un soggetto passivo stabilito sul suo territorio di tenere conto, all’atto della determinazione del prorata di detrazione applicabile a un settore della sua attività economica, della cifra d’affari realizzata da una stabile organizzazione sita fuori dello stesso Stato”. Un primo elemento in comune con la sentenza in commento è certamente la conferma della necessità di verificare l’esistenza di un nesso diretto e immediato tra gli acquisti in relazione ai quali si chiede la detrazione dell’IVA e le attività rilevanti ai fini IVA alle quali i medesimi acquisti si riferiscono. Tale posizione è stata peraltro ben illustrata anche dall’avvocato generale (cfr. paragrafo 72 delle conclusioni alla causa C-165/2017 nel quale si afferma: “la tesi del prorata mondiale, avanzata dalla Le Credit Lyonnais, era contraria quindi, segnatamente, al requisito, …, secondo il quale, in linea di principio, ai fini del diritto a detrazione dell’IVA è necessario un nesso diretto e immediato tra i beni e i servizi acquistati a monte e una o più operazioni a valle che conferiscono un diritto a detrazione”). A giudizio dello scrivente, però, qualche profilo di contrasto potrebbe emergere dal confronto tra, da un lato, i paragrafi 35 e 55 della sentenza (e il paragrafo 68 delle conclusioni dell’avvocato generale) e, dall’altro lato, le conclusioni della sentenza qui in commento. Infatti, l’interpretazione riportata nella sentenza n. C-388/11 sembrerebbe quella di voler preservare la ripartizione razionale delle sfere d’applicazione delle normative nazionali in materia

(20) Anche l’Avv. gen. conclude affermando che “di conseguenza, si deve dichiarare, in risposta alla prima questione sollevata dal giudice del rinvio, che gli articoli 17, paragrafi 2 e 5, e 19 della sesta direttiva devono essere interpretati nel senso che non obbligano gli Stati membri a prevedere che venga presa in considerazione, nel calcolo del prorata di detrazione di una società la cui sede centrale è stabilita nel loro territorio, il volume d’affari delle succursali di detta società stabilite in altri Stati membri”.


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di IVA escludendo sempre, come principio generale, il volume d’affari delle stabili organizzazioni dal calcolo del prorata. L’introduzione della verifica dell’esistenza del nesso diretto ed immediato tra gli acquisti e le operazioni attive parrebbe quindi un ulteriore requisito rispetto al principio di rispetto delle discipline IVA locali. Tesi che, a parere dell’avvocatura generale nelle conclusioni alla sentenza n. C-165/17, deve essere interpretata in modo più articolato; infatti, la supposta impossibilità di considerare le attività svolte in un altro Stato membro non deve essere considerata in modo assoluto, ma può essere ammessa sempreché sia verificata l’esistenza di un nesso diretto e immediato con le operazioni a valle che danno diritto alla detrazione. Qualora tale condizione sia verificata non si potrebbe ignorare la realtà economica transnazionale del soggetto unico IVA (i.e. sede centrale e stabile organizzazione) in quanto solo tale impostazione permetterebbe il migliore equilibrio tra requisito di neutralità dell’IVA e il principio di territorialità (nella sentenza tale equilibrio si ottiene verificando anche regime IVA sia in Francia sia nel Regno Unito). In altre parole, secondo la sentenza in commento l’esistenza di un nesso diretto e immediato tra gli acquisiti effettuati (presso la succursale francese) e le attività svolte dalla sede centrale nel Regno Unito riconduce ad unità l’interpretazione del paragrafo 55 della sentenza n. C-388/11 e riportando il calcolo del prorata ad una dimensione per così dire mondiale. Qui giunti ci sembra possibile sostenere che, anche qualora si affermi che non si tratta di un ripensamento della Corte di Giustizia Europea, ci si trovi di fronte quantomeno ad una evoluzione del pensiero stesso in merito alla detrazione dell’IVA assolta su spese che interessano un unico soggetto passivo internazionalmente identificato, che complicherà non poco le modalità di calcolo del prorata in fattispecie similari. 5. Il diritto alla detrazione e l’IVA sulle spese per prestazioni destinate alla realizzazione di operazioni della succursale e della casa madre. – L’ultimo punto oggetto di analisi da parte della sentenza in commento (seconda questione pregiudiziale) riguarda la detrazione dell’IVA su acquisti (i.e. spese generali) destinati allo svolgimento di attività riferite indistintamente alla succursale francese e alla sede britannica. Sul punto, la Corte – riferendosi alle argomentazioni sopra sviluppate – perviene alla conclusione che il prorata di detrazione debba essere determinato tenendo conto al numeratore delle operazioni che danno il diritto della de-


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trazione svolte dalla succursale francese e dalla casa madre (che conferirebbero in Francia il medesimo diritto alla detrazione). Al denominatore dovranno essere considerate tutte le operazioni svolte sia in Francia sia nel Regno Unito. Seppur non oggetto di analisi, in quanto il soggetto unico IVA aveva oltre alla sede centrale una sola succursale in Francia, è ragionevole ritenere che, in base ai principi enunciati nella sentenza, nell’ipotesi in cui il soggetto unico IVA avesse avuto altre stabili organizzazioni in altri Stati membri, queste non avrebbero avuto alcuna influenza nel calcolo del prorata di detrazione, a meno che le suddette spese generali non avessero avuto un nesso diretto e immediato con le operazioni di tali succursali estere. In altre parole, seguendo la posizione esposta dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza in commento, il prorata dovrebbe essere calcolato tenendo in considerazione tutte le attività svolte negli Stati membri (con la sede centrale e le proprie stabili organizzazioni) che abbiano un nesso diretto e immediato con gli acquisti in relazione ai quali si chiede la detrazione dell’IVA; è di tutta evidenza che tale modalità introdurrebbe un concetto di prorata mondiale il cui computo sarebbe complicato in misura esponenziale rispetto al numero degli Stati membri coinvolti.

Mario Ravaccia



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