Rivista di
Diritto Tributario
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Rivista bimestrale
Vol. XXIX - giugno 2017
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In evidenza: • Giusto processo e parità delle parti nella disciplina delle tutele cautelari tributarie
Salvatore La Rosa • Alcune considerazioni sul contrasto tra CEDU e disciplina italiana dei rapporti tra
procedure sanzionatorie amministrative e penali Roberto Schiavolin • La Corte costituzionale e i tributi al tempo della crisi: l’“autogoverno” degli effetti delle
declaratorie di incostituzionalità e la prospettazione di una incostituzionalità solo pro futuro Loredana Carpentieri • Brevi riflessioni in ordine alla rilevanza penale dell’omesso versamento dell’IVA e delle
ritenute, tra ne bis in idem e principio di ragionevolezza Andrea De Lia • La matrice solidaristica dei principi europei e internazionali in materia ambientale e il
ruolo della fiscalità nel sistema interno Susanna Cannizzaro ISSN 1121-4074
Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016
Diretta da Mauro Beghin - Pietro Boria - Loredana Carpentieri (coordinamento di direzione) Gaspare Falsitta - Augusto Fantozzi - Andrea Fedele - Guglielmo Fransoni - Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo - Roberto Schiavolin - Giuseppe Zizzo
Pacini
Indici DOTTRINA Andrea De Lia
Brevi riflessioni in ordine alla rilevanza penale dell’omesso versamento dell’IVA e delle ritenute, tra ne bis in idem e principio di ragionevolezza.............................. III, 55 Susanna Cannizzaro
La matrice solidaristica dei principi europei e internazionali in materia ambientale e il ruolo della fiscalità nel sistema interno............................................................ IV, 95 Loredana Carpentieri
La Corte costituzionale e i tributi al tempo della crisi: l’“autogoverno” degli effetti delle declaratorie di incostituzionalità e la prospettazione di una incostituzionalità solo pro futuro................................................................................................... I, 223 Roberta Corriere
Possesso e disponibilità nell’imposizione sul patrimonio immobiliare (nota a Cass., n. 22216/2015)................................................................................................. II, 157 Salvatore La Rosa
Giusto processo e parità delle parti nella disciplina delle tutele cautelari tributarie.. I, 255 Silvia Mencarelli
Tassazione ambientale e inquinamento acustico aeroportuale................................. I, 273 Maria Concetta Parlato
L’attuazione della delega fiscale in materia di ottemperanza................................... I, 363 Roberto Schiavolin
Alcune considerazioni sul contrasto tra CEDU e disciplina italiana dei rapporti tra procedure sanzionatorie amministrative e penali................................................. I, 385 Rubrica di diritto penale tributario
a cura di Ivo Caraccioli............................................................................................... III, 55 Rubrica di diritto europeo
a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 95
INDICE ANALITICO ICI e IMU – Presupposto e soggetti passivi – Combinato disposto di cui agli artt. 1, comma 2, e 3 del D. Lgs. n. 504/1992 – Possesso dell’immobile – Sequestro preventivo ex art. 20 del D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, c.d. codice delle leggi antimafia – Disciplina fiscale dei beni sequestrati e confiscati ex art. comma 3-bis dell’art. 51 del D.Lgs. n. 159/2011 alla luce delle modifiche
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indici
apportate dall’art. 32 del D.Lgs. 175/2014 – La disponibilità dell’immobile nelle imposte sul patrimonio – Configurazione del presupposto (Cass. 30 ottobre 2015, n. 22216 con nota di Roberta Corriere)......................................... II, 153
INDICE CRONOLOGICO Cassazione, civ. sez. V 30 ottobre 2015, n. 22216........................................................................................... II, 153
Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio
Dottrina
La Corte costituzionale e i tributi al tempo della crisi: l’“autogoverno” degli effetti delle declaratorie di incostituzionalità e la prospettazione di una incostituzionalità solo pro futuro*. Sommario: 1. Premessa – 2. Il tradizionale ostacolo all’esclusione degli effetti retroattivi della
declaratoria di incostituzionalità: il rischio, paventato e poi superato (o aggirato), del corto circuito di sistema con il sindacato incidentale di incostituzionalità – 3. Il “governo” degli effetti temporali delle dichiarazioni di incostituzionalità: le linee evolutive di un ordinamento in cammino – 4. Il caso Robin tax: cronaca di una morte annunciata? – 5. I presupposti necessari cui la stessa Corte costituzionale subordina il potere di modulare gli effetti temporali delle proprie decisioni – 6. L’evoluzione dell’art. 81 Cost. e il principio dell’equilibrio di bilancio: il fulcro di una leva che impone un nuovo bilanciamento degli interessi nel caso di sentenze costituzionali “onerose” – 7. La visione “unitaria” del sistema costituzionale quale bussola per la modulazione degli effetti delle declaratorie di incostituzionalità e le possibilità di una exit strategy diversa – 8. I problemi lasciati aperti, sotto il profilo fiscale, dalle pronunce di incostituzionalità pro futuro: la sentenza n. 10 del 2015 come rara avis? Con sentenza n. 10/2015, la Corte costituzionale ha ritenuto incostituzionale la c.d. Robin Hood Tax (introdotta nel 2008 e finalizzata a redistribuire gli extraprofitti realizzati dalle imprese del settore energetico) per violazione dei principi di uguaglianza e capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 della Costituzione. Poiché la Robin Hood tax rappresentava comunque una quota significativa del gettito italiano, la Corte costituzionale ha scelto di evitare problemi al bilancio nazionale, optando per la non retroattività degli effetti della sua decisione; e in questa prospettiva, ha stabilito che tale decisione avrebbe avito effetti solo dal giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta uffciale, escludendo dunque ogni effetto retroattivo della pronuncia di incostituzionalità Questo contributo esamina il fenomeno dell’autogoverno degli effetti temporali delle declaratorie di incostituzionalità nel contesto della più recente giurisprudenza costituzionale in tema di tributi e dei condizionamenti derivanti dalla necessità di effettuare un bilanciamento di valori costituzionali.
* Il presente saggio è destinato agli Studi in onore del prof. Pasquale Russo.
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Parte prima
With decision n. 10/2015, the Italian Constitutional Court declared the Energy Tax Surcharge (ETS, also referred to as the “Robin Hood tax”, introduced in 2008 for the purpose of redistributing the extra profits realized by companies operating in the energy sector) unconstitutional for violating the general principles of equality and ability-to-pay respectively set forth by Articles 3 and 53 of the Italian Constitution. Because the ETS represented a significant share of the Italian internal revenue, the Court chose to prevent national budget concerns by opting for the non-retroactivity of the effects of its decision; therefore the consequences of the Court’s decision should be effective from the day following the date of its publication in the Official Gazette without any retroactive impact. This contribution examines the phenomenon of the self-government of the temporal effects of the declaratories of uncostitutionality in the context of the most recent constitutional jurisprudence on taxation, often conditioned by the necessity to effect a balancing of constitutional values.
1. Premessa – La più recente giurisprudenza costituzionale in tema di tributi sempre più spesso appare condizionata dall’ardua necessità, per la Suprema Corte, di effettuare, nelle proprie decisioni, un bilanciamento di valori costituzionali; bilanciamento che si è spinto fino a indurre la Consulta a “governare” gli effetti temporali della propria pronuncia di accoglimento, limitandone l’efficacia retroattiva e prospettando dunque, per la norma caduta sotto le sue censure, un’incostituzionalità solo pro futuro (1). Il riferimento è alla nota e recente pronuncia nella quale il fenomeno dell’autogoverno degli effetti delle declaratorie di incostituzionalità è emerso con tutta evidenza: la sentenza n. 10 del 2015 sulla c.d. Robin tax (2), con
(1) Il tema è stato recentemente sottolineato da A. Fantozzi, La giurisprudenza della Corte costituzionale in materia tributaria, in Aa.Vv., Istanze costituzionali e sovranazionali nel diritto tributario, Atti del corso per giudici tributari tenuto alla Corte costituzionale dal 6 al 7 giugno 2016 in Roma nel Palazzo della Consulta, Vicalvi (FR), 2016, 15 ss.. (2) Su tale pronuncia la dottrina costituzionalistica è amplissima e spesso critica; ci sia consentito di ricordare, senza pretesa di completezza: A. Anzon Demmig, La Corte costituzionale “esce allo scoperto” e limita l’efficacia retroattiva delle proprie pronunzie di accoglimento, in Giur. Cost., 2015, 67 ss.; E. Grosso, Il governo degli effetti temporali nella sentenza n. 10/2015, ivi, 2015, 79 ss.; A. Pugiotto, La rimozione della pregiudizialità costituzionale nella sentenza costituzionale n. 10/2015, ivi, 90 ss.; L. Geninatti Satè, L’irrisolta questione della retroattività delle sentenze d’illegittimità costituzionale, ivi, 99 ss.; I. Massa Pinto, La sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2015 tra irragionevolezza come conflitto logico interno alla legge e irragionevolezza come eccessivo sacrificio di un principio costituzionale: ancora un caso di ipergiusdizionalismo costituzionale, in Costituzionalismo.it, 1/2015; V. Onida, Una pronuncia costituzionale problematica: limitazione degli effetti nel tempo o incostituzionalità sopravvenuta?, in Rivista AIC n. 1/2016; R. Bin, Quando i precedenti degradano a citazioni e le regole evaporano in principi, in forumcostituzionale.it; R. Pinardi, La modulazione degli effetti temporali delle sentenze
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la quale la Corte costituzionale ha previsto che una norma tributaria – pur dichiarata incostituzionale – potesse continuare a spiegare i propri effetti per i periodi di imposta anteriori alla pubblicazione della declaratoria di incostituzionalità. Una sentenza che ha dichiarato incostituzionale un’imposta solo pro futuro, “blindandola” al contempo per i periodi precedenti, per i quali dunque ai contribuenti è stata preclusa la possibilità di chiederne la restituzione. La via imboccata con l’affermazione di una incostituzionalità “moderata”, che non consente più di mettere in discussione il passato, viene giustificata, dalla stessa Corte costituzionale, con l’esigenza di effettuare un bilanciamento tra i diritti lesi dalla norma dichiarata incostituzionale ed altri valori e interessi anch’essi costituzionalmente tutelati, tra i quali spiccano oggi le esigenze di equilibrio della finanza pubblica (3). Come noto, alla dichiarazione di incostituzionalità di un tributo dovrebbe seguire non solo la cancellazione di tale tributo dal sistema impositivo ma anche l’obbligo alla restituzione dei tributi indebitamente versati, sia nei confronti del ricorrente del giudizio a quo, sia nei confronti di tutti quei contribuenti in analoghe situazioni i cui rapporti non si siano ancora esauriti. E questa circostanza rischia, oggi più che in passato, di mettere in crisi altri principi costituzionali: in particolare, il principio dell’equilibrio di bilancio recentemente rivisitato nell’art. 81 Cost. (4). In questa prospettiva, nella ricordata sentenza sulla Robin tax la Consulta ha considerato non solo giustificata, ma addirittura “costituzionalmente
d’incostituzionalità e la logica del giudizio in via incidentale in una decisione di accoglimento con clausola d’irretroattività, in Consultaonline, n. 1/2015; F. Gabriele - A. M. Nico, Osservazioni “a prima lettura” sulla sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2015: dalla illegittimità del “togliere ai ricchi per dare ai poveri” alla legittimità del “chi ha avuto, ha avuto, ha avuto … scordiamoci il passato”, in Rivista AIC, n. 2/2015; M. Ruotolo - M. Caredda, Virtualità e limiti del potere di regolazione degli effetti temporali delle decisioni d’incostituzionalità. A proposito della pronuncia sulla c.d. Robin Tax, ivi; A. Lanzafame, La limitazione degli effetti retroattivi delle sentenze di illegittimità costituzionale tra tutela sistemica dei principi costituzionali e bilanciamenti impossibili. A margine di Corte costituzionale n. 10/2015, ivi; R. Dickmann, La Corte costituzionale torna a derogare al principio di retroattività delle proprie pronunce di accoglimento per evitare “effetti ancor più incompatibili con la Costituzione”, in Federalismi.it, n. 4/2015; F. Gallarati, La Robin tax e l’”incostituzionalità d’ora in poi”: spunti di riflessione a margine della sentenza n. 10/2015, in Federalismi.it, n. 19/2015. Quanto alla dottrina tributaristica, anch’essa amplissima, la si veda citata più avanti nel testo. (3) Sul tema del bilanciamento dei diritti e sul giudizio attuato sul punto dalla Corte nella sentenza n. 10/2015 v. per tutti, L. Salvini, Traslazione e rimborso delle imposte sul reddito in Corte cost. n. 10/2015, in Rass. Trib., 2015, 1158 ss. (4) Per tutti v. M. Luciani, Il principio dell’equilibrio di bilancio e i principi fondamentali: la prospettiva del controllo di costituzionalità, in www.cortecostituzionale.it
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necessaria”, l’esclusione degli effetti retroattivi dell’annullamento delle disposizioni impugnate. Questo per due ragioni fondamentali, tra loro strettamente connesse: garantire il principio dell’equilibrio di bilancio come enunciato dall’attuale art. 81 della Costituzione rispetto alla lesione eccessiva che sarebbe stata provocata dall’ampiezza dell’impatto macroeconomico di un’applicazione retroattiva della decisione; evitare una manovra finanziaria aggiuntiva che avrebbe paradossalmente finito per gravare sulle fasce più deboli, traducendosi così non solo in una violazione dei doveri di solidarietà sociale di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione, ma anche in una violazione degli obblighi europei in contrasto con l’art. 117,comma 1, Cost. Gli interessi in gioco erano e sono di indubbio rilievo; tuttavia, la stessa dottrina costituzionale che da tempo ha aperto alla tesi della praticabilità, da parte della Corte, dell’autogoverno degli effetti temporali delle proprie sentenze di accoglimento, è ben consapevole dei delicati problemi che tale tesi solleva: in primis, quello degli effetti di tale autogoverno e quello dei limiti che la Corte – quale giudice contro le cui decisioni non è ammessa alcuna possibilità di reazione giuridica – deve rispettare nel difficile bilanciamento tra valori tutti costituzionalmente tutelati: e, in tema di tributi, nel difficile bilanciamento tra esigenze di equilibrio della finanza pubblica e valori quali quelli di eguaglianza, capacità contributiva e diritto di difesa. 2. Il tradizionale ostacolo all’esclusione degli effetti retroattivi della declaratoria di incostituzionalità: il rischio, paventato e poi superato (o aggirato), del corto circuito di sistema con il sindacato incidentale di incostituzionalità – La riflessione sugli effetti temporali delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale si sviluppò già negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della Costituzione, alimentata dal dato testuale dell’art. 136 Cost., il quale si limitava (e si limita) a prevedere che “la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”, senza chiarire se tale cessazione abbia efficacia ex nunc o ex tunc (così da travolgere, dunque, anche i rapporti pregressi). Autorevoli Autori (5) si schierarono per l’efficacia ex nunc delle declaratorie di incostituzionalità, ritenendola più coerente con l’intenzione dei costi-
(5) P. Calamandrei, La illegittimità costituzionale delle leggi nel processo civile, Padova, 1950, 72 ss.; F. Carnelutti Una pezza all’art. 136 della Costituzione?, in Riv. dir. proc., 1958, 239 ss.
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tuenti; ma la dottrina maggioritaria (6) fin da subito sostenne la diversa tesi dell’efficacia retroattiva delle suddette sentenze, fondando tale affermazione sul meccanismo incidentale di instaurazione del giudizio davanti alla Corte, introdotto dall’art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948. Nel 1953 l’intervento della legge n. 87 sul funzionamento della Corte costituzionale contribuì a radicalizzare le posizioni della dottrina nel senso della naturale efficacia retroattiva delle declaratorie di incostituzionalità: non tanto per effetto dell’art. 30, comma 3, di tale legge – il quale si limitò a stabilire che “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” – quanto soprattutto per effetto dell’art. 23, comma 3, della medesima legge, il quale introdusse il requisito della “rilevanza”, cioè richiese, per l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, che il giudizio a quo non possa trovare definizione indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale. Da quel momento in poi e per lungo tempo, la possibilità di escludere gli effetti retroattivi delle declaratorie di incostituzionalità ha trovato un ostacolo che sembrava insuperabile proprio nella struttura del giudizio incidentale di legittimità costituzionale e nel requisito della rilevanza necessaria della quaestio; rilevanza necessaria che sembrerebbe venir meno ove si negasse l’obbligatorietà della sentenza per il passato, e dunque anche con riferimento al processo principale (7). E’ lo stesso sistema del sindacato incidentale a presupporre, in altri termini, che la decisione della Corte sulla questione sollevata in via incidentale esplichi i propri effetti nel giudizio in cui è proposta
(6) Cfr.: G. Azzariti, Gli effetti delle pronunzie sulla costituzionalità delle leggi, in Riv. dir. proc., 1950, 185 ss.; E. Garbagnati, Sull’efficacia delle decisioni della Corte costituzionale, in AA.VV., Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, Padova, 1950, vol. IV, 192 ss.; C. Esposito, Il controllo giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia (1950), in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954. (7) Sulla produzione automatica, ope constitutionis, dell’effetto caducatorio delle sentenze di accoglimento v. per tutti, E.T. Liebman, Contenuto ed efficacia della decisione della Corte costituzionale, in Scritti Calamandrei, III, Padova, 1958, 413 e A.M. Sandulli, Natura, funzione ed effetti delle pronunce della Corte costituzionale sulla legittimità delle leggi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1959, 43. Più di recente, nello stesso senso, v. G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 259; ed ancora G. Zagrebelsky - V. Marceno’, Giustizia costituzionale, Bologna, 2012, 346 dove si afferma con chiarezza che non spetta alla Corte “disporre circa le conseguenze della declaratoria di incostituzionalità: la Corte si occupa della dichiarazione di illegittimità di una disposizione, ma non può gestire gli effetti che ne conseguono, né estendendoli né circoscrivendoli”.
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(a pena di escludere la rilevanza della quaestio); una sentenza della Corte che limitasse i propri effetti solo pro futuro rischierebbe, del resto, di disattendere quell’“esigenza di tutela del singolo che è connessa al sistema incidentale di controllo della costituzionalità della legge” (8). La stessa Corte costituzionale, in una serie di pronunce degli anni ‘70, riconobbe apertamente che “rilevanza della questione e divieto di applicazione di norme dichiarate costituzionalmente illegittime sono termini inscindibili” e che “come ai giudici è fatto obbligo di sospendere il giudizio provocando una pronuncia della Corte, ogni qual volta dovrebbero applicare norme di dubbia costituzionalità, così, simmetricamente, è ad essi proibito applicare norme che siano ormai state dichiarate costituzionalmente illegittime”. In una sentenza del 1989 (la n. 232) poi ripresa da una pronuncia ancor più recente (la n. 238 del 2014) fu proprio la Corte costituzionale ad affermare che “non può non apparire in contraddizione con la natura stessa di una sentenza pregiudiziale, e con la relazione necessaria che intercorre tra giudizio incidentale e giudizio principale, l’ipotesi in cui la sentenza emanata nel giudizio incidentale non possa trovare applicazione nel giudizio incidentale che l’ha provocata” (9) e a chiarire che “il diritto di ognuno ad avere per qualsiasi controversia un giudice e un giudizio verrebbe a svuotarsi dei suoi contenuti sostanziali se il giudice, il quale dubiti della legittimità di una norma che dovrebbe applicare, si veda rispondere dalla autorità giurisdizionale cui è tenuto a rivolgersi, che effettivamente la norma non è valida, ma che tale invalidità non ha effetto sulla controversia oggetto del giudizio principale, che dovrebbe quindi essere deciso con l’applicazione di una norma riconosciuta illegittima” (10). Nonostante l’apparente inscindibilità del legame tra giudizio a quo e decisione finale del giudizio ad quem, si è tuttavia fatta gradualmente strada, prima in dottrina e poi anche in alcune pronunce della Corte costituzionale, una tesi diversa, che riduce la rilevanza a semplice potenziale e astratta applicabilità della legge impugnata nel giudizio a quo come valutata dall’autorità procedente allo stato degli atti (11). In questa prospettiva, il requisito della
(8) Così A.A. Cervati, Incostituzionalità delle leggi ed efficacia delle sentenze delle Corti costituzionali austriaca, tedesca ed italiana, in Aa.Vv., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale, cit., 315. (9) Punto 4.1. del Considerato in diritto. (10) Punto 4.2. del Considerato in diritto. (11) Cfr.: V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II, Padova, 1984, 283 ss.
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rilevanza, quale filtro alla proposizione del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, finisce, in altri termini, per operare esclusivamente nei confronti del giudice a quo (che deve rimettere la questione alla Corte costituzionale, valutandone previamente la prospettabilità) ma non anche nei confronti della Corte ad quem per la propria decisione (12): quest’ultima ben potrebbe dunque adottare una decisione di merito i cui effetti caducatori non si producono sul giudizio a quo. Spezzato il tradizionale legame tra giudizio a quo e decisione del giudice ad quem, “è come se la rilevanza tenesse legati i due giudizi solo per un tempo definito, ovverosia solo fino a quando la Corte abbia valutato la mera plausibilità della rilevanza nell’esclusivo ambito del giudizio principale. Dopo, il caso concreto che ha provocato la questione di legittimità non influirebbe in alcun modo sulla decisione della Corte neanche sotto il profilo dei suoi effetti temporali” (13). La rilevanza andrebbe, in questa prospettiva, valutata verificando solo il rapporto tra la norma censurata e l’iter decisorio del processo principale come si presenta all’atto della rimessione della quaestio alla Corte; e in quest’ottica non potrebbe più considerarsi irrilevante la questione “la cui soluzione (in relazione al limite temporale dell’accoglimento) ne comporti solo ex post la non influenza nel processo di provenienza” (14). Come rilevato in dottrina (15), l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità solo ex nunc spiegherebbe comunque degli effetti. Si pensi alla dichiarazione di incostituzionalità ex nunc
(12) In tal senso M.R. Morelli, Incostituzionalità “sopravvenuta” (anche a ridosso di precedenti pronunzie monitorie, per successiva inerzia del legislatore) e declaratorie di illegittimità “dal momento in cui” (ovvero anche “ex nunc”). Alla ricerca di nuove tipologie di decisioni costituzionali di accoglimento al di là del dogma della retroattività dell’effetto, in Aa.Vv., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento ad esperienze straniere,Milano, 1989, 18. (13) Così, in senso critico, F. Gabriele - A.M. Nico, Osservazioni “a prima lettura” sulla sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2015 …, cit., i quali stigmatizzano gli effetti che l’itinerario indicato dalla sentenza potrebbe avere nel sistema di giustizia costituzionale incidentale. Una volta che la valutazione della Corte sulla rilevanza venga degradata a valutazione sulla mera “plausibilità” della stessa, il giudice a quo sarebbe indirettamente legittimato ad impegnarsi di meno nel valutare il nesso di pregiudizialità, trasformando il suo giudizio in un mero passaggio tecnico verso la Corte costituzionale. (14) Così R.M. Morelli, Incostituzionalità sopravvenuta … e declaratorie di incostituzionalità “dal momento in cui”, in AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento ad esperienze straniere, cit., 184. (15) Cfr.: A. Anzon Demmig, La Corte costituzionale “esce allo scoperto” e limita l’efficacia retroattiva delle proprie pronunzie di accoglimento, in Giur. Cost., 2015, 67 ss.
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di una prestazione tributaria: se pure ne è precluso il rimborso, è anche vero che per il futuro la medesima prestazione non sarà più dovuta. Resterebbero in questo senso ferme la rilevanza della quaestio e l’interesse a ricorrere al giudizio incidentale, posto che la parte ricorrente troverebbe comunque, ad avviso della Corte, “una parziale soddisfazione nella rimozione, sia pure solo pro futuro, della disposizione costituzionalmente illegittima” (16). 3. Il “governo” degli effetti temporali delle dichiarazioni di incostituzionalità: le linee evolutive di un ordinamento in cammino – Superato (o aggirato), nella prospettiva che si è indicata in chiusura del precedente paragrafo, l’ostacolo sistematico alla possibilità di escludere, o comunque di modulare e circoscrivere, gli effetti retroattivi delle pronunce di incostituzionalità, resta il problema di individuare quale istituzione – in assenza di una norma espressa che lo preveda – sia titolare di questo potere. Nel panorama europeo non mancano ordinamenti che riconoscono alle Corti omologhe alla nostra Corte costituzionale – pur in assenza di espresse previsioni normative in tal senso – un potere di bilanciamento tra valori costituzionali che si estende fino a comprendere la regolazione degli effetti temporali delle pronunce di incostituzionalità (17).
(16) Una parte della dottrina (M. Bignami, Cenni sugli effetti temporali della dichiarazione di incostituzionalità in un’innovativa pronuncia della Corte costituzionale, in www.questionegiustizia.it, 2015) ha rilevato che sarebbe stato più corretto escludere dalla retroattività almeno il giudizio a quo, per evitare di ledere il principio dell’affidamento alla sicurezza dei rapporti giuridici riposto dal giudice e dalle parti di tale giudizio. Tale alternativa, peraltro, avrebbe certamente sollevato conflitti con il principio di uguaglianza. (17) Il riferimento è anzitutto all’ordinamento tedesco, il cui Tribunale costituzionale ha inventato le sentenze di sola “incompatibilita” (spesso accusate di consentire al legislatore una certa leggerezza nella redazione delle leggi fiscali); sul tema v. A.A. Cervati, Incostituzionalità delle leggi, in AA.VV, Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento ad esperienze straniere, Milano, 1989, 291 ss.; E. Bertolini, Le sentenze del Bundesverfassungsgericht, tipologie ed effetti, in D. Butturini M. Nicolini, Tipologie ed effetti temporali delle decisioni di incostituzionalità. Percorsi di diritto interno e comparato, Napoli, 2014, 177 ss. Anche l’ordinamento austriaco riconosce alla Verfassungsgericht la facoltà di modulare gli effetti temporali delle proprie pronunce; cfr.: N. Sonntag, Effetti delle decisioni della Corte costituzionale: il caso austriaco, in D. Butturini – M. Nicolini, Tipologie ed effetti temporali delle decisioni di incostituzionalità. Percorsi di diritto interno e comparato, Napoli, 2014, 161 ss.; N. Sandulli, Osservazioni comparatistiche e brevi considerazioni su alcune recenti pronunce della Corte costituzionale, a margine del Seminario, in AA.VV., Effetti temporali, cit., 399 ss. Analoghe soluzioni sono state elaborate negli ordinamenti spagnolo e portoghese e per un quadro comparativo sintetico
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Per quanto riguarda il nostro ordinamento, nonostante una parte della dottrina abbia a lungo escluso – in assenza di una previsione espressa di tale potere in norme costituzionali – che la Corte potesse disporre degli effetti temporali delle proprie sentenze di accoglimento (18), già alla fine degli anni Sessanta (e in particolare nella sentenza n. 49 del 1970) la Corte costituzionale ha aperto alla possibilità di limitare i naturali effetti caducatori delle proprie pronunce in presenza di “limiti che per effetto di altre norme dell’ordinamento si oppongano, nei singoli casi, alla c.d. retroattività delle sentenze di accoglimento”. Questi limiti sono stati inizialmente individuati nei rapporti esauriti, ossia nelle situazioni giuridiche divenute irrevocabili per effetto di sentenze passate in giudicato, o per il sopravvenire di una causa di esaurimento del rapporto (prescrizione del diritto o decadenza dall’esercizio di un potere), e sono stati motivati con ragioni di certezza del diritto: il principio di retroattività delle sentenze di accoglimento ha trovato così un primo limite, nel senso di valere, ad avviso della Corte, “solo per i rapporti pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali restano regolati dalla norma dichiarata invalida” (19). Un altro limite è stato poi individuato
ma estremamente efficace delle principali esperienze di giustizia costituzionale europea ci sia consentito rinviare a: F. Gallarati, La Robin tax e l’”incostituzionalità d’ora in poi”: spunti di riflessione a margine della sentenza n. 10/2015, in federalismi.it, n. 19/2015, 19 ss. e a G. Fransoni, Il “dialogo fra le Corti” e la graduazione degli effetti delle sentenze sulla costituzionalità dei tributi: problemi e tecniche, in Rass. trib., 2015, 1143 ss. È appunto con l’occhio a queste esperienze europee che la sentenza sulla Robin tax conclude che “una simile regolazione degli effetti temporali deve essere consentita anche nel sistema italiano di giustizia costituzionale”. (18) Cfr.: A. Pace, Effetti temporali delle decisioni di accoglimento e tutela giurisdizionale del diritto di agire nei rapporti pendenti, in AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento ad esperienze straniere, Milano, 1989, 53 ss.; R. Romboli, Il principio generale dell’equilibrio finanziario nell’attività di bilanciamento dei valori costituzionali operata dalla Corte, in AA.VV., Le sentenze della Corte costituzionale e l’art. 81, u.c., della Costituzione, Milano, 1993, 196 ss. (19) Cfr.: Corte cost., sent. n. 139 del 1984. Peraltro, come rileva acutamente F. Tesauro, Gli effetti nel tempo della dichiarazione di illegittimità di norme tributarie e il diritto al rimborso dell’imposta dichiarata incostituzionale, in Rass. trib., 2015, 1093 ss., i rapporti esauriti e le altre situazioni irrevocabili (decadenza, prescrizione, giudicato, etc.) rimangono estranei agli effetti della declaratoria di incostituzionalità, non perché la retroattività di tale declaratoria sia limitata, ma perché operano altre norme, in base a cui tali rapporti e situazioni sopravvivono. L’Autore osserva, al riguardo: “La sentenza che, ad esempio, dichiara incostituzionale un tributo, opera retroattivamente, ma il contribuente non ha diritto al rimborso se non l’ha richiesto nel termine di decadenza previsto dalla legge
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nel principio di irretroattività della norma penale e, in particolare, nell’art. 25 Cost., il quale, per consolidato orientamento dottrinale e giurisprudenziale, osta all’applicazione di una norma penale più sfavorevole che sia il portato della dichiarazione di incostituzionalità di una norma penale di favore. È nata e si è sviluppata così l’idea che la Corte costituzionale sia chiamata ad operare un “bilanciamento” di valori e che questo bilanciamento possa condurre a sacrificare la retroattività della declaratoria di incostituzionalità: emergono, dall’evoluzione della giurisprudenza della Consulta (20), principi e valori costituzionali di fronte ai quali il generale principio dell’efficacia retroattiva della declaratorie di incostituzionalità cessa di essere assoluto per cedere il passo ad altre valutazioni. Nella sentenza n. 50 del 1989, la Corte costituzionale ha compiuto un passo ulteriore nel senso della limitazione degli effetti annullatori delle proprie pronunce, cominciando a prospettare una possibile incostituzionalità “sopravvenuta” attraverso pronunce di accoglimento “dal momento in cui” tale sopravvenienza in concreto si produce (21). Proseguendo su questa strada, negli
tributaria. In un simile caso, ciò che obbliga il giudice a respingere la domanda giudiziale non è affatto un presunto limite alla retroattività della dichiarazione di incostituzionalità (ossia il perdurare di efficacia della norma dichiarata incostituzionale), ma la decadenza. È applicando la norma che pone un termine di decadenza alla istanza di rimborso in sede amministrativa che il giudice dichiara inammissibile la domanda di rimborso. Il giudice decide la controversia non già applicando la norma tributaria dichiarata incostituzionale, ma la norma che prevede la decadenza del contribuente dal potere di richiedere il rimborso dell’indebito”. (20) Cfr., oltre alla ricordata sentenza n. 49 del 1970, le sentenze n. 127 del 1966 e n. 58 del 1967. (21) Per l’elaborazione della categoria della incostituzionalità sopravvenuta cfr.: M.R. Morelli, Incostituzionalità sopravvenuta e dichiarazione d’illegittimità costituzionale “dal momento in cui”. Spunti sull’ammissibilità di una nuova ipotesi tipologica di decisione costituzionale di accoglimento parziale, in Giust. Civ., 1987, 775 ss.; Id., Ancora in tema di incostituzionalità sopravvenuta: la sentenza-monito come preannuncio di incostituzionalità sopravveniente, in Giust. Civ., 1988, 592 ss.; Id., Incostituzionalità sopravvenuta e decisioni di accoglimento dal momento in cui (ovvero “ex nunc”): fumata bianca (La sentenza-deplorazione come possibile “dies a quo” dell’illegittimità “superveniens”), in Giust. Civ., 1988, 867 ss.; Id., Declaratoria di illegittimità dal momento in cui. Genesi e fondamento di una nuova tipologia di decisioni costituzionali di accoglimento, in Giur. Cost., 1988, 512 ss. Sul tema cfr. ancora: A. Cerri, Materiali e riflessioni sulle pronunzie di accoglimento “datate”, in Giur. Cost., 1988, 2347 ss.; S. Bartole, Strategie giudiziali per la delimitazione nel tempo degli effetti delle sentenze di accoglimento, in Dir. soc., 1989, 204 ss.; G. D’Orazio, Il legislatore e l’efficacia temporale delle sentenze costituzionali (nuovi orizzonti o falsi miraggi?), in AA.VV., Effetti temporali, cit., 374
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anni successivi la Corte ha utilizzato, agli stessi fini, un generoso armamentario di formule decisorie che, pur senza mettere in discussione il principio di fondo dell’efficacia retroattiva delle pronunce di accoglimento, ne hanno consentito il sostanziale adattamento ai casi concreti: pensiamo alle pronunce c.d. di “costituzionalità provvisoria” o di rigetto “precario” con monito ultimativo, volte a prefigurare un prossimo accoglimento ma anche a consentire al legislatore di intervenire in materia , o ancora alle sentenze “additive”, volte a porre rimedio all’inerzia legislativa attraverso la dichiarazione di incostituzionalità di previsioni legislative “nella parte in cui non prevedono” una certa disciplina (22). Progressivamente, e in linea con lo sviluppo della giurisprudenza costituzionale, anche la dottrina ha cominciato a elaborare il nuovo trend interpretativo e ad ammettere la possibilità di una modulazione degli effetti temporali delle pronunce di accoglimento (23), quando tale modulazione sia dovuta all’esigenza del bilanciamento con altri valori costituzionali (24).
ss.; M.R. Morelli, La sentenza n. 50 del febbraio 1989 e l’accoglimento di un nuovo modello decisorio nella declaratoria di incostituzionalità sopravvenuta, a seguito di precedente sentenza monitoria, ivi, 417 ss.; P. Pinardi, “Incostituzionalità sopravvenuta” e natura “eccezionale” della normativa denunciata: a margine di un’altra pronuncia di accoglimento solo potenzialmente retroattiva, in Giur. Cost., 1991, 1126 ss. (22) Per un’analisi di queste pronunce cfr.: A. Celotto - G. D’alessandro, Sentenze additive ad efficacia transitoria e nuove esigenze del giudizio in via principale, in Giur. Cost., 2004, 3929 ss. Sul tema cfr.: G. Zagrebelsky, Il controllo da parte della Corte costituzionale degli effetti temporali delle pronunce di incostituzionalità: possibilità e limiti, in AA.VV., Effetti temporali, cit., 219 ss.; A. Anzon Demmig, Nuove tecniche decisorie della Corte costituzionale, in Giur. Cost., 1992, 3199 ss. (23) Del resto, come rilevato nel punto 7 del Considerato in diritto nella sentenza n. 10 del 2015, se si ammette che “la decisione di illegittimità costituzionale può essere circoscritta solo ad alcuni aspetti della disposizione sottoposta a giudizio – come avviene ad esempio nelle pronunce manipolative – similmente la modulazione dell’intervento della Corte può riguardare la dimensione temporale della normativa impugnata, limitando gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale sul piano del tempo”. (24) Cfr.: C. Mezzanotte, Il contenimento della retroattività degli effetti delle sentenze di accoglimento come questione di diritto costituzionale sostanziale, in AA.VV., Effetti temporali delle sentenze, cit., 44 ss.. In senso ancora sostanzialmente contrario cfr.: invece G. Zagrebelsky, Il controllo da parte della Corte costituzionale degli effetti temporali delle pronunce di incostituzionalità: possibilità e limiti, ivi, 214 ss. Tale Autore rileva (p. 214) che negare la retroattività significherebbe “contraddire la concretezza del giudizio costituzionale e la sua finalizzazione alla difesa di posizioni già venute ad esistenza; privare di senso l’incidentalità dell’iniziativa; modificare la stessa condizione della legge incostituzionale e la natura del vizio corrispondente”.
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Si è affermata l’idea per cui quando gli effetti retroattivi della declaratoria di incostituzionalità sono suscettibili di produrre, nell’ordinamento, effetti ancor più incompatibili con la Costituzione, la Corte deve farsi carico, proprio per la sua stessa funzione istituzionale, degli esiti delle sue eventuali decisioni caducatorie, arrivando a disciplinarne gli effetti temporali (25). Sullo sfondo resta indubbiamente, non del tutto risolto, un tema tutt’altro che trascurabile: l’individuazione di ciò che può legittimamente costituire oggetto di bilanciamento da parte della Corte costituzionale. Tali dovrebbero essere, in effetti, solo i principi e non le regole processuali (26): ed è più che dubbio che la retroattività delle declaratorie di incostituzionalità non rientri tra le seconde. E, del resto, lo stesso equilibrio di bilancio è dubbio che possa effettivamente considerarsi un principio e non piuttosto una norma sulla normazione, come tale strumentale al perseguimento dei principi fondamentali della Costituzione (27). Nella pronuncia sulla Robin tax, come vedremo, la Corte costituzionale taglia alla radice questo nodo gordiano, qualificando espressamente la retroattività come un principio; e su questa base ne afferma il possibile contemperamento con altri principi sostanziali e dunque anche il possibile sacrificio.
(25) () In questa prospettiva F. Modugno, I criteri della distinzione diacronica tra norme e disposizioni in sede di giustizia costituzionale, in Quaderni costituzionali, 1989, 39 osserva che è compito della Corte costituzionale “eliminare bensì le leggi incostituzionali dall’ordinamento, ma senza produrre situazioni di maggiore incostituzionalità.” Nello stesso senso M. Ruotolo - M. Caredda, Virtualità e limiti del potere di regolazione degli effetti temporali delle decisioni di incostituzionalità. A proposito della pronuncia sulla c.d. Robin tax, cit., osservano che “se si ritiene che la funzione del giudice delle leggi sia quella di dare attuazione ai principi costituzionali laddove l’opera del legislatore sia stata causa di loro pregiudizio, davvero paradossale sarebbe che, come conseguenza diretta del suo intervento, producesse essa stessa una violazione di altri principi costituzionali tanto grave da creare una situazione di maggiore incostituzionalità. Se questo è il presupposto, la manipolazione dell’efficacia tipica può costituire uno strumento utile allo scopo di evitare la potenziale maggiore incostituzionalità”. (26) In tal senso v. R. Romboli, Il principio generale di equilibrio finanziario nell’attività di bilanciamento dei valori costituzionali operata dalla Corte, in AA.VV., Le sentenze della Corte costituzionale e l’art. 81, ultimo comma, della Costituzione. Atti del Seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta nei giorni 8 e 9 novembre 1991, Milano, 1993, 185 ss. (27) Come rilevato da G. Bizioli, L’incostituzionalità della Robin Hood tax fra discriminazione qualitativa dei redditi ed equilibrio di bilancio, in Rass. trib., 2015, 1079 ss.
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In questo trend evolutivo, la Consulta viene dunque ad ammettere e a rivendicare il proprio ruolo, a volte anche scomodo, di “equilibratore” del sistema costituzionale: il ruolo, cioè, di mediare tra il compito di restaurare la legalità costituzionale violata e le necessità di evitare che da una eventuale declaratoria di incostituzionalità possano derivare conseguenze negative ancor più gravi nei confronti di altri interessi e valori anch’essi protetti dalla Costituzione. Da qui il difficile equilibrismo, e non solo in materia fiscale (28), tra la rinuncia a giudicare, cui la Corte potrebbe essere indotta valutando gli inconvenienti che potrebbero derivare da una eventuale pronuncia di accoglimento (29) e la pronuncia di sentenze di incostituzionalità efficaci solo pro futuro (30). Naturalmente, una volta che si affermi la titolarità, e dunque il legittimo esercizio, di questo potere di bilanciamento – sempre più politico e sempre meno giurisdizionale (31) – diventa indispensabile poter controllare la ragionevolezza dell’operato della Corte costituzionale (le cui decisioni, come noto,
(28) Numerose sono le pronunce in cui la Corte costituzionale ha dovuto modulare, anche in ambito extrafiscale, gli effetti temporali di una dichiarazione di incostituzionalità; una fra tutte, la sentenza n. 1 del 2014 con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge elettorale n. 270 del 2005 (il c.d. porcellum), ritenendo però di dover “valutare l’eventuale necessità di una graduazione degli effetti temporali della propria decisione sui rapporti pendenti”, in ragione dell’”impatto che una tale pronuncia determina su altri principi costituzionali”. Sulle questioni sollevate da tale pronuncia – che esula dai confini della presente trattazione – sia consentito rinviare, per tutti, a B. Caravita, La riforma elettorale alla luce della sent. 1/2014, in Federalismi.it, 1/2014: P. Carnevale, La Corte vince, ma non (sempre) convince. Riflessioni intorno ad alcuni profili della “storica” sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale, in Nomos, 3/2015; G. Serges, Spunti di giustizia costituzionale a margine della declaratoria di illegittimità della legge elettorale, in Rivista telematica dell’AIC, 2014. (29) Rischio efficacemente rilevato già nel corso del Seminario di studi promosso dalla Consulta il 23 e 24 novembre 1988; cfr.: AA.VV. Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento ad esperienze straniere, Milano, 1989. (30) Peraltro, la dottrina (cfr.: D. Stevanato, Illegittimità dell’incremento IRES su società petrolifere (Robin Hood tax) e divieto di rimborso, in Dialoghi tributari, 2015, 46 ss..) non ha mancato di rilevare l’inconferenza dei richiami che la Corte costituzionale fa, nella sentenza sulla Robin tax, ai propri precedenti in termini di postergazione degli effetti temporali della pronuncia di incostituzionalità, posto che in tali precedenti – in senso del tutto opposto al caso Robin tax – tale postergazione serviva a salvaguardare (e non a ridurre) diritti e prestazioni che sarebbero stati lesi dalla declaratoria di incostituzionalità. (31) E sul maggior peso che il profilo politico va assumendo nel giudizio costituzionale si possono leggere le osservazioni di A. Ruggeri, Sliding doors per la incidentalità nel processo costituzionale (a margine di Corte cost. n. 10 del 2015), in Forum di Quaderni costituzionali, 2015.
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non sono più appellabili) e governare il rischio non tanto della discrezionalità valutativa della Corte, ormai sostanzialmente ammessa (32), ma dell’arbitrio delle sue pronunce (33) (Quis custodiet custodes?). Proprio dal rischio della scarsa prevedibilità del se, del quomodo e dei limiti dell’esercizio del potere dispositivo della Corte in merito alla retroattività degli effetti della declaratoria di incostituzionalità, nasce pertanto l’esigenza che le ragioni del bilanciamento emergano con tutta evidenza e che la scelta della modulazione degli effetti sia sempre sorretta da motivazioni esplicite e persuasive: “Meglio che sia manifesto il valore in funzione del quale la retroattività è stata limitata e che sia verificabile se la misura di tale limitazione è congrua rispetto al valore tutelato” (34). 4. Il caso Robin tax: cronaca di una morte annunciata? – Il paradigma, sotto il profilo fiscale, della giurisprudenza costituzionale che anima le riflessioni di queste pagine (35) è rappresentato, come ricordato già in premessa,
(32) Già M.S. Giannini, Considerazioni sul tema, in AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale, cit., 68 scriveva che “non ci sarebbe da menare scandalo se la Corte costituzionale uscisse con delle sentenze di annullamento completamente discrezionali, perché ciò sarebbe solo manifestazione di quella regola di fondo che essa ha una discrezionalità valutativa”. In senso contrario, peraltro, A. Pizzorusso, Soluzioni tecniche per graduare gli effetti nel tempo delle decisioni di accoglimento della Corte costituzionale, in AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale, cit., 93 afferma che tale potere sarebbe incompatibile “con il carattere spiccatamente giurisdizionale che alla funzione svolta dalla Corte italiana deriva (a parte ogni altra considerazione) dal vincolo che la lega ad un giudizio ordinario”. (33) Consideriamo, ad esempio, che la strada aperta, in tema di graduazione degli effetti e bilanciamento con l’art. 81 Cost., dalla sentenza sulla Robin tax è stata abbandonata dalla Corte già nella successiva sentenza n. 70 dello stesso 2015 (sulla quale v. A. Barbera, La sentenza relativa al blocco pensionistico: una brutta pagina per la Corte, in www.rivistaaic.it.). Tale ultima sentenza ha infatti dichiarato incostituzionale il blocco delle indicizzazioni delle pensioni, attribuendo a tale declaratoria la consueta efficacia ex tunc e tacendo sui riflessi di tale declaratoria ai sensi dell’art. 81 Cost. e dell’equilibrio finanziario. (34) S. Panunzio, Incostituzionalità “sopravvenuta”, incostituzionalità “progressiva” ed effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale, in AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale, cit., 284. Sulla necessità di una adeguata motivazione delle decisioni della Corte v. anche A.A. Cervati, Incostituzionalità delle leggi ed efficacia delle sentenze delle Corti costituzionali austriaca, tedesca ed italiana, in AA.VV., Effetti temporali, cit., 312 ss. (35) E sulla quale si veda M. Benvenuti, La Corte costituzionale, in F. Angelini M. Benvenuti (a cura di), Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, Atti del Convegno di Roma, 26-27 aprile 2012, Napoli 2012, 375 ss.; Id., Brevi considerazioni intorno al ricorso all’argomento della crisi economica nella più recente giurisprudenza costituzionale, in Giur. Cost., 2013, 969 ss.
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dalla nota sentenza n. 10 del 2015, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la c.d. Robin tax, ossia l’addizionale all’IRES che era stata introdotta, ai sensi dell’art. 81, commi 16 e seguenti, del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito con modificazioni in legge n. 133 del 2008, a carico delle imprese operanti nel settore energetico e petrolifero che, nel periodo d’imposta precedente, avessero registrato ricavi superiori a una determinata soglia (36). La Robin tax era stata concepita dal Governo dell’epoca (37) come un prelievo straordinario volto a redistribuire l’onere fiscale dai consumatori alle imprese, colpendo gli extraprofitti realizzati, nella fase di crisi economica e a causa del contemporaneo aumento del prezzo del petrolio e delle materie prime, dalle imprese operanti nel settore energetico. Questa ratio del prelievo, sul quale si erano peraltro fin da subito appuntate le censure di incostituzionalità della dottrina (38), emergeva con chiarezza dalla lettera del comma 16 del citato art. 81, il quale prevedeva l’applicazione di quella maggiorazione dell’IRES “in dipendenza dell’andamento dell’economia e dell’impatto sociale dell’aumento dei prezzi e delle tariffe del settore energetico”. La previsione dell’addizionale all’IRES si completava, ai sensi dell’art. 18 dello stesso decreto-legge n. 112 del 2008, e coerentemente con l’intenzione di trasferire l’onere fiscale sulle imprese, con l’espresso divieto di traslare l’imposta sui prezzi al consumo. La questione di legittimità costituzionale sulla Robin tax era stata sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia (39), adita da una società di gestione di una rete di distributori di carburante in sede di impugnazione avverso il silenzio-rifiuto dell’ente impositore in ordine all’istanza di rimborso di quanto versato a titolo di Robin tax.
(36) Tale art. 81 prevedeva, in dettaglio, che “in dipendenza dell’andamento dell’economia e dell’impatto sociale dell’aumento dei prezzi e delle tariffe, l’aliquota dell’IRES è applicata con una addizionale di 5,5 punti percentuali per i soggetti che abbiano conseguito nel periodo di imposta precedente un volume di ricavi superiore a 25 milioni di euro”. (37) Si trattava del Governo Berlusconi, con il prof. Giulio Tremonti ministro delle Finanze. (38) Per tutti v. G. Marongiu, Robin Hood tax; taxation without “constitutional principles”, in Rass. trib., 2008, 1335 ss.; D. Stevanato, La “Robin Hood tax” e i limiti alla discrezionalità del legislatore, in GT – Rivista di giurisprudenza tributaria, 2008, 841 ss. (39) Cfr.: Comm. Trib. Prov. Reggio Emilia, ord. 6 marzo 2011, in Dir. prat. trib., 2011, 1185 ss., con nota di G. Marongiu, La c.d. “Robin tax” al vaglio della Corte costituzionale.
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Il giudice a quo aveva evidenziato una pluralità di punti di contrasto tra la disciplina della Robin tax e la Costituzione: contrasto con l’art. 77 Cost., posto che il decreto-legge che introduceva la nuova misura fiscale non aveva i requisiti di necessità e di urgenza, visto che prevedeva un’addizionale “a sistema”, cioè istituita a tempo illimitato; contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., perché la Robin tax introduceva una ingiustificata disparità di trattamento a scapito delle imprese operanti nei settori soggetti all’addizionale; contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost., in quanto la Robin tax rendeva più gravosa l’iniziativa economica a carico delle imprese del settore energetico e, tra queste, a carico di quelle collocate nella fase di distribuzione, per le quali si prevedeva il divieto della traslazione del tributo (e, dunque, una fissazione sostanzialmente autoritativa del prezzo, in aperto contrasto con il principio di libera concorrenza). Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di questo prelievo straordinario, la Corte costituzionale ha rilevato anzitutto il contrasto tra la ratio del tributo – dichiaratamente volto a colpire i proventi derivanti dalla particolare congiuntura verificatasi nel settore energetico – e la sua struttura, volta a colpire, con la maggiorazione di aliquota, l’intero reddito delle imprese del settore energetico e non i soli extraprofitti. In secondo luogo, la Corte ha evidenziato il contrasto tra la natura asseritamente eccezionale del prelievo e il suo carattere strutturale, slegato dal perdurare della situazione che ne aveva giustificato l’introduzione; e infine ne ha contestato l’asserita finalità solidale, posto che gli oneri fiscali gravanti sulle imprese avrebbero potuto in realtà essere traslati sui prezzi al consumo, penalizzando proprio quei consumatori che dovevano invece beneficiare della Robin tax. Dunque, la quaestio legitimitatis è stata accolta e, nel merito, le ragioni dell’incostituzionalità sono state, in definitiva, ravvisate in un complessivo vizio di “irragionevolezza” dell’addizionale (40). Ad avviso della Corte, l’obiettivo perseguito dal legislatore – introdurre un regime fiscale differenziato per soggetti
(40) Sul principio di ragionevolezza v. A. Cerri, Ragionevolezza delle leggi, in Enc. giur., XXV, Roma, 1991, 1 ss.; L. Paladin, Esiste un “principio di ragionevolezza” nella giurisprudenza costituzionale?, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Atti del Seminario svoltosi presso il Palazzo della Consulta, 13-14 ottobre 1992, Milano, 1994, 163 ss.; L. Paladin, Ragionevolezza (principio di), in Enc. del dir., Aggiornam., I, Milano, 1997, 899 ss.; G. Scaccia, Gli “strumenti” della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000; A. Morrone, Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001; F. Modugno, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Napoli, 2007.
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meno esposti agli effetti della crisi, per la loro veste di oligopolisti e per la natura anelastica della domanda dei beni dagli stessi prodotti – poteva anche considerarsi legittimo, ma i caratteri del prelievo aggiuntivo introdotto non erano idonei, nella fattispecie, a perseguire quel fine: in particolare, la Robin tax avrebbe dovuto colpire i soli extraprofitti determinati dalla particolare congiuntura economica e non tutto il reddito d’impresa; avrebbe dovuto avere natura temporanea; e il divieto di traslazione del tributo avrebbe dovuto operare in modo tale da tutelare in modo effettivo le propagandate finalità redistributive (41). Al di là delle pur rilevanti ragioni di merito che hanno indotto la Corte a dichiarare incostituzionale la Robin tax (42), quel che in questa sede interessa è l’autodisciplina degli effetti temporali di questa pronuncia di incostituzionalità. Nella sentenza emerge infatti, con tutta evidenza, la consapevolezza del nuovo ruolo “politico” (43) di bilanciamento assunto dalla Corte, preoccupata degli effetti di una retroattività che determinerebbe violazione di un altro vincolo costituzionale: quello dell’equilibrio di bilancio. 5. I presupposti necessari cui la stessa Corte costituzionale subordina il potere di modulare gli effetti temporali delle proprie decisioni – Nella sentenza sulla Robin tax la Corte individua due presupposti precisi al proprio potere di modulare gli effetti temporali delle proprie decisioni: la “stretta necessità” e la “stretta proporzionalità” (44). Il primo presupposto è rappresentato dall’”impellente necessità di tutelare uno o più principi costituzionali i quali, altrimenti, risulterebbero irrimediabilmente compromessi da una decisione di mero accoglimento”; il secondo con-
(41) Sul ruolo svolto, nelle argomentazioni utilizzate dalla Corte costituzionale, dalla funzione redistributiva e dalla traslazione dell’addizionale v. diffusamente L. Salvini, Traslazione e rimborso delle imposte sul reddito in Corte cost. n. 10/2015, in Rass. Trib., 2015, 1158 ss. (42) E sulle quali, per alcune osservazioni di particolare interesse, sia consentito rinviare ad A. Fedele, Principio di eguaglianza ed apprezzamento delle “diverse situazioni dei contribuenti” in tema di legittimità costituzionale della c.d. “Robin Hood Tax”, in Riv. dir. trib., 2015. (43) Di ruolo di governo parla, senza mezzi termini, R. Lupi, Corte costituzionale tra diritto e politica, in Dialoghi tributari, n. 1 del 2015, imputando proprio al modello ereditato dal diritto giurisdizionale e al conseguente sviluppo della malattia del “normativismo” tanto la difficoltà dei giuristi di comprendere la sentenza sulla Robin tax quanto le remore della Corte costituzionale ad esplicitare il proprio ruolo politico (consistente “nell’aggiustare giuridicamente gli effetti delle proprie censure alle scelte politiche del legislatore”). (44) Su questi presupposti v. S.F. Cociani, L’horror vacui e l’irretroattività degli effetti delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, in Riv. dir. trib., 2015, II.
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siste nella “circostanza che la compressione degli effetti retroattivi sia limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il contemperamento dei valori in gioco”. Il principio della proporzionalità sembra alquanto difficile da maneggiare e da controllare, attingendo “a quello strumentario di ‘generic constitutional law’ che alcune volte non si sviluppa secundum, ma praeter – se non proprio contra – constitutionem” (45). Tipicamente utilizzato dalla Corte di Giustizia, il test di proporzionalità si traduce in una verifica di congruenza tra obiettivi assegnati alla norma e concreta idoneità di quest’ultima a realizzarli; si risolve in una “valutazione di efficienza strumentale e gradualistica della legge” rispetto ai fini perseguiti (46). Ma questi fini non sempre sono chiaramente determinati e se, ad esempio, nel caso della Robin tax la Corte costituzionale li avesse interpretati in modo diverso, ravvisandoli nell’esercizio della potestà tributaria in funzione di tutela ambientale, l’intervento del legislatore nazionale avrebbe forse potuto salvarsi dalle censure di incostituzionalità. Quanto al profilo della “stretta necessità”, nella sentenza sulla Robin tax viene valutata l’esigenza di tutelare il principio dell’equilibrio di bilancio di cui all’art 81 Cost., i principi di uguaglianza e solidarietà di cui agli artt. 2 e 3 Cost., il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. Riservandoci di soffermare la nostra attenzione sul principio dell’equilibrio di bilancio nel prossimo paragrafo, ci permettiamo di osservare fin da ora, in linea generale, che qualsiasi sentenza che dichiari l’incostituzionalità di un tributo “costa”: dunque, se portassimo alle estreme conseguenze il peso che l’equilibrio di bilancio sta assumendo nelle valutazioni della Corte, finiremmo per “congelare” il sistema tributario, poiché tutte le norme in materia di entrate pubbliche – anche se incostituzionali e confiscatorie – impattando sulle finanze pubbliche acquisterebbero una sorta di immunità, almeno per il passato, con il rischio concreto che “le ragioni dell’emergenza portino all’emergenza della ragione” (47).
(45) Così A. Pin - E. Longo, La sentenza n. 10 del 2015: un giudizio di “proporzionalità” in concreto o realistico?, in www.forumcostituzionale.it (46) Così P. Boria, L’illegittimità costituzionale della “Robin Hood Tax” e l’enunciazione di alcuni principi informatori del sistema di finanza pubblica, in GT – Rivista di Giurisprudenza tributaria, 2015, 384 ss. (47) Così M. Benvenuti, La Corte costituzionale, ne Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, a cura di F. Angelini - M. Benvenuti, Napoli, 2012, 396.
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In realtà, il tema delle declaratorie di incostituzionalità suscettibili di produrre nuove o maggiori spese non è certo nuovo (48) e non può ritenersi circoscritto alle pronunce in materia di tributi: si è posto, infatti, anche in passato, in particolare con riferimento alle c.d. sentenze additive di prestazione, cioè alle sentenze con le quali la Consulta, proprio in attuazione della Costituzione, ha imposto ai soggetti pubblici di rendere alcune prestazioni o di ampliare la platea dei destinatari delle stesse, con un evidente effetto di aggravio sui bilanci pubblici. Tutta la giurisprudenza costituzionale della fine degli anni ’80 in tema dl diritto alla salute – diritto “costoso” per eccellenza – e di prestazioni sociali si muove in quest’orbita (49). Dunque la questione non è nuova, ma è indubbio che le declaratorie di incostituzionalità in materia tributaria pongano con sempre maggiore frequenza il problema dei costi delle decisioni, soprattutto alla luce del nuovo art. 81 Cost.: ed usando le parole della dottrina (50) è sempre più forte il pericolo che la Corte, dovendo ponderare l’impatto delle sue decisioni sulla spesa pubblica, si trovi a “scendere in un agone a lei non proprio” e a doversi far carico di ragioni di convenienza che dovrebbero più opportunamente far carico al legislatore. 6. L’evoluzione dell’art. 81 Cost. e il principio dell’equilibrio di bilancio: il fulcro di una leva che impone un nuovo bilanciamento degli interessi nel caso di sentenze costituzionali “onerose” –Nell’affermazione del potere della Corte di governare gli effetti temporali delle proprie decisioni un ruolo importante sembra averlo giocato, come accennato, l’evoluzione dell’art. 81 Cost. Il testo originario dell’art. 81, ultimo comma, Cost. consentiva di escludere vincoli “di copertura” a carico della Corte costituzionale (51): tale articolo,
(48) Cfr.: D. Sorace - M. Torricelli, La tutela degli interessi tra Corte Costituzionale e Parlamento: le sentenze della Corte che provocano nuove o maggiori spese, in Aa.Vv., Le istituzioni della recessione, Bologna, 1984, 349 ss.; D. Butturini, Caratteri e tipologie delle sentenze additive di prestazione, in D. Butturini - M. Nicolini, Tipologie ed effetti temporali, cit. (49) E per un interessante excursus sul tema v. D. Morana, I rapporti tra Parlamento e Corte costituzionale sulla garanzia dei diritti sociali, www.amministrazioneincammino.luiss.it. (50) v. B. Caravita, La modifica della efficacia temporale delle sentenze della Corte costituzionale: limiti pratici e teorici, in Aa.Vv., Effetti temporali, cit., 267. (51) Sul tema v. C. Mortati, Appunti per uno studio sui rimedi giurisdizionali contro comportamenti omissivi del legislatore, in Id., Raccolta di scritti, III, Milano, 1972, 964; V.
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in altri termini, non impediva alla Corte di adottare sentenze “che costassero”, né la Corte – dal canto suo – doveva assumersi la responsabilità di indicare i mezzi di copertura degli oneri che potessero derivare dalle proprie pronunce. In materia di bilancio vigeva una “riserva della politica” (52): solo al legislatore e alla sua discrezionalità spettava il compito di reperire e destinare le risorse finanziarie. Certamente, anche nella vigenza di quel testo dell’art. 81 non sfuggiva il rischio che eventuali sentenze “onerose” della Corte costituzionale potessero tradursi in “una macchina possente di dilatazione del disavanzo pubblico” (53) e già si ammetteva l’opportunità di contemperare le suddette decisioni “onerose” con la discrezionalità dell’organo politico nel trovare e assegnare le necessarie coperture. Tipicamente le sentenze additive di prestazione determinavano un aggravio dei conti pubblici, per effetto della nuova prestazione che la Corte costituzionale aggiungeva alla disciplina legislativa caduta sotto le sue censure. È tuttavia indubbio che proprio con l’evoluzione dell’art. 81 Cost. sia divenuta più pressante la necessità, per la Corte, di mediare tra l’”onerosità” delle proprie declaratorie di incostituzionalità e gli altri valori costituzionalmente tutelati. Non è un caso che nell’ultimo periodo la Consulta sia stata molto cauta nel ricorrere alle sentenze additive di prestazione, nella consapevolezza dell’incidenza che queste pronunce sono destinate ad avere sui bilanci pubblici (54); anzi, in questo atteggiamento di self restraint, come è stato osservato (55), la Corte costituzionale ha addirittura ancora una volta anticipato il legislatore e gli effetti della revisione dell’art. 81 Cost.
Onida, Giudizio di costituzionalità delle leggi e responsabilità finanziaria del Parlamento, in Le sentenze della Corte costituzionale e l’art. 81, ult. co., della Costituzione, Atti del Seminario di Studi presso la Corte costituzionale (8-9 novembre 1991), Milano, 1991, 19 ss.; M. Luciani, Art. 81 della Costituzione e decisioni della Corte costituzionale, in Le sentenze della Corte costituzionale, cit., 53 ss. (52) Cfr.. G. Zagrebelsky, Problemi in ordine ai costi delle sentenze costituzionali, in AA.VV., Le sentenze della Corte costituzionale e l’art. 81, u.c., Cost., cit, 123 ss. (53) Queste le parole di Guido Carli pronunciate nel 1990 e citate da L. Elia, Intervento, in AA.VV., Le sentenze della Corte costituzionale, cit., 95. (54) In tal senso si vedano le osservazioni di G. Silvestri, La Corte costituzionale italiana e la portata di una dichiarazione di illegittimità costituzionale, in www.cortecostituzionale.it, 5. (55) V. D. Morana, I rapporti tra Parlamento e Corte costituzionale nella garanzia dei diritti sociali, in www.amministrazioneincammino.it, 21, la quale rileva come la giurisprudenza costituzionale abbia avallato “i processi di più rigoroso controllo della spesa pubblica messi in atto dal decisore politico, ancor prima della loro attuazione formale”.
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L’art. 81, comma 1, Cost., come sostituito dall’art. 6 della legge costituzionale n. 1 del 2012 (56) stabilisce oggi che “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”. Alla luce di questa nuova formulazione, le istituzioni dello Stato devono dunque farsi carico anche di valutazioni di natura economico-politica, legate alla particolare situazione di crisi economica nella quale possono trovarsi ad operare. E naturalmente, mentre l’art. 81 Cost. cambiava, il legislatore non si è fatto carico dei problemi posti dal nuovo testo: dunque è stato lasciato ancora una volta alla Corte costituzionale il difficile compito di trovare un modo per superare l’impasse. Certo è che proprio questo passaggio sembra aver accentuato il ruolo “politico” della Corte costituzionale, da sempre chiamata a custodire la Costituzione nella sua integrità, ma oggi chiamata anche a rispondere delle conseguenze economiche delle proprie decisioni, anche perché – come è stato osservato – “ se una cosa la crisi ha insegnato, è che l’equilibrio finanziario è esso stesso garanzia dei diritti e non può essere visto solo in contrapposizione ad essi, giacché solo uno Stato con un bilancio in grado di reggere sotto il profilo finanziario può soddisfarli concretamente, né è (più) possibile pensare allo Stato sociale se non in termini di welfare sostenibile” (57). Il rischio sottostante al riconoscimento del potere di modulare gli effetti temporali delle proprie decisioni resta però evidente ed è quello di attribuire alla Corte costituzionale un potere più ampio di quello riconosciuto allo
Nello stesso senso F. Bilancia, Crisi economica e asimmetrie territoriali nella garanzia dei diritti sociali tra mercato unico e Unione monetaria, in Rivista AIC, n. 2/2014, 6 osserva che i vincoli finanziari introdotti dalla legge costituzionale n. 2 del 2012 (principio del pareggio di bilancio) e dalla legge di attuazione n. 243 dello stesso anno “sono stati assunti di fatto come parametro di giudizio già a partire dall’approvazione dei nuovi testi normativi, ma anticipatamente rispetto alla loro effettiva entrata in vigore”. (56) Si tratta di un intervento normativo molto discusso in dottrina, anche per la difficoltà di elaborare compiutamente portata ed effetti delle modifiche introdotte. Sul tema sia consentito rinviare a: N. Lupo, Costituzione europea, pareggio di bilancio ed equità tra le generazioni. Notazioni sparse, in www.amministrazioneincammino.it; R. Bifulco, Jefferson, Madison e il momento costituzionale dell’Unione. A proposito della riforma costituzionale sull’equilibrio di bilancio, in Rivista AIC, n. 2/2012; G.M. Salerno, Alla prova del nove la via europea e sovranazionale per la costituzionalizzazione del principio del pareggio di bilancio, in Guida al diritto, n. 4/2012; I. Ciolli, I Paesi dell’eurozona e i vincoli di bilancio. Quando l’emergenza economica fa saltare gli strumenti normativi ordinari, in Rivista AIC, n. 1/2012. (57) Così S. Scagliarini, Equilibrio di bilancio e giustizia costituzionale – Diritti e risorse: bilanciamento ineguale o ineguaglianza all’esito del bilanciamento? in Giur. it., 2015, 1324 ss.
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stesso Parlamento; Parlamento che non può esso stesso disporre pienamente dell’efficacia delle leggi, essendo numerosi i limiti al riguardo previsti in Costituzione (58). 7. La visione “unitaria” del sistema costituzionale quale bussola per la modulazione degli effetti delle declaratorie di incostituzionalità e le possibilità di una exit strategy diversa – Il peso delle valutazioni operate dalla Suprema Corte sul tema di una possibile modulazione degli effetti delle proprie pronunce – modulazione volta ad evitare che una declaratoria di incostituzionalità trasmodi in un ancor più incostituzionale effetto lesivo di altri principi di rango costituzionale – è del tutto evidente nelle considerazioni espresse nella sentenza sulla Robin tax. Nel punto 8 del Considerato in diritto di tale sentenza leggiamo che: “L’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari … determinerebbe uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venir meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale e, in particolare, delle previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità in cui tale entrata è stata considerata a regime”. La Corte rivendica dunque apertamente a sé e solo a sé (59) il bilanciamento tra valori costituzionali (60) – forse “attribuendosi un potere che il legislatore non le ha espressamente assegnato” (61) – perché considera tale bilanciamento quale espressione del proprio compito di garantire la Costituzione come “un tutto unitario”; e, sulla base di questa rivendicazione, modella gli effetti temporali della propria pronuncia di incostituzionalità.
(58) S. Fois, Considerazioni sul tema, in AA.VV., Effetti temporali, cit., 36. (59) Superando dunque l’interpretazione della ricordata sentenza n. 49 del 1970, favorevole alla spettanza ai giudici comuni dell’individuazione di questi limiti. (60) Come efficacemente sottolineato da F. Gallo nella relazione sull’attività della Corte costituzionale relativa all’anno 2012 (reperibile in www.cortecostituzionale.it), si assiste “ad una marcata tendenza a trasferire in sede giurisdizionale decisioni politiche complesse e difficili bilanciamenti di interesse” e le Corti costituzionali, nelle “società frammentate e pluralistiche” delle democrazie occidentali “sono investite sempre più spesso del compito di ricomporre in sede giurisdizionale interessi non sufficientemente aggregati e sintetizzati nelle sedi proprie della decisione politica”, con conseguente “sovraesposizione politica” delle Corti stesse. (61) Cfr.: R. Bin, Quando i precedenti degradano a citazioni e i principi e le regole evaporano in principi, cit.
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Anzi nella sentenza n. 10 del 2015 la Consulta fa qualcosa di più: cerca, con un difficile equilibrismo, di saldare le esigenze del rigore finanziario e, dunque, del contenimento della spesa con le opposte esigenze della tutela dei diritti sociali, affermando che “le conseguenze complessive della rimozione con effetto retroattivo della normativa impugnata finirebbero per richiedere, in un periodo di perdurante crisi economica e finanziaria che pesa sulle fasce più deboli, una irragionevole redistribuzione della ricchezza a vantaggio di quegli operatori economici che possono avere invece beneficiato di una congiuntura favorevole”, determinando così “un irrimediabile pregiudizio delle esigenze di solidarietà sociale con grave violazione degli artt. 2 e 3 Cost.” Questo sorta di doppio salto mortale della Corte costituzionale è stato vivacemente criticato (62), in quanto basato sull’idea che quel che avrebbe dovuto esser restituito alle imprese del settore energetico in conseguenza della declaratoria di incostituzionalità della Robin tax sarebbe automaticamente ricaduto su altri contribuenti e altre classi sociali (senza neanche prospettare la possibilità che potesse viceversa tradursi in tagli di spesa inefficiente o in nuovi tributi a carico di contribuenti o redditi suscettibili di essere qualitativamente discriminati, in modo conforme a Costituzione). Volendo leggere in positivo l’impianto argomentativo della Corte, si potrebbe però rilevare che esso sottolinea come il principio di equilibrio di bilancio non sia concepito dalla Consulta come un maglio di fronte al quale tutto può o deve cadere (63), poiché occorre al contrario verificare e ponderare, di volta in volta, cosa la spesa pubblica possa e debba finanziare e quali sono le spese che è possibile “tagliare” in considerazione del complesso dei valori costituzionali. Sotto questo profilo, la Corte lascia dunque chiaramente intendere che le sue valutazioni, nelle sentenze di “spesa”, non sono e non saranno guidate solo dalla considerazione di quanto “costerebbe” una certa decisione, ma anche dal peso dei diritti che quella spesa deve garantire e tutelare.
(62) Cfr.: D. Stevanato, “Robin Hood Tax”: un’incostituzionalità a futura memoria, in Dialoghi tributari, 2015, 46 ss. (63) Deve dunque escludersi che “dopo la modifica dell’art. 81 Cost., la Corte sia tenuta ad applicare il principio di equilibrio di bilancio come una sorta di super-valore costituzionale, capace cioè di prevalere in modo assoluto, ovvero senza adeguata e ragionevole ponderazione, sui diritti costituzionalmente garantiti allorché questi comportino oneri finanziari che alterano il preesistente quadro di riferimento degli impegni di finanza pubblica collegati ad un determinato obiettivo di bilancio” (così G. Salerno, La sentenza n. 70 del 2015: una pronuncia non a sorpresa e da rispettare integralmente, in www.federalismi.it)
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Sotto questo profilo, il tentativo di “salvare capra e cavoli” operato dalla Consulta appare meritorio, poiché ad esso è sottesa l’idea che vi siano diritti e valori primari e irrinunciabili che è compito proprio della Costituzione tutelare anche nei periodi di scarsa disponibilità di risorse (64); resta tuttavia il dubbio che la Corte, con le declaratorie a retroattività limitata o le sentenze additive, non si limiti a tamponare l’inefficienza o l’inerzia di Parlamento e Governo, ma di fatto crei le premesse per sostituirsi a un legislatore nel quale mostra di non riporre più grande fiducia (65). La disponibilità degli effetti temporali delle declaratorie di incostituzionalità è certamente terreno sul quale si misura il mutato ruolo della Corte costituzionale o quel che è stato definito “il mutamento strutturale di aspettative” (66) nei confronti della stessa. Come è stato evidenziato, lo stesso ricorso al già richiamato canone della ragionevolezza segna il passaggio da “un tipo di giustificazione dell’agire della stessa Corte che si basava prevalentemente sulla credenza dell’assolutezza del valore” a “un tipo di legittimazione che vede indirizzarsi verso il giudice delle leggi anche istanze di congruenza rispetto al fatto” (67). Occorrerebbe forse domandarsi se non sia possibile prefigurare strade istituzionalmente più corrette per garantire l’efficiente bilanciamento dei valori costituzionali, senza fare della Corte costituzionale una sorta di “superlegislatore” (68) o meglio il ghost writer di un Parlamento non solo latitante o carente nelle scelte sull’uso delle risorse disponibili ma, a questo punto, anche deresponsabilizzato nella fase del reperimento delle risorse necessarie.
(64) Sul tema cfr.: F. Gabriele, Diritti sociali, unità nazionale e risorse (in)disponibili: sulla permanente violazione-inattuazione della parte prima (quella “intoccabile” della Costituzione, in Rivista AIC, n. 3/2013. (65) E sui rischi di questa “indebita surrogazione non consentita … dal sistema, il quale non può tollerare, se non snaturandosi, l’incremento confuso degli organi (e dei poteri) “politici” e l’indebolimento di quelli di garanzia, anzi di quello di garanzia per eccellenza” v. F. Gabriele - A.M. Nico, Osservazioni “a prima lettura” sulla sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2015: dalla illegittimità del “togliere ai ricchi per dare ai poveri” alla legittimità del “chi ha avuto, ha avuto, ha avuto … scordiamoci il passato”, in Rivista AIC, n. 2/2015. (66) Così C. Mezzanotte, Il contenimento della retroattività degli effetti delle sentenze di accoglimento cone questione di diritto costituzionale sostanziale, in AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale, cit., 43. (67) Ancora C. Mezzanotte, Il contenimento della retroattività degli effetti, cit., 42-43. (68) Ben oltre, dunque, quella funzione legislativa complementare di cui parlava la dottrina negli anni ’80; cfr.: F. Modugno, La funzione legislativa complementare della Corte costituzionale, in Giur. Cost., 1981, I, 1646 ss.
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Molto si è discusso sul tema della garanzia dei diritti sociali e sulla formula dei “diritti finanziariamente condizionati” apparsa nella giurisprudenza costituzionale sulle spese (69); molto si potrebbe discutere anche sulla “sostituzione” della Corte costituzionale al legislatore nella fase del reperimento delle entrate. Sono recenti, del resto, i casi di pronunce costituzionali in cui il bilanciamento operato dalla Corte non è andato esente da critiche. Basta mettere a confronto le due sentenze sulla disciplina statale relativa al blocco dei meccanismi di adeguamento retributivo per i magistrati (sent. n. 223 del 2012) e per i docenti universitari (sent. n. 310 del 2013) (70). Nella prima, la Corte ha dichiarato incostituzionale – perché introdotta in violazione del principio di uguaglianza – la disposizione che decurtava le retribuzioni “alte” di alcune categorie di pubblici dipendenti, motivando essenzialmente sul particolare status dei magistrati e sulle garanzie di imparzialità e indipendenza che ne presidiano la funzione; nella seconda ha respinto l’analoga questione riguardante i professori universitari, ritenendo “ragionevole” il blocco stipendiale previsto per i docenti universitari nell’ottica del contenimento della spesa pubblica, in quanto mira “ad un risparmio di spesa che opera riguardo a tutto il comparto del pubblico impiego, in una dimensione solidaristica … e per un periodo di tempo limitato, che comprende più anni in considerazione della programmazione pluriennale delle politiche di bilancio”, sicché “il sacrificio imposto al personale docente, se pure particolarmente gravoso per quello più giovane, appare, in quanto temporaneo, congruente con la necessità di risparmi consistenti ed immediati” (71).
(69) Sul tema v. B. Pezzini, Diritto alla salute e dimensioni della discrezionalità nella giurisprudenza costituzionale, in R. Balduzzi (a cura di), Cittadinanza, Corti e salute, Padova, 2007, 217, il quale rileva che la formula dei diritti finanziariamente condizionati porta ad un esito rischioso, cioè a ritenere che debba essere il bilanciamento finanziario a definire il contenuto delle prestazioni, e dunque del diritto “mentre è vero esattamente il contrario: le prestazioni essenziali sono dovute in quanto tali e insiste sul legislatore il preciso dovere di garantire le risorse finanziarie necessarie”. Sul tema anche M. Luciani, Costituzione, bilancio, diritti e doveri dei cittadini, in Astrid Rassegna, 2013, 8. (70) Sulle quali v. R. Lupi, Incostituzionale tagliare gli stipendi pubblici?, in Dialoghi tributari, 2012, 518 ss.; D. Stevanato, Riduzione dei trattamenti economici dei pubblici dipendenti: “taglio” agli stipendi o discriminatorio prelievo fiscale?, in Dialoghi tributari, 2012, 513 ss.; T. Abbate, Ancora in tema di misure anti-crisi: il distinguishing della Corte, in Federalismi.it; M.A. Cabiddu, “Figli e figliastri”: breve commento alla sentenza sui blocchi stipendiali dei professori universitari, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2014. (71) Non esamineremo in questa sede quelle sentenze della Corte, pure inserite nel filone della “giurisprudenza della crisi”, che si sono occupate degli eccezionali interventi legislativi degli
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Dalla lettura e dal confronto di queste pronunce, nelle quali viene messa in gioco la stessa tenuta della categoria dei tributi (72), emerge in modo piuttosto evidente il rischio di bilanciamenti e soluzioni ad personam e di una discrezionalità che trasmodi in arbitrio; e rischi analoghi si corrono in tutte le pronunce espressamente riguardanti la materia tributaria. Vero è che, di fronte a un tributo incostituzionale e alla contestuale necessità di tutelare altri valori costituzionali, gli strumenti alternativi a una declaratoria di incostituzionalità solo pro futuro non sono poi molti. Nel caso di specie, la Corte avrebbe potuto limitarsi a dichiarare illegittima la Robin Tax, lasciando che gli effetti di questa pronuncia si producessero naturalmente ex tunc, salvo il solo limite dei rapporti esauriti (73), rinviando al legislatore il compito di ridisegnare l’imposta per il futuro, in modo conforme alle indicazioni della Consulta, e di far fronte al buco di gettito che si sarebbe determinato. O ancora avrebbe potuto limitarsi a dichiarare inammissibile la questione di costituzionalità, esortando al contempo il legislatore a intervenire per un adeguamento della disciplina, riservandosi di controllare in un momento successivo l’adempimento del Parlamento o di sanzionarne l’eventuale inerzia con una successiva pronuncia di accoglimento, i cui effetti temporali avrebbero potuto esser fatti retroagire alla data della pronuncia precedente (74). Ma entrambe queste opzioni avrebbero “rimesso la palla” a un legislatore nel quale la Corte, e non a torto, non nutre più grande fiducia (75).
ultimi anni volti a ridurre transitoriamente i corrispettivi spettanti per l’esecuzione di pubbliche funzioni. Il riferimento è, ad esempio, alle sentenze relative alle misure di blocco temporaneo della progressione economica dei pubblici dipendenti (sulle quali si rinvia a C. Scalinci, La Consulta nega natura tributaria al “taglio degli aumenti” per progressioni di carriere dei dipendenti pubblici “non togati”, in www.rivistadirittotributarioonline, 21 luglio 2016) (72) Sul tema v. P. Russo, L’ampliamento della giurisdizione tributaria e del novero degli atti impugnabili: riflessi sugli organi e sull’oggetto del processo, in Rass. trib., 2009, 1551 ss. nel quale l’Autore già esamina criticamente la medesima questione proprio alla luce della giurisprudenza costituzionale; G. Fransoni, La nozione di tributo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in L. Perrone e C. Berliri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli-Roma, 2006, 123 ss. (73) Soluzione ulteriore – formalmente rispettosa della naturale retroattività della declaratoria di incostituzionalità ma palesemente artificiosa – poteva essere quella di estendere la nozione di rapporto esaurito fino a ricomprendere tutti i rapporti tributari sorti nei periodi di imposta precedenti. Sul punto v. M. Ruotolo - M. Caredda, Virtualità e limiti del potere di regolazione degli effetti temporali delle decisioni di incostituzionalità, cit., 8, nota 23. (74) Così M. Polese, L’equilibrio di bilancio come limite alla retroattività della sentenza di accoglimento. Commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 10/2015, in Rivista AIC, n. 4/2015. (75) E sulla scarsa fiducia dimostrata in questa sentenza nei confronti del legislatore
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Ulteriore possibilità era quella che la Corte “riscrivesse” la disciplina della Robin Tax (sostituendosi al legislatore) adottando una sentenza additiva di principio o additiva-sostitutiva, e dunque circoscrivendo la base imponibile della Robin Tax ai soli extraprofitti connessi alla particolare congiuntura economica e incassati dalle imprese del settore energetico. Tutte queste soluzioni sarebbero però state, a ben guardare, meno veloci e meno efficaci di quella in concreto adottata; dunque la scelta di “realismo” operata in concreto dalla Corte costituzionale (76) sembra essere scaturita proprio dalla consapevolezza che “in certi casi il desiderio di una giustizia assoluta può precludere il raggiungimento effettivo di quel tanto di giustizia che, in un certo momento, è possibile ottenere” (77). Ma anche la decisione presa dalla Corte, con la pronuncia di una incostituzionalità solo pro futuro ha posto, come vedremo nel successivo paragrafo, problemi applicativi di non poco momento. Un escamotage per una soluzione sistematicamente più soddisfacente poteva forse essere quello – suggerito dalla migliore dottrina costituzionale (78) – di ragionare in termini di illegittimità “sopravvenuta” della Robin tax, sostenendo “che la norma impositiva non fosse incostituzionale ab initio, ma fosse divenuta tale solo in un momento successivo alla sua entrata in vigore, mentre prima potesse in ipotesi trovare una giustificazione nell’ordinamento, tale da portare ad escluderne l’incostituzionalità o almeno da farla considerare “costituzionalmente tollerabile”. In questo caso la permanente applicabilità della norma ai rapporti tributari sorti prima di quel momento si giustificherebbe, perché sarebbe non più frutto di una (casuale ed arbitraria) delimitazione temporale degli effetti della
v. criticamente F. Gabriele - A.M. Nico, Osservazioni a “prima lettura” sulla sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2015, cit., i quali osservano che la Corte finisce “con il dare per scontato ciò che non può dare per tale, cioè che il Parlamento (e magari anche il Governo) non sia(no) in grado di risolvere adeguatamente il problema determinato dalla restituzione delle somme indebitamente versate e dalla cancellazione dai bilanci di previsione di entrate sulle quali si era fatto affidamento … Sottrae, inoltre, e questo sembra ancora più grave, agli organi dell’indirizzo politico, o rende comunque più difficile, il loro “diritto”, per così dire, o, se si vuole, la loro competenza (si direbbe “esclusiva”) ad affrontare in piena e totale autonomia politica i problemi determinati da una sentenza che essa, a sua volta, ha tutto il diritto di adottare, ma, forse, senza ricorrere a poteri almeno esplicitamente non conferitile. Sembra configurarsi, insomma, una sorta di indebita surrogazione non consentita …”. (76) Di realismo parla L. Antonini, Il principio di stretta proporzionalità nel sindacato costituzionale delle leggi tributarie: potenzialità e limiti, in Rass. trib., 2015, 1064 ss., calando la scelta della Consulta nell’attuale contesto italiano. (77) Cfr.: P. Panunzio, Incostituzionalità “sopravvenuta”, cit., 281. (78) Cfr. V. Onida, Una pronuncia costituzionale problematica, cit., 7.
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pronuncia della Corte (nella specie intervenuta, fra l’altro, a distanza di quattro anni da quando la questione era stata sollevata), ma solo della individuazione di un discrimine temporale a partire dal quale si ritenesse sopravvenuto il vizio di incostituzionalità”. La tesi è suggestiva; il problema però è che, nel caso della Robin tax, l’unico elemento sopravvenuto, l’unica novità tra un prima e un dopo sarebbe stato rappresentato non dall’evolversi dell’ordinamento, ma dal mero passare del tempo; un po’ poco, in effetti, per segnare la cesura tra uno spazio e un tempo di legittimità e uno spazio e un tempo di illegittimità costituzionale. 8. I problemi lasciati aperti, sotto il profilo fiscale, dalle pronunce di incostituzionalità pro futuro: la sentenza n. 10 del 2015 come rara avis? – La sentenza sulla Robin tax, nel dichiarare tale prelievo incostituzionale solo pro futuro, ha lasciato aperti una serie di problemi applicativi (79); e problemi analoghi sono suscettibili di sorgere, in materia tributaria, in tutti i casi di analoghe pronunce di incostituzionalità solo pro futuro, particolarmente se relative a imposte di periodo. Il problema nasce dal fatto che, come rilevato dalla dottrina (80), affermare l’efficacia solo pro futuro della dichiarazione di incostituzionalità vuol dire operare una commistione quoad effectus tra fenomeni diversi e, in particolare, tra l’invalidità e l’abrogazione delle leggi: dunque, la norma dichiarata incostituzionale pro futuro continua a vivere e a produrre i propri effetti per i periodi di imposta precedenti e, conseguentemente, anche per gli adempimenti fiscali ad essi collegati; e ciò anche nei confronti dei ricorrenti del giudizio a quo, i quali, pur vedendo riconosciuta la fondatezza della loro domanda, vedono al contempo sostanzialmente frustrato il loro diritto di azione (non potendo tale diritto ritenersi efficacemente soddisfatto dalla valenza della declaratoria di illegittimità per il futuro) (81). La sentenza della Corte sulla Robin tax non si è preoccupata di gestire il problema individuando la disciplina intertemporale applicabile alle diverse fat-
(79) Per una esposizione analitica dei quali si rinvia alla circolare Assonime n. 5 del 9 marzo 2015. (80) M. Ruotolo, La dimensione temporale dell’invalidità della legge, Padova, 2000, 376. (81) Come rileva F. Tesauro, Gli effetti nel tempo della dichiarazione di illegittimità di norme tributarie …, cit., “la rimozione dell’imposta per il futuro è estranea al processo a quo e potrebbe anche non interessare l’attore di quel processo (se ad esempio ha cessato l’attività cui si riferisce la maggiorazione d’imposta)”.
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tispecie e questo ha amplificato i problemi operativi (82). Affermare l’incostituzionalità solo pro futuro vuol dire infatti, in concreto, tenere fermi gli adempimenti fiscali relativi ai periodi di imposta chiusi prima della data di pubblicazione in Gazzetta ufficiale della sentenza di incostituzionalità pro futuro (data che, nel caso di specie, coincideva con il 12 febbraio 2015); con la conseguenza di tener fermi, relativamente ai suddetti periodi, anche gli obblighi di versamento in acconto e a saldo dell’imposta dichiarata incostituzionale (83). In questo senso si è espressa anche la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 18/E del 2015, la quale ha confermato la permanente applicazione dell’addizionale per il 2014 nei confronti dei soggetti con periodo d’imposta coincidente l’anno solare, mentre per i soggetti con periodo di imposta non coincidente con l’anno solare l’applicazione dell’addizionale è stata confermata con riferimento ai periodi di imposta chiusi entro l’11 febbraio 2015 (84). In questo modo, alla norma tributaria dichiarata incostituzionale è stata garantita una sorta di sopravvivenza con riferimento ai presupposti impositivi relativi a periodi chiusisi prima della sentenza della Corte; periodi che sono divenuti “impermeabili” alla declaratoria di incostituzionalità. La norma travolta dalla declaratoria di incostituzionalità continua così a respirare in una sorta di bolla d’aria artificiale (e in una convivenza quanto meno difficile con il principio per cui le questioni di legittimità costituzionale possono essere riproposte in ogni grado di giudizio, senza che si verifichino preclusioni processuali, o sollevate d’ufficio, finche sono rilevanti, cioè fino a quando la norma deve trovare applicazione per decidere la controversia sottoposta al giudice). Al di là di questi arzigogoli applicativi e di queste possibili disparità di trattamento (85), non possiamo fare a meno di osservare come sia difficile giustificare
(82) Sul punto, in senso problematico, cfr.: circolare Assonime n. 5 del 2015; G. Fransoni, L’efficacia nel tempo della declaratoria di incostituzionalità della “Robin hood tax”, in Corr. Trib, 2015, 967. (83) Nello stesso senso v. G. Fransoni, L’efficacia nel tempo della declaratoria di incostituzionalità della “Robin Hood Tax”, in Corr. Trib, 2015, 967 ss. (84) Peraltro la citata circolare dell’Agenzia delle entrate non ha concesso le aperture auspicate da Assonime sul possibile utilizzo in compensazione delle eccedenze di addizionale derivanti da periodi precedenti e oggetto di riporto in avanti. (85) Che G. Fransoni, L’efficacia nel tempo della declaratoria di incostituzionalità della “Robin Hood Tax”, cit., tende a imputare al mancato intervento del legislatore nel dettare apposite disposizioni transitorie. Anche E. Della Valle, Incostituzionalità della Robin tax solo pro futuro ed esclusione delle sanzioni, ne il Fisco, 2015, 2433, riconduce le possibili discriminazioni al fattore tempo, imputandole al legislatore, che avrebbe dovuto limitarne la portata con apposite norme di diritto intertemporale.
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sistematicamente, sullo sfondo del tanto pubblicizzato new deal del rapporto tra contribuente e Amministrazione finanziaria, il paradosso di uffici finanziari costretti ad applicare anche in futuro, sia pure per passati periodi di imposta, disposizioni dichiarate incostituzionali (86) e a porsi il problema dell’irrogazione delle relative sanzioni (87). E d’altro canto, anche il mancato recupero dell’addizionale per le vecchie annualità creerebbe (88) un’ingiustificata disparità di trattamento tra i contribuenti adempienti e quelli che invece avessero evitato di applicare un’imposta che pure sarebbe stata (in seguito) dichiarata incostituzionale. Tutti i dubbi, sistematici e operativi, che scaturiscono dalla formula dell’incostituzionalità pro futuro spiegano le decisioni con le quali le Commissioni tributarie di merito (fra tutte anche la stessa Commissione provinciale che aveva sollevato la questione davanti alla Corte costituzionale) (89) hanno a loro volta tentato di governare il corto circuito sistematico indotto dalla pronuncia della Corte costituzionale, ammutinandosi alla Consulta e sostenendo che la sentenza sulla Robin tax debba essere comunque interpretata nel senso di escluderne la postergazione degli effetti (90).
(86) Cfr.: R. Lupi, Illegittimità dell’incremento IRES su società petrolifere (Robin Hood tax) e divieto di rimborso. Corte costituzionale tra diritto e politica, in Dialoghi tributari, n. 1/2015, 46 ss. (87) Sul punto si scontrano le tesi di chi ritiene applicabile nella fattispecie il principio dell’abolitio criminis (cfr.: E. Della Valle, Incostituzionalità della Robin tax solo pro futuro ed esclusione delle sanzioni, cit., il quale muove dalla sostenuta equipollenza tra modifica normativa e sentenza della Corte costituzionale sulla Robin Tax) e la dottrina per la quale il principio dell’abolitio criminis non dovrebbe trovare applicazione quando oggetto dell’abrogazione non è una norma sanzionatoria, ma il sistema di un tributo (cfr.: A. Fantozzi, Corso di diritto tributario, Torino, 2003, 292). La Cassazione sul punto sembra essere altalenante; per la prima tesi v. Cass. n. 27760 del 2005, in Rass. trib., 2006, con nota adesiva di M. Di Siena, “Abolitio” del tributo e vicende della punibilità amministrativa: quando la Cassazione sembra correggere se stessa; contra l’abrogazione delle norme sanzionatorie, nel caso in cui la legge istitutiva di un’imposta venga abrogata a partire da una data certa, ma l’imposta continui ad essere dovuta per i fatti verificatisi in precedenza, v. invece Cass. n. 25754 del 2014. (88) Come osservato da M. Basilavecchia, Graduale abolizione della “Robin Hood Tax”, in Corr. trib., 2015, 1979 ss. (89) Cfr.: Comm. trib prov. Reggio Emilia, sez. III, 14 maggio 2015, in GT 2015, 617 ss. con nota di A. Marcheselli, La incostituzionalità “retroattiva” della “Robin tax”: tra violazione dei diritti fondamentali, giurisprudenza evolutiva e conflitti giurisdizionali e in Riv. dir. trib., 2015, II con nota di G. Ingrao, La c.d. Robin Hood Tax determina un corto circuito tra Corte costituzionale e giudice di merito. Sulla stessa pronuncia v. anche M. Basilavecchia, Graduale abolizione della “Robin Hood Tax”, in Corr. trib., 2015, 1979 ss. (90) Queste argomentazioni sono sostanzialmente riprese da quella dottrina costituzionale
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Questa sorta di “ribellione” dei giudici di merito (91) ha fatto leva sulla presunta contraddizione che esisterebbe, nella sentenza n. 10 del 2015, tra dispositivo e motivazione e sulla regola generale della prevalenza, in caso di contrasto, del primo sulla seconda per ricondurre ai principi generali l’efficacia della pronuncia di incostituzionalità. In particolare, i giudici di merito hanno sostenuto che la tesi dell’illegittimità solo pro futuro è espressa solo nella motivazione della sentenza n. 10 del 2015, mentre il dispositivo della stessa sentenza si limita a parafrasare il disposto dell’art. 136 Cost., secondo cui la norma dichiarata incostituzionale “cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” e quello dell’art. 30, comma 3, della legge n. 87 del 1953, secondo cui “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. In realtà, l’ammutinamento dei giudici di merito, pure basato su ragioni sistematicamente comprensibili, appare argomentato in modo non insuperabile (92): dalla lettura della sentenza sulla Robin tax non sembrano emergere ragionevoli dubbi sulla circostanza che l’intento di tale pronuncia fosse quello di circoscrivere gli effetti temporali della declaratoria di incostituzionalità. Ad oggi non è dato sapere quale sarà l’esito della vicenda processuale: improbabili ci sembrano le ipotesi, pure prospettate (93), di una correzione materiale del dispositivo della sentenza n. 10 del 2015 (che dovrebbe essere integrato con la precisazione dell’effetto solo pro futuro) o di un paradossale conflitto di attribuzioni che la Corte costituzionale potrebbe teoricamente sollevare contro i giudici di merito, dando così vita a una singolare vicenda
(cfr.: R. Romboli, L’”obbligo” per il giudice di applicare nel processo a quo la norma dichiarata incostituzionale ab origine: natura incidentale del giudizio costituzionale e tutela dei diritti, www.giustcost.org, 19) che, nel commentare la sentenza n. 10 del 2015, ne ha rilevato il contrasto tra la motivazione e il dispositivo e ha sostenuto che i giudici comuni sono sì vincolati dalla declaratoria di incostituzionalità, ma anche dalla disciplina normativa degli effetti della sentenza. (91) Come l’ha definita V. Onida, Una pronuncia costituzionale problematica: limitazione degli effetti nel tempo o incostituzionalità sopravvenuta?, in Rivista AIC, n. 1/2016, 2. (92) V. diffusamente V. Onida, Una pronuncia costituzionale problematica, cit., 3. Sul tema anche E. Della Valle, Incostituzionalità della Robin tax solo pro futuro ed esclusione delle sanzioni, in Il fisco, 2015, 2433. In difesa della decisione e delle argomentazioni della sentenza di merito, ritenuta “estremamente ingegnosa e ineccepibile sul piano del sillogismo giuridico”, anche se “in rotta con lo spirito dei tempi” v. invece A. Marcheselli, La incostituzionalità “retroattiva” della Robin tax: tra violazione dei diritti fondamentali, giurisprudenza evolutiva e conflitti giurisdizionali, in GT – Rivista di giurisprudenza tributaria, 2015, 617 ss. (93) v. A. Marcheselli, La incostituzionalità “retroattiva” della Robin tax: tra violazione dei diritti fondamentali, giurisprudenza evolutiva e conflitti giurisdizionali, cit.
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processuale nella quale la Consulta sarebbe, al tempo stesso, giudice e parte lesa. La realtà è che questa pronuncia della Corte, unitamente ai suoi strascichi applicativi e processuali, potrebbe rimanere una rara avis: ciò non solo per l’ampio dibattito apertosi in ordine alla possibilità, per la Consulta, di autodisciplinare gli effetti temporali delle proprie decisioni (e neanche per la difficoltà di gestire, di fronte a un legislatore latitante, i profili applicativi legati all’assenza di una precisa disciplina intertemporale nel caso dell’irretroattività della pronuncia), ma anche perché – molto più prosaicamente – sembra difficile ipotizzare che in futuro la Corte deciderà ancora, in omaggio all’equilibrio di bilancio, di negare la restituzione di imposte dichiarate incostituzionali a categorie di soggetti diverse dagli “odiati petrolieri” (94) sottoposti al balzello della Robin tax.
Loredana Carpentieri
(94) V. D. Stevanato, “Robin Hood tax”: un’incostituzionalità “a futura memoria”, in Dialoghi tributari, 2015, 46 ss.
Giusto processo e parità delle parti nella disciplina delle tutele cautelari tributarie*. Sommario: 1. Osservazioni preliminari – 2. Implicazioni e limiti dell’esecutività delle sentenze tributarie non definitive – 3. Sull’”uniformazione” delle tutele cautelari nei gradi di giudizio successivi al primo: A) nel campo delle sentenze di annullamento di provvedimenti impositivi…. – 4. B)… ed in quello delle sentenze di condanna degli Uffici a pagamenti in favore dei contribuenti…. – 5. Osservazioni conclusive.
Sono state recentemente emanate norme volte a parificare le situazioni degli Uffici finanziari e dei contribuenti nei confronti degli effetti delle sentenze tributarie, mediante l’eguale riconoscimento, ad entrambe le parti, della possibilità di ottenerne la sospensione nei gradi di giudizio successivi al primo. Queste nuove norme, tuttavia, hanno già determinato l’insorgere di non poche e delicate questioni, sia interpretative che applicative. Di esse, vengono in questo scritto analizzati i termini essenziali; e ciò, in una prospettiva soprattutto alimentata dalla necessità di distinguere le liti provocate dai provvedimenti impositivi emessi dagli Uffici finanziari dalle controversie concernenti, invece, le pretese creditorie vantate dai contribuenti nei confronti degli Uffici medesimi. Recently laws have been issued to recognize the situation between the Financial offices and tax payers regarding the effects of law-related sentences, through which it is possible to have the same recognition, for both sides, of the possibility to obtain the suspension on the proceedings following the first. These new laws, have however, already determined the insurgence of not but a few delicate questions, both interpretive and applicative. Of these, we shall be, in this script, analyzing its essential terms; and above all taking into consideration that they are feed by the necessity to distinguish between the arguments caused by the taxation injunctions emitted by the Financial offices and the controversies concerning, instead, the claims made on behalf of the tax payers to the Financial offices.
* Questo scritto riproduce la relazione (opportunamente rivista ed ampliata) svolta in occasione del Convegno su “Per un nuovo ordinamento tributario”, tenutosi a Genova il 14-15 ottobre 2016.
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1. Osservazioni preliminari. – Tra i diversi profili di dubbia conformità della disciplina del processo tributario al requisito della “parità delle parti” richiesto dal modello astratto del “giusto processo” ex art. 111 Cost., non poco rilievo è stato dato, in passato, all’esistenza di norme che, se per un verso consentivano agli Uffici finanziari di procedere a riscossioni provvisorie (integrali o frazionate) in corso di causa, per altro verso subordinavano al passaggio in giudicato delle sentenze di condanna il soddisfacimento delle istanze creditorie del contribuente (per eccedenze a credito da dichiarazione, imposte indebitamente versate, interessi, spese processuali, ecc.) nei confronti del Fisco. In realtà, potrebbe dubitarsi che le suddette divergenze disciplinari avessero molto a che fare con quella “parità delle parti” che per l’art. 111 Cost. deve essere soprattutto garantita nello svolgimento del contraddittorio, davanti ad un giudice terzo ed imparziale; ma sta di fatto che proprio alla tendenziale parificazione delle posizioni dell’Ufficio e del contribuente nel complessivo sistema delle tutele cautelari tributarie potevano dirsi principalmente rivolti i punti 9 e 10 della legge delega n. 23/2014 con i quali al Governo veniva delegato il compito di introdurre norme finalizzate alla “uniformazione e generalizzazione degli strumenti di tutela cautelare nel processo tributario” (punto 9), nonchè alla “previsione dell’immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze delle commissioni tributarie” (punto 10). Proprio all’introduzione del principio di ”immediata esecutorietà” delle sentenze tributarie, ed all’attuazione dell’“uniformazione” e “generalizzazione” delle correlate tutele cautelari, possono dirsi orientate le molteplici disposizioni dedicate a questi aspetti nell’art. 9 del D.Lvo N. 156/2015, con le quali: - è stata soppressa (nella nuova formulazione dell’art. 49, D.Lvo 546/1992) l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 337 c.p.c. alle sentenze delle commissioni tributarie; è stato sancito il principio generale per il quale “…le sentenze emesse dalle commissioni tributarie sono esecutive secondo quanto previsto nel presente capo” (nuovo art. 67 bis del D.Lvo 546/1992); ed è stata riconosciuta al contribuente vittorioso la possibilità di esperire giudizio di ottemperanza, sulla base delle sentenze di primo e secondo grado (ancorchè non definitive), per il soddisfacimento delle sue ragioni creditorie relative sia al recupero degli importi provvisoriamente riscossi dall’Ufficio in corso di giudizio (nuovo art. 68, comma 2, 2° periodo), sia al conseguimento di quelli riconosciuti in sentenze di condanna dell’Ufficio al pagamento, ancorchè non passate in giudicato (nuovo art. 69, comma 5);
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- ed è stata espressamente riconosciuta e regolata (attraverso una completa riformulazione dell’art. 52 del D.Lvo 546/1992) la possibilità che il giudice di appello sospenda, in tutto o in parte, ad istanza dell’appellante (e quindi anche dell’Ufficio), l’esecutività della sentenza di primo grado in presenza di “gravi e fondati motivi” (ovvero, e ad istanza del contribuente, l’“esecuzione dell’atto”, quando da essa può derivargli “un danno grave ed irreparabile”), nonché (ed attraverso l’introduzione del nuovo art. 62 bis nel corpo del D.Lvo 546/1992) quella delle sentenze di appello che siano state impugnate avanti la Corte di Cassazione, ovvero fatte oggetto di ricorso per revocazione (nuovo art. 65, comma 3 bis del D.Lvo 546/1992). Le disposizioni così succintamente richiamate parzialmente riprendono e formalmente sanciscono - soluzioni che, a seguito della nota sentenza della Corte costituzionale N. 217/2010, potevano dirsi acquisite sul piano giurisprudenziale in ordine alla proponibilità di inibitorie, da parte del contribuente, anche nei gradi successivi al primo. Ma l’adesso operata estensione anche agli Uffici della proponibilità di analoghe istanze cautelari, unitamente all’affermazione della generalizzata esecutività delle sentenze tributarie di merito, hanno già sollevato non poche questioni interpretative (1); ed impongono comunque una complessiva rivisitazione della problematica delle tutele cautelari nel processo tributario, e del loro rapporto (appunto) con il principio del giusto processo, oltre che con l’automatismo delle autoritative riscossioni provvisorie in corso di causa. A questo proposito, ritengo opportuno richiamare in premessa un duplice ordine di osservazioni sul complessivo quadro normativo all’interno del quale le suddette innovazioni vanno ad inserirsi. A) Il primo attiene all’obiettiva eterogeneità delle controversie (e degli effetti delle conseguenti sentenze) ricadenti nell’area di operatività della giurisdizione speciale tributaria. Come, invero, mi è già accaduto da tempo di osservare (2), i giudici tributari possono essere chiamati a pronunciare, a seconda dei casi, sia su do-
(1) Per prime osservazioni sulle implicazioni delle nuove norme, cfr. Randazzo, La riforma della sospensione cautelare nel processo tributario, in Corr. Trib., 2016, p. 375 ss.; Cane’, Riflessioni sulla riforma della tutela cautelare nel processo tributario, in Boll. Trib., 2016, p. 338 ss. (2) Sul punto, e per maggiori svolgimenti, cfr., da ultimo, La Rosa, Principi di diritto tributario, V ed., Torino, 2016, p. 427 ss.
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mande di annullamento totale o parziale di provvedimenti amministrativi non discrezionali (ed è questo il caso, ad esempio, delle impugnazioni degli avvisi di accertamento, e di liquidazione), sia su azioni di accertamento e condanna degli Enti impositori all’effettuazione di pagamenti in favore del contribuente (come tipicamente accade nelle liti di rimborso da indebito, o per recupero delle eccedenze risultanti da dichiarazioni a credito), sia, infine (ed anche se più raramente), sulla legittimità di provvedimenti connotati da profili di più o meno estesa discrezionalità amministrativa (si pensi al campo delle controversie avverso provvedimenti di diniego o revoca di dilazioni e rateazioni dei pagamenti, ovvero dispositivi di iscrizioni ipotecarie, fermo dei beni mobili registrati, ecc.); e questa eterogeneità strutturale delle controversie tributarie inevitabilmente comporta la necessità di definire diversamente, da caso a caso (e pur in presenza di apparente uniformità dei testi normativi), gli effetti delle relative sentenze, le implicazioni dell’adesso sancita loro esecutività, nonchè i presupposti e gli ambiti di operatività delle inibitorie proponibili da entrambe le parti nei vari gradi del processo tributario (3). B) Il secondo ordine di notazioni muove poi dal rilievo dell’inserirsi delle nuove norme in un sistema normativo nel quale la riscossione coattiva delle imposte continua a dover essere sempre effettuata sulla base di titoli amministrativi (ruolo, ingiunzione fiscale, atti di “presa in carico” delle imposte da riscuotere, ecc.), distinti dai provvedimenti propriamente impositivi e dalle susseguenti sentenze, ed aventi anch’essi natura provvedimentale, perchè radicati nel principio generale dell’autotutela amministrativa esecutiva. Sono state infatti solo marginalmente modificate le norme sulla c.d. “riscossione frazionata” delle imposte in corso di giudizio, ed in toto mantenute quelle che in vario modo consentono agli Uffici finanziari di agire esecutivamente (anche in pendenza di giudizio) per la riscossione coattiva delle imposte risultanti da atti anche diversi dalle sentenze (dichiarazioni, avvisi di accertamento o liquidazione, concordati, ecc.), per il semplice fatto della loro esistenza, e prescindendo dalla correttezza o meno del loro contenuto. Esiste, quindi, una disciplina compiuta ed esclusiva delle modalità satisfattive (ed autoritative) dell’interesse pubblico all’acquisizione delle imposte anche in pendenza di giudizio; la quale di per se stessa induce ad interrogarsi
(3) Per puntuali notazioni sulle implicazioni della diversità degli effetti delle sentenze tributarie e delle conseguenti inibitorie, cfr. anche, e da ultimo, Glendi, “Neoescrescenze” normative processualtributaristiche: l’inibitoria in appello, in Corr. Trib., 2016, p. 2237 ss.
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sul rapporto esistente tra le tutele cautelari che nel processo tributario possono essere invocate dai contribuenti e quelle che gli Uffici finanziari possono unilateralmente attuare in pendenza di giudizio. 2. Implicazioni e limiti dell’esecutività delle sentenze tributarie non definitive. – Nella prospettiva così delineata - e prima di svolgere alcune riflessioni specificamente dedicate proprio ai profili disciplinari delle tutele cautelari nel processo tributario - merita di essere richiamata l’attenzione sui contenuti e sui limiti dell’adesso sancita esecutività delle sentenze tributarie non definitive. È stato a tal proposito affermato che dall’espunzione (dal testo dell’art. 49, D.Lvo 546/1992) del diniego di applicabilità dell’art. 337 c.p.c. alle sentenze tributarie discenderebbe l’estensione ad esse dei generali principi processualcivilistici sugli effetti delle sentenze di merito non definitive (4). Ma penso che su questo ordine di idee non possa convenirsi, poiché nel nuovo art. 67 bis del suddetto D.Lvo viene invece espressamente puntualizzato che le sentenze delle Commissioni tributarie sono esecutive (non sempre, egualmente, ed in toto, ma) “…secondo quanto previsto dal presente capo…”. La valenza dell’esecutività formalmente attribuita alle sentenze tributarie deve quindi enuclearsi da quanto disposto nei successivi artt.68 e 69 dello stesso D.Lvo 546/1992 (invece che dalle generali regole processualcivilistiche); i quali continuano a regolare distintamente il “Pagamento del tributo in pendenza del processo” (e quindi la provvisoria riscuotibilità coattiva delle imposte in corso di giudizio), e la “Esecuzione delle sentenze di condanna in favore del contribuente” (e quindi il soddisfacimento delle ragioni creditorie dei contribuenti); e, se per le condanne degli Enti impositori all’effettuazione di pagamenti in favore dei contribuenti l’affermazione dell’esecutività delle sentenze non definitive ha certamente determinato l’assimilazione dei loro effetti a quelli delle analoghe sentenze civili (5) (pur se con la necessità, per il contribuente, di farli valere sempre e soltanto per il tramite del giudizio di ottemperanza), tutt’altro discorso deve invece farsi per l’esecutività delle
(4) In questo senso, cfr. la Circ. dell’Agenzia delle Entrate 29/12/2015, par.1.12, ove appunto si afferma che a seguito della suddetta espunzione, l’art. 49 del D.Lvo 546/1992 “…ora contiene un generale rinvio alle norme del codice di procedura civile in tema di sospensione delle sentenze…”, che “…la suddetta modifica si connota per una significativa portata di carattere sistematico…”, ecc.. (5) Per analoghe considerazioni, cfr. Glendi, “Neoescrescenze” cit., part. p. 2241.
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pronunce sulla legittimità e fondatezza dei provvedimenti amministrativi impositivi di prestazioni tributarie. Invero (e come da tempo rilevato in dottrina), le sentenze con le quali il giudice procede al puro e semplice annullamento (totale o parziale) di provvedimenti illegittimi non abbisognano di alcuna esecuzione attuativa, perchè di per se stesse satisfattive (in tutto o in parte) dell’interesse del ricorrente (6); in materia tributaria, ed anche nei casi di totale soccombenza del contribuente in primo grado, gli Uffici continueranno quindi a poter procedere a riscossioni provvisorie solo nei rigorosi limiti quantitativi stabiliti dal suddetto art. 68 (invece che per l’intero ammontare degli importi controversi); a ciò essi dovranno pur sempre provvedere attraverso ulteriori provvedimenti amministrativi esecutivi (iscrizione a ruolo, ingiunzione fiscale), diversi dalle sentenze, e suscettibili di impugnazione per i loro eventuali “vizi propri”; e l’affermazione dell’“esecutività” delle sentenze tributarie non definitive deve quindi per queste controversie ritenersi volta soltanto ad enunciare l’astratto fondamento dell’adesso introdotta esperibilità del giudizio di ottemperanza (malgrado l’assenza del giudicato) nei casi di mancata effettuazione dei rimborsi d’ufficio di quanto eventualmente riscosso dal Fisco in corso di causa; mentre le sentenze medesime continueranno a costituire puri e semplici presupposti di fatto delle iniziative esecutive che gli Uffici possono unilateralmente avviare in corso di causa (per la parte in cui il ricorso del contribuente è stato rigettato), e delle inibitorie proponibili dai contribuenti per la temporanea sospensione dei loro effetti. Così puntualizzati i limiti, e le variegate peculiarità, dell’esecutività delle sentenze tributarie non definitive, un duplice ordine di aggiuntive notazioni può a questo punto formularsi. a) Il primo attiene al fatto che anche le sentenze di mero annullamento (totale o parziale) dei provvedimenti impugnati possono talora essere parzialmente esecutive in senso proprio. Ciò tipicamente accade, ad esempio, nel caso in cui il loro dispositivo contiene anche condanne al pagamento delle spese processuali. La peculiarità di fondo di tali ipotesi sta nella diversità dei riflessi di tale esecutività a seconda che condannato al pagamento sia l’Ufficio (nei cui confronti il contribuente dovrà necessariamente agire attraverso il giudizio di ottemperanza ex art. 69, comma 2), ovvero il contribuente (nei cui
(6) Sul punto, ed anche per riferimenti, cfr. Randazzo, L’esecuzione delle sentenze tributarie, Milano 2003, part. p. 5 ss.
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riguardi l’Amministrazione dovrà invece procedere tramite iscrizione a ruolo delle somme da esso dovute (7)). E la difformità di tali itinerari procedimentali e processuali merita di essere sottolineata perché già di per sè attesta la “disparità” delle posizioni degli Uffici e dei contribuenti in punto di eseguibilità degli effetti anche di una medesima sentenza tributaria. b) Il secondo ordine di notazioni discende poi dalle perplessità che non possono non sorgere in ordine al fatto che la così identificata esecutività delle sentenze tributarie, se ha un ambito di operatività generalizzato per le condanne degli Enti impositori all’effettuazione di pagamenti in favore dei contribuenti, nel campo delle controversie concernenti atti impositivi continua invece ad essere testualmente riferita soltanto alle pronunce concernenti le imposte nella cui disciplina “…è prevista la riscossione frazionata del tributo oggetto di giudizio davanti alle commissioni…”; e non anche a quelle riguardanti imposte per le quali la “riscossione frazionata” non è prevista. Per le vertenze concernenti (ad esempio) liquidazioni di imposte principali di registro, accertamenti di tributi locali, iscrizioni a ruolo a titolo definitivo, ecc. (per le quali non è prevista la “riscossione frazionata” in corso di giudizio), rimarranno quindi irragionevolmente aperte le dibattute problematiche del passato in punto di doverosità o meno del rimborso d’ufficio (in corso di causa) degli importi anteriormente riscossi a titolo provvisorio (8); ad esse si aggiungeranno adesso quelle relative alla proponibilità, o improponibilità, del giudizio di ottemperanza (per il loro recupero) prima del giudicato; e deve quindi ritenersi ancora inesistente una veramente uniforme disciplina degli effetti, sulla riscossione, delle sentenze tributarie non definitive. 3. Sull’”uniformazione” delle tutele cautelari nei gradi di giudizio successivi al primo: A) nel campo delle sentenze di annullamento di provvedimenti impositivi…. – Guardando adesso più da vicino alle innovazioni introdotte nella disciplina delle tutele cautelari, è certamente un fatto che le nuove norme disciplinatrici della loro proponibilità in grado di appello e in pendenza
(7) …ai sensi dell’art. 15, comma 2 sexies, D.Lvo 546/1992, e dopo il passaggio in giudicato della sentenza. (8) Sul punto, e per tutti, cfr. Consolo, Sulla perdita di efficacia degli atti annullati con decisione ancora non passata in giudicato e dei riflessi di ciò sulla riscossione, in Riv. Dir. Trib., 1991, I, p. 32 ss.; per la giurisprudenza, e per il campo dei tributi locali, ritengono riferibile anche ad esso la disciplina di cui all’art. 68 D.Lvo 546/92, Cass. nn. 26339/2014 e 7831/2010; ma, in senso opposto, cfr. Cass. nn. 19015/2015, 2199/2012, 12791/2011, e 15473/2010.
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del ricorso in cassazione si aprono con espressioni sostanzialmente conformi a quelle contenute negli artt. 283 e 373 c.p.c., ed egualmente riferite ad entrambe le parti della controversia. Infatti, il nuovo art. 52, comma 2, D.Lvo 546/1992 (per la tutela cautelare in grado di appello) dispone che “L’appellante può chiedere alla commissione regionale di sospendere in tutto o in parte l’esecutività della sentenza impugnata, se sussistono gravi e fondati motivi”; nel nuovo art. 62 bis, comma 1, stesso D.Lvo (per la tutela cautelare in pendenza del ricorso in cassazione) si dice che “La parte che ha proposto ricorso per cassazione può chiedere alla commissione che ha pronunciato la sentenza impugnata di sospenderne in tutto o in parte l’esecutività allo scopo di evitare un danno grave ed irreparabile”; ed entrambe le suddette disposizioni sembrano a prima vista legittimare egualmente, ed indistintamente, entrambe le parti in causa alla proposizione di inibitorie (nei gradi di giudizio successivi al primo), in maniera del tutto indipendente dall’oggetto della controversia e dal contenuto della sentenza. Tuttavia, l’esigenza di approfondimenti e costruttive riflessioni appare in questo campo imposta da considerazioni sia pratico-operative che propriamente sistematiche. Sotto il primo profilo, appare superfluo richiamare l’attenzione sulle incertezze e sulle complicazioni processuali che fatalmente deriverebbero dalla possibilità di una indiscriminata e parallela proposizione di inibitorie da parte di entrambi i soccombenti nei casi di sentenza di solo parziale accoglimento del ricorso del contribuente, ed in un assetto disciplinare che adesso consente al contribuente la proposizione di giudizi di ottemperanza anche per l’adempimento degli obblighi restitutori derivanti da sentenze non definitive (9). Sotto il secondo, poi, merita di essere osservato che la diversità dei ruoli e dei poteri attribuiti dalla legge alle parti dei rapporti tributari sul versante del diritto sostanziale ha naturali ed inevitabili riflessi anche su quello degli interessi meritevoli di tutela in sede cautelare. Invero, nel campo delle controversie relative ad atti impositivi, l’esistenza di una compiuta e puntuale disciplina legale delle riscossioni provvisorie effettuabili dagli Uffici finanziari in corso di causa dovrebbe escludere la propo-
(9) Dovrebbe invero in tal caso stabilirsi se il mero fatto dell’avere l’Ufficio avanzato istanza di inibitoria nell’atto di appello possa sospendere lo svolgimento del giudizio di ottemperanza sino alla decisione sull’istanza medesima; se l’eventuale accoglimento soltanto parziale di tale istanza legittimi (o imponga) pronunce di ottemperanza altrettanto parziali; se possa disporsi la riunione dei due giudizi, ecc..
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nibilità di inibitorie, da parte dei medesimi, nei gradi di giudizio successivi al primo. Mentre, al contrario, proprio negli Uffici finanziari debbono ravvisarsi i soggetti esclusivamente legittimati alla proposizione di inibitorie nel campo delle liti di rimborso e delle sentenze in genere di loro condanna al pagamento di somme in favore dei contribuenti, dovendosi escludere (allo stato della vigente normativa) l’ammissibilità di istanze cautelari giudiziali per il soddisfacimento degli interessi pretensivi dei contribuenti beneficiari di sentenze di condanna soltanto parziale. Vale a dire che, in generale, logica e buon senso già di per se stessi imporrebbero di ritenere consentita soltanto ai contribuenti (anche nei gradi di giudizio successivi al primo) la proposizione di inibitorie nelle controversie relative ad atti impositivi, e riservata invece solo agli Uffici finanziari la proponibilità di analoghe istanze a fronte di sentenze di condanna al soddisfacimento (totale o parziale) delle ragioni creditorie vantate dal contribuente. Tuttavia, in senso parzialmente difforme appaiono orientate le prime indicazioni emergenti dalle direttive amministrative; ed appare quindi opportuno lo svolgimento di alcune veloci osservazioni su due delle più rilevanti questioni che sono in proposito già emerse. A) Con riferimento alle liti su atti impositivi - e nel presupposto dell’esistenza di una generale legittimazione degli Uffici alla proposizione di istanze cautelari negli appelli avverso sentenze per essi sfavorevoli – è stato osservato che l’accoglimento di tali istanze farebbe venir meno l’esecutività della sentenza di primo grado favorevole al contribuente, e legittimerebbe l’Ufficio medesimo a non effettuare lo sgravio (o il rimborso) degli importi richiesti (o riscossi) a titolo provvisorio in pendenza del primo grado di giudizio (10). È, questo, un ordine di idee che tuttavia non appare condivisibile, per infondatezza dell’assunto (proponibilità di inibitorie anche da parte degli Uffici nelle controversie relative a provvedimenti impositivi) dal quale discende. Esso, invero, è già smentito dal mancato inserimento, nel testo finale del decreto delegato, di una disposizione che avrebbe dovuto sancire proprio la persistente riscuotibilità degli importi provvisoriamente esigibili in primo grado, nel caso di accoglimento dell’istanza cautelare da parte del giudice di
(10) In questo senso, cfr. la Circ. 29/12/2015, n. 38/E, punto 1.12., ove si afferma che “… nel caso in cui sia concessa, a richiesta dell’Ufficio, la sospensione di una sentenza favorevole al contribuente, viene inibita l’operatività delle norme che ne disciplinano l’immediata esecutività… e l’Ufficio è legittimato a non effettuare lo sgravio o il rimborso delle somme riconosciute non dovute in forza della stessa sentenza…”.
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appello (11). Ma nella medesima direzione militano anche considerazioni di natura più propriamente sistematica. Invero, e come già si è avuto modo di osservare, gli effetti delle sentenze di annullamento degli atti impositivi non hanno bisogno di una esecuzione attuativa che possa essere provvisoriamente sospesa; quelle sentenze, infatti, possono ovviamente essere ribaltate o modificate nei successivi gradi del processo; ma ad opera di nuove sentenze, e non di ordinanze provvisoriamente attributive di poteri e facoltà che le precedenti pronunce hanno caducato. E queste notazioni, nel campo in questione, sono oltretutto avvalorate dall’esistenza di un espresso obbligo di rimborso d’ufficio (e dall’esperibilità del giudizio di ottemperanza, se inosservato) degli importi anteriormente riscossi in corso di causa. In sintesi, la possibilità che attraverso le inibitorie gli Uffici possano ottenere il ripristino in capo ad essi della situazione esistente prima della sentenza di annullamento appare da escludere in forza sia dell’esistenza di una specifica ed inderogabile disciplina legale delle riscossioni provvisorie effettuabili in corso di giudizio a fini cautelari dell’interesse pubblico, sia dei limiti intrinseci delle inibitorie processuali tributarie; alle quali rimane allo stato estranea la possibilità del provvisorio accoglimento di istanze pretensive, invece che semplicemente oppositive. 4. B)… ed in quello delle sentenze di condanna degli Uffici a pagamenti in favore dei contribuenti…. – Sul versante delle sentenze di condanna degli Uffici a pagamenti in favore del contribuente, i “gravi e fondati motivi” legittimanti la proposizione di inibitorie nei gradi di giudizio successivi al primo dovrebbero ravvisarsi, pressoché esclusivamente, sul piano del fumus di erroneità (in fatto o in diritto) della sentenza impugnata, essendo da escludere che l’effettuazione di provvisori pagamenti in favore del contribuente (quando imposti da sentenze esecutive ad esso favorevoli) possa, di per sé, esser fonte di gravi pregiudizi per l’Erario. Il nucleo fondamentale del “periculum”, in questo particolare tipo di controversie, è invero da ravvisare nella possibile problematicità (nel caso di fi-
(11) Invero, nell’originario schema di decreto delegato, il nuovo testo dell’art. 52 si chiudeva con un comma 7° (poi scomparso nel testo definitivo) del seguente testuale tenore: “La sospensione della esecutività della sentenza favorevole al contribuente consente la riscossione delle somme esigibili nella pendenza del giudizio di primo grado”. Per un maggiore svolgimento di quanto osservato nel testo, cfr. Randazzo, La riforma della sospensione cautelare cit., pp. 377 ss.
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nale esito della controversia favorevole per l’Ufficio) dell’azione di recupero di quanto provvisoriamente erogato in corso di causa (12); ossia, in un pregiudizio derivante (non dall’esecuzione della sentenza non definitiva di condanna, ma) dalla possibile ineseguibilità di quella che successivamente dovesse ribaltarne il contenuto. È, questo, un rischio non estraneo alle normali controversie tra privati; ma che nelle vertenze tributarie assume una rilevanza certamente maggiore di quanto in queste ultime avviene, per la lontananza degli Uffici finanziari da quel che accade nella sfera dei singoli contribuenti; e proprio al contenimento di quel rischio è volta la disposizione contenuta nel secondo periodo dell’art. 69, comma 1, del D.Lvo 546, laddove, dopo essersi testualmente ribadito che le condanne degli Uffici finanziari a pagamenti in favore del contribuente vittorioso sono “immediatamente” esecutive, si aggiunge che “…tuttavia il pagamento di somme dell’importo superiore a diecimila euro, diverse dalle spese di lite, può essere subordinato dal giudice, anche tenuto conto delle condizioni di solvibilità dell’istante, alla prestazione di idonea garanzia…”. La formulazione di questa disposizione è però non poco generica, e aperta alla possibilità di diverse letture e soluzioni interpretative. In essa, infatti, nulla è precisato in ordine a quale sia il “giudice” legittimato a provvedere nei sensi ivi descritti (quello della lite principale o quello del giudizio di ottemperanza?), né sulla necessità o meno di una istanza di parte (e di quale parte?), né sulla natura del provvedimento da emettere ai fini suddetti (ordinanza o sentenza?), né sulla sua impugnabilità o meno, sul suo rapporto con l’eventuale inibitoria (ex art. 52) proposta dall’Ufficio finanziario, e sulla possibilità o meno dell’imposizione di un onere di garanzia limitato ad una parte soltanto delle ragioni creditorie del contribuente, invece che al loro complessivo ammontare.
(12) Con specifico riferimento alle sentenze di condanna dell’Amministrazione finanziaria a pagamenti in favore del contribuente, e nel senso che “…il periculum in mora viene qui a prospettarsi in termini di grave pericolo di mancata restituzione di quanto versato… così che, in definitiva, la fondatezza del motivo non può che essere indirizzata, e risolversi, in una valutazione di oggettivo rischio di non sufficientemente garantita possibilità di recupero della situazione anteatta in caso di esito vittorioso dell’appello da parte dell’Ufficio…”, cfr. Glendi, “Neoescrescenze” cit. p. 2242. Nel medesimo senso, cfr. anche la Relazione allo Schema di decreto delegato, ove si osserva che, nel campo delle sentenze di condanna della P.A. al pagamento, il periculum consiste nel “…rischio che una volta ottenuto – in virtù di una sentenza esecutiva ma impugnata dall’Amministrazione – il pagamento di una somma a titolo di rimborso, non sia più possibile il recupero delle somme erogate in caso di successiva riforma della sentenza…”.
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Il solo profilo espressamente regolato (dal successivo comma 3) concerne i costi della ”idonea garanzia”; che la legge prevede debbano essere “anticipati dal contribuente”, per essere poi posti “… a carico della parte soccombente all’esito definitivo del giudizio”. A fronte di tutto ciò, sembra diffondersi la tendenza a ritenere che la legittimazione a disporre la subordinazione del pagamento al rilascio di una “idonea garanzia” in favore degli Uffici finanziari debba fare capo allo stesso giudice chiamato a pronunciare sulla spettanza o meno del pagamento medesimo (13); e non si nega che argomenti in tal senso potrebbero a prima vista desumersi dalle disposizioni processualcivilistiche contenute nell’art. 283 c.p.c. (14). Ma non possono trascurarsi le profonde differenze delle situazioni che nel campo in esame si realizzano a fronte di quel che avviene nelle normali cause civili; differenze che possono principalmente ravvisarsi nel fatto che: - la provvisoria esecuzione delle sentenze civili ha un ambito di operatività estremamente eterogeneo, e comprende modalità attuative liberamente selezionabili dal creditore; mentre quella che qui interessa ha oggetti normativamente tipizzati, e modalità attuative adesso necessariamente costituite da uno specifico ed apposito procedimento giudiziale (il giudizio di ottemperanza); - nel campo del processo civile l’onere di dare “cauzione” è normalmente posto a carico del “condannato” che vuol evitare gli effetti provvisoriamente esecutivi delle sentenze; e le sue conseguenze sono temporalmente riferite al solo grado di giudizio in cui viene emessa l’ordinanza inibitoria; mentre nel campo in esame l’onere della prestazione di “idonea garanzia” viene fatto sempre gravare (pur se a titolo di “anticipazione”) sul contribuente vincitore; e gli effetti della garanzia sono da ritenere parallelamen-
(13) Cfr. la Circ. 29/12/2015, n. 38/E, punto 1.15.2, ove viene sottolineata l’opportunità che “…nei giudizi aventi ad oggetto il rifiuto espresso o tacito ad una istanza di rimborso di somme superiori a diecimila euro, gli Uffici provvedano a fornire al giudice eventuali elementi in loro possesso idonei ad incidere negativamente sul giudizio di solvibilità del contribuente, al fine di ottenere, in caso di soccombenza, la previsione di idonea garanzia…”. (14) …ove si prevede che “Il giudice dell’appello, su istanza di parte, proposta con l’impugnazione principale o con quella incidentale, quando sussistono gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza delle parti, sospende in tutto o in parte l’efficacia esecutiva o l’esecuzione della sentenza impugnata, con o senza cauzione”.
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te differiti sino al finale esito della controversia (invece che a quello del singolo grado di giudizio); - si è in presenza di una disposizione chiaramente eccezionale, in quanto la valutazione della “solvibilità” del destinatario dei provvisori pagamenti è richiesta soltanto per quelli conseguenti a sentenze di condanna, e non anche per gli analoghi obblighi di pagamento derivanti (ex art. 68, D.Lvo 546/1992) dalle sentenze di annullamento (totale o parziale) di atti impositivi; - e si è, infine, in presenza di una disposizione che, in quanto avulsa dalla disciplina delle inibitorie ex artt. 52 e 62 bis D.Lvo 546/92, e testualmente riferita alla fase del provvisorio “pagamento” in favore del contribuente, sembra presupporre l’avvenuto rigetto dell’eventuale inibitoria dell’Ufficio (15), o la sua assenza (16), invece che delineare un limite, o stabilire una condizione, per l’eseguibilità della sentenza non definitiva. Queste molteplici peculiarità disciplinari inducono a ritenere auspicabile che la lacuna esistente in punto di individuazione del giudice legittimato ad affrontare le questioni relative alla “solvibilità” o “insolvibilità” del beneficiario della condanna (ed a disporre l’eventuale subordinazione del pagamento alla prestazione di garanzie), venga colmata ravvisandolo in quello del giudizio di ottemperanza, invece che in quello chiamato a pronunciare sulla fondatezza o meno delle ragioni creditorie vantate dal contribuente. Inducono invero ad escludere la proponibilità di tale questione nel quadro del giudizio sulla fondatezza delle pretese creditorie del contribuente: a) la necessità che vengono adottati con sentenza (invece che con ordinanza) i provvedimenti destinati a riverberarsi nei successivi gradi del giudizio ed il contrasto con il fondamentale principio del giusto processo di pronunce che ipoteticamente confermino la condanna dell’Ufficio al pagamento, al contempo disponendo la prestazione di garanzie per l’eventualità di una loro successiva riforma (17);
(15) …poiché, se l’inibitoria viene accolta, cade automaticamente la possibilità di conseguire il provvisorio pagamento delle somme. (16) …poiché l’onere di garanzia dovrebbe poter essere imposto dal giudice anche in assenza di inibitoria. (17) In questo senso, cfr. anche Sepe, Nuove regole su esecutività delle sentenze e misure cautelari successive, in Il Fisco, 2016, p. 38 ss., ove, a proposito dell’onere di garanzia, giustamente
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b) la necessità di evitare l’impropria insorgenza di complesse problematiche di riparto degli oneri probatori, e di corrispondenza tra chiesto e pronunziato, in relazione ad una questione (la “solvibilità” del contribuente) che a rigore dovrebbe ritenersi improponibile in primo grado, e che è comunque irrilevante ai fini della pronunzia sulla fondatezza o meno delle ragioni creditorie del contribuente; c) nonché il fatto dell’essere gli effetti di ogni pronuncia giudiziale sulle garanzie che il contribuente ha dato (o deve dare) in nessun caso destinati a passare in giudicato, in quanto comunque vanificati dalla sentenza conclusiva del giudizio di merito sulla fondatezza delle pretese creditorie del contribuente (18). Di converso, l’attribuzione al giudice dell’ottemperanza dei poteri decisori sulle “idonee garanzie” da richiedere (o non richiedere) al percettore dei provvisori pagamenti in corso di causa appare imposta: a) dalla loro espressa correlazione alla fase del pagamento delle somme invece che alla pronuncia sull’inibitoria (eventualmente proposta dall’Ufficio); e dall’avere anzi il loro naturale presupposto logico-giuridico nell’inesistenza, o nel rigetto, della relativa istanza; b) dalla possibilità che il contribuente differisca nel tempo l’avvio del giudizio di ottemperanza, o lo instauri per una parte soltanto delle sue complessive spettanze, sottoponendo in ogni caso le sue istanze concretamente satisfattive ad uno specifico vaglio giudiziale; c) e dalla necessità che il profilo della “solvibilità” venga affrontato tenendo conto, oltre che della situazione patrimoniale del contribuente al momento del pagamento, anche degli effetti degli incisivi poteri autoritativi dei quali l’Amministrazione potrebbe nei singoli casi avvalersi nello svolgimento della sua eventuale azione di recupero.
si osserva come risulti “…contraddittorio che a disporla sia lo stesso giudice che, con la pienezza della verifica giudiziaria, ha stabilito l’esistenza del credito in capo al contribuente, sottoponendo la sua riscossione alla condizione di una garanzia, integrante per il contribuente un onere che potrebbe rappresentare un ostacolo alla realizzazione del proprio diritto…”. (18) …poiché, se il contribuente risulta definitivamente vincitore si estinguono automaticamente le garanzie anteriormente concesse; e se invece rimane soccombente, i suoi obblighi restitutori degli importi medio tempore conseguiti discendono dalla finale sentenza, indipendentemente dall’assolvimento o meno degli eventuali oneri di garanzia.
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In sintesi, la riserva al giudice dell’ottemperanza delle questioni relative alla “solvibilità” del contribuente ha in questo campo le sue fondamentali giustificazioni, per un verso, nelle molteplici variabili che possono condizionare l’emersione della relativa esigenza, e, per altro verso, nella necessità che esse vengano affrontate e risolte con un provvedimento (sentenza, anziché ordinanza) ad esse specificamente dedicato, e vincolante anche per i gradi di giudizio successivi a quello nel corso del quale viene adottato. Per completezza, e con specifico riferimento alle “garanzie” (o “controcautele”) che al contribuente possono essere richieste per ottenere il provvisorio pagamento delle sue spettanze, un duplice ordine di notazioni va qui aggiunto. a) L’esistenza di un limite normativo (euro diecimila) per gli importi che possono essere pagati senza alcuna garanzia, unitamente all’espresso richiamo della disciplina delle garanzie previste per i rimborsi dell’IVA a credito per l’effettuazione dei provvisori pagamenti eccedenti quel limite, hanno determinato l’iniziale diffondersi del convincimento della temporanea improcedibilità dei giudizi di ottemperanza nelle more dell’emanazione del decreto ministeriale contenente (ai sensi dell’art. 69, comma 2) la specifica disciplina delle garanzie da concedere (19). Si è trattato, tuttavia, di una tesi alimentata più dalla Relazione governativa sullo Schema di decreto delegato (20), che dal contenuto effettivo della disposizione poi definitivamente varata; nella quale, senza riferimenti di sorta al suddetto decreto ministeriale, è inequivocabilmente devoluta soltanto al prudente apprezzamento del giudice la valutazione, caso per caso, dell’oppor-
(19) Per maggiori riferimenti sul punto, cfr. Iorio, Liti fiscali, restituzioni bloccate,, in Il Sole 2 Ore, del 23 giugno 2016, p. 43. (20) …pubblicata in Glendi, Consolo, Contrino, Abuso del diritto e novità sul processo tributario, Milano 2016, ove (a pag. 416) risultava espressamente dichiarato l’intento “…di subordinare il pagamento di somme in favore del contribuente ad una idonea garanzia, il cui onere graverà comunque sulla parte che risulterà definitivamente soccombente nel giudizio, con le seguenti eccezioni: - pagamenti di somme fino a 10.000 euro; - restituzioni delle somme pagate in corso di causa, a norma dell’art. 68, comma 2, del decreto (qualunque sia l’importo). In questi casi pertanto l’esecutività della sentenza sarà incondizionata. La necessità in via generale di una garanzia (per le somme eccedenti il predetto importo) ha anche l’indubbio vantaggio di evitare che la parte pubblica nei casi di impugnazione di una sentenza che la condanni a rimborsare somme al contribuente, sia indotta a chiedere sistematicamente la sospensione della sentenza…”, ecc.
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tunità o meno dell’imposizione dell’onere di garanzia; ed il fatto dell’avere il legislatore tributario correlato tale onere alle “condizioni di solvibilità dell’istante” (invece che, come disposto dall’art. 283 c.p.c., alla ”possibilità di insolvenza di una delle parti”) non esclude che la valutazione suddetta, per un verso, debba essere rigorosamente ancorata alla situazione patrimoniale del contribuente esistente al momento del pagamento (e non anche all’eventualità di suoi successivi ed ipotetici mutamenti), e possa per altro verso sfociare nella “non subordinazione” del provvisorio pagamento a specifiche garanzie, ovvero nella loro limitazione ad una parte soltanto degli importi dovuti al contribuente. Non sta scritto invero da alcuna parte che le garanzie per l’eventuale restituzione debbano sempre essere richieste, e necessariamente coprire l’intero ammontare del credito vantato dal contribuente; l’esclusione da obblighi di garanzia per i pagamenti inferiori a diecimila euro dovrebbe ragionevolmente tradursi in un corrispondente abbattimento degli importi da garantire quando le ragioni creditorie del contribuente sono maggiori di esso (21); e, come al contribuente deve ritenersi consentita l’instaurazione del giudizio di ottemperanza soltanto per una parte delle sue ragioni creditorie, così non si vede come potrebbe essere negata al giudice la possibilità di disporre oneri di garanzia circoscritti ad una parte soltanto della totalità delle ragioni creditorie medesime. b) Appare anche frettolosa, e comunque non persuasiva, la tesi secondo la quale la “idonea garanzia” di cui all’art. 69, comma 1, dovrebbe essere data dal contribuente, sempre e necessariamente, nei modi e nelle forme stabilite dal decreto ministeriale (peraltro, non ancora emanato) di cui al secondo comma dello stesso articolo. Ivi infatti si dispone che “…Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emesso ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono disciplinati il contenuto della garanzia sulla base di quanto previsto dall’articolo 38-bis, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, la sua durata nonché il termine entro il quale può essere escussa, a seguito dell’inerzia del contribuente in ordine alla
(21) …anche se in senso diverso si sono espresse sia la Relazione governativa che la Circ. N. 38/E cit., ove si afferma che “…il riferimento al pagamento di somme dell’importo superiore al predetto importo esclude che tale limite possa operare come una franchigia per le evidenti complicazioni che un tale sistema provocherebbe…”.
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restituzione delle somme garantite protrattasi per un periodo di tre mesi…”. Ed è già stata da più parti rilevata l’improprietà dell’accostamento che è stato così operato delle garanzie che qui interessano (e che sono fondate su sentenze di condanna, ancorchè non definitive) con quelle richieste per l’effettuazione di rimborsi dell’IVA credito, sulla base soltanto della dichiarazione del contribuente, ed in assenza di preliminari controlli amministrativi sulla regolarità del suo operato (22). Qui va a tal proposito aggiunto che l’art. 69, comma 1, disponendo che “…il pagamento di somme… può essere subordinato dal giudice… alla prestazione di idonea garanzia…”, non opera in realtà alcun rinvio (né esplicito, nè implicito) al successivo comma 2, e non esclude minimamente che dal giudice possa essere ritenuta “idonea” anche una garanzia diversa da quella ivi prevista e regolata. Sembra, in definitiva, che la disciplina che sarà contenuta nel decreto ministeriale di cui all’art. 69, comma 2, debba ritenersi principalmente volta ad orientare e vincolare l’operato degli Uffici finanziari nei casi di effettuazione stragiudiziale del provvisorio pagamento; e non anche le totalmente libere determinazioni del giudice dell’ottemperanza nei casi in cui il contribuente ad esso è costretto a rivolgersi. 5. Osservazioni conclusive. – Può a questo punto concludersi che la problematica delle tutele cautelari nei processi tributari ha in realtà poco a che fare con la parità delle parti in giudizio; e molto invece con una lata nozione del giusto processo. Nei processi tributari non esiste invero una reale parità delle parti ai fini che qui interessano, perché gli interessi pubblici dei quali sono portatori gli Uffici finanziari si riflette nella riserva ad essi di poteri autoritativi e profili disciplinari dalla cui fruizione i contribuenti rimangono comunque esclusi; mentre è dal principio del giusto processo che discendono l’esigenza di un equilibrato riparto delle conseguenze pregiudizievoli della durata dei giudizi, e la necessità del contenimento di quelle strumentalizzazioni del processo che proprio la “disparità” delle parti può in diversi modi consentire a ciascuna di esse. La disciplina delle tutele cautelari costituisce un fattore di non secondario rilievo di tali possibili anomalie; e ad essa occorre guardare prestando atten-
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Sul punto, cfr. anche Sepe, op. loc. citt.
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zione soprattutto alla coerenza interna dei suoi contenuti, ed alla sua idoneità a fornire risposte flessibili alle contrapposte esigenze delle parti in causa; in una prospettiva di tendenziale ed equitativo “parallelismo” (più che di formale “parità”) tra le risposte da dare alle istanze avanzate in giudizio sia dagli Uffici che dai contribuenti. Da questi punti di vista, le innovazioni normative che si sono esaminate meritano certamente positivo apprezzamento; ma costituiscono pur sempre soltanto una tappa; perché molta strada resta ancora da percorrere nella direzione del superamento degli attuali limiti di operatività della disciplina delle “riscossioni frazionate” e del contenimento degli automatismi che attualmente ne caratterizzano l’applicazione, oltre che delle rigidità che sembrano profilarsi in punto di provvisoria esecuzione delle sentenze di condanna degli Uffici a pagamenti in favore dei contribuenti. Salvatore La Rosa
Tassazione ambientale e inquinamento acustico aeroportuale Sommario: 1. Premessa. – 2. Il tributo come strumento economico di intervento di politica ambientale. – 3. I modelli di fiscalità ambientale nel contesto internazionale ed europeo. – 4. La capacità contributiva nei tributi ambientali. – 5. Attività aeroportuale, inquinamento acustico e tutela della salute. – 6. La disciplina del rumore aereo nell’ordinamento internazionale e nel quadro normativo interno: cenni. – 7. La “tassa sul rumore” del trasporto aereo. – 8. L’evoluzione normativa nazionale della tassazione sulle emissioni sonore degli aeromobili. – 9. La ricostruzione dell’IRESA come tributo ambientale parzialmente di scopo. – 10. IRESA e autonomia tributaria regionale. – 11. Il difficile debutto dell’IRESA e le problematiche di ordine concorrenziale. – 12. L’istituzione dell’IRESA ad opera delle singole leggi regionali. – 13. Considerazioni conclusive e possibili ipotesi di sviluppo.
L’inquinamento acustico costituisce un serio problema ambientale che negli ultimi anni ha acquisito una certa rilevanza, soprattutto quello derivante dal rumore prodotto dagli aerei, grande elemento di disturbo per la popolazione residente vicino agli aeroporti. Nel presente contributo vengono analizzati gli strumenti giuridici di contrasto a questa forma di inquinamento; in particolare, viene presa in considerazione l’IRESA (Imposta Regionale Sulle Emissioni Sonore degli Aeromobili), un tributo che ha lo scopo di ridurre il rumore nelle zone che si trovano vicino agli aeroporti, della quale viene operata una ricostruzione storica e l’inquadramento giuridico nel contesto della tassazione ambientale. Noise pollution is a serious environmental problem that has become increasingly important in recent years, especially airplane noise pollution, a huge problem for residents near airports. This article analyzes the legal instruments opposing this type of pollution. In particular, there is a focus on IRESA (Imposta Regionale Sulle Emissioni Sonore degli Aeromobili), a tax whose purpose is to reduce noise in areas surrounding airports. There is also a legal and historical reconstruction of IRESA, in the context of environmental taxation.
1. Premessa. – L’inquinamento acustico costituisce un serio problema ambientale che, sebbene rispetto ad altre forme di inquinamento sia temporaneo e non lasci tracce nell’ambiente esterno in senso fisico, costituisce un grave
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fattore di turbativa degli equilibri ambientali nonché di concreta minaccia per la salute umana, capace di incidere anche in maniera considerevole sulla qualità della vita. Tra le varie manifestazioni di “rumore” derivanti dalle attività dell’uomo, una certa rilevanza assume quello derivante dal sorvolo degli aerei, che da sempre costituisce la principale fonte di conflittualità tra gli aeroporti e le comunità locali residenti nei territori limitrofi. Nonostante il progresso tecnologico abbia contribuito a diminuire nel corso degli anni il rumore prodotto dagli aeromobili, le relative problematiche acustiche non si sono ridotte; al contrario, negli aeroporti regionali lo sviluppo delle compagnie aeree low-cost ha provocato un sensibile aumento della problematica. Il maggior elemento di disturbo segnalato dalla popolazione è rappresentato dal rumore prodotto dagli aerei in fase di decollo ed atterraggio, il quale risulta particolarmente avvertito nelle zone caratterizzate da un buon clima acustico, ed anche qualora il numero dei sorvoli nell’arco di una giornata sia relativamente limitato, presentano livelli di rumore così elevato da provocare sempre un significativo effetto disturbante. Nel nostro Paese esiste una complessa normativa speciale volta alla regolamentazione del rumore aeroportuale, diretta a contemperare le due diverse esigenze connesse, da un lato, a consentire lo sviluppo del traffico aereo, dall’altro a tutelare la popolazione residente sotto le rotte di atterraggio e decollo degli aerei. Infatti, la sempre crescente sensibilità della popolazione verso la protezione dell’ambiente ha favorito sia l’adozione di contromisure di tipo tecnico volte alla mitigazione del rumore aeronautico, consistenti nella realizzazione di innovazioni tecnologiche (come, ad esempio, lo sviluppo di motori più silenziosi o l’adozione di tecniche di riduzione di spinta nella fase del decollo), ma anche la previsione di una normativa finalizzata alla definizione di modalità, procedure, misure ed interventi per la prevenzione e la mitigazione dell’impatto acustico generato dal traffico aereo. Tra le forme di intervento pubblico in materia di rumore aeronautico, anche lo strumento fiscale è stato visto come una delle possibili alternative per la riduzione del fenomeno, e ciò ha comportato l’introduzione, a livello internazionale, di “tasse sul rumore”, proporzionate alla rumorosità degli aeromobili, con funzione incentivante verso l’utilizzo di aeromobili più silenziosi, oltre che fonte di reperimento dei fondi necessari da impiegare nelle opere di monitoraggio e disinquinamento acustico. Anche in Italia, a partire dagli anni novanta, sono stati introdotti tributi di questo genere ed attualmente viene applicata l’IRESA, Imposta Regionale
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sulle Emissioni sonore degli Aeromobili, un tributo la cui ratio è rinvenibile proprio nella necessità di ridurre l’inquinamento acustico nelle aeree limitrofe agli aeroporti e di favorire un generale miglioramento della vivibilità dei territori coinvolti dalle attività aeroportuali. L’introduzione di questo tributo, se fino a qualche decennio fa nemmeno sembrava ipotizzabile, in quanto collegato a fatti non concreti ed empiricamente misurabili, è stata salutata con favore proprio in considerazione degli sperati effetti positivi per l’ambiente e la salute dell’uomo, suscitando però sin dal principio una serie di perplessità tra gli studiosi della materia, soprattutto sotto il profilo della sua vocazione “ambientalista”, da taluno ricondotta alla natura di “tributo di scopo”, con funzione prevalentemente indennitaria. Tali problematiche, in effetti, sorgono in relazione al tributo in questione dove il fine ambientale viene perseguito indicando il “rumore” quale uno dei parametri per la determinazione dell’imposta dovuta, i cui proventi sono proprio destinati al finanziamento del completamento dei sistemi di monitoraggio acustico, di opere di disinquinamento e dell’eventuale indennizzo della popolazione residente negli intorni aeroportuali. A nostro avviso si tratta di un prelievo interessante sotto il profilo teorico perché coinvolge rilevanti questioni di carattere generale legate al tema della fiscalità ambientale, ma nonostante le sue potenzialità come strumento di tutela dell’ambiente, sono poche le Regioni italiane che hanno deciso di istituirlo ed alcune di esse hanno addirittura preferito abrogarlo. L’interesse verso questa forma di imposizione è riaffiorato soprattutto in seguito alle vicende che hanno interessato la Regione Lazio che, probabilmente con l’intento di ripianare il deficit strutturale di bilancio, ha inizialmente fissato un’aliquota sproporzionata rispetto a quelle adottate dalle altre Regioni, destinando soltanto il dieci per cento del gettito al disinquinamento acustico ambientale. Nella presente trattazione si intende effettuare la ricostruzione teorica di tale imposta sulla base del diritto positivo, partendo dal modello astratto di tributo ambientale elaborato dalla dottrina, che a sua volta tiene conto delle indicazioni della Commissione europea, a cui potrà poi essere confrontato il modello adottato dal nostro legislatore tributario, al fine di analizzarne l’aderenza ovvero lo scostamento. Il corretto inquadramento giuridico dell’imposta in esame, tuttavia, non può prescindere da una preliminare analisi dei principi generali in tema di tassazione ambientale, nel cui più vasto ambito si inserisce, che comprende una serie di aspetti, tutti legati all’elemento “ambiente”, seppure sotto diver-
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se prospettive. In tal senso l’ambiente verrà preso in considerazione sia sotto un profilo economico (dando vita alle teorie economiche della tassazione ecologica), sia da un punto di vista giuridico, quindi come bene oggetto di tutela (condizionando la definizione stessa di “tributo ambientale”), quale valore costituzionale (da bilanciare con gli altri principi della Costituzione che riguardano la materia tributaria) e come materia (incidendo sul riparto delle competenze normative in materia tributaria) (1). Di tutti questi aspetti si dovrà necessariamente tenere conto nelle pagine che seguono, prima di procedere all’analisi della natura giuridica dell’IRESA e delle problematiche che ancora oggi accompagnano l’applicazione pratica del tributo. 2. Il tributo come strumento economico di intervento di politica ambientale. – Fra interessi economici e interessi ambientali sussiste da sempre un inevitabile contrasto, trovando l’ambiente la sua principale fonte di minaccia nelle condotte dell’uomo, riconducibili quasi sempre a ragioni speculative. E poiché l’interesse alla tutela ambientale, pur essendo percepito come un interesse generale, normalmente non è di spontanea osservanza per i singoli individui (o, quanto meno, lo è in misura ridotta rispetto ad altri interessi, come ad esempio quello alla salute), si rende necessario l’intervento pubblico per condizionare, in qualche modo, lo svolgimento delle attività economiche nel senso più favorevole all’ambiente. La tutela dell’ambiente, che ha conosciuto negli ultimi anni un’importanza sempre crescente, è da tempo garantita mediante la predisposizione di strumenti
(1) Sul concetto giuridico di “ambiente” si veda M.S. Giannini, Ambiente: saggio sui suoi diversi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubb., 1973, 15 ss.; G. Rossi, La “materializzazione” dell’interesse all’ambiente, in AA.VV., Diritto dell’ambiente, a cura di G. Rossi, Torino, 2011, 11 ss. Sulla rilevanza giuridica dell’ambiente come valore costituzionale, si vedano, tra gli altri, B. Caravita, Diritto dell’ambiente, Bologna, 2005, 16 ss.; M. Cecchetti, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, Milano, 2000, 6 ss. Si osserva, altresì, in dottrina che tale termine, avendo assunto con il tempo un significato sempre più ampio (passando da una nozione di “ambiente in senso stretto” ad una nozione di ambiente “in senso lato”, che si riferisce a tutto l’habitat umano, all’equilibrio ecologico e delle sue parti, ivi compresi gli esseri umani), ha favorito l’evoluzione stessa del diritto dell’ambiente, che da una prima fase di irrilevanza giuridica dell’interesse ambientale, ha conosciuto un progressivo rafforzamento della tutela giuridica all’ambiente, inteso come interesse primario, fino a condurre alla fase, attualmente in corso, in cui è maturata la consapevolezza del carattere non settoriale del diritto dell’ambiente (in tal senso G. Rossi, L’evoluzione del diritto dell’ambiente, in Riv. quadr. dir. amb., 2015, 2 ss.).
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di mercato di natura giuridico-economica, finalizzati alla prevenzione di danni ambientali e, a margine, alla riparazione delle risorse ambientali danneggiate. Nella ricerca di strumenti alternativi ai limiti, divieti e controlli previsti dalle normative di settore (c.d. regolamentazione diretta), lo strumento tributario è stato visto, sia dagli economisti che dai giuristi, come una delle migliori soluzioni, dando luogo all’approfondimento dell’ampio tema della “tassazione ambientale” (o “tassazione ecologica”) che, nella terminologia tradizionale, comprende l’insieme delle imposte, tasse, canoni, contributi ecc. dovuti dal produttore-inquinatore ovvero dal semplice utilizzatore al fine di prevenire, ridurre o eliminare una determinata attività inquinante. L’argomento in questione è stato, in un primo momento, affrontato quasi unicamente in ambito economico, sotto l’aspetto della valutazione dell’influenza negativa che ogni fenomeno inquinante provoca sull’ambiente, inteso dagli economisti come una “sorta di patrimonio polifunzionale”, di cui è non solo possibile riconoscere un valore economico, ma anche effettuare una valutazione in termini di costi derivanti dalla riduzione del benessere complessivo dovuto alle attività antropiche dell’uomo (produzione e consumo di beni e servizi ovvero attività economiche in genere) (2). In tale prospettiva, l’inquinamento è stato considerato, in tutte le sue forme, un elemento distorsivo all’interno del mercato, idoneo a creare disfunzioni ed allocazioni inefficienti delle risorse, spingendo gli economisti alla ricerca di strumenti correttivi di prevenzione dell’inquinamento e di tutela ambientale, in grado di riportare il sistema ad un livello di equilibrio. Solo in seguito il fenomeno ambientale ha costituito oggetto di approfondimento da parte della dottrina tributaria dando origine, come vedremo tra poco, a diverse correnti di pensiero per l’elaborazione di una nozione di tributo ambientale. Sotto tale profilo, il problema ambientale viene analizzato dall’economista in una visione diversa, seppure altrettanto interessante, rispetto a quello da cui si muove il giurista, per il quale ultimo la soluzione al problema in questione non consiste nel trovare soluzioni idonee a ristabilire un equilibrio di mercato, ma nel realizzare un equilibrato contemperamento dei diversi interessi che consenta di preservare condizioni ambientali compatibili con gli equilibri dell’ecosistema, senza penalizzare eccessivamente le attività economiche (3).
(2) M. Cecchetti, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, cit., 118-119. (3) Così R. Perrone Capano, L’imposizione e l’ambiente, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, 473 ss.
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Nella prospettiva puramente economica, le conseguenze negative prodotte dalle attività inquinanti sull’ambiente sono considerate dei “costi sociali”, costi cioè che, anziché ricadere sul soggetto che sfrutta le risorse naturali e altera l’equilibrio ecologico, sono sopportati dalla collettività, costretta a subirne gli effetti sfavorevoli. Si parla, in questo caso, di “esternalità negative” in campo ambientale, proprio per indicare l’effetto negativo che l’attività produce nel benessere collettivo, la cui presenza ha spinto gli economisti alla ricerca di misure correttive capaci di “contabilizzare” i costi esterni, vale a dire di “internalizzare” il costo dell’inquinamento nel prezzo del servizio delle attività che lo causano (4). Alla base di tale teorie vi è la convinzione che il compito dello Stato non sia quello di eliminare completamente l’inquinamento (essendo ciò praticamente impossibile), ma di condurre il sistema ad un livello di inquinamento efficiente da un punto di vista sociale, per raggiungere il quale occorre indurre individui ed imprese a seguire comportamenti idonei. A tal fine, secondo la teoria economica, lo strumento migliore per rimediare al problema dell’inquinamento è l’uso di “imposte correttive” da far pagare al soggetto che inquina, secondo il principio comunitario “chi inquina paga” sancito dall’art. 174 del Trattato CE (come modificato dal Trattato di Amsterdam) (5), in virtù del quale l’inquinatore è tenuto a pagare il pieno costo sociale (compresi i costi ambientali) della propria attività (6).
(4) Sull’inquinamento come diseconomia esterna, v. R. Perrone Capano, L’imposizione e l’ambiente, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, cit., 160 ss.; F. Osculati, La tassazione ambientale, Padova, 1979, 7 ss.; A. Uricchio, Emergenze fiscali e imposizione, in AA.VV., La dimensione promozionale del fisco, Bari, 2015, 323-324; G. D’Andrea, La nozione di tributo ambientale, in Riv. dir. trib. int., 2004, 106; M. Valero, P. Antonio, Fattori economici scatenanti, fiscalità e politiche di cambiamento climatico, in Riv. dir. trib. int., 2012, 283 ss.; F. Picciaredda, P. Selicato, I tributi e l’ambiente. Profili ricostruttivi, Milano, 1996, 2. (5) L’art. 174, paragrafo 2, del Trattato delle Comunità europee, nel testo attualmente in vigore, stabilisce che la politica della Comunità in materia ambientale “… è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio ‘chi inquina paga’”. Dal contesto letterale della disposizione, in particolare dalla congiunzione “nonché”, pare evidente che chi esercita attività inquinanti deve non solo “compensare” il danno cagionato all’ambiente, ma anche contribuire alla rimozione pratica degli effetti prodotti e partecipare alle azioni pubbliche volte alla prevenzione di deterioramenti anche solo eventuali e ipotetici e funzionalmente collegabili con la sua condotta (P. Selicato, Imposizione fiscale e principio “chi inquina paga”, in Rass. trib., 2003, 126). (6) Il principio “chi inquina paga” è stato formulato per la prima volta nella Raccomandazione OCSE C(72) del 26 maggio 1972, secondo la quale “le persone fisiche o giuridiche, di diritto pubblico o privato, responsabili di un inquinamento devono pagare le
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Tale regola, che con il tempo ha assunto il carattere di principio di efficienza economica, ispirando l’evoluzione della disciplina comunitaria nel senso dell’introduzione di prelievi commisurati agli effetti dell’inquinamento, impone che i costi collettivi derivanti dalle attività ecologicamente dannose non ricadano sui consociati ma, almeno in parte, sugli stessi inquinatori, che siano persone fisiche o giuridiche, attraverso soluzioni compatibili sia con le finalità di salvaguardia ambientale, sia con il processo di sviluppo economico. L’azione inquinante si traduce così in un costo aziendale tanto più elevato, quanto maggiore è il danno producibile. Si tratta di un principio a cui sono state attribuite differenti chiavi di lettura e che, pur avendo sollevato da più parti dubbi e perplessità (7), può essere
spese delle misure necessarie per evitare tale inquinamento o per ridurlo al fine di rispettare gli obiettivi di qualità o, quando tali obiettivi non esistono, le norme fissate dai pubblici poteri” (anche se l’esordio enunciativo è probabilmente già rinvenibile nella legge francese 16 dicembre 1964, n. 1245, sulla istituzione delle agences financières de bassin, in cui aveva trovato compiuta espressione la formulazione “chi inquina paghi e chi depura venga aiutato”). Nel 1987 l’Atto Unico Europeo lo eleva a rango di principio della politica della Comunità in materia ambientale, disciplinata dal Titolo XIX “Ambiente” (artt. 174-176), del Trattato CE. Per una ricostruzione dell’origine e del contenuto di tale principio, v. M. Meli, Le origini del principio “chi inquina paga” e il suo accoglimento da parte della Comunità europea, in Riv. giur. amb., 1989, 217 ss.; C. Verrigni, La rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nei tributi ambientali, in Rass. trib., 2003, 1616 ss.; M. Allena, I tributi ambientali tra normativa interna e disposizioni comunitarie, in AA.VV., Diritto doganale, delle accise e dei tributi ambientali, Ipsoa, 2014, 813 ss.; G. Tarantini, Il principio “chi inquina paga” tra fonti comunitarie e competenze regionali, in Riv. giur. amb., 1989, 713 ss. (7) Il principio in questione è stato oggetto di studio sotto diverse prospettive: quella giuridico-civilistica, che lo ha collocato fra le fonti di responsabilità civile di tipo aquiliano, sia pure evidenziandone una connotazione oggettiva (A. Jazzetti, Politiche comunitarie e tutela dell’ambiente, in Riv. giur. amb., 1995, 46; F. Giampietro, La responsabilità per danno all’ambiente, Milano, 1988, 332); quella economico-sociale, che ne ha esaltato la funzione di internalizzazione dei costi derivanti dalla rimozione delle conseguenze dell’inquinamento prodotto, con il conseguente effetto di indurre gli operatori a scegliere attività o beni meno inquinanti (J. P. Barde, E. Gerelli, Economia e politica dell’ambiente, Bologna, 1990; M. Meli, Le origini del principio “chi inquina paga” e il suo accoglimento da parte della Comunità europea, cit., 243); quella che, accentuando gli effetti fiscali del principio, pone l’accento sull’elemento della coattività e fa rientrare i prelievi ambientali nel campo dell’imposizione fiscale (F. Picciaredda, P. Selicato, I tributi e l’ambiente. Profili ricostruttivi, cit., 72 ss.); infine, quella che guarda al principio in questione come un precetto generico legittimante diverse forme d’intervento, come quelle di tipo sanzionatorio, risarcitorio o tributario (A.L. De Cesaris, Le politiche comunitarie in materia di ambiente, in AA.VV., Diritto ambientale comunitario, a cura di S. Cassese, Milano, 1995). Le difficoltà interpretative riferite al principio “chi inquina paga” sono frutto della naturale evoluzione dello stesso che, nato come mezzo per far ricadere sugli inquinatori i costi dell’inquinamento da esso prodotto, assunse in principio
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considerato la principale fonte di legittimazione per l’esercizio delle potestà normative degli Stati membri in materia di fiscalità ambientale (di carattere impositivo o agevolativo), oltreché un’importante limitazione all’adozione di misure con esso contrastanti (8). In effetti, per la grande varietà delle applicazioni giuridiche che comporta, tale principio si presta a coprire una serie piuttosto ampia di interventi ambientali, anche se quelli di carattere fiscale appaiono destinati a rivestire nelle politiche comunitarie un ruolo sempre più centrale. Nella ricerca di un equilibrio di mercato, l’imposizione fiscale viene, dunque, vista come uno dei possibili strumenti che consentono di coniugare le ragioni dell’economia e del libero mercato con quelle ecologiche, di salvaguardia dell’ambiente e della salute (9). Le odierne imposizioni sull’inquinamento sono costruite, seppure con innumerevoli varianti, sul primo modello di tassazione ambientale elaborato dall’economista inglese Arthur Cecil Pigou che, nella prima metà del secolo scorso, ipotizzò una tassazione delle attività inquinanti gravante sull’inquinatore e basata sulla stima del danno ambientale cagionato o costo esterno (10).
una connotazione preventiva, a prescindere dalla relazione diretta con il danno ambientale, dalla specifica identificazione del responsabile e dalla conseguente obbligazione risarcitoria. (8) Questo principio, se da un lato viene ritenuto fonte di legittimazione di tributi aventi come obiettivo la tutela dell’ambiente e di tante agevolazioni fiscali ambientali, dall’altro lato suscita preoccupazioni per una sua possibile interpretazione nei termini di una sorte di “licenza ad inquinare”, nel senso di ritenere i costi imputati all’inquinatore il prezzo sostenuto per l’acquisto dell’autorizzazione ad inquinare. In tal senso v. F. Picciaredda, P. Selicato, I tributi e l’ambiente. Profili ricostruttivi, cit., 77. (9) Come è stato osservato in dottrina (R. Rivello, Economia e ambiente in Europa: una distonia sinergica, in AA.VV., La tutela dell’ambiente, a cura di F. Ferrara, Torino, 2006, 83-84), la storia della tutela ambientale è la storia della ricerca di un equilibrio tra esigenze economiche ed esigenze ambientali. (10) A. C. Pigou, The Economics of welfare, London, 1918 (tradotto in italiano da Einaudi, con il titolo Economia del benessere, Torino, 1968). L’esempio classico fornito dall’economista è costituito da una fabbrica di prodotti industriali che con i suoi residui inquina l’aria e le acque di un fiume limitrofo. Nella sua opera l’economista svelò i costi nascosti dell’inquinamento prodotto dalle emissioni di fumi delle fabbriche e delle abitazioni di Manchester che, in definitiva, erano doppi, in termini monetari, rispetto al valore della produzione di acciaio ottenuta. In tali situazioni Picou sosteneva che sarebbe necessario un intervento dello Stato che penalizzi l’impresa mediante un’imposta, addossandole i costi sociali. Studiando le influenze delle esternalità sull’economia del Paese, egli sosteneva, infatti, che anche in un mercato con concorrenza perfetta è sempre necessario l’intervento dello Stato e che il naturale funzionamento del mercato è il migliore regolatore dell’allocazione delle risorse, quando viene supportato dai regolamenti dell’Autorità Pubblica (sussidi e tasse). Altri
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Sulla base di tale teoria, il problema dell’inquinamento potrebbe essere risolto applicando un’imposta speciale a carico dell’industria inquinante, il cui ammontare dovrebbe essere calcolato in modo tale da realizzare la coincidenza tra l’aumento dei costi di produzione ed i costi sociali di cui l’industria è responsabile. Attraverso la traslazione sui prezzi di offerta, la nuova imposta determinerebbe, oltre alla internalizzazione dei costi dell’inquinamento, una diminuzione delle quantità vendute e, di conseguenza, una riduzione dell’inquinamento nella misura giustificata dall’ottima allocazione delle risorse. In tale direzione ha proseguito in seguito la maggior parte degli economisti, favorevoli all’uso delle imposte come rimedio per le inefficienze derivanti da esternalità negative, i quali, perfezionando ulteriormente l’ipotesi pigouviana, l’hanno applicata congiuntamente alla riduzione di altre imposte, elaborando modelli di imposizione i cui primi concreti interventi legislativi risalgono agli anni novanta (11). La proposta pigouviana, pur avendo subito nel tempo correttivi e adattamenti e pur essendo stata sottoposta a notevoli critiche (riferendosi ad uno schema di mercato di concorrenza perfetta, difficilmente riscontrabile nella realtà), ha avuto il merito di aver affrontato le problematiche legate all’inquinamento in chiave economico-finanziaria, esaltando il ruolo peculiare dell’azione pubblica, il cui obiettivo è quello di consentire il raggiungimento di un livello di “inquinamento accettabile”. Nella logica degli strumenti pigouviani
economisti, pur riconoscendo l’esistenza delle esternalità, hanno ritenuto che l’intervento pubblico non sarebbe lo strumento idoneo per risolvere i problemi connessi a tale fenomeno. Ad esempio, secondo R. Coase (The problem of the Social Cost, Journal of Law and Economics, 3, 1960, 1-44), il problema delle esternalità dovrebbe essere risolto mediante accordi tra le parti in conflitto (nell’esempio, l’impresa che inquina ed i soggetti danneggiati), al fine di individuare un prezzo per il risarcimento del danno, che dia loro reciproca soddisfazione. Sull’argomento v. J. E. Stiglitz, Economia del settore pubblico, Milano, 1989, 245 ss.; G. Palmerio, Elementi di economia politica, Bari, 2010. Sull’elaborazione pigouviana si veda F. Picciaredda, P. Selicato, I tributi e l’ambiente. Profili ricostruttivi, cit., 2 ss.; R. Perrone Capano, L’imposizione e l’ambiente, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, cit., 449 ss. (11) In particolare, nel 1991 la Svezia ha introdotto un’imposta sulle emissioni di carbonio (c.d. carbon tax) e un’imposta sulle emissioni di anidride solforosa (c.d. sulphur tax), con le quali si ebbe l’effetto di diminuire la concentrazione di inquinanti ed al tempo stesso una riduzione dell’imposizione sui redditi. Misure fiscali simili sono state introdotte anche in altri Paesi europei nel corso degli anni novanta, favorendo importanti effetti positivi sull’inquinamento atmosferico (per un excursus di tali prelievi v. A. Buonfrate, Codice dell’ambiente e normativa correlata, Torino, 2008, 857 ss.; R. Alfano, Tributi ambientali. Profili interni e europei, Torino, 2012, 221 ss.).
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rientrano ancora oggi tutti quelle forme di imposizione che, pur configurandosi diversamente da un punto di vista giuridico, sono applicate sulla quantità prodotta dall’impresa inquinante o sull’impulso al quale si riferisce l’azione dannosa per l’ambiente. Tra gli strumenti di politica pubblica per la protezione dell’ambiente il tributo deve essere distinto dalle altre forme di intervento di natura tributaria, come le agevolazioni e le esenzioni fiscali che (12), pur essendo ugualmente finalizzate a valorizzare l’ambiente, non hanno una funzione disincentivante dei comportamenti ecologicamente dannosi, ma servono ad incentivare comportamenti ecologicamente “virtuosi”, attraverso l’attenuazione del carico fiscale relativo ad interventi sui cicli produttivi che riducano l’inquinamento, ovvero all’adozione di impianti di depurazione o di abbattimento delle emissioni (13). Le politiche agevolative, infatti, in linea di massima, non conducono a un sistema di allocazione efficiente delle risorse perché, pur determinando condizioni positive per l’ambiente, tendono a trasferire sulla collettività il costo di contenimento dell’inquinamento, che dovrebbe al contrario gravare essenzialmente sui produttori responsabili delle diseconomie esterne. Nonostante ciò, la politica economico-ambientale ha tradizionalmente privilegiato l’applicazione del sistema delle agevolazioni fiscali rispetto all’impiego delle imposte, le quali hanno sempre riscontrato forti resistenze presso l’opinione pubblica ed un diffuso sentimento di diffidenza verso meccanismi di accentuazione del prelievo fiscale (14).
(12) Si fa rientrare nella categoria delle “agevolazioni fiscali ambientali” qualsiasi trattamento fiscale più mite a favore delle imprese, in deroga al regime ordinario, nell’ambito dell’applicazione dei tributi ambientali (F. Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992, 32 ss.). (13) Come osservato in dottrina (F. Amatucci, Agevolazioni fiscali ambientali, aiuti di Stato e incompatibilità comunitaria, in Riv. dir. trib. int., 2005, 84), quello impositivo è uno strumento a carattere disincentivante di comportamenti inquinanti, mentre quello agevolativo assume carattere incentivante di comportamenti compatibili con l’ambiente. Viene, altresì, osservato che il sistema delle agevolazioni fiscali in campo ambientale è una conseguenza, al pari dei tributi ambientali, del principio comunitario “chi inquina paga” che, letto in relazione alle agevolazioni, può essere tradotto come “chi inquina meno deve pagare di meno o non pagare affatto” (in tal senso M. Cedro, La fiscalità di vantaggio nella prospettiva del diritto dell’Unione europea, Padova, 2015, 119 ss.). Sul tema delle “agevolazioni fiscali ambientali” v. anche G. Selicato, Profili teorici e lineamenti evolutivi degli strumenti agevolativi a carattere fiscale e non fiscale per la promozione dello sviluppo sostenibile, in Riv. dir. trib. int., 2004, 399 ss.; R. Pignatone, Agevolazioni su imposte ambientali e aiuti di Stato, in AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. Ingrosso, G. Tesauro, Napoli, 2009, 747 ss.; R. Alfano, Agevolazioni fiscali in materia ambientale e vincoli dell’Unione europea, in Rass. trib., 2011, 328.; F. Pepe, Le agevolazioni fiscali regionali in materia ambientale, in Riv. dir. trib., 2012, 281 ss. (14) R. Perrone Capano, L’imposizione e l’ambiente, in AA.VV., Trattato di diritto
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Lo strumento tributario è, inoltre, generalmente preferito per fare fronte alle emergenze ambientali rispetto all’approccio più tradizionale, e di più semplice introduzione, della regolamentazione diretta (c.d. politica del command and control), consistente nella previsione legislativa di standard tecnici e prescrizioni giuridiche per la limitazione delle emissioni (ad esempio, requisiti di qualità dei prodotti oppure regole di comportamento per l’esercizio di determinate attività o l’utilizzo di certe sostanze), per l’adozione di sistemi di monitoraggio e per l’irrogazione di sanzioni agli inadempienti (15). Questo sistema, infatti, pur essendo necessario per garantire un livello di inquinamento sostenibile, esige una preponderante azione amministrativa (emanazione di ordini, rilascio di concessioni o licenze, svolgimento di controlli o irrogazione di sanzioni), risultando pertanto troppo molto dispendioso e meno efficace, nel complesso, dell’impiego delle imposte correttive che, peraltro, essendo modulabili in funzione dei diversi costi di riduzione dell’inquinamento, permettono di conseguire risultati complessivamente migliori rispetto agli standard e obblighi (16). Generalmente, inoltre, la regolamentazione diretta è più appropriata quando i fenomeni di inquinamento sono localizzati e derivano da un numero limitato di fonti, oppure quando il danno arrecato è tale da rendere necessario un divieto della condotta che lo origina. 3. I modelli di fiscalità ambientale nel contesto internazionale ed europeo. – I profili economici della tutela ambientale hanno avuto un ampio sviluppo sia in ambito internazionale, che comunitario, dove la tutela ambientale è considerata una delle finalità fondamentali da raggiungere, collocata dall’art. 3 del Trattato istitutivo sullo stesso piano degli obiettivi primari. Per tale ragione i tributi ambientali, in quanto strumenti economici per la tutela
tributario, cit., 162. Da un punto di vista economico, il motivo per il quale le imprese preferiscono il sussidio alla riduzione dell’inquinamento piuttosto che un’imposta sull’inquinamento è chiara: in presenza del sussidio, i profitti sono maggiori (in tal senso, J. E. Stiglitz, Economia del settore pubblico, cit., 989, 250). (15) In tal senso M. Cecchetti, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, cit., 118-119; G. Mastrodonato, Gli strumenti privatistici di tutela amministrativa dell’ambiente, in Riv. giur. amb., 2010, 707 ss. (16) Cfr. M. Cecchetti, La disciplina giuridica della tutela ambientale come “diritto dell’ambiente”, in www.federalismi.it, 78. Anche in materia tributaria la dottrina osserva che la regolamentazione diretta non incentiva la ricerca di processi produttivi meno inquinanti, né favorisce la diffusione di consumi sostitutivi con minore impatto ambientale (cfr. R. Perrone Capano, L’imposizione e l’ambiente, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, cit., 158).
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dell’ambiente, sono fortemente sostenuti anche dagli economisti, essendo in grado di determinare il livello ottimale di inquinamento attraverso il processo di internalizzazione dei costi sociali di cui si è fatto cenno, oltre che assicurare un gettito che può essere concretamente impiegato per rimuovere o attenuare il danno ambientale (17). In questa prospettiva il tributo ambientale, pur non dismettendo il proprio fine “fiscale” di procurare le entrate, persegue anche “fini extrafiscali” di promozione di comportanti o processi produttivi ecocompatibili, trovando ispirazione in principi costituzionali (come l’art. 32 Cost., sul diritto alla salute), che si pongono sullo stesso piano di quello contenuto nell’art. 53 Cost. e, in quanto tali, considerati costituzionalmente legittimi (18). Del resto, nell’ambito degli studi sull’extrafiscalità, la dottrina ha sempre rilevato, in generale, che se nella maggior parte dei casi il tributo non ha mai una funzione esclusivamente finanziaria, seppure comunque imprescindibile, producendo esso anche effetti economici e sociali, in misura più o meno ampia, accidentalmente o volutamente. Non è vero invece l’inverso, nel senso che un tributo non può avere una funzione esclusivamente extrafiscale, se non altro per la sua intrinseca suscettibilità a procurare un’entrata all’erario (19).
(17) Sul tema della fiscalità e della tutela dell’ambiente, si rinvia a AA.VV., La fiscalità ambientale in Europa e per l’Europa – Presentazione del Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, a cura di A. Di Pietro, Bari, 2016, che raccoglie gli esiti di una ampia ricerca condotta dalla Scuola Europea di Alti Studi Tributari di Bologna, su incarico del Ministero dell’Ambiente, dove vengono analizzate le esperienze della fiscalità ambientale negli Stati europei più significativi. (18) Si ritiene generalmente che il limite all’utilizzo extrafiscale del tributo ed alla conseguente deroga al principio di capacità contributiva sia rappresentato dallo spessore costituzionale dell’interesse alternativo che venga ad essere perseguito dal legislatore (G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario. I principi generali, Padova, 2016, 53-53). Sulla base dello stesso ragionamento sono state ritenute compatibili con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. le esenzioni e le agevolazioni fiscali (G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario. I principi generali, cit., 53; A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Parte I, Torino, 2005, 32). Ovviamente, deve sempre sussistere la potenzialità economica in capo al soggetto, non potendosi immaginare un concorso alle pubbliche spese di un soggetto che ne sia totalmente privo (in tal senso A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 46). (19) Cfr. I. Manzoni, Il principio di capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965, 102. Già in precedenza (A.D. Giannini, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937, 6 ss.) si riconosceva che lo scopo dell’imposta è quello di procurare un’entrata allo Stato, ma questo non costituisce l’unico motivo dell’imposizione, essendo il tributo uno strumento che si presta ad essere adoperato anche per il raggiungimento di scopi non fiscali. Sul tema della finalità extrafiscale dei tributi v. anche S. La Rosa, Le
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Le prime forme di imposizione ambientale introdotte in applicazione delle varie elaborazioni della teoria pigouviana di cui si è parlato hanno avuto origine già a partire dagli anni trenta (20), ma l’approfondimento teorico al tema della fiscalità ambientale può essere ricondotto agli anni settanta, sollecitato dagli studi condotti a livello internazionale, prima dall’OCSE e poi dall’Unione Europea. In effetti, nella ricerca delle misure intervento pubblico per la tutela dell’ambiente, l’OCSE ha inserito i tributi ambientali nell’ambito degli strumenti economici (insieme ai sussidi, ai depositi cauzionali, alle sanzioni, ai depositi cauzionali ed altri interventi di mercato) in grado di agire sul costo dei prodotti inquinanti e, di conseguenza, indirizzare le scelte degli inquinatori (21). In questa primigenia accezione internazionale, il tributo ambientale è stato identificato come qualsiasi forma di entrata pubblica dovuta dall’inquinatore per contribuire a prevenire, eliminare o ridurre l’inquinamento, con funzione disincentivante, di gettito o entrambe, dove non assume rilevanza la nozione interna di tributo (tassa, imposta o tariffa), tipica di qualsiasi ordinamento interno (22). In tal senso i tributi ambientali assumono la configurazione di “tributi extrafiscali”, la cui funzione è quella di mero reperimento delle risorse finanziarie da impiegare per la tutela dell’ambiente. In questo schema lo strumento tributario non assume la qualificazione di misura direttamente volta alla tutela dell’ambiente, considerato di per sé come bene protetto, quanto piuttosto una delle tante misure economiche idonee semplicemente a “internalizzare” l’inquinamento, agendo sul costo dei prodotti inquinanti. Il bene ambientale rimane, pertanto, estraneo al presupposto del tributo e si configura solo come
agevolazioni tributarie, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, cit., 401 ss.; F. Fichera, Imposizione ed extrafiscalità nel sistema costituzionale, Napoli, 1973; M. Basilavecchia, voce Agevolazioni ed esenzioni (diritto tributario), in Enc. dir., Agg., V, Milano, 2001, 48 ss. (20) I primi esempi di tributi finalizzati alla tutela ambientale si sono avuti in Germania intorno agli anni trenta, nella Ruhr, quando, al fine di tutelare le risorse idriche, furono previsti pagamenti a carico degli inquinatori proporzionati alla quantità di sostanze scaricate in acqua. In seguito, verso la metà degli anni sessanta, si rinvengono altre forme di prelievo relativamente alle emissioni nocive in Francia ed in Olanda. (21) Il primo passo significativo verso l’adozione di misure giuridiche internazionali di tutela ambientale viene fatto coincidere con la Conferenza sull’ambiente umano organizzata nel 1972 dalle Nazioni Unite a Stoccolma che approvò, fra i tanti testi, numerosi strumenti operativi contro l’inquinamento (cfr. Annuario di politica internazionale, annata 1972, Dedalo, 338). (22) OECD, Instruments èconomiques pour la protection de l’environment, Paris, 1989.
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“tributo di scopo” che persegue le finalità extrafiscali di tutela dell’ambiente. Questa originaria giustificazione dell’imposizione ecologica viene, tuttavia, successivamente superata dalle posizioni assunte via via sul tema dall’Unione europea nelle risoluzioni del Consiglio del 1987 e del 1993 e nel libro Bianco di Delors del 1994 (23), dove l’ambiente da oggetto di tutela diviene presupposto stesso dell’imposizione. La Commissione europea, infatti, nell’elaborazione di una possibile nozione di tributo ambientale, individua, tra gli elementi caratterizzanti di quest’ultimo, oltre alla funzione disincentivante delle condotte inquinanti - già sottolineata dall’OCSE - anche la necessità della commisurazione dell’imponibile del prelievo all’impatto negativo sull’ambiente (24). Secondo tale definizione, per aversi un tributo ambientale è necessario che “l’imponibile della tassa” (che nella terminologia europea indica il presupposto (25)) sia un’unità fisica di qualcosa di cui si abbia prova scientifica di effetti negativi sull’ambiente quando è usato o rilasciato. Per impatto negativo sull’ambiente deve intendersi un deterioramento di beni finora liberi, nel qual caso l’unità fisica espressiva del deterioramento potrebbe essere l’unità di prodotto rilasciato o di sostanza emessa (per esempio CO2), oppure una riduzione dell’offerta di beni, nel qual caso l’unità potrebbe esprimere semplicemente il quantitativo del bene carente (per esempio, l’acqua dolce). Viene, così, a delinearsi, una nuova nozione teorica di tributo ambientale, che si caratterizza per la relazione diretta e causale tra il presupposto dell’imposizione e l’unità fisica inquinatrice (intesa quale emissione, bene naturale o prodotto) o potenzialmente in grado di produrre un danno all’ambiente (26).
(23) Le linee guida della politica fiscale ambientale dell’Unione europea si rinvengono nella Risoluzione del Consiglio 23 gennaio 1987, n. 485, in G.U.C.E. n. C 328 del 7 dicembre 1987, contenente il “Quarto programma di azione delle Comunità Europee in materia di ambiente”, nella Risoluzione del Consiglio 1° febbraio 1993, in G.U.C.E. n. C 138 del 17 maggio 1993, contenente il “Quinto programma di azione ambientale dell’Unione Europea” e nel Libro Bianco di Delors, Crescita, competitività e occupazione (Milano, 1994), che ipotizza una tassazione ambientale tesa a spostare la pressione fiscale dalle persone all’ambiente. (24) Comunicazione della Commissione europea del 26 marzo 1997 in materia di “Tasse ed imposte ambientali nel mercato unico”. (25) La precisazione è di F. Gallo, F. Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, in Rass. trib., 1999, 121. (26) Comunicazione della Commissione europea del 26 gennaio 1997, relativa ad “Imposte, tasse e tributi ambientali nel mercato unico”.
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Alla luce di quanto osservato in sede europea, affiora quindi tra la dottrina tributaria la distinzione tra “tributi ambientali in senso lato” (o “tributi con funzione ambientale”) e “tributi ambientali in senso stretto”: nei primi la salvaguardia dell’ambiente è considerata come una mera finalità politico-sociale del tributo (a carattere esclusivamente extrafiscale), quindi un elemento esterno al presupposto, mentre nei secondi vi è relazione causale tra l’unità fisica che determina il deterioramento o danno scientificamente dimostrato dell’ambiente ed il presupposto del tributo (27). In questa ultima tipologia di tributo ambientale, il bene ambiente non è più collocato all’esterno, ma all’interno della fattispecie tributaria (relazione causale) e viene posto l’accento non tanto (o non solo) sulla funzione di tutela ambientale, quanto piuttosto sul deterioramento scientificamente dimostrato dell’ambiente e, quindi, sull’unità fisica che tale deterioramento determina (28). Secondo tale schema, inoltre, l’unità fisica che determina il deterioramento ambientale (e che viene assunta a presupposto della fattispecie tributaria) deve costituire un fatto materiale accertabile e scientificamente misurabile, capace di esprimere in modo inequivocabile il degrado ambientale (potrebbe costituire, ad esempio, in una sostanza emessa o altri tipi di emissioni inquinanti oppure da
(27) Vedi anche Comunicazione della Commissione europea del 9 marzo 1997. In dottrina v. A. Vozza, Imposte e tariffe ambientali. Incentivi fiscali, in AA.VV., Codice dell’ambiente e normativa collegata, a cura di A. Buonfrate, Torino, 2008, 858; R. Ferrara, M.P. Vipiana, I “nuovi diritti” nello Stato sociale in trasformazione. La tutela dell’ambiente tra diritto interno e diritto comunitario, Padova, 2003. Per approfondimenti da parte della dottrina tributaria sul passaggio da una visione “funzionale” della fiscalità ambientale ad una prospettiva di fiscalità ambientale propria e diretta, si vedano: F. Gallo, F. Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, cit., 118 ss.; F. Picciaredda, P. Selicato, I tributi e l’ambiente. Profili ricostruttivi, cit., 49 ss.; R. Alfano, Tributi ambientali. Profili interni e europei, cit., 33 ss. (28) Un tipico tributo ambientale è stato, nel recente passato, la c.d. carbon tax, istituita con la legge 23 dicembre 1998, n. 448, la quale costituiva un’imposta sui consumi di coke, petrolio e bitume di origine naturale emulsionato con il 30 per cento d’acqua, impiegati nei grandi impianti industriali di combustione. Il prelievo è stato considerato un’imposta ambientale in senso proprio in quanto il presupposto, costituito dal consumo dei combustibili inquinanti, aveva un connotato fortemente ambientale (per approfondimenti v. R. Alfano, Tributi ambientali. Profili interni e europei, cit., 221 ss.; A. Elia, La carbon tax e la sua applicazione proporzionale al potere inquinante dei combustibili: il criterio della proporzionalità adeguata nella tassazione ambientale, in Dir. prat. trib., 2012, 101 ss.). Tale tributo è stato in seguito abrogato per effetto della Direttiva n. 2003/96/CE, la quale ha previsto la tassazione, nell’ambito delle accise armonizzate a livello comunitario, anche del carbone, del coke di petrolio, della lignite, degli oli vegetali, del gas naturale, dell’energia elettrica ecc., prodotti non compresi tra quelli armonizzati del 1992. Il disegno di legge delega del 30 marzo 2012 ha previsto all’art. 15 la reintroduzione di questo tributo, ma tale proposta è ancora al vaglio dell’Unione Europea.
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un veicolo con certe caratteristiche di emissioni). Il deterioramento ambientale, inoltre, non deve costituire una mera eventualità, ma deve essere scientificamente accertato, poiché se venisse richiesto un pagamento obbligatorio solo al fine di prevenire un danno ambientale, tale pagamento non potrebbe essere ricondotto al tributo (tassa o imposta) ambientale ma alla tariffa o al prezzo pubblico dovuto a fronte di un servizio ambientale (29). Infine si osserva che il deterioramento dell’ambiente non deve essere assoluto, ma relativo, cioè deve trattarsi di un deterioramento sopportabile, poiché se il deterioramento fosse irreversibile, il relativo prelievo assumerebbe necessariamente natura sanzionatoria (30) e rappresenterebbe un deterrente all’esercizio stesso dell’attività inquinante. Nell’elaborazione europea, vengono, inoltre, inserite all’interno dei tributi ambientali sia le “imposte ambientali”, definite come tributo non corrispettivo (non associato ad una controprestazione di beni o servizi pubblici), sia le “tasse ambientali”, definite con tributo corrispettivo associato ad una controprestazione in termini di beni o servizi pubblici. Ulteriormente, si distingue fra “imposte ambientali sulle emissioni inquinanti”, che assumono come base imponibile una unità fisica inquinante ovvero una unità di sostanza che causa emissioni inquinanti (ad esempio, quantità di ossidi di azoto o quantità di decibel) e “imposte ambientali sui prodotti inquinanti”, che assumono come base del tributo una unità fisica di prodotto che abbia un effetto inquinante sull’ambiente al momento in cui viene usato o rilasciato (ad esempio, benzina, elettricità). Altresì viene evidenziata un’ulteriore classificazione basata sui criteri di differenziazione del tasso di imposta, che può essere diversificato, sulla base di una variazione quantitativa dell’effetto inquinante, oppure fisso, con un’aliquota di base non diversificata. 4. La capacità contributiva nei tributi ambientali. – La dottrina italiana, fino a poco tempo fa, aveva classificato i tributi ambientali unicamente in base
(29) F. Gallo, F. Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, cit., 123. (30) Così F. Gallo, F. Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, cit., 122123, i quali sottolineano che qualora le emissioni o prodotti determinassero un danno irreversibile all’ambiente, le attività che li producono dovrebbero senz’altro essere vietate, poiché altrimenti si avrebbe un’inaccettabile giustificazione morale a produrre danni irreversibili. In generale, secondo l’ormai consolidato orientamento dottrinario, le sanzioni, pur essendo caratterizzate dall’elemento della coattività, non sono riconducibili ai tributi, non essendo preordinate a realizzare il concorso dei consociati alle pubbliche spese di cui all’art. 53 Cost. (in tal senso v. G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario. I principi generali, cit., 42 e 53, cui si rinvia anche per la bibliografia citata).
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alla loro funzione incentivante/disincentivante delle attività inquinanti o di reperimento delle risorse necessarie per il finanziamento dei servizi ambientali (31). Ma come si è visto, in epoca più recente i giuristi hanno ricostruito la fiscalità ambientale in senso “più europeo”, considerando come “tributi ambientali in senso proprio” solo quelli costruiti dal legislatore in modo tale che nel presupposto sia compreso lo stesso fattore inquinante, cioè lo stesso evento che produce il danno ambientale. Questa ricostruzione ha trovato la sua più importante limitazione nella conciliazione con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., non essendo chiaro come potrebbero giustificarsi, sul piano costituzionale, prelievi che colpiscono fatti i quali, pur essendo di preminente interesse pubblico, non costituiscono evidente indice di ricchezza. Tale problema si è posto soprattutto per quei tributi ambientali nei quali l’unità fisica che determina il deterioramento ambientale è rappresentata dalle emissioni inquinanti, le quali compromettono indubbiamente l’ambiente, ma a cui è difficile riconoscere una forza economica, alla stregua della ricostruzione condivisa dalla dottrina maggioritaria, costituendo entità non reddituali o patrimoniali (32). Un problema che, al contrario, secondo la dottrina non si porrebbe per quei tributi il cui presupposto sia costituito dal consumo di prodotti inquinanti, che potrebbero trovare giustificazione, alla luce dell’art. 53 Cost., qualora fossero ricostruiti come imposte sui consumi, dove il presupposto sarebbe rappresentato, appunto, dal consumo di un bene di lusso (vale a dire l’ambiente) (33). La soluzione al problema della compatibilità dei tributi ambientali propri con l’art. 53 Cost. risiede essenzialmente nel significato che si vuole attribuire al principio in esame, questione che ha dato origine negli ultimi anni ad un vivace dibattito dottrinario. In effetti, i dubbi di coerenza costituzionale dei tributi in questione sono stati evidenziati da coloro che enfatizzano la funzione solidaristica dell’art. 53 Cost., visto come una proiezione dell’art. 2 Cost. il quale, imponendo a tutti i membri della collettività doveri di solidarietà politica, economica e sociale, pone l’obbligo in capo al singolo di contribuire, con la pro-
(31) Si veda R. Perrone Capano, L’imposizione e l’ambiente, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, cit., 121 ss.; F. Picciaredda, P. Selicato, I tributi e l’ambiente. Profili ricostruttivi, cit., 2 ss. (32) F. Gallo, Profili critici della tassazione ambientale, cit., 305. (33) In tal senso F. Gallo, Profili critici della tassazione ambientale, cit., 305; F. Gallo, F. Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, cit., 134.
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pria forza economica, alla sopravvivenza ed al progresso della comunità, compatibilmente e nei limiti di tale forza (34). Tale orientamento induce a qualificare come presupposto dell’imposizione tributaria soltanto situazioni, beni e rapporti aventi uno specifico valore economico-patrimoniale (reddito, patrimonio, consumo) e porta inevitabilmente a ritenere non conformi alla Costituzione quei tributi il cui presupposto sia costituito dall’emissione di sostanze inquinanti (35). Le perplessità in questione sono state, invece, superate da altra parte della dottrina che, interpretando l’art. 53 Cost. in un’ottica prevalentemente distributiva, lo ha considerato come un mero criterio razionale di riparto delle spese pubbliche tra i consociati, la cui rilevanza economica non si esaurisce nell’inclusione nel presupposto di componenti patrimoniali o reddituali, potendo il legislatore adottare criteri distributivi che tengano conto anche di ulteriori elementi, anche solo astrattamente valutabili in denaro, ancorché non disponibili e scambiabili, che non dimostrino necessariamente una forza economica a contenuto patrimoniale (36).
(34) Secondo la più tradizionale concezione di capacità contributiva, definita anche come “teoria solidaristica”, chi detiene ricchezze spendibili deve concorrere a finanziare le spese pubbliche anche in luogo di chi manca del tutto di tale capacità e pur fruisce dei vantaggi che derivano dall’appartenenza alla comunità organizzata. La ripartizione dei carichi pubblici non avviene, in altri termini, secondo lo schema del do ut des, ma in stretta ed esclusiva correlazione con gli indici di ricchezza monetaria di ciascuno. Ricostruiscono l’art. 53 Cost. quale esplicazione del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.: V. Lombardi, Solidarietà politica, solidarietà economica e solidarietà sociale nel quadro del dovere costituzionale di prestazione tributaria, in Temi trib., 1964, 597 ss.; Id, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, 1967, 349; I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965, 20 ss.; F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, 71 ss; G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte generale, Padova, 2009, 24-25. Contra G. Gaffuri, Lezioni di diritto tributario, Padova, 2002, 32. (35) Per siffatta considerazione v. F. Batistoni Ferrara, I tributi ambientali nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. trib., 2008, I, 1092. (36) A. Fedele, Concorso alle spese pubbliche e diritti individuali, in Riv. dir. trib., 2001, I, 33; Id, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., 30 ss.; F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, Bologna, 2007, 83 ss.; F. Batistoni Ferrara, Uguaglianza e capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2008, 477; F. Moschetti, La capacità contributiva, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, cit.; P. Selicato, Imposizione fiscale e principio “chi inquina paga”, cit., 1169-1170. Per un’ampia disamina dei profili costituzionali dei tributi ambientali v. anche F. Picciaredda, P. Selicato, I tributi e l’ambiente. Profili ricostruttivi, cit., 97 ss.; L. Ferlazzo Natoli, A. Buccisano, Il tributo ecologico: presupposto e limiti costituzionali, in Riv. dir. trib. int., 2004, 433 ss.; G. D’Andrea, La nozione di tributo ambientale, cit., 105 ss.; R. Alfano, Tributi ambientali. Profili interni e europei, cit., 51 ss.;
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Alla luce di tale lettura, sono pertanto costituzionalmente legittimi tutti i tributi che, realizzando tale riparto, siano espressivi della misurazione delle diverse posizioni di vantaggio economico o sociale; conseguentemente, è possibile qualificare come presupposto del tributo non solo le situazioni a valore economico-patrimoniale, ma anche quelle situazioni, fatti o comportamenti – come appunto anche la fruizione ed il consumo dell’ambiente – che, pur non essendo immediatamente monetizzabili e scambiabili sul mercato, siano comunque suscettibili di valutazione economica e indicativi dell’attitudine a contribuire alle pubbliche spese (37). In tal senso, viene osservato come in tanti ordinamenti stranieri già da tempo sono stati introdotti tributi che hanno come presupposto beni, situazioni o attività che non necessariamente si identificano con il patrimonio, il reddito o il consumo, come le c.d. business taxes (che colpiscono la capacità organizzativa dell’operatore o del produttore, come in Italia l’IRAP), le accise (che gravano sulla produzione organizzata di beni) ed, in genere, tutti quei tributi che hanno come presupposto indici di capacità contributiva che non garantiscono la disponibilità di un saldo patrimoniale attivo sufficiente ad adempiere all’obbligazione tributaria (prelievi che derivano dalla destinazione di beni a finalità estranee all’esercizio dell’impresa, prelievi sui fringe benefits, tributi sui redditi di impresa che risultano insufficienti a coprire i debiti contratti dal titolare dell’impresa medesima) (38). Potendo, dunque, il legislatore scegliere, ai fini dell’equo criterio di riparto, presupposti d’imposta in grado di esprimere le situazioni di vantaggio dei singoli – incontrando, quale unico limite, il rispetto del principio di
(37) In tal senso F. Gallo, Profili critici della tassazione ambientale, cit., 306; F. Gallo, F. Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, cit., 138-139. Sulla compatibilità dei tributi destinati alla protezione dell’ambiente con l’art. 53 Cost. v. anche G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario. I principi generali, cit., 55. Secondo tali autori, la funzione redistributiva della capacità contributiva comporta che la selezione dei fatti imponibili non si esaurisce in quelli di mercato (reddito, patrimonio, consumo), ma può essere ampliata attraverso altri indici cui fare ricorso e la cui validità può risultare dall’economia civica, sociale e dell’ambiente. (38) Queste forme di tassazione sono state esaminate, nell’ottica del principio di capacità contributiva, da A. Fedele, Ancora sulla nozione di capacità contributiva nella costituzione italiana e sui limiti costituzionali all’imposizione, relazione presentata all’incontro di studi su L’evoluzione del sistema fiscale e il principio di capacità contributiva, 11 giugno 2012, Università Luiss di Roma.
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uguaglianza (39), di cui quello di capacità contributiva è l’espressione ai fini fiscali – anche l’utilizzo di risorse ambientali scarse e deteriorabili può costituire il fatto indice di capacità contributiva, quantificabile attraverso la misurazione del livello di consumo o di danneggiamento prodotto all’ambiente. Da questo punto di vista, ogni attività inquinante da cui derivino diseconomie esterne genera, in capo a colui che le pone in essere, una certa capacità contributiva, consistente nella situazione di vantaggio che quest’ultimo esercita sulla natura, economicamente valutabile con i supporti tecnologici di comune esperienza (40); la ripartizione del costo di risanamento fra i soggetti inquinatori va fatta, quindi, tenendo conto di quanta parte del servizio costituisca beneficio per ciascun soggetto, sul presupposto che quanto più egli pone in essere attività inquinanti, tanto più usufruisce del servizio che la collettività deve realizzare per eliminare i danni arrecati. Ad avviso della dottrina, questa nozione di capacità contributiva non attenua la funzione ambientale del tributo, anzi la esalta, potendo essere perseguita estendendo il suo ambito di applicazione a finalità extrafiscali, individuando
(39) Nell’ambito del dibattito dottrinario sul significato dell’art. 53 Cost., una parte dei cultori del diritto tributario, ritenendo di misurare la capacità contributiva con il metro della incidenza della tassazione sulla proprietà, sono favorevoli al potenziamento delle garanzie del contribuente quale “persona” e, perciò, ad una forte limitazione della discrezionalità del legislatore tributario nella scelta dei presupposti d’imposta (F. Moschetti, Interesse fiscale e “ragioni del fisco” nel prisma della capacità contributiva, in AA.VV., Studi in onore di Gaspare Falsitta, a cura di M. Beghin, F. Moschetti, R. Schiavolin, L. Tosi, G. Zizzo, Padova, 2012, 157 ss.; G. Falsitta, Il doppio concetto di capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2004, 889). Altri autori, invece, considerando l’obiettivo della giusta tassazione in senso distributivo, non riconoscono limiti alle scelte di riparto da parte del legislatore, se non quelle della ragionevolezza, coerenza e proporzionalità del sistema tributario, oltre che della potenzialità economica del presupposto impositivo. Seguendo questo secondo orientamento, la tassazione può riguardare anche posizioni, situazioni o valori privi di contenuto patrimoniale, solo socialmente rilevanti, purché in grado di esprimere una posizione di vantaggio in termini di potenzialità economica (A. Fedele, La funzione fiscale e la capacità contributiva nella Costituzione italiana, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di L. Perrone, C. Berliri, in Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana, Napoli, 2006, 11 ss., F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia della tassazione, Bologna, 2011, 79 ss.). (40) Tale impostazione sembra rispecchiare la tendenza evolutiva riscontrabile ormai da tempo in altri Paesi europei tesa a valorizzare ogni possibile attitudine alla contribuzione economicamente misurabile, purché coerente con i principi di uguaglianza, razionalità e coerenza tributaria (P. Selicato, Imposizione fiscale e principio “chi inquina paga”, cit., 126 ss.).
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indici di potenzialità economica sulla base di considerazioni ulteriori rispetto alla valutazione della mera capacità patrimoniale dei soggettivi passivi, in particolare in funzione dell’azione incentivante a modificare le condotte lesive verso l’ambiente (41). Questa ricostruzione di tributo ambientale, pur privilegiando l’utilizzo dell’imposta piuttosto che della tassa (poiché si attribuisce al tributo la funzione si disincentivo allo svolgimento di attività potenzialmente dannose e non di remunerazione del consumo ambientale (42)), non esclude, tuttavia,
(41) In queste ipotesi, il cui esempio tipico è costituito dai c.d. tributi extrafiscali, le norme tributarie concorrono a soddisfare ulteriori e specifiche esigenze, riconosciute e tutelate dall’ordinamento, con le quali la funzione fiscale può essere coordinata (così A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., 31-32). Sulla rilevanza di eventuali scopi extrafiscali del prelievo v. A. Uricchio, L’imposizione di scopo, in AA.VV., La dimensione promozionale del fisco, a cura di A. Uricchio, F. Aulenta, G. Selicato, Bologna, 2015, 151 ss., cui si rinvia anche per la bibliografia citata). Sulla base dello stesso ragionamento si fonda anche la giustificazione costituzionale di altri tipi di prelievi tributari, basati su presupposti non necessariamente indicativi di ricchezza ma espressivi del potere di esercitare controllo sulle produzioni e influenza dominante su determinati mercati (P. Selicato, Imposizione fiscale e principio “chi inquina paga”, op. cit.), tra cui la c.d. bit tax, un’imposta direttamente proporzionale al numero dei bits trasmessi via internet, applicabile alle transazioni di commercio elettronico. Tale forma di prelievo (ipotesi, tuttavia, rimasta sulla carta) fu proposta per la prima volta nel 1994 da due studiosi americani (A.J. Cordell, T.R. Ide, The new wealth of nations, Club of Rome report, novembre 1994) e, benché ispirata dall’intento condivisibile di contrastare il c.d. “inquinamento informatico” (in tal senso S. Cipollina, I confini giuridici del tempo presente. Il caso del diritto fiscale, Milano, 2003, 291 ss.), è stata criticata da parte della dottrina, in quanto non sembra avere una fattispecie imponibile idonea ad esprimere un’effettiva manifestazione di capacità contributiva, attribuendo rilevanza solamente alla quantità di bits trasmessi, senza tenere conto della natura e del valore delle informazioni trasmesse o della qualità del soggetto che effettua la trasmissione (imprenditore commerciale, professionista, privato, ecc.). In questo senso, A. Uricchio, Le frontiere dell’imposizione tra evoluzione tecnologica e nuovi assetti istituzionali, Bari, 2010, 63 ss. Tra le argomentazioni che, indirettamente, potrebbero confermare il fondamento costituzionale delle imposte ambientali in senso proprio, con riferimento al principio di capacità contributiva, viene richiamata anche la disputa dottrinale che ha coinvolto l’IRAP, facendo riferimento alle argomentazioni che hanno sostenuto la validità del suo presupposto come indizio di forza economica, pur non essendo riferito a tradizionali indici di capacità contributiva (su tale questione v. fra gli altri F. Batistoni Ferrara, L’Irap è un’imposta incostituzionale?, in Riv. dir. trib., 2000, 95 ss.; A. Fedele, Prime osservazioni in materia di IRAP, in Riv. dir. trib., 2008, 477). (42) Come osservato in dottrina (F. Gallo, Profili critici della tassazione ambientale, cit., 304-305), nel tributo ambientale la funzione di risanamento del danno ambientale esiste, ma si risolve in un compito fondamentale dello Stato e degli enti regionali e locali deputati alla tutela dell’ambiente, da finanziare attraverso la fiscalità generale. Se il tributo avesse il fine di risanare il danno provocato, il soggetto inquinatore si sentirebbe “autorizzato” ad inquinare l’ambiente, consapevole che il suo operato è giustificato dal pagamento di una prestazione pecuniaria. Al contrario, ritiene che il tributo ambientale abbia natura commutativa G. Falsitta, Considerazioni conclusive, in AA.VV., Studi in onore di Gaspare Falsitta, cit., 271 ss.
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l’impiego delle tasse che, finanziando il costo di risanamento o di prevenzione dell’inquinamento, realizzano comunque una forma di riparto della relativa spesa pubblica, in particolare quando sia anche possibile individuare il soggetto responsabile della condotta inquinante (43). Più recentemente sono state proposte ulteriori letture dell’art. 53 Cost. che, dando spazio a concetti diversi da quelli tradizionalmente utilizzati, potrebbero essere applicati anche nell’ambito della fiscalità ambientale. In particolare, si è ritenuto di poter legare la capacità contributiva al concetto di “utilità negativa”, quindi allo svantaggio che le finanze pubbliche subiscono in ragione del comportamento esiziale del contribuente. In tal senso, la capacità contributiva potrebbe essere vista come attitudine di un fatto, ma anche di un “non fatto”, ad incidere negativamente sulla finanza pubblica (44). Ciò, ad esempio, si verificherebbe se un’industria petrolifera non istallasse i filtri per disinquinare i fiumi, poiché in tal caso lo Stato dovrebbe poi sostenere i costi per “riparare” i guasti dell’inquinamento, compresi quelli della sanità, in conseguenza dell’aumento delle malattie provocate. In questa prospettiva, il “non fare” del contribuente (non installare i filtri) da fatto privato acquisterebbe un rilievo pubblico, poiché impoverirebbe la collettività, e quindi potrebbe essere ripreso a tassazione in una dimensione collettiva (45). Anche in ambito internazionale, seppure in un contesto costituzionale diverso, pare delinearsi la tendenza a considerare legittimi prelievi che non hanno come esclusivo presupposto la produzione di un reddito, la titolarità di un patrimonio o un atto di consumo. Così sembra essere stato ritenuto in Usa nell’ambito della recente riforma sanitaria del presidente Obama (c.d. Obamacare), che ha previsto l’obbligo per ogni cittadino di contrarre un’assi-
(43) In questo senso v. P. Puri, La produzione dell’energia tra tributi ambientali e agevolazioni fiscali, in Dir. prat. trib., 2014, 318. (44) Cfr. A. Giovannini, Ripensare la capacità contributiva, in Dir. prat. trib., 2016, 22 ss. (45) A. A. Giovannini, Ripensare la capacità contributiva, cit., che assimila l’”utilità negativa” richiamata nella propria teoria alla “compartecipazione alla responsabilità sociale” cui fa riferimento la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America con la sentenza del 28 giugno 2012 (commentata da T. Rosembuj, La capacità contributiva del “non fare”. Il concetto di imposta. A proposito di un’importante sentenza della Corte Suprema degli USA, in Dir. prat. trib., 2012, 1295 ss.) con cui è stata dichiarata legittima la tax che, meccanicamente, colpisce chi non stipula l’assicurazione sanitaria obbligatoria. Tale misura, secondo il Collegio, non rientra tra quelle di tipo sanzionatorio, ma deve essere ricondotta nell’ambito dei tributi, divenendo la “compartecipazione di responsabilità sociale” elemento oggettivamente rilevante e, per questo, economicamente valutabile sul piano fiscale.
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curazione sanitaria oppure, in difetto, di corrispondere una somma all’atto del pagamento dell’imposta sul reddito. La Corte Suprema degli Stati Uniti d’America (46) ha qualificato tale prelievo come una prestazione patrimoniale di natura tributaria, sebbene designato dalla legge come “sanzione”, che troverebbe giustificazione nel comportamento negativo del contribuente che ostacola la fruizione, da parte degli altri, del bene pubblico collettivo assistenza sanitaria, comportamento da correggere con lo strumento tributario per ragioni di uguaglianza e giustizia distributiva. Il pagamento di questo tributo, ad avviso della Corte Suprema americana, si giustificherebbe in funzione di una “compartecipazione di responsabilità”, una saggia espressione della responsabilità di ciascuno nei confronti degli altri per sostenere un sistema di interesse generale e collettivo per la tutela della salute. Nel commentare tale orientamento, una parte della dottrina ha ritenuto di poter delineare il concetto di “capacità contributiva del non fare”, per indicare la posizione dei consociati che ritraggano da determinati comportamenti omissivi (come il “non fare” l’assicurazione sanitaria statunitense o la non adozione di misure di tutela o prevenzione ambientale) una posizione di vantaggio economicamente valutabile (47). Esisterebbe, in altre parole, un dovere associato alla vita sociale che determinerebbe il contributo al sostegno della spesa pubblica anche quando il contribuente dissenti o rifiuti il proprio consenso individuale, e questo renderebbe legittima l’applicazione di tributi in cui la capacità contributiva dipende proprio dal comportamento del contribuente, valutato dal legislatore come negativo. L’interpretazione offerta dalla Suprema Corte americana, ancorché opinabile (48), è stata letta come una conferma che la funzione redistributiva
(46) Corte Suprema degli Stati Uniti d’America del 28 giugno 2012, commentata da T. Rosembuj, La capacità contributiva del “non fare”. Il concetto di imposta, cit., 1295 ss. (47) T. Rosembuj, La capacità contributiva del “non fare”. Il concetto di imposta, cit., 1297. (48) Osserva F. Gallo, Ancora in tema di uguaglianza tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2013, 321 ss., che la ricostruzione della Corte Suprema americana appare macchinosa poiché, anziché ritenere, come è stato fatto, che il prelievo previsto dalla legge in aggiunta all’imposta sul reddito troverebbe giustificazione nel comportamento omissivo (non pagare il premio), avrebbe potuto più semplicemente considerare tale somma come una sovrimposta sul reddito (il cui gettito è destinato a finanziare un sistema assicurativo nazionale), dalla quale ci si può sottrarre solo stipulando una polizza assicurativa sanitaria personale. Nonostante ciò, per quanto macchinosa ed elaborata nell’ambito di un contesto costituzionale diverso, l’Autore saluta con favore la sentenza, in quanto offre la dimostrazione che anche la Suprema Corte
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della capacità contributiva rende legittimi anche quei tributi che non hanno come esclusivo o diretto presupposto situazioni, beni e rapporti aventi uno specifico valore economico-patrimoniale (reddito, patrimonio, consumo), potendo essere ampliata attraverso altri indici ai quali fare ricorso, la cui validità può risultare dall’economia civica e sociale e dall’economia ambientale (49). Questa lettura del principio di capacità contributiva legittimerebbe, quindi, anche i tributi ambientali in ragione del godimento dell’ambiente quale bene collettivo, rispetto al quale la capacità contributiva fungerebbe da criterio per il riparto della spesa pubblica, sulla base di una “compartecipazione di responsabilità”. La ricostruzione dei tributi ambientali in termini di capacità contributiva nel senso sopra illustrato, permette di legittimare costituzionalmente sia i tributi ambientali in senso stretto, sia quelli con funzione meramente ambientale. Occorre, tuttavia, rilevare che il legislatore italiano ha dato sempre scarsa importanza alle questioni di tutela ambientale ed i pochi esempi di tributi ambientali sono qualificabili per lo più come tributi con finalità extrafiscale, i quali, tuttavia, hanno avuto sempre un ruolo secondario nelle scelte in tema di fiscalità. L’unica eccezione è rappresentata, a livello locale, dall’imposizione sui rifiuti, nel cui contesto è possibile riscontrare un impianto normativo abbastanza complesso e avanzato (50), che si sostanzia in una serie di tributi e
americana è favorevole a considerare legittimi quei tributi che non hanno come esclusivo o diretto presupposto sostanziale la produzione di un reddito, la titolarità di un patrimonio o un atto di consumo. (49) Interpretano in tal senso la sentenza in questione: T. Rosembuj, La capacità contributiva del “non fare”. Il concetto di imposta, cit., 1298 e 1302, il quale osserva come non è vero che possano sottoporsi ad imposta solo manifestazioni di capacità contributiva espresse in termini di mercato, citando quale esempio le imposte a carattere ambientale, come la carbon tax, configurate tecnicamente in base al danno o al pregiudizio ambientale; F. Gallo, Ancora in tema di uguaglianza tributaria, cit. (v. nota precedente). (50) La disciplina della tassazione dei rifiuti ha subito un intricato e repentino avvicendarsi di interventi legislativi che hanno via via introdotto nuovi modelli tributari. Dapprima, infatti, era stata introdotta la “tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani” (TARSU) dal d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, in seguito trasformata in “tariffa di igiene ambientale” (TIA) con il d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (c.d. “decreto Ronchi”), poi sostituita dalla nuova “tariffa per la gestione dei rifiuti urbani” dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (in seguito ribattezzata dal d.l. n. 208 del 2008 “tariffa integrata ambientale)”. In sostituzione di questi tributi, il d.l. n. 201 del 2011 ha introdotto, a partire dal 2013, la “tassa sui rifiuti e servizi” (TARES), mentre a partire dal 2014 la legge di stabilità n. 147 del 2013 ha istituito la nuova “tassa sui rifiuti interni” (TARI), sostitutiva della poc’anzi ricordata TARES. L’aspetto più interessante che ha riguardato questo settore è quello relativo alla natura giuridica di queste forme di imposizione, problema che si
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prelievi a diversi livelli di governo. A livello erariale, invece, è stato preso in considerazione essenzialmente solo il campo delle grandi emissioni inquinanti, con la previsione dell’imposta sulle emissioni di anidride solforosa (SO2) e dell’ossido di azoto (NOX), dovuta però soltanto dai grandi impianti di combustione (51). Altri tributi ambientali in senso stretto sono stati, invece, eliminati, come è avvenuto per la carbon tax (introdotta con la l. n. 448 del 1998, ma mai applicata (52)) e per l’imposta erariale sui sacchetti di plastica (istituita con legge n. 478 del 1988, ma abrogata dalla l. n. 427 del 1993).
è posto soprattutto con riferimento alla TIA, per la quale si è molto dibattuto sulla natura di entrata tributaria ovvero di corrispettivo riconosciuto a fronte di una prestazione di un servizio. Secondo l’Agenzia delle Entrate, la TIA avrebbe dovuto essere assoggettata ad IVA trattandosi del corrispettivo per una prestazione di un servizio resa “secondo le regole del diritto comune” e, pertanto i Comuni avrebbero dovuto applicare l’IVA sulle somme riscosse dagli utenti. La giurisprudenza di legittimità si è pronunciata con orientamenti diametralmente opposti, ora considerando la TIA alla stregua di un corrispettivo (Cass. 15 febbraio 2006, n. 3274), ora considerandola un tributo (Cass. 8 marzo 2006, n. 4895). Sulla questione si è pronunciata in seguito anche la Corte costituzionale con sentenza n. 238 del 24 luglio 2009 (annotata da E. De Mita, Per la Tia un identikit da tributo, in Dir. prat. trib., 2009, 1317) la quale, nell’ambito di un giudizio concernente la competenza a giudicare per le controversie aventi ad oggetto la TIA, ha precisato che la competenza è del giudice tributario in quanto trattasi di entrata di natura fiscale (quindi estranea all’applicazione dell’IVA). La natura tributaria viene riconosciuta dalla giurisprudenza anche ai tributi che hanno seguito la TIA, i quali vengono qualificati come “tasse di scopo”, essendo finalizzate a fronteggiare una spesa di carattere generale, con ripartizione dell’onere sulle categorie sociali che da questa traggono vantaggio, senza alcun rapporto sinallagmatico tra la prestazione da cui scaturisce l’onere ed il beneficio che il singolo riceve (da ultimo v. Cass. 14 giugno 2016, n. 12275, in Giust. civ. Mass., 2016; Cass. 15 marzo 2016, n. 5078, in Dir. e giust., 13 luglio 2016). Per approfondimenti v. M. Lovisetti, Il prelievo sui rifiuti tra questioni vecchie e nuove, in Trib. loc. e reg., 2015, 17. (51) L’imposta sulle emissioni di anidride solforosa (SO2) e dell’ossido di azoto (NOX) è stata introdotta dalla legge 27 dicembre 1997, n. 449, ed è dovuta nella misura di 106 euro per tonnellata/anno di anidride solforosa e di euro 209 per tonnellata/anno di ossidi di azoto dai grandi impianti di combustione, come definiti dalla Direttiva 88/609/CEE del 24 novembre 1988. Il collegamento tra emissione inquinante e presupposto ha portato la dottrina a qualificare tale imposta come ambientale in senso proprio, nella forma di accisa (pur non avendone la denominazione), dove il diritto di accisa viene calcolato per numero di tonnellate prodotte (cfr. R. Alfano, Tributi ambientali. Profili interni e europei, cit., 230 ss.). Per approfondimenti sulle modalità applicative del tributo cfr. G. Bonardi, C. Patrignani, La tassa sulle emissioni inquinanti, in AA.VV., Fare energia. Fiscalità e agevolazioni, a cura di G. Bonardi, C. Patrignani, Milano, Ipsoa, 71 ss. Sulla configurazione di questa imposta in termini di tributo ambientale sulle emissioni v. F. Marchetti, Tassa, imposta, corrispettivo o tributo ambientale?, in Fin. loc., 2004, 31 ss. (52) Cfr. nota n. 28.
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5. Attività aeroportuale, inquinamento acustico e tutela della salute. – Uno dei settori in cui da tempo si è sentita l’esigenza di una rigorosa tutela ambientale è quello riguardante l’inquinamento acustico prodotti dagli aeromobili, problematica inizialmente sorta negli Stati Uniti intorno agli anni cinquanta in seguito all’entrata in esercizio dei jets per il trasporto dei passeggeri e delle merci, che ha subito posto la questione dell’individuazione degli strumenti più idonei a ridimensionare la rumorosità degli aerei. Il problema si è manifestato in seguito anche in Europa, spingendo gli enti regolatori aeronautici ad introdurre misure tecnologiche di contenimento per le emissioni acustiche in fase di certificazione degli aeromobili, come ad esempio i propulsori in grado di mitigare il rumore. Le problematiche ambientali derivanti dalla presenza degli aeroporti sono di diversa origine, ma il rumore costituisce senza dubbio uno degli elementi di disturbo più immediati, che si sovrappone al preesistente contesto ambientale, risultando percepito dalla popolazione tanto più pesantemente, quanto più si manifesta in modo improvviso, soprattutto nelle aree caratterizzate da un buon clima acustico di base. Sebbene l’evoluzione delle nuove tecnologie abbia reso gli aeromobili molto meno rumorosi rispetto ai decenni passati (si parla di una rumorosità ridotta di almeno il 75 per cento negli ultimi trenta anni), la percezione dei progressi ottenuti in campo aeronautico risulta in parte vanificata a causa del contestuale e vertiginoso incremento della richiesta dei servizi aerei, facendo del rumore uno dei problemi di maggiore rilevanza che affligge praticamente tutti i centri urbani dei Paesi dell’Unione Europea, provocando gravi danni alla salute degli individui. Nonostante sia di breve durata, infatti, il rumore prodotto da un aereo ha normalmente un’intensità molto elevata, anche se variabile in corrispondenza di diversi fattori (quali la tipologia dell’aeromobile, la quota e la rotta) e raggiunge la sua massima estensione nelle fasi di atterraggio e decollo dell’aeromobile, rendendo la popolazione residente all’interno delle così dette “zone di sorvolo” quella maggiormente esposta a tale tipo di inquinamento, subendone gli effetti negativi soprattutto nelle ore notturne. Il “rumore” prodotto dagli aerei è considerato, giuridicamente parlando, una forma di “inquinamento acustico”, che si configura, in linea generale, quando il rumore prodotto dall’uomo provoca effetti negativi indesiderati e dannosi nell’uomo stesso e nel suo ambiente, naturale ed urbano. Seppure, infatti, il rumore costituisca un fenomeno naturalmente inserito nel contesto ambientale, essendo da sempre esistito nel mondo naturale, esso ha acquisito i
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caratteri di elemento nocivo per la salute e l’ambiente stesso proprio in seguito all’avvento dell’uomo e dell’industrializzazione, che ha portato a trascurare le conseguenze negative del progresso economico per l’ambiente e per la collettività. Questo tipo di inquinamento soltanto in epoca recente è stato riconosciuto come una vera e propria forma di inquinamento. La sua peculiarità, rispetto ad altri fenomeni inquinanti, risiede nella circostanza che si tratta di una specie di inquinamento a c.d. “diffusione locale”, in quanto non si propaga oltre certe distanze e non si cumula nel lungo periodo, cessando immediatamente una volta eliminata la causa generante, a differenza di quanto si verifica per altre forme di inquinamento, come quello atmosferico (53). Sotto tali profili, è stato messo in risalto come l’inquinamento acustico sia, per certi aspetti, più dannoso per la salute dell’uomo di quanto non lo sia l’inquinamento del suolo e dell’acqua, poiché l’uomo non è in grado di inibire la propria funzione uditiva, a differenza delle altre strutture sensoriali, ed è quindi sempre sottoposto all’azione nociva del rumore, finanche durante le fasi del sonno, quando il sistema neurovegetativo reagisce allo stimolo del rumore, indipendentemente dalla sua volontà (54). Negli ultimi decenni si è assistito ad un crescente interesse scientifico sulle ripercussioni negative derivanti del traffico aeroportuale in termini di inquinamento acustico, divenuto ormai un problema di assoluta rilevanza per la salute pubblica delle popolazioni interessate, oltre che la principale causa di conflittualità tra gli aeroporti e le comunità locali residenti nelle aree ad essi adiacenti, in grado di condizionare lo sviluppo stesso del traffico in un determinato aeroporto, con evidenti ripercussioni anche sul sistema economico e territoriale. Dagli studi di laboratorio condotti a livello internazionale è emerso che il rumore aeroportuale si ripercuote in modo serio sulla salute di tutte le persone che ne sono inevitabilmente coinvolte, sia dei lavoratori esposti al rumore nell’ambiente di lavoro, sia della popolazione che vive nelle vicinanze degli aeroporti. Le principali sorgenti di rumore sono rappresentate, come detto, dalla fase del decollo, durante la quale viene impiegata la massima poten-
(53) N. Lugaresi, Diritto dell’ambiente, Padova, 2004. (54) G. Fiandaca, G. Tessitore, Inquinamento acustico e controllo penale, in Foro it., 1982, II, 485; R. Caccin, C. Maceri, G. Panassidi, A. Zucchetti, L’inquinamento acustico, Milano, 1996, 2 ss.
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za dei propulsori, e dell’atterraggio che, benché caratterizzata da una minore emissione sonora, provoca una concentrazione degli eventi sonori in una fascia ristretta, lungo il sentiero di avvicinamento, con effetto altamente disturbante (55). Il rumore dovuto agli aerei costringe le persone che vivono nei dintorni di un sito aeroportuale ad interrompere le conversazioni verbali e/o telefoniche e l’ascolto delle trasmissioni radio e/o televisive; interferisce con il sonno, con l’apprendimento di chi studia e con la concentrazione di chi deve svolgere un lavoro. Gli effetti del rumore aereo per la salute dell’uomo possono essere di vario tipo: fisiologici (essendo accertato che tale rumore può provocare disturbi all’apparato uditivo, al sistema nervoso, all’apparato digerente, respiratorio e cardiovascolare), sul comportamento (in quanto l’individuo sottoposto all’emissione sonora fa maggior fatica a svolgere le attività lavorative e di studio) e di altra natura (in termini di noia, disturbo, molestia). La prolungata esposizione al rumore aeroportuale altera anche le funzioni del sistema nervoso autonomo e ormonale, determinando aumento della frequenza cardiaca e vasocostrizione, con conseguente aumento della pressione arteriosa e, negli individui più suscettibili, anche malattie ischemiche, fino all’infarto del miocardio (56). Negli ultimi anni si è parlato addirittura di disfunzionalità del sistema endocrino, alterazioni croniche del sistema immunitario e modifiche della salute mentale (negli adulti) e di capacità di apprendimento e diminuzione delle capacità cognitive (nei bambini) (57).
(55) In Europa occidentale l’inquinamento acustico è responsabile di oltre un milione di anni di vita persi per malattia, disabilità e mortalità prematura e gli effetti nocivi sono secondi in grandezza solo a quelli provocati dall’inquinamento atmosferico. Questi sono i dati rilevati dal primo Rapporto sull’impatto sanitario del rumore in Europa pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità/Europa del 1995, che fornisce anche le linee guida per quantificare i rischi derivanti dal rumore e stima gli effetti sanitari nei Paesi dell’Europa occidentale. Da esso emerge che il 45 per cento dei cittadini convive con una pressione sonora compresa tra i 70 ed i 75 decibel, livelli tali già da essere potenzialmente capaci di arrecare disturbi psicosomatici nel breve periodo e alternazioni del battito cardiaco nel medio e lungo periodo. (56) Nel web sono disponibili numerosi documenti scientifici che descrivono gli effetti negativi dell’inquinamento acustico sulla salute dell’uomo. Fra i tanti siti si possono segnalare: www.arpa.veneto.it, dove è disponibile la Rassegna degli effetti derivanti dall’esposizione al rumore, condotta dall’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente; www.deplazio.net, dove si può consultare lo Studio sugli Effetti del Rumore Aeroportuale (SERA). (57) Le suindicate patologie e l’esposizione al rumore aeroportuale sono emerse, a livello europeo, dallo studio HYENA (Hypertension and Exposure to Noise near Airports), finanziato dall’Unione Europea e condotto tra il 2003 ed il 2006, nel corso del quale sono state intervistate 4.891 persone tra i 45 ed i 70 anni, residenti da almeno 5 anni nei pressi di 5 grandi aeroporti
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L’inquinamento acustico è ormai da qualche tempo oggetto di particolare attenzione non solo a livello scientifico, ma anche da parte della giurisprudenza che, nelle more dell’adozione di provvedimenti legislativi, è intervenuta, come spesso avviene, a colmare lacune legislative o a dettare linee di interpretazione relativamente alla normativa nazionale in materia di inquinamento da rumore. Tralasciando gli aspetti legati agli strumenti di tutela previsti dal nostro ordinamento, che esulano dalla nostra analisi, osserviamo solamente che per molto tempo gli operatori del diritto hanno fatto ricorso tanto a strumenti civilistici, quali l’articolo 844 c.c. in materia di immissioni nel contesto dei rapporti di vicinato, quanto a strumenti penalistici, quali l’art. 659 c.p., collocato tra le contravvenzioni lesive dell’ordine pubblico e della tranquillità pubblica. Le pronunce giurisprudenziali in materia di rumore segnano una crescente sensibilità riguardo alle implicazioni dell’inquinamento acustico per la salute umana e alla necessità di trovare un equilibrio tra sviluppo e progresso, da una parte, e tutela della qualità della vita, dall’altro. In tale contesto la tutela dell’individuo contro l’inquinamento acustico trova giustificazione prevalentemente nel diritto alla salute previsto dall’art. 32 Cost., visto come un diritto primario dell’uomo (58), assumendo in tale ambito un si-
di altrettante città europee (Londra, Berlino, Amsterdam, Atene, Stoccolma). Recentemente il BMJ (Britich Medical Journal) ha pubblicato i risultati di uno studio dell’Imperial College London che ha indagato quali rischi corrono le persone che vivono nei dintorni dell’aeroporto di Heathrow. Escludendo altri fattori di rischio aggiuntivi, quali l’inquinamento atmosferico e acustico, è emerso che il rumore prodotto dai rombi degli aerei aumenta il rischio di ictus e di cardiopatie sia per ospedalizzazioni sia per mortalità. Un altro studio pubblicato sempre sul BMJ ha infatti riscontrato un alto tasso di ricoveri in ospedale per problemi cardiovascolari fra le persone residenti vicino a 89 aeroporti negli Stati Uniti. Per quanto riguarda gli effetti dei rumori aeroportuali sulla salute degli italiani, risponde lo studio SERA (Studio sugli Effetti del Rumore Aeroportuale), presentato al Congresso dell’Associazione Italiana di Epidemiologia a Roma, 4-6 novembre 2014, finanziato dal Ministero della salute, che ha valutato gli effetti del rumore e dell’inquinamento atmosferico nei pressi degli aeroporti di Torino-Caselle, PisaSan Giusto, Venezia-Tessera, Milano-Linate, Milano-Malpensa, Roma-Ciampino (in www. deplazio.net). (58) L’art. 32 Cost. stabilisce che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività”, assicurandone la protezione in via assoluta ed incondizionata, come intrinseco modo d’essere della persona umana. In dottrina è ormai pacifica da anni l’incidenza negativa che ha l’inquinamento da rumore sulla salute degli esseri umani (sul punto v. D. Carusi, Immissioni acustiche, diritto alla salute e libertà costituzionali, in Giur. it., 1993, I, 39 ss.; C. Del Peschio Liberatore, Immissioni sonore e danno alla salute, in Giur. merito, 1993, 952 ss.; M.V. De Giorgi, Immissioni di rumore e tutela della salute, in
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gnificato piuttosto ampio, non soltanto come mero diritto alla vita ed all’incolumità fisica, ma come un vero e proprio diritto all’ambiente salubre, tutelabile nei confronti di qualunque soggetto, sia pubblico che privato, che rischi di sacrificarlo o di comprimerlo. La “salute” tende ad essere intesa nella sua concezione più ampia di “benessere psichico” e “qualità della vita”, entrambi legati alla realizzazione della personalità e della dignità dell’individuo (59). Sotto questo aspetto, una qualsiasi attività che, per effetto di rumori eccedenti la normale tollerabilità, pregiudichi la salubrità dell’ambiente in cui il soggetto abita o lavora, recando così nocumento al suo benessere biologico e/o fisico, risulta senz’altro lesiva del suo diritto alla salute, che può essere invocato anche nella risoluzione di conflitti tra interessi della popolazione e del danneggiato dalle emissioni acustiche (60). Si riconosce che dal rumore derivino effetti nocivi quando le immissioni acustiche eccedono la normale tollerabilità, anche in mancanza di una vera e propria menomazione patologica, poiché, sulla scorta degli studi medico-scientifici, è dimostrato che il rumore implica di per sé una lesione del diritto alla salute, inteso nel senso ampio di diritto all’equilibrio ed al benessere psicofisico spettante a ciascun individuo (61). La tutela della salute, così intesa, non può essere sacrificata neppure in presenza di opere di pubblica utilità, caratterizzate da una normativa a carattere speciale, come si verifica nel caso dell’inquinamento acustico, disciplinato dalla legge quadro n. 447 del 26 ottobre 1995 e dalla relativa documentazione attuativa, di cui si farà cenno. Anche nell’applicazione di questa disciplina, infatti, ad opinione della giurisprudenza, è necessario avere sempre riguardo alla prevalenza della tutela accordata dalla Costituzione al diritto alla salute, che non può essere compromesso dall’applicazione della normativa speciale (62). Tale
Nuova giur. civ. comm., 1993, I, 798 ss.). (59) V. Scalisi, Immissioni di rumore e tutela della salute, in Riv. dir. civ., 1982, I, 127; C. Salvi, Note sulla tutela della salute come interesse collettivo, Milano, 1978. (60) G. Visentini, Il divieto di immissioni e il diritto alla salute nella giurisprudenza odierna e nei rapporti con le recenti leggi ecologiche, in Riv. dir. civ., 1989, II, 253; in giurisprudenza v. Cass., Sez. Un., 9 aprile 10973, n. 999, in Foro it., 1974, I, 843; Cass., Sez. civ., 30 luglio 1984, n. 4523, in Giur. it., 1985, I, 585. (61) Trib. Catania, 13 dicembre 2001, in Foro it., 2003, I, 673; Corte App. Torino, 4 novembre 1992, in Giur. merito, 1993, 949. (62) Cass., Sez. civ., 27 gennaio 2003, n. 1151, in Giust. civ., 2003, I, 2770; Cass, Sez. civ., 4 aprile 2001, n. 4963, in Giust. civ., Mass., 2001, 691; Cass., Sez. civ., 13 settembre 2000, n. 12080, in Riv. giur. edilizia, 2000, I, 1053; Cass., Sez. civ., 10 gennaio 1996, n. 161, ivi, 1996, 21.
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disciplina di settore non si sovrappone a quella civilistica in tema di emissioni (art. 844.c.c. (63)), poiché mentre quest’ultima è volta a regolare esclusivamente i rapporti tra privati, quella speciale sull’inquinamento acustico ha ad oggetto quelli tra cittadino e Pubblica Amministrazione, dettando disposizioni sui procedimenti pianificatori, autorizzativi e sanzionatori, seppure la giurisprudenza abbia talvolta evidenziato “zone di contatto” tra le due normative.
(63) L’art. 844 c.c., nel regolare i rapporti inerenti al diritto di proprietà, disciplina gli usi incompatibili di immobili confinanti, stabilendo che il proprietario del fondo può opporsi alle immissioni ed alle esalazioni nocive di qualunque tipo, comprese quelle acustiche, provenienti dal fondo del vicino, in quanto risultino superare la normale tollerabilità. Fino a tempi relativamente recenti, la giurisprudenza di legittimità ha fornito una interpretazione tradizionale e restrittiva dell’articolo 844 c.c., riducendo il fenomeno delle immissioni all’ambito dei conflitti tra fondi vicini e quindi ritenendo che il criterio della normale tollerabilità e quello del contemperamento delle esigenze della produzione fossero utilizzabili unicamente a tutela del diritto di proprietà e non a tutela del diritto alla integrità dell’ambiente e del diritto alla salute. Tuttavia, a partire dagli anni settanta, si è formato un orientamento interpretativo volto a disancorare l’art. 844 c.c. dalla sua originaria ratio e ad estenderne l’applicabilità, ponendo tale norma a servizio della tutela di valori costituzionalmente garantiti, come la salute, intesa come bene primario dell’individuo, ed in questa direzione si sono orientate tante decisioni di merito che hanno ritenuto legittima l’azione inibitoria, ex articolo 700 c.p.c., delle immissioni di cui all’articolo 844 c.c., utilizzando quest’ultimo come specifico mezzo di tutela della salute. Tale giurisprudenza ha interpretato in maniera evolutiva l’articolo 844 c.c. ponendo la salute dell’uomo come unico criterio per decidere circa la tollerabilità o meno delle immissioni di rumore e quindi facendo diventare la salute umana il bene oggetto di tutela della norma stessa. Invero, si è ritenuto che tale disposizione non possa limitare la sua portata alla sola tutela delle proprietà in senso stretto, riconoscendone una più ampia sfera di applicabilità, riferita anche ai diritti personali, intesi in senso psicofisico, del proprietario dei fondi, al fine di garantire tutela non soltanto alla proprietà nel suo contenuto meramente patrimoniale, ma anche a tutti quegli aspetti collegati al diritto medesimo, come il diritto soggettivo del proprietario alla realizzazione del proprio benessere, anche attraverso la salubrità dell’ambiente circostante (in tal senso v. Cass., Sez. civ., 30 luglio 1984, n. 4523, in Mass. Giur. it., 1984; Cass., Sez. civ., 6 aprile 1983, n. 2396, in Arch. Locazioni, 1983, 245; Cass. 20 agosto 2004, n. 16346, in Riv. giur. ambiente, 2004, 116 ss.; Cass. 3 febbraio 1999, n. 915, in Giur. it., 2000, 510; Cass. 11 aprile 2006, n. 8420, in Resp. civ., 2006, 661; Cass., Sez. civ., 8 marzo 2010, n. 5564, in Foro. it., 2010, 3412. Così M. De Tilla, Immissioni sonore e danno alla salute, in Giur. merito, 1993, 952; P. Cendon, Trattato breve di nuovi danni, Padova, 2014, 350 ss.; Cass. 3 agosto 2001, n. 10735; Cass. 13 maggio 2000, n. 12080, in Riv. giur. edil., 2000, I, 1053; Cass. 31 ottobre 2014, n. 23283).
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In tale ottica, è stato elaborato il principio secondo il quale i limiti massimi di esposizione al rumore stabiliti dalla legislazione ambientale possono essere utilizzati come parametro di riferimento per stabilire anche la soglia di tollerabilità delle immissioni acustiche nei rapporti tra privati, purché siano considerati come un limite minimo, e non massimo (64). 6. La disciplina del rumore aereo nell’ordinamento internazionale e nel quadro normativo interno: cenni. – Da quanto innanzi esposto, emerge come il fenomeno del rumore da traffico aereo assuma evidenti connotati pubblicistici, dovendo il legislatore, nella sua attività di regolamentazione del settore, bilanciare da un lato gli interessi dei cittadini, garantendo ad essi un adeguato livello della qualità della vita, dall’altro quelli economici, di più ampia scala, dell’aviazione civile, il cui sviluppo non deve essere ostacolato, rivestendo un’importanza strategica per la competitività e lo sviluppo nazionale e locale. Al contempo, non si può nemmeno ignorare la concreta esigenza di ubicare l’aeroporto non troppo distante dall’aerea urbanizzata, allo scopo di ridurre i costi di trasporto per i viaggiatori.
(64) A suffragio, si è osservato che «se le emissioni acustiche superano, per la loro particolare intensità e capacità diffusiva, la soglia di accettabilità prevista dalla normativa speciale a tutela di interessi della collettività, così pregiudicando la quiete pubblica, a maggior ragione le stesse, ove si risolvano in immissioni nell’ambito della proprietà del vicino, ancor più esposto degli altri, in ragione della vicinanza, ai loro effetti dannosi, devono per ciò solo considerarsi intollerabili ai sensi dell’art. 844 c.c. e pertanto illecite anche sotto il profilo civilistico». Il rispetto dei limiti discendenti dalla legislazione pubblicistica, tuttavia, non rende senz’altro l’immissione lecita sul piano civilistico, dovendosi in tal caso necessariamente operare il giudizio di tollerabilità alla stregua dei principi di cui all’art. 844 c.c. (Cass. 11 gennaio 2011, n. 939, in Dir. e giust., 2011). In senso opposto si è tuttavia pronunciato il legislatore che, con l’art. 6 ter della l. n. 13 del 2009 ha imposto, nell’accertamento della normale tollerabilità delle immissioni acustiche, di fare «salve in ogni caso le disposizioni di legge e di regolamento vigenti che disciplinano specifiche sorgenti e la priorità di un determinato uso». In dottrina è stato osservato come tale norma, che non ha trovato frequente applicazione, entri in conflitto con l’art. 32 Cost., incrinando il sedimentato sistema di regole elaborate dalla giurisprudenza intorno alla norma codicistica sulle immissioni. Infatti, in base a quanto previsto dal citato articolo del codice civile, la disposizione contenuta nel comma 1 dell’art. 844 c.c., ritenuta ormai da tempo idonea a tutelare la salute umana, troverebbe applicazione solo ove non vi siano specifiche disposizioni regolanti la fonte rumorosa e sempre che questa non consegui ad un’attività preesistente. Con la conseguenza che fenomeni acustici pregiudizievoli per la salute umana rischiano di essere considerati leciti e insuscettibili di essere inibiti solamente in quanto conformi alla disciplina pubblicistica o conseguenti ad un’attività iniziata in epoca pregressa (in tal senso G. Tomassini, La tutela d’urgenza della salute contro le immissioni acustiche eccedenti la normale tollerabilità, in Resp. civ. e prev., 2011, 2331 ss.).
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Questi temi sono stati alla base della disciplina elaborata dal legislatore in ambito internazionale il quale, tenendo conto degli indirizzi affermati a partire dagli anni sessanta dall’Organizzazione Internazionale dell’Aviazione civile (ICAO – International Civil Avation Organization) (65), ha adottato un approccio al problema di tipo “integrato”, che tenga conto sia della necessità di soddisfare la crescente domanda del trasporto aereo, sia della essenziale salvaguardia dell’ambiente. Data l’importanza di tali questioni, nel 1968 veniva creato da tale organizzazione il Comitato sulle Emissioni Sonore degli Aeromobili (CAN – Comitee on Aeroplane Noise), con il compito di definire ed elaborare norme riguardanti le emissioni sonore dei velivoli. In tale contesto, vennero individuate le misure preventive e di mitigazione del rumore in grado di ridurre l’impatto acustico alla fonte (come, ad esempio, l’introduzione dei propulsori), oppure di tipo pianificatorio-organizzativo, per ottimizzare il clima acustico aeroportuale (come, ad esempio, la limitazione al volo degli aerei più rumorosi, la riduzione dei voli notturni, il monitoraggio del rumore) (66). Ancora oggi gli studi di riduzione dell’impatto acustico aeroportuale sfociano in alcuna di queste restrizioni. Nel 1970 si raggiunse anche un accordo internazionale sulle norme in materia di emissioni sonore e nel 1977 una prima variazione in senso più rigoroso fu pubblicata nel Vol. I, Cap. 3, dell’Annesso 16 alla Convenzione sull’aviazione civile internazionale del 1944 (Environmental Protection: Aircraft Engine Emissions), nel quale gli aeromobili furono suddivisi in tre gruppi, caratterizzati da differenti livelli di emissioni sonore, in rapporto alla data di accettazione del certificato di navigabilità (67).
(65) L’ICAO (International Civil Aviation Organization) è un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite istituita nel 1944 allo scopo di garantire la cooperazione internazionale ed il più alto grado possibile di uniformità nella regolamentazione e nell’organizzazione dell’aviazione civile internazionale. Per approfondimenti v. F. Lattanzi, voce Organizzazione dell’aviazione internazionale (ICAO), in Enc. dir., XXXI, 1981, 228 ss. (66) Come osservato in dottrina, la soluzione a tali problematiche richiede sia l’adozione di provvedimenti tesi a ridurre la rumorosità degli aeromobili, sia l’attuazione di interventi più radicali, cioè modificazioni della tecnica del traporto aereo. La tendenza è quella di risolvere contemporaneamente il problema del rumore e quello della migliore utilizzazione dello spazio aereo che, per effetto dell’aumento del traffico, da bene gratuito comincia a diventare un bene scarso. Da ciò deriva la necessità di applicare innovazioni sostanziali nell’avionica e nei sistemi di controllo, nonché la progettazione di velivoli in grado di decollare ed atterrare con un percorso più rapido, limitando così l’aerea di massimo inquinamento acustico. In tal senso S. Petriccione, F. Carlucci, Economia dei trasporti, Padova, 2006, 238. (67) La classificazione degli aeromobili in base a tale accordo internazionale è la seguente:
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I principi elaborati in sede ICAO sono stati recepiti dal legislatore comunitario solo in epoca recente, in quanto fino agli anni settanta l’allora CEE aveva trattato la tematica dell’inquinamento acustico solo in relazione agli aspetti delle malattie professionali, degli infortuni e del lavoro. Con specifico riferimento al settore del trasporto aereo, ed al fine di soddisfare le evidenziate esigenze tra loro confliggenti (garantire la competitività del trasporto aereo, da un lato, ed assicurare la salvaguardia dell’ambiente e della salute dei cittadini, dall’altro), l’Unione Europea, sulla base delle indicazioni fornite dall’ICAO, ha emanato due importanti direttive, la n. 2002/30/CE e la n. 2002/49/CE, contenenti norme e procedure per l’introduzione di restrizioni operative ai fini del contenimento del rumore negli aeroporti comunitari e per la determinazione e gestione del rumore ambientale, con cui viene previsto che gli aeroporti degli Stati membri possono applicare misure restrittive per limitare o ridurre i rumori causati dagli aeromobili che operino all’interno delle loro piste, disciplina comunitaria recepita in Italia con il d.lgs. 17 gennaio 2005, n. 13 ed il d.lgs. 19 agosto 2005, n. 19 (68). La prima delle direttive citate è
- Capitolo 1: appartiene a questa categoria le prima generazione di motori degli anni ‘50 e ’60 (“turbogetto”), estremamente rumorosi e ritirati a partire dal 1990 dall’operatività negli aeroporti civili (aeromobili tipo Caravelle, Boeing 707); - Capitolo 2: il motore di questa tipologia di aeromobili (“turboflan”) è reso meno rumoroso e maggiormente efficiente rispetto al turbogetto grazie ad una tecnologia di costruzione più avanzata (aeromobili del tipo Boeing 727 o Boeing 737-200); - Capitolo 3: i moderni motori sono meno rumorosi ed inquinanti grazie ad un maggiore utilizzo di materiale fonoassorbente e l’impiego di più turbine (aeromobili del tipo B747 e A320). Sono immatricolati in questa categoria anche gli aviogetti dotati di silenziatore ricertificati; – Capitolo 4: rappresentano i motori più recenti, in grado di rispettare il nuovo e più restrittivo standard ICAO, entrato in vigore per gli aerei prodotti a partire dal 2006 (esempio B777). A partire dal 1990, in Europa è stato proibito l’utilizzo degli aerei compresi nel Capitolo 1 e tutti gli aeromobili di nuova costruzione devono appartenere al Capitolo 3; dall’aprile 2002 è inoltre proibito l’utilizzo di aeromobili appartenenti al Capitolo 2, salvo deroghe per i paesi in via di sviluppo. (68) L’inquinamento acustico è stato trattato come una vera e propria forma di inquinamento solo in occasione dell’emanazione nel 1996 del libro verde sulle politiche future in materia di inquinamento acustico, in quanto prima di allora la Comunità europea si era mossa solamente con delle direttive c.d. di settore, che disciplinavano l’utilizzo di singole sorgenti di rumore inquinanti (ad esempio, la direttiva n. 70/157/CEE sui livelli sonori ammissibili dei veicoli a motore; la direttiva n. 78/1015/CEE sui livelli sonori ammissibili dei veicoli a due ruote; la direttiva n. 92/14/CEE sulle emissioni sonore degli aerei; la direttiva n. 80/51/CEE sulle emissioni sonore degli aeromobili subsonici). Con il citato libro verde, il rumore ambientale viene individuato espressamente come “uno dei maggiori problemi ambientali in Europa” e all’indomani della sua emanazione il dibattito su questa nuova forma di inquinamento ha condotto all’emanazione di due importanti direttive: la direttiva 2002/30/CE, relativa all’introduzione di restrizioni operative ai fini del contenimento del rumore negli aeroporti comunitari, recepita nel
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stata recentemente abrogata dal 13 giugno 2016 e sostituita dal Regolamento Europeo n. 598/2014, che istituisce norme e procedure per l’introduzione di restrizioni operative per il contenimento del rumore negli aeroporti dell’Unione Europea, applicabile agli aeroporti con traffico civile superiore a 50 mila movimenti all’anno (69). Per quanto concerne il nostro ordinamento, il sistema normativo è molto articolato e complesso ed è costituito da una normativa di settore che definisce in modo dettagliato modalità, procedure, misure e interventi per la prevenzione e mitigazione dell’impatto acustico generato dal traffico aereo in prossimità degli aeroporti, nonché le regole per l’acquisizione delle informazioni e dei dati necessari alla formazione delle connesse valutazioni e decisioni. Il primo intervento normativo in tal senso si è avuto con il d.p.c.m. 1 marzo 1991, recante “limiti massimi di esposizione al rumore negli ambienti abitativi e nell’ambiente esterno”, che ha disciplinato la materia in attesa della legge quadro sull’inquinamento acustico 26 ottobre 1995, n. 447, il quale ha fornito la disciplina organica della materia attraverso l’indicazione di definizioni, valori limite e provvedimenti per la limitazione delle emissioni sonore nell’ambiente esterno ed abitativo (70).
nostro ordinamento con il d. lgs. 17 gennaio 2005, n. 13, e la direttiva 2002/49/CE, di portata più ampia, relativa alla determinazione e alla gestione del rumore ambientale, recepita con il d.lgs. 19 agosto 2005, n. 194. In estrema sintesi, la Direttiva 30/2002/CE ha introdotto il concetto di “approccio equilibrato”, volto a risolvere i problemi “aeroporto per aeroporto”, prevedendo una serie di restrizioni operative, tra cui l’eliminazione progressiva degli aerei più rumorosi, particolarmente per gli aeroporti metropolitani e per quelli con un traffico superiore a 50.000 movimenti all’anno. Questa direttiva è stata di recente sostituita dal Regolamento Europeo n. 598/2014 (v. nota successiva). La direttiva 49/2002/CE, non informata ad una visione settoriale ma relativa ad ogni aspetto della tutela dell’inquinamento acustico, ha ridefinito i “descrittori acustici” del rumore ambientale, fornendo indirizzi per la loro determinazione anche nel caso del rumore degli aeroplani. Per approfondimenti sulla disciplina comunitaria dell’inquinamento acustico v. L. Casella, in AA.VV., Trattato di diritto dell’ambiente, Vol. II, Discipline ambientali di settore, a cura di P. Dell’Anno, E. Picozza, Padova, 2013, 427 ss. (69) Il regolamento (UE) n. 598/2014 del 16 aprile 2014 istituisce “norme e procedure per l’introduzione di restrizioni operative ai fini del contenimento del rumore negli aeroporti dell’Unione, nell’ambito di un approccio equilibrato, e abroga la direttiva 2002/30/CE”. Esso stabilisce, laddove sia stato constatato un problema di inquinamento acustico, norme concernenti la procedura da seguire per l’introduzione di restrizioni operative dirette a contenere il rumore, in modo coerente a livello dei singoli aeroporti, per migliorare il clima acustico e limitare o ridurre il numero delle persone che subiscono in misura significativa gli effetti nocivi del rumore prodotto dai velivoli. Questo regolamento si applica ai velivoli utilizzati in attività civili e non si applica ai velivoli utilizzati in operazioni militari, doganali, di polizia o simili. (70) Il d.p.c.m. 1 marzo 1991 ha fissato le soglie di accettabilità del rumore su tutto il
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In attuazione delle disposizioni recate dalla citata legge quadro n. 447 del 1995, sono stati in seguito adottati numerosi ulteriori provvedimenti, tra i quali i più significativi sono costituiti dal: Dm 31 ottobre 1997 (Metodologia di misura del rumore aeroportuale), con cui sono stati fissati i criteri di misurazione del rumore emesso dagli aeromobili durante il decollo, atterraggio, manutenzione, revisione e prove motori, nonché le misure per la sua riduzione; Dm 20 maggio 1999, con cui sono stabiliti i criteri per la progettazione dei sistemi di monitoraggio per il controllo dei livelli di inquinamento acustico in prossimità degli aeroporti e per la classificazione degli aeroporti, in relazione ai livelli di inquinamento acustico; Dm 3 dicembre 1999, riguardante l’individuazione delle procedure antirumore e delle zone di rispetto negli aeroporti; Dm 29 novembre 2000, che ha stabilito i criteri per la predisposizione dei piani di contenimento e abbattimento del rumore, introducendo obblighi per le società ed enti gestori di servizi pubblici di trasporto. In relazione ai controlli per la verifica dei livelli di emissione è stato, inoltre, emanato il D.P.R. n. 496 del 1997 che assegna all’ARPA (Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente) il compito di effettuare ispezioni sui sistemi di monitoraggio e l’invio dei dati al Ministero dell’ambiente, disponendo, altresì, il divieto dei voli notturni, ad eccezione dei voli di Stato, sanitari e d’emergenza. Inoltre, in base a quanto disposto dalla normativa sopra citata, ogni aeroporto aperto al traffico civile deve provvedere alla predisposizione nell’intorno aeroportuale di un sistema di continuo monitoraggio che possa consentire il rilevamento di eventuali superamenti di limiti e il collegamento di tale informazione con i dati e la traiettoria del velivolo che ha generato il superamento
territorio nazionale, escludendo dal suo ambito di operatività soltanto gli ambienti di lavoro ed altri fenomeni di rilevante entità. La successiva legge quadro sull’inquinamento acustico 26 ottobre 1995, n. 447, ha definito l’inquinamento acustico come “l’introduzione del rumore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell’ambiente abitativo o dell’ambiente esterno o tale da interferire con le legittime fruizioni degli ambienti stessi”. Con essa, inoltre, il legislatore ha individuato i valori di attenzione, cioè i valori di rumore che segnalano situazioni di rischio, oltre che le misure rivolte a ridurre l’inquinamento acustico. Inoltre, obbliga i Comuni a classificare il proprio territorio in base al profilo acustico, applicando i criteri definiti dalle leggi regionali, nonché ad approvare piani di risanamento. Per approfondimenti sul contenuto della legge quadro n. 447 del 1995 e dei relativi decreti attuativi, v. Casella, L’inquinamento acustico, in AA.VV., Trattato di diritto dell’ambiente, cit., 438 ss.; V. Tufariello, Il danno da emissioni, Torino, 2012, 578 ss.
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stesso. Ogni aeroporto, inoltre, è suddiviso in tre fasce (A, B e C), di pertinenza dell’infrastruttura e dell’intorno aeroportuale stesso, a cui corrispondono distinti limiti di rumore stabiliti (71); ciò obbliga i Comuni a vincolare come destinazioni d’uso parte delle aree del proprio territorio comprese nelle suddette fasce ed a classificare le porzioni del proprio territorio che confinano con la fascia A (la più esterna rispetto all’area dell’aeroporto e quindi con limiti più bassi), compatibilmente con i livelli di rumorosità ivi permessi. 7. La “tassa sul rumore” del trasporto aereo. – Come si è osservato in precedenza, lo strumento della regolamentazione diretta delle attività inquinanti, pur costituendo l’approccio più tradizionale, non si dimostra sempre efficace per la riduzione dell’inquinamento, poiché oltre ad essere dispendioso, richiedendo una preponderante azione amministrativa nel rilascio di licenze, nello svolgimento di controlli e nell’irrogazione di sanzioni, è anche poco incentivante. Per tali ragioni, come si è visto, gli economisti hanno sempre preferito fare ricorso a strumenti in grado di internalizzare i costi ambientali nei prezzi di mercato, al fine di ridurre l’entità dell’inquinamento e correggere le distorsioni esistenti sul mercato per l’uso eccessivo delle risorse naturali. In questa prospettiva si colloca anche la “tassa sul rumore” proporzionata alla rumorosità degli aeromobili (c.d. noise tax), indicata dall’ICAO come uno degli strumenti per limitare l’inquinamento acustico di origine aeroportuale, avente una duplice finalità: da un lato, diminuire il rumore alla fonte e, dall’altro, favorire, tramite finanziamenti, attività di mitigazione del rumore generato dagli aerei. Il primo obiettivo viene raggiunto ponendo il tributo a carico dei vettori, in modo da spingere le compagnie aeree a dotarsi di aeromobili meno rumorosi e ad utilizzare le fasce orarie più favorevoli; il secondo obiettivo riguarda invece il finanziamento delle attività di controllo e minimizzazione dell’inquinamento acustico e delle azioni di mitigazione, che comprende anche compensazioni dei disagi della popolazione maggiormente esposta mediante opere di insonorizzazione degli edifici, acquisizioni o indennizzi. L’ICAO non fornisce parametri esatti sulle modalità di calcolo di queste imposte, le quali vengono così applicate con metodologie e filosofie ispiratrici
(71) Nella fascia C sono possibili soltanto le attività strettamente connesse con l’uso dell’infrastruttura stessa; nella fascia B sono previste generalmente attività di tipo produttivo, commerciale o agricolo, tranne uffici, salvo che siano adottate misure di isolamento acustico; nella fascia A, invece, non è prevista alcuna limitazione.
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differenti; talvolta sono quantificate sulla base di un valore acustico registrato al passaggio dell’aeromobile, mentre in altri casi vengono determinate in funzione dei valori acustici di certificazione degli aerei. Tale difformità, unitamente al fatto che in alcuni aeroporti o Stati non sono applicate tasse sul rumore, costituisce un fattore in grado di sbilanciare il mercato a favore di quegli Stati o aeroporti che abbiano livelli di tassazione ambientale inferiore. La maggior parte dei Paesi europei, tra cui l’Italia, calcola tali tributi in funzione dei criteri di rumorosità stabiliti nell’Annesso 16 dell’ICAO, che classifica gli aeromobili in base al loro livello di rumorosità. Tuttavia, al fine di individuare una nuova riclassificazione che tenga conto dell’attuale situazione tecnologica degli aerei e per individuare una metodologia comune di calcolo del tributo, è stata emanata una proposta di Direttiva del Parlamento e del Consiglio del 2002 (72), avente ad oggetto l’“istituzione di una disciplina comunitaria per la classificazione delle emissioni sonore degli aerei subsonici civili ai fini del calcolo delle tasse sul rumore” (73). In tale proposta la “tassa sul rumore” è concepita come un tributo riscosso dall’aeroporto, connesso con le caratteristiche certificate dell’aeromobile in materia di emissioni sonore e destinato a coprire i costi derivanti dalle misure di attenuazione o prevenzione dei problemi di inquinamento acustico, nonché ad incoraggiare all’uso di aeromobili meno rumorosi. Secondo i proponenti, la tassa sul rumore per fini di tutela ambientale, fondata su una classificazione comune degli aeromobili in base al loro impatto acustico, permetterebbe una più efficace protezione dell’ambiente, una maggiore trasparenza dei regimi impositivi e la prevedibilità di tali regimi per gli operatori del trasporto aereo. Questo tipo di tributo non sarebbe finalizzato a generare un gettito supplementare per gli aeroporti, ma solo a permettere il finanziamento di misure di attenuazione dell’impatto ambientale in prossimità di questi ultimi (come, ad esempio, le misure di isolamento acustico) (74).
(72) Cfr. COM (2002) 683 del 29 novembre 2002. (73) Già in una precedente comunicazione sui trasporti aerei e l’ambiente (COM (1999) 640, del 1 dicembre 1999), la Commissione europea aveva proposto di utilizzare incentivi di tipo economico per incoraggiare gli operatori a fare uso di tecnologie atte a migliorare l’impatto ambientale del trasporto aereo. (74) Art. 3 (Disciplina comune per il calcolo della tassa sul rumore), della proposta direttiva COM (2002) 683: “Gli Stati membri sono spinti ad adottare le misure atte a garantire che il calcolo della tassa sul rumore riscossa negli aeroporti situati nel loro territorio si fondi su una serie di criteri: (1) La tassa sul rumore per gli arrivi e le partenze è commisurata all’impatto acustico relativo degli aeromobili in arrivo e in partenza sulla
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Le noise taxes costituiscono la metodologia più diffusa per la gestione dell’inquinamento acustico, applicata con l’obiettivo di spingere le compagnie aeree all’utilizzo di aeromobili più efficienti. L’idea di base è quella di tassare le compagnie aeree in funzione del danno arrecato alle popolazioni limitrofe, mediante il meccanismo in precedenza esaminato dell’internalizzazione dei costi ambientali, che vengono reinvestiti in programmi di isolamento acustico o, più in generale, in interventi per ridurre al minimo l’esposizione al rumore delle comunità locali. Le prestazioni patrimoniali riconducibili alle tasse sul rumore applicabili negli scali europei assumono una differente natura e non sempre sono identificabili come tributi veri e propri, trattandosi in alcuni casi di corrispettivi dovuti a fronte dei servizi forniti dalle aziende aeroportuali. In quasi tutti i Paesi membri è, comunque, previsto un prelievo sul decollo e sull’atterraggio degli aerei, calcolato in base a diversi parametri, quali il tipo ed il peso dell’aeromobile, la fascia oraria di atterraggio, la categoria di appartenenza dell’aereo, il suo peso ed il tipo di emissione sonora. L’aeroporto di Francoforte è stato il primo, nel 1974, ad introdurre una tassazione sul rumore, in seguito estesa in molti altri aeroporti della Germania. Essa si basa sui criteri di rumorosità previsti dall’Annesso 16 dell’ICAO e su altri parametri, come il numero dei passeggeri a bordo, il peso massimo al decollo ed all’ora in cui l’aeromobile opera (75). In Francia era stata introdotta una tassa sugli aeromobili nel 1973 per finanziare l’insonorizzazione di abitazioni limitrofe all’aeroporto di Parigi, poi abolita nel 1987. Successivamente è stata istituita nel 1992 una “Tassa per l’attenuazione del rumore nelle vicinanze degli aeroporti”, calcolata in base
popolazione che risiede in prossimità degli aeroporti ed è calcolata secondo una formula matematica specificata. Possono essere applicate tasse unitarie sul rumore diverse per fasce orarie giornaliere diverse; (2) il calcolo dell’energia acustica all’arrivo e alla partenza si basa sui livelli di rumore La (livello di rumore di un aeromobile all’arrivo) e Ld (livello di rumore di un aeromobile alla partenza); (3) la modulazione della tassa sul rumore nell’arco di una determinata parte di un periodo di 24 ore è limitata ad un rapporto di 1/40 che esprime la variazione massima tra il livello massimo e il livello minimo della tassa sul rumore. È possibile applicare un rapporto inferiore; (4) ai fini dell’applicazione del punto 3, ciascun periodo di 24 ore può essere suddiviso in tre periodi al massimo (giorno, sera e notte)”. (75) In Germania sono applicate tasse sul rumore negli aeroporti di Asburgo Munster, Francoforte, Monaco, Bonn, Hannover, Norimberga, Stoccarda, Saarbrucken, Düsseldorf, Brema, Berlino e Colonia.
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agli orari di effettuazione dei voli, alla tipologia di scalo, alla categoria di appartenenza dell’aeromobile ed al suo peso massimo al decollo (76). In Belgio il prelievo è calcolato, oltre che sulla base della classificazione dell’aereo, in funzione della fascia oraria del volo, mentre gli incrementi percentuali di incidenza della tassa variano a seconda che i decolli e gli atterraggi avvengano nelle ore più trafficate (77). In Inghilterra la tassazione è stata introdotta nel 1980 dapprima sotto forma di uno sconto del 15 per cento sui diritti di atterraggio per quegli aeromobili conformantisi alle specifiche dell’Annesso 16, successivamente con una differente tariffa dei diritti di atterraggio tra gli aeromobili del Capitolo 2 e del Capitolo 3 (78). In Svizzera ogni singolo decollo ed atterraggio è soggetto ad un sistema di monitoraggio che consente di calibrare la tassa a seconda del rumore prodotto nelle aree limitrofe agli scali aeroportuali. Come vedremo tra breve, anche in Italia la tassazione sul rumore aeronautico è calcolata in base ai Capitoli ICAO di appartenenza; questo modello di tassazione è stato applicato dal 1993 al 2000 mediante un’imposta erariale ed i relativi proventi sono stati ripartiti tra Ministero dei Trasporti (per una quota del 40%) e Ministero dell’Ambiente (per una quota del 25%) per essere destinati, rispettivamente, alle opere di disinquinamento acustico e al potenziamento dei servizi tecnici di controllo dello stato dell’ambiente. Per agevolare il reperimento e l’impiego dei fondi da reinvestire per la lotta al rumore di origine aeroportuale, la legge finanziaria del 2000 ha abrogato la precedente imposta ed istituito una nuova imposta regionale, l’IRESA, stabilendo i principi per l’utilizzo dei fondi derivati dalla riscossione del tributo. L’introduzione di questo tributo non è stata, tuttavia, né facile, né immediata, sollevando tutta una serie di problematiche che ci si accinge ad esaminare nelle pagine che seguono.
(76) La tassa è erogata ad un’Agenzia che, sentite le commissioni previste in ogni aeroporto e composte da rappresentanti dello Stato, dei vettori, dell’autorità aeroportuale e dei comuni interessati, ne decide l’utilizzo. La tassa in questione è presente negli aeroporti di Charles de Gaulle e Orly di Parigi, Côte d’Azur di Nizza, Marseille-Provence, Toulouse-Blagnac e Lyon. (77) Oltre alla classificazione dell’Annesso 16, si considera anche la fascia oraria del volo, applicando un incremento del 50% del tributo per i voli effettuati nelle ore di picco (8:00 – 11:00 e 17:00 – 19:00). (78) Questa tassazione risulta presente negli aeroporti di Heathrow, Gatwick e Stansted.
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8. L’evoluzione normativa nazionale della tassazione sulle emissioni sonore degli aeromobili. – L’inquinamento acustico generato dall’aviazione civile ha assunto dimensioni rilevanti soprattutto a partire dagli anni ottanta successivamente alla forte espansione della domanda del trasporto aereo ed al conseguente congestionamento degli aeroporti e delle aerovie. Al fine di contrastare tale forma di inquinamento, il primo approccio è stato quello di introdurre tecnologie in grado di ridurre il rumore degli aerei alla fonte, ma solo a partire dagli anni novanta è stata presa in considerazione la possibilità di introdurre imposte sul rumore. In Italia la tassazione riferita all’utilizzo di aeroplani e velivoli in genere risale già alla legge 6 maggio 1976, n. 324, che prevede il pagamento di diritti di approdo e di partenza degli aeromobili, genericamente definiti “diritti aeroportuali” (79), a carico dell’esercente (in caso di svolgimento di attività commerciale) o del pilota (negli altri casi), solidalmente al proprietario del mezzo. La misura di tali prelievi aeroportuali dipende, ai sensi dell’art. 2 del citato decreto, dal peso del velivolo e dall’ambito territoriale in cui viene svolta l’attività aerea (in ambito internazionale o entro i limiti del territorio nazionale (80)). La ratio del prelievo non è quella di tassare il rumore dell’aeromo-
(79) L’utilizzo delle infrastrutture aeroportuali da parte delle compagnie aeree, per le operazioni connesse all’approdo e partenza degli aerei (ma anche alla movimentazione delle merci e dei passeggeri) determina l’obbligo di corrispondere alla società che ne cura la gestione taluni importi, destinati a remunerare le attività di gestione medesima, che prendono la generica denominazione di “diritti aeroportuali” (per approfondimenti v. D. Bocchese, I diritti aeroportuali. Dalle origini ai nostri giorni, Napoli, 2015; sulla gestione aeroportuale v. AA.VV., Le gestioni aeroportuali, a cura di M. Comenale Pinto, F. Morandi, L. Marsala, Milano, 2005). A lungo si è dibattuto sulla natura giuridica dei diritti aeroportuali (sui cui v. G. Tinelli, in I corrispettivi per l’uso degli aeroporti. Natura giuridica e disciplina fiscale, in AA.VV., Il diritto degli aeroporti nel nuovo Codice della navigazione”, a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2006, 73 ss.), questione sulla quale è intervenuta la Corte di Cassazione con ordinanza 10 ottobre 2006, n. 2224 (in Foro it., 2007, I, 1197), riconoscendone natura tributaria e le relative controversie appartenenti alla giurisdizione delle Commissioni tributarie. Il legislatore, tuttavia, poco tempo dopo, mediante l’art. 39 bis del d.l. n. 159 del 2007, ha previsto la natura non tributaria dei prelievi aeroportuali (per un commento critico alla scelta legislativa v. V. Guido, La natura giuridica dei diritti aeroportuali tra orientamento giurisprudenziale e legislazione sopravvenuta, in Riv. dir. trib., 2008, 535), costringendo la Suprema Corte a prenderne atto con ordinanza 11 gennaio 2008, n. 379 (in Dir. trasp., 2008, 191 ss.), riassegnandole all’a.g.o. (80) L’art. 2 della legge 5 maggio 1974, n. 324 prevede una diversa regolamentazione, a seconda che i prelievi riguardino la movimentazione (approdo e partenza) oppure la sosta ed il ricovero. Nel primo caso l’importo dovuto varia a seconda della destinazione (se ad attività aerea internazionale o nei limiti del territorio dell’Unione Europea); nel secondo caso, il diritto è fissato in misura uguale per ogni aeromobile, per ora o frazione di ora successiva alle prime
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bile, quanto piuttosto l’utilizzo del suolo statale e di tutti quei servizi pubblici dei quali l’aeromobile si serve necessariamente in sede di approdo o partenza, indipendentemente dallo svolgimento di attività commerciali. Tuttavia, la rumorosità è un elemento in qualche modo incidente nella determinazione del tributo, almeno nella sua versione originaria, in cui era prevista una maggiorazione del 50 per cento per i voli notturni, proprio al fine di scoraggiare il volo nelle fasce orarie più sensibili al rumore (81). Il primo vero intervento legislativo volto a tassare il rumore prodotto dagli aerei risale invece all’art. 10 del d.l. 27 aprile 1990, n. 90, convertito in legge 26 giugno 1990, n. 165, che prevedeva un’imposta erariale applicata in misura proporzionale (non superiore al 20 per cento) ai diritti di approdo e partenza degli aeromobili (previsti dalla citata legge n. 324 del 1976). Come si evince dai lavori preparatori, la volontà del legislatore nell’introdurre tale imposta era quella di penalizzare gli aeromobili che causavano, con il loro transito, un rilevante inquinamento acustico nelle zone limitrofe alle stazioni aeroportuali (82). Da subito tale prelievo, applicato dall’anno 1993 fino all’anno 2000 (83), è stato configurato come un’imposta di scopo con evidente funzione ambientale (84), deducendosi tale caratteristica sia dai criteri di determinazione della misura dell’aliquota – che doveva essere rapportata alla rumorosità degli aeromobili e graduata, attraverso incrementi o riduzioni, secondo le norme internazionali di certificazione del rumore (85) – sia dalla previsione, contenuta nel quarto comma dell’art. 10, di un parziale vincolo di gettito per la realizzazione di opere ambientali (una quota del 40 per cento era assegnata al
due. Secondo l’art. 11 nonies del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, la misura dei diritti aeroportuali viene determinata, ogni tre o cinque anni, sulla base dei suggerimenti del Cipe, con decreto del Ministro delle infrastrutture di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze. (81) Tale maggiorazione è stata in seguito soppressa ad opera dell’art. 11 nonies, comma 1, lett. b) del d.l. n. 203 del 2005. (82) Cfr. Relazione al Disegno di Legge di conversione nel D.L. 27 aprile 1990, n. 90 – Senato della Repubblica – X Legislatura, n. 2259. (83) L’imposta in questione, infatti, ha trovato compiuta disciplina solo con il successivo D.P.R. 26 agosto 1993, n. 434, che ne ha stabilito le aliquote e le modalità di accertamento e riscossione. In seguito è stata soppressa, a decorrere dall’anno 2001, dalla legge 21 novembre 2000, n. 342, che contestualmente ha istituito l’IRESA. (84) F. Picciaredda, P. Selicato, I tributi e l’ambiente. Profili ricostruttivi, cit., 177. (85) Le misure delle aliquote stabilite dal D.P.R. 26 agosto 1993, n. 434, erano del 20%, 15% e 5% e variavano a seconda della tipologia di velivolo e, quindi, della sua potenziale rumorosità.
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Ministero dei trasporti e destinata al finanziamento di interventi di disinquinamento acustico, mentre il 25 per cento era destinata al Ministero dell’ambiente per il potenziamento dei servizi tecnici di controllo dello stato dell’ambiente). Qualche anno più tardi, l’art. 18 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, ha previsto l’istituzione di dell’“Imposta Erariale Regionale sulle Emissioni Sonore degli Aeromobili”, dovuta in misura proporzionale all’entità della rumorosità ed il cui gettito era assegnato alle Regioni per essere destinato da queste ultime a sovvenzioni ed indennizzi alle amministrazioni ed ai soggetti residenti nelle zone limitrofe agli aeroscali. Il primo comma del citato art. 18 prevedeva che la nuova imposta fosse dovuta in aggiunta ai già citati diritti aeroportuali, mentre il secondo comma subordinava l’attuazione della stessa ad un apposito regolamento, da emanarsi entro il 1998, concernente le modalità di accertamento, la riscossione ed il versamento nonché la definizione della misura dell’aliquota, rapportata alla rumorosità degli aeromobili, secondo le norme internazionali di certificazione acustica, su proposta del Ministero dell’ambiente, di concerto con i Ministri delle finanze e dei trasporti e della navigazione. Anche tale tributo aveva una finalità ambientale extrafiscale (86) ma, a differenza del precedente istituito nel 1990, il relativo gettito era destinato alle Regioni, anziché all’Erario, seppure la Corte costituzionale lo aveva ritenuto tributo statale a tutti gli effetti, in quanto istituito con legge statale (87). Tale prelievo, tuttavia, non è mai entrato in vigore a causa della mancata emanazione del regolamento attuativo, causando ricadute negative sulla realizzazione degli obiettivi di risanamento ambientale posti dal legislatore. Tre anni dopo, gli artt. 90-95 della legge 21 novembre 2000, n. 342, hanno introdotto, a decorrere dall’anno 2011, l’Imposta Regionale sulle Emissioni Sonore degli Aeromobili, nota con l’acronimo di IRESA, contestualmente
(86) In tal senso v. M. Interdonato, voce Tributi regionali, in Dig. IV, Disc. Priv., Sez. Comm., Vol. XVI, 1999. (87) La natura erariale dell’imposta in questione è stata sostenuta da C. Cost. 18 novembre 2000, n. 507, in Boll. trib., 2001, 394, secondo cui “la nuova imposta sulle emissioni sonore derivanti dal traffico aereo, pur essendo definita dalla legge istitutiva (art. 18 l. 27 dicembre 1997 n. 449, recante misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) come “regionale”, deve invece ritenersi nella sostanza un tributo statale”; in modo analogo si è espressa C. Cost. 25 luglio 2000, n. 348, in Foro it., 2001, I, 1786, dove si legge: “La nuova imposta, pur definita “erariale regionale”, è un tributo istituito dallo Stato in tutto il territorio nazionale, fra l’altro in connessione con materia, come il traffico aereo, di competenza statale, e disciplinato dallo Stato come gli altri tributi erariali. È solo il suo gettito che è devoluto alle Regioni …”.
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all’abrogazione delle imposte precedenti (88), con la finalità, come si evince anche dalla sua stessa denominazione, di ridurre le emissioni sonore nelle aree limitrofe agli aeroscali. L’imposta è dovuta dall’esercente dell’aeromobile (individuato secondo le norme del Codice della navigazione (89)) alle Regioni ed alle Province autonome per ogni decollo e atterraggio dell’aeromobile civile negli aeroporti civili, con esclusione dei voli militari, di Stato, sanitari e di emergenza, ed è determinata sulla base del numero di decolli e atterraggi, del peso del velivolo e delle caratteristiche tecniche dell’emissione sonora, nel rispetto delle norme sulla certificazione acustica internazionale (90). A tali enti è riconosciuto un certo livello di autonomia nella determinazione delle aliquote, che possono da essi essere elevate fino al 15 per cento, se il decollo o atterraggio avvengono nelle fasce orarie di maggiore utilizzazione, in misura non superiore all’indice ISTAT dei prezzi al consumo per la collettività nazionale. Si tratta di un’imposta con parziale vincolo di gettito, che è “destinato “prioritariamente” al completamento dei sistemi di monitoraggio acustico e al disinquinamento acustico e all’eventuale indennizzo delle popolazioni residenti nelle zone A e B dell’intorno aeroportuale”, danneggiate dalle emissioni sonore (91). E previsto, inoltre, che, in sede di conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, venga attuata la compensazione delle risorse derivanti dall’applicazione dell’imposta nel caso di zone sottoposte ad inquinamento acustico derivante dalle emissioni sonore negli aeroporti situati in Regioni limitrofe a quelle ove ha sede l’aeroporto medesimo; le risorse pervenute a ciascun ente territoriale
(88) L’art. 95, primo comma, della l. 342 del 1990 abroga espressamente sia l’Imposta Erariale sugli Aeromobili di cui all’art. 10 del d.l. 27 aprile 1990, n. 90, sia l’Imposta Erariale Regionale sulle Emissioni Sonore degli Aeromobili di cui all’art. 18 della legge 27 dicembre 1997, n. 449. (89) Il legislatore non ha specificato la figura dell’esercente dell’aeromobile, ma l’Agenzia delle Entrate, con la Circolare n. 207/E del 16 novembre 2000 (in Dir. prat. trib., 2001, I, 179) ha chiarito che “l’esercente si identifica in colui il quale assume l’esercizio dell’aeromobile, ai sensi dell’art. 874 del Codice della navigazione” e che “ai sensi dell’art. 876 dello stesso Codice della navigazione, in mancanza della dichiarazione di esercente, si presume tale, salvo prova contraria, il proprietario dell’aeromobile”. (90) Per un approfondimento si veda A. Uricchio, Tributi regionali propri e impropri alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione e della giurisprudenza della Corte costituzionale, in Fin. loc., 2006, 36 ss.; R. Alfano, Tributi ambientali. Profili interni e europei, cit., 243 ss. (91) Per l’individuazione delle zone A, B e C si rinvia alla nota n. 71.
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devono essere ripartite tra i vari Comuni dell’intorno aeroportuale, in conformità a specifici programmi di risanamento e disinquinamento acustico (realizzati in conformità del d.m. del 20 maggio 1999). 9. La ricostruzione dell’IRESA come tributo ambientale parzialmente di scopo. – Posto il descritto quadro normativo di riferimento, al fine di condurre un’indagine sulla natura giuridica dell’IRESA, un primo dato certo da cui si può partire è costituito dalla riconducibilità dell’imposta nell’ambito della fiscalità ambientale, essendo il prelievo certamente ispirato alla tutela dell’ambiente contro i danni dell’inquinamento acustico, riconosciuto ormai a livello scientifico come una vera e propria forma di inquinamento. Da un primo punto di vista economico, l’IRESA può senz’altro farsi rientrare nell’ambito delle imposte correttive di origine pigouviana, quindi nel quadro di quegli strumenti che consentono di ristabilire l’equilibrio di mercato in presenza di un’esternalità negativa, costituita in questo caso dal rumore, addossando a carico del soggetto inquinatore, vale a dire l’esercente l’aeromobile, i costi dell’inquinamento. L’imposta in esame, infatti, essendo posta a carico delle compagnie aeree in misura crescente alla “rumorosità” degli aeromobili, ha un effetto disincentivante verso la produzione dell’inquinamento acustico, spingendole a dotarsi di aerei meno rumorosi. Dall’altro lato, la riduzione dell’inquinamento è rafforzata dalla destinazione del gettito derivante dal tributo, impiegato per la maggior parte al finanziamento delle attività di controllo e di mitigazione del rumore, oltre che di compensazione dei disagi della popolazione maggiormente esposta al rumore. Sotto un profilo giuridico, tuttavia, occorre vedere se il prelievo così destinato si caratterizzi solo per le sue finalità ambientali o se la tutela ambientale sia “interiorizzata” nel presupposto, secondo la definizione di “tributo ambientale in senso stretto” elaborata in seno all’Unione Europea ed accolta dalla dottrina, di cui si è parlato nelle pagine precedenti. Si è visto, infatti, che gli studi comunitari hanno operato la distinzione tra “tributo ambientale in senso stretto”, che incorpora nel presupposto la finalità di protezione dell’ambiente, e “tributo con mera funzione ambientale”, il quale persegue una finalità extrafiscale, costituita dall’internalizzazione dei costi ambientali, senza che ciò rilevi ai fini della ricostruzione in termini ambientali del presupposto impositivo. In ordine al corretto inquadramento giuridico del tributo in questione, non si riscontrano tra gli Autori posizioni concordi. Alcuni di questi, infatti, ritengono che l’IRESA sia un tributo ambientale in senso stretto, poiché indi-
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viduano il presupposto impositivo nella produzione dell’agente inquinante, vale a dire l’emissione sonora (92). Secondo altri autori, invece, l’IRESA non costituirebbe un vero e proprio tributo ambientale, ma un tributo di scopo con funzione indennitaria, avendo il legislatore valutato la finalità ambientale come esterna, non interna al presupposto (93). Altri Autori ancora ritengono che l’impostazione normativa esplicitata dall’art. 90, facendo ricorso a parametri indiretti e mediati di rumorosità degli aeromobili (quali il numero dei decolli ed atterraggi ed il peso dei velivoli), non consente di far rientrare l’IRESA nella definizione comunitaria di tributo ambientale in senso stretto, che è caratterizzata dalla presenza della tutela ambientale nel presupposto e da un collegamento causale fra quest’ultimo, individuabile con la misurazione del deterioramento ambientale, e il tributo (94). Altra parte della dottrina ritiene, ulteriormente, di poter attribuire all’imposta in questione la doppia qualifica di “tributo ambientale” (in quanto assume a presupposto un fenomeno inquinante) e “con funzione ambientale” (essendo
(92) Fra cui P. Laroma Jezzi, I tributi ambientali, in AA.VV., Manuale di diritto tributario. Parte speciale, a cura di P. Russo, 2002, Milano, 331; R. Alfano, Tributi ambientali. Profili interni e europei, cit., 247; C. Verrigni, La rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nei tributi ambientali, cit.; F. Batistoni Ferrara, I tributi ambientali nell’ordinamento italiano, cit., 1091; R. Alfano, Tributi ambientali. Profili interni e europei, cit., 247. (93) Cfr. V. Ficari, Prime note sull’autonomia tributaria delle regioni a statuto speciale (e della Sardegna, in particolare), in Rass. trib., 2001, 1306. Tale dottrina ritiene che generalmente non sia possibile concepire dei veri e propri tributi ambientali in senso stretto, poiché se così fosse sarebbe altresì necessario dimostrare la relazione causale tra prelievo ed ambiente, nella quale il bene ambientale appartiene alla fattispecie tributaria. A ciò si oppone la difficoltà di ammettere che il prelievo ambientale abbia, oltreché una funzione indennitaria e disincentivante, anche funzione redistributiva del carico delle spese pubbliche, tale che possa essere considerato compatibile sia con i principi costituzionali che tutelano l’ambiente, sia con il principio della capacità contributiva. Affinché questo sia possibile, il consumo o il danneggiamento dell’ambiente dovrebbe rappresentare un fatto idoneo a manifestare forza economica, ma non essendo il fattore inquinante di per sé economicamente valutabile, si deve concludere per l’ammissibilità dei soli tributi con funzione ambientale di natura commutativa. In tal senso l’Autore sostiene che l’IRESA assuma la caratterizzazione di un’imposta di scopo sotto il profilo del presupposto, proprio perché la “fase del decollo e dell’atterraggio non manifesta alcuna forza economica o, comunque, una forza economica diversa da quella già assoggettata a tassazione mediante l’imposizione sui proventi derivanti dall’attività di trasporto tout court”. Considera l’IRESA un tributo di scopo anche A. Uricchio, Imposizione di scopo e federalismo fiscale, Maggioli editore, 2013, 187, in considerazione della destinazione del gettito a rimediare agli effetti negativi gravanti sull’ambiente e sui residenti nei pressi degli aeroporti. (94) V. Guido, L’imposta regionale sulle emissioni sonore: prime applicazioni di federalismo fiscale e sperimentazioni di fiscalità ambientale propria, cit., 372-373.
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un tributo di scopo il cui gettito è destinato a finanziare attività volte alla protezione e tutela dell’ambiente) (95). A nostro modesto avviso, la ricostruzione della natura giuridica dell’IRESA deve essere effettuata analizzando come si colloca la tutela dell’ambiente nella fattispecie tributaria, in particolare se essa rimanga estranea al presupposto, rappresentando solo lo scopo del tributo, oppure se ne rappresenti un elemento costitutivo. A tal fine, occorre partire dalla definizione dei due elementi essenziali della fattispecie tributaria, vale a dire il presupposto e la base imponibile. Il primo, secondo la dottrina tributaristica, corrisponde al fatto o complesso di fatti al cui verificarsi si rende dovuto il tributo, elemento individuato utilizzando formule spesso diverse, quali fattispecie imponibile, situazione di fatto, fatto generatore, situazione di base. Di frequente è utilizzato anche il termine “oggetto”, soprattutto con significato economico, ma in realtà quest’ultimo va distinto dal presupposto in quanto indica la ricchezza ovvero la capacità economica che il tributo vuole colpire (96). Il presupposto si distingue dall’altro elemento essenziale della fattispecie tributaria rappresentato dalla base imponibile, la quale è costituita dalla grandezza che misura la capacità contributiva manifestata dal presupposto, ovvero il parametro di commisurazione del tributo (97); non necessariamente essa è espressa in denaro (come nel caso di un reddito o di un patrimonio), potendo essere costituita anche da cose implicate nella stessa fattispecie, misurate secondo le loro caratteristiche di misura o di peso (98).
(95) In tal senso A. Fantozzi, Il diritto tributario, cit., 1049. (96) Presupposto e oggetto dell’imposta sono nozioni usate talora come coincidenti (ad esempio, nell’imposta di registro), ma spesso assumono significati distinti, in quanto il presupposto è preferito nei discorsi giuridici, mentre l’oggetto è un termine con significato prevalentemente economico (F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2006, 101). La nozione di “oggetto” è stata definita negli studi economici soprattutto quando il presupposto era studiato con riguardo alla natura di fonte della obbligazione (v. per tutti E. Vanoni, Elementi di diritto tributario, ora in Opere giuridiche, vol. II, Milano, 1961, 321 ss.). (97) Per la distinzione concettuale tra presupposto e base imponibile cfr., fra gli altri, A.D. Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, 151 ss.; L. Ferlazzo Natoli, Il fatto rilevante nel diritto tributario: contributo allo studio del presupposto di fatto del tributo, in Riv. dir. trib., 1994, I, 439 ss.; P. Russo, L’obbligazione tributaria, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, cit., II, 19 ss. Per le opere manualistiche, A. Fantozzi, Il diritto tributario, cit., 174 ss.; G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario. I principi generali, cit., 32 ss.; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, cit., 101 ss. (98) Ad esempio, l’imposta di pubblicità ha come base imponibile il mezzo pubblicitario,
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Ebbene, per quanto attiene all’IRESA, pur non avendo il legislatore dedicato apposite disposizioni, specificamente rubricate, alla definizione di tali due elementi, la loro individuazione può avvenire in via interpretativa dal complesso normativo che disciplina il tributo, analogamente a quanto si procede a fare, in generale, in tutti i casi in cui il legislatore non definisce in modo espresso gli elementi della fattispecie tributaria. Come osservato in dottrina, infatti, la distinzione tra presupposto e base imponibile non risulta sempre netta nell’ambito delle forme di manifestazione della fattispecie tributaria, richiedendosi in tali casi uno sforzo sistematico, in quanto spesso l’esigenza di un intervento immediato su specifiche manifestazioni di ricchezza fa perdere di vista la linearità della struttura giuridica su cui deve fondarsi tale disciplina (99). In particolare, l’art. 90, intitolato “Istituzione dell’imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili”, afferma che: “l’imposta stabilita nella misura di cui all’art. 92 è dovuta ad ogni regione o provincia autonoma per ogni decollo ed atterraggio dell’aeromobile civile negli aeroporti civili”, mentre il successivo art. 92, relativo alla “Determinazione e versamento dell’imposta”, dispone che “l’imposta è determinata sulla base dell’emissione sonora dell’aeromobile civile come indicata nelle norme sulla certificazione acustica internazionale”, stabilendo di seguito le diverse misure del tributo, variabili in base al peso massimo di ciascun velivolo al decollo e della sua classe di appartenenza (100).
misurato in base alle sue dimensioni e caratteristiche; le imposte di fabbricazione e le accise hanno come base imponibile le unità di prodotto (ettolitro, quintale, ecc.); l’imposta di circolazione degli autoveicoli è ragguagliata ai cavalli fiscali. (99) Sulla mancanza di una definizione normativa di presupposto nell’ambito dell’IVA, dove il legislatore prevede l’applicazione dell’imposta alle operazioni imponibili, di cui individua gli elementi soggettivi ed oggettivi che concorrono alla delimitazione dell’aera fiscale, disciplinando così, in modo indiretto, il presupposto, v. G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario. Il sistema dei tributi, cit., 518. In dottrina si osserva come l’articolazione testuale degli atti normativi non deve condizionare la ricostruzione, in via interpretativa, della disciplina dei tributi (A. Fedele, Appunti delle lezioni di diritto tributario, cit., 145). (100) Il primo comma dell’art. 92 della l. n. 342 del 2000 stabilisce le misure per tonnellata dell’IRESA in senso decrescente riguardo alla emissione di rumore degli aeromobili (gli importi originari erano espressi in lire): “a) classe 1: euro 0.25 per ogni tonnellata o frazione di tonnellata per le prime 25 tonnellate e euro 0.33 per ogni successiva tonnellata o frazione di peso massimo al decollo per i velivoli subsonici a reazione e ad elica senza certificazione acustica; b) classe 2: euro 0.19 per ogni tonnellata o frazione di tonnellata per le prime 25 tonnellate e euro 0.24 per ogni successiva tonnellata o frazione di peso massimo al decollo per i velivoli subsonici a reazione aventi le caratteristiche indicate nel capitolo 2
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Anche se sulla base del nomen juris potrebbe sembrare che il presupposto dell’l’IRESA sia il “rumore” provocato dal velivolo, l’evento che determina l’insorgere dell’obbligazione tributaria non è riconducibile dall’emissione sonora dell’aeromobile, ma è ancorato all’esercizio delle attività aeroportuali costituite, nel caso di specie, dal decollo e dall’atterraggio dell’aeromobile, come definite dalla normativa di settore (art. 1 d.p.r. n. 496 del 1997) (101). Nella struttura normativa del tributo, infatti, la “rumorosità” dell’aeromobile non assume rilievo come presupposto del tributo, ma come parametro per la determinazione dell’imposta, come specificato dallo stesso legislatore che, al primo comma dell’art. 92 citato, precisa che l’imposta in questione è determinata “sulla base” dell’emissione sonora dell’aeromobile. Alla base della determinazione dell’imposta, infatti, c’è la classificazione degli aeromobili in Capitoli contenuta nell’Annesso 16 dell’ICAO che, come si è in precedenza osservato, classifica gli aeromobili in base a determinati standard di certificazione acustica (in sostanza, in funzione del loro livello di “rumorosità”). Sono poi previste tre diverse aliquote dell’imposta che vanno applicate per ogni tonnellata di peso massimo al decollo dell’aereo (in gergo tecnico MTOW, Maximum Tahe Off Weight), certificato dal costruttore per ogni modello. In estrema sintesi, per quantificare l’imposta occorre prima individuare la classe (o meglio, il “Capitolo”) di appartenenza dell’aeromobile, in base alla classificazione contenuta nell’Annesso 16 dell’ICAO, e poi moltiplicare i parametri previsti dal legislatore per le tonnellate di peso massimo dell’aereo al momento del decollo, risultante dalla certificazione acustica. La misura del tributo aumenta in base a questo livello di rumore “presunto”, con una incidenza, quindi, maggiore per i velivoli più rumorosi (sprovvisti di certificazione acusti-
dell’allegato XVI alla Convenzione internazionale per l’aviazione civile, stipulata a Chicago il 7 dicembre 1944, di cui al decreto legislativo 6 marzo 1948, n. 616; c) classe 3: euro 0.06 per ogni tonnellata o frazione di tonnellata per le prime 25 tonnellate e euro 0.08 per ogni successiva tonnellata o frazione di peso massimo al decollo per i velivoli subsonici a reazione aventi le caratteristiche indicate nel capitolo 3 dell’allegato XVI alla Convenzione citata alla lettera b) del presente comma e ad elica muniti di certificazione acustica”. Per peso massimo al decollo deve intendersi il peso complessivo massimo dell’aeromobile, così come determinato dal certificato acustico dei velivoli, previsto dal decreto del Ministro dei trasporti 3 dicembre 1983. (101) L’art. 1 del d.p.r. n. 496 del 1997 definisce l’attività aeroportuale con rinvio all’art. 3, primo comma, lett. m), punto 3), della legge quadro e recita: “per attività aeroportuali si intendono sia le fasi del decollo e atterraggio, sia quelle di manutenzione, revisione e prove motori degli aeromobili”.
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ca) e minore per gli aerei di più recente costruzione, ovviamente meno rumorosi (quelli appartenenti ai Capitoli 3 e 4 del citato dell’Annesso 16). L’unità fisica inquinante, dunque, vale a dire l’emissione sonora, che risulta dalla certificazione acustica del velivolo, non costituisce il presupposto del tributo, ma rileva soltanto quale parametro indiretto nella determinazione della base imponibile, ed è presunta dall’appartenenza del velivolo al relativo Capitolo (102). Il presupposto, invece, incorpora un fatto, costituito dall’esercizio delle attività di decollo e atterraggio, apprezzabile sotto il profilo reddituale e, in quanto tale, espressivo di un’attitudine alla contribuzione. Pertanto, se l’unità fisica inquinante non costituisce il presupposto del tributo ambientale, rilevando unicamente quale parametro nella determinazione della base imponibile, sembra opportuno sottolineare, seppure la dottrina non sia unanime sul punto, la necessità di inquadrare l’IRESA, sotto il profilo del presupposto, come un tributo ambientale parzialmente di scopo, in cui la funzione di tutela ambientale viene in rilievo per effetto della specifica destinazione del gettito, prevalentemente destinato alla realizzazione di opere di tutela e risanamento ambientale. Il fine extrafiscale del tributo è confermato dall’art. 90, primo comma, della l. n. 342 del 2000, secondo cui il gettito dell’IRESA “è destinato prioritariamente al completamento dei sistemi di monitoraggio acustico e al disinquinamento acustico e all’eventuale indennizzo delle popolazioni residenti nelle zone A e B dell’intorno aeroportuale”. L’utilizzo dell’avverbio “prioritariamente” indica il parziale vincolo di gettito, la cui maggior parte deve essere destinata dalla Regione alla predisposizione dei sistemi di monitoraggio del rumore, obbligatorio, come si è visto, per tutti gli aeromobili aperti al traffico civile (di solito mediante l’installazione di centraline nell’intorno aeroportuale), alle opere di disinquinamento acustico (ad esempio, con misure di isolamento acustico) nonché all’indennizzo delle popolazioni colpite. La finalità extrafiscale dell’IRESA trova ispirazione certamente nell’art. 32 Cost. che tutela il diritto alla salute il quale, come si è riportato in precedenza, assume nell’interpretazione giurisprudenziale un significato ampio, inteso non solo come diritto alla vita ed all’incolumità fisica, ma come vero
(102) In questa direzione sembrava, peraltro, essersi espresso anche il Ministero dell’economia e delle finanze con una circolare esplicativa emanata ancora prima della pubblicazione della legge istitutiva dell’IRESA, in cui si individuava il presupposto dell’imposta nel “decollo o atterraggio dell’aeromobile civile negli aeroporti civili” (Agenzia delle Entrate, circ. 16 novembre 2000, n. 207/E, cit.).
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e proprio diritto all’ambiente salubre, tutelabile nei confronti di qualunque soggetto (103). Si è visto, infatti, come gli studi scientifici abbiano ormai da tempo dimostrato che il rumore aeroportuale provoca sulla salute dell’uomo effetti nocivi di vario tipo, sia a livello fisico, che a livello psichico-comportamentale, e che le principali sorgenti di rumore siano rappresentate proprio dalla fase del decollo (durante la quale viene impiegata la massima potenza dei propulsori) e dell’atterraggio degli aerei (quando le emissioni sonore, benché meno intense, sono più concentrate, amplificando l’effetto disturbante), fasi che costituiscono le attività aeroportuali su cui è costruito il presupposto dell’imposta. La rappresentazione dell’IRESA come tributo parzialmente di scopo sembra avere trovato di recente conferma anche da parte della Corte costituzionale che, mediante la sentenza 13 del 13 febbraio 2015 (104), di cui si parlerà anche nelle pagine successive, ha evidenziato che l’IRESA “originariamente finalizzata a promuovere il disinquinamento acustico in relazione al traffico aereo, ha mantenuto uno scopo specifico, il quale tuttora comprende finalità attinenti alla tutela dell’ambiente (art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.). Lo dimostra la previsione della destinazione «prioritaria» del gettito «al completamento dei sistemi di monitoraggio acustico e al disinquinamento acustico e all’eventuale indennizzo delle popolazioni residenti [...] dell’intorno aeroportuale» (art. 90, comma 1, della legge n. 342 del 2000)”. Nella stessa direzione si era espressa poco tempo prima anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato che, nella segnalazione del 27 agosto 2013, nel formulare alcune osservazioni in merito alla diversa applicazione dell’imposta da Regione a Regione, aveva osservato che “Il quadro normativo attualmente vigente … non rispecchia la natura di imposta di scopo dell’IRESA, così come disciplinata dalla legge 21 novembre 2000, n. 342 (artt. 90-95)”. Sempre riguardo alla configurazione del tributo, infine, si può ulteriormente ritenere di escludere che esso abbia natura paracommutativa, non potendo riscontrare nessuna controprestazione specifica a favore del contribuente da parte del soggetto attivo (105). Il gettito del tributo è principalmente vincolato
(103) Sull’interpretazione giurisprudenziale del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost. nella disciplina della tutela contro l’inquinamento acustico, cfr. paragrafo 5 e le note di richiami. (104) In Giur. cost., 2015, 111 ss. (105) In tal senso v. anche C. Verrigni, La rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nei tributi ambientali, cit.; F. Gallo, F. Marchetti, I presupposti della
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alla realizzazione di opere per la riduzione del rumore di origine aeronautica ed è, quindi, destinato non a vantaggio del soggetto obbligato, che ha provocato l’emissione sonora, ma dell’intera collettività, in modo da soddisfare un interesse pubblico. Per tali ragioni, si ritiene di poter configurare il tributo in esame come un prelievo contributivo, con funzione redistributiva per il finanziamento di opere di risanamento ambientale (nella specie, monitoraggio acustico e disinquinamento acustico) (106). 10. IRESA e autonomia tributaria regionale. – Un altro aspetto di sicuro interesse riguarda l’inserimento del tributo in esame nel nuovo assetto della finanza regionale, come risulta in seguito alle modifiche del Titolo V Cost., ad opera della l. Cost. 18 ottobre 2011, n. 3, alla cui attuazione ha fatto seguito, per quanto attiene alle Regioni, il d.lgs. 6 maggio 2011, n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle Regioni a statuto ordinario e delle Province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario) (107). Al riguardo occorre preliminarmente osservare che la citata l. Cost. n. 3 del 2001, pur avendo innovato in modo importante il quadro delle competenze normative regionali sia in materia ambientale, sia in materia tributaria,
tassazione ambientale, cit., 128, in cui riconosce la natura contributiva alla precedente imposta sulle emissioni sonore istituita dalla l. 90 del 1990, strutturata in modo analogo a quella attuale; contra R. Alfano, Tributi ambientali. Profili interni e europei, cit., 247. (106) Come osservato dalla dottrina, la destinazione specifica del gettito, caratteristica dei tributi di scopo, non incide sulla natura giuridica dell’entrata, potendo il legislatore stabilire una specifica destinazione di quest’ultimo al fine di conseguire determinate politiche e, senza violazione di principi costituzionali, istituire a tal fine anche “imposte di scopo”. In tal senso v. A. Uricchio, L’imposizione di scopo, in AA.VV., La dimensione promozionale del fisco, cit., 157 ss.; F. Maffezzoni, voce Imposta, in Enc. dir., vol. XX, Milano, 1970, 459. (107) Sulla riforma del titolo V della Costituzione v. C. Fregni, Riforma del titolo V della Costituzione e federalismo fiscale, in Rass. trib., 2005, 683; Id., Autonomia tributaria delle regioni e riforma del titolo V della Costituzione, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di A. Berliri, L. Perrone, Napoli, 2006, 477; A. Di Pietro, Federalismo e devoluzione nella recente riforma costituzionale: profili fiscali, in Rass. trib., 2006, 245. Con particolare riferimento all’autonomia tributaria delle Regioni, in seguito all’emanazione della legge delega e del d.lgs. n. 68 del 2011, M.V. Serranò, I limiti dei tributi regionali e l’articolo 23 della Costituzione, in Dir. prat. trib., 2014, 729 ss.; A. Giovannini, Il federalismo fiscale che non c’è, in Dir. prat. trib., 2012, 1305 ss.; G. Marongiu, Il c.d. federalismo fiscale tra ambizioni, progetti e realtà, in Dir. prat. trib., 2011, 220; F. Gallo, Disuguaglianze, giustizia distributiva e principio di progressività, in Rass. trib., 2012, 287 ss.; Id., I principi del federalismo fiscale, in Dir. prat. trib., 2012, 1 ss.
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ha attribuito alle Regioni una competenza residuale in entrambe le materie fortemente circoscritta all’area geografica di riferimento ed agli ambiti già fisiologicamente destinati all’esercizio delle proprie funzioni (108). Più precisamente, quanto alla materia ambientale, antecedentemente alle modifiche introdotte dalla riforma del 2001 la Costituzione non conteneva alcun riferimento esplicito all’ambiente, anche se la Corte costituzionale ha sempre ammesso la competenza nel settore ambientale delle Regioni, con riferimento a singole materie (109). Il novellato art. 117 Cost. attribuisce ora espressamente la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali e ambientali” alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ed alla legislazione concorrente delle Regioni altre materie, come la “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”. Su tale ripartizione di competenze è più volte intervenuta la Corte costituzionale qualificando l’ambiente come un valore costituzionalmente protetto che, in quanto tale, delinea una sorta di “materia trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che sono statali, per le questioni ambientali di rilievo nazionale, ovvero locali, in riferimento a problematiche più circoscritte nello spazio. In particolare, spetta allo Stato il compito di fissare standard minimi di tutela uniformi su tutto il territorio nazionale, mentre la gestione dell’ambiente, dell’organizzazione dei servizi ambientali e del governo del territorio sono affidati alla competenza delle Regioni (110).
(108) In tal senso R. Alfano, Tributi ambientali. Profili interni e europei, cit., 102-103. (109) Cfr., per tutte, C. Cost., 7 ottobre 1999, n. 383, in Regioni, 2000, 163. (110) La revisione del titolo V della Costituzione ha favorito un significativo contenzioso costituzionale in ordine alla distribuzione delle competenze legislative in materia di tutela ambientale tra Stato e Regioni. Con tale riforma, infatti, è stata menzionata per la prima volta la tutela dell’ambiente tra le materie di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, Cost.), ponendo tutta una serie di problemi applicativi derivanti dal precedente sistema, che invece si reggeva sulla previsione di competenze legislative accentrate allo Stato (si pensi alle leggi cornice) unitamente a principio, largamente usato, della loro delegabilità alle Regioni. Al fine di assicurare una continuità della compartecipazione Stato-Regioni, soprattutto per evitare la frammentazione della legislazione, il Giudice delle leggi aveva inizialmente sostenuto che non tutte le materie elencate nell’art. 117 Cost. fossero materie in senso stretto – sulle quali si sarebbe configurata una rigorosa competenza legislativa statale – ma che alcune di esse, compresa la tutela dell’ambiente, dovessero intendersi come “materie trasversali”, in relazione alle quali si manifestano competenze diverse, che ben possono essere anche regionali (C. Cost., 26 luglio 2002, n. 407, in Riv. giur. amb., 2002, 937). Successivamente la Corte costituzionale ha mutato il proprio orientamento, considerando l’ambiente non come una “materia”, ma come un “bene della vita”, la cui disciplina comprende anche la tutela delle qualità e degli equilibri delle sue singole componenti; ciò comporta la competenza esclusiva dello Stato, per
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Quanto, invece, alla materia più strettamente fiscale, alle Regioni la Costituzione attribuisce potestà legislativa, che deve coordinarsi con quella statale in base alle regole contenute nel secondo comma dell’art. 117 Cost., che prevede la competenza esclusiva dello Stato nella disciplina del “sistema tributario e contabile dello Stato” (111), attribuendo alle stesse una potestà le-
la disciplina unitaria del bene complessivo ambiente, che funziona da limite per l’esercizio delle competenze regionali che hanno ad oggetto la fruizione e l’utilizzazione dell’ambiente (C. Cost., 14 novembre 2007, n. 378, in Giur. cost., 2007, 6 ss.). La riaffermazione della netta separazione fra competenza esclusiva statale e competenze regionali si riscontra anche nelle successive sentenze (v. per tutte C. Cost., 5 marzo 2009, n. 61, in Riv. giur. amb., 2009, 493). Per approfondimenti si rinvia a P. Maddalena, La nuova giurisprudenza costituzionale in tema di tutela ambientale, in Ambiente e sviluppo, 2012, 5 ss. B. Caravita, Diritto dell’ambiente, cit., 25 ss.; Id., La Costituzione dopo la riforma del Titolo V. Stato, Regioni e autonomie fra Repubblica e Unione Europea, Torino, 2002, 74 ss.; M. Cecchetti, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, cit.; G. Cocco, La legislazione in tema di ambiente è ad una svolta?, in Riv. giur. amb., 2002, 419 ss.; V. De Santis, Riparto di competenze legislative tra Stato e Regione (tra standards uniformi e limite delle norme fondamentali delle riforme economico sociali dopo la riforma del Titolo V), in Giur. it., 2004, 8 ss.; G. D’alfonso, La tutela dell’ambiente quale “valore costituzionale primario” prima e dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, AA.VV., Ambiente, territorio e beni culturali nella giurisprudenza costituzionale, a cura di F. Lucarelli, Napoli, 2006, 3 ss.; G. Mastrodonato, La prevalenza statale e il ruolo regionale nella giurisprudenza sulla tutela dell’ambiente, in Foro amm., CDS, 2011, 1817 ss. (111) In mancanza di una predeterminazione da parte della legge statale di quei principi generali dell’ordinamento tributario cui la legislazione tributaria regionale deve attenersi, ai sensi del citato art. 117, terzo comma, Cost., la dottrina ritiene che i limiti al potere normativo regionale possano comunque desumersi dalla stessa legge delega e dal sistema giuridico in cui la legge regionale è destinata a produrre i propri effetti. In tal senso, un primo limite è individuato nei principi costituzionali previsti in materia tributaria, di cui lo Statuto dei diritti del contribuente ha dato attuazione con la previsione di alcune disposizioni di principio e che sono espressamente richiamati tra i principi direttivi della legislazione delegata, come il divieto di doppia imposizione interna, che rappresenta un’espressione del principio di cui al primo comma dell’art. 53 Cost. In tal senso, v. C. Cost. 15 aprile 2008, n. 102 (commentata da A. Giovanardi, Riflessioni critiche sulla ripartizione delle competenze in materia tributaria tra Stato e Regioni alla luce della sentenza della Corte costituzionale sui tributi propri della Regione Sardegna, in Rass. trib., 2008, 1424 ss.; L. Del Federico, I tributi sardi sul turismo dichiarati incostituzionali, in Riv. int. dir. trib., 2008, 297; G. Marongiu, Le tasse “Soru” e l’impatto costituzionale, in GT Riv. giur. trib., 2008, 601) che ha dichiarato incostituzionale l’art. 2 della legge della regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4, che introduce un’imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico, in quanto tale imposta colpisce manifestazioni di capacità contributiva già colpite dall’IRPEF. Un secondo limite è ravvisabile nella predeterminazione legale dello spazio territoriale in cui è destinata ad operare la legge tributaria regionale e dalla necessaria effettività che ne deve assistere l’operatività, desumibile dai principi direttivi contenuti nella legge delega, ove si prevede una tendenziale correlazione tra il prelievo fiscale e il beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio. Un altro limite è rappresentato,
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gislativa concorrente, ossia da esercitarsi nei limiti dei principi fondamentali determinati da leggi dello Stato, in materia di “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (art. 117, terzo comma, Cost.) (112). Inoltre, alle Regioni è attribuita una potestà legislativa c.d. residuale, in ogni materia che non sia espressamente riservata alla legislazione dello Stato (art. 117, quarto comma, Cost.), potestà che, secondo la Corte costituzionale, dovrebbe avere riguardo esclusivamente ai presupposti di imposta collegati al territorio di ciascuna Regione e sempre che l’esercizio di tale facoltà non si traduca in un dazio o in un ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni (113). In tema di “autonomia finanziaria”, invece, l’art. 119 Cost. riconosce alle Regioni (ma anche ai Comuni, alle Province ed alle Città metropolitane) “autonomia finanziaria di entrata e di spesa”, per cui tali enti dispongono di risorse autonome, stabiliscono ed applicano tributi propri “in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” e dispongono, altresì, di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio. In attuazione di tale diposizione, l’art. 2, secondo comma, lett. o), della legge delega 5 maggio 2009, n. 42, vieta “ogni doppia imposizione sul medesimo presupposto salvo le addizionali previste dalla legge statale e regionale”, riservando prioritariamente allo Stato la scelta degli oggetti economici
infine, dal necessario rispetto della normativa comunitaria (su tali aspetti v. G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario. I principi generali, cit., 93-95, cui si rinvia anche per la dottrina e la giurisprudenza citate). (112) La riserva di competenza statale in materia di principi fondamentali del coordinamento del sistema tributario non può tuttavia, comportare alcuna riduzione del potere impositivo già spettante alle Regioni a statuto speciale poiché, ai sensi dell’art. 10 della l. Cost. n. 3 del 2001, la nuova disciplina costituzionale di applica ad esse solo per la parte in cui prevede “forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite” e, pertanto, non può mai avere l’effetto di restringere l’ambito di autonomia garantito dagli statuti speciali anteriormente alla riforma del titolo V Cost. (C. Cost. 15 aprile 2008, n. 102, cit.). Tuttavia, esse sono sempre soggette al vincolo della “armonia con i principi del sistema tributario statale”, nel senso che nella istituzione dei tributi esse devono sempre valutare la coerenza del sistema regionale con quello statale e alla rationes dei singoli istituti tributari. Sul tema v. V. Ficari, L’autonomia tributaria delle Regioni e degli enti locali tra Corte costituzionale (sentenza n. 102/2008 e ordinanza n. 103/2008) e disegno di legge delega, Milano, 2009; L. Antonini, Un’importante sentenza sul federalismo fiscale innovativa oltre il caso di specie, in Riv. dir. fin., 2008, 96 ss.; A. Giovanardi, Il riparto di competenze tributarie tra giurisprudenza costituzionale e legge delega in materia di federalismo fiscale, in Riv. dir. trib., 2010, I, 29 ss. (113) In tal senso v. C. Cost. 15 aprile 2008, n. 102, cit.
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da tassare ed escludendo interventi sulle basi imponibili e sulle aliquote dei tributi che non siano del medesimo livello di Governo; inoltre, il successivo art. 7, primo comma, lett. b), limita la possibilità per le Regioni di istituire tributi propri, escludendo quelli che insistano su presupposti già assoggettati ad imposizione erariale (114). Nonostante gli interventi legislativi in senso federalista, dunque, l’attuale assetto delle competenze legislative in materia tributaria denota una decisa prelazione accordata alla finanza statale, poiché le Regioni, nella scelta del presupposto dei tributi propri, possono indirizzarsi solamente verso fatti indici (non già annoverati nella disciplina di tributi erariali) che esprimono un radicamento al territorio e, al contempo, evidenzino la riferibilità a soggetti passivi riconducibili a quelle comunità alle cui spese pubbliche essi sono chiamati a partecipare (115). Ciò trova un’ulteriore conferma nell’art. 2, secondo comma, lett. p), della legge delega, ove si prescrive la “tendenziale correlazione tra prelievo fiscale e beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio”, normativizzando in tal modo la necessità, già evidenziata dalla dottrina, di una “previa valutazione della “continenza” dell’interesse espresso dall’elemento materiale del suo presupposto negli interessi compresi nell’elencazione delle materie attribuite alla competenza regionale” (116). Le disposizioni contenute nella citata legge delega raccolgono, nella sostanza, le conclusioni cui era giunta, prima della sua emanazione, la Corte costituzionale (117) che, pronunciandosi sul riparto delle competenze tributarie tra Stato ed enti locali, aveva enucleato il divieto di doppia imposizione sul medesimo presupposto, affermando che le Regioni a Statuto speciale possono
(114) cfr. anche art. 38 d.lgs. n. 68 del 2011, secondo cui: “Con efficacia a decorrere dall’anno 2013, la legge regionale può, con riguardo ai presupposti non assoggettati ad imposizione da parte dello Stato, istituire tributi regionali e locali nonché, con riferimento ai tributi locali istituiti con legge regionale, determinare variazioni delle aliquote o agevolazioni che comuni e Province possono applicare nell’esercizio della propria autonomia”. (115) Come da più parti osservato, lo spazio riservato ai tributi propri regionali è assai esiguo. In tal senso, Giovannini, Il federalismo fiscale che non c’è, cit., 1331; M.V. Serranò, I limiti dei tributi regionali e l’art. 23 della Costituzione, in Dir. prat. trib., 2014, 734; A. Giovanardi, La fiscalità delle Regioni a statuto ordinario nell’attuazione del federalismo fiscale, in Rass. trib., 2010, 1617; A. Fedele, Federalismo fiscale e riserva di legge, in Rass. trib., 2010, 1525; G. Marongiu, Il c.d. federalismo fiscale tra ambizioni, progetti e realtà, in Dir. prat. trib., 2011, 220; A. Fantozzi, Diritto tributario, Torino, 2012, 164. (116) F. Gallo, Ancora in tema di autonomia tributaria delle Regioni e degli enti locali nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Rass. trib., 2005, 1037. (117) C. Cost. 15 aprile 2008, n. 102, cit.
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istituire tributi propri anche sul medesimo presupposto già colpito da tributi erariali, purché nel rispetto della legge di coordinamento, mentre le Regioni ordinarie devono attenersi alla tassazione su un presupposto diverso da quello già inciso da imposte erariali e nel rispetto dei principi del sistema. In definitiva, pur essendo attribuito alle Regioni il potere di istituire e regolare con legge regionale “tributi propri” stricto sensu (118), queste ultime hanno spazi di intervento piuttosto limitati poiché, non potendo istituire tributi su presupposti già assoggettati ad imposizione erariale, di fatto la loro scelta è limitata ai tributi di scopo ed ai tributi c.d. controprestazione o corrispettivi, strettamente strumentali al raggiungimento degli obiettivi di politica regionale, aventi un presupposto diverso da quello degli esistenti tributi erariali (119). In dottrina è stato osservato che non appare particolarmente significativa nemmeno la trasformazione, a partire dal 1° gennaio 2013, operata dall’art. 8 del già citato d.lgs. n. 68 del 2001, di alcuni tributi preesistenti statali (tra cui anche l’IRESA) in “tributi propri delle Regioni”, poiché tale trasformazione ha lasciato inalterata la loro effettiva identità (120), risultando più come tributi statali semplicemente dismessi e affidati alle Regioni, piuttosto che tributi propri regionali, secondo la definizione di essi fornita dalla Corte costituzionale (121). In tal senso il legislatore, pur avendo certamente compiuto un’im-
(118) Sono stati trasformati in tributi propri regionali dall’art. 8 del d.lgs. n. 68 del 2011, oltre all’IRESA, la tassa per l’abilitazione all’esercizio professionale, l’imposta regionale sulle concessioni statali per demanio marittimo, l’imposta regionale sulle concessioni statali per l’occupazione di spazi e l’uso dei beni del patrimonio indisponibile, la tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche regionali, le tasse sulle concessioni regionali. (119) Al riguardo è stato sottolineato come “verrebbero considerate illegittime le norme regionali che intervengono in qualsiasi modo su tributi istituiti ed integralmente disciplinati da legge dello Stato” (F. Amatucci, Il riconoscimento del potere delle Regioni di riduzione e azzeramento dell’aliquota irap, in Rass. trib., 2013, 1093). (120) In tal senso M. Basilavecchia, Fisco delle Regioni e vincoli costituzionali, in Corr. trib., 2011, 1931. Non sfugge all’interprete né al tecnico «la scarsa incidenza quantitativa di tali tributi, né i limiti che incontrerà un incremento del gettito attraverso l’istituzione di nuovi tributi propri in relazione a presupposti non attribuiti allo Stato» (G. Fransoni, La territorialità dei tributi regionali e degli enti locali, in Riv. dir. trib., 2011, 807). (121) Secondo la Corte costituzionale, sarebbero configurabili come tributi propri delle Regioni soltanto quelli istituiti attraverso legge regionale, a prescindere dalla destinazione del gettito e dalla devoluzione di parte della disciplina alla potestà legislativa regionale. In tal senso cfr. C. Cost. 26 settembre 2003, nn. 296 e 297 (commentate da G. Marongiu, I tributi propri della regione secondo la Corte costituzionale, in Giur. cost., 2004, 2555; L. Antonini, La prima giurisprudenza della Corte costituzionale sul federalismo fiscale, in Giur. cost., 2004, 17); C. Cost., 15 ottobre 2003, n. 311, in Giur. it., 2004, 1339; C. Cost. 25 luglio 2005, n. 335,
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portante opera di riorganizzazione, introducendo elementi di valorizzazione del territorio e dei poteri periferici finora inespressi, ma di fatto ha lasciato alle Regioni, almeno a quelle a statuto ordinario, solo briciole di vera autodeterminazione impositiva, cioè di autonomia di normazione primaria su tributi propri (122). La potestà normativa delle Regioni finisce, quindi, per fondarsi essenzialmente sui “tributi propri derivati”, istituiti e regolati da legge statale ed il cui gettito è attribuito alle Regioni (art. 7, primo comma. lett. b), sui quali tali enti posso intervenire modificandone le aliquote e prevedendo esenzioni, detrazioni e deduzioni, ma nei soli limiti fissati dalla legislazione statale (123). Ciò premesso, dovendo studiare i possibili riflessi dell’autonomia normativa regionale nella disciplina dell’Imposta Regionale sulle Emissioni Sonore degli Aeromobili, occorre vedere se tale tributo si configuri come “tributo proprio” oppure come “tributo proprio derivato”. A tal fine, si rende necessario distinguere i periodi pre e post 2013 poiché, come si è già detto, l’art. 8 del d.lgs. 6 maggio 2011, n. 68 ha stabilito che, ferma la facoltà di sopprimerla, l’IRESA, a decorrere dal 1° gennaio 2013, è trasformata in tributo regionale proprio. Al riguardo occorre fare riferimento alle numerose sentenze della Corte costituzionale in cui è stato chiarito che l’art. 119 Cost., con la proposizione «... stabiliscono ed applicano tributi ed entrate propri ...», abbia inteso riferirsi «ai soli tributi istituiti dalle Regioni con propria legge nel rispetto dei principi del coordinamento con il sistema tributario statale»; sarebbero invece “tributi propri derivati” quelli (come l’IRAP o l’imposta di soggiorno) istituiti con legge statale, riscossi dall’ente ed il cui gettito è attribuito al medesimo (124).
in Riv. giur. amb., 2006, 77; C. Cost., 7 aprile 2006, n. 148, in Il Fisco, 2006, 3451; C. Cost., 19 dicembre 2012, n. 288, in Giur. cost., 2012, 4542. (122) In tal senso A. Giovannini, Il federalismo fiscale che non c’è, cit., 1307. (123) Tra i tributi derivati è da notare la compartecipazione al gettito dell’Imposta sul Valore Aggiunto (IVA), disciplinata dall’art. 4 del D.lgs. n. 68/2011, l’attribuzione del gettito dell’Imposta Regionale sulle Attività Produttive (IRAP) e l’addizionale regionale all’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche (IRPEF), modulabile in aumento e in diminuzione con legge regionale. Altri tributi regionali, non compresi nell’elencazione di cui al citato art. 8 possono considerarsi derivati in quanto previsti da legge statale e non qualificati normativamente come tributi “propri”, come la tassa automobilistica regionale, per la quale l’art. 8, secondo comma, subordina l’intervento regionale al rispetto dei limiti massimi di manovrabilità previsti dalla legislazione statale. (124) Secondo la Corte costituzionale (cfr. sentenze n. 296 e 297 del 26 settembre 2003, cit.), è tributo proprio della Regione esclusivamente il tributo istituito dalla Regione con propria legge,
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Si può ritenere pertanto che, fino all’anno 2012, l’IRESA si configurasse come un “tributo proprio derivato”, in quanto istituito con legge statale, riscosso nel territorio della Regione ed il cui gettito era attribuito all’ente regionale stesso. Nell’assetto normativo della legge n. 342 del 2000, infatti, l’ente territoriale esercitava un potere normativo limitatamente agli elementi secondari della prestazione, vale a dire ai meccanismi di graduazione del prelievo, con effetto incentivante o disincentivante. A partire dall’anno 2013, invece, l’IRESA ha cambiato qualificazione giuridica, essendo divenuta un tributo proprio della Regione, per effetto del citato art. 8 del d.lgs. n. 68 del 2011 che, nel pieno rispetto dell’autonomia normativa tributaria di tali enti, ha attributo alle Regioni anche la facoltà di sopprimerlo. Tale assunto è stato recentemente condiviso anche dalla giurisprudenza di merito che, ripercorrendo l’evoluzione normativa dell’imposta in questione e richiamando la sentenza n. 13 del 2015 della Corte costituzionale in precedenza richiamata, ha affermato che “l’iresa, sulla base della normativa vigente, è un tributo proprio regionale e non più un tributo derivato” (125). Volendo ulteriormente individuare il contenuto della regolamentazione giuridica regionale nell’ambito dell’IRESA, osserviamo come il citato art. 8 si sia limitato ad attribuire tale qualificazione al tributo in questione, senza tuttavia specificare quale sia il contenuto “minimo” del potere normativo regionale esercitabile in relazione ad esso. Al riguardo, si può, tuttavia, senz’altro fare riferimento al principio della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., che ci indica la “matrice” del potere di normazione (dello Stato e delle Regioni (126)) e gli elementi essenziali ad
salvo il rispetto del principio di coordinamento con il sistema tributario statale, mentre sono “tributi propri derivati” quelli (come l’IRAP o l’imposta di soggiorno) istituiti con legge statale, riscossi dall’ente ed il cui gettito è attribuito al medesimo. Questi ultimi possono essere modificati con legge regionale solo entro i confini delineati dai principi di coordinamento della finanza pubblica, stabiliti con apposita legge statale. Al contrario, i tributi propri possono essere istituiti o modificati con legge regionale, pur in assenza di un’apposita legge quadro statale. Ad avviso della dottrina (A. Giovannini, Il federalismo fiscale che non c’è, cit., 1316) «il gettito non può essere considerato come elemento di qualificazione del tributo. Non solo perché, per il diritto, è conseguenza delle singole obbligazioni tributarie, rappresentazione pecuniaria, cioè, del loro adempimento; ma anche perché la sua destinazione a favore delle regioni, come dato aggregato di finanza pubblica nazionale e come strumento di finanziamento, in tanto si realizza in quanto è lo Stato a volerla». (125) In tal senso, v. Comm. trib. prov. Roma, 16 dicembre 2016, n. 28862. (126) In dottrina si ritiene che l’art. 23 Cost., quando dice “in base alla legge”, intenda riferirsi sia alla legge dello Stato, sia alla legge regionale, che di per sé è idonea a soddisfare la riserva di legge (G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, I, Padova, 2010, 76).
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essa corrispondenti, vale a dire la “porzione” di disciplina riconducibile al potere primario. Partendo da tale principio, un tributo regionale può essere definito “proprio” se la Regione stabilisce gli elementi fondamentali della fattispecie tributaria, vale a dire il presupposto, la base imponibile, i soggetti ed i limiti dell’aliquota del tributo (127). Se, infatti, la Regione non eserciti alcun potere normativo primario in ordine a questi elementi, il tributo non può essere qualificato come proprio, anche qualora all’ente spetti il relativo gettito. Ci sembra, quindi, di poter condividere l’affermazione secondo la quale queste considerazioni possono ritenersi valide anche per i tributi interamente devoluti alle Regioni, sebbene già totalmente disciplinati dalla legge statale (128). Tali tributi possono essere qualificati come propri se alle Regioni, contestualmente alla devoluzione, vengono assegnati tutti i poteri normativi, con contemporanea rinuncia ad essi da parte dello Stato, compreso quello relativo alla loro soppressione. Queste prestazioni patrimoniali, infatti, non possono farsi rientrare nella categoria dei tributi propri derivati, poiché in relazione ad essa la legge delega n. 42 del 2009 prescrive la sola possibilità per le Regioni di modificare le aliquote e disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni, secondo i criteri fissati dalla legislazione statale (129). Diversamente, in relazione ai tributi propri alle Regioni viene concessa la facoltà di sopprimerli e “tale potere, che accompagna il trasferimento, ne suggella ulteriormente il carattere” (130). Alla luce delle suesposte considerazioni, quindi, deve in definitiva ritenersi che l’IRESA, originariamente istituita con legge statale n. 342 del 2000 e da questa compiutamente disciplinata, da tributo proprio derivato, quale era in tale contesto normativo, sia divenuto, a partire dal 1° gennaio 2013, un tributo proprio delle Regioni e che in relazione ad esso la Regione possa disciplinare tutti gli elementi essenziali della fattispecie tributaria. Peraltro, il terzo comma del medesimo art. 8 qualifica espressamente come tributi propri derivati delle Regioni a statuto ordinario gli “altri tributi ad esse riconosciuti”, permetten-
(127) Secondo il costante insegnamento di dottrina e Corte costituzionale, questi sono gli elementi essenziali che, in forza dell’art. 23, Cost., caratterizzano il potere normativo primario rispetto alla nozione di tributo. In tal senso si rinvia, anche per la bibliografia in esso citata, a G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario. I principi generali, cit., 70. (128) A. Giovannini, Il federalismo fiscale che non c’è, cit., 1314. (129) M. Basilavecchia, Fisco delle Regioni e vincoli costituzionali, cit., 1930. (130) A. Giovannini, Il federalismo fiscale che non c’è, cit., 1314.
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do di dedurre che quelli indicati al primo comma (tra cui l’IRESA) siano, al contrario, “propri”. A nostro modesto avviso, la “regionalizzazione” dell’IRESA andrebbe valutata in senso positivo, non solo perché costituisce una delle prime applicazioni del tanto atteso federalismo fiscale, ma soprattutto in quanto assegna un ruolo importante alle Regioni nella materia della tassazione ambientale. La tassazione ecologica, infatti, ha avuto sempre una dimensione essenzialmente nazionale e nonostante tale ambito di tassazione sia funzionale alla tutela di un bene, quale l’ambiente, che è di esclusiva competenza statale, l’attuale assetto costituzionale rende finalmente possibili forme di tassazione propria decentrata che si dimostrano particolarmente adeguate quando si tratta di agire su eventi dannosi che si producono sul territorio circoscritto delle Regioni, purché ovviamente sia osservato il divieto di doppia imposizione rispetto ai tributi erariali, in termini di presupposto, e siano rispettati i principi fondamentali in tema di coordinamento fissati dallo Stato in materia. Proprio questo stretto legame tra territorio e fonte di inquinamento rende particolarmente funzionale un modello di imposizione regionale per la tutela contro l’inquinamento acustico di origine aeroportuale dove le fonti inquinanti, vale a dire le emissioni acustiche, non sono diffuse, ma si diffondono soltanto in prossimità degli aeroporti, il cui effetto di disturbo è quindi limitato ad una parte del territorio regionale. Al contrario, risulta più idoneo un esclusivo intervento statale qualora l’imposizione ambientale si riferisca a fenomeni inquinanti globali, dagli effetti non circoscrivibili nello spazio, come potrebbe essere il caso del surriscaldamento termico oppure dell’inquinamento dell’aria o delle acque (131). 11. Il difficile debutto dell’IRESA e le problematiche di ordine concorrenziale. – A seguito dell’introduzione dell’IRESA da parte del legislatore statale, le Regioni hanno provveduto ad istituire negli ordinamenti tributari regionali il tributo con proprie leggi (132) ma, a causa della mancata emanazione dei
(131) In tal senso F. Gallo, Profili critici della tassazione ambientale, cit., 307. (132) Si veda art. 64 l. reg. n. 10/2003 Regione Lombardia; art. 12 l. reg. n. 2/2007 Regione Marche; art. 45 l. reg., n. 4/2006 Regione Lazio; art. 36 l. reg., n. 1/2004 Regione Puglia; art. 11 l. reg., n. 58/2006 Regione Toscana; art. 2 l. reg., n. 13/2003 Regione Liguria che sospende l’IRESA. Secondo la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per
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decreti ministeriali attuativi che ne stabilissero le modalità applicative, esso per i primi dodici anni non è stato operativo (133). Proprio la mancata attuazione dell’imposta è stata oggetto nel luglio 2012 di un’indagine conoscitiva promossa dalla Corte dei Conti (134), al fine di conoscere le ragioni, di ordine sostanziale o procedimentale, che avessero impedito l’adozione dei provvedimenti di attuazione dell’IRESA. In seguito a tale indagine la Corte ha sottolineato come le Regioni, sia a statuto ordinario, sia a statuto speciale, non avessero ben compreso che in realtà, in seguito alle intervenute modifiche costituzionali sul riparto delle competenze normative in materia tributaria, non fosse più necessario il decreto per dare attuazione al tributo, evidenziando al riguardo anche la poca sensibilità dimostrata in relazione all’aspetto sostanziale della vicenda, rappresentato dalla composizione dell’assetto dei diversi interessi cui l’attuazione delle disposizioni relative all’IRESA tende, ovvero il diritto alla salute e la tutela dell’ambiente (135).
le riforme istituzionali (L’attuazione del federalismo fiscale, note informative, 80): ”Negli anni 2002-2004, a titolo di questa imposta, sono stati iscritti somme nei bilanci di soli 5 Regioni – Lombardia, Toscana, Marche, Umbria, Lazio – e accertati nell’anno 2004 complessivi 29 mila euro”. (133) L’art. 90, quarto comma, della citata l. 342 del 2000, richiedeva uno o più decreti dell’allora Ministro delle finanze, di concerto con il Ministro dei trasporti e della navigazione e il Ministro dell’ambiente, per stabilire le modalità applicative dell’imposta, necessarie per poter pervenire a linee normative comuni, in modo che l’imposta potesse essere applicata in modo uniforme nel territorio nazionale. (134) Si veda la deliberazione 7/2012/G del 9 luglio 2012 della sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato della Corte di Conti (in Riv. Corte dei Conti, 2013, 38), con cui è stata deliberata l’indagine racchiusa avente ad oggetto la “Mancata deliberazione delle modalità applicative dell’imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili”. (135) Nella relazione in questione la Corte dei Conti riporta testualmente la posizione presa al riguardo dal Governo in seguito all’interrogazione parlamentare n. 4-08703, resa nella seduta della Camera del 24 marzo 2011, secondo cui “il Ministero dell’economia e delle finanze ritiene pleonastica l’emanazione del decreto ministeriale di cui al predetto articolo 90, comma 4, della citata legge 342 del 1990, alla luce di quanto previsto dal nuovo Titolo V della Costituzione. Infatti, l’articolo 117 della Costituzione, comma 2, lettera e), prevede la competenza esclusiva statale in materia di sistema tributario e contabile dello Stato; il successivo comma 3 dello stesso articolo 117 dispone che sono materie di legislazione concorrente, tra le altre, l’armonizzazione dei bilanci pubblici e il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Inoltre, il comma 6 dell’articolo 117 attribuisce alle regioni la potestà regolamentare nelle materie di legislazione concorrente. Infine, l’articolo 119 della Costituzione afferma che le regioni hanno risorse autonome, stabiliscono e applicano tributi ed entrate proprie in armonia con la Costituzione e secondo principi di coordinamento della
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Le Regioni, tuttavia, in assenza del regolamento ministeriale cui la legge statale rinviava, non hanno istituito l’imposta, incontrando difficoltà soprattutto in relazione agli aspetti gestionali legati alla sua riscossione. Alcune Regioni, infatti, avevano lamentato le complessità pratiche che avrebbero incontrato, in assenza delle norme attuative, nella riscossione dell’IRESA a causa delle diversità degli aeromobili – soprattutto tra quelli privati, di piccole dimensioni, e quelli di linea, detenuti dalle società commerciali – che avrebbero richiesto differenti modalità di pagamento, rendendo antieconomica e complessa la gestione del tributo. Oltretutto, la riscossione dell’imposta regionale avrebbe richiesto necessariamente il coinvolgimento delle società di gestione degli aeroporti con le quali si sarebbero dovute stipulare apposite convenzioni, che, tuttavia, sarebbero risultate troppo onerose rispetto al gettito atteso dal tributo. La stessa Corte dei Conti ha, altresì, evidenziato l’opportunità di favorire uniformità dell’applicazione del tributo nel territorio nazionale, al fine di evitare discriminazioni tra le diverse Regioni e, a tale scopo, ha suggerito che venissero individuati, in sede di Conferenza unificata, le prescrizioni a carattere generale da recepire nelle diverse legislazioni regionali. Accogliendo tale suggerimento, il 6 dicembre 2012 si è svolta la Conferenza Unificata delle Regioni e delle Province autonome (136), in seno alla quale è stato approvato uno schema-tipo di proposta di legge regionale, con indicazione di alcuni elementi dell’imposta, quali l’oggetto, i soggetti passivi, le modalità di determinazione, di accertamento e di riscossione. Tuttavia nel frattempo, in attuazione della citata legge delega n. 42 del 2009, era stato emanato l’art. 8 del d.lgs. 6 maggio 2011, n. 68, in tema di federalismo fiscale regionale che, come detto, ha trasformato, a decorrere dal 1° gennaio 2013, una serie di tributi istituiti con legge statale in “tributi propri regionali”, tra i quali l’imposta in questione, lasciando alle Regioni anche la facoltà di sopprimerli. Alla luce di tale intervento normativo, alcune Regioni
finanza pubblica e del sistema tributario. Dall’analisi delle norme summenzionate, così come interpretate da costante giurisprudenza della Corte costituzionale, si evince che la disciplina sostanziale dei tributi definiti come regionali dalle singole leggi istitutive è riservata alla competenza statale mentre la loro attuazione può essere lasciata alle regioni nel pieno rispetto dei vincoli primari posti dal legislatore che, nel caso in esame, sono esplicitati dalla stessa legge n. 342 del 2000, articolo 90 e seguenti”. (136) Doc. 12/175/CR5a/C2.
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hanno provveduto ad (re)istituire e disciplinare l’IRESA (137), alcune ad istituirla ma sospendendone l’applicazione (138) altre, ancora, hanno preferito non applicarla, abrogando le precedenti leggi regionali (139), e questo ha favorito un’applicazione disomogenea e limitata del tributo solamente ad alcuni aeroporti (140). Inoltre, si è riscontrata un’effettiva applicazione dell’imposta solo nella Regione Lazio, che aveva originariamente fissato un’aliquota molto più alta rispetto a quella delle altre Regioni, ancorché rapportata ai parametri indicati dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome di cui si è detto in
(137) L’IRESA è stata istituita solamente dalle seguenti Regioni: Lombardia, con l. reg 17 dicembre 2012, n. 18 (in seguito tuttavia è stata sospesa con l. reg. 31 luglio 2013, n. 5, disponendo il rimborso delle somme versate); Calabria, con l. reg. 23 dicembre 2011, n. 47; Emilia Romagna, con l. reg. 21 dicembre 2012, n. 15; Campania, con l. reg 6 maggio 2013, n. 5; Lazio, con l. reg. 29 aprile 2013, n. 2; Marche, con l. reg. 27 dicembre 2012, n. 45. Riguardo alla istituzione da parte della Regione Calabria, il Presidente del Consiglio dei Ministri aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 della l. reg. Calabria n. 47 del 2011, con cui si prevedeva, nella sua versione originaria, l’istituzione dell’IRESA a decorrere dal sessantesimo giorno successivo all’entrata in vigore della medesima legge. Secondo la difesa statale tale articolo, nel prevedere la decorrenza dell’imposta dal 28 febbraio 2012, si sarebbe posto in contrasto con l’art. 8 del d.l.gs n. 68 del 2011, che attribuisce alle Regioni la potestà di istituire l’IRESA a decorrere dal 1° gennaio 2013, e quindi avrebbe violato l’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost. (che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la materia del sistema tributario) e dell’art. 119, secondo comma, Cost. (che subordina alle Regioni di stabilire ed applicare i tributi propri nel rispetto dei principi di coordinamento e del sistema tributario). Tuttavia, la Corte costituzionale, con la sentenza n.18 del 14 febbraio 2013 (in Foro it., 2013, 6, 1, 1779), ha dichiarato cessata la materia del contendere in ordine a tale questione considerando che l’art. 17 della l. reg. n. 47 del 2011, nella sua versione originaria, era rimasto in vigore dal 28 febbraio al 31 dicembre 2012 e che in questo lasso di tempo non aveva avuto applicazione, poiché la giunta regionale non aveva disposto in merito alle modalità di accertamento, di liquidazione, di riscossione e di rimborso dell’imposta, nonché all’applicazione delle sanzioni. (138) La Regione Lombardia ha sospeso l’applicazione del tributo con l’art. 6 l. reg., 31 luglio 2013, n. 5; analogamente la Regione Veneto ha sospeso l’applicazione dell’IRESA con l’art. 5 l. reg. 5 aprile 2013, n. 3. (139) Il tributo è stato soppresso dalle Regioni Umbria (l. reg. 20 dicembre 2012, n. 26), Puglia (l. reg. 28 dicembre 2012, n. 45) e Toscana (l. reg. 24 dicembre 2013, n. 77). (140) Significativi al riguardo, sono i dati forniti dalla Associazione dei gestori aeroportuali (Assoaereo), che ha quantificato la misura del tributo richiesto per un atterraggio/ decollo, per aeromobili di analoghe caratteristiche (a lungo raggio), in 69 euro negli aeroporti della Lombardia e di 1.257 euro in quelli del Lazio. Analoghe considerazioni sono state svolte dall’ENAC, Ente Nazionale per l’Aviazione Civile, che ha rilevato un’imposta laziale mediamente maggiore di 10 volte rispetto a quella applicata dalla Regione Lombardia.
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precedenza (141), destinando soltanto il 10 per cento del relativo gettito al disinquinamento acustico ambientale. Rilevata tale difformità fra le normative regionali, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, con una segnalazione del 2013 (142), aveva richiamato l’attenzione sui rischi di un’applicazione disomogenea e limitata ad alcuni aeroporti nazionali, che avrebbe alterato le condizioni di redditività dei vettori che fanno scalo in alcuni aeroporti rispetto ad altri, con potenziali effetti distorsivi della concorrenza. In proposito l’Autorità aveva rilevato che “Tale difformità, tuttavia, non trova giustificazione in ragioni di carattere tecnico e/o geografico e risulta in grado di alterare le condizioni di redditività dei vettori che fanno scalo in alcuni aeroporti rispetto ad altri, con conseguenze distorsive sotto il profilo concorrenziale” e che “Il quadro normativo attualmente vigente non solo è difforme da Regione a Regione, particolarmente in termini di incidenza del tributo, ma soprattutto non risulta ispirato a criteri di efficienza e non rispecchia la natura di imposta di scopo dell’IRESA, così come disciplinata dalla legge 21 novembre 2000, n. 342 (artt. 90-95), essendo talvolta (come nel Lazio) destinata solo per il 10% alla gestione dei costi sociali delle emissioni sonore provenienti dagli aerei”. In effetti, i primi a subire le conseguenze distorsive, in termini di concorrenza, di una eccessiva diversificazione nella quantificazione del tributo sono le compagnie aeree, soprattutto quelle che svolgono la propria attività negli aeroporti con maggiori flussi di spostamenti (ad esempio, Fiumicino o
(141) L’art. 5, quinto comma, della legge della Regione Lazio 29 aprile 2013, n. 2, specifica che la misura dell’IRESA è determinata in riferimento: a) al peso massimo dell’aeromobile al decollo; b) al livello di emissioni sonore dell’aeromobile accertato, secondo gli standard di certificazione internazionali ICAO (International civil aviation organization), dal paese i cui risulta immatricolato l’aeromobile, avendo come riferimento la metodologia di calcolo riportata nell’annesso 16 alla Convenzione sull’aviazione civile internazionale dell’ICAO (capitoli II, III, e IV). Il successivo sesto comma individua, poi, la misura dell’IRESA, distinguendo gli aeromobili in tre macro-classi, all’interno delle quali è prevista un’aliquota che, originariamente, variava da un minimo di 1,60 euro per tonnellata o frazione (aeromobili di classe C sotto le 25 tonnellate) ad un massimo di euro 2,5 per tonnellata o frazione (aeromobili sprovvisti di certificazione acustica o non rispondenti ai parametri fissati dall’annesso alla convenzione ICAO). In seguito al limite massimo dell’aliquota consentito dall’art. 13, comma 15 bis, d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, (pari a 0,50 euro a tonnellata), queste aliquote sono state ridotte dall’art. 2 delle l. reg. n. 11 del 29 luglio 2015 da un minimo di 0,42 euro ad un massimo di 0,50 euro. (142) Cfr. la segnalazione del 27 agosto 2013 (adottata ai sensi dell’art. 21 della l. n. 287 del 1990).
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Malpensa), dove l’incidenza del tributo è maggiore, le quali non hanno la possibilità si spostarsi agevolmente su altri scali vicini al fine di diminuire i costi e, conseguentemente, i prezzi dei servizi offerti. Per contro, anche i consumatori subiscono le conseguenze di un tributo troppo elevato, che viene ad essi “traslato” a valle dalle compagnie aeree nel prezzo del biglietto aereo e sono indotti a scegliere uno scalo limitrofo dove è assente la tassazione o, in alternativa, a preferire il trasporto ferroviario ad alta velocità, talvolta sostituibile al primo, a parità in termini di tempo e di tratta. Conseguentemente, anche le società di gestione degli aeroporti risentono delle diversità di applicazione territoriale dell’imposta, poiché la riduzione del numero dei consumatori e delle compagnie aeree che decidono di frequentare lo scalo comprometterà le loro fonti di guadagno. Al fine di poter superare le problematiche concorrenziali evidenziate, l’Autorità aveva auspicato la previsione da parte dello Stato di criteri uniformi per il calcolo dell’imposta, il cui gettito andrebbe devoluto alle Regioni di pertinenza, per essere poi destinato, ai sensi dell’art. 1 della L. n. 342 del 2000, “prioritariamente” al sostegno del costo degli interventi necessari per contenere il rumore e compensare la popolazione residente, come avviene, si è visto, in altri Stati membri dell’Unione Europea, nei quali il tributo in questione è determinato applicando aliquote differenziate in base ad una serie di parametri (distinzione tra voli diurni e notturni, efficienza sonora degli aeromobili, tonnellaggio degli stessi, peculiarità urbanistiche delle aree geografiche prospicienti i singoli aeroporti). Proprio per l’avvertita esigenza di un intervento normativo di livello statale che uniformasse l’applicazione dell’IRESA, il legislatore è intervenuto a calmierare i tetti massimi dell’aliquota inserendo, con la legge di conversione n. 9 del 21 febbraio 2014, il comma 15 bis nell’art. 13 del d.l. 23 dicembre 2013, n. 145 (“Disposizioni urgenti per Expo 2015, per i lavori pubblici ed in materia di trasporto aereo), il quale dispone che: “Al fine di evitare effetti distorsivi della concorrenza tra gli scali aeroportuali e di promuovere l’attrattività del sistema aeroportuale italiano, anche con riferimento agli eventi legati all’EXPO 2015, nella definizione della misura dell’imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili civili (IRESA), di cui agli articoli 90 e seguenti della legge 21 novembre 2000, n. 342, il valore massimo dei parametri delle misure IRESA non può essere superiore a euro 0,50. Fermo restando il valore massimo sopra indicato, la determinazione del tributo è rimodulata tenendo conto anche degli ulteriori criteri della distinzione tra voli diurni e notturni e delle peculiarità urbanistiche delle aree geografiche prospicienti i singoli aeroporti”.
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Tale disposizione è stata impugnata dalla Regione Lazio nella parte in cui ha stabilito il valore massimo dell’aliquota dell’IRESA, ritenendola lesiva della propria autonomia finanziaria ex art. 119, secondo comma, Cost., stante la sua pacifica natura di tributo proprio, espressamente affermata a livello legislativo (art. 8 d.lgs. n. 68 del 2011). Secondo la Regione, l’intervento normativo in questione, individuando la misura massima cui ancorare i parametri di definizione dell’imposta, sarebbe andato ad incidere direttamente sull’autonomia finanziaria attribuita alle Regioni dal citato art. 119, che attribuisce a tali enti risorse autonome ed il potere di stabilire e applicare tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. La disposizione in argomento, dunque, dettando una statuizione di dettaglio, sarebbe stata illegittima in quanto incidente su una materia attribuita alla competenza legislativa regionale concorrente, costituita dal coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. La Corte costituzionale, tuttavia, con la sentenza n. 13 del 13 febbraio 2015 (143), ha respinto il ricorso della Regione, ascrivendo l’intervento statale sia alla materia concorrente del coordinamento tributario, escludendone la natura di norma di dettaglio, sia alla materia esclusiva statale della tutela della concorrenza e dell’ambiente (art. 117, secondo comma, lett. e) ed s). Questa sentenza, a nostro avviso, ha colto pienamente la ratio dell’intervento statale, fornendone la corretta interpretazione alla luce norme costituzionali richiamate. In effetti, sia il tenore letterale della disposizione impugnata (art. 13, comma 15 bis, d.l. n. 145 del 2013), sia la sua collocazione sistematica, inducono a ritenere che la stessa debba essere ascritta sia alla materia della “tutela della concorrenza” (art. 117, secondo comma, lett. e), Cost.), sia alla materia della “tutela dell’ambiente” (art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.), entrambe attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. Riguardo alla tutela della concorrenza, la ratio della norma è, infatti, proprio quella di garantire uniformità nell’applicazione dell’IRESA ed “evitare effetti distorsivi della concorrenza tra gli scali aeroportuali e di promuovere l’attrattività del sistema aeroportuale italiano”, ed è per tali ragioni che il legislatore ha determinato un limite massimo dell’imposta ed una modulazione che deve tenere conto della distinzione tra voli diurni e notturni e delle peculiarità urbanistiche delle aree geografiche prospicienti i singoli aeroporti.
(143) In Giur. cost., 2015, 111 ss.
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Riguardo al lamentato livello di dettaglio che caratterizzerebbe la norma contestata, si può osservare che la disposizione in questione non stabilisce (144), in realtà, un’aliquota unica, ma un’aliquota massima modulabile da tutte le Regioni, sulla base dei criteri indicati dal legislatore; perciò, come correttamente osservato dalla Consulta, non si tratta di una normativa di dettaglio, quanto piuttosto di una norma di coordinamento, resa necessaria dalle finalità concorrenziali espressamente enunciate dalla medesima. Peraltro, la stessa Corte costituzionale ha più volte affermato che l’art. 117, secondo comma, lett. e). Cost., attribuendo allo Stato in via esclusiva il compito di tutelare la concorrenza (145), consente allo stesso, nell’ambito di tale competenza, di porre in essere una disciplina dettagliata (146) e che tale normativa assume carattere prevalente (147). Il citato art. 13, comma 15 bis, inoltre, si ascrive anche alla materia della “tutela dell’ambiente” di cui alla lettera s) dell’art. 117, comma 1, Cost., essendo riferito ad un tributo di natura ambientale, del quale fissa l’aliquota massima, mirando ad evitare l’esodo delle compagnie aeree dagli aeroporti in cui viene applicata un’aliquota più elevata e la conseguente riduzione del gettito destinato al finanziamento dei lavori di disinquinamento acustico. Si è visto, del resto, come anche la Corte dei Conti abbia sostenuto la natura di tributo ambientale dell’IRESA, in considerazione della collocazione delle disposizioni attuative dell’IRESA nell’ambito di una disciplina volta alla tutela del diritto alla salute e della tutela dell’ambiente. Infine, riguardo alle censure riferite dalla Regione Lazio della violazione della autonomia finanziaria regionale riconosciuta dall’art. 119 Cost., occorre considerare che la riforma costituzionale del 2001, seppure finalizzata a riconoscere l’autonomia finanziaria degli enti territoriali, non può mai essere intesa nel senso di impedire allo Stato di svolgere pratiche che, coinvolgendo
(144) Una volta ascritto il nucleo essenziale della disciplina oggetto della norma a materie di competenze statali, ciò sarebbe già stato sufficiente a ritenere infondata la censura dell’illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 119, secondo comma, Cost. (in tal senso C. Cost. 14 dicembre 2007, n. 430, in Giur. it., 2008, 6, 1509 e C. Cost. 23 novembre 2007, n. 401, in Giur. it., 2008, 8-9, 1893). In realtà la Corte costituzionale, con la sentenza n. 13 del 2015, è andata oltre, valutando la norma come non di dettaglio, ma di coordinamento. (145) Cfr. ex multis C. Cost. 20 marzo 2013, n. 46, in Giur. it., 2009, 2659. (146) Cfr. C. Cost., 8 maggio 2009, n. 148, in Foro it., 2009, 3, 789; C. Cost., 17 dicembre 2008, n. 411, in Corr. giur., 2009, 640 e C. Cost., 30 luglio 2008, n. 320, in Giorn. dir. amm., 2008, 1129. (147) C. Cost. 17 novembre 2011, n. 325, in Giorn. dir. amm., 2011, 5, 484.
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aspetti finanziari, perseguano anche obiettivi che vadano oltre la mera dimensione economica (148). Il gettito dell’IRESA è destinato in via prioritaria ai sistemi di monitoraggio e disinquinamento acustico e all’indennizzo delle popolazioni residenti nelle zone interessate dall’inquinamento, il che giustifica pienamente un intervento statale sulla misura dell’aliquota. 12. L’istituzione dell’IRESA ad opera delle singole leggi regionali. – L’introduzione dell’IRESA da parte delle singole Regioni va certamente accolta con favore in quanto costituisce una delle prime espressioni di autonomia tributaria regionale in materia ambientale. La finalità di risanamento dell’inquinamento acustico può agevolmente essere conseguita da un tributo regionale piuttosto che da un tributo statale, poiché consente di creare un più stretto collegamento tra territorio, prelievo fiscale e funzione ambientale. Del resto, le Regioni sono anche gli organi istituzionali a cui è sempre stata affidata una generale funzione di indirizzo nella gestione del territorio sotto il profilo della tutela dell’ambiente, con particolare riferimento proprio all’inquinamento acustico aeroportuale, essendo a tali enti attribuiti dalla normativa speciale poteri in ordine alle scelta delle modalità per la presentazione della documentazione di impatto acustico, alla trasmissione ai Ministri dell’ambiente e dei trasporti delle relazioni periodiche sul monitoraggio del rumore aeroportuale, nonché funzioni di vigilanza rispetto agli obiettivi di risanamento acustico stimati dai gestori delle infrastrutture (149). Tuttavia, come si è visto, la “regionalizzazione” dell’IRESA disposta dal legislatore è stata anche la causa della sua disomogenea applicazione nel territorio nazionale, essendo stata conferita alle Regioni la totale libertà di scelta nella istituzione dell’imposta, che di fatto ha finito per trovare applicazione solamente nei territori in cui ciò fosse risultato economicamente più conveniente in termini di gettito o, comunque, in quei aeroporti in cui vi fosse un certo grado di certezza che la sua applicazione non avrebbe influenzato gli utenti nel senso di una modifica della scelta degli scali. Pertanto, divenendo un tributo proprio, le Regioni hanno potuto stabilirne gli elementi essenziali della fattispecie impositiva, vale a dire il presupposto, i soggetti passivi e le regole di determinazione quantitativa della prestazio-
(148) Cfr. C. Cost. 30 dicembre 2003, n. 378, in Foro it., 2005, 1, 288. (149) Questa, in estrema sintesi, la disciplina contenuta nella normativa di settore, richiamata al paragrafo 7, cui si rinvia.
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ne patrimoniale. Nel dare attuazione all’IRESA, ciascuna Regione si è coordinata con le proposte normative in itinere delle altre Regioni sulla base dello schema-tipo di legge elaborato in sede di Conferenza delle Regioni e delle Province autonome svoltasi nel dicembre 2012, affinché le prescrizioni di carattere generale risultassero omogenee e non conducessero a sostanziali discriminazioni. Questo processo non ha interessato le Regioni a statuto speciale, alla quali non si applica l’art. 8 del d. lgs. n. 68 del 2011 per espressa previsione contenuta nella legge delega n. 42 del 2009, il cui art. 1, secondo comma, stabilisce che “Alle regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano si applicano, in conformità con gli statuti, esclusivamente le disposizioni di cui agli artt. 15, 22 e 27” che concernono, rispettivamente il finanziamento delle Città metropolitane, la perequazione infrastrutturale e, infine, il coordinamento della finanza a statuto speciale e delle Province autonome. Precisamente, per gli enti regionali e provinciali dotati di autonomia speciale, il coordinamento fra le leggi statali in materia di finanza pubblica e le corrispondenti leggi regionali e provinciali in materia, rispettivamente, di finanza regionale e provinciale, nonché di finanza locale nei casi in cui questa rientri nella competenza della Regione a statuto speciale o provincia autonoma, è previsto che avvenga secondo criteri e modalità stabiliti dalle norme di attuazione dei rispettivi statuti, da definire con le procedure previste dagli statuti medesimi (150). Siffatta riserva è stata confermata dalla Corte costituzionale la quale, in sede interpretativa, ha inteso richiamare il procedimento legislativo per l’attuazione dei rispettivi statuti speciali come unico legittimato per l’attuazione dei principi introdotti dalla legge delega sul federalismo fiscale (151). Alla luce di tali disposizioni normative, tutte le Regioni a statuto speciale hanno deciso di non voler emanare norme di attuazione statutaria per l’isti-
(150) Ciò, probabilmente, consegue alla posizione assunta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 102 del 2008, cit., di non ritenere del tutto precluso alle Regioni speciali di istituire e disciplinare tributi aventi lo stesso presupposto di altri erariali in ragione, ex art. 10 della legge Cost. n. 3 del 2001, della non applicazione degli artt. 117 e 119 Cost. laddove i singoli Statuti contengano maggiori spazi di intervento autonomistico. In tal senso V. Ficari, Conclusioni: il cammino dei tributi propri verso i decreti legislativi delegati, in Riv. dir. trib., 2010, 93. Per ulteriori approfondimenti circa l’effetto che la riforma del titolo V della Costituzione ha avuto per le Regioni a Statuto speciale, v. F. Stradini, Autonomia impositiva delle Regioni a statuto speciale: il riconoscimento costituzionale e l’erosione del primato tra Corte costituzionale e diritto comunitario, in Riv. dir. trib., 2013, 1201 ss. (151) C. Cost. 10 giugno 2010, n. 201, in Foro it., 9, 1, 2297.
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tuzione l’IRESA, che quindi non trova attualmente applicazione per i voli effettuati negli aeroporti di propria competenza territoriale. Diversa è, invece, la situazione per le sei Regioni a statuto ordinario che hanno introdotto il tributo, le cui leggi regionali istitutive presentano un contenuto abbastanza uniforme, non riscontrandosi apprezzabili differenze, sia con riferimento agli elementi essenziali del tributo, che ricalcano nella sostanza l’impianto normativo della l. n. 342 del 2000, sia in relazione alla disciplina attuativa. Una maggiore differenziazione si può, invece, rilevare in ordine ai criteri di calcolo del tributo, in particolare in relazione alla determinazione della base imponibile ed alla misura delle aliquote, nonché alla destinazione del gettito. Per quanto attiene al presupposto, analizzando le singole normative regionali, si osserva come tutte le Regioni abbiano previsto, con una certa uniformità, che l’IRESA sia dovuta “sulla base” dell’emissione sonora prodotta dagli aeromobili civili, come indicata nella norma sulla certificazione acustica internazionale, “in occasione” del decollo e atterraggio dello stesso negli aeroporti del proprio territorio. In questo modo sembra trovare conferma quanto abbiamo sostenuto in precedenza in ordine all’identificazione del presupposto impositivo nel decollo e atterraggio e non nell’emissione sonora, che invece rappresenta, insieme al peso dell’aeromobile ed al numero dei voli, uno dei parametri per la determinazione della base imponibile, sui cui applicare le misure dell’aliquota. Unica eccezione è costituita dalla legge regionale n. 2 del 2013 della Regione Lazio che prevede, al secondo comma dell’art. 5, che: “Il presupposto dell’IRESA è costituito dalle emissioni sonore degli aeromobili civili”, confondendo, a nostro avviso, da un punto di vista terminologico, i due elementi della fattispecie tributaria. Le normative regionali provvedono anche ad individuare una serie di fattispecie sottratte ad imposizione, le quali concorrono a delimitare in senso negativo il presupposto dell’imposta. Al pari della normativa statale, infatti, che al secondo comma dell’art. 91 dispone in modo sintetico che: “Sono esclusi dell’imposta i voli di Stato, sanitari e di emergenza”, le leggi regionali prevedono, con un maggior livello di dettaglio, le ipotesi in cui non si applica il tributo, ma utilizzando il più appropriato termine di “esenzioni” (152).
(152) La distinzione tra esclusione ed esenzione non sempre corrisponde al linguaggio legislativo, giacché spesso si trovano nei testi normativi esclusioni che in realtà dovrebbero
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In tali enunciati normativi, infatti, vengono sottratte all’applicazione del tributo fattispecie che sarebbero imponibili in base alla definizione generale di presupposto, costituito dal volo istituzionale o di emergenza ma che, per espressa volontà del legislatore, sono esentate dal pagamento del tributo in ragione delle finalità perseguite, vale a dire la tutela della salute o lo sviluppo delle zone colpite da calamità naturali, rappresentando quindi una deroga alla disciplina generale dell’imposta (153). Esse pertanto, pur rientrando tra le agevolazioni tributarie, non possono essere qualificate come ipotesi di “esclusione”, che invece normalmente risultano da enunciati con cui il legislatore chiarisce i limiti di applicabilità del tributo, senza derogare a quanto risulta dagli enunciati generali (154). Le discipline regionali in tema di esenzioni differiscono in lieve misura (155) e la maggior parte di esse prevede l’esenzione dal tributo per: a) gli
essere definite come esenzioni, come avviene nel caso dell’IVA (F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, cit., 107). (153) Secondo la dottrina, le esenzioni sono giustificate sulla base di finalità, di regola promozionale e incentivanti, ma fondate su principi e valori suscettibili di “composizione” con il principio di capacità contributiva, dunque rilevanti a livello costituzionale (ad esempio, tutela della famiglia, dell’ambiente, promozione del risparmio, sviluppo delle zone depresse o colpite da catastrofi, ecc.) (in tal senso A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., 147). (154) Le esenzioni vengono fatte rientrare dalla dottrina tra le agevolazioni tributarie, dunque tra le norme destinate a realizzare scopi di politica fiscale attraverso l’alleggerimento degli obblighi in capo al contribuente (M. Basilavecchia, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni, in Rass. trib., 2002, 421 ss.). Sul tema delle agevolazioni tributarie v. anche F. Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992; R. Zennaro, F. Moschetti, voce Agevolazioni fiscali, in Dig. Disc. Priv., Sez. comm., vol. I, Torino, 1987, 64; S. La Rosa, Le agevolazioni tributarie, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, cit., 401; Id., voce Esenzioni ed agevolazioni tributarie, in Enc. Giur. Treccani, vol. XIII, Roma, 1989, 1; N. D’Amati, voce Agevolazioni ed esenzioni tributarie, in NN.D.I. App., Torino, 1980, 153; Id., Cenni problematici sulle agevolazioni fiscali, in Dir. prat. trib., 1994, I, 369; L. Del Federico, Agevolazioni fiscali nazionali ed aiuti di Stato tra principi costituzionali ed ordinamento comunitario, in Riv. dir. trib. int., 2006, 19; A. Pace, Le agevolazioni fiscali, Torino, 2012. Con particolare riferimento alle agevolazioni tributarie in materia ambientale, si rimanda, invece, a G. Selicato, Profili teorici e lineamenti evolutivi degli strumenti agevolativi a carattere fiscale e non fiscale, in Riv. dir. trib. int., 2004, 411; P. Pignatone, Agevolazioni su imposte ambientali ed aiuti di Stato, in AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. Ingrosso, G. Tesauro, Napoli, 2009, 747; R. Alfano, Agevolazioni fiscali in materia ambientale e vincoli dell’Unione europea, in Rass. trib., 2011, 328; F. Pepe, Le agevolazioni fiscali regionali in materia ambientale, in AA.VV., “Tourism taxation”. Sostenibilità ambientale e turismo fra fiscalità locale e competitività, a cura di V. Ficari, G. Scanu, Torino, 2013, 132 ss. (155) Le esenzioni risultano disciplinate dalle seguenti disposizioni: art. 1, comma 175, l. reg. 6 maggio 2013, n. 5 (Regione Campania); art. 24, nono comma, l. reg. 27 dicembre 2012, n.
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aeromobili di Stato e quelli ad essi equiparati; b) gli aeromobili adibiti al lavoro aereo, di cui all’art. 789 del Codice della navigazione; c) gli aeromobili di proprietà o in esercenza alle organizzazioni registrate (OR), alle scuole di addestramento (FTO) e ai centri di addestramento per le abilitazioni (TRTO); d) gli aeromobili di proprietà o in esercenza all’Aero Club d’Italia, agli Aero Club locali e all’Associazione nazionale paracadutisti d’Italia; e) gli aeromobili immatricolati a nome dei costruttori e/o in attesa di omologazione con permesso di volo; f) gli aeromobili esclusivamente destinati all’elisoccorso o all’aviosoccorso; g) gli aeromobili storici, tali intendendosi quelli che sono stati immatricolati per la prima volta in registri nazionali o esteri, civili o militari, da oltre quaranta anni; h) gli aeromobili progettati specificamente per uso agricolo ed antincendio, ed adibiti a tali attività; i) gli aeromobili con peso massimo al decollo (MTOW) non superiore a chilogrammi 4.500; j) gli aeromobili ad ala rotante (elicotteri). La Regione Lazio è l’unica a non prevedere l’esenzione per i velivoli di peso non superiore a 4.500 chilogrammi e per gli elicotteri, scelta che potrebbe trovare giustificazione nella considerazione che, pur trattandosi di aeromobili di dimensioni ridotte, sono comunque in grado di produrre un certo livello di rumore e, quindi, di provocare un effetto disturbante, che si ritiene di poter compensare mediante l’applicazione di una tariffa più bassa (156). Il soggetto passivo è identificato in tutte le leggi regionali, conformemente a quanto prevede la l. n. 342 del 2000, nell’esercente l’aeromobile, ma con l’ulteriore precisazione che esso debba essere individuato ai sensi dell’art. 874 del Codice della navigazione e che, in mancanza della dichiarazione di esercente, si presume tale il proprietario dell’aeromobile, conformemente alla clausola di salvaguardia prevista dall’art. 876 del Codice della navigazione (157). Anche su tale elemento la legge della Regione Lazio si differen-
69 (Regione Calabria); art. 6, quarto comma, l. reg. 27 dicembre 2012, n. 45 (Regione Marche); art. 15, primo comma, l. reg. 21 dicembre 2012, n. 15 (Regione Emilia Romagna); art. 5, primo comma, l. reg. 17 dicembre 2012, n. 18 (Regione Lombardia); art. 5, quarto comma, l. reg. 29 aprile 2013, n. 2 (Regione Lazio). (156) Cfr. art. 5, sesto comma, lett. a), l. reg. n. 2 del 2013 (Regione Lazio) che prevede la tariffa di 0,42 euro per ogni tonnellata per gli elicotteri. (157) L’art. 874 cod. nav. (r.d. 30 marzo 1942, n. 327), definisce esercente colui che assuma l’esercizio di un aeromobile, definizione speculare a quella di armatore che attiene alla nave. Per “esercizio” si intende quell’attività organizzata, inerente all’impiego dell’aeromobile in base alla destinazione ed esso propria, rivolta al conseguimento di un risultato economico connesso al soddisfacimento di un bisogno proprio dell’esercente. L’esercente che intende
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zia leggermente dalle altre Regioni, in quanto non prevede una definizione generale di soggetto passivo, preferendo introdurre un elenco dettagliato dei soggetti sui cui grava il tributo (158). Con riferimento ai criteri di determinazione della base imponibile, osserviamo come la potestà normativa regionale sia pressoché circoscritta dal legislatore statale all’applicazione dei meccanismi di graduazione del prelievo con effetto incentivante e disincentivante, che si traduce nella possibilità di modificare le misure dell’imposta. In particolare, è previsto che con legge regionale tali misure possano essere aumentate fino al 15 per cento, qualora il decollo e atterraggio avvenga nelle fasce orarie di maggiore traffico (art. 90 secondo comma, della l. n. 342 del 1990) e fino ad un massimo del 10 per cento, differenziando le misure dell’imposta in relazione alla densità abitativa dell’intorno aeroportuale (art. 93, secondo comma). In via generale, inoltre, è disposto che le misure dell’imposta possono essere variate con apposita legge regionale entro il 31 luglio di ogni anno (art. 93, primo comma). Riguardo a tale aspetto, l’elemento che subito si coglie dall’analisi delle singole normative regionali riguarda la difformità della misura delle aliquote, circostanza che ha favorito, unitamente al potere di sopprimere il tributo ai sensi del già citato art. 8 del d.lgs. n. 68 del 2011, l’applicazione non omogenea dell’IRESA in tutto il territorio nazionale, causando quegli effetti distorsivi in termini di concorrenza di cui si è parlato nel paragrafo precedente. Ma un secondo effetto distorsivo, non trascurabile, riguarda l’aumento del prezzo delle tariffe del trasporto aereo dovuto alla traslazione a valle del tributo da parte delle compagnie aeree, realizzato per trasferire sul consumatore
assumere l’esercizio dell’aeromobile deve farne indicazione all’ENAC (Ente Nazionale per l’Aviazione civile); in mancanza di tale indicazione, esercente si presume il proprietario, fino a prova contraria (art. 876 cod. nav.). Per approfondimenti si rinvia a A. Lefebvre D’Ovidio, G. Pescatore, L. Tullio, Manuale di diritto della navigazione, Milano, 2011, 286 ss. (158) L’art. 5, terzo comma, della l. reg. 29 aprile 2013, n. 2, della Regione Lazio prevede infatti: “L’IRESA è dovuta per ogni singolo decollo ed ogni singolo atterraggio negli aeroporti situati nel territorio regionale: a) dagli esercenti di aeromobili che svolgono servizi di trasporto pubblico, aerotaxi o altre attività di tipo commerciale in aeroporti con certificazione dell’Ente nazionale per l’aviazione civile (ENAC) o gestiti direttamente dall’ENAC, in conformità a quanto previsto dal “Regolamento per la costruzione e l’esercizio degli aeroporti” emanato dall’ENAC il 21 ottobre 2003 e successive modifiche; b) dagli esercenti di aeromobili ad ala fissa ad uso privato il cui peso massimo al decollo sia pari o superiore a 4,5 tonnellate; c) dagli esercenti di aeromobili ad ala rotante ad uso privato il cui peso massimo al decollo sia pari o superiore a 2,5 tonnellate”.
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l’eccessivo peso del prelievo, che non solo è di ostacolo alla domanda potenziale del servizio, ma rischia anche di neutralizzare la funzione disincentivante che sta alla base dell’origine economica stessa dell’imposta. La tassa sul rumore, come si è visto, è stata concepita come un meccanismo di internalizzazione dei costi dell’inquinamento acustico, che devono ricadere sul soggetto inquinatore, secondo il principio “chi inquina paga”, in modo da disincentivarlo a svolgere l’attività inquinante o, comunque, a migliorare le prestazioni ambientali. Addossando sugli utenti del servizio aereo l’onere tributario, viene invece meno la ratio cui è ispirata l’IRESA, che è quella di imporre alle compagnie aeree, che tramite l’attività da esse svolta causano l’inquinamento acustico, il relativo costo di rimozione, garantendo ai soggetti danneggiati dall’inquinamento un ristoro per il mancato godimento della salubrità dell’ambiente. Quanto alla determinazione della base imponibile, tutte le Regioni hanno differenziato le aliquote in base al peso del velivolo ed al livello di emissioni acustiche accertato dall’immatricolazione e previste dall’Annesso 16 dell’ICAO, ricalcando quindi essenzialmente la struttura prevista dalla legge istitutiva n. 342 del 1990. Le uniche differenziazioni riguardano il valore delle singole aliquote e la diversa individuazione delle classi, che alcune Regioni hanno aggiornato per tenere conto dell’introduzione nel mercato degli aerei di più recente generazione, meno rumorosi (Capitoli 4 e 5, Annesso 16 dell’ICAO) (159), in corrispondenza dei quali sono state previste aliquote più basse o, comunque, riduzioni di quelle ordinarie (160). I parametri dell’IRESA sono stati successivamente rideterminati, ove necessario, dalle singole Regioni per conformarsi alle disposizioni introdotte dal già citato art. 13, comma 15 bis, del d.l. n. 145 del 2013 che, come si è visto, per orientare in maniera uniforme i legislatori regionali nell’esercizio della potestà legislativa, ha fissato il valore massimo
(159) Il Capitolo 4 è stato previsto da tutte le Regioni, mentre la Regione Campania ha previsto anche il Capitolo 5 (vedi tabella C allegata all’art. 5 l. reg. 6 maggio 2013, n. 5). (160) L’art. 16, secondo e terzo comma, della l. reg. 21 dicembre 2012, n. 285, della Regione Emilia Romagna ha previsto una riduzione dell’aliquota del 25 per cento e del 50 per cento, rispettivamente, per gli aeromobili che rientrano nei Capitoli 3 e 4 dell’ICAO. L’art. 66, primo comma, della l. reg. della regione Lombardia 14 luglio 2003, n. 10, prevede una riduzione del 50 per cento per gli aeromobili con migliori prestazioni acustiche (si ricorda tuttavia che l’applicazione dell’IRESA da parte di questa Regione è stata sospesa dal 1° gennaio 2013 con l’art. 6 l. reg. 31 luglio 2013, n. 5).
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del parametro in euro 0,50 per ogni tonnellata o frazione di peso massimo al decollo del velivolo (161). Nessuna delle Regioni, invece, ha diversificato le aliquote distinguendo tra periodo diurno e periodo notturno (che corrisponde alla fascia oraria che va dalle 23,00 alle 6,00, secondo quanto previsto dal decreto del Ministero dell’ambiente 31 ottobre 1997), quando l’effetto disturbante del rumore per la popolazione residente è evidentemente maggiore. Analogamente, non si rinvengono nelle discipline regionali differenziazioni delle aliquote che tengano conto delle peculiarità geografiche di ogni intorno aeroportuale, con l’unica eccezione della Regione Campania, che ha previsto misure del tributo diverse anche in funzione dell’orario di volo e della densità abitativa registrata negli intorni aeroportuali, molto più coerentemente con il richiamato art. 13, comma 15 bis, con cui è stata disposta la rimodulazione del tributo “tenendo conto anche degli ulteriori criteri della distinzione tra voli diurni e notturni e delle peculiarità urbanistiche delle aree geografiche prospicienti i singoli aeroporti”. Per quanto attiene alla modalità attuative dell’IRESA, la l. n. 342 del 2000 disponeva che l’imposta venisse versata ad ogni Regione su base trimestrale, entro il quinto giorno successivo ad ogni semestre. Per facilitare gli adempimenti (che, in sostanza, sarebbero stati quattro ogni anno a favore della Regione, rapportati alla tipologia dell’aeromobile, ai decolli e agli atterraggi effettuati in ciascun trimestre compresi nel semestre), venne suggerito, in sede di Conferenza delle Regioni di cui si è detto, di effettuare il versamento presso le società di gestione degli aeroporti, che già curavano la riscossione dei diritti aeroportuali. Gli aeroporti pubblici, infatti, in seguito al processo di privatizzazione avviato dai primi anni novanta con la legge 24 dicembre 1993, n. 537 (162), sono oggi prevalentemente gestiti da società di capitali, a cui è
(161) La Regione Lazio ha adeguato le misure delle aliquote con l’art. 2 l. reg. 29 luglio 2015, n. 11, a decorrere dal 22 febbraio 2014; la Regione Campania ha modificato i parametri con l’art. 1, comma 155, l. reg. 7 agosto 2014, n. 16. (162) Fino agli anni novanta gli aeroporti pubblici erano gestiti direttamente dallo Stato (c.d. gestione diretta), ma a partire dalla legge 24 dicembre 1993, n 537, è stato promosso un sistema di privatizzazione, volto ad attribuire la gestione a società di capitali concessionarie appositamente costituite. Tale processo ha trovato applicazione solamente quattro anni dopo con il d.m. 12 novembre 1997, n. 251, che ha disciplinato le modalità di costituzione di tali società, per poi trovare il suo completamento con la riforma della parte aeronautica del Codice della navigazione, in particolare nel nuovo testo degli artt. 704-706, che ridefiniscono il contenuto delle concessioni di gestioni aeroportuali. Per approfondimenti v. E.I. Magrini, Gli aeroporti
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stato affidato il compito di amministrare e gestire tutte le infrastrutture aeroportuali, oltre che essere attribuiti tutti i poteri di accertamento, liquidazione e riscossione dei diritti medesimi. Relativamente a tale aspetto, le disposizioni regionali sono uniformi nella regolamentazione delle modalità di attuazione dell’imposta, prevedendo che il soggetto passivo effettui il pagamento delle somme dovute a titolo di IRESA alle società di gestione aeroportuale oppure, in mancanza, all’ente preposto alla gestione dell’aeroporto, entro il termine previsto dalla singola legge regionale (163). Tale società o ente è poi tenuta a trasmettere alla Regione, con cadenza trimestrale, i flussi dei dati necessari a quest’ultima per la verifica della corretta applicazione dell’imposta (data e numero dei decolli e atterraggi, anagrafica dei soggetti passivi, tipo di velivolo e relativo livello di emissioni sonore, come risultante dalla documentazione rilasciata dal Paese di immatricolazione dell’aeromobile). Il gestore, inoltre, è tenuto a riversare le somme incassate alle Regioni entro il mese successivo al trimestre di riferimento. Tutte le Regioni, inoltre, autorizzano la Giunta regionale a stipulare con le società o l’ente di gestione aeroportuale apposite convenzioni, ai fini dell’espletamento delle suddette attività, dove potranno essere previste le modalità di svolgimento del rapporto relative all’accertamento, liquidazione e riscossione, al riversamento delle somme riscosse in favore della Regione, alla rendicontazione e trasmissione dei dati all’ente regionale oltre che gli aspetti connessi ai rapporti economici tra Regione e gestore. Nei modelli di convenzione attualmente stipulati (164), è generalmente previsto che mensilmente la società di gestione, sulla base dei dati ad essa comunicati dal vettore relativi ai voli ed agli aeromobili, liquidi, con apposito documento, l’imposta dovuta per il mese solare precedente, il cui importo dovrà successivamente essere versato dal vettore, entro una certa scadenza, alla
e i servizi aeroportuali, in AA.VV., Il diritto del mercato del trasporto, a cura di S. Zunarelli, Padova, 2008, 347 ss. Sulla gestione aeroportuale v. A. Lefebvre D’Ovidio, G. Pescatore, L. Tullio, Manuale di diritto della navigazione, cit., 155 ss. (163) Il termine di versamento dell’IRESA è variabile da Regione a Regione: talvolta corrisponde al mese successivo al trimestre di riferimento (Regioni Calabria e Campania), talvolta al giorno successivo al decollo (Regioni Marche, Emilia Romagna e Lombardia). (164) La Regione Campania ha stipulato una convenzione in data 10 febbraio 2015 e 11 febbraio 2015 rispettivamente con Aeroporto di Salerno Costa D’Amalfi S.p.a. e con CESAC S.p.a.; la Regione Lazio ha approvato, con deliberazione della Giunta regionale n. 467 del 17 dicembre 2013, uno schema di convenzione da stipulare tra la Regione e la Società Aeroporti di Roma S.p.a.
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società mediante bonifico bancario intestato a quest’ultima. Sempre con bonifico bancario, la società di gestione dovrà poi provvedere, solitamente con cadenza bimestrale, al riversamento alla Regione delle somme riscosse a titolo d’imposta, detratto il corrispettivo previsto per lo svolgimento del servizio. Contestualmente al riversamento delle somme, il gestore provvede a trasmettere alla Regione la rendicontazione degli importi liquidati e dei versamenti eseguiti, o eventualmente non effettuati, da ciascun soggetto passivo, nonché dei dati relativi all’ammontare dei corrispettivi dovuti per lo svolgimento del servizio. La società di gestione non è responsabile dell’omesso, insufficiente o tardivo versamento dell’imposta da parte dei soggetti passivi, al cui recupero coattivo provvede la Regione. Nelle more dell’adozione della convenzione, si applica quanto stabilito dal d.p.r. 15 novembre 1982, n. 1085 (Modalità per l’accertamento, la riscossione ed il versamento dei diritti per l’uso degli aeroporti aperti al traffico civile). Tale corpo normativo, nel disciplinare l’accertamento, la liquidazione e la riscossione dei diritti aeroportuali, prevede che negli aeroporti in cui sia stato disposto l’affidamento in gestione dell’intero complesso aeroportuale ad enti o società private, che ormai rappresenta la normalità, l’accertamento, la liquidazione e la riscossione dei diritti aeroportuali sono attribuiti, in via esclusiva, a tali enti o società (art. 14). A differenza degli aeroporti gestiti dallo Stato, in relazione ai quali sono previste modalità di attuazione dei diritti aeroportuali contraddistinte da rilevanti aspetti pubblicistici, negli aeroporti affidati in gestione a società o enti concessionari, che costituiscono ormai la maggior parte, le attività in questione vengono compiute con il ricorso a strumenti per lo più privatistici (165).
(165) L’accertamento, la liquidazione e la riscossione dei diritti aeroportuali (sulla individuazione dei quali si rinvia alla nota n. 78) sono disciplinati dal d.p.r. n. 1085 del 1982, il quale distingue a seconda che gli aeroporti siano gestiti direttamente dallo Stato oppure dalla società concessionaria della gestione. Nel primo caso, sono previste modalità di attuazione contraddistinte ancora da rilevanti aspetti pubblicistici (in tal senso G. Tinelli, in I corrispettivi per l’uso degli aeroporti. Natura giuridica e disciplina fiscale, cit., 84 ss.), essendo previsto che il direttore della circoscrizione aeroportuale, al quale sono attribuite le attività di accertamento e riscossione, può delegare tali attività all’Ufficio delle Dogane competente per territorio e l’obbligo di riversare almeno ogni 15 giorni gli importi riscossi all’Erario. Nel secondo caso, le attività di accertamento, liquidazione e riscossione dei diritti aeroportuali per gli aeromobili ed i passeggeri e della tassa erariale per la movimentazione delle merci sono affidate, in via esclusiva, all’ente o società di gestione dell’aeroporto, senza possibilità di delega all’Ufficio doganale competente. Questa ormai è l’ipotesi più frequente, in seguito al processo di privatizzazione degli aeroporti avviata con la legge 34 dicembre 1993, n. 537, con la quale è
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Relativamente all’aspetto sanzionatorio, quasi tutte le Regioni hanno espressamente previsto la sanzione per il ritardato, tardivo od omesso versamento dell’imposta nella misura del 30 per cento dell’importo non versato, rinviando espressamente all’art. 13, primo comma, del d.lgs. n. 471 del 18 dicembre 1997, conformemente a quanto già aveva previsto l’art. 94 della legge n. 342 del 2000; vi è, inoltre, un generale rinvio al d.lgs. n. 472 del 1997 per quanto attiene il procedimento di irrogazione delle sanzioni. Alcune discipline regionali, inoltre, hanno anche disposto l’applicazione di sanzioni specifiche nei confronti delle società di gestione aeroportuale o dell’ente comunque proposto alla gestione, per l’inottemperanza dell’obbligo di trasmissione dei dati alla Regione nonché per l’obbligo di riversamento a quest’ultima delle somme riscosse a titolo di IRESA (166). L’aspetto che ha certamente fatto discutere più di ogni altro è stato quello connesso alla destinazione del gettito, che il legislatore statale aveva previsto fosse destinato “prioritariamente al completamento dei sistemi di monitoraggio acustico e al disinquinamento acustico e all’eventuale indennizzo delle popolazioni residenti”. Sul punto le discipline regionali non sono uniformi, poiché, mentre alcune hanno dedicato una disposizione specifica alla destinazione del gettito dell’imposta, altre non hanno previsto nulla in merito ed altre ancora hanno destinato solo una minima parte di esso a finalità di tutela ambientale. Il caso più eclatante è costituito dalla Regione Lazio che, con l’art. 5, comma 10, della l. reg. n. 2 del 2013, ha disposto che le entrate derivanti dalla riscossione dell’imposta “sono destinate in misura pari al 10 per cento al trasferimento in conto capitale e/o spesa corrente ai comuni che ricadono nelle zone A e B, come indennizzo alle popolazioni residenti dell’intorno aeropor-
stata prevista la costituzione di società di capitali per la gestione dei servizi e per la realizzazione delle infrastrutture degli aeroporti, gestiti anche in parte dello Stato. (166) Si veda, ad esempio, l’art. 67, quarto comma, l. reg. 14 luglio 2003, n. 10 della Regione Lombardia, che prevede la sanzione da mille euro a cinquemila euro per l’omessa comunicazione dei dati flussi dei dati e la sanzione nella misura dell’interesse legale maggiorato di tre punti, per l’omesso riversamento delle somme incassate alla Regione. Analogamente ha previsto la Regione Campania (art. 1, comma 171, l. reg. 6 maggio 2013, n. 5) nonché la Regione Emilia Romagna (art. 14, quarto comma, l. reg. 21 dicembre 2012, n. 15). Le Regioni, inoltre, possono introdurre, con apposita legge, ai sensi del terzo comma dell’art. 94 della l. n. 342 del 2000, l’applicazione di una sanzione amministrativa, non superiore a 1.032 euro nei confronti degli esercenti degli aeromobili, nel caso in cui questi ultimi superino le soglie massime di rumore, così come definite dal Ministro dell’ambiente.
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tuale, al fine di limitare l’inquinamento acustico ambientale, zone definite dal decreto del Ministro dell’ambiente 31 ottobre 1997 (metodologia dei misura del rumore aeroportuale), pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 15 novembre 1997, n. 267”. Destinando soltanto una piccola percentuale del gettito alle gestione dei costi sociali dell’inquinamento acustico (167), il legislatore regionale ha evidentemente disatteso le prescrizioni del legislatore statale il quale ha disposto espressamente che il gettito dell’IRESA sia destinato “prioritariamente” al sostegno del costi degli interventi necessari per contenere il rumore e compensare la popolazione residente. In tal modo è di tutta evidenza che non è stata rispettata la natura di imposta di scopo del tributo, il cui gettito, di fatto, finisce per essere destinato non ad azioni di tutela ambientale, ma a favore della fiscalità indistinta. Come ha osservato anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato nella segnalazione del 2013 “Il quadro normativo attualmente vigente non solo è difforme da regione a regione, particolarmente in termini di incidenza del tributo, ma soprattutto […] non rispecchia la natura di “imposta di scopo” dell’IRESA, così come disciplinata dalla legge 21 novembre 2000, n. 342 (artt. 90-95), essendo talvolta (come nel Lazio) destinata solo per il 10% alla gestione dei costi sociali delle emissioni sonore provenienti dagli aerei”. Le Regioni, pur potendo istituire l’IRESA, in quanto divenuta tributo proprio regionale, avrebbero dovuto rispettare la destinazione “in via prevalente” del gettito al sostenimento dei costi degli interventi necessari per il conteni-
(167) Il Consiglio Comunale di Fiumicino, nel marzo 2016, ha approvato una mozione sull’IRESA impegnando la Giunta a chiedere alla Regione Lazio che tutte le entrate derivanti da tale imposta, e non solo il 10% di esse, siano destinate al risanamento ambientale ed al completamento dei sistemi di monitoraggio. Nel mese di maggio 2016 anche il Consiglio della Città metropolitana di Roma Capitale si è mosso nella stessa direzione, approvando una mozione per sollecitare la Regione Lazio al trasferimento ai Comuni coinvolti delle risorse derivanti dall’IRESA. La citata Città metropolitana, inoltre, ha chiesto alla Regione di promuovere ogni azione utile alla realizzazione del disinquinamento acustico e della mitigazione ambientale, attraverso, ad esempio la realizzazione della rete di monitoraggio dell’inquinamento, l’avvio dei piani di risanamento acustico, gli indennizzi per i cittadini le cui abitazioni ricadono nelle zone dei coni di volo, la realizzazione da parte del gestore dell’Aeroporto delle barriere isofoniche. Inoltre, ha chiesto una revisione della l. reg. n. 2 del 2013 al fine di aumentare la quota del tributo da destinare agli enti locali interessati per uno sviluppo delle capacità aeroportuali che rispetti l’ambiente e riduca il numero dei cittadini colpiti dagli effetti nocivi del rumore prodotti dagli aerei. Nel mese di luglio 2016 è stato trasferito ai Comuni aeroportuali di Ciampino e Fiumicino un acconto del gettito dell’IRESA riscosso dalla Regione Lazio relativo all’anno 2014 per l’indennizzo delle popolazioni residenti negli introni aeroportuali, corrispondente a 130 mila euro, per il Comune di Ciampino, e 870 mila euro, per il Comune di Fiumicino.
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mento del rumore, come ha ribadito anche la Corte costituzionale con la citata sentenza n. 13 del 2015, secondo la quale “ […] l’imposta in esame, originariamente finalizzata a promuovere il disinquinamento acustico in relazione al traffico aereo, ha mantenuto uno scopo specifico, il quale tuttora comprende finalità attinenti alla tutela dell’ambiente [….]. Lo dimostra la previsione della destinazione “prioritaria” del gettito al “completamento dei sistemi di monitoraggio acustico e al disinquinamento acustico e all’eventuale indennizzo delle popolazioni residenti […] dell’intorno aeroportuale”. Peraltro, proprio sulla base di tali premesse, recentemente alcune Commissioni tributarie hanno ritenuto illegittima la richiesta di importi a titolo di IRESA, avanzata dall’ente regionale mediante la notifica di avvisi di accertamento, non essendo stato rispettato da parte della Regione lo scopo originario dell’imposta, consistente nell’adozione di provvedimenti diretti alla riduzione dell’inquinamento acustico di origine aeroportuale (168). La scelta operata dalla Regione Lazio, purtroppo, rispecchia in pieno il trend generale relativo alla destinazione del gettito derivante dai tributi ambientali in Italia negli ultimi decenni che, sebbene gradualmente aumentato a tutti i livelli di Governo (Stato, Regioni, Comuni), è solo in piccolissima parte, pari all’1 per cento, vincolato alla copertura delle spese per la tutela dell’ambiente (169). Si tratta di una quota pressoché insignificante, la quale dimostra che le entrate derivanti dai tributi ambientali confluiscono in larghissima parte nella fiscalità generale, con evidenti scarse prospettive di rimpiego per fini ambientali. Sembrano, invece, avere rispettato l’originaria natura di scopo dell’IRESA le Regioni Emilia Romagna e Campania che hanno destinato, rispettivamente, il 50 per cento ed il 51 per cento del gettito, al completamento dei sistemi di monitoraggio acustico e disinquinamento acustico e all’eventuale indennizzo delle popolazioni residenti nell’intorno aeroportuale; questa ultima Regione, in particolare, ha deciso di impiegare anche la quota residuale nelle attività connesse alla prevenzione ed al contenimento del rumore ambientale (170).
(168) Cfr. Comm. trib. prov. Roma, 16 dicembre 2016, n. 28862, cit. (169) Risultati dei dati di statistica ufficiale prodotti dall’ISTAT relativi al gettito delle imposte ambientali dal 1995 al 2014, disponibili nel sito www.istat.it, sul tema “Conti nazionali”, sottotema “Conti ambientali e altri conti satellite/Gettito delle imposte ambientali”. (170) Cfr. art. 18 l. reg. n. 15 del 2012 della Regione Emilia Romagna e art. 1, comma 176 bis, l. reg. n. 5 del 2013 della Regione Campania.
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Le Regioni Lombardia e Calabria non hanno, invece, disposto nulla in ordine alla destinazione del gettito, mentre la Regione Marche ha rimesso alla Giunta regionale il compito di stabilire la misura del gettito dell’imposta da destinare, al netto dei costi delle convenzioni da stipulare con le società aeroportuali, al completamento dei sistemi di disinquinamento acustico, monitoraggio acustico e all’eventuale indennizzo delle popolazioni residenti nelle zone A e B dell’intorno aeroportuale, ai sensi della normativa vigente. Allo stato attuale, tuttavia, non risulta essere stata ancora emanata la relativa delibera. 13. Considerazioni conclusive e possibili ipotesi di sviluppo. – Con la continua crescita del traffico aereo, che va di pari passo con l’urbanizzazione attorno agli aeroporti, l’impatto del rumore aeronautico è divenuto un problema con cui doversi ormai costantemente confrontate. Nel nostro Paese la questione è particolarmente sentita, in quanto le caratteristiche morfologiche ed orografiche, legate ad una forte urbanizzazione del territorio, sono tali per cui le infrastrutture aeroportuali sono quasi sempre localizzate nelle aeree limitrofe ai centri urbani. Nonostante i grandi progressi fatti nel campo dell’aviazione dal punto di vista tecnologico, che hanno condotto ad una notevole riduzione del fenomeno, il continuo aumento del traffico aereo ha ridotto l’efficacia delle migliorie tecniche, rendendo necessaria la ricerca di strumenti alternativi per limitare l’inquinamento acustico. In tale contesto, il legislatore tributario ha ritenuto potesse contribuire a mitigare il rumore derivante dal traffico aereo la previsione di una prestazione patrimoniale a carico degli esercenti gli aeromobili, proporzionale alla rumorosità da questi ultimi prodotta, strutturata secondo il modello di “tassa sul rumore” individuata a livello internazionale. Tale forma di imposizione, presente in quasi tutti gli scali europei, ha infatti una funzione disincentivante, in quanto è diretta a scoraggiare le compagnie aeree ad utilizzare gli aerei più rumorosi, oltre che consentire l’acquisizione dei fondi necessari per finanziare le attività idonee a controllare e minimizzare il fenomeno (indennizzi, acquisizioni, insonorizzazioni). In questa prospettiva va certamente salutata con favore l’introduzione, nel nostro ordinamento, dell’Imposta Regionale sulle Emissioni sonore degli Aeromobili (IRESA), che si inserisce nell’ambito dei tributi ambientali, quindi di quegli strumenti economici per la tutela dell’ambiente, in grado di internalizzare il costo dell’inquinamento acustico, in modo da farlo sostenere
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al soggetto che inquina, secondo il principio comunitario “chi inquina paga”. L’imposta in questione riflette, quindi, l’esigenza extrafiscale di promuovere comportamenti ecocompatibili, addossando sulle compagnie aeree che causano l’inquinamento acustico, che costituiscono il soggetto passivo della prestazione patrimoniale, i costi di eliminazione dei danni provocati all’ambiente. Nell’effettuare un’indagine circa la configurazione giuridica di questa imposta, si è osservato come nell’esperienza normativa italiana, in particolare nella legge n. 342 del 2000 e nelle singole leggi regionali istitutive, il tributo in questione può essere ricostruito in termini di tributo ambientale parzialmente di scopo, dove la funzione ambientale viene in rilievo per effetto della specifica, ancorché parziale, destinazione del gettito prevista dalla legge, che deve essere impiegato in via prioritaria ad opere di monitoraggio e disinquinamento acustico, nonché per l’indennizzo della popolazione residente. In effetti, analizzando la struttura della fattispecie tributaria, sembra di poter escludere che si tratti di un tributo ambientale in senso stretto, che in ambito comunitario è inteso tale quando ricomprende nel suo presupposto lo stesso fattore inquinante. Nell’IRESA, infatti, l’emissione sonora non costituisce il presupposto del tributo, identificabile invece nell’esercizio delle operazioni aeroportuali di decollo e di atterraggio e, nella struttura dell’imposta, assurge solo a parametro di commisurazione della base imponibile (insieme ad altri parametri, come il numero dei decolli e di atterraggi ed il peso massimo del velivolo al decollo). Sotto questo profilo, l’imposta rispetta pienamente il principio di capacità contributiva, che trova espressione in un’attività economicamente valutabile. Dopo una prima fase di arresto, durata ben dodici anni a causa della mancata adozione della disciplina attuativa, l’IRESA ha finalmente trovato applicazione, a partire dagli ultimi tre anni, in seguito alla sua trasformazione, ad opera dell’art. 8 del d.lgs. n. 68 del 2011, in tributo regionale proprio, rappresentando, sotto tale punto di vista, una delle poche opportunità offerte alle Regioni per esercitare la propria autonomia tributaria la quale, dopo la riforma del titolo V della Costituzione, è rimasta circoscritta essenzialmente alla disciplina dei tributi propri derivati, quindi dei tributi istituiti con legge dello Stato, il cui gettito è devoluto alla Regione. Ed in effetti, la tassazione legata all’inquinamento acustico di origine aeroportuale si presta particolarmente ad essere oggetto della potestà normativa regionale, trattandosi di un tipo di inquinamento i cui effetti sono circoscritti nello spazio, in prossimità degli aeroporti, quindi nei territori di competenza regionale, dove le Regioni già sono titolari di funzioni di indirizzo per le po-
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litiche di tutela ambientale. Questo stretto legame tra rumore aeroportuale e territorio rende senz’altro funzionale un modello di imposizione decentrata a livello regionale, sempre nel rispetto dei principi fondamentali in tema di coordinamento fissati dallo Stato. Ciononostante, queste potenzialità del tributo, sia come strumento per la protezione dell’ambiente, sia in termini di potenziamento della potestà normativa tributaria regionale, non sembrano essere state pienamente colte dalle Regioni, atteso che solamente sei di esse hanno deciso di introdurla negli aeroporti del proprio territorio. Le Regioni che invece hanno introdotto l’IRESA, sembrano avere rispettato il modello previsto dalla legge n. 342 del 2000. Ci si può, tuttavia, chiedere se, essendo ormai l’imposta “regionalizzata”, tali enti siano vincolati ad istituire il tributo esclusivamente con le caratteristiche di quello precedente statale (peraltro non del tutto definite) o abbiano, viceversa, il potere di articolarne ex novo le proprietà. Quest’ultima ipotesi sarebbe forse più coerente con la lettura dell’art. 23 Cost., che riserva al potere normativo primario, non soltanto statale ma anche regionale, la disciplina degli elementi essenziali della fattispecie tributaria, portando a identificare come “tributo proprio” della Regione solo quello in cui l’ente esercita un potere normativo in relazione ad essi (oltre, ovviamente, che esserne destinataria del gettito). Questa piena potestà normativa regionale, però, nel campo dell’IRESA sembra essere ostacolata dalle problematiche di ordine concorrenziale di cui si è parlato, che di fatto non rendono fattibile un’applicazione del tributo distinta all’interno del territorio nazionale. Riguardo, poi, alla struttura dell’imposta, anche in vista di una auspicabile legge statale che ne fissi i criteri uniformi di determinazione, si potrebbe pensare di strutturare l’imposta anche sulla base di ulteriori o diversi parametri rispetto a quelli attualmente utilizzati, in modo che sia più rappresentativa degli effetti negativi causati dall’inquinamento, così da aumentarne l’effetto disincentivante. Ad esempio, potrebbero essere previste aliquote differenziate tra voli diurni e notturni, in modo tale da riflettere il maggior disturbo arrecato dai movimenti aerei nelle ore notturne. Poiché, infatti, gli eventi di rumore durante la notte sono molto più disturbanti di quelli diurni, l’applicazione di aliquote maggiori per i decolli e atterraggi nel periodo notturno (che in base alla normativa italiana corrisponde al periodo compreso tra le 23,00 e le 6,00) potrebbe indurre le compagnie aeree a limitare i voli di notte, con evidenti benefici in termini di mitigazione del disturbo da rumore. Generalmente lo spostamento alle ore diurne dei voli è possibile e non comporta grandi difficoltà
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economiche e organizzative, a parte qualche eccezione, come quella dei voli intercontinentali (destinati a partire o arrivare di notte) o quella dei corrieri (i cui voli necessariamente sono notturni per la necessità di poter partire dopo la chiusura dei centri di distribuzione e arrivare a destinazione al mattino presto). Un altro parametro sui cui commisurare l’entità del prelievo potrebbe essere costituito dalla densità abitativa delle aeree geografiche prospicienti i singoli aeroporti, in modo tale da prevedere aliquote più elevate per i voli che interessano territori dove maggiore è la quantità di popolazione esposta all’inquinamento. Si tratta di un dato facilmente riscontrabile con i moderni sistemi di monitoraggio acustico, peraltro obbligatori in tutti gli aeroporti civili, che consentono di risalire non soltanto ai singoli eventi sonori nell’intorno aeroportuale, ma anche alla quantità di popolazione esposta al rumore in tali zone. Altresì, si potrebbe pensare all’introduzione di parametri di calcolo rapportati all’efficienza sonora effettiva degli aeromobili, anziché alle prestazioni acustiche intrinseche derivanti dallo schema acustico di certificazione previsto dall’ICAO. In effetti, pur essendo lo standard acustico un dato facilmente reperibile dalla certificazione acustica di cui ogni aereo è dotato per legge, esso non corrisponde all’effettiva efficienza sonora del velivolo, e se il tributo fosse calcolato in funzione delle reali emissioni foniche degli aeromobili si potrebbe avere una tassazione più fedele al livello di inquinamento acustico prodotto. In questo senso, l’efficienza sonora del velivolo potrebbe sostituire il parametro attualmente utilizzato, costituito dal peso massimo al decollo dell’aereo (MTOW), che non sempre trova corrispondenza con la realtà. In effetti, il decollo al peso massimo è un evento che non si verifica così frequentemente come si potrebbe pensare, sia per esigenze operative (come ad esempio, l’autonomia richiesta per il volo), sia per limitazioni fisiche degli aeroporti, le cui piste possono non essere sufficientemente lunghe da consentire ad un aereo di decollare al suo MTOW. E comunque, anche ipotizzando un decollo dell’aereo al suo peso massimo, è impossibile che atterri con lo stesso peso dopo ore di volo, se non altro nel frattempo avrà consumato carburante, che è uno degli elementi su cui si calcola il MTOW. Riguardo, infine, alla questione più contestata, relativa alla destinazione del gettito, occorre ricordare che, in base alla l. n. 342 del 2000, esso non è di libera disponibilità delle Regioni, essendo destinato “prioritariamente” al sostegno dei costi necessari per contenere il rumore e per compensare le popolazioni residenti. Questa specifica destinazione del gettito, invece, sino ad oggi non è stata rispettata dalle Regioni, che hanno impiegato solo una piccola parte del gettito dell’imposta alle opere di risanamento ambientale, finendo
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per rappresentare solamente una voce di bilancio delle Regioni interessate. In tal modo è stata disattesa non solamente la volontà del legislatore, ma anche le indicazioni elaborate a livello internazionale dall’ICAO che, nell’illustrare lo schema generale delle “tasse sul rumore” prodotti dagli aerei, ha raccomandato espressamente che i proventi raccolti da tali tributi siano utilizzati esclusivamente per mitigare gli impatti ambientali negativi e non utilizzati per incrementare il gettito degli enti impositori. Sotto tale profilo, dunque, affinché sia rispettata la natura di imposta di scopo dell’IRESA, rimarcata come si è visto sia dalla Corte dei Conti, sia dalla Corte costituzionale, è necessario che la gran parte delle entrate derivanti dall’applicazione dell’imposta, o il loro intero ammontare, sia impiegato per le attività funzionali alla riduzione dell’inquinamento acustico, prime fra tutte quelle di monitoraggio del rumore, ormai obbligatorio per tutti gli aeroporti aperti al traffico civile, generalmente realizzato mediante l’istallazione di centraline nei comuni limitrofi al sedime aeroportuale, in posizione strategica rispetto alle rotte di decollo e atterraggio. L’imposta in questione dovrebbe, inoltre, andare a finanziare gli interventi di insonorizzazione a terra degli ambienti di lavoro o domestici situati nei dintorni degli aeroporti, necessari per il mantenimento di condizioni di benessere dell’ambiente (ad esempio, elementi antivibranti, pareti divisorie, rivestimenti di pareti in materiale isolante, finestre con vetri a strato multiplo), oppure l’istallazione di strumenti di “protezione passiva” del rumore (ad esempio, filati alberati, barriere acustiche, rilevati a terra, muri di mattoni). Quanto all’indennizzo per la popolazione residente, si potrebbe pensare non necessariamente ad una somma di denaro, ma anche al pagamento di sovvenzioni destinate a migliorare il livello di rumore registrato (ad esempio, all’interno delle abitazioni) con accorgimenti fonoisolanti. Volendo, infine, tentare di individuare possibili spazi di applicazione dell’IRESA ancora non sperimentati, potrebbe essere presa in considerazione la possibilità di attribuzione del tributo, da parte delle Regioni che l’abbiano soppressa, a favore delle Città metropolitane (171), ipotesi espressamente concessa dal
(171) Il primo intervento istitutivo delle Città metropolitane risale alla legge 8 giugno 1990, n. 142, sulla riforma dell’ordinamento degli enti locali, ma il modello da essa previsto non è stato mai realizzato, a causa dell’oggettiva difficoltà di applicarlo in modo uniforme in realtà urbane molto disomogenee tra di loro. In seguito, il Testo Unico degli enti locali (d.lgs. n. 267 del 18 agosto 2000) ha ripreso il modello rendendolo meno rigido a maggiormente diversificato, ma anche esso non ha avuto attuazione. Con la riforma del Titolo V della Costituzione, le Città
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legislatore che, mediante l’art. 24, quinto comma, del d.lgs. n. 68 del 2011, nel disciplinare il sistema finanziario di tali enti, ha disposto che “La regione può attribuire alla città metropolitana la facoltà di istituire l’imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili solo ove l’abbia soppressa ai sensi dell’articolo 8”. In effetti le Città metropolitane, che con la riforma del Titolo V della Costituzione hanno assunto dignità costituzionale, sono state istituite con la legge 7 aprile 2014, n. 56 (c.d. legge Delrio), ereditando le funzioni che prima erano attribuite alle Province, tra cui la tutela e la valorizzazione dell’ambiente (art. 1, comma 85, l. n. 56 del 2014). A causa dei tagli delle risorse disposti da numerosi provvedimenti in materia di finanza pubblica, l’ultimo dei quali costituito dalla legge 23 dicembre 2014, n. 190 (legge di stabilità per il 2015) (172), gli enti in questione si sono trovati in una situazione di grave difficoltà finanziaria, non potendo essere più in grado di garantire, con le sole proprie entrate, lo svolgimento delle funzioni loro attribuite. Allo stato attuale, infatti, le risorse proprie di tali enti coincidono essenzialmente con l’imposta sulle assicurazioni contro la responsabilità civile sulla circolazione dei veicoli a motore (RCA), che rappresenta l’entrata principale, e l’imposta provinciale di trascrizione (IPT), tributi che, seppur coerenti con le competenze assegnate a tali enti, non sono sufficienti per finanziare le funzioni fondamentali e, soprattutto, non assumono l’obiettivo di ridurre l’inquinamento (173).
metropolitane hanno avuto riconoscimento costituzionale come componente essenziale della Repubblica, unitamente a Regioni, Province, Comuni e Stato. Recentemente, la legge 7 aprile 2014, n. 56, ha istituito, a partire dal 1° gennaio 2015, le Città metropolitane, in sostituzione delle corrispondenti Province. Per un’accurata analisi dei molteplici aspetti dell’istituzione delle Città metropolitane v. A. Tarzia, Le Città metropolitane, in AA.VV., Il nuovo governo locale, a cura di B. Di Giacomo Russo, A. Tarzia, Napoli 2015, 9 ss. e P. Pantalone, Città metropolitane e riordino degli enti di area vasta: forse è la volta buona?, in Il diritto dell’economia, 2015, 121 ss. Per un commento della legge Delrio v. F. Fabrizzi, G.M. Salerno, La riforma delle autonomie locali territoriali nella legge Delrio, Napoli, 2014. (172) L’art. 1, comma 418, stabilisce che Province e le Città metropolitane concorrono al contenimento della spesa pubblica con la riduzione della spesa corrente di 1 miliardo di euro per l’anno 2015, 2 miliardi di euro per l’anno 2016, 3 miliardi di euro a decorrere dal 2017. Per approfondimenti sugli effetti della manovra in questione ai singoli livelli di governo, v. C. Ferretti, P. Lattarulo, La legge di stabilità 2015; gli impatti sui bilanci, famiglie e imprese. Alcune stime per la Toscana, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2015, 431 ss. (173) L’art. 15 della legge delega n. 42 del 2009 ha previsto l’attribuzione alle Città metropolitane di specifici tributi per garantire autonomia di entrata e di spesa in misura corrispondente alla complessità delle funzioni. In attuazione di tale disposizione, l’art. 24, secondo comma, del d.lgs. n. 68 del 2011 ha attribuito agli enti in questione una serie di fonti di entrata (compartecipazione al gettito dell’IRPEF, compartecipazione alla tassa automobilistica
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In questo contesto di criticità finanziaria, potrebbe quindi essere presa in considerazione la possibilità di potenziare l’autonomia finanziaria delle Città metropolitane consentendo ad esse di applicare l’IRESA abrogata dalle Regioni, nel caso in cui l’aeroporto abbia sede nel territorio metropolitano dell’ente regionale, analogamente a quanto si è già sollecitato di fare tramite recenti proposte in relazione all’addizionale sui diritti di imbarco portuali e aeroportuali, attribuita anch’essa alle Città metropolitane, ai sensi del citato art. 24 (174). In tale prospettiva, le Regioni potrebbero attribuire alle Città metropolitane l’IRESA disciplinata con legge regionale nei suoi elementi essenziali (presupposto, base imponibile, soggetti e limiti dell’aliquota), attribuendo ad esse la facoltà di applicare l’imposta negli aeroporti metropolitani e di disciplinarne, tramite apposito regolamento, gli aspetti di carattere applicativo (modalità e tempi di versamento, aliquota, accertamento). Analogamente a quanto si verifica per l’imposta applicata a livello regionale, anche le Città metropolitane potrebbero quindi stipulare convenzioni con le società o enti gestori dell’aeroporto per la riscossione del prelievo. Il gettito derivante dall’IRESA potrebbe essere impiegato per lo svolgimento delle attività istituzionali che competono agli enti in questione in materia di tutela dell’ambiente contro l’inquinamento acustico di origine aeroportuale, comprensive di tutte le attività di controllo e vigilanza delle emissioni acusti-
regionale, imposta sulle assicurazioni contro la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motori, imposta provinciale di trascrizione, tributi di scopo provinciali). Il medesimo art. 24, inoltre, ha previsto che con d.m. è attribuita alle Città metropolitane la facoltà di istituire un’addizionale sui diritti di imbarco portuali ed aeroportuali (art. 24, quarto comma) e che la Regione può attribuire alla Città metropolitana la facoltà di istituire l’Imposta sulle Emissioni Sonore degli Aeromobili solo ove l’abbia soppressa, ai sensi dell’art. 8 (art. 24, quinto comma). Ad oggi, tuttavia, non risulta essere stato attribuito alcun tributo agli enti in questione. (174) In relazione alla previsione normativa della facoltà, attribuita alle Città metropolitane, di istituzione di un’addizionale sui diritti di imbarco portuali ed aeroportuali (art. 24, quarto comma, del d.lgs. n. 68 del 2011), è stata recentemente avanzata dall’ANCI (si vedano gli emendamenti proposti dall’ANCI alla Commissione Bilancio del Senato sul Disegno di Legge 2111 di stabilità 2016 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”) la proposta di destinare tale addizionale, rispettivamente dall’Autorità portuale e dai gestori dei servizi aeroportuali, direttamente alle Città metropolitane nel caso in cui l’infrastruttura abbia sede nel territorio metropolitano. Qualora invece le infrastrutture abbiano sede in altre aeree non metropolitane della stessa Regione, un’ipotesi potrebbe essere il versamento dei proventi al bilancio dello Stato per la successiva riassegnazione, secondo le quote stabilite con apposita intesa, alle Città metropolitane e ai Comuni del territorio ospitante i porti e aeroporti. Secondo le stime sui dati elaborati dall’ISTAT, l’assegnazione del gettito dell’addizionale dei diritti di imbarco, ipotizzati in due 2 euro a passeggero, potrebbe garantire alle Città metropolitane circa 154 milioni di euro.
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che negli aeroporti e di progettazione di piani di risanamento acustico, di cui esse sono titolari. Al fine di evitare l’applicazione disomogenea dell’imposta negli aeroporti metropolitani, scongiurando quanto si sta già verificando con l’applicazione del tributo da parte delle Regioni, la disciplina attuativa dovrebbe necessariamente essere uniformata in tutti gli aeroporti metropolitani.
Silvia Mencarelli
L’attuazione della delega fiscale in materia di ottemperanza* Sommario:1. Premessa. – 2. Le modifiche all’art. 70, comma 1, D. lgs. n. 546/1992. – 3. Le modifiche all’art. 70, comma 2, D. lgs. n. 546/1992. – 4. L’introduzione del comma 10-bis all’art. 70, D. lgs. n. 546/1992. – 5. L’introduzione dell’art. 67-bis, le innovazioni agli artt. 68 e 69, e l’abrogazione dell’art. 69-bis, D. lgs. n. 546/1992. – 6. Conclusioni. Lo studio è rivolto alla disciplina del giudizio di ottemperanza delle sentenze tributarie, con specifica considerazione dell’attuazione della delega fiscale. La riforma, operata dal D. lgs. n. 156/2015, con riguardo al giudizio di ottemperanza ha comportato più innovazioni, sia attraverso le modifiche ai preesistenti commi dell’art. 70, D. lgs. n. 546/1992, sia con l’introduzione di un nuovo comma (10-bis), che prevede la composizione monocratica del giudice dell’ottemperanza. Il lavoro è rivolto anche al nuovo art. 67-bis, D. lgs. n. 546/1992 (“Esecuzione provvisoria”), nonché ai successivi artt. 68 (“Pagamento del tributo in pendenza del processo”) e 69 (“Esecuzione delle sentenza di condanna in favore del contribuente”), che sono stati pure oggetto di modifica ad opera del D. lgs. n. 156/2015, con rilevanti effetti sulla normativa in esame. The analysis concerns the discipline of the compliance judgment, considering specifically the implementation by the Government of the Enabling Act. The newly drafted compliance judgment, as regulated by legislative decree No 156/2015, introduced several innovations such as modifications to the pre-existing paragraphs, Article 70, legislative decree No 546/1992, and the introduction of a new paragraph (10-bis), which provides for a new monocratic judge of compliance. The reform also addresses the new article 67-bis, legislative decree No 546/1992 (“Provisional execution”), the following articles 68 (“Fee payment during a pending process”) and 69 (“Enforcement of the conviction sentence in favor of the taxpayer”), which have also been subject to modification by legislative decree No 156/2015, with significant effects on the current legislation.
Art. 70, D. lgs. n. 546/1992, Giudizio di ottemperanza. 1. La parte che vi ha interesse può richiedere l’ottemperanza agli obblighi derivanti dalla sentenza della commissione tributaria passata in giudicato
* Questo saggio è destinato agli scritti in onore del prof. Pasquale Russo.
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mediante ricorso da depositare in doppio originale alla segreteria della commissione tributaria provinciale, qualora la sentenza passata in giudicato sia stata da essa pronunciata, e in ogni altro caso alla segreteria della commissione tributaria regionale. 2. Il ricorso è proponibile solo dopo la scadenza del termine entro il quale è prescritto dalla legge l’adempimento a carico dell’ente impositore, dell’agente della riscossione o del soggetto iscritto nell’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, degli obblighi derivanti dalla sentenza o, in mancanza di tale termine, dopo trenta giorni dalla loro messa in mora a mezzo di ufficiale giudiziario e fino a quando l’obbligo non sia estinto. 3. Il ricorso indirizzato al presidente della commissione deve contenere la sommaria esposizione dei fatti che ne giustificano la proposizione con la precisa indicazione, a pena di inammissibilità, della sentenza passata in giudicato di cui si chiede l’ottemperanza, che deve essere prodotta in copia unitamente all’originale o copia autentica dell’atto di messa in mora notificato a norma del comma precedente, se necessario. 4. Uno dei due originali del ricorso è comunicato a cura della segreteria della commissione ai soggetti di cui al comma 2 obbligati a provvedere. 5. Entro venti giorni dalla comunicazione l’ufficio (...) può trasmettere le proprie osservazioni alla commissione tributaria, allegando la documentazione dell’eventuale adempimento. 6. Il presidente della commissione tributaria, scaduto il termine di cui al comma precedente, assegna il ricorso alla sezione che ha pronunciato la sentenza. Il presidente della sezione fissa il giorno per la trattazione del ricorso in camera di consiglio non oltre novanta giorni dal deposito del ricorso e ne viene data comunicazione alle parti almeno dieci giorni liberi prima a cura della segreteria. 7. Il collegio, sentite le parti in contraddittorio ed acquisita la documentazione necessaria, adotta con sentenza i provvedimenti indispensabili per l’ottemperanza in luogo dell’ufficio (...) che li ha omessi e nelle forme amministrative per essi prescritti dalla legge, attenendosi agli obblighi risultanti espressamente dal dispositivo della sentenza e tenuto conto della relativa motivazione. Il collegio, se lo ritiene opportuno, può delegare un proprio componente o nominare un commissario al quale fissa un termine congruo per i necessari provvedimenti attuativi e determina il compenso a lui spettante secondo le disposizioni del Titolo VII del Capo IV del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115.
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8. Il collegio, eseguiti i provvedimenti di cui al comma precedente e preso atto di quelli emanati ed eseguiti dal componente delegato o dal commissario nominato, dichiara chiuso il procedimento con ordinanza. 9. Tutti i provvedimenti di cui al presente articolo sono immediatamente esecutivi. 10. Contro la sentenza di cui al comma 7 è ammesso soltanto ricorso in cassazione per inosservanza delle norme sul procedimento. 10-bis. Per il pagamento di somme dell’importo fino a ventimila euro e comunque per il pagamento delle spese di giudizio, il ricorso è deciso dalla Commissione in composizione monocratica. 1. Premessa. – La delega contenuta nell’art. 10, L. 11 marzo 2014, n. 23, detta i criteri per la riforma della giustizia tributaria, che ha trovato attuazione con il D. lgs. 24 settembre 2015, n. 156, art. 9. La disciplina innovata è in vigore dall’1 gennaio 2016, salvo quanto previsto, nell’ambito attinente alla disciplina in esame, per gli artt. 67-bis, 69 e 69-bis, D. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. L’art. 67-bis, D. lgs. n. 546/1992 (di nuova introduzione), intitolato “Esecuzione provvisoria”, stabilisce che “le sentenze emesse dalle commissioni tributarie sono esecutive secondo quanto previsto nel presente capo”; le norme seguenti, gli artt. 68, 69 e 70, sono state oggetto di modifica ad opera del citato D. lgs. n. 156/2015, con rilevanti effetti sulla normativa in esame. Trova attuazione un criterio generale di esecutività immediata, sulla base del principio di delega della “immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze delle commissioni tributarie” (1), con la possibilità, per il contribuente, di richiedere l’ottemperanza, ex art. 70, delle pronunce non definitive ad esso favorevoli, sebbene non ancora assurte a rango di giudicato (2). I profili che interessano l’istituto del giudizio di ottemperanza e, più in generale, l’esecutività delle sentenze tributarie, riguardano essenzialmente le innovazioni apportate agli artt. 68, 69, 70, D. lgs. n. 546/1992, nonché l’introduzione dell’art. 67-bis, D. lgs. n. 546/1992 e l’abrogazione dell’art. 69-bis. L’art. 68, D. lgs. n. 546/1992, Pagamento del tributo in pendenza del processo, attiene alla c.d. “riscossione frazionata”, e reca un’innovazione risolutiva di
(1) Cfr. art. 10, comma 1, lettera b), n. 10, l. n. 23/2014. (2) Cfr. M. Leo, La riforma del contenzioso tributario: cose fatte e cose da fare, in Il fisco, n. 42, 2015, 4016 ss.
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una questione ampiamente dibattuta (3). In particolare, il diritto ad un rimborso, riconosciuto spettante da una sentenza non definitiva, non era precedentemente accompagnato da mezzi che potessero garantirne la tutela; l’innovato comma 2 dell’art. 68 ha colmato la lacuna, prevedendo la possibilità di richiedere l’ottemperanza ai sensi dell’art. 70, anche prima del formarsi del giudicato. Attraverso il citato art. 68, D. lgs. n. 546/1992, dunque, si amplia l’operatività dell’istituto dell’ottemperanza, superando la carenza della previsione di strumenti per l’esecuzione della sentenza. L’art. 69, D. lgs. n. 546/1992, Esecuzione delle sentenze di condanna in favore del contribuente, innovato, prevede un’articolata disciplina; la precedente disposizione (la rubrica dell’articolo era Condanna dell’ufficio al rimborso) era “essenziale” nel contenuto e si limitava a richiamare l’esigenza del rilascio di copia spedita in forma esecutiva della sentenza di condanna, richiedendo inoltre che fosse passata in giudicato. L’art. 70, D. lgs. n. 546/1992, Giudizio di ottemperanza, è stato modificato, specialmente nei commi 1 e 2, e ad esso è stato aggiunto il comma 10-bis. Il nuovo comma 1 dell’articolo citato, reca la fondamentale innovazione che supera la dibattuta questione del rapporto tra il rimedio “processual-civilistico” dell’esecuzione forzata della sentenza, e quello dell’ottemperanza tributaria, mantenendo esclusivamente quest’ultimo mezzo. Il comma 2 dell’art. 70, modificato, risolve la questione della legittimazione passiva al giudizio di ottemperanza, attraverso la menzione esplicita dei soggetti, piuttosto che, come in precedenza, limitarsi ad un più generico richiamo agli “Uffici”. L’introduzione del comma 10-bis all’articolo citato, dà spazio all’innovazione della Commissione in composizione monocratica nei giudizi per l’ottemperanza riguardanti il pagamento di somme entro ventimila euro e il pagamento delle spese del giudizio. I commi da 3 a 10 dell’art. 70, D. lgs. n. 546/1992, sono rimasti sostanzialmente invariati, mantenendo attuali le problematiche oggetto di dibattito in dottrina e di non pacifica interpretazione giurisprudenziale. Non è questa la sede per affrontare le problematiche in questione (si pensi all’appellabilità delle sentenze
(3) Sull’art. 68, D. lgs. n. 546/1992, pre-modifica, cfr. G. G. Ficai, La riscossione frazionata in pendenza di giudizio, in V. Uckmar e F. Tundo, Codice del processo tributario, Piacenza, 2007, 1151 ss.
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pronunciate dal giudice dell’ottemperanza (4), o a quella dell’impugnabilità delle stesse o delle ordinanze di chiusura del procedimento ex art. 111 Cost. (5)), per cui in proposito ci si limita a rinviare alla dottrina che se ne è occupata (6). 2. Le modifiche all’art. 70, comma 1, D. lgs. n. 546/1992. – L’art. 70, comma 1, D. lgs. n. 546/1992, è stato innovato (7) eliminando la parte iniziale
(4) Cfr. Cass., 14 ottobre 2015, n. 20639. “Il problema specificamente posto nel ricorso” – si legge nella sentenza citata – “e cioè se sia ammissibile il rimedio dell’appello avverso sentenza resa da una commissione tributaria provinciale in sede di ottemperanza, deve essere risolto in senso negativo, quale che sia il contenuto della pronuncia stessa. Questa Corte, con la sentenza n. 7312 del 2003, ha già affermato tale principio, che il Collegio condivide ed intende quindi ribadire. In particolare, tenuto conto del fatto che la competenza delle commissioni tributarie, ai sensi del citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 70 è distribuita tra commissioni provinciali e commissioni regionali a seconda che la decisione oggetto di giudizio di ottemperanza sia, rispettivamente, di prime cure o di ultima istanza (Cass., sez. un., n. 9340 del 2002), la soluzione opposta creerebbe un sistema del tutto disarmonico ed irrazionale, perché farebbe dipendere il mezzo di impugnazione esperibile dall’esito del giudizio, rendendo ammissibile il rimedio dell’appello esclusivamente nel caso di pronuncia di inammissibilità o di rigetto del ricorso resa da una commissione provinciale. L’esegesi dell’art. 70 in esame nel senso della ammissibilità, in ogni caso, del solo rimedio del ricorso per cassazione ha il pregio, invece, di attribuire coerenza sistematica all’istituto, al di là della non felice formulazione letterale della norma (senza determinare, d’altro canto, vuoti di tutela), dovendosi configurare le decisioni in tema di ottemperanza, quale che sia il giudice che l’abbia emesse, come pronunce in unico grado. Non induce a diversa conclusione la sentenza di questa Corte (citata dal giudice a quo) n. 15655 del 2004. Con essa, infatti, non è stata affermata l’appellabilità delle sentenze di inammissibilità del giudizio di ottemperanza rese da una commissione tributaria provinciale (e del resto nella fattispecie la pronuncia era stata emessa da una commissione regionale), ma è stato ritenuto che, esulando una tale sentenza dal novero di quelle (a contenuto attuativo) di cui all’art. 70, comma 7, la stessa non soggiace ai limiti di impugnazione di cui al comma 10 ed avverso di essa è esperibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7”. (5) V. ancora Cass., n. 20639/2015, cit.; Cass., 20 settembre 2013, n. 21561; Cass., 6 luglio 2012, n. 11352; Cass., 28 febbraio 2011, n. 4796. (6) Cfr., in generale, sui temi riguardanti il giudizio di ottemperanza, precedentemente alle modifiche apportate dal D. lgs. n. 156/2015, M. Basilavecchia, Il giudizio di ottemperanza, in AA. VV., Il processo tributario, a cura di F. Tesauro, Torino, 1998, 929 ss.; Id., Giurisdizione tributaria ma a caro prezzo, in GT – Riv. giur. trib., n.1, 2009, 29 ss. (in commento a Cass., SS. UU., 8 ottobre 2008, n. 24774); T. Baglione, Giudizio di ottemperanza, in T. Baglione, S. Menchini, M. Miccinesi, Il nuovo processo tributario, Milano, 2004, 788 ss.; M. C. Parlato, Il giudizio di ottemperanza, in V. Uckmar, F. Tundo, Codice del processo tributario, cit., 1195 ss.; Id., Contributo allo studio del giudizio di ottemperanza nel processo tributario, Bari, 2008; Id., Il giudizio di ottemperanza, in E. Della Valle, V. Ficari, G. Marini, Il processo tributario, Padova, 2008, 591 ss.; Id., Impugnabilità per cassazione della sentenza di ottemperanza, ivi, 614 ss.; Id., Il giudizio di ottemperanza, in Boll. trib., n. 17, 2011, 1281 ss.; F. Randazzo, Sub art. 70, in C. Consolo, C. Glendi, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2012, 797 ss.; Id., Natura e profili operativi del giudizio di ottemperanza, in GT – Riv. giur. trib., n. 8, 2002, 759 ss. (7) Come osservato, con l’art. 9, “Modifiche al decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546”, D. lgs. 24 settembre 2015, n. 156.
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della disposizione, “salvo quanto previsto dalle norme del codice di procedura civile per l’esecuzione forzata della sentenza di condanna costituente titolo esecutivo”, mantenendo invariata la previsione per cui “la parte che vi ha interesse, può richiedere l’ottemperanza agli obblighi derivanti dalla sentenza della commissione tributaria passata in giudicato mediante ricorso” (8). La soppressione della parte sopra indicata – che comporta l’esclusività del giudizio di ottemperanza come strumento per l’esecuzione delle sentenze – trova ragione e fondamento, nella Relazione illustrativa allo “Schema di decreto legislativo recante misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario” del 26 giugno 2015, in diverse motivazioni: - “peculiarità delle sentenze emesse nel processo tributario, dove spesso anche il calcolo delle somme dovute a titolo di rimborso di imposta non è agevole, essendo necessaria comunque un’attività dell’ufficio per la determinazione degli interessi per i vari periodi interessati; inoltre la necessità di una garanzia per le condanne in favore del contribuente al rimborso di somme superiori a 10.000 euro, avrebbe creato notevoli problemi alle segreterie per il rilascio delle formule esecutive, non potendosi pretendere da tali uffici un controllo sulla idoneità della garanzia stessa”; - “particolare efficacia della procedura di ottemperanza, che consente – anche con la nomina di un commissario ad acta – di ottenere in tempi relativamente brevi l’adempimento dell’Amministrazione, con il rimborso delle relative spese”; - “l’ordinaria procedura esecutiva (oltre ad aggravare lo stato della giustizia civile), non garantisce spesso il soddisfacimento dell’interesse del contribuente, anche per le note difficoltà di agire in via esecutiva sui beni di soggetti pubblici”. La dottrina ha però criticato le argomentazioni della Relazione, anche dissentendo dalle ragioni che hanno indotto il legislatore delegato a ridurre gli strumenti di tutela a disposizione del contribuente al solo giudizio di ottemperanza. Si è infatti osservato che la modifica – che ha comportato il venir meno della possibilità di accedere all’esecuzione forzata della sentenza di condanna dell’Amministrazione, costituente titolo esecutivo – non appare conforme, per altro profilo, allo spirito della legge delega, la quale si riferiva piuttosto all’e-
(8) L’art. 70, comma 1, D. lgs. n. 546/1992, prevede inoltre che il ricorso per l’ottemperanza della sentenza sia “da depositare in doppio originale alla segreteria della commissione tributaria provinciale, qualora la sentenza passata in giudicato sia stata da essa pronunciata, ed in ogni altro caso alla segreteria della commissione tributaria regionale”.
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sigenza di “un rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente” (9). Come osservato in dottrina, comunque, la limitazione di tutela è “relativa”, considerando che spesso le sentenze dei giudici tributari sono prive dei requisiti del titolo esecutivo di cui all’art. 474 c.p.c. (in quanto non contenenti una espressa condanna al pagamento o l’esatta quantificazione della somma da pagare), e come tali non costituiscono titolo legittimante l’espropriazione forzata, oltre al fatto che, come noto, i beni dello Stato sono difficilmente “aggredibili” (10). Vale certamente la pena di considerare che con il nuovo art. 70, privo dell’inciso relativo alla possibilità di intraprendere l’iniziativa dell’esecuzione forzata disciplinata dal c.p.c., viene superata la dibattuta questione relativa al rapporto intercorrente tra i rimedi in precedenza previsti per l’attuazione delle pronunce tributarie (11). 3. Le modifiche all’art. 70, comma 2, D. lgs. n. 546/1992. – L’art. 70, comma 2, nell’attuale redazione, reca l’indicazione dei soggetti nei cui confronti è possibile intraprendere l’azione per l’ottemperanza. Il comma citato dispone infatti che “il ricorso è proponibile solo dopo la scadenza del termine entro il quale è prescritto dalla legge l’adempimento a carico dell’ente impositore, dell’agente della riscossione o del soggetto iscritto nell’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, degli obblighi derivanti dalla sentenza o, in mancanza di tale termine, dopo trenta giorni dalla loro messa in mora a mezzo di ufficiale giudiziario e fino a quando l’obbligo non sia estinto”.
(9) M. Leo, La riforma del contenzioso tributario: cose fatte e cose da fare, cit., 4016, indica come “non condivisibili” le ragioni del legislatore delegato, osservando che “il fatto che gli istituti attinti dal processo civile possano essere meno efficaci dell’ottemperanza non sembra, infatti, un’argomentazione idonea a giustificare una siffatta riduzione di tutela”. Analoghe considerazioni, prima dell’emanazione del decreto n. 156/2015, sulla proposta di decreto legislativo delegato, esprimono M. Cicala, A. Genise, Osservazioni critiche sulle misure per la revisione della disciplina del contenzioso tributario, in Il fisco, n. 35, 2015, 335 ss., i quali osservano che “non persuadono (…) le ragioni addotte (pag. 24 della relazione) per giustificare la soppressione della facoltà per il contribuente di far ricorso a ‘quanto previsto dalle norme del codice di procedura civile per l’esecuzione forzata della sentenza di condanna costituente titolo esecutivo’”. (10) Sul punto cfr. F. Randazzo, Con l’immediata esecutività delle sentenze non ancora in giudicato cambia il giudizio di ottemperanza, in Corr. trib., n. 25, 2016, 1971. (11) Come si è già avuto modo di osservare in M.C. Parlato, Il giudizio di ottemperanza, in Boll. trib., cit., 1282 s.; Id., Il giudizio di ottemperanza, in V. Uckmar, F. Tundo, Codice del processo tributario, cit., 1195 ss.; Id., Contributo allo studio del giudizio di ottemperanza nel processo tributario, cit., 87 ss.; Id., Il giudizio di ottemperanza, in E. Della Valle, V. Ficari, G. Marini, Il processo tributario, cit., 591 ss.
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L’innovazione consente il richiamo alle questioni attinenti alla legittimazione nel giudizio di ottemperanza (12). Legittimata attiva a richiedere l’ottemperanza è la parte che vi ha interesse, quindi i soggetti che sono stati parte nel giudizio concluso e che abbiano un concreto ed attuale interesse all’attuazione della sentenza. La legittimazione passiva, precedentemente individuata nell’“Ufficio del Ministero delle finanze” e nell’“Ente locale”, risulta meglio determinata con l’indicazione – oltre che dell’Ente impositore – dell’Agente per la riscossione e (in maniera più onnicomprensiva rispetto alla locuzione “Ente locale”) dei soggetti iscritti all’Albo per l’accertamento e riscossione delle entrate degli enti locali. È stata dunque risolta dal legislatore la questione della legittimazione passiva in capo a soggetti che erano legittimati ad essere parte nel giudizio innanzi alle commissioni tributarie, ma non erano specificamente individuati nella disciplina del giudizio di ottemperanza. Il legislatore, in correlazione alla modifica riguardante i soggetti, ha modificato anche il comma 4, prevedendo la comunicazione di uno dei due originali del ricorso, a cura della segreteria della commissione, “ai soggetti di cui al comma 2 obbligati a provvedere”. Il comma 2 dell’art. 70 prevede, per il procedimento di ottemperanza, la scadenza del termine previsto dalla legge per l’adempimento dell’obbligo posto dalla sentenza. In mancanza di questo termine, dovranno essere decorsi trenta giorni dalla messa in mora a mezzo di ufficiale giudiziario (13). Con
(12) Sia consentito rinviare a M. C. Parlato, Il giudizio di ottemperanza, in Boll. trib., cit., 1288 s.; Id., Contributo allo studio del giudizio di ottemperanza nel processo tributario, cit., 84 ss., e bibliografia citata; Id., Il giudizio di ottemperanza, in V. Uckmar, F. Tundo, Codice del processo tributario, cit., 1219 s. (13) L’atto di “messa in mora” è atto preparatorio di natura non processuale, non è infatti rivolto ad un organo giurisdizionale, ma alla parte inadempiente, ed assolve – al fine della proposizione del ricorso per l’ottemperanza da parte del contribuente – alla funzione di “informare” l’Amministrazione e dare ad essa un termine. In assenza di tale atto non è possibile fruire dell’istituto – così infatti prevede il dettato normativo – ed a questo fine non può essere equiparata alla messa in mora la notificazione della sentenza in forma esecutiva. Con riguardo alla messa in mora dell’Amministrazione finanziaria, v. Cass., 23 giugno 2010, n. 15176, in Il fisco, n. 27, fasc. n. 1, 2010, 4384; Cass., 24 settembre 2010, n. 20202, in Il fisco, n. 40, 2010, fasc. n. 1, 6506 ss., con commento di P. Turis. Tale atto, che ha una funzione sostanziale e meramente prodromica rispetto all’instaurando giudizio di ottemperanza, può essere sottoscritto dalla parte personalmente (non è richiesta la sottoscrizione del difensore), e deve contenere l’indicazione che, nel caso in cui persista l’inadempimento, si procederà al giudizio di ottemperanza (si rinvia, al riguardo, a M. Basilavecchia, Il giudizio di ottemperanza, in AA. VV., Il processo tributario, cit., 936). La norma prevede che l’atto di messa in mora debba
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l’entrata in vigore delle nuove disposizioni, la rilevanza dell’atto di messa in mora va analizzata in conseguenza dell’intervenuta riforma dell’art. 69. Il nuovo art. 69 del D. lgs. n. 546/1992 (così come il comma 2 dell’art. 68) dispone che “il pagamento delle somme dovute a seguito della sentenza deve essere eseguito entro novanta giorni dalla sua notificazione”. In sostanza, è ora la legge a prevedere nei casi considerati un termine per l’esecuzione. E poiché il comma 2 dell’art. 70 sull’ottemperanza continua a disporre che “il ricorso è proponibile solo dopo la scadenza del termine entro il quale è prescritto dalla legge l’adempimento ... o, in mancanza di tale termine, ... dalla messa in mora”, si osserva che la disciplina attuale “ridimensiona” l’ambito in cui sussiste l’obbligo di messa in mora (14). 4. L’introduzione del comma 10-bis, all’art. 70, D. lgs. n. 546/1992. – L’art. 70, D. lgs. n. 546/1992, comma 10-bis, afferma che “per il pagamento di somme dell’importo fino a ventimila euro e comunque per il pagamento delle spese di giudizio, il ricorso è deciso dalla Commissione in composizione monocratica”. La previsione del giudice tributario monocratico risponde ai criteri dettati dalla legge delega, che prevede “l’eventuale composizione monocratica dell’organo giudicante in relazione a controversie di modica entità e comunque non attinenti a fattispecie connotate da particolare complessità e rilevanza economico-sociale” (15).
essere notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, e ciò esclude qualsiasi altra forma equipollente di comunicazione per mettere in mora l’Amministrazione stessa. Il destinatario della notifica deve essere l’Ufficio tributario competente a provvedere all’adempimento (in particolare, l’atto deve essere indirizzato all’Ufficio, in persona del suo titolare), anche nell’ipotesi in cui si sia avvalso della difesa dell’Avvocatura dello Stato. In tal senso si è espressa la Circ. n. 5/E del 4 febbraio 2003, in Boll. trib., 2003, 189 ss. La notifica dell’atto di messa in mora deve quindi essere effettuata all’Ufficio che deve eseguire la sentenza, individuato nell’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate che è stato parte processuale nel giudizio tributario di merito, e che sarà parte nell’instaurando giudizio di ottemperanza (cfr. S. La Rocca, Il giudizio di ottemperanza alla luce della Circolare n. 5/E del 2003 dell’Agenzia delle Entrate, in Il fisco, n. 12, 2003, fasc. n. 1, 1785 ss.): la diffida è infatti atto di natura differente da quelli la cui notifica deve essere effettuata presso l’ufficio dell’Avvocatura (l’art. 11 del r. d. n. 1611 del 1933, e successive modificazioni, prevede che vada effettuata presso l’Ufficio dell’Avvocatura dello Stato la notifica di citazioni, ricorsi, gli atti istitutivi di giudizi, qualsiasi atto di opposizione giudiziale). (14) Cfr. F. Randazzo, Con l’immediata esecutività delle sentenze non ancora in giudicato cambia il giudizio di ottemperanza, cit., 1971. “La formulazione della nuova disposizione in commento”, osserva l’Autore, “riporta ad eccezione l’obbligo di messa in mora che” – per l’assenza, nel precedente testo dell’art. 69, di un termine di legge all’adempimento – “ha invece costituito” sino ad oggi “la regola”. (15) Cfr. art. 10, comma 1, n. 2, lett. b), l. 11 marzo 2014, n. 23.
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Il legislatore processual-tributario sembra aver operato nel rispetto della delega, considerando che individua nelle controversie entro il valore di ventimila euro la “modica entità”, e che la “particolare complessità e rilevanza economico-sociale” potrebbe ritenersi esclusa per i limiti di cognizione del giudice in ottemperanza (16). La disposizione dettata all’art. 70, comma 10-bis, si uniforma, nella prima parte, alla scelta di attribuire procedure differenti alle controversie riguardanti pretese di minore valore, come avviene con il reclamo/mediazione, pure relativi alle liti entro il medesimo limite (17). Il parametro della “modica entità”, appare sufficientemente determinato, in quanto definito con una precisa soglia quantitativa (entro l’importo di ventimila euro) (18). Si può tuttavia riflettere sulla complessità di talune controversie, in cui il giudice monocratico dell’ottemperanza dovrà adoperarsi anche via interpretativa. Non può invero escludersi che l’ottemperanza di una pronuncia, sia pur riguardante un importo entro i ventimila euro, possa presentarsi complessa (19), e che la soluzione adottata dal giudice possa, peraltro, costituire un precedente per l’interpretazione in ottemperanza di sentenze relative al pagamento di somme maggiori,
(16) “Nel giudizio di ottemperanza alle decisioni delle commissioni tributarie il potere del giudice sul comando definitivo inevaso va esercitato entro i confini invalicabili posti dall’oggetto della controversia definita col giudicato (cosiddetto ‘carattere chiuso’ del giudizio di ottemperanza), sicché può essere enucleato e precisato il contenuto degli obblighi nascenti dalla decisione passata in giudicato, chiarendosene il reale significato e rendendolo quindi effettivo, ma non può attribuirsi un diritto nuovo ed ulteriore rispetto a quello riconosciuto con la sentenza da eseguire”: così Cass., 30 giugno 2016, n. 13382. In senso conforme v. Cass., 29 luglio 2016, n. 15827; Cass., 12 settembre 2012, n. 15246; Cass., 10 dicembre 2008, n. 28944; per la giurisprudenza di merito v. Comm. trib. reg. di Palermo, 30 maggio 2016, n. 2124. (17) A far data da 1° gennaio 2018, per il reclamo/mediazione il limite viene innalzato a 50.000,00 euro (D.l. 24 aprile 2017, n. 50, art. 10, conv. con modificazioni della l. 21 giugno 2017 n. 96). (18) La disposizione sembra soddisfare le perplessità della dottrina, espresse in commento alla delega. Si osservava, sul parametro della “modica entità”, “che riecheggia curiosamente tutt’altre materie, dove comunque ha finito per essere abbandonato, proprio a causa delle infinite dispute sui suoi margini di misurazione”, che “se, malauguratamente, questa facoltà delegata dovesse avere seguito, dovrebbe, quanto meno, essere predeterminato, in sede attuativa, con l’indicazione di una soglia quantitativa ben precisa, così da eliminare sul nascere incertezze operative che nuocerebbero, sicuramente, anziché giovare, all’incremento della funzionalità della giurisdizione tributaria” (così C. Glendi, Fermenti legislativi processualtributaristici: legge delega e direttive sul rito, in Corr. trib., n. 7, 2015, 498). (19) Cfr. C. Glendi, Fermenti legislativi processualtributaristici: legge delega e direttive sul rito, cit., 498.
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o comunque che abbia essa stessa effetti sulle determinazioni in ottemperanza di altre sentenze collegate (20). Per l’attribuzione dei giudizi di ottemperanza alla Commissione in composizione monocratica con riferimento al pagamento delle spese di giudizio, sembra – almeno apparentemente – che la mancanza della collegialità possa trovare ragione nella caratterizzazione di questi giudizi, di cui può ipotizzarsi un lineare svolgimento: l’ottemperanza consiste nell’attuazione dell’obbligazione, che nasce nella sentenza, al pagamento delle somme indicate come spese del giudizio. Peraltro si è osservato in dottrina che, se l’avere individuato nel giudice monocratico l’organo più adatto a decidere sull’ottemperanza delle sentenze di contenuta entità può intendersi rispondente alla finalità di celerità e snellezza del giudizio, appare invece “singolare” demandare “comunque”, ossia in ogni caso, ad un solo membro della Commissione la decisione sull’ottemperanza delle pronunce sulle spese di lite. Ciò non solo per la ragione che queste spese potrebbero essere di notevole entità, quanto per la ragione che “quasi sempre il capo di condanna al pagamento delle spese di giudizio è ancillare a quello relativo al merito della causa. Ne consegue che, se si tratta di condanna al rimborso di somme di ammontare superiore ai ventimila euro, la norma comporterà un’inevitabile individuazione funzionale di due composizioni differenti del giudice dell’ottemperanza; monocratica per l’esecuzione del capo di sentenza riguardante le spese di giudizio e collegiale per l’esecuzione del capo riguardante il rimborso, con evidente complicazione, piuttosto che semplificazione, dell’attuazione della tutela” (21). In proposito la norma è stata definita “bizzarra” (22); proprio per questo motivo, si può tentare un’interpretazione della normativa che – anche se “forzata”, in considerazione dell’utilizzo, da parte del legislatore, dell’avverbio “comunque” al fine dell’attribuzione dei giudizi di ottemperanza sulle spese di giudizio al giudice monocratico – consenta una disciplina appunto meno “bizzarra”. Potrebbe ritenersi dunque che:
(20) Si pensi alle ipotesi di sentenze di ugual contenuto ma relative a controversie di differente valore, riguardanti diversi periodi d’imposta o aventi ad oggetto – per lo stesso periodo d’imposta – atti riguardanti maggiori tributi richiesti a una società di persone e atti riguardanti i conseguenti maggiori tributi richiesti per trasparenza ai soci. (21) Così F. Randazzo, Con l’immediata esecutività delle sentenze non ancora in giudicato cambia il giudizio di ottemperanza, cit., 1971. (22) F. Randazzo, Con l’immediata esecutività delle sentenze non ancora in giudicato cambia il giudizio di ottemperanza, cit., 1971.
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a) per le cause di valore inferiore ai ventimila euro, la competenza spetti in ogni caso al giudice monocratico, anche se, sommando le spese del giudizio, l’anzidetto limite venisse superato (in tal modo valorizzando l’uso dell’avverbio “comunque”); b) per le cause di valore superiore, la competenza sulle spese seguirebbe quella sulla domanda principale, anche per motivi di economia processuale, spettando quindi la stessa al giudice in composizione collegiale; c) per le cause aventi ad oggetto esclusivamente le spese del giudizio (si pensi ad una lite avente ad oggetto un atto impositivo, non preceduta da alcun pagamento da parte del contribuente che, per esempio, abbia ottenuto un provvedimento cautelare di sospensione dell’atto), la competenza spetti comunque (a prescindere dall’ammontare in questione) al giudice monocratico. Appare in ogni caso condivisibile la più severa opinione espressa in generale dalla dottrina, che ha visto negativamente l’ipotesi della predisposizione di un organo giudicante monocratico, “sia perché la sua istituzione può dar luogo (come ha già dato luogo in passato) ad arbitrii ed abusi, che debbono essere prevenuti, tanto più in ragione dell’indicato traguardo da conseguire circa la ‘terzietà dell’organo giudicante’, la quale potrebbe essere altrimenti compromessa o comunque meno bilanciata, e sia perché in oggi la composizione collegiale anche per le liti di modesta entità costituisce un valore aggiunto da preservare”, senza che ciò comporti particolari aggravi, né significative perdite di tempo, a livello organizzativo (23). Non sfugge, poi, la circostanza che l’indicazione del giudice monocratico tributario era prevista come “eventuale”. L’aggettivo, insolito in una legge delega, che dovrebbe contenere soltanto criteri direttivi su cui indirizzare l’elaborazione della normativa delegata – osservava la dottrina precedentemente al decreto – poteva “risultare miracolosamente ‘provvidenziale’, legittimando il legislatore delegato ad avvalersi della facoltà (…) di evitare l’introduzione nell’attuale disciplina del processo tributario dell’organo giudicante monocratico” (24). Con riguardo, poi, all’inosservanza della disciplina sulla composizione monocratica, si concorda nell’osservare che si tratta di un’ipotesi diversa da quella posta dal comma 6 dello stesso art. 70, il quale dispone che il Presiden-
(23) Così C. Glendi, Fermenti legislativi processualtributaristici: legge delega e direttive sul rito, cit., 498. (24) Così C. Glendi, Fermenti legislativi processualtributaristici: legge delega e direttive sul rito, cit., 498.
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te della Commissione tributaria, nell’assegnare il ricorso per l’ottemperanza, deve indirizzarlo alla stessa Sezione che ha pronunciato la sentenza. Questa norma appare giustificata dalla considerazione che non v’è miglior giudice che possa dare adeguate misure per l’attuazione della sentenza di colui che l’abbia posta in essere; alla violazione di questa previsione la giurisprudenza, comunque, non ricollega alcuna conseguenza (25). Diversamente, l’inosservanza della disposizione sulla composizione monocratica del giudice dell’ottemperanza dovrebbe avere lo stesso effetto che nel processo civile è disciplinato dall’art. 50-quater c.p.c. (Inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale), il quale rinvia al successivo art. 161, comma 1. “Sicché il vizio (…) si convertirebbe in un motivo d’impugnazione della sentenza, che, nel caso del procedimento ex art. 70 del D.lgs. n. 546/1992, conduce direttamente al ricorso per cassazione” (26). Peraltro, si evidenzia che l’inosservanza della disciplina appare di differente rilevanza nell’ipotesi in cui una causa di spettanza del giudice monocratico venga decisa dal collegio, rispetto all’ipotesi – più “grave” – in cui un giudizio di ottemperanza spettante al collegio venga attribuito al giudice monocratico. 5. L’introduzione dell’art. 67-bis, le innovazioni agli artt. 68 e 69, e l’abrogazione dell’art. 69-bis, D. lgs. n. 546/1992. – L’ampliata applicabilità dell’istituto dell’ottemperanza comporta il rafforzamento della tutela del contribuente, in funzione della mutata disciplina dell’esecutività delle sentenze tributarie non definitive e delle sentenze da cui consegue un rimborso a favore del contribuente stesso. L’istituto dell’ottemperanza è infatti il sistema unitario ed esclusivo per l’esecuzione delle sentenze tributarie, definitive e non. L’art. 67-bis, D. lgs. n. 546/1992, risponde alla “necessità”, indicata nella relazione illustrativa al decreto di riforma, “di introdurre un principio generale che riconosca l’esecutività immediata delle sentenze tributarie emesse dalle commissioni tributarie provinciali e regionali, equiparandole a quelle adottate nel giudizio civile e amministrativo”. La disciplina dà attuazione al criterio
(25) Cfr. Cass. 24 ottobre 2008, n. 25669, per la quale la norma in questione non prevede una competenza esclusiva di quella Sezione a decidere, non essendovi, peraltro, alcuna sanzione di nullità conseguente all’eventuale assegnazione ad altra Sezione, ma piuttosto “semplice valenza di norma indicativa della distribuzione interna alla Commissione competente”. (26) Cfr. F. Randazzo, Con l’immediata esecutività delle sentenze non ancora in giudicato cambia il giudizio di ottemperanza, cit., 1971.
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dettato dalla legge delega (27), che prevedeva l’immediata esecutività, per tutte le parti del giudizio tributario, delle sentenze emesse dalle commissioni tributarie. Specificamente, riguarda le sentenze: - non ancora definitive, di condanna al pagamento di somme, comprese le spese del giudizio; - non ancora definitive, riguardanti operazioni catastali parzialmente o totalmente favorevoli al contribuente; - relative ad atti impositivi, da cui consegua il diritto al rimborso di somme (tributi, sanzioni, interessi) corrisposte in eccedenza in base alla statuizione giudiziale; - di condanna al pagamento delle spese del giudizio (o di ordinanze di liquidazione delle spese, nel caso di rinuncia al ricorso, ai sensi dell’art. 44, comma 2, D. lgs. n. 546/1992). All’art. 68, comma 1, nel contesto della disciplina della riscossione frazionata (28), è stata inserita la lett. c-bis, in cui è sancito che il tributo, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali, deve essere pagato “per l’ammontare dovuto nella pendenza del giudizio di primo grado dopo la sentenza della Corte di cassazione di annullamento con rinvio e per l’intero importo indicato nell’atto in caso di mancata riassunzione”. In tal modo, come precisato nella Circolare n. 38/E del 29 dicembre 2015, “il dettato della nuova lettera c-bis) si è allineato alla giurisprudenza della Corte” di cassazione, che “ha costantemente affermato che l’estinzione dell’intero processo”, nel caso di mancata riassunzione a seguito di cassazione con rinvio, “comporta la caducazione di tutte le sentenze medio tempore pro-
(27) All’art. 10, lett. b), n. 10, L. n. 23/2014, il legislatore delegante della riforma per la “Revisione del contenzioso tributario e della riscossione degli enti locali”, come già evidenziato, indicava “la previsione dell’immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze delle commissioni tributarie”. (28) L’art. 68, comma 1, D. lgs. n. 546/1992, comma 1, dispone che, “Anche in deroga a quanto previsto nelle singole leggi d’imposta, nei casi in cui è prevista la riscossione frazionata del tributo oggetto di giudizio davanti alle commissioni, il tributo, con i relativi interessi previsti dalle leggi fisca1i, deve essere pagato: a) per i due terzi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale che respinge il ricorso; b) per l’ammontare risultante dalla sentenza della commissione tributaria provinciale, e comunque non oltre i due terzi, se la stessa accoglie parzialmente il ricorso; c) per il residuo ammontare determinato nella sentenza della commissione tributaria regionale; c-bis (…)”.
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nunciate e la definitività dell’atto oggetto di impugnazione, con conseguente esigibilità delle somme richieste con il medesimo atto (ex multis, Cassazione 5 febbraio 2014, n. 2519; 3 luglio 2013, n. 16689; 28 marzo 2012, n. 5044; 8 febbraio 2008, n. 3040)”. Sempre con riferimento all’ipotesi di cassazione con rinvio, si precisa ulteriormente, nella citata Circolare, “che, per consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, il giudizio di rinvio costituisce una fase nuova ed autonoma, funzionale ad una sentenza che non si sostituisce ad alcuna precedente pronuncia, riformandola, ma statuisce direttamente sulle domande proposte dalle parti (cfr. Cass. 17 novembre 2000, n. 14892; 23 settembre 2002, n. 13833; 28 gennaio 2005, n. 1824; 28 marzo 2009, n. 7536; 5 aprile 2011, n. 7781). Dunque, ‘dopo la cassazione con rinvio la sentenza di primo grado e la sentenza di appello cassata si trovano sempre esattamente nella stessa condizione di inefficacia, di impossibilità di reviviscenza e di insuscettibilità di passaggio in giudicato’ (Cass. 11 novembre 2011, n. 23596). Ciò comporta che l’Amministrazione è legittimata a riscuotere la pretesa erariale secondo le regole vigenti nella fase di impugnazione dell’atto impositivo”, ed è quanto appunto stabilisce il citato art. 68, comma 1, lett. c-bis. L’art. 68, comma 2, afferma che “se il ricorso viene accolto, il tributo corrisposto in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza della commissione tributaria provinciale, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali, deve essere rimborsato d’ufficio entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza. In caso di mancata esecuzione del rimborso il contribuente può richiedere l’ottemperanza a norma dell’articolo 70 alla commissione tributaria provinciale ovvero, se il giudizio è pendente nei gradi successivi, alla commissione tributaria regionale”. La norma, nel testo anteriore alla modifica apportata dal D. lgs. n. 156/2015, prevedeva espressamente – e continua a prevedere, anche dopo la modifica – il rimborso d’ufficio, nel caso di notifica di sentenza favorevole al contribuente, di quanto già pagato in eccedenza dallo stesso, facendo esclusivo riferimento a sentenza pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale. La disposizione è stata correttamente interpretata come estendibile anche alle sentenze del giudice d’appello, sembrando che “il legislatore non abbia voluto porre in proposito alcuna differenziazione tra la sentenza della commissione provinciale e quella della commissione regionale; e che gli effetti ricollegati alle sentenze della prima valgano anche per le sentenze della seconda, essendo la ratio normativa comune ad entrambe e non risultando d’altro canto decisiva, nello smentire queste conclusioni, l’occasionale incompletezza
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del dato testuale della norma” (29). A prescindere dalla considerazione che il legislatore poteva “approfittare” della delega per aggiungere, nella prima parte del comma 2 dell’art. 68, dopo la parola “provinciale”, la locuzione “o regionale” (30), l’interpretazione prima accennata è comunque ora certamente suffragata dal contenuto della seconda parte dello stesso comma, visto che la norma fa riferimento, nel caso di inadempienza dell’ufficio all’obbligo di rimborso, al giudizio di ottemperanza innanzi alla Commissione regionale, “se il giudizio è pendente nei gradi successivi” al primo. Come ricordato nella Circolare n. 38/2015, la Circolare n. 49/E, 1 ottobre 2010, dell’Agenzia delle Entrate, precisava che, “per dare esecuzione ai provvedimenti giudiziari e, in particolare, per procedere ai rimborsi ai sensi dell’art. 68, comma 2, non occorre attendere la notifica della sentenza favorevole al contribuente né alcuna specifica richiesta o sollecito”; peraltro, nessun meccanismo di tutela presiedeva all’attuazione e al rispetto della procedura, per cui la tutela del contribuente in caso di inerzia dell’ufficio era rinviata al passaggio in giudicato della sentenza, presupposto necessario per iniziare il giudizio di ottemperanza. Con l’integrazione del comma 2 dell’art. 68, oggi è possibile chiedere l’ottemperanza anche prima del passaggio in giudicato della sentenza, instando alla Commissione provinciale, se si tratta di sentenza da questa emessa, o alla regionale, in pendenza di giudizio successivo al primo grado. Dunque, come precisato dalla Circolare n. 38/2015 – che riporta sul punto quanto affermato dalla Relazione illustrativa – “si viene a colmare una lacuna, che vedeva il contribuente del tutto privo di rimedi giuridici di fronte all’inerzia dell’ente impositore, che all’esito di una sentenza – anche non definitiva – favorevole al contribuente, ometteva di eseguire in suo favore il rimborso delle somme medio tempore riscosse”. L’art. 69, rubricato “Condanna dell’ufficio al rimborso”, stabiliva: 1. “Se la commissione condanna l’ufficio del Ministero delle finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione al pagamento di somme, comprese le spese di giudizio liquidate ai sensi dell’articolo 15 e la relativa sentenza è passata in giudicato, la segreteria ne rilascia copia spedita in forma
(29) Così F. Randazzo, Sub art. 68, in C. Consolo, C. Glendi, Commentario breve alle leggi del processo tributario, cit., 792. In proposito v. anche P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 524; P. Russo, G. Fransoni, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 311. (30) Così anche L. Lovecchio, Attuazione solo parziale del principio di parità delle parti nel processo tributario, in Il fisco, n. 31, 2016, 3037.
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esecutiva a norma dell’art. 475 del codice di procedura civile, applicando per le spese l’art. 25, comma 2”. La disposizione in parola è stata “cancellata” e sostituita con un nuovo testo del tutto differente, in considerazione dell’accoglimento del principio dell’immediata esecutività delle sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente (nuovo art. 69, comma 1). Lo stesso principio ha portato all’abrogazione dell’art. 69-bis (rubricato “Aggiornamento degli atti catastali”), il quale stabiliva: 1. Se la commissione tributaria accoglie totalmente o parzialmente il ricorso proposto avverso gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’articolo 2, comma 2, e la relativa sentenza è passata in giudicato, la segreteria ne rilascia copia munita dell’attestazione di passaggio in giudicato, sulla base della quale l’ufficio dell’Agenzia del territorio provvede all’aggiornamento degli atti catastali. Anche in tale caso, infatti, la sentenza favorevole al contribuente è immediatamente esecutiva. Ciò ha portato evidentemente all’eliminazione del riferimento al passaggio in giudicato della sentenza, prima previsto tanto dall’art. 69, che dall’art. 69-bis. In entrambe le ipotesi previste dal nuovo testo dell’articolo in esame – con riferimento quindi sia alle sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente, sia a quelle emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali, che sono “immediatamente esecutive” – in caso di mancata esecuzione della sentenza, il contribuente può agire direttamente in ottemperanza (senza attendere il passaggio in giudicato), a norma dell’articolo 70, rivolgendosi alla Commissione tributaria provinciale ovvero, se il giudizio è pendente nei gradi successivi, alla Commissione tributaria regionale (31).
(31) In generale, con riferimento alla competenza in ottemperanza, si è affermato (L. Lovecchio, Attuazione solo parziale del principio di parità delle parti nel processo tributario, cit., 3037) che, “sotto il profilo della individuazione della Commissione tributaria competente a decidere in ordine al giudizio di ottemperanza, la novella stabilisce la competenza della Commissione tributaria provinciale, a meno che il giudizio non penda nei gradi superiori. Pertanto, sino a quando il contribuente non riceve la notifica dell’appello da parte dell’Agenzia delle entrate, il suo riferimento sarà rappresentato dalla Commissione tributaria provinciale. Vale peraltro notare che, poiché il presupposto normativo dell’accesso al giudizio di ottemperanza è rappresentato dalla notifica della sentenza e dal decorso di 90 giorni da essa, al momento della proposizione del ricorso per ottemperanza, il contribuente dovrebbe essere venuto a conoscenza dell’avvenuta presentazione dell’appello. L’adempimento della notifica della sentenza, infatti, dovrebbe essere idoneo, in linea di principio, a far decorrere il termine breve di 60 giorni per la proposizione del ricorso in Commissione tributaria regionale o in Cassazione. Ecco quindi che sembra profilarsi un apparente difetto di scrittura normativa: una volta notificata la sentenza e inutilmente decorso il termine di 90 giorni, o l’Ufficio ha prestato
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Si richiama la circostanza che l’art. 70, comma 3, richiede ancora “la precisa indicazione, a pena di inammissibilità, della sentenza passata in giudicato di cui si chiede l’ottemperanza, che deve essere prodotta in copia”. Osserviamo in proposito che sembra che la prescrizione normativa – piuttosto che essere come non data – sia rivolta, in conseguenza dell’innovazione della disciplina, all’indicazione e alla produzione in copia “della sentenza” di cui si chiede l’ottemperanza, in considerazione del fatto che si procede, adesso, altresì per l’ottemperanza di sentenze non definitive. Sull’onere di allegazione della sentenza, e sulle specifiche questioni attinenti, si rinvia alle considerazioni della dottrina (32). Nel caso di sentenza di condanna al pagamento di somme, peraltro, il contribuente dovrà notificare la sentenza all’Ufficio e attendere l’inutile decorso di 90 giorni, prima di poter agire ex art. 70. Il termine di 90 giorni decorre invece dalla prestazione di idonea garanzia, qualora il giudice, trattandosi di pagamento di somme di ammontare superiore a diecimila euro diverse dalle spese di lite, e tenuto conto anche delle condizioni di solvibilità del contribuente, abbia subordinato il pagamento alla prestazione della stessa. La disciplina della garanzia – quanto a durata e contenuto – è stata demandata dal legislatore ad un decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze (33), oggi (dopo un notevole lasso di tempo) finalmente emanato (D.M.
acquiescenza alla stessa, ed allora la competenza è della Commissione tributaria provinciale, ma in forza delle regole ordinarie dell’ottemperanza al giudicato, ex art. 70 del D. Lgs. n. 546/1992, oppure è stato proposto appello, ed allora la competenza è sempre della Commissione tributaria regionale. Detto in altri termini, non è chiaro in quali situazioni si realizza la competenza della Commissione tributaria provinciale, con riferimento alle sentenze solo provvisoriamente esecutive. Tanto, a meno di non ravvedere una peculiare modalità di notifica della sentenza, idonea ai soli fini dell’attivazione del giudizio di ottemperanza, e non anche della decorrenza del termine breve dell’impugnativa, di cui tuttavia è difficile tracciare i contorni”. (32) Sullo specifico problema della mancata allegazione al ricorso di copia della sentenza attestante il passaggio in giudicato, v. M. Basilavecchia, La prova della formazione del giudicato nel giudizio di ottemperanza, in GT – Riv. giur. trib., n. 11, 2014, 899 ss., il quale osserva che “quando la produzione di un documento, e di una sentenza in particolare, è necessaria, a pena di inammissibilità del ricorso, le disposizioni del D.Lgs. n. 546/1992 lo dicono espressamente: basterà confrontare, infatti, con l’art. 70 il testo del comma 3 dell’art. 63 del medesimo decreto, sul giudizio di rinvio, nel quale è espressamente sancito l’obbligo, a pena di inammissibilità, di produrre in sede di rinvio copia autentica della sentenza di cassazione dalla quale origina il giudizio di rinvio”; C. Glendi, Giudizio di ottemperanza (dir.trib.), in Enc. giur., Agg. VIII, Roma, 2000, 8. (33) Sui problemi di diritto transitorio ricollegati al decreto di attuazione, prima della sua emanazione, si rinvia a M. Bruzzone, Sentenza pro contribuente immediatamente esecutiva
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6 febbraio 2017, n. 22) (34). Inoltre – insieme alla previsione della possibile garanzia a tutela del fisco (35) – è stato giustamente stabilito che i costi della stessa, anticipati dal contribuente, siano a carico della parte soccombente all’esito definitivo del giudizio (e non rimangano necessariamente a carico del primo). 6. Conclusioni. – Abbiamo considerato, con analitico riferimento, le innovazioni recate dalla legge delega e dal decreto delegato, riguardo all’esecutività delle sentenze del giudice tributario. Si è dato atto della tendenza della nuova normativa al potenziamento dell’istituto dell’ottemperanza, secondo le nuove regole. Da tale circostanza consegue (o dovrebbe conseguire) una maggiore tutela del contribuente, concepita come accrescimento della garanzia dei suoi diritti. In generale, riteniamo che la disciplina delle innovazioni processuali appaia frammentaria e non lineare, come si rileva nella considerazione delle
senza garanzia, in Il fisco, n. 28, 2016, 2792 ss., in commento a Comm. trib. prov. di Venezia, 20 giugno 2016, n. 316 (in cui i giudici tributari di Venezia dichiarano “immediatamente esecutiva” la sentenza di condanna alla restituzione dell’importo di euro 4.739.807,43, oltre accessori e spese di lite, non condizionandola alla prestazione di una garanzia); L. Lovecchio, Attuazione solo parziale del principio di parità delle parti nel processo tributario, cit., 3037; F. Randazzo, Con l’immediata esecutività delle sentenze non ancora in giudicato cambia il giudizio di ottemperanza, cit., 1971. (34) Cfr. F. Randazzo, Il vigore la garanzia per l’esecuzione delle sentenze tributarie di condanna dell’Ufficio, in Corr. trib., n. 16, 2017, 1227. (35) In relazione alla prevista garanzia, in dottrina si è affermato (E. A. Sepe, Nuove regole su esecutività delle sentenze e misure cautelari successive, in Il fisco, n. 1, 2016, 38 ss.) che, “fonte di perplessità, anche sotto il profilo del rispetto della delega, è anche la disposizione contenuta nell’art. 69, comma 1, secondo cui, in caso di sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente, ‘il pagamento di somme dell’importo superiore a diecimila euro, diverse dalle spese di lite, può essere subordinato dal giudice, anche tenuto conto delle condizioni di solvibilità dell’istante, alla prestazione di idonea garanzia’. Non appare ragionevole e conforme al principio di effettività della tutela giudiziaria che lo stesso giudice che, dopo l’accertamento giudiziale, ha riconosciuto legittimo e fondato il credito fatto valere dal contribuente, in contrasto con tale accertamento, sottoponga la riscossione del credito alla prestazione di una garanzia. È previsto che, in sede amministrativa, tale cautela sia disposta dall’Amministrazione a propria tutela (v. art. 38-bis, D. Lgs. n. 633/1972, in tema di rimborsi IVA) perché la situazione creditoria del contribuente non è stata oggetto di controllo giudiziale, cui compete l’accertamento definitivo del rapporto, ma sembra contraddittorio che a disporla sia lo stesso giudice che, con la pienezza della verifica giudiziaria, ha stabilito l’esistenza del credito in capo al contribuente, sottoponendo la sua riscossione alla condizione di una garanzia, integrante per il contribuente un onere che potrebbe rappresentare un ostacolo alla realizzazione del proprio diritto”.
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tecniche legislative adottate e dell’esigenza di rispettare il principio di ragionevolezza delle norme (36). La frammentarietà delle modifiche apportate – riguardanti, per l’esecuzione delle sentenze tributarie, più articoli del decreto legislativo – e la tecnica di rinvio ad altre regole, non sembrano pienamente rispettose del principio fondamentale della sistematicità. Ciascuna norma, infatti, dovrebbe essere dotata non solo di legittimità propria, ma altresì di “legittimità nel sistema”. Invero il giudizio di ottemperanza ha luogo nel processo tributario, nel quale deve esservi garanzia di parità tra le parti e garanzia di un giudice terzo. Il processo tributario appare punto di convergenza di due fenomeni giuridici: accertamento e riscossione. In proposito si evidenzia l’accertamento ne costituisce la fase preliminare o iniziale, atteso che tutti gli atti dell’istruttoria amministrativa vengono assunti nel processo. Il processo coinvolge altresì la fase della riscossione e degli adempimenti, provvisori o definitivi, relativi alla consecuzione del tributo, nonché al rimborso di quanto indebitamente percepito. Indubbiamente, pur nella sua complessità, la nuova regolamentazione appare riconsiderare il principio di parità delle parti, il quale sembrava precluso nei confronti del contribuente. Come osservato, il legislatore, con il decreto n. 156/2015, attuativo della delega conferita dalla l. n. 23/2014, è intervenuto in materia di esecutività delle sentenze del giudice tributario e di giudizio di ottemperanza, eliminando – nonostante la scarsa linearità del meccanismo normativo – le incoerenze e disparità che caratterizzavano la disciplina sino ad ora vigente. In particolare, è stata eliminata l’incongruenza ricollegata alla circostanza che, mentre il fisco poteva (e può) soddisfare la sua pretesa, per intero o parzialmente, nei confronti del contribuente ancor prima della pronuncia di un giudice, il contribuente, per poter agire contro il fisco inadempiente, doveva attendere che la pronuncia giudiziale a lui favorevole acquisisse la stabilità del giudicato. Inoltre si evidenzia che l’eliminazione del possibile ricorso, da parte del privato, alla normale procedura esecutiva – anche se criticata da una parte della dottrina, che ha considerato l’intervento legislativo come limitativo dei mezzi di tutela a disposizione del contribuente, in contrasto con i principi
(36) Si pensi, per tutte, alla problematica ricollegata alla riforma della tutela cautelare tributaria, che ha suscitato, come noto, non poche perplessità in dottrina; in proposito v. A. Colli Vignarelli, Aspetti problematici della riforma della tutela cautelare tributaria, in Dir. e proc. trib., n. 1, 2016, 1 ss.
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ispiratori della delega – ha fatto cadere tutti i possibili dubbi prospettati circa l’ambito di utilizzabilità dell’istituto dell’ottemperanza. Infine, qualche perplessità, come pure già osservato, ha fatto sorgere la previsione del giudice monocratico nel giudizio di ottemperanza. Nel complesso può comunque ritenersi che l’intervento del legislatore sia da valutare positivamente, avendo dato attuazione al principio di uguaglianza e di parità delle parti (artt. 3 e 111 Cost.), la cui violazione ad opera della disciplina previgente aveva determinato anche questioni di legittimità costituzionale, peraltro rigettate, come noto, dalla Consulta (37).
Maria Concetta Parlato
(37) Cfr. Corte Cost., 30 luglio 2008, n. 316.
Alcune considerazioni sul contrasto tra CEDU e disciplina italiana dei rapporti tra procedure sanzionatorie amministrative e penali* Sommario: 1. I termini essenziali della questione. – 1.1. La posizione della Corte
EDU. – 1.2. Le prime reazioni della nostra giurisprudenza di vertice e del legislatore. – 2. La disciplina degli artt. 19 ss. del d.lgs. 74/2000 di fronte agli indirizzi della Corte EDU. – 3. La questione dell’identità del fatto e le violazioni in materia di versamenti. – 4. La dimensione processuale dell’art. 4 del Prot. n. 7, le ragioni sottese agli artt. 19 ss. del d.lgs. 74/2000, il bilanciamento tra obblighi CEDU e valori costituzionali. – 5. La dichiarazione interpretativa riguardo alla “materia penale” espressa dall’Italia in sede di ratifica del prot. n. 7 e l’indirizzo della Corte EDU sull’inefficacia di simili limitazioni. – 6. Conclusioni. Non sembra del tutto ovvio che la disciplina italiana dei rapporti procedurali tra sanzioni tributarie amministrative e penali sia contrastante con il principio ne bis in idem di cui all’art. 4 del protocollo n. 7 aggiuntivo alla CEDU. La recente giurisprudenza della corte EDU ammette un concorso dei due tipi di misure, applicate distintamente, sia in caso di sufficiente connessione tra i due procedimenti, sia in caso di applicazione a soggetti diversi; inoltre, il d.lgs. n. 158/2015 ha ridotto l’area delle condotte che creano quel problema. Tuttavia si rileva che: non vi è sempre in sede tributaria un effettivo giudizio sulla condotta trasgressiva; la sospensione della riscossione in attesa del giudicato penale sembra differire anche la definitività della sanzione amministrativa, cosicché quel principio fino a tale momento non è violato; i reati di omesso versamento (ma non di indebita compensazione) riguardano un comportamento distinto da quello colpito come violazione amministrativa; l’Italia nel depositare gli strumenti di ratifica aveva fatto una dichiarazione secondo la quale gli artt. da 2 a 4 del Prot. n.7 si applicavano solo a violazioni, procedure e decisioni considerate penali dalla legge italiana. It is not definitely obvious that Italian rules concerning connections between tax administrative penalties proceedings and criminal proceedings don’t comply with the “ne bis
* Il presente lavoro è destinato agli scritti in onore del prof. Pasquale Russo.
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in idem” principle of Art. 4 of Protocol No. 7 to the ECHR. According to recent case-law of the ECtHR, sanctions are cumulable and can be imposed in different proceedings, both when there is a sufficiently close connection between them, and if legal entities involved are different. Moreover, d.lgs. n. 158/2015 has reduced the range of conducts which make that problem arise. However, it must be noticed that: there is not in whichever tax proceeding a real examination of a reprehensible conduct; the stay on enforcement of tax penalties, until a criminal decision becomes final, seems to keep pending tax penalties too, so that theretofore “ne bis in idem” principle is not violated; crimes of failure to pay (except for unlawful debt offsetting) concern conducts different from the ones punished as administrative offences; Italy when depositing the instrument of ratification made a declaration to the effect that Art.2 to 4 of Protocol No. 7 applied only to offences, procedures and decisions classified as criminal under Italian law.
1. I termini essenziali della questione. 1.1. La posizione della Corte EDU. – Tra i molti nodi problematici del diritto tributario riguardo ai quali siamo debitori a Pasquale Russo di riflessioni di grande chiarezza e profondità, vi è la nota questione (1) del
(1) Si v. P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem alla luce del diritto comunitario, in Riv. dir. trib., 2016, I, 23 ss. Tra i molti lavori sul tema ricordiamo F. Amatucci, I principi della proporzionalità e del ne bis in idem nel sistema sanzionatorio tributario, in Dir. prat. trib. int., 2015, 415 ss.; V. Azzoni, Il sistema del doppio binario (amministrativo e penale) nel regime sanzionatorio tributario: è tutto l’edificio che sta scricchiolando?, in Boll. Trib., 2015, 1032 ss.; E. Boffelli, Principio del ne bis in idem nella recente giurisprudenza europea: considerazioni sul doppio binario sanzionatorio in materia tributaria, in Dir. prat. trib., 2014, II, 1097 ss.; M. Bolognese, Il divieto del cumulo di sanzioni nell’ordinamento internazionale (ne bis in idem): una evitabile prova di forza tra gli artt. 117 e 11 Cost. al vaglio della Consulta, in Riv. trim. dir. trib., 2015, 757 ss.; A. Carinci, Il principio di specialità nelle sanzioni tributarie: tra crisi del principio e crisi del sistema, in Rass. trib., 2015, 509 e ss.; G. Cesari, Illecito penale e tributario. Il principio del ne bis in idem alla luce della più recente giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e di Cassazione, in Riv. dir. trib., 2014, IV, 86 ss.; S.F. Cociani, Sul divieto di cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative in materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2015, I, 405 ss.; R. Cordeiro Guerra, La tutela – processuale e procedurale – del contribuente sottoposto a sanzioni nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani, in AA.VV., Convenzione europea dei diritti dell’uomo e giustizia tributaria italiana, a cura di F. Bilancia, C. Califano, L. Del Federico, P. Puoti, Torino, 2014, 242; G. D’Angelo, Ne bis in idem e sanzioni tributarie: precisazioni dalla Corte EDU, in Rass. Trib., 2015, 253 ss.; G. Di Federico, La possibilità di cumulare sanzioni penali e fiscali ai sensi dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Rass. Trib. 2013, 1185 ss.; G.M. Flick, Reati fiscali, principio di legalità e ne bis in idem: variazioni italiane su un tema europeo, in Rass. Trib., 2014, 958 e ss.; G. Flora, Ne bis in idem “europeo” e sistema sanzionatorio tributario: devastante tsunami o vento che spazza le nuvole ?, in Rass. Trib., 2016, 1001 ss.; M. C. Fregni, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e tassazione, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2014, I, 210 ss.; A. Giovannini,
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contrasto tra la disciplina italiana in tema di concorso di norme sanzionatorie amministrative e penali tributarie ed il principio ne bis in idem, ossia il divieto di perseguire o condannare “penalmente” un soggetto per una violazione per la quale sia già stato assolto o condannato con sentenza definitiva da un giudice dello stesso Stato, sancito dall’art. 4, par. 1 (2), del
Il ne bis in idem per la Corte EDU e il sistema sanzionatorio tributario domestico, in Rass. trib., 2014, 1164 ss.; Id., Le sanzioni per omesso versamento dell’IVA davanti alla Corte di Giustizia, in Corr. Trib., 2016, 439 ss.; Id., Il principio del ne bis in idem sostanziale, in Aa. Vv., Trattato di diritto sanzionatorio tributario, doganale e valutario, a cura di A. Giovannini, E. Marzaduri, A. Di Martino, Tomo 1, Milano, 2016, 1265 ss.; E. M. Mancuso, Ne bis in idem e giustizia sovranazionale, in A. Giarda, A. Perini, G. Varraso, La nuova giustizia penale tributaria, Padova, 2016, 533 ss.; C. Mauro, The Concept of Criminal Charges in the European Court of Human Rights Case Law, in AA. VV., Taxation and Human Rights in Europe and the World, a cura di G. Kofler, M. Poiares Maduro, P. Pistone, Amsterdam, 2011, 467 s.; F. Pepe, Sistema sanzionatorio tributario e ne bis in idem cedu: la dimensione antropologica di un (irriducibile?) conflitto, in Riv. dir. trib., 2015, I, 490 ss.; P. Piantavigna, Il divieto di “cumulo” dei procedimenti tributario e penale, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2015, II, 44 ss.; M. Pierro, L’uso premiale delle sanzioni tributarie e la crisi del principio di specialità, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 679 ss.; A. Poddighe, Il divieto di bis in idem tra procedimento penale e procedimento tributario secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: il caso Nykànen v. Finland e le possibili ripercussioni sul sistema repressivo tributario interno, in Riv. dir. trib., 2014, IV, 104 ss.; C. Sacchetto, Sanzioni tributarie e CEDU, in Rass. trib., 2015, 483 ss.; C. Santoriello, Carta dei Diritti dell’Uomo e mancato pagamento delle imposte in sede penale e amministrativa, ivi, 2014, 1656 ss.; C. Sanvito, Principio di specialità e divieto di un secondo giudizio nei reati tributari: recenti evoluzioni della giurisprudenza italiana e della CEDU, in Riv. dir. trib., 2015, II, 23 ss.; E. A. Sepe, Ne bis in idem: in attesa di soluzione tra Corte di Giustizia e legislatore nazionale, in il fisco, 2016, 4448 ss.; A. Vallini, Il principio di specialità, in Aa. Vv., Trattato di diritto sanzionatorio tributario, doganale e valutario, cit., 267 ss.; M. Villani, La giustizia tributaria tra esigenze pratiche e vincoli di diritto interno ed europeo del “giusto processo”, in Dir. Prat. Trib., 2016, I, spec. 1034 ss.; G. Vinciguerra, Il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte EDU, in Dir. prat. trib., 2015, II, 348 ss.; Id., A proposito del divieto di doppio giudizio nel caso di concorso formale fra illeciti, ibidem, 2015, 1103 ss.; C. Zaccone, F. Romano, Il concorso tra sanzioni penali e sanzioni amministrative: le fattispecie di cui agli artt. 185 e 187-ter, TUF alla luce di una recente sentenza della Corte di Strasburgo, in Riv. dir. trib., 2014, III, 147 ss. (2) Nei testi ufficiali inglese e francese: “No one shall be liable to be tried or punished again in criminal proceedings under the jurisdiction of the same State for an offence for which he has already been finally acquitted or convicted in accordance with the law and penal procedure of that State” e “Nul ne peut être poursuivi ou puni pénalement par les juridictions du même État en raison d’une infraction pour laquelle il a déjà été acquitté ou condamné par un jugement définitif conformément à la loi et à la procédure pénale de cet État”. Tuttavia, ciò non impedisce la riapertura del processo, secondo la disciplina di detto Stato, se vi sia la prova di fatti nuovi o scoperti in seguito, o se vi sia stato un vizio fondamentale del procedimento, quando ciò possa inficiare la decisione (secondo T. Rafaraci, Ne bis in idem, in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2010, 859, nota 12 e Corte cost., 31 maggio/21 luglio 2016, n. 200, ciò è consentito anche in malam partem e non solo, come nell’ordinamento italiano, per la revisione delle sentenze di condanna).
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protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora innanzi CEDU), nonché dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (d’ora innanzi Carta UE) (3). Il problema nasce dall’indirizzo della Corte EDU secondo il quale la “materia penale”, ai fini non solo del divieto di bis in idem ma anche delle altre regole convenzionali, va individuata in base ai c.d. criteri Engel (4) e pertanto ricomprende non solo i procedimenti e le sanzioni considerati “penali” da ciascun ordinamento, ma tutte le misure con funzione afflittiva e deterrente (che d’ora innanzi chiamerò “afflittive”), restandone escluse solo quelle risarcitorie. Questa interpretazione estensiva, rispetto alle parole usate nelle Convenzioni, appare giustificata dalla necessità di vagliare secondo criteri omogenei gli ordinamenti dei diversi Stati aderenti alla CEDU e di evitare la possibilità per questi di sottrarsi ai loro impegni mediante la qualificazione come sanzioni amministrative di misure sostanzialmente equivalenti a quelle penali (5). Riguardo al principio ne bis in idem, questa interpretazione giurisprudenziale (6) comporta che, se un certo comportamento può essere oggetto
(3) Ai sensi del quale “Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”. Come è noto, l’art. 52 par. 3 della Carta UE stabilisce che il significato e la portata dei diritti da essa previsti, se corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, sono uguali a quelli conferiti da quest’ultima. Si è tuttavia osservato in dottrina che Corte di Giustizia UE, 26 febbraio 2013, C-617/10, Aklagaren c. Hans Åkerberg Fransson, senza richiamare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora innanzi Corte EDU), ha dato dell’art. 50 della Carta UE un’interpretazione autonoma (si v. A. Pisapia, M. Piazza, Riflessioni sul principio del ne bis in idem alla luce delle recenti pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea, in Cass. pen., 2013, 3272 B ss., i quali peraltro collegano questa autonomia alla mancata recezione del prot. n. 7 alla CEDU da parte di tutti gli Stati UE, argomento emerso semmai nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Pedro Cruz Villalòn, non espressamente condivise dalla Corte di Giustizia; cfr. anche G. Di Federico, La possibilità di cumulare sanzioni penali e fiscali ai sensi dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cit., 1185 ss.). (4) Cfr. Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel e a. c. Olanda, ric. nn. 5100/71, 5101/71, 5102/71, 5354/72, 5370/72 e la successiva giurisprudenza la quale, per considerare “penale” una sanzione ai fini degli obblighi convenzionali, ritiene sufficiente che sia così qualificata dal diritto nazionale, ma in mancanza utilizza criteri basati sulla natura della violazione o sul grado di severità della misura (includendovi pure quelle solo pecuniarie). (5) Cfr. per tutti riguardo al rischio di “truffa delle etichette” G. Flora, Ne bis in idem “europeo” e sistema sanzionatorio tributario, cit., p. 1004. (6) Da ultimo, in materia tributaria, Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, ric. n. 24130/11 e 29758/11, spec. par. 112 ss.
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sia di un giudizio penale, sia di uno per l’applicazione di sanzioni amministrative afflittive, sia permesso procedervi separatamente, ma la conclusione in via definitiva di uno impedisca di iniziare o proseguire qualsiasi altro processo nei confronti del trasgressore per giudicare fatti sostanzialmente identici (7). Sono consentite solo procedure strettamente connesse alla prima dal punto di vista sostanziale e temporale, perché intese ad applicare ulteriori misure riconducibili ad un unico trattamento sanzionatorio e fondate sulla condanna già disposta (o almeno presupponendola), senza un autonomo esame della violazione o del comportamento (8). L’effetto bloccante del primo giudizio definitivo, rispetto a giudizi indipendenti su fatti sostanzialmente identici, prescinde dal contenuto della prima decisione, dunque opera pure se, p. es., si tratti di un’assoluzione in sede penale basata su un accertamento fattuale che giustificherebbe però l’applicazione di sanzioni amministrative. Conviene ricordare inoltre come il quadro sia complicato da un indirizzo ancora più recente della Corte EDU, dedotto dalla presunzione di innocenza di cui all’art. 6, par. 2, CEDU (9): a tutela dell’onore e della
(7) Detta garanzia vieta non solo di condannare, ma pure di processare e di considerare ancora perseguibile a causa di una certa condotta chi abbia già subito per “fatti identici o sostanzialmente uguali” un procedimento ormai chiuso con decisione definitiva: cfr. in materia tributaria, da ultimo, Corte EDU, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, cit., par. 110, nel senso che l’art. 4 del prot. n. 7 “is not only confined to the right not to be punished twice but extends also to the right not to be prosecuted or tried twice” in quanto “contained three distinct guarantees and provided that, for the same offence, no one should be (i) liable to be tried, (ii) tried, or (iii) punished”. (8) Cfr. Corte EDU, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, cit., par. 130 ss., la quale comunque richiede che tale meccanismo sia giustificato dall’interesse all’efficiente e corretta amministrazione della giustizia ed escluda pregiudizi sproporzionati, dovuti a incertezze e ritardi, per i trasgressori. Detta sentenza sottolinea inoltre l’esigenza che: la seconda sanzione, alla luce del principio di proporzionalità, sia determinata tenendo conto di quella già inflitta, in modo da evitare una sofferenza eccessiva; la duplicità di procedure sia prevedibile dal trasgressore come conseguenza della sua condotta; siano evitate duplicazioni nell’acquisizione e valutazione delle prove, attraverso un coordinamento tra gli organi procedenti che porti alla coerenza tra gli accertamenti dei fatti. Già Corte EDU, 20 maggio 2014, Nykànen c. Finlandia, ric. n. 11828/11, aveva chiarito che il secondo provvedimento sanzionatorio, di competenza di un’autorità diversa, deve essere consequenziale al giudicato formato nell’altro processo, affinché si possa considerare così inestricabilmente collegato a quest’ultimo da far apparire le sanzioni come se fossero adottate in un unico procedimento, mentre il ne bis in idem è violato se “tax penalties had been imposed following an examination of an applicant’s conduct and his or her liability under the relevant tax legislation, which was independent from the assessments made in the criminal proceedings”. (9) Per la quale “Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando
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dignità di chi sia stato assolto o prosciolto in sede penale (o abbia beneficiato comunque di un “abandon des poursuites”) è proibito alle pubbliche autorità trattarlo come se invece fosse colpevole del reato di cui era stato accusato. Di conseguenza, sarebbe vietato ad altri giudici, laddove debbano pronunciarsi su una sanzione amministrativa afflittiva, inflitta per la stessa condotta cioè per una violazione avente gli stessi elementi costitutivi del reato già escluso nel processo penale, decidere in contrasto con detto accertamento di innocenza, in particolare apprezzando i fatti in modo differente (10). Di contro, nel nostro sistema, per interpretazione consolidata dell’art. 654 c.p.p., considerate le limitazioni probatorie operanti nel processo tributario, gli elementi provenienti da quello penale sono utilizzabili dalle commissioni tributarie secondo il principio del libero convincimento, escludendosi un’efficacia vincolante delle decisioni, tanto di condanna quanto di assoluzione (11). 1.2. Le prime reazioni della nostra giurisprudenza di vertice e del legislatore. – Non c’è bisogno di ricordare come la disciplina italiana di cui agli artt. 19 ss., d.lgs. 74/2000 (considero qui solo le violazioni in materia di imposte sul reddito e iva) si preoccupi bensì di non far subire allo stesso soggetto, per la medesima condotta, sanzioni sia penali, sia amministrative (12), ma in caso di emersione di una notitia criminis preveda lo svolgimento di procedimenti autonomi, senza stabilire che il primo a chiudersi impedisca ogni altro giudizio sulla stessa condotta. Inoltre (invero, sul piano pratico, su questo tema si è concentrata la maggiore attenzione), secondo la giurisprudenza dominante, laddove concorrano le violazioni amministrative di omesso o insufficiente versamento ex art. 13, d.lgs. 471/1997 ed i reati in materia di versamenti ex artt. 10-bis,
la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”. (10) Cfr. Corte EDU, 30 aprile 2015, Kapetanios e a. c. Grecia, ric. nn. 3453/12, 42941/12, 9028/13, par. 82 ss. e Corte EDU, 9 giugno 2016, Sismanidis e Sitaridis c. Grecia, ric. nn. 66602/09 e 71879/12, che hanno ritenuto in contrasto con l’art. 6 CEDU l’irrogazione di sanzioni amministrative per evasione di dazi a soggetti già assolti in sede penale dall’accusa di contrabbando per i medesimi fatti. (11) Si permetta il rinvio a R. Schiavolin, I rapporti tra accertamenti, in AA. VV., Trattato di diritto sanzionatorio tributario, doganale e valutario, cit., 1115 ss. (12) Imponendo, laddove uno stesso fatto sia previsto sia dalle norme incriminatrici di detto d.lgs., sia da disposizioni che comminino sanzioni amministrative, di individuare tra le due la regola speciale, la quale sarà l’unica applicabile.
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10-ter e 10-quater, d.lgs. 74/2000, tra le rispettive previsioni non intercorrerebbe un rapporto di specialità ma di progressione illecita, e quindi sarebbero applicabili entrambi i tipi di sanzioni (13). I giudici di Strasburgo non hanno ancora esaminato la normativa italiana in tema di sanzioni tributarie, ma hanno già applicato i “criteri Engel” per pronunciarsi su quelle di altri Stati (14). Riguardo all’ordinamento italiano, la consapevolezza del problema è emersa quando la Corte EDU ha considerato contraria all’art. 4 del prot. n. 7 (15) la disciplina sanzionato-
(13) Da ultimo si v. Cass. pen., Sez. III, 15 maggio 2014, n. 20266; Cass. pen., Sez. III, 11 maggio 2015, n. 19334 (pur dubitando della compatibilità con la normativa eurounitaria: v. infra, nota 60); Cass. pen., Sez. III, 21 aprile 2016, n. 25815, le quali si rifanno a Cass. pen., S. U., 28 marzo 2013, n. 37424, e Cass. pen., S. U., 28 marzo 2013, n. 37425, le quali nel risolvere un contrasto riguardo all’applicabilità degli artt. 10- bis e 10-ter, d.lgs. 74/2000 a fattispecie in cui il termine di versamento fosse scaduto prima dell’entrata in vigore di essi, hanno superato l’indirizzo (cfr. Cass. pen., Sez. III, 8 febbraio 2012, n. 18757) il quale affermava la “sostanziale identità” delle condotte punite come violazioni amministrative e come reato, considerando la diversità dei termini di adempimento come “un dato estrinseco alla condotta omissiva”. Ottimisticamente, le S.U. penali ritenevano questo risultato interpretativo compatibile con l’art. 4 del prot. n. 7 e l’art. 50 della Carta UE, desumendo da Corte di Giustizia UE, 26 febbraio 2013, C-617/10, cit., la riferibilità del principio ne bis in idem solo ai procedimenti penali. (14) Cfr. Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia, ric. n. 73053/01; Corte EDU, 16 giugno 2009, Ruotsalainen c. Finlandia, ric. n. 13079/03; Corte EDU, 20 maggio 2014, Nykànen c. Finlandia, cit.; Corte EDU, 20 maggio 2014, Glantz c. Finlandia, ric. n. 37394/11; Corte EDU, 20 maggio 2014, Häkkä c. Finlandia, cit.; Corte EDU, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, ric. n. 7356/10, in Corr. trib., 2015, pp. 905-913, con nota di A. Giovannini, La Corte EDU ribadisce il divieto di doppia sanzione e la Cassazione rinvia alla Consulta; e in Rass. trib., 2014, 1168 ss, con nota di ID., Il ne bis in idem per la Corte EDU e il sistema sanzionatorio tributario domestico; Corte EDU, 27 gennaio 2015, Rinas c. Finlandia, ric. n. 17039/13, in Riv. trim. dir. trib., 2015, 755 ss., con nota di M. Bolognese, Il divieto del cumulo di sanzioni nell’ordinamento internazionale, cit.; Corte EDU, 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia, ric. n. 53753; Corte EDU, 10 febbraio 2015, Österlund c. Finlandia, ric. n. 53197/13; infine, in base ad un riesame complessivo che sembra segnare la formazione di un indirizzo consolidato, Corte EDU, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, cit.. (15) Cfr. Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia, ric. nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10, 18698/10, sulla quale si v. per tutti A. Alessandri, Prime riflessioni sulla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo con riguardo alla disciplina italiana degli abusi di mercato, in Giur. comm., 2014, 855 ss.; I. Caraccioli, La progressiva assimilazione tra sanzioni penali e amministrative e l’inevitabile approdo al principio ne bis in idem, in Il fisco, 2014, 2374 ss.; S. M. Carbone, Mercato, sanzioni e processo dopo la sentenza cedu del 4 marzo 2014, in Dir. Commercio Internaz., 2015, 931 ss.; F. D’Alessandro, Tutela dei mercati finanziari e rispetto dei diritti umani fondamentali, in Dir. Pen. e Processo, 2014, 614 ss.; G. De Amicis, Ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza “Grande Stevens” nell’ordinamento italiano, in Dir. pen. contemp. - Riv. trim., 2014, 3-4, 201 ss.; M. O. Di Giuseppe, Il ne bis in idem alla luce degli effetti della
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ria (16) del t.u. in materia di intermediazione finanziaria (artt. 185 ss. d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) (17). Detto contrasto non è parso alla Corte di Cassazione superabile tramite un’interpretazione adeguatrice alla CEDU, sicché essa ha sollevato dapprima questione di illegittimità costituzionale degli artt. 187-bis, co. 1 e 187-ter, co. 1, d.lgs. 58/1998, in relazione all’art. 117 Cost. (18) e, dopo il rigetto di quest’ultima, questione pregiudiziale avanti la Corte di Giustizia UE, chiedendo se l’art. 50 della Carta UE,
sentenza “Grande Stevens”, in Rass. trib., 2014, 1440 ss.; G. M. Flick, V. Napoleoni, A un anno di distanza dall’affaire Grande Stevens: dal bis in idem all’e pluribus unum ? , in Riv. Soc., 2015, 868 ss.; B. Lavarini, Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem: la crisi del “doppio binario” sanzionatorio, in Dir. Pen. e Processo, 2014, 12 – Suppl., 82; A. Pisapia, M. Piazza, Riflessioni sul principio del ne bis in idem alla luce delle recenti pronunce della corte di giustizia dell’unione europea, in Cass. pen., 2013, 3272 B ss.; F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso un’applicazione dell’art. 50 della Carta ?, in Dir. pen. contemp. - Riv. trim., 2014, 3-4, 219 ss.; G. Vinciguerra, Il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 337 ss.; C. Zaccone, F. Romano, Il concorso tra sanzioni penali e sanzioni amministrative: le fattispecie di cui agli artt. 185 e 187-ter, TUF alla luce di una recente sentenza della Corte di Strasburgo, in Riv. dir. trib., 2014, III, 147 ss. (16) Questa, diversamente dalla disciplina tributaria, sul piano sostanziale prevede un cumulo di sanzioni amministrative e penali per il c.d. “market abuse”, previste rispettivamente dagli artt. 185 e 187-ter, d.lgs. 58/1998, ma è stata considerata contraria all’art. 4 del prot. n. 7 in quanto ammette una duplicazione di procedure per applicare dette sanzioni. (17) Come è noto, detta disciplina è stata adottata in attuazione della normativa europea, recentemente modificata da due atti del Parlamento europeo e del Consiglio, entrambi del 16 aprile 2014, cioè il Regolamento (UE) N. 596/2014 (il quale permette, ma non impone agli Stati membri di stabilire sia sanzioni amministrative, sia sanzioni penali per le stesse infrazioni, se il loro diritto nazionale lo consente: cfr. il “considerando” n. 72) e la Direttiva 2014/57/UE. La disciplina del t.u. sull’intermediazione finanziaria, da ultimo, è stata modificata dal d.lgs. 18 aprile 2016, n. 71 in attuazione della Dir. 2014/91/UE, ma non vi è esplicitamente regolato un meccanismo tale da assicurare il rispetto dell’art. 4 del prot. n. 7. Peraltro, nel “considerando” n. 23 della Dir. 2014/91/UE si afferma che “nell’applicare la normativa nazionale di recepimento della presente direttiva, gli Stati membri dovrebbero garantire che l’irrogazione di sanzioni penali per i reati ai sensi dalla presente direttiva e di sanzioni amministrative ai sensi del regolamento (UE) n. 596/2014 non violi il principio del ne bis in idem” e nel “considerando” n. 27 si assicura che “La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” e “dovrebbe essere applicata con il dovuto rispetto”, tra gli altri, “del diritto di non essere giudicato o punito due volte in procedimenti penali e per lo stesso reato” di cui all’art. 50 di quest’ultima (cfr. per tutti P. Sorbello, Il bis in idem nell’ordinamento penale italiano. Dal market abuse al diritto sanzionatorio tributario, in Dir. pen. contemp. - Riv. trim., 2015, 3, 83 ss.). (18) Dichiarata inammissibile, per difetto di rilevanza e perplessità della motivazione sulla non manifesta infondatezza, da Corte Cost., 8 marzo/12 maggio 2016, n. 102 (sulla quale si v. F. Polegri, Il principio del ne bis in idem al vaglio della Corte costituzionale: un’occasione persa, in Giur. It., 2016, n. 7, 1711 ss.).
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interpretato alla luce dell’art. 4 del prot. n. 7, osti alla possibilità di svolgere un procedimento amministrativo sanzionatorio per un fatto riguardo al quale lo stesso soggetto abbia riportato condanna penale irrevocabile e se il giudice nazionale possa applicare direttamente i principi del diritto UE sul punto (19). La nostra giurisprudenza ha seguito percorsi simili con riferimento alla disciplina sanzionatoria tributaria, senza giungere a superare i paventati contrasti con gli obblighi convenzionali. La Corte di cassazione, in un processo per il reato di omesso versamento dell’iva di cui all’art. 10 ter, d.lgs. 74/2000, ha escluso che la definitiva irrogazione di sanzioni amministrative ex art. 13, d.lgs. 471/1997 renda applicabile il divieto di un secondo giudizio ex art. 649 c. p. p., considerando rilevanti ai fini di quest’ultima disposizione solo altri giudizi penali (20). La Corte Costituzionale ha restituito gli atti, per una nuova valutazione della rilevanza della questione alla luce della riforma recata dal d.lgs. 158/2015 (21), al Tribunale di Bologna, che aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, co. primo, Cost., dell’art. 649 c.p.p. laddove non vieta un secondo giudizio quando all’imputato (nel caso di specie, ex art. 10-ter, d.lgs. 74/2000) sia già stata comminata per il medesimo fatto una sanzione amministrativa avente natura penale ai sensi della CEDU. Quanto alla Corte di Giustizia UE, dopo la dichiarazione di inammissibilità di una questione pregiudiziale interpretativa dell’art. 50 della Carta UE, relativa a sanzioni per omesso versamento di ritenute, in quanto materia estranea alla sfera di applicazione del diritto europeo (22), è stata investita da analoga domanda, relativa però a versamenti dell’iva (23). Quanto al legislatore, esso non ha colto l’occasione della riforma del sistema sanzionatorio di cui al d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (24) per
(19) Cfr. Cass., sez. Trib., Ord. 20 settembre/13 ottobre 2016, n. 20675. (20) Cfr. Cass. pen., sez. III, 21 aprile/22 giugno 2016, n. 25815. (21) Corte Cost., 8 marzo/20 maggio 2016, n. 112. (22) Cfr. Corte di Giustizia UE, ord. 15 aprile 2015, C-497/14, Burzio. (23) Tribunale di Bergamo, Ord. 1 ottobre 2015, in causa C-524/15. (24) In sede di relazione illustrativa dello schema di decreto, comunque, non si è nemmeno accennato all’esistenza del problema e nell’allegata analisi tecnico-normativa, al punto 14 (pur intitolato “Indicazioni delle linee prevalenti della giurisprudenza ovvero della pendenza di giudizi innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo sul medesimo o analogo oggetto”), si è dichiarato semplicemente “Non risulta che vi siano pendenti dinnanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo giudizi nelle medesime o analoghe materie”.
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cercare di adattare all’indirizzo della Corte EDU le norme attuali, p. es. mediante un efficace collegamento tra le procedure, con doveri informativi imposti all’amministrazione finanziaria ed al p.m. e doveri di sospensione idonei ad assicurare l’attuazione sia del principio di specialità, sia della disciplina CEDU. Le modifiche apportate sembrano idonee soltanto a ridurre la frequenza dei contrasti, restringendo l’area dei comportamenti suscettibili di sanzione penale mediante l’innalzamento delle soglie di punibilità, una definizione più circoscritta di alcune fattispecie criminose, l’effetto estintivo per alcuni reati del pagamento dei debiti tributari. Il problema di principio, insomma, non è venuto meno. La nostra prevalente dottrina non mette in discussione la posizione della Corte EDU e dà per evidente il contrasto della disciplina italiana con il divieto di assoggettare un soggetto a ripetuti giudizi su una sua condotta ai fini dell’applicazione di misure rientranti nella suddetta “materia penale”: si invoca perciò un adeguamento alla regola convenzionale, tramite una dichiarazione di illegittimità costituzionale o di incompatibilità con il diritto europeo delle disposizioni vigenti, ovvero attraverso un’interpretazione degli artt. 649 e 669 c.p.p. e dell’art. 46, d.lgs. 546/1992 che li renda applicabili a questi casi (25). Tuttavia, se operasse semplicemente nel nostro sistema, senza adattamenti, la regola per la quale la definizione di un processo comporta estinzione dell’altro, nell’ipotesi (a prima vista normale, e comunque realizzabile dall’interessato tramite la rinuncia all’impugnazione) in cui diventino definitive prima le sanzioni amministrative, si avrebbe impunità del trasgressore su entrambi i versanti, perché il giudizio penale si chiuderebbe con decisione di non luogo a procedere in forza del ne bis in idem, e quelle sanzioni non si potrebbero riscuotere per la mancanza di un accertamento dell’irrilevanza penale del fatto. Pasquale Russo ha appunto posto in luce che un mero trapianto di quel principio nel sistema attuale produrrebbe risultati irragionevoli e quindi occorrerebbe almeno inserirlo nel contesto di una riforma più ampia (26).
(25) Cfr. per queste ultime interpretazioni A. Giovannini, Il ne bis in idem per la Corte EDU e il sistema sanzionatorio tributario domestico, cit., 1179 ss. Peraltro, secondo Corte Cost., n. 102/2016, spetta “innanzitutto al legislatore stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che tale sistema genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU”. (26) Cfr. P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem, cit., p. 34 ss. Altri paventa una “implosione del sistema” (A. Carinci, Il principio di specialità nelle
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Questo esempio di indipendenza da un pensiero maggioritario incline a perseguire semplicemente l’espansione delle garanzie previste dal sistema della Cedu (27), questo richiamo alla necessità di non dare nulla per scontato anche laddove si tratti di diritti fondamentali, si rivela in armonia con le posizioni espresse recentemente dalla nostra Corte Costituzionale. Questa infatti riconosce che spetta ai giudici di Strasburgo interpretare la Cedu, ma se nuovi orientamenti appaiano non convincenti si deve ricorrere al “dialogo tra Corti” per invitarli a riconsiderarli, e comunque nell’adattare l’ordinamento interno agli obblighi convenzionali va operato un bilanciamento con gli altri interessi costituzionalmente protetti (v. amplius infra, par. 4) (28). La più recente giurisprudenza della stessa Corte EDU,
sanzioni tributarie: tra crisi del principio e crisi del sistema, cit., 514) o prospetta “implicazioni sistematiche a dir poco dirompenti” tali da produrre un “collasso logico-sistematico” (F. Pepe, Sistema sanzionatorio tributario e ne bis in idem cedu, cit., 523 ss.). (27) Ancorché ciò corrisponda alla tendenza seguita dalla Corte EDU nella sua opera interpretativa: si v., in tema di identificazione della “materia penale”, Corte EDU, 10 febbraio 2009, Sergey Zolotukhin c. Russia, ric. n. 14939/03, secondo la quale “L’approche qui privilège la qualification juridique des deux infractions est trop restrictive des droits de la personne”, e “risque d’affaiblir la garantie consacrée par l’article 4 du Protocole 7 et non de la rendre concrète et effective comme le requiert la Convention”. (28) La nostra Corte Costituzionale, pur riconoscendo di non poter sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella della Corte di Strasburgo, per non violare “un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l’apposizione di riserve, della Convenzione”, rivendica a sé stessa la funzione di realizzare un “ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali … e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione” al fine di “evitare che l’espansione di una singola tutela finisca con l’incidere altri diritti fondamentali” (Corte Cost., 19/28 novembre 2012, n. 264, riguardante la norma interpretativa dell’art. 1, co. 777, l. 296/2006 riguardante le pensioni spettanti a chi avesse lavorato in Svizzera, considerata da Corte EDU, 31 maggio 2011, Maggio e altri c. Italia, ric. nn. 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08, contraria all’art. 6, par. 1, CEDU perché l’esigenza di equilibrio del sistema pensionistico non sarebbe stata abbastanza impellente da autorizzare il legislatore a sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie, mentre Corte Cost., n. 264/2012 l’ha ritenuta conforme all’art. 117 Cost. tenendo conto del bilanciamento tra obblighi internazionali ed interessi costituzionalmente protetti, nella specie prevalenti sull’esigenza di certezza del diritto). Peraltro, più recentemente la Corte Costituzionale ha ricordato che l’efficacia delle sentenze dei giudici di Strasburgo (a parte i casi di “sentenze pilota”) è limitata alla controversia decisa, e precisato come i giudici italiani, nell’applicare la CEDU, si dovrebbero conformare solo ad un “diritto consolidato” mentre “nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo”: si v. Corte Cost., 26 marzo 2015, n. 49, sulla quale cfr. G. Martinico, Corti costituzionali (o supreme) e “disobbedienza funzionale”, in Dir. pen. contemp. - Riv. trim., 2015, 2, 303 ss.; D. Pulitanò, Due approcci opposti sui rapporti fra Costituzione e CEDU in materia penale. Questioni
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del resto, appare più aperta all’apprezzamento della ragionevolezza delle singole normative, anche per evitare interpretazioni che consentano al trasgressore di abusare del principio per conseguire l’impunità (29). Ciò mi incoraggia a tentare a mia volta qualche riflessione sul problema, anche per verificare possibili ambiti di compatibilità tra la vigente disciplina italiana e quel divieto di double jeopardy. 2. La disciplina degli artt. 19 ss. del d.lgs. 74/2000 di fronte agli indirizzi della Corte EDU. – Si può, in primo luogo, dare per scontato che le violazioni e sanzioni amministrative in materia tributaria rientrino nella “materia penale” ai fini dell’art. 4 del prot. n. 7, come interpretato dalla Corte EDU alla luce dei criteri Engel (30). Semmai, per amore di verità e non solo di Patria, occorre ricordare come l’Italia avesse formulato una dichiarazione interpretativa all’atto di aderire a detto protocollo, accettando di esserne vincolata solo con riferimento alle sanzioni considerate penali dal nostro ordinamento. Benché la sentenza Grande Stevens abbia considerato detta dichiarazione inefficace, l’Italia almeno non dovrebbe essere posta tra gli Stati non rispettosi dei loro impegni internazionali solo per aver legiferato trascurando quell’indirizzo giurisprudenziale. Ma di ciò conviene trattare nel par. 5, dopo aver esaminato i profili di contrasto di detta normativa con il divieto convenzionale. Orbene, ai sensi degli artt. 19 ss., d.lgs. 74/2000, qualora uno stesso fatto sia previsto tanto da una disposizione incriminatrice di cui al titolo II di detto decreto, quanto da una norma sanzionatoria amministrativa, se ne deve applicare una sola, individuata in base al criterio della specialità. Tuttavia, gli uffici fiscali debbono comunque irrogare le sanzioni amministrative anche per condotte riguardo alle quali ritengano di dover presentare denuncia
lasciate aperte da Corte cost. n. 49/2015, ibidem, 318 ss.; A. Ruggeri, Fissati nuovi paletti alla Consulta a riguardo del rilievo della CEDU in ambito interno, ibidem, 325 ss.; F. Viganò, La consulta e la tela di Penelope, ibidem, 333 ss.; S. Sonelli, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e giudici nazionali nella giurisprudenza «trial and error» della Corte costituzionale, in Riv. Dir. Internaz., 2015, 1155 ss. (29) Cfr. Corte EDU, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, cit., par. 127 e, a conferma del mutamento di prospettiva, l’opinione dissenziente del giudice Paulo Pinto de Albuquerque. (30) Cfr. per tutti A. Giovannini, Il principio del ne bis in idem sostanziale, in AA. VV., Trattato di diritto sanzionatorio tributario, doganale e valutario, cit., 1270 ss.; C. Sacchetto, Sanzioni tributarie e CEDU, cit., 496; A. Carinci, Il principio di specialità nelle sanzioni tributarie: tra crisi del principio e crisi del sistema, cit., 514.
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penale. In quest’ultimo caso, da un lato, se il provvedimento di irrogazione è impugnato, il processo tributario non può essere sospeso per la pendenza di quello penale, sicché potrebbe arrivare al giudicato prima di questo; dall’altro lato, le sanzioni amministrative non possono essere eseguite nei confronti del trasgressore, tranne quando dalla sentenza penale definitiva risulti che il fatto non è penalmente rilevante (ossia, secondo l’opinione prevalente, manchino gli elementi specializzanti propri del reato) (31): sicché, non rientrando esso nella previsione della norma incriminatrice, non v’è nemmeno il presupposto per l’operare del principio di specialità (32). Non è invece inibita, ai sensi dell’art. 19, comma 2, d.lgs. 74/2000, la riscossione in capo al contribuente, se quest’ultimo sia un soggetto diverso (come quando il trasgressore ha agito in qualità di suo rappresentante), non concorrente nel reato e obbligato al pagamento ex art. 11, d.lgs. 472/1997 (33). Dunque, la nostra disciplina è per certi aspetti più favorevole ai trasgressori, laddove prevede un meccanismo di concorso apparente di norme da risolvere in base al principio di specialità, rispetto al sistema della CEDU, ammettendo quest’ultimo un cumulo di sanzioni amministrative e penali, purché coordinate in modo da non comportare un peso eccessivo. Essa però non garantisce il ne bis in idem riguardo alle procedure, come preteso dalla Corte EDU, giacché non obbliga a chiudere ogni ulteriore processo in seguito al formarsi di una decisione definitiva, né, salva la possibilità di osmosi probatoria (34), vincola il giudizio delle commissioni tributarie agli accertamenti fattuali contenuti nel giudicato penale (come prevedeva l’abrogato art. 12, d.l. 429/1982). Varie discipline straniere nelle quali le sanzioni amministrative erano irrogate in base ad un esame della condotta e della responsabilità del
(31) Cfr. per tutti P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem, cit., 26 s. (32) Cfr. P. Russo, op. loc. ult. cit. Coerentemente con detto principio, per converso, la sanzione amministrativa non è applicabile quando il fatto sia penalmente rilevante ma non vi sia condanna perché, p. es., il reato è prescritto. (33) Come è noto, l’art. 7, d.l. 269/2003 pone esclusivamente a carico delle persone giuridiche le sanzioni amministrative relative a rapporti fiscali ad esse propri. L’art. 16, d.lgs. 158/2015, nel modificare l’art. 11, d.lgs. 472/1997, non ha colto l’occasione per un coordinamento tra le due discipline, lasciando anzi il preesistente riferimento ai soggetti “con o senza personalità giuridica” tra quelli “obbligati solidalmente al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata” per le violazioni commesse nel loro interesse. In assenza di una chiara volontà normativa di intervenire sulla regola dell’art. 7, d.l. 269/2003, mi sembra preferibile ritenerla ancora in vigore. (34) Si permetta il rinvio a R. Schiavolin, I rapporti tra accertamenti, cit., 1115 ss.
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trasgressore indipendente dall’accertamento compiuto nel processo penale sono state considerate dalla Corte EDU in contrasto con l’art. 4 del prot. n. 7 (35). Essa, in una prima fase, è sembrata dare carattere assoluto e inderogabile al diritto di un soggetto a “non essere più disturbato per gli stessi fatti” (36), ma da ultimo ha valutato se una successione di procedimenti sia giustificata sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità, alla luce degli interessi perseguiti e rispettando l’essenza del ne bis in idem come divieto di ripetere un giudizio sulla stessa condotta. Finora, essa ha esaminato discipline ove sanzioni amministrative e penali si cumulavano come aspetti di un complessivo trattamento punitivo; di fronte ad un sistema diverso (anche dalla disciplina presa in considerazione dalla sentenza Grande Stevens), come quello risultante dalla nostra normativa in materia di violazioni tributarie, dovrà dunque effettuare un’analisi autonoma. Come è noto, la Corte EDU si deve pronunciare sulla lesione in singoli casi concreti di diritti garantiti dal sistema CEDU, non su questioni astratte di compatibilità con esso di norme statali (pur potendo ricorrere alla “procedura di sentenza pilota” quando le violazioni discendano da problemi strutturali dell’ordinamento giuridico nazionale). In questa sede, però, occorre affrontare la questione da un punto di vista astratto, valutando se la nostra disciplina sia davvero tale da comportare violazioni sistematiche dell’art. 4 del prot. n. 7. In primo luogo, non mi sembra possibile risolvere il problema in base ad un generico inquadramento di dette regole nella logica del “doppio binario”, alla luce del divieto di sospendere sia il processo penale, sia il procedimento e il processo tributario, nonché del carattere non vincolante per le commissioni tributarie degli accertamenti di fatto contenuti nel giudicato penale. Certo l’ufficio tributario ha il potere di determinare la sanzione amministrativa, e la cognizione, da un lato sul reato, dall’altro sulle violazioni amministrative, spetta ai rispettivi giudici naturali, in ossequio al principio di autonomia delle giurisdizioni. Quindi, la commissione tributaria può pronunciarsi anche su eventuali questioni di illegittimità delle sanzioni amministrative attinenti alla condotta del trasgressore rilevanti
(35) Cfr. Corte EDU, 20 maggio 2014, Nykanen c. Finlandia, cit., par. 51; Corte EDU, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, cit., par. 62; Corte EDU, 10 febbraio 2015, Österlund c. Finlandia, cit. par. 49; Corte EDU, 27 gennaio 2015, Rinas c. Finlandia, cit., par. 54. (36) Cfr. l’opinione dissenziente del giudice Paulo Pinto de Albuquerque a Corte EDU, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, cit., par. 69.
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pure ai fini penali, concernenti p. es. la mancanza di imputabilità o di colpevolezza o la presenza di cause di non punibilità o, dopo le modifiche recate dal d.lgs. 158/2015, l’aggravante per comportamenti fraudolenti: in tali casi, parrebbe sorgere il problema della duplicazione di giudizi sulla stessa condotta proibita dall’art. 4 del prot. n. 7, salvo verificare se si tratti in concreto di fatti identici o sostanzialmente uguali (37) (ma sui criteri per riconoscere tale identità conviene tornare più avanti). Tuttavia, il giudizio delle commissioni tributarie non riguarda necessariamente i comportamenti illeciti, in sé considerati, per i quali siano state irrogate sanzioni amministrative e sia stata presentata denuncia penale. Il giudice tributario, infatti, decide sulle questioni sollevate con il ricorso, e se queste in concreto riguardano soltanto l’an e il quantum dell’imposta dovuta, la determinazione della sanzione amministrativa è meramente consequenziale alla constatazione della differenza rispetto ai dati dichiarati, senza una effettiva valutazione della condotta trasgressiva del soggetto come quella da compiere in sede penale. Mi pare infatti evidente che il giudizio sull’imposta dovuta concerna fatti distinti dal comportamento evasivo (anche, del resto, quando venga effettuato in sede penale, p. es. ai fini delle soglie di punibilità, e comunque non risulta dalla giurisprudenza della Corte EDU alcuna ragione per sottrarre al giudice tributario la cognizione in tale materia). Mi pare emerga da questa riflessione un primo risultato: se i casi di doppia procedura non comportano immancabilmente un doppio giudizio sulla condotta, il sistema dei rapporti tra i procedimenti non provoca di per sé la violazione generalizzata dell’art. 4 del prot. n. 7. Dunque, allo stato la violazione del principio ne bis in idem va dimostrata in concreto, caso per caso. D’altra parte, ciò lascia degli spazi ai giudici per attivare i meccanismi di coordinamento tra processi suggeriti dalla stessa Corte EDU (38) onde
(37) Si fa riferimento all’indirizzo consolidato a partire da Corte EDU, 10 febbraio 2009, Sergey Zolotukhin c. Russia, cit., seguito, in materia di sanzioni tributarie, p. es., da Corte EDU, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, cit.; Corte EDU, 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia, cit.; Corte EDU, 19 febbraio 2015, Hanna Riikka Alasippola c. Finlandia, ric. n. 39771/12. (38) Cfr. Corte EDU, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, cit., par.132, secondo la quale occorrerebbe “… to avoid as far as possible any duplication in the collection as well as the assessment of the evidence, notably through adequate interaction between the various competent authorities to bring about that the establishment of facts in one set is also used in the other set”.
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evitare di violare detta garanzia: p. es., se il giudice tributario acquisisce la sentenza (39) dalla quale risulta la rilevanza penale del fatto, può evitare di pronunciarsi nei confronti del trasgressore (ma non degli altri obbligati) riguardo alle sanzioni amministrative, giacché queste in tal caso non potrebbero comunque essere eseguite. Per la verità, nessuna regola vieta esplicitamente alla commissione tributaria, ai fini della cognizione sulle sanzioni amministrative, di pronunciarsi, in via incidentale, sulla realizzazione di fattispecie di reato, né impedisce il passaggio in giudicato della conseguente sentenza. Tuttavia il legislatore, subordinando, ex art. 21, comma 2, d.lgs. 74/2000, l’esecuzione di tali sanzioni ad una decisione definitiva del giudice penale dalla quale risulti l’irrilevanza penale di quella condotta, in sostanza rimette a detto giudice la soluzione di tale questione. Come ha osservato Pasquale Russo, per questi aspetti “il giudicato penale ha efficacia vincolante rispetto al procedimento e/o al processo tributario … in barba all’autonomia dei rispettivi procedimenti e processi disposta dall’art. 20” (40). Qualche conseguenza ulteriore sembra potersi trarre anche dalla giurisprudenza della Corte EDU che considera contraria alla presunzione di innocenza ex art. 6, par. 2, CEDU, una decisione del giudice tributario la quale affermi nella motivazione l’esistenza di un reato, contraddicendo una sentenza penale assolutoria (41). Non ritengo che questo implichi la reintroduzione parziale (giacché non varrebbe in caso di condanna) dell’abrogato effetto vincolante degli accertamenti fattuali contenuti nel giudicato penale (42), perché la Corte EDU limita la portata di questa garanzia di non contraddizione alle decisioni in materia di sanzioni amministrative
(39) Dovrebbe in effetti essere il ricorrente, a conoscenza della propria condanna penale, ad informarne la commissione tributaria, e ad impugnare per tale motivo la decisione che non ne abbia tenuto conto: la Corte EDU, infatti, nega tutela a chi non abbia utilizzato i rimedi interni idonei a prevenire la violazione del ne bis in idem (cfr. Corte EDU, 20 maggio 2014, Häkkä c. Finlandia, cit., par. 52, con riferimento alla mancata richiesta di revisione del provvedimento sanzionatorio, per la quale i termini erano ancora aperti - sicché non era definitivo, considerando l’impugnabilità dell’eventuale diniego - quando si era chiuso il processo penale; conf. Corte EDU, 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia, cit., par. 47; con riferimento invece alla mancata contestazione della violazione del ne bis in idem davanti al giudice penale, cfr. Corte EDU, 19 febbraio 2015, Hanna Riikka Alasippola c. Finlandia, ric. n. 39771/12, par. 39). (40) Cfr. P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem, cit., 26. (41) Cfr. Corte EDU, 30 aprile 2015, Kapetanios e a. c. Grecia, cit.¸ par. 82 ss.; Corte EDU, 9 giugno 2016, Sismanidis e Sitaridis c. Grecia, cit., par. 57 ss. (42) Mi si permetta il rinvio a R. Schiavolin, L’utilizzazione fiscale delle risultanze penali, Milano, 1994, 555 ss.
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afflittive, ammettendo divergenze, p. es., per le controversie su domande risarcitorie (43). Pertanto, non può esserne inficiata l’applicabilità di regole probatorie diverse per l’accertamento delle imposte e per i reati; comunque, gli esempi finora emersi (44) non mi sembrano comportare la necessità di applicare criteri penalistici ai fini delle sanzioni amministrative (45). Inoltre, la Corte EDU, come conseguenza della violazione dell’art. 6, par. 2, CEDU, si è limitata a riconoscere un’equa riparazione in denaro per la lesione dell’onore del soggetto assolto in sede penale e poi colpito da sanzioni amministrative, considerandosi incompetente ad ordinare l’annullamento della sentenza che aveva confermato queste ultime e lasciando al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, ai sensi dell’art. 46 Cedu, il compito di valutare se le sue sentenze siano state correttamente eseguite dallo Stato membro (46). Date queste premesse, potrebbe ritenersi contrario alla CEDU che la commissione tributaria, dopo una sentenza penale implicante l’irrilevanza del fatto, affermasse la sussistenza del reato e annullasse le sanzioni amministrative (47). Considerando il rilevo conferito dall’art. 21, co. 2, d.lgs. 74/2000 alle decisioni penali rispetto alla pretesa dell’amministrazione finanziaria per
(43) Per una ricognizione dei precedenti che dimostra come il rispetto della presunzione di innocenza sia spesso verificato in base alle parole usate dalla sentenza successiva e come siano ammissibili divergenti valutazioni sui fatti basate su criteri probatori diversi da quelli da applicare in sede penale, cfr. Corte EDU, 12 luglio 2013, Allen c. Gran Bretagna, ric. n. 25424/09, par. 92 ss. (44) Riguardanti, per quanto qui interessa, il contrabbando doganale, il quale, secondo la Corte EDU, sarebbe stato definito dalle regole interne nello stesso modo ai fini penali e delle sanzioni amministrative. (45) Cfr. Corte EDU, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, cit., par. 67, nel senso che “the fact that the level of proof required for the imposition of surcharges is the same as the level required for the fixing of the tax itself does not involve a breach of Article 6”. Nel senso che, per la sua ratio di attuare il principio di specialità e non di derogare all’autonomia delle giurisdizioni, l’art. 21 d.lgs. 74/2000 non impedirebbe di eseguire le sanzioni amministrative in caso di insufficienza ai fini penali delle prove addotte per dimostrare la realizzazione in sé della condotta contestata (e non solo il superamento della soglia di punibilità o il dolo specifico), quando la sussistenza e la misura dell’evasione siano adeguatamente dimostrate in base ai criteri applicabili dal giudice tributario, v. A. Vallini, Sanzioni amministrative per violazioni penalmente rilevanti, in AA. VV., Trattato di diritto sanzionatorio tributario, doganale e valutario, cit., 305 ss. (46) Cfr. Corte EDU, 9 giugno 2016, Sismanidis e Sitaridis c. Grecia, cit., par. 70 ss. (47) Forse in concreto il trasgressore non contesterebbe una decisione siffatta, giudicando preferibile risparmiare sulle sanzioni amministrative che tutelare il suo onore ferito, ma comunque l’amministrazione finanziaria dovrebbe poterla impugnare.
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l’applicazione delle sanzioni amministrative al trasgressore, si può forse prospettare un’ulteriore conseguenza, fondata su una visione “sostanziale” e non formalistica della definitività (48). Secondo la Corte EDU, una “decisione definitiva” ai fini dell’art. 4 del prot. n. 7, sufficiente per bloccare il successivo sviluppo di un altro procedimento, si ha anche quando scada inutilmente il termine per contestare in giudizio un provvedimento amministrativo (49). Tuttavia, se, nonostante il passaggio in giudicato della sentenza tributaria che confermi le sanzioni amministrative, queste non possono essere eseguite nei confronti del trasgressore, in mancanza di una decisione del giudice penale dalla quale il fatto risulti penalmente irrilevante, evidentemente il legislatore rimette a quest’ultimo giudice la verifica di un elemento essenziale per considerare legittima quella pretesa, ossia il rispetto del principio di specialità. Di conseguenza, anche se il giudice penale non ha giurisdizione riguardo alla pretesa sanzionatoria amministrativa, il relativo provvedimento non si può considerare davvero definitivo finché questo aspetto resti sub iudice, non meno che per la pendenza del processo tributario. Pertanto, la definitività che permette di invocare il ne bis in idem, risultando dalla combinazione delle due procedure, si avrebbe soltanto quando entrambe fossero chiuse (e sarebbe dunque invocabile soltanto nei riguardi di successive pretese sanzionatorie per la stessa condotta). Si potrebbe obiettare che questa condizione non è richiesta ai fini della riscossione delle sanzioni amministrative nei confronti del contribuente, se
(48) Non sto riecheggiando le nozioni di giudicato in senso formale e in senso sostanziale, ma suggerendo che l’irrevocabilità (intesa come non esperibilità dei mezzi ordinari di impugnazione, ex art. 648 c.p.p.) non esaurisca ogni possibile significato delle formule “finally acquitted or convicted” e “acquitté ou condamné par un jugement définitif” usate dall’art. 4 del prot. n. 7. Non mi sfugge che finora la Corte EDU ha inteso queste ultime riferendosi all’esaurimento dei mezzi di tutela ordinari nei confronti di una decisione. Considerato però il rilievo dato dagli esegeti all’approccio “sostanzialistico” seguito da tale Corte, mi parrebbe opportuno che essa affrontasse il problema se possa considerarsi già “definitivo” un provvedimento sanzionatorio, l’efficacia giuridica del quale (almeno nei confronti del soggetto che può invocare tutela ai sensi dell’art. 4 del prot. n. 7) è subordinata alla valutazione della medesima condotta da parte del giudice penale. Questo ulteriore giudizio insito nel requisito non mi sembra considerato, nell’ipotizzare (condivisibilmente) un overruling della Corte EDU che estenda il concetto di definitività fino a includere l’esecuzione della sanzione, da F. Pepe, Sistema sanzionatorio tributario e ne bis in idem cedu, cit., 523 ss. (49) Cfr. Corte EDU, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, cit., par. 135; Corte EDU, 20 maggio 2014, Nykànen c. Finlandia, cit., par. 44 ss. Cfr. per tutti A. Carinci, Il principio di specialità nelle sanzioni tributarie: tra crisi del principio e crisi del sistema, cit., 512 s.
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distinto dal trasgressore (in quanto coobbligato o persona giuridica). Tuttavia, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, quest’ultima regola non viola il divieto di bis in idem, il quale vieta una duplicazione di procedure nei confronti di un singolo soggetto, non una normativa che, a fronte di un unico comportamento, faccia gravare sanzioni differenti su soggetti diversi (50). Se si accettasse questa più ampia nozione di definitività “convenzionale” si potrebbe trarne un’altra conseguenza di indubbio rilievo, evitando che il ne bis in idem scatti per la mera mancata impugnazione del provvedimento di irrogazione di sanzioni, antecedente al giudizio penale definitivo. Infatti, già l’amministrazione finanziaria è chiamata a giudicare la condotta del trasgressore, ai fini delle sanzioni amministrative, e quando essa la valuta in base a processi verbali della Guardia di Finanza fondati sulle indagini da cui è scaturita la denuncia penale, la sua decisione tenderà a riguardare i medesimi elementi fattuali sottoposti all’autorità giudiziaria. Tuttavia, l’art. 21, comma 2, d.lgs. 74/2000 non distingue tra provvedimenti di irrogazione impugnati o no, stabilendo per tutti una condizione di efficacia rappresentata da quell’esito del procedimento penale. Se si ravvisa in questa regola un requisito di “definitività”, il trasgressore non potrebbe bloccare il procedimento penale semplicemente non ricorrendo avverso l’irrogazione di sanzioni amministrative (51).
(50) Cfr. Corte EDU, 13 gennaio 2015, Larsson c. Svezia, ric. n. 64102/10 (in quel caso, “while the applicant has been held criminally liable for the conduct that led to the imposition of surcharges on the company, he has not personally been tried or punished twice. The only punishment he has received is the one-year prison sentence pronounced in the criminal proceedings”); Corte EDU, 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia, cit., par. 35 (“as far as the charges against the applicant concerned his actions as a representative of the company, the impugned proceedings did not arise from identical facts or facts which were substantially the same because the legal entities involved were different”). In tal senso, con riferimento all’art. 50 della Carta UE, sono anche le conclusioni dell’avvocato generale M. Campos Sánchez-Bordona del 12 gennaio 2017, cause C-217/15 e C‑350/15. Diverso problema sono i risultati anomali provocati da tale regola, come osserva P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem, cit., 27 ss. e 36 s. Ovvia poi la diversità tra le procedure, rispettivamente per l’infedele dichiarazione di una società e per quella del suo legale rappresentante che in quanto socio abbia occultato dividendi: si v. Corte EDU, 20 maggio 2014, Pirttimäki c. Finlandia, ric. n. 35232/11 e Corte EDU, 2 ottobre 2003, Isaksen c. Norvegia, ric. n. 13596/02. (51) Tutt’altra questione è la non punibilità dei reati di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, d.lgs. 74/2000, in caso di integrale pagamento degli importi dovuti, comprese le sanzioni amministrative, anche a seguito di conciliazione o adesione all’accertamento, ai sensi dell’art. 13, d.lgs. 74/2000 come mod. dal d.lgs. 158/2015: a tacer d’altro, qui fondamentale è il pagamento, non solo la definitività del provvedimento sanzionatorio.
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Un problema di compatibilità con il divieto di bis in idem si pone invece riguardo alla previsione, nell’art. 13-bis, d.lgs. 74/2000, di una circostanza attenuante in caso di estinzione dei debiti tributari, incluse le sanzioni amministrative, prima del dibattimento di primo grado: in tal caso, si deroga al principio di specialità e il pagamento delle somme pretese rende inapplicabile il requisito dell’accertamento dell’irrilevanza penale del fatto, non essendovi riscossione coattiva. In conseguenza di questa disciplina, il provvedimento di irrogazione diventa definitivo e la sanzione amministrativa viene pagata prima del giudizio penale, sicché quest’ultimo parrebbe porsi in contrasto con l’art. 4 del prot. n. 7. Né pare sufficiente osservare che un pagamento fondato su conciliazione o adesione all’accertamento è volontario (52), perché il consenso del trasgressore alla definizione del rapporto tributario non implica quello a subire il successivo processo penale o la rinuncia a lamentare il bis in idem. Nemmeno in caso di pagamento della sanzione amministrativa da parte del coobbligato il problema è superato, perché l’art. 4 del prot. n. 7 tutela contro una duplice sottoposizione a giudizio sugli stessi fatti, pure quando non si subisca alcuna punizione. Viceversa, il ne bis in idem non sarebbe invocabile quando il pagamento fosse fatto mediante ravvedimento, mancando in tal caso un provvedimento che esprima il giudizio di un organo pubblico sulla condotta del trasgressore. 3. La questione dell’identità del fatto e le violazioni in materia di versamenti. – Ciò detto sulla disciplina generale, conviene ora considerare le censure di incompatibilità con il divieto di bis in idem (anche alla luce dell’art. 50 della Carta UE) (53) mosse riguardo ai rapporti tra le violazioni amministrative di omesso o insufficiente versamento o di indebita compensazione ex art. 13, d.lgs. 471/1997 (54) ed i reati in materia di versamenti ex artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, d.lgs. 74/2000, giacché in tali
(52) Cfr. P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem, cit., 29 s. e 33; S.F. Cociani, Sul divieto di cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, cit., 417 s. (53) Peraltro, la Corte di Giustizia, come si è detto, finora ha soltanto dichiarato inammissibile una questione riferita alle sanzioni per omesso versamento di ritenute (cfr. Corte di Giustizia UE, ord. 15 aprile 2015, C-497/14, cit.). (54) Nonché, per l’utilizzo di crediti inesistenti, ai sensi dell’art. 27, co. 18, d.l. 29 novembre 2008, n.185, conv. dalla l. 28 gennaio 2009, n.2, abrogato dall’art. 32, d.lgs. 158/2015.
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casi la duplicazione riguarda non solo le procedure ma anche le sanzioni. Secondo la giurisprudenza penale prevalente (55), infatti, vi sarebbe tra i due tipi di trasgressioni un rapporto di progressione illecita, giacché le fattispecie penali, pur contenendo necessariamente quelle delle violazioni amministrative, le arricchirebbero di elementi essenziali, i quali non sarebbero complessivamente riconducibili al paradigma della specialità: pertanto, si sarebbe al di fuori delle previsioni dell’art. 19, d.lgs. 74/2000, rendendosi applicabili entrambe le sanzioni. In particolare, decisivi “segmenti comportamentali” si realizzerebbero successivamente al compimento dell’illecito amministrativo, sicché i fatti integranti quest’ultimo si porrebbero, in punto di fatto, come presupposto di quello penale, che richiederebbe ulteriori requisiti e sarebbe caratterizzato da un diverso tempo di realizzazione: così, ai fini del reato ex art. 10-bis, occorrono la “certificazione” delle ritenute o, dopo il d.lgs. 158/2015, la debenza in base alla dichiarazione annuale di sostituto di imposta, nonché il superamento della soglia di punibilità e di un termine più ampio (quello per presentare detta dichiarazione) (56); ai fini del reato ex art. 10-ter, occorre che sia presentata la dichiarazione annuale iva, sia superata la soglia di punibilità e l’omissione duri oltre il termine per il versamento dell’acconto iva relativo al periodo di imposta successivo (57); quanto al reato ex art. 10-quater, nel testo precedente al d.lgs. 158/2015, rispetto all’illecito amministrativo di cui all’art.27, co. 18, d.l. 185/2008 esso richiederebbe la “condotta, diversa ed ulteriore, consistente nell’omesso versamento dell’imposta dovuta” (58).
(55) V. supra, nota 13. (56) Cfr Cass. pen., S. U, 28 marzo 2013, n. 37425, cit., par. 5.1. (57) Cfr Cass. pen., S. U, 28 marzo 2013, n. 37424, cit., par. 5.1. (58) Cfr Cass. pen., Sez. III, 11 novembre 2010, n. 42462; conf. Cass. pen., Sez. III, 8 maggio 2014, n. 30267 e Cass. pen., Sez. III, 24 aprile 2015, n. 27565. A mio avviso, però, tale affermazione giurisprudenziale dipende dalla peculiarità del caso deciso dalla prima sentenza, ove il credito era stato esposto nella dichiarazione iva e solo in seguito utilizzato per sfuggire ai doveri di versamento; invece, qualora la compensazione sia effettuata indicando tale credito direttamente nel modello F 24, l’omesso pagamento dell’imposta dovuta è contestuale (e infatti è ad essa affiancato nella descrizione della condotta punita da entrambe le norme). Si v. per osservazioni critiche su tale indirizzo della Cassazione M. Basilavecchia, Credito «riportato» ma inesistente: rilevanza penale dell’utilizzo, in Corr. trib., 2011, 212 ss., C. Todini, L’equivoco sulla compensazione mette a rischio il meccanismo della detrazione ?, in Rass. Trib., 2011, 1011 ss., C. Beccalli, Sanzione penale e amministrativa per il mancato versamento da indebita compensazione, in il fisco, 2014, 1, 3269.
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Prevale però nella nostra dottrina (59) ed è emersa da ultimo anche in alcune sentenze di legittimità (60) la convinzione che ciò non basti ad escludere la violazione del principio ne bis in idem, in quanto la Corte EDU a tale riguardo non pone a confronto, come fa la Corte di cassazione ai fini del ne bis in idem ex art. 649 c.p.p. (61), gli elementi normativi delle violazioni contestate, ma considera piuttosto se i giudizi concernano fatti concreti identici o sostanzialmente uguali (62): in questi casi, ad essere punito sarebbe lo stesso fatto concreto consistente nell’omesso o insufficiente versamento. Per affrontare la questione conviene però considerare più a fondo le ragioni di questo indirizzo della Corte EDU, onde comprendere meglio come vada applicato, e l’evoluzione più recente della nostra disciplina. L’art. 4 del prot. n. 7 parla non di comportamenti concreti o fatti materiali, ma di same offence (o même infraction), cioè di “violazione”: pertanto, nella giurisprudenza della Corte EDU si erano formati indirizzi secondo i quali non era vietato un secondo processo sulla stessa condotta, se questa avesse dato luogo ad una pluralità di infrazioni in concorso formale (concours idéal d’infractions) (63), ovvero se tale nuovo giudizio servisse ad applicare una regola diversa, che punisse una trasgressione differente in
(59) Cfr. P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem, cit., p. 31 s.; nonché, tra i molti, E. Boffelli, Principio del ne bis in idem nella recente giurisprudenza europea, cit., 1112 ss.; G. Cesari, Illecito penale e tributario, cit., 86 ss.; S.F. Cociani, Sul divieto di cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, cit., 420 ss.; G.M. Flick, Reati fiscali, principio di legalità e ne bis in idem, cit., 958; G. Flora, Ne bis in idem “europeo” e sistema sanzionatorio tributario, cit., 1004; A. Vallini, Il principio di specialità, in AA. VV., Trattato di diritto sanzionatorio tributario, doganale e valutario, cit., 291 ss.; G. Vinciguerra, Il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 348 ss. (60) Senza peraltro valutare l’applicabilità del principio ne bis in idem “convenzionale” nel caso di specie, per mancanza della prova – il cui onere grava sull’interessato – della definitività della sanzione amministrativa: cfr. Cass. pen., Sez. III, 11 maggio 2015, n. 19334, cit., la quale ha ammesso che vi siano “non irrilevanti dubbi di compatibilità con la normativa eurounitaria”, considerando come “l’illecito amministrativo di cui al citato art. 13 e quello penale possano avere ad oggetto sostanzialmente il medesimo fatto”; Cass. pen., Sez. III, 19 aprile 2016, n. 27806. (61) Nonostante tale disposizione specifichi che il fatto si considera medesimo anche se è “diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze”. (62) Sull’evoluzione di questo indirizzo della Corte EDU v. subito infra. (63) Cfr. Corte EDU, 30 luglio 1998, Oliveira c. Svizzera, ric. n. 25711/94; Corte EDU, 24 giugno 2003, Gauthier c. Francia, ric. n. 61178/00; Corte EDU, 10 Ottobre 2006, Öngün c. Turchia, ric. n. 15737/02.
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elementi essenziali, come la gravità e le conseguenze, l’interesse sociale tutelato e l’elemento soggettivo (64). In altre parole, per chiarire se un certo “fatto” fosse già stato oggetto di una decisione definitiva, si teneva conto anche delle qualificazioni giuridiche dei comportamenti sanzionati previste dal diritto sostanziale. Secondo l’indirizzo più recente, però, per rendere concreta ed effettiva la garanzia del ne bis in idem, come richiesto dalla CEDU, si dovrebbe considerare soltanto se l’ulteriore contestazione nasca “from identical facts or facts which are substantially the same”, senza dare rilevo alla “legal classification” delle infrazioni configurabili, in base a norme diverse, a fronte della medesima condotta (65). Dunque, per verificare se si tratti di fatti identici o sostanzialmente uguali a quelli giudicati nel processo già concluso, va considerato l’insieme delle circostanze fattuali, coinvolgenti il medesimo soggetto e inestricabilmente connesse tra loro nello spazio e nel tempo, la cui esistenza debba essere dimostrata ai fini dell’avvio del procedimento (66). P. es., la Corte EDU ha ritenuto che una violazione degli obblighi contabili sia autonoma rispetto all’evasione tributaria, giacché pur non avendo debitamente registrato dei fatti rilevanti il contribuente potrebbe in seguito presentare una dichiarazione fedele o fornire all’amministrazione finanziaria informazioni sufficienti ed accurate (67). D’altro canto, superando precedenti indirizzi ove si valorizzavano le differenze sul piano normativo quanto all’elemento soggettivo ed allo scopo perseguito dal legislatore (68), di recente la Corte EDU ha ravvisato gli stessi elemen-
(64) Cfr. Corte EDU, 29 maggio 2001, Franz Fischer c. Austria, ric. n. 37950/97 (ove tra l’altro emerge anche un criterio di “assorbimento” laddove si afferma vi siano casi in cui “one act, at first sight, appears to constitute more than one offence, whereas a closer examination shows that only one offence should be prosecuted because it encompasses all the wrongs contained in the others”); Corte EDU, 30 maggio 2002, W.F. c. Austria, ric. n. 38275/97; Corte EDU, 6 giugno 2002, Sailer c. Austria, ric. n. 38237/97; Corte EDU, 2 settembre 2004, Bachmaier c. Austria, ric. n. 77413/01; Corte EDU, 4 marzo 2008, Garretta c. Francia, ric. n. 2529/04. (65) Cfr. Corte EDU, 10 febbraio 2009, Sergey Zolotukhin c. Russia, cit. (66) Cfr. Corte EDU, 10 febbraio 2009, Sergey Zolotukhin c. Russia, cit.; v. anche Corte EDU, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, cit.; Corte EDU, 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia, cit.; Corte EDU, 19 febbraio 2015, Hanna Riikka Alasippola c. Finlandia, cit. (67) Corte EDU, 8 aprile 2003 (dec. ammiss.), Manasson c. Svezia, ric. n. 41265/98; Corte EDU, 27 gennaio 2009 (dec. ammiss.), Carlberg c. Svezia, ric. n. 9631/04; Corte EDU, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, cit., par. 55. (68) Cfr., in materia tributaria, Corte EDU, 14 settembre 2004 (dec. ammiss.),
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ti essenziali a base di procedimenti penali per frode fiscale e amministrativi per dichiarazione infedele (69). Nella dottrina italiana si è affermato che questa evoluzione giurisprudenziale nel senso di dare rilievo alla sola componente di fatto, trascurando gli elementi normativi, avrebbe fatto venir meno la precedente “stretta interconnessione funzionale fra il principio del ne bis in idem sostanziale e quello processuale” (70). Altri hanno sollevato il dubbio che in tal modo il divieto esca dall’ambito del ne bis in idem processuale, venendo a prevalere i profili sostanziali, al punto da risultare incompatibile con il principio del doppio binario sanzionatorio in materia tributaria (71). A me tuttavia
Rosenquist c. Svezia, ric. n. 60619/00, ove si notava come solo per il reato di aggravated tax fraud si richiedevano “culpable intent or gross neglect”, mentre la sanzione amministrativa (tax surcharge), diversamente dalla pena criminale, aveva la funzione di indurre il contribuente ad adempiere meticolosamente i suoi doveri dichiarativi e di fornitura di informazioni, assicurando l’efficienza di un sistema fondato sugli adempimenti spontanei; Corte EDU, 14 settembre 1999, Ponsetti e Chesnel c. Francia, ric. nn. 36855/97 e 41731/98, ove il carattere doloso del reato di omessa dichiarazione si è ritenuto sufficiente per escludere che si tratti della stessa violazione punita con sanzione amministrativa a prescindere dal dolo. (69) Corte EDU, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, cit. par. 54 (“The applicant’s indictment and the imposition of tax surcharges were based on the same failure to declare business proceeds and VAT” e “concerned the same period of time and essentially the same amount of evaded taxes”); Corte EDU, 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia, cit., par. 37 (“the tax surcharge proceedings and the tax fraud proceedings against the applicant in his personal capacity arose from the same facts, namely the applicant’s failure to declare income to the tax authorities”; inoltre questa, come la precedente, ha considerato la procedura per tax surcharge sufficientemente separata da quella per accounting offence); Corte EDU, 19 febbraio 2015, Hanna Riikka Alasippola c. Finlandia, cit. (secondo la quale tanto l’accusa penale di “aggravated tax fraud”, quanto la sanzione amministrativa per aver dato informazioni incomplete all’amministrazione finanziaria, non dichiarando il vero reddito e quindi sfuggendo al prelievo, “arose from the same failure by the applicant to declare income” e “concerned the same period of time … and approximately the same amount of evaded taxes”). (70) Ravvisata, da un lato, nell’applicabilità del divieto quando le regole di diritto materiale evidenzino un concorso apparente di norme, dall’altro lato, nella possibilità di punire illeciti in concorso formale anche in giudizi separati: cfr. G. Vinciguerra, Il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 344 ss.; Id., A proposito del divieto di doppio giudizio nel caso di concorso formale fra illeciti, cit., 1114 ss. (71) Cfr. M. Bontempelli, Il doppio binario sanzionatorio in materia tributaria e le garanzie europee (fra ne bis in idem processuale e ne bis in idem sostanziale), in Arch. pen, 2015, n. 1; F. Caprioli, Sui rapporti tra ne bis in idem processuale e concorso formale di reati, in Giur. it., 2010, 1181 ss.; N. Galantini, Il ‘fatto’ nella prospettiva del divieto di secondo giudizio, in Riv. it. dir. e Proc. Pen., 2015, 1205 ss.; P. P. Rivello, La nozione di “fatto” ai sensi dell’art. 649 c.p.p. e le perduranti incertezze interpretative ricollegabili al principio del ne bis in idem, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2014, 1415 ss.
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sembra che il rilevo dato a queste connessioni con il diritto sostanziale dipenda soprattutto dalla propensione della nostra dottrina ad intendere le regole elaborate dalla Corte EDU movendo dalla prospettiva dell’ordinamento italiano (approccio comprensibile, vista l’esigenza primaria di capire se siano compatibili): in particolare, avendo riguardo al principio giurisprudenziale dell’inapplicabilità del ne bis in idem ex art. 649 c.p.p. a reati in concorso formale (72), nonché alla propensione, ben radicata nella sensibilità penalistica (73), ad evitare il bis in idem sostanziale, inteso come duplicazione di punizioni per la stessa condotta in capo allo stesso soggetto (74). Prima di vedere se questo sistema di valori sia riconoscibile anche nella ratio dell’art. 4 del prot. n. 7, occorre verificare quale portata effettiva si debba dare a detti indirizzi, considerando in primo luogo che Corte Cost., n. 200/2016 ha superato quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità. L’interpretazione per cui l’art. 649 c.p.p. non si applicava ai processi per un diverso reato in concorso formale con quello sul quale era intervenuta una sentenza irrevocabile è stata infatti giudicata in contrasto con l’art. 117, primo co., Cost., proprio perché contraria all’art. 4 del Prot. n. 7 come interpretato dalla Corte EDU, cioè intendendo l’idem factum solo in senso naturalistico. La Corte Costituzionale però, nella stessa sentenza n. 200/2016, ha affermato che “il fatto storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento” in quanto, pur “affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico”, è “frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi”; perciò, in mancanza di una giurisprudenza consolidata in contrario della Corte di Strasburgo, sarebbe compatibile con l’art. 4 del Prot. n. 7 una disciplina nazionale che permetta di ritenere differenti i fatti contestati in un successivo processo considerando non solo
(72) Sul quale si v. per tutti T. Rafaraci, Ne bis in idem, cit., p. 872 ss.; N. Galantini, Il ‘fatto’ nella prospettiva del divieto di secondo giudizio, loc. cit. (73) V. per tutti A. Vallini, Il principio di specialità, cit., 274 ss. (74) Non mi riferisco qui alla distinzione processualpenalistica tra ne bis in idem “sostanziale” di cui all’artt. 649 c.p.p. e ne bis in idem “processuale” previsto (quando il primo sia stato violato e sorga un conflitto tra provvedimenti definitivi) dall’art. 669 c.p.p., bensì alla “istanza-guida di giustizia materiale, che non tollera l’addebito plurimo di un medesimo fatto allo stesso soggetto, quante volte l’applicazione di una sola delle norme cui il fatto corrisponde ne esaurisca l’intero contenuto di disvalore sul terreno oggettivo e soggettivo” (cfr. per tutti G. M. Flick, V. Napoleoni, A un anno di distanza dall’affaire Grande Stevens, cit., 887, nota 62).
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l’azione od omissione, ossia la “condotta dell’agente, assunta nei termini di un movimento corporeo o di un’inerzia”, ma anche l’oggetto fisico su cui quest’ultima opera e “al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente”. A mio avviso, da queste affermazioni di Corte Cost. n. 200/2016 si può trarre un principio, valido anche al di là della sfera di applicazione dell’art. 649 c.p.p., per verificare il rispetto del divieto di bis in idem di cui all’art. 4 del Prot. n. 7 con riferimento al concorso di illeciti penali e amministrativi: il confronto non riguarda le fattispecie astratte, ma concerne comunque gli elementi fattuali delle vicende concrete contestati in ciascun procedimento, ossia da dimostrare ai fini dell’applicazione delle norme che si ritengono violate. Applicando questo criterio rispetto agli illeciti penali e amministrativi in materia di versamenti di iva e di ritenute, è ovvia l’irrilevanza di mere differenze tra le previsioni normative: anche se per le violazioni amministrative basterebbe un’omissione colposa di qualsiasi entità, il problema sorge per le condotte dolose e oltre la soglia di punibilità, rientranti sia nella fattispecie di esse, sia in quella di un reato. D’altra parte, però, non mi pare sufficiente osservare che un concreto inadempimento al dovere di versare non muta anche se si protrae fino a configurare il reato (75). Certo, dal punto di vista materiale, il “non versare” si può considerare un’unica condotta omissiva per tutta la sua durata e, dal punto di vista psicologico, chi abbia deciso definitivamente di non adempiere non fa e non vuole nulla di più, se non versa neppure entro il termine per la dichiarazione di sostituto o per l’acconto iva. Tuttavia, se nell’applicazione del ne bis in idem bisogna tenere conto di come il legislatore selezioni gli elementi fattuali nel costruire le fattispecie dei reati, ponendoli a confronto con quelle delle violazioni amministrative, a mio avviso la rilevanza penale della condotta solo dopo un termine più ampio rispetto alle singole scadenze periodiche, correlato ad adempimenti idonei a richiamare alla mente dell’obbligato l’irregolarità dei suoi versamenti, indica una ratio legis di punire un com-
(75) Nel senso invece che la “medesimezza” debba riconoscersi sul piano sostanziale, in quanto l’omesso versamento “già sanzionato in via amministrativa, viene nuovamente sanzionato in via penale solo perché protratto nel tempo”, G.M. Flick, Reati fiscali, principio di legalità e ne bis in idem, cit., 958.
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portamento successivo all’omissione originaria, caratterizzato dalla decisione di “insistere a non versare” (conformemente alla formula della “progressione” impiegata dalla giurisprudenza). Il carattere doloso del reato comporta appunto che sia punita un’omissione fondata sulla decisione di non sanare le omissioni precedenti, di non approfittare cioè del margine più ampio lasciato dalla norma penale: si tratta dunque di un comportamento distinto, successivo a quello colpito da sanzione amministrativa (76). Questo non vale invece per i reati di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater, d.lgs. 74/2000, giacché essi si consumano al momento del mancato versamento con utilizzo in compensazione di crediti non spettanti oppure inesistenti, sicché la condotta concreta rilevante ai fini delle violazioni punite dai commi 4 e 5 dell‘art. 13, d.lgs. 471/1997 lo è anche ai fini penali. La conseguenza è che per quei due reati dovrebbero applicarsi il principio di specialità ex art. 19 ss., d.lgs. 74/2000 e il divieto di bis in idem. Il criterio per la verifica del bis in idem basato sul confronto tra gli elementi delle vicende concrete rilevanti in ciascun procedimento ai fini delle rispettive norme punitive è ovviamente applicabile pure alle violazioni in materia di dichiarazioni. I reati di dichiarazione infedele ed omessa di cui agli artt. 4 e 5, d.lgs. 74/2000 non dovrebbero sollevare dubbi sull’applicabilità del divieto, ferma restando la necessità di verificare in concreto se le vicende generatrici dei redditi, proventi o corrispettivi non dichiarati poste a base dell’accusa penale e della pretesa per sanzioni amministrative siano effettivamente le stesse. Riguardo ai reati di dichiarazione fraudolenta ex artt. 2 e 3, d.lgs. 74/2000, come si è detto, la giurisprudenza più recente della Corte EDU non sembra più dare risalto alla differenza tra l’essere accusati, in sede penale, di frode e, ai fini delle sanzioni amministrative, di un’evasione,
(76) Si è autorevolmente osservato che il reato “corrisponde ad uno stadio crescente di offesa al medesimo interesse ed implica necessariamente il passaggio attraverso l’illecito o gli illeciti minori”, i quali “dovrebbero rimanere pertanto assorbiti dal reato, proprio sulla base dei postulati della progressione illecita”: v. G.M. Flick, Reati fiscali, principio di legalità e ne bis in idem, cit., 958. Tuttavia, considerata la vaghezza e opinabilità dei criteri diversi da quelli strutturali (come è invece il principio di specialità) per riconoscere un concorso apparente di norme (cfr. A. Vallini, Il principio di specialità, cit., 271 ss.) non mi sembra che il riferimento della Cassazione ad una “progressione” comporti necessariamente detto assorbimento, tanto più in materia di concorso tra illeciti penali ed amministrativi.
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senza specificazione del carattere doloso o colposo di essa (77). Inoltre, premesso che già l’art. 7, d.lgs. 472/1997 impone di determinare in concreto la sanzione amministrativa tenendo conto anche della condotta del trasgressore, le modifiche di cui agli artt.1, co. 3 e 5, co. 4-bis, d.lgs. 471/1997 recate dal d.lgs. 158/2015 hanno stabilito l’aumento della metà di dette sanzioni “quando la violazione è realizzata mediante l’utilizzo di documentazione falsa o per operazioni inesistenti, mediante artifici o raggiri, condotte simulatorie o fraudolente”, similmente a quanto previsto per i reati di dichiarazione fraudolenta ex artt. 2 e 3, d.lgs. 74/2000 (78). Dunque, assumendo come normale che in questi casi l’amministrazione finanziaria conosca i fatti scaturiti dalle indagini preliminari penali, i suoi provvedimenti sanzionatori dovrebbero correlarsi ai medesimi comportamenti. Non va peraltro dimenticato come il confronto tra le “circostanze fattuali … inestricabilmente connesse tra loro nello spazio e nel tempo” da dimostrare in ciascun procedimento sia appunto una questione di fatto da risolvere con riferimento al caso concreto, sicché rilevare nelle sentenze della Corte EDU l’affermazione della sussistenza dell’idem factum, cioè di una medesima violazione dell’obbligo dichiarativo, basata sull’identità di periodo ed importi (79) non significa poter dare per scontato tale requisito semplicemente alla luce dei dati normativi, trascurando di analizzare gli atti dei singoli giudizi. 4. La dimensione processuale dell’art. 4 del Prot. n. 7, le ragioni sottese agli artt. 19 ss. del d.lgs. 74/2000, il bilanciamento tra obblighi CEDU e valori costituzionali. – Torniamo alla seconda questione sopra accennata, cioè alla propensione a vedere nell’art. 4 del Prot. n. 7 anche uno strumento per ostacolare la duplicazione di punizioni per il medesimo comportamento prevista nella disciplina sostanziale (80).
(77) V. supra, nota 68. (78) La rilevanza dell’utilizzo di documentazione falsa o per operazioni inesistenti, ovvero di artifici o raggiri, condotte simulatorie o fraudolente ai fini delle sanzioni amministrative è stata inserita anche nell’art. 2, co. 2-bis, concernente l’infedele dichiarazione del sostituto d‘imposta, condotta la quale però non è prevista come reato. (79) V. supra, nota 69. (80) Per le divergenze dottrinali sull’inquadramento del principio si v. p. es. A. Bigiarini, Ne bis in idem: il cortocircuito del “doppio binario” sanzionatorio in relazione a fatti di criminalità economica, in Dir. pen. e processo, 2016, p. 262 s. il quale rileva appunto le “distonie interpretative sulla qualificazione del tema in esame quale ne bis in idem sostanziale
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In primo luogo, una precisazione terminologica: nelle riflessioni della nostra dottrina sulla giurisprudenza della Corte EDU è frequente l’inquadramento di detta regola come principio del ne bis in idem “sostanziale” (81), ma non è raro il riferimento ad essa come ne bis in idem “processuale” (82). D’altronde, la stessa espressione “ne bis in idem sostanziale” è usata per riferirsi sia ad un principio appartenente alla sfera del diritto penale materiale, sia ad uno di diritto processuale penale (83). Il primo (che si manifesta in varie regole penalistiche come il principio di specialità ex art. 15 c.p. e la disciplina del reato complesso ex art. 84 c.p., nonché nei criteri di soluzione del concorso apparente di norme come la sussidiarietà, la consunzione o l’assorbimento) implica la corrispondenza ad un medesimo fatto di una sola norma applicabile e quindi, se questo potrebbe produrre effetti giuridici in forza di più norme, un divieto di addossarlo più volte all’autore (84). Per converso, in prospettiva processualistica il principio
(duplicazione delle sanzioni da risolvere esclusivamente sul piano del diritto sostanziale) ovvero quale ne bis in idem processuale (duplicazione dei procedimenti da risolvere sul piano del diritto processuale)”; nonché F. Pepe, Sistema sanzionatorio tributario e ne bis in idem cedu, cit., p. 494 e p. 501, secondo il quale detto principio, sul piano sostanziale, esprime il divieto di “prevedere”, oltre che di applicare, due o più “pene” allo stesso soggetto per la stessa “condotta””, ma “il nucleo essenziale del ne bis in idem CEDU, almeno per come oggi inteso dalla Corte EDU, sembra collocarsi non sul versante sostanziale, bensì su quello processuale” e Id., Ne bis in idem “europeo” e sanzioni sul market-abuse: dall’inammissibilità delle questioni di costituzionalità alcuni spunti sul versante tributario, in Riv. dir. trib., Supplem. Online, 23 maggio 2016, nel senso che il suddetto principio vieti di “assoggettare la stessa persona per il medesimo fatto a due o più giudizi sulla (il)liceità ‘penale’ dello stesso (dimensione procedurale del ne bis in idem) e, conseguentemente, (ii) di sanzionarlo più volte (dimensione sostanziale del ne bis in idem)”. (81) Cfr. per tutti A. Giovannini, Il principio del ne bis in idem sostanziale, cit., 1256 ss. (82) Cfr. per tutti G. M. Flick, V. Napoleoni, A un anno di distanza dall’affaire Grande Stevens, cit., 876; P. Piantavigna, Il divieto di “cumulo” dei procedimenti tributario e penale, cit., 49; G. Vinciguerra, Il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 343 s. (83) Osserva P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem, cit., 31, contro la diffusa opinione secondo cui il ne bis in idem, come principio di diritto sostanziale, troverebbe esplicito riconoscimento quale diritto fondamentale dell’individuo soltanto nella normativa comunitaria, che esso viene attuato nel nostro sistema penale generale attraverso l’art. 15 c.p. e nel settore tributario ad opera dell’art. 19 d.lgs. 74/2000, con riferimento però al fatto individuato avendo riguardo all’astratta fattispecie normativa, anziché al fatto in concreto, mentre l’art. 649 c.p.p., che fa riferimento al fatto concreto, recepisce sia il ne bis in idem sostanziale, sia quello processuale. (84) Cfr. per tutti G. De Francesco, Concorso apparente di norme, in Digesto disc. Penal., II, Torino, 1988, 424 ss.: S. Prosdocimi, Reato complesso, in Digesto disc. Penal., II,
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di cui all’art. 649 c.p.p. è indicato come ne bis in idem “sostanziale” (85), nonostante operi non solo in caso di condanna ma pure di proscioglimento (sicché non v’è l’esigenza di evitare una seconda pena), mentre quello di cui all’art. 669 c.p.p. come ne bis in idem “processuale” (86). Orbene, una garanzia di unicità della sanzione comminata in astratto per una determinata condotta non risulta dalla lettera dell’art. 4 del prot. n. 7, ove “punished again” o “puni” si riferiscono ad attività processuali, e tanto meno dalla giurisprudenza della Corte EDU, ove il diritto (anche) a “non essere puniti due volte” (87) è inteso come divieto, non già di far subire ad un soggetto per la medesima condotta più sanzioni distinte, ma di sottoporlo a più giudizi successivi, a prescindere dall’esito di condanna o assoluzione del primo di essi. Da ultimo, come si è visto, essa ha confermato la possibilità di cumulare pene detentive e pecuniarie o altrimenti afflittive per un idem factum non solo in un unico processo (88), bensì pure tramite un procedimento successivo strettamente connesso al primo, senza un autonomo giudizio sulla violazione o la condotta (89). La ratio di quella regola convenzionale è, pertanto, solo di evitare la reiterazione di pregiudizi e sofferenze provocate all’accusato dallo svolgimento di un giudizio su una determinata concreta vicenda (e per questo qui preferisco indicarla come ne bis in idem processuale). Appare dunque condivisibile l’affermazione della nostra Corte Costituzionale che sia “pacifico, in base alla consolidata giurisprudenza europea”, il carattere “processuale, e non sostanziale” del divieto, in quanto
Torino, 1996, 212 ss.; G. Vassalli, Reato complesso, in Enc. dir., XXXVIII, Milano, 1987, 816 ss. (85) Cfr. per tutte Cass., S.U. pen., 28 giugno 2005, n. 34655; Cass. Sez. III pen., 18 settembre 2015, n. 46846; Cass. Sez. III pen., 21 aprile 2016, n. 25815; in dottrina, T. Rafaraci, op. ult. cit., che rimarca appunto la strumentalità dell’art. 649 c.p.p ad evitare una duplice punizione per lo stesso fatto e l’assunzione di tale identità a propria fattispecie, benché il divieto ivi previsto operi anche in caso di un primo giudizio con esito assolutorio e quindi a prescindere dal rischio di più condanne. (86) Per i riferimenti alla dottrina processualpenalistica rinvio, per tutti, a S. Astarita, Ne bis in idem, in Digesto disc. Penal., agg. IV, t. 2, Torino, 2008, p. 736 s. e T. Rafaraci, Ne bis in idem, cit., 861 ss. (87) Cfr. da ultimo Corte EDU, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, cit., par. 110. (88) Cfr. Corte EDU, 30 aprile 2015, Kapetanios e a. c. Grecia, cit., part 72 (“l’article 4 du Protocole no 7 n’interdit pas en principe l’imposition d’une peine privative de liberté et d’une amende pour les mêmes faits litigieux”, purché “les deux sanctions, privative de liberté et pécuniaire, étaient imposées dans le cadre d’une procédure judiciaire unique”). (89) Cfr. da ultimo Corte EDU, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, cit., par.112 ss.
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esso non proibisce “di punire il medesimo fatto a più titoli, e con diverse sanzioni, ma richiede che ciò avvenga in un unico procedimento o attraverso procedimenti fra loro coordinati” (90). Quanto alle ragioni dell’interpretazione estensiva della “materia penale” siccome comprensiva delle sanzioni amministrative afflittive, come si è detto, la Corte EDU vi è stata indotta da una logica “antielusiva” ed evolutiva, per evitare cioè che gli Stati possano sottrarre certe procedure e certe sanzioni alle garanzie poste in tale ambito, attraverso un insindacabile esercizio del loro potere normativo di qualificarle come non penali, risultato giudicato incompatibile con gli scopi e l’oggetto della Convenzione (91). Venendo alla ratio sottesa agli artt. 19 ss., d.lgs. 74/2000, in primo luogo il nostro legislatore, optando per il principio di specialità, ha seguito sul piano del diritto materiale un criterio di ne bis in idem sostanziale (92),
(90) Corte Cost., n. 102/2016. (91) Cfr. Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel e a. c. Olanda, cit., 80 ss. Chiaro lo spirito antielusivo di questa interpretazione in Corte EDU, 20 maggio 2014, Nykànen c. Finlandia, cit. (“otherwise, the application of this provision would be left to the discretion of the Contracting States to a degree that might lead to results incompatible with the object and purpose of the Convention”). Si v. però F. Goisis, Verso una nuova nozione di sanzione amministrativa in senso stretto: il contributo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. It. Dir. Pubb. Com., 2014, 337 ss., nel senso che la nozione di sanzione elaborata dalla Corte EDU non sarebbe “solo il riflesso del consueto approccio antielusivo proprio di tutti i sistemi ordinamentali sovranazionali”, ma anche del riconoscimento al diritto penale di finalità di cura dell’interesse pubblico sotto il profilo preventivo o ripristinatorio, nonché del fatto che comunque si applicherebbero anche alla tutela dei diritti civili e della proprietà le garanzie del giusto processo e del principio di legalità. (92) Conviene ricordare che il legislatore, oltre ad abbandonare il previgente sistema di cumulo tra sanzioni amministrative e penali (cfr. art. 10, d.l. 429/1982, conv. in l. 516/1982), per i reati di cui al d.lgs. 74/2000 ha previsto pene principali soltanto detentive e non pecuniarie (trova incongrua questa scelta nell’ottica del rinvigorimento della risposta sanzionatoria, a fronte della funzione di prevenzione generale che la pena pecuniaria potrebbe svolgere, E. Musco, Reati tributari, in Enc. Dir., Annali, I, Milano, 2007, 1055). Per la verità, dati i limiti di importo fissati alla multa dall’art. 24 c.p., questa non sarebbe stata comunque idonea a contrastare l’interesse economico alla trasgressione. Ci si potrebbe chiedere se la giurisprudenza penale che assoggetta a confisca per equivalente l’importo delle imposte evase, assecondata dal legislatore con la modifica all’art. 12-bis, d.lgs. 74/2000 recata dal d.lgs. 158/2015, o che invoca l’estensione ai reati tributari della responsabilità penale degli enti ex d.lgs. 231/2003 (cfr. per tutti R. Alagna, Gli enti, in AA. VV., Trattato di diritto sanzionatorio tributario, doganale e valutario, cit., 85 ss.; A. Marcheselli, La confisca per equivalente, ibidem, 347 ss.), cerchi in tal modo di integrare pene principali percepite come inidonee a contrastare un interesse essenzialmente patrimoniale a trasgredire le regole fiscali (ancorché ragionando in tal
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evidentemente presupponendo quella vicinanza tra sanzioni amministrative e penali sul piano della funzione punitiva e deterrente che già allora emergeva dalla giurisprudenza della Corte EDU. Spiegando questa scelta in termini di moderazione della risposta punitiva, si può considerare meno incoerente il far gravare comunque il peso economico delle sanzioni amministrative sul contribuente per il quale ha agito il trasgressore, soprattutto alla luce dell’esigenza di mantenere nei confronti di esso un’adeguata deterrenza. A mancare al legislatore è stata la sensibilità per l’esigenza tutelata dal ne bis in idem convenzionale, quella cioè di non far subire allo stesso soggetto, dopo che un primo procedimento si sia concluso, la sofferenza di essere giudicato ancora per la medesima vicenda concreta ai fini dell’applicazione di una diversa misura afflittiva. La scelta espressa nell’art. 20 d.lgs. 74/2000 per il c.d. “doppio binario“, cioè per lasciar svolgere giudizi indipendenti avanti le commissioni tributarie sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio (e in primis, di regola, impositivo) e davanti al giudice penale sulla pretesa punitiva per un reato, pur a fronte di “medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”, fa apparire detta duplicazione del tutto normale. Questo, ovviamente, se non si condivide quanto sopra sostenuto riguardo al differimento della definitività delle sanzioni amministrative fino alla conclusione del processo penale, alla non necessarietà di un giudizio sulla “condotta” davanti alle commissioni tributarie, nonché al problema dell’idem factum nelle violazioni in materia di versamenti. Con il senno di poi, ci si può chiedere se il legislatore avrebbe potuto rispettare quel vincolo, senza introdurre semplicemente un’improcedibilità per il secondo processo: p. es. inserendo anche il giudizio sulle sanzioni amministrative nel processo penale (93) oppure, come stabiliva l’art. 12, d.l. 429/1982, vietando la sospensione dei procedimenti ma vincolando ai fatti materiali accertati in quest’ultimo l’azione dell’amministrazione finanziaria e le decisioni delle commissioni tributarie (salva l’esigenza di regole ulteriori per garantire il diritto di difesa delle parti del processo
modo, a mio avviso, si trascuri l’applicazione delle sanzioni amministrative quando il reo non corrisponda al contribuente). (93) Come previsto dall’art. 24, l. 689/1981 o – includendo pure la cognizione sull‘imposta – dall’art. 22, l. 4/1929.
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davanti a queste) (94). Così, però, non solo ci si sarebbe allontanati dalla scelta di principio per l’autonomia delle giurisdizioni e la separazione dei giudizi fatta nel c.p.p. del 1988, ma la pretesa fiscale (quanto meno, quella sanzionatoria) sarebbe stata vagliata alla luce delle regole probatorie del processo penale, spesso più rigorose di quelle legittimamente applicate ai fini dell’attività amministrativa di accertamento. La scelta del legislatore mi pare dunque dettata, più che dalla coerenza con principi astratti come quello di autonomia delle giurisdizioni, principalmente dall’esigenza di tutela dell‘interesse fiscale, cioè per non compromettere gli equilibri individuati dalle regole sulla prova dell’accertamento tributario, con pregiudizio dei risultati di una legittima attività amministrativa. Il coordinamento tra procedimenti si è perciò limitato al minimo per evitare contraddizioni con le decisioni penali, subordinando a un certo contenuto di queste l’esecuzione del provvedimento sanzionatorio amministrativo. Mi sembra però che, prima delle recenti sentenze della Corte EDU, nella dottrina italiana questo mancato rispetto del ne bis in idem non avesse destato un particolare scandalo, nonostante l’attenzione prestata ad altri casi di violazione della CEDU (95), e benché l’applicabilità delle garanzie
(94) Mi si permetta di rinviare a R. Schiavolin, L’utilizzazione fiscale delle risultanze penali, cit., 588 ss., per i dubbi di costituzionalità che tale meccanismo sollevava, nonostante fossero stati respinti dalla Corte Costituzionale. (95) Basti ricordare quante critiche abbia sollevato la giurisprudenza della Corte EDU che ritiene le garanzie dell’equo processo ex art. 6 CEDU invocabili riguardo ai processi in materia di sanzioni amministrative tributarie rispondenti ai criteri Engel, ma non a quelli su tributi: cfr. P. Russo, Il giusto processo tributario, in Rass. Trib., 2004, p. 11; nonché L. Del federico, I principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in materia tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2010, I, 206 ss.; E. della valle, Il giusto processo tributario. La giurisprudenza della C.edu, in Rass. Trib. 2013, 435 ss.; S. Dorigo, Il diritto alla ragionevole durata del giudizio tributario nella giurisprudenza recente della Corte europea dei diritti dell’Uomo, in Rass. trib., 2003, 42 ss.; F. Gallo, Verso un “giusto processo” tributario, in Rass. Trib., 2003, 11 ss.; A. Giovannini, Giustizia e giustizia tributaria (riflessioni brevi sul giusto processo), in Rass. Trib. 2011, 271 ss.; M. Greggi, Giusto processo e diritto tributario europeo: la prova testimoniale nell’applicazione della CEDU (il caso Jussila), in Rass. trib., 2007, 216 ss.; Id.; Giusto processo e diritto tributario europeo: applicazione e limiti del principio (il caso Ferrazzini), in Riv. dir. trib., 2002, I, 529 ss.; A.E. La Scala, I principi del «giusto processo» tra diritto interno, comunitario e convenzionale, in Riv. dir. trib., 2007, IV, 35 ss.; A. Marcheselli, Giusto processo e oralità di difesa nel contenzioso tributario: note a margine di un recente pronunciamento della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, in Dir. Prat. Trib., 2007, I, 333 ss.; Id., Nelle liti sulle sanzioni fiscali non può escludersi il contraddittorio
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convenzionali in “materia penale” alle sanzioni amministrative tributarie fosse ben nota (96). Forse, nella sensibilità giuridica comune la duplicazione di procedimenti discendente dagli artt. 19 ss., d.lgs. 74/2000 non era percepita come doppio giudizio su un comportamento illecito, ma come separazione tra il processo sul rapporto tributario (e sulle consequenziali sanzioni amministrative) e quello sul reato. In questa prospettiva, l’idea di sovrapporre all’attuale “doppio binario” un divieto di procedere dopo la prima decisione definitiva, a costo di sottrarre il trasgressore all’unica sanzione ad esso applicabile in base alle norme sostanziali, poteva apparire, tenendo conto dei valori tutelati dalle regole sanzionatorie, un risultato irragionevole e in contrasto con il senso di giustizia. Quest’ultimo aspetto richiama uno dei temi centrali nel problema del coordinamento tra le regole CEDU e quelle interne. Gli Stati contraenti si sono impegnati, ai sensi dell’art. 46 CEDU, a conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU: secondo quest’ultima, ciò comporta non solo, quando il diritto interno non permetta di rimuovere perfettamente le conseguenze della violazione, il pagamento delle somme stabilite ex art. 41 CEDU a titolo di equa soddisfazione per la parte lesa (97), ma anche il dovere di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, le misure generali e/o individuali da adottare nel singolo
orale sulle prove, in GT - Riv. giur. trib., 2007, 389 ss.; Id., Le ricadute processuali dei diritti fondamentali del contribuente nella dimensione interna, comunitaria e internazionale, in Id., Il “giusto procedimento” tributario. Principi e discipline, Padova, 2012, 127 ss.; A. Perrone, Art. 6 della CEDU, diritti fondamentali e processo tributario: una riflessione teorica, in Riv. dir. trib., 2013, I, 919 ss.; L. Perrone, Diritto tributario e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Rass. trib., 2007, 675 ss; F. Tesauro, Giusto processo e processo tributario, in Rass. trib., 2006, 11 ss. (96) Cfr. Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia, cit., sulla quale v. per tutti M. Greggi, Giusto processo e diritto tributario europeo: la prova testimoniale nell’applicazione della CEDU (il caso Jussila), in Rass. Trib., 2007, 216 ss. (97) P. es., essa suole condannare gli Stati a qualche migliaio di euro di risarcimento per il danno non patrimoniale causato dal bis in idem,. Tuttavia, Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia, cit., par. 237, pur senza prescrivere modifiche normative, ha affermato anche l’obbligo per l’Italia di porre fine alla violazione dell’art. 4 del Prot. n. 7 facendo in modo che i procedimenti penali ancora pendenti a carico dei ricorrenti fossero chiusi nel più breve tempo possibile e senza conseguenze pregiudizievoli per questi ultimi. Troverei comunque inaccettabile che, come in altri casi di contrasto tra norme italiane e CEDU, si lasciassero accumulare a lungo le condanne a carico dell’Italia senza eliminarne le cause, come se far “pagare Pantalone” nell’attesa di trovare il modo migliore di rispettare gli obblighi internazionali non comportasse una grave lesione di interessi pubblici.
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ordinamento giuridico per assicurare il rispetto dei diritti e delle libertà sanciti dalla Convenzione (98). La nostra Corte Costituzionale afferma che le norme CEDU, nel momento in cui vanno ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost. come norme interposte, divengono oggetto di bilanciamento con gli interessi protetti dalla Costituzione (99). Infatti, la Corte EDU sarebbe “tenuta a tutelare in modo parcellizzato, con riferimento a singoli diritti, i diversi valori in giuoco”, mentre la Corte Costituzionale deve assicurare una protezione dei diritti fondamentali “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro”, evitando che “l’espansione di una singola tutela finisca con l’incidere altri diritti fondamentali” ed a tal fine opera un “ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali” e la tutela di altri interessi costituzionalmente protetti (100). Tale posizione non è isolata nella cerchia dei giudici costituzionali degli Stati aderenti (101). Né pare superfluo ricor-
(98) Cfr, Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia, cit., par. 232 ss. (99) Secondo Corte Cost., n. 264/2012, ciò rientra nel “margine di apprezzamento nazionale” riconosciuto dalla Corte EDU per l’adeguamento agli obblighi convenzionali. (100) Secondo Corte Cost. n. 264/2012, nel concetto di “massima espansione delle garanzie” desunto dall’art. 53 CEDU, laddove dispone che l’interpretazione delle disposizioni convenzionali non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati dalle fonti nazionali, si comprenderebbe “il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela”. (101) Per il punto di vista tedesco, sulla possibilità di bilanciare interessi privati in modo diverso da quello indicato dalla giurisprudenza della Corte EDU, cfr. BVfG 14 ottobre 2004, n. 2 BvR 1481/04 Görgülü, e BVfG 18 dicembre 2014, n. 2 BvR 209/14; per quello britannico, sulla possibilità dei giudici del Regno Unito di discostarsi dalla soluzione individuata dalla Corte EDU, se questa non abbia sufficientemente apprezzato le peculiarità del contesto interno, cfr. UK Supreme Court, R. v. Horncastle and Others, [2009] UKSC 14 (e UK Supreme Court, Manchester City Council v. Pinnock, [2010] UKSC 45, nel senso che nemmeno una “clear and constant line of decisions” dei giudici di Strasburgo sia vincolante, se è in contrasto con “some fundamental substantive or procedural aspect of our law” e se le ragioni di essa sembrino “to overlook or misunderstand some argument or point of principle”). Nel senso che la decisione di un organo internazionale, compresa la Corte Edu, non può essere eseguita se questo porterebbe a violare norme della Costituzione russa, cfr. Corte costituzionale federale russa, sent. 6 Dicembre 2013, n. 27-P e sent. 14 luglio 2015, n. 21 (principio recepito nella legge costituzionale federale russa n. 7-KFZ del 15 dicembre 2015, di modifica della Legge costituzionale federale n. 1-FKZ del 21 luglio 1994, che però comporta un conflitto con la CEDU, secondo European Commission For Democracy Through Law (Venice Commission), Russian Federation. Final Opinion On The Amendments To The Federal Constitutional Law On The Constitutional Court. Strasbourg, 13 June 2016. Opinion no. 832/2015 CDL-AD (2016)016-2, in www.
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dare come la Corte di Giustizia UE, nel parere negativo sul progetto di accordo per l’adesione dell’Unione Europea alla CEDU ex art. 6 Trattato UE, del 5 aprile 2013 (102), ritenuto tale da pregiudicare le caratteristiche specifiche e l’autonomia del diritto dell’Unione, abbia palesato di voler mantenere una competenza esclusiva sull’interpretazione di quest’ultimo (103), suscettibile di venir meno se fosse stata obbligata ad attuare le decisioni della Corte EDU. Pertanto, data la suddetta “riserva esclusiva di bilanciamento” in capo alla Corte Costituzionale, anche se la Corte EDU ritenesse contraria all’art. 4 del prot. n. 7 la disciplina degli artt. 19 ss. d.lgs. 74/2000, ciò non imporrebbe di considerarla incostituzionale, anzi potrebbe esserlo la mera caducazione della stessa, qualora pregiudicasse altri interessi non meno meritevoli di tutela. Inoltre, con riferimento al ne bis in idem ex art. 50 della Carta UE, l’esigenza di un bilanciamento tra gli interessi garantiti da questo e quelli tutelati dal sistema sanzionatorio emerge dalla sentenza Fransson della Corte di Giustizia UE, laddove afferma che il giudice nazionale può considerare contrario agli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali il cumulo di sanzioni tributarie e penali previsto dalla sua legislazione, “a condizione che le rimanenti sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive” (104). Dunque, quella garanzia di ne bis in idem non si potreb-
venice.coe.int.; si v. inoltre A. Guazzarotti, La Russia, la CEDU e i controlimiti, in Forum di Quaderni costituzionali, 10 aprile 2016). (102) Cfr. Corte di Giustizia UE, parere 2/13 del 18 dicembre 2014, secondo il quale, tra l’altro, la disciplina proposta avrebbe violato l’esclusività della competenza giurisdizionale della Corte di Giustizia, perché mancando un’espressa esclusione della competenza della Corte EDU per controversie tra gli Stati membri o tra questi e l’Unione, le decisioni dei Giudici di Strasburgo avrebbero vincolato i Giudici del Lussemburgo anche laddove interpretassero il diritto UE, del quale la CEDU sarebbe diventata parte integrante. (103) Cfr. M.E. Gennusa, Difesa di posizioni nel parere della Corte di giustizia sull’adesione dell’Unione alla CEDU ?, in Quaderni costituzionali, n. 1/ 2015, 189 ss.; A. Guazzarotti, Il parere della Corte di giustizia sull’adesione dell’Unione alla CEDU e la crisi dell’euro: due facce della stessa medaglia?, ibidem, 192 ss. (104) Corte Giust. U.E., 26 febbraio 2013, C-617/10, cit., par. 25 ss., la quale ricorda come sovrattasse e procedimenti penali per frode fiscale in materia di iva attuino gli obblighi degli Stati membri, previsti dalla direttiva 2006/112, di adottare tutte le misure legislative e amministrative al fine di garantire che il tributo sia interamente riscosso, nonché il dovere imposto dall’art. 325 TFUE di lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive; su di essa si v. S. Dorigo, Il rapporto tra sanzione tributaria e sanzione penale secondo la Corte di Giustizia e i possibili effetti sull’ordinamento italiano, in
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be attuare in un modo tale da pregiudicare l’effetto deterrente del sistema sanzionatorio (almeno in materia di iva), perché in tal caso sarebbe violato il diritto europeo. 5. La dichiarazione interpretativa riguardo alla “materia penale” espressa dall’Italia in sede di ratifica del prot. n. 7 e l’indirizzo della Corte EDU sull’inefficacia di simili limitazioni. – Alla luce di quanto esposto sopra, ci si potrebbe chiedere infine perché i rappresentanti della Repubblica italiana abbiano firmato e ratificato il prot. n. 7 quando era ormai nota la giurisprudenza della Corte EDU sui criteri Engel (105), considerando come alcuni Stati che quanto a tutela dei diritti umani non sembrano in difetto, come la Germania, l’Olanda e la Gran Bretagna, abbiano evitato di assumere quell’impegno. L’ipotesi desolante di un’accettazione degli obblighi ivi contenuti non sorretta dalla previa valutazione della nostra capacità di rispettarli andrebbe quanto meno integrata dalla considerazione che la Repubblica italiana, all’atto di depositare lo strumento di ratifica, aveva presentato una dichiarazione interpretativa, secondo la quale gli articoli da 2 a 4 del prot. n. 7 “apply only to offences, procedures and decisions qualified as criminal by Italian law” (106). Dunque, probabilmente proprio perché consapevole della propensione della Corte EDU ad interpretare estensivamente quei termini, l’Italia aveva precisato in quale senso si intendesse obbligata dal testo di detto protocollo (107). Una siffatta pre-
Riv. dir. trib., 2013, IV, 233; I. Caraccioli, Salvato a metà dai giudici europei il doppio binario tributario-penale, in Corr. Trib., 2013, 1029 ss.; S. Iglesias Sánchez, La confirmación del ámbito de aplicación de la Carta y su interrelación con el estándar de protección, in Revista de Derecho Comunitario Europeo, 2013, 46, 1157 ss.; N. Lazzerini, Il contributo della sentenza Åkerberg Fransson alla determinazione dell’ambito di applicazione e degli effetti della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Riv. Dir. internaz., 2013, 883 ss.; A. Luque Cortella, El alcance del principio ne bis in idem según la normativa europea reguladora de los derechos humanos: un nivel de protección mínimo de los derechos de los contribuyentes en todos los Estados miembros, in AA.VV. (dir. F. Garcìa Berro), Derechos fundamentales y hacienda pública. Una perspectiva europea, Civitas –Thomson Reuters, Cizur Menor, 2015, 243 ss. (105) Il prot. n. 7 è stato firmato, anche dai rappresentanti della Repubblica italiana, il 22 novembre 1984. L’autorizzazione alla ratifica è stata data con l. 9 aprile 1990, n. 98, e questa è avvenuta l’11 novembre 1991. (106) Detta dichiarazione è contenuta in una lettera in data 7 novembre 1991, consegnata al Segretario generale del consiglio d’Europa all’atto di depositare lo strumento di ratifica. (107) Si potrebbe ricordare inoltre che l’Explanatory Report to the Protocol No. 7 to the Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms, Strasburgo, 22
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cauzione non era affatto anomala, considerando come riserve in tal senso fossero state espresse dall’Austria, dalla Francia, dal Liechtenstein e dal Portogallo, e risultassero inoltre dalla dichiarazione effettuata all’atto della sottoscrizione dalla Germania (la quale comunque pur avendo firmato il protocollo non l’ha poi ratificato) (108). Quindi l’Italia non dovrebbe essere trattata come un contraente che abbia violato i suoi impegni, perché li aveva espressamente definiti in termini diversi da come ora sono ricostruiti dalla giurisprudenza. La corte EDU però, nella sentenza Grande Stevens, ha ritenuto detta dichiarazione interpretativa dell’Italia nulla ed inidonea a limitare gli obblighi discendenti dall’adesione, in quanto non conforme ai requisiti posti dall’art. 57 della CEDU per le riserve (109): mancavano infatti l’indicazione e la “breve esposizione” di specifiche leggi da escludere dal campo di applicazione del prot. n. 7, non essendo il riferimento agli illeciti e alle procedure qualificati come “penali” dalla legge italiana sufficiente a offrire le necessarie garanzie di precisione e chiarezza (110). Il fatto è che in materia di trattati sui diritti umani le riserve sono viste come un pericolo per l’effettività e l’omogeneità dei risultati da essi perseguiti e sono vagliate con molto rigore dagli organi di controllo, i quali si ritengono competenti a valutarne l’ammissibilità e tendono a reputare come non apposte quelle inammissibili (111). Anche la giurisprudenza della Corte EDU sulle riserve appare ispirata dal compito assegnatole di assicurare l’osservanza degli impegni assunti dagli Stati contraenti e garantire
novembre1984, in European Treaty Series n. 117, 7, specificava al par. 32 che “Article 4, since it only applies to trial and conviction of a person in criminal proceedings, does not prevent him from being made subject, for the same act, to action of a different character (for example, disciplinary action in the case of an official) as well as to criminal proceedings”. (108) Tali informazioni risultano dal sito Web del consiglio d’Europa (www.coe.int/en/ web/conventions/full-list/conventions/treaty/117/declarations?p_auth=iVAKwrjC) (109) Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia, cit., par. 204 ss. (110) Cfr. Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia, cit., par. 209. (111) Sulle riserve nel diritto generale dei trattati e sulla sfuggente distinzione tra esse e le “dichiarazioni interpretative” con le quali uno Stato si limiterebbe a manifestare la sua interpretazione di un determinato articolo, si v. F. Durante, Trattato internazionale (dir. vig.), in Enc. Dir., XLIV, Milano, 1992, 1379 s.; G. Gaja, Trattati internazionali, in Digesto disc. Pubbl., XV, Torino, 1999, 350 ss.; sullo sfavore per esse legato alla funzione dei trattati sui diritti umani, il quale non toglie che vari Stati, secondo i principi di diritto internazionale, si considerino vincolati a condizione che le riserve da essi espresse siano efficaci, si v. L. Pineschi, Diritti umani (protezione internazionale dei), in Enc. Dir., Annali, V, Milano, 2012, 580 ss. e C. Zanghì, Protezione internazionale dei diritti dell’uomo, in Digesto disc. Pubbl., vol. XII, Torino, 1997, 154 ss.
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la funzione della CEDU come strumento di un ordine pubblico europeo posto a protezione dei diritti degli individui, tramite un sistema di garanzia collettiva costruito imponendo alle parti contraenti una rete di obblighi oggettivi, anziché di obbligazioni reciproche come nei trattati internazionali di tipo classico (112). Poiché una riserva (o una dichiarazione interpretativa con funzione analoga) limita dette garanzie, la Corte EDU considera il potere di formularla limitato all’esclusione di determinate norme interne non conformi alle disposizioni convenzionali (113); se siffatte dichiarazioni non soddisfano i requisiti di cui all’art. 57 CEDU (114), reputa lo Stato comunque vincolato dalla sua adesione (115); se sono valide, le interpreta restrittivamente (116). La dichiarazione di nullità della “riserva” italiana è dunque conforme agli indirizzi della Corte EDU (117) ed appare ormai irrefragabile, data la giurisdizione esclusiva della Corte sull’interpretazione della Convenzione
(112) Si v. p. es. Corte EDU, 29 aprile 1988, Belilos c. Svizzera, ric. n. 10328/83; Corte EDU, 22 maggio 1990, Weber c. Svizzera, ric. n. 11034/84; Corte EDU, 23 marzo 1995, Loizidou C. Turchia (dec. su quest. prel.), ric. n. 15318/89; Corte EDU, 23 ottobre 1995, Gradinger c. Austria, ric. n. 15963/90; Corte EDU, 31 luglio 2000, Jėčius c. Lituania, ric. n. 34578/97; Corte EDU, 3 ottobre 2000, Eisenstecken c. Austria, ric. n. 29477/95; Corte EDU, 23 ottobre 2001, Koslova e Smirnova c. Lituania, ric. n. 57381/00; Corte EDU, 2 novembre 2006, Dacosta Silva c. Spagna, ric. n. 69966/01; Corte EDU, 18 luglio 2013, Schädler-Eberle c. Liechtenstein, ric. n. 56422/09. Sull’interpretazione da parte della Corte EDU dei limiti fissati alle riserve (prima dal previgente art. 64 e poi dall’art. 57 CEDU) e sulle conseguenze del mancato rispetto dei requisiti di esse, si v. tra i molti R. Baratta, Le riserve incompatibili con l’art. 64 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. internaz., 1992, 289 ss.; G. Gaja, Trattati internazionali, loc. cit.; C. Zanghì, Protezione internazionale dei diritti dell’uomo, loc. cit.; Id, Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Enc. Giur. Treccani, X, Roma, 2002, 3 ss. (113) Cfr. Corte EDU, 23 marzo 1995, Loizidou C. Turchia, cit., par. 76 ss. (114) Quest’ultimo infatti consente di formularne riguardo a determinate disposizioni, nella misura in cui certe leggi vigenti (da esporre brevemente in dette dichiarazioni) non siano conformi ad esse, vietando riserve di carattere generale (le quali, secondo la giurisprudenza sono quelle non riferite a una specifica previsione della Convenzione o redatte in termini troppo vaghi o ampi per poterne valutare con precisione il senso e il campo di applicazione: cfr. da ultimo Corte EDU, 18 luglio 2013, Schädler-Eberle c. Liechtenstein, ric. n. 56422/09, par. 62). (115) Anche se talora la Corte ha vagliato in concreto la volontà di uno Stato di aderire a prescindere dalla validità della riserva: cfr. Corte EDU, 29 aprile 1988, Belilos c. Svizzera, cit., par. 60; Corte EDU, 23 marzo 1995, Loizidou c. Turchia, cit., par. 90 ss. (116) Cfr. Corte EDU, 18 luglio 2013, Schädler-Eberle c. Liechtenstein, cit. par. 65. (117) Infatti la prevedeva già S. Allegrezza, Commento all’art. 4 del Prot. 7, in Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a cura di R. Bartole, G. Conforti, V. Zagrebelsky, Padova, 2012, 897 s.
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(cfr. artt. 32 e 55 CEDU) ed essendo stata rigettata la richiesta di rinvio alla Grande Camera, come avviene quando una decisione sia conforme alla giurisprudenza consolidata (118). Ciò non toglie che tale posizione sia criticabile dal punto di vista del diritto internazionale, almeno riguardo alle conseguenze dell’invalidità delle riserve (119). La qualificazione stessa di quella dichiarazione come “riserva” ai sensi dell’art. 57 CEDU mi pare opinabile, giacché essa concerneva non la volontà di escludere alcune norme nazionali dalla sfera di applicazione di una regola convenzionale, ma piuttosto il senso del termine “criminal” ai fini di alcune disposizioni del protocollo n. 7. Essa inoltre si riferiva a norme e procedimenti qualificati come “penali” dal diritto italiano, secondo criteri formali a mio avviso ben più idonei ad assicurare la certezza giuridica della nozione di “materia penale” adottata dalla Corte EDU, rimessa alle valutazioni di questa sull’applicazione nel caso concreto dei “criteri Engel”. Quindi, il vero problema non era la scarsa chiarezza della dichiarazione interpretativa, bensì il rifiuto ivi espresso del potere della Corte EDU di elaborare le disposizioni convenzionali prescindendo dai concetti di diritto interno, il quale si giustifica anzi tutto per assicurare l’effettività e l’uniformità della tutela dei diritti fondamentali, ma consente anche di adottare interpretazioni evolutive rispetto alla volontà originariamente espressa dagli Stati contraenti, valutando quale “margine di flessibilità” lasciare ai singoli Stati (c.d. living instrument doctrine) (120). Questo potere per i giudici di Strasburgo è irrinunciabile (121), ma essi dovreb-
(118) D’altronde, tra i requisiti di cui all’art. 57 della CEDU non soddisfatti da quella dichiarazione vi sarebbe anche la vigenza, al momento della ratifica, della normativa interna da escludere, non riferibile ai d.lgs. 471/1997 e 74/2000 (nel senso che il requisito della vigenza impedisca di estendere una riserva a norme successive a quelle indicate, se non siano essenzialmente identiche ad esse, si v. p. es. Corte EDU, 18 luglio 2013, Schädler-Eberle c. Liechtenstein, cit., par.61). Peraltro, un cenno alla riserva è fatto da Cass. pen., Sez. III, 24 ottobre 2014, n. 43809, par. 13.4. (119) Per una critica all’indirizzo della CEDU in materia di inefficacia delle riserve invalide, sul piano generale, cfr. R. Baratta, Le riserve incompatibili con l’art. 64, cit., 289 ss.; con riferimento alla riserva de qua, si v. G. Gaja, Le conseguenze di una riserva inammissibile: la sentenza nel caso Grande Stevens c. Italia, in Riv. dir. int., 2014, 832 ss. (120) Cfr. per tutti F. Patroni griffi, The margin of appreciation of national judges on issues covered by judgments of the european court of human rights, in Riv. It. Dir. Pubbl. Comun., 2015, 13 ss.; F. Viglione, Dubbi e ambiguità sul ruolo del diritto comparato nella giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, in Europa e Dir. Privato, 2015, 177 ss. (121) Rispetto ad una riserva volta specificamente a limitare i poteri della Commissione
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bero considerare in concreto se la volontà di uno Stato di non accettarlo riguardo ad un certo protocollo aggiuntivo (non essendo dunque in gioco la scelta tra entrare o no nel sistema generale della CEDU, ma solamente l’obbligo di assicurare alcuni ulteriori diritti) infici la sua stessa adesione ai nuovi impegni (122). A me pare altresì censurabile che gli organi del Consiglio d’Europa, avendo ricevuto da vari Stati dichiarazioni nel senso dell’applicabilità di alcuni diritti solo ai procedimenti ed alle sanzioni considerati penali nei rispettivi ordinamenti, non abbiano sollevato subito il problema della validità di essi. Se infatti l’obiettivo della CEDU è di garantire diritti e libertà, quegli organi avrebbero dovuto segnalare a quegli Stati la necessità di modificare senza indugio i rispettivi sistemi giuridici, onde adeguarli all’interpretazione giurisprudenziale: una simile inerzia comporta una corresponsabilità morale per le violazioni rilevate vari anni dopo dalla Corte EDU. 6. Conclusioni. – Pur ritenendo vi siano valide ragioni per dubitare che la vigente disciplina dei rapporti tra procedure sanzionatorie amministrative e penali sia nel suo complesso tale da violare la garanzia del ne bis in idem, se questa convinzione fosse smentita dalla Corte EDU, dalla Corte di Giustizia UE o dalla Corte Costituzionale la mia perplessità per le motivazioni non mi impedirebbe di apprezzare l’opportunità così aperta di modificare una normativa la quale da tempo e per varie ragioni appare inadeguata (123). Non credo però che, se i precedenti giurisprudenziali sopra ricordati restano validi, dall’eventuale sentenza giungerebbero indicazioni precise: la Corte EDU lascia in genere agli Stati la scelta delle riforme idonee ad evitare ulteriori violazioni; la Corte di Giustizia dovrebbe rimettere al giudice di rinvio la valutazione sull’effettività, proporzionalità e dissuasività di un sistema privato di una parte dei suoi meccanismi, ma ovvia-
dei diritti umani e della Corte EDU, quest’ultima si è espressa nel senso che l’effettività della CEDU come strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo sarebbe pregiudicata se ciascuno stato contraente potesse configurare differenti regimi di tutela (cfr. Corte EDU, 23 marzo 1995, Loizidou C. Turchia, cit., par. 70 ss.). (122) Cfr. G. Gaja, Le conseguenze di una riserva inammissibile, cit., 832 ss. (123) Cfr. per tutti E. Marello, Evanescenza del principio di specialità e dissoluzione del doppio binario: le ragioni per una riforma del sistema punitivo penale tributario, in Riv. dir. trib., 2013, III, 270 ss.; F. Pistolesi, Crisi e prospettive del principio del “doppio binario” nei rapporti fra processo e procedimento tributario e giudizio penale, in Riv. dir. trib., 2014, I, 29 ss.
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mente sarebbe il legislatore a dover affrontare il problema di reintegrarli; la Corte Costituzionale ha già manifestato l’esigenza di un intervento di quest’ultimo. Come ha osservato Pasquale Russo, sarebbe preferibile introdurre una diversa disciplina dei rapporti tra i processi e seguire un criterio di rigida alternatività dei due tipi di sanzioni, prevedendo come reato soltanto i comportamenti di maggiore gravità; d’altro canto, per il legislatore non è facile realizzare questo obiettivo, come dimostra la scelta compiuta con il d.lgs. 158/2015, quando ormai il problema della compatibilità con l’art. 4 del prot. n. 7 era già sorto, di conservare tra i delitti la dichiarazione infedele, limitandosi a ridurne la sfera di applicazione (124). D’altronde, anche se si fosse scelto di circoscrivere la repressione penale ai comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa, nei singoli casi concreti si sarebbero dovuti attendere gli esiti del processo penale per sapere se le accuse fossero fondate, o la condotta fosse sussumibile solo nella fattispecie di una violazione amministrativa: dunque, non si potrebbe trascurare una disciplina dei rapporti tra procedimenti. La Corte EDU, per converso, tollera reati prodromici, cumuli sanzionatori, vincoli di giudicato, e questo lascerebbe spazio all’ipotesi, di segno opposto, della restaurazione del sistema del d.l. 429/1982, l’esperienza del quale mi rende difficile considerarlo “più civile” dell’attuale solo perché sembra creare meno problemi riguardo ad un diritto fondamentale. Le ragioni che hanno indotto ad abbandonare quella disciplina, in primis l’attuazione dei principi di offensività e di residualità dell’intervento penale, mi parrebbero tuttora sufficienti a respingere la tentazione di ritornarvi. L’ipotesi, infine, di trasferire al giudice penale anche la cognizione sulle sanzioni amministrative tributarie ogniqualvolta vi sia denuncia di reato (si mantenga la scelta per la specialità o si passi al cumulo, nei limiti ammessi dalla Corte EDU) porterebbe ad un miglioramento sul piano del garantismo processuale, ma appare improbabile che il legislatore si orienti in tal senso, soprattutto a fronte delle ripercussioni sopra accennate sul piano della credibilità della pretesa tributaria. Alla fin fine, considerata la difficoltà di queste scelte, l‘opzione “minimalista” fatta dal nostro legislatore nel d.lgs. 158/2015 può forse avere una giustificazione tattica, magari ispirata dal confronto con Stati la cui
(124) Cfr. P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem, cit., 34 ss.
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giurisprudenza di vertice ha riconosciuto per prima la violazione del ne bis in idem e indotto il legislatore ad modificare la disciplina, rendendo ovvia la condanna della Corte EDU per i procedimenti anteriori (125). Il tempo dei chiarimenti è comunque vicino.
Roberto Schiavolin
Nota di aggiornamento: dopo che questo lavoro è stato chiuso, la Corte di Giustizia UE ha confermato con sent.5 aprile 2017, C-217/15, Orsi, e C-350/15, Baldetti, la compatibilità con l’art. 50 Carta UE della punizione con sanzione amministrativa di una società di capitali e con sanzione penale del legale rappresentante (cfr. supra, nota 50). Invece, nel processo sulla questione sollevata dal Tribunale di Bergamo (ove il trasgressore sarebbe lo stesso soggetto) detta Corte, con Ord. 15 gennaio 2017, C-524/15, Menci, ha riaperto la fase orale, senza fissare ancora una nuova udienza, per consentire alle parti interessate di discutere sull’applicabilità dei criteri di “stretta connessione” posti da Corte Edu, 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia. Detti criteri però, come si è detto, riguardano i casi concreti e non solo la compatibilità tra norme astratte. P. es., Corte EDU, 18 maggio 2017, Jóhannesson e a. c. Islanda, ric. n. 22007/11, ha escluso detta connessione perché, pur essendo le sanzioni coordinate e prevedibili, in concreto il processo penale era proseguito troppo a lungo dopo la fine del procedimento tributario e si era fondato su indagini e valutazioni probatorie autonome.
(125) Cfr. per tutte Corte EDU, 20 maggio 2014, Nykànen c. Finlandia, cit., par. 23 ss.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
Cassazione, civ. sez. V, 30 ottobre 2015, n. 22216; Pres. Merone, Rel. Napolitano. I.c.i. – I.m.u. – La disciplina del presupposto e dei soggetti passivi – Il combinato disposto di cui agli artt. 1, comma 2, e 3 del D. Lgs. n. 504/1992 - Il possesso dell’immobile – Il sequestro preventivo ex art. 20 del D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, c.d. codice delle leggi antimafia – La disciplina fiscale dei beni sequestrati e confiscati ex art. comma 3-bis dell’art. 51 del D.Lgs. n. 159/2011 alla luce delle modifiche apportate dall’art. 32 del D.Lgs. 175/2014 – La disponibilità dell’immobile nelle imposte sul patrimonio – Configurazione del presupposto La perdita della soggettività passiva d’imposta sin dall’adozione della misura del sequestro poggia sul concetto di “disponibilità” del bene, che è estraneo alla delimitazione della soggettività passiva d’imposta, quale desumibile dal combinato disposto dell’art. 1 comma 2, e dell’art. 3 del D.Lgs. n. 504/1992. Come, infatti, più volte statuito da questa Corte, dalla lettura congiunta delle citate norme si desume che soggetto passivo dell’imposta comunale sugli immobili può essere soltanto il proprietario o il titolare di un diritto reale di godimento sull’immobile, di modo che la nozione di possesso di fabbricati, aree fabbricabili e di terreni agricoli, di cui al comma 2 dell’art. 1 D.Lgs. n. 504/1992, va riferita propriamente a quella corrispondente alla titolarità del diritto di proprietà o di diritto reale minore sull’immobile (art. 3 1° comma del D.Lgs. n. 504/1992).
(Omissis) Svolgimento del processo. La sig.ra (Omissis) impugnò dinanzi alla CTP di Bari l’avviso di accertamento, con contestuale irrogazione delle sanzioni, notificatole in data 19.12.2006 dal Comune di Altamura, con il quale le era contestato l’omesso versamento dell’ICI per l’anno d’imposta 2003, con riferimento alle unità immobiliari site in detto Comune, identificate catastalmente come in atti, già sottoposte a sequestro, poi convertito, in data 30 aprile 2003, in confisca, ai sensi dell’art. 2 ter della L. n. 575/1965, a ciò conseguendo, secondo la ricorrente, che essa doveva ritenersi priva della soggettività passiva d’imposta, fondata sul possesso di detti immobili. La CTP di Bari accolse il ricorso, ritenendo in toto fondata la domanda della ricorrente.
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Parte seconda
Sull’appello proposto avverso detta sentenza dal Comune di Altamura, la CTR della Puglia, con sentenza n. 86/13/09 depositata il 23 dicembre 2009, accolse parzialmente il gravame, ritenendo dovuta l’ICI per l’anno d’imposta in contestazione limitatamente al periodo 1° gennaio - 30 aprile 2003, rideterminando in € 13.757,08 l’imposta dovuta dalla contribuente, comprensiva di accessori. Avverso detta pronuncia la sig.ra (Omissis) ricorre per cassazione, affidando il ricorso ad un unico motivo, ulteriormente illustrato da memoria. Il Comune di Altamura resiste con controricorso. Motivi della decisione. 1. Con l’unico motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per “violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3, d. lgs. n. 504/1992, connesse con la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 ter, 1. n. 575/1965, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3”. La contribuente rileva di avere perduto la “disponibilità” delle unità immobiliari in oggetto sin dal 30 luglio 2002, allorché il Tribunale di Bari le sottopose a sequestro, poi convertito in confisca ex art. 2 ter della L. n. 575/1965 allora vigente, di modo che doveva intendersi venuto meno il presupposto impositivo sin dalla predetta data, assumendo la successiva confisca il solo effetto di rendere definitiva la perdita di possesso conseguita all’esecuzione del sequestro preventivo, quale misura di prevenzione di carattere reale. Nel corpo dell’illustrazione del motivo, con il quale, come evidenziato dalla relativa rubrica quale sopra trascritta, ha inteso denunciare unicamente il dedotto vizio di violazione di legge, la ricorrente svolge ulteriori considerazioni, lamentando la pretesa insufficienza di motivazione della sentenza impugnata, tale da non renderne intellegibile il percorso argomentativo che ha condotto la CTR della Puglia all’accoglimento dell’appello proposto dall’Ente impositore. 1.1. Ritiene preliminarmente la Corte che la censura debba essere intesa come proposta dalla parte unicamente nei limiti della dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto e che, in ogni caso, ove anche possa ritenersi ammissibile la censura per carenza motivazionale non autonomamente proposta dalla parte, essa, al pari della prima, risulta infondata. 1.2. Pacifici, invero, i dati cronologici sopra riportati (anche se, per precisione, appare opportuno puntualizzare che la data di deposito del provvedimento di confisca, pronunciato in data 30 aprile 2003, è quella del 6 maggio 2003) e dato atto che la misura della confisca è stata confermata a seguito delle successive impugnazioni proposte, divenendo quindi definitiva, deve osservarsi che la tesi esposta dalla ricorrente, al fine di sostenere la perdita della soggettività passiva d’imposta sin dall’adozione della misura del sequestro poggia sul concetto di “disponibilità” del bene, che è estraneo alla delimitazione della soggettività passiva d’imposta, quale desumibile dal combinato disposto dell’art. 1 comma 2, e dell’art. 3 del D. Lgs. n. 504/1992. Come, infatti, più volte statuito da questa Corte (cfr. Cass. civ. sez. V 9 ottobre 2009, n. 21541; Cass. civ. sez. V 26 febbraio 2010, n. 4753 e Cass. civ. sez. H 9 mag-
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gio 2013, n. 10987), dalla lettura congiunta delle citate norme si desume che soggetto passivo dell’imposta comunale sugli immobili può essere soltanto il proprietario o il titolare di un diritto reale di godimento sull’immobile, di modo che la nozione di possesso di fabbricati, aree fabbricabili e di terreni agricoli, di cui al comma 2 dell’art. 1 del D. Lgs. n. 504/1992, va riferita propriamente a quella corrispondente alla titolarità del diritto di proprietà o di diritto reale minore sull’immobile (art. 3 1° comma del D. Lgs. n. 504/1992). Tale interpretazione ha trovato conferma nella giurisprudenza di questa Corte anche con specifico riferimento alla problematica inerente al riconoscimento dell’indennità di esproprio a seguito di procedura espropriativa, pur in ipotesi di omessa o infedele dichiarazione ICI da parte del soggetto sottoposto a detta procedura (cfr. Cass. civ. sez. I 12 ottobre 2007, n. 21433; Cass. civ. sez. I 3 gennaio 2008, n. 19), essendosi affermato che l’occupazione d’urgenza, per il suo carattere coattivo, non priva il proprietario del possesso dell’immobile, in quanto il bene continua ad appartenergli finché non interviene il decreto di esproprio, mentre nell’occupante, che riconosce la proprietà in capo all’espropriando, manca l’animus rem sibi habendi, sicché lo stesso deve essere qualificato come mero detentore. 1.2.1. Né detto orientamento è contraddetto dalla più recente pronuncia di questa Corte, Cass. civ. sez. V 20 marzo 2015, n. 5626, che ha ritenuto il proprietario non tenuto al pagamento dell’ICI in caso di occupazione temporanea d’urgenza seguita da effettiva immissione della Pubblica Amministrazione nel possesso del bene, avuto riguardo alla natura del tutto peculiare della fattispecie, evidenziata dalla pronuncia richiamata, fattispecie nella quale, ancora applicabile l’istituto dell’occupazione acquisitiva, sin dal momento dell’occupazione d’urgenza si era pacificamente realizzata l’irreversibile trasformazione del fondo. 1.2.2. Ciò premesso, venendo allo specifico esame della fattispecie oggetto della presente controversia, deve ritenersi corretta in diritto la statuizione del giudice tributario di secondo grado, laddove ha affermato che il sequestro non comporta, al contrario della confisca, la perdita della titolarità dei beni ad esso sottoposti. Nel caso di specie il Tribunale di Bari dispose dapprima, in data 30 luglio 2002, il sequestro delle unità immobiliari in oggetto secondo il disposto dell’art. 2 ter della L. n. 575/1965 allora vigente, cui fece seguito, in data 30.4/6.5.2003, la confisca ai sensi della citata norma (rispettivamente, per i sequestro e per la confisca quali misure di prevenzione patrimoniale si vedano oggi l’art. 20 e l’art. 24 del D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, c.d. codice delle leggi antimafia). Peraltro, nel vigore della disposizione di legge poi abrogata dal nuovo codice antimafia, ma in esso in parte riproposta, questa Corte (cfr. Cass. pen. sez. unite 19 dicembre 2006, n. 57) ebbe ad affermare che la confisca disposta ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter, “non è di per sé provvedimento di prevenzione in senso stretto, ma piuttosto sanzione amministrativa di carattere ablatorio, equiparabile alla misura di sicurezza prescritta dall’art. 240 cod. pen., comma 2”, ciò che fa ad essa
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conseguire l’istantaneo “trasferimento a titolo originario in favore del patrimonio dello Stato bene che ne costituisce l’oggetto”. Viceversa il sequestro, nel vigore della precedente disposizione, come anche nel contesto normativo segnato dal c.d. codice antimafia, costituisce, come indicato anche in dottrina, misura di prevenzione sui generis, di natura provvisoria e cautelare, che può essere applicata quando si abbia motivo di ritenere che i beni oggetto di disponibilità, diretta o indiretta, del soggetto sottoposto al procedimento, siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Il concetto di disponibilità va inteso, in proposito, nel senso di manifestazione dell’appartenenza uti dominus del bene. Ne deriva pertanto che — ben potendo il sequestro essere revocato allorquando sia respinta la proposta di applicazione di misura di prevenzione o quando risulti che il sequestro abbia avuto per oggetto beni di legittima provenienza o dei quali l’indiziato non poteva disporre direttamente o indirettamente — fino al sopravvenire del decreto di confisca deve intendersi sussistente il requisito del possesso quanto alla soggettività passiva ai fini ICI. Le disposizioni richiamate dalla ricorrente relative all’istituzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (D.L. 4 febbraio 2010, n. 4 convertito, con modificazioni, in L. 31 marzo 2010, n. 50, di seguito trasfuse nel succitato codice delle leggi antimafia) hanno il solo fine di favorire la più efficiente gestione ed utilizzazione da parte delle amministrazioni giudiziarie dei beni in pendenza della definizione del giudizio concernente le misure di prevenzione, ma non incidono sulla natura giuridica del provvedimento di sequestro, che si limita a porre dei limiti alla circolazione ed al godimento dei beni ad esso sottoposti, senza tuttavia comportare l’acquisizione degli stessi al patrimonio dello Stato, che si determina solo quale effetto della confisca. 1.3. Né, infine, la tesi sostenuta da parte ricorrente, con riferimento all’anno d’imposta per cui è causa (come si è detto, il 2003), può trovare fondamento, quanto all’esclusione del presupposto soggettivo d’imposizione, del quale unicamente in questa sede si discute, nel citato ius superveniens, di cui al comma 3 bis dell’art. 51 del citato D. Lgs. n. 159/2011, come da ultimo modificato dall’art. 32 del D. Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, che, con riferimento al regime fiscale e degli oneri economici per, quanto qui d’interesse, ha stabilito che “durante la vigenza dei provvedimenti di sequestro e confisca e, comunque, fino alla assegnazione o destinazione dei beni a cui si riferiscono, è sospeso il versamento di imposte, tasse e tributi dovuti con riferimento agli immobili oggetto di sequestro il cui presupposto impositivo consiste nella titolarità del diritto di proprietà o nel possesso degli stessi”, con ciò innovando sulla precedente modifica apportata all’art. 51 del c.d. codice antimafia con l’art. 1 comma 189, lett. d) della L. 24 dicembre 2012, n. 228, che, per quanto qui rileva, aveva stabilito che “gli immobili sono esenti da imposte, tasse e tributi durante la vigenza dei provvedimenti di sequestro e confisca e comunque fino alla loro assegnazione o destinazione”.
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Il D. Lgs. n. 159/2011, nella sua originaria formulazione, è entrato in vigore il 13 ottobre 2011, la prima modifica apportata all’art. 51 di detto decreto è entrata in vigore dal 10 gennaio 2013, e, da ultimo, il principio della sospensione, durante la vigenza dei provvedimenti di sequestro e confisca, fino all’assegnazione dei beni a cui si riferiscono, di “imposte, tasse e tributi dovuti con riferimento agli immobili oggetto di sequestro il cui presupposto impositivo consiste nella titolarità del diritto di proprietà o nel possesso degli stessi”, ha effetto, secondo quanto disposto dall’art. 32 1° comma del D. Lgs. n. 175/2014, a decorrere dal 1° gennaio 2014, e non può essere quindi invocato a conforto del mancato versamento dell’ICI per il primo quadrimestre dell’anno d’imposta 2003. 1.4. Consegue che merita conferma la decisione impugnata, che si è attenuta ai summenzionati principi di diritto, motivando in relazione ad essi la debenza dell’ICI da parte della contribuente per l’anno d’imposta 2003 limitatamente al primo quadrimestre, cioè sino alla disposta confisca delle unità immobiliari già in precedenza sottoposte a sequestro, conservando sino a detta data la contribuente la soggettività passiva d’imposta ai fini ‘CI. 2. La novità della questione, anche nel quadro del mutato contesto normativo, pur non applicabile ratione temporis alla presente controversia, giustifica la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Così deciso in Roma nella camera di consiglio dell’8 luglio 2015.
Possesso e disponibilità nell’imposizione sul patrimonio immobiliare. La corretta individuazione del presupposto impositivo I.c.i. (nonché I.m.u.) ha rappresentato questione controversa sin dall’istituzione di tale tributo. La Corte di Cassazione con sentenza n° 22216 del 30.10.2015 ha fornito l’occasione per svolgere una serie di riflessioni in merito all’esatta accezione con cui debba intendersi il termine “possesso” in relazione al concetto di “disponibilità”. Diversamente da quanto sostenuto dal giudice di legittimità si è giunti alla conclusione che il prelievo fiscale non possa prescindere da tale ultima condizione per potersi ritenere giustificato alla luce dei principi costituzionali e del sistema tributario complessivamente inteso. The proper recognition of the tax condition of the I.c.i. (and the I.m.u. as well) has been a controversial issue since the establishment of such a tribute. The Court of Cassation, with the Judgement number 22216 of october 30th 2015 offered the chance to open some discussions about the accurate meaning which has to be given to the term “possession” relative to the concept of “availability”. Disagreeing with the Italian Supreme Court we came to the conclusion that the fiscal withdrawal cannot disregard such latter condition
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to hold to be justified according to the constitutional principles, the tax law system, as well as the rationality rule.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le incertezze sulla ratio complessiva dell’I.c.i. e sulla
delimitazione del presupposto. Le diverse teorie in materia di imposte patrimoniali. La pronuncia in esame. – 3. Il sequestro anti-mafia e l’attuale “regime di sospensione” di cui al comma 3-bis dell’art. 51 del D.Lgs. n. 159/2011 alla luce delle modifiche apportate dall’art. 32 del D.Lgs. 175/2014. – 4. La “disponibilità” come termine riassuntivo dei requisiti di “effettività” ed “attualità” della capacità contributiva. – 5. La declinazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. in relazione all’imposizione in ipotesi di sequestro. – 6. Estensione delle riflessioni alla disciplina dell’I.m.u. – 7. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione. – Con sentenza 30.10.2015, n° 22216 la V° sezione della Corte di Cassazione ha stabilito come permanga la soggettività passiva I.c.i. in capo al titolare del bene immobile anche nell’ipotesi in cui il bene medesimo divenga oggetto di sequestro. Il caso trae origine dalla notifica di un avviso di accertamento emesso da parte del Comune ove risultava sito l’immobile per l’omesso pagamento della relativa I.c.i per l’anno d’imposta 2003. La contribuente, lamentando la mancata “disponibilità” dell’unità immobiliare, in quanto sottoposta a sequestro (convertito poi in confisca), impugnava dinanzi la Commissione Tributaria Provinciale il relativo avviso di accertamento con contestuale irrogazione delle sanzioni, non ritenendosi, per il motivo sopra indicato, soggetto passivo d’imposta. Di diverso avviso è risultata la Corte, che, operando una dissociazione tra il concetto di “possesso” e quello di “disponibilità”, si è pronunciata ritenendo quest’ultima estranea alla delimitazione del presupposto d’imposta (1), così riconoscendo la soggettività passiva I.c.i. al ricorrere della mera titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento, non venendo meno neanche in ipotesi di sequestro, poiché – differentemente della confisca – misura
(1) Il «concetto di “disponibilità” del bene, […] è estraneo alla delimitazione della soggettività passiva d’imposta, quale desumibile dal combinato disposto del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 1, comma 2, e dall’art. 3. […] soggetto passivo dell’imposta comunale sugli immobili può essere [infatti] soltanto il proprietario o il titolare di un diritto reale di godimento sull’immobile, di modo che la nozione di possesso di fabbricati, aree fabbricabili e di terreni agricoli, di cui al comma 2 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 504/1992, va riferita propriamente a quella corrispondente alla titolarità del diritto di proprietà o di diritto reale minore sull’immobile»; in questi termini, Cass. civ. sez. V, 30-10- 2015, n. 22216.
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di prevenzione provvisoria e cautelare. La sentenza in esame offre dunque rilevanti spunti di riflessione in relazione alla corretta interpretazione del presupposto impositivo I.c.i., nonché I.m.u. (data la forte affinità tra le due discipline) ed in particolare sull’esatto significato, tutt’altro che pacifico, da doversi attribuire al termine “possesso”, per verificare se quest’ultimo effettivamente ricorra anche in ipotesi, come quella del sequestro, in cui non vi è, neppure in termini potenziali, la “disponibilità” del bene in capo al soggetto titolare del diritto di proprietà o altro diritto reale di godimento. 2. Le incertezze sulla ratio complessiva dell’I.c.i. e sulla delimitazione del presupposto. Le diverse teorie in materia di imposte patrimoniali. La pronuncia in esame. – Ai sensi dell’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 504 del 1992, “presupposto dell’imposta è il possesso di fabbricati, di aree fabbricabili e di terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio è diretta l’attività dell’impresa”. Ciò premesso, sembra potersi pacificamente assumere che il termine “possesso” debba essere letto alla luce di quanto specificato nel successivo art. 3, del medesimo decreto: “soggetti passivi dell’imposta sono il proprietario di immobili di cui al comma 2 dell’art. 1, ovvero il titolare del diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie, sugli stessi, anche se non residenti nel territorio dello Stato o se non hanno ivi la sede legale o amministrativa o non vi esercitano l’attività. Nel caso di concessione su aree demaniali, soggetto passivo è il concessionario. Per gli immobili, anche da costruire o in corso di costruzione, concessi in locazione finanziaria, soggetto passivo è il locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta la durata del contratto”. Data la normativa risultante dal combinato disposto di cui agli artt. 1, comma 2, e 3, del D.Lgs. n. 504 del 1992, l’esatta accezione con cui debba intendersi il termine “possesso” (2) (3) ha ingenerato non poche difficoltà e
(2) In dottrina non sono mancate, fin da subito, perplessità circa l’individuazione di un significato univoco da attribuire al termine “possesso”; al riguardo cfr., A. Giovanardi, voce Tributi comunali, in Dig. comm., XVI, Torino, 1999, 165; G. Marini, Contributo allo studio dell’imposta comunale sugli immobili, Milano, 2000, 64; E. Marello, voce Imposta comunale sugli immobili (I.c.i.), in Dig.disc.priv., sez. comm. Agg., vol. II, Torino, 2003, 443 ss.; Id., Contributo allo studio delle imposte sul patrimonio, Milano, 2006, 109. (3) Ad accentuare le paventate perplessità interpretative va aggiunta la circostanza che l’Ic.i., in quanto imposta speciale, presenti altresì un presupposto individuato in maniera ana-
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contrasti interpretativi, nonostante i numerosi tentativi di individuazione di un significato univoco. La dottrina prevalente pone l’accento sulla funzione riassuntiva del termine “possesso” con riferimento a tutte quelle situazioni giuridiche soggettive specificamente indicate nel successivo art. 3, individuando nella titolarità di una di queste il presupposto impositivo, ma al contempo privando lo stesso termine di qualsivoglia autonomo significato. Una precisazione è d’obbligo: va rilevato come in materia di I.c.i. i dubbi interpretativi sulla ratio complessiva del tributo e la corretta individuazione del presupposto traggano origine dalla vexata quaestio (4) circa l’interpretazione delle imposte patrimoniali, qualificate, da un lato, come tributi sul reddito ritraibile dagli immobili ovvero sull’attitudine reddituale di questi, dall’altro, al contrario, sostenendosi la natura squisitamente patrimoniale delle stesse (5).
litica; «… il rischio è quindi di includere diritti non coerenti con la ratio del prelievo o di indicare solo parte dei diritti che potrebbero essere colpiti. Questa difficoltà genera l’instabilità interpretativa delle imposte speciali, perché aumenta le difficoltà nel discernere tra il nucleo caratterizzante il tributo e le discrasie del legislatore», in questi termini, E. Marello, Contributo allo studio delle imposte sul patrimonio, cit., 108. (4) Sul punto, cfr., E. Marello, cit., 105, nota 77, in cui, con riferimento a Il riordinamento dell’imposizione sugli immobili, Libro bianco del Ministero delle finanze, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, aprile 1981, precisa come «L’I.c.i. veniva raffigurata in due varianti: una versione reddituale, con riferimento al reddito potenzialmente ritraibile dall’immobile e una versione patrimoniale ricollegata in talune ipotesi al valore venale e in altre fattispecie alla capitalizzazione delle rendite catastali …». (5) Sul punto cfr. L. Perrone, L’imposta comunale sugli immobili e il decentramento dell’autonomia impositiva: che delusione!, AA.VV., L’autonomia finanziaria degli enti locali territoriali, Roma, 1994, 516, ove l’Autore esplicitamente osserva che «è questa una logica di una imposizione reddituale più che patrimoniale»; concetto che si ritrova anche in G. Marini, cit., 124 ss., ove si osserva che «il legislatore (tuttora condizionato da un’impostazione reddituale del sistema tributario) con l’ICI abbia in effetti inteso assoggettare a tassazione soltanto quel “possesso” (proprietà o diritti reali di godimento) di cespiti immobiliari astrattamente idonei a consentire il conseguimento di un reddito». Per la tesi contraria che nega la rilevanza della redditività del bene, cfr. fra gli altri, C. Cost., 12 aprile 1996, n. 113, in Giur. cost., 1996, 986, ove si legge che «l’ICI è conformata quale imposta patrimoniale, è dovuta in misura predeterminata e non si basa su indici di produttività»; E. Marello, Sui limiti costituzionali dell’imposta patrimoniale, in Giur. it., 1997, I, 477 ss.: «Noi crediamo che il possesso di un patrimonio sia un indice diretto di capacità contributiva, e non necessiti dell’attribuzione dell’ulteriore parametro della redditività dei cespiti»; P. Boria, Il sistema dei tributi locali, in P. Russo, Manuale di diritto tributario – parte speciale, Milano, 2002, 354, in cui si sostiene la natura patrimoniale dell’imposta e l’irrilevanza dell’attitudine reddituale dei cespiti.
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Verrà successivamente data dimostrazione di come, ai fini del presente lavoro, accogliendo l’una piuttosto che l’altra delle due tesi si addivenga ad eguali conclusioni (6). Prendendo le mosse da quel filone interpretativo che considera l’I.c.i. un tributo sui redditi patrimoniali, sulle rendite catastali ovvero sul possesso di beni idonei al conseguimento di un reddito, il presupposto d’imposta dato dal possesso non può considerarsi avulso da qualsivoglia dimensione reddituale. Le argomentazioni a sostegno di tale ricostruzione trovano fondamento, tra l’altro, nell’esclusione del nudo proprietario dalla categoria dei soggetti passivi (7) (8): come autorevolmente sostenuto da parte della dottrina, «la mancata inclusione della nuda proprietà nel presupposto del tributo induce a ritenere che il legislatore (tuttora condizionato da un’impostazione reddituale del sistema tributario) con l’ICI abbia in effetti inteso assoggettare a tassazione soltanto
(6) Sul punto, si rimanda al par. 4 “La disponibilità come termine riassuntivo dei requisiti di effettività ed attualità”. (7) Altro elemento consiste nella centralità delle rendite catastali per la determinazione dell’imponibile; al riguardo cfr. M. Leccisotti, L’imposta comunale sugli immobili, in Fin. loc., 1994, 268; L. Ferlazzo Natoli, F. De Domenico, La fattispecie imponibile nell’Ici e nell’Iciap, in Il Fisco, 1995, 3911. (8) Al riguardo è stato rilevato che l’esclusione dall’I.c.i. della titolarità della nuda proprietà denoti come «probabilmente il legislatore [sia] stato influenzato da quell’orientamento della dottrina secondo cui le imposte patrimoniali “se ordinarie devono poter essere pagate con il reddito fluente dal cespite patrimoniale tassato, in quanto diversamente, imporrebbero l’alienazione del bene e quindi assumerebbero carattere espropriativo”», G. Marini, cit., 127-128. Sul punto, cfr., L. Einaudi, Miti e paradossi della giustizia tributaria, Torino, 1959, 64-65, ove «le due cose, capitale e reddito, non sono soltanto l’una in funzione dell’altra, ma sono due facce della stessa cosa, sono la medesima cosa vista da due punti di vista diversi […] immaginare di poter stabilire un’imposta sul reddito o sul capitale senza che essa sia altresì un’imposta sul capitale o sul reddito è un’illusione infantile […] occorre partire dal presupposto che la tassazione del reddito significa tassazione sul capitale e viceversa. L’una è l’altra». Siffatto orientamento presuppone la sussistenza di un legame inscindibile tra reddito e patrimonio, ricalcante lo schema di derivazione “agricola”: reddito-frutto e capitale-fonte, descritto in termini di distacco del primo dal secondo. Al riguardo, vd. Id., Principi di scienza delle finanze, I ed., La riforma sociale, Torino, 1032, 176; L. Einaudi, F. Repaci, Il sistema tributario italiano, VI ed., Einaudi, Torino, 1958, 500; A.D. Giannini, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1938, 227; C. Cosciani, L’imposta ordinaria sul patrimonio nella teoria finanziaria, Urbino, 1940, 122; F. Forte, Scienza delle finanze, Milano, 2002, 316; R. Alessi, G. Stammati, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 1964, 209, ove si legge che «un’imposta sul capitale è quella il cui pagamento intacca di fatto il capitale dell’individuo»; G. Stammati, voce Patrimonio (imposta ordinaria sul), in Nss.Dig., vol. XII, Torino, 1965, 646, ove si riscontra il timore della distruzione della fonte reddituale, qualora l’imposta ordinaria sul patrimonio non fosse pagabile con il reddito ritraibile dal bene.
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quel “possesso” (proprietà o altri diritti reali di godimento) di cespiti immobiliari astrattamente idonei a consentire il conseguimento di un reddito» (9). Partendo da tali premesse, tuttavia, è stata lamentata la contraddittorietà ed ambiguità della disciplina impositiva I.c.i. in relazione alla sua ratio complessiva (così come è stata delineata), con riferimento all’imposizione, seppur in misura ridotta, degli immobili improduttivi di reddito (è questo, ad esempio, il caso dei fabbricati inagibili o inabitabili). Problemi che non sussisterebbero, al contrario, per quell’opposto orientamento che sostiene la tesi della natura strettamente patrimoniale dell’I.c.i. In tal caso, il presupposto del tributo si sostanzierebbe nella mera titolarità di uno di quei diritti previsti dalla normativa di riferimento, non essendo necessaria la sussistenza di una percezione reddituale atta ad integrare il presupposto impositivo medesimo (10); ne è esempio calzante il riferimento alla disciplina dell’abitazione principale: «il possesso dell’abitazione principale è situazione aliena da qualsiasi dimensione reddituale: il che dimostra viepiù la sufficienza della titolarità di un diritto su di un immobile» (11). Quanto al “godimento” ci si domanda se questo possa essere considerato l’elemento unificante le diverse situazioni soggettive sussunte nel presupposto; in tal senso si è talora orientata la giurisprudenza costituzionale (12). Diversamente, la giurisprudenza della Corte di Cassazione (13), come del resto quella di merito, risulta essere pressoché unanime nel ritenere che il
(9) In questi termini, G. Marini, cit., 128, e 133-134, ove, sulla base di queste premesse, il presupposto d’imposta «è rappresentato dalla titolarità della proprietà o di altri diritti reali (attributivi di un potere di godimento)su immobili». Ratio impositionis sarebbe dunque quella di sottoporre a tassazione tutti «quei diritti reali sui cespiti immobiliari […] astrattamente idonei a consentire il conseguimento del reddito». (10) Cfr., E. Marello, Contributo allo studio delle imposte sul patrimonio, cit., 115, ove «l’art. 1 D.Lgs. 504-1992 […] ha sancito l’estraneità della effettiva percezione di redditi nell’integrazione del presupposto I.c.i.: il possesso fonda il presupposto e fissa un requisito di tipo negativo, dato dalla irrilevanza della percezione reddituale». (11) In questi termini, E. Marello, cit., 113. (12) Le situazioni soggettive di cui all’art. 3 individuerebbero chi effettivamente abbia il godimento del bene: in tal senso, Corte Cost. 22 aprile 1997, n. 111, in Giur. it., 1997, 447. In dottrina, vd., G. Marini, cit., 84 e A. Giovanardi, voce Tributi comunali, cit., 165 ss. (13) Cfr., Cass. civ. sez. I, 12-10-2007, n. 21433; Cass. civ. Sez. I, 03-01-2008, n. 19; Cass. civ. sez. V, 09-10-2009, n. 21541; Cass. civ. sez. II, 09-05-2013, n. 10987; Cass. civ. sez. V, 3010-2015, n. 22216. Con riferimento alla giurisprudenza di merito, vd., CTR Puglia, sentenza n. 9 del 02-032006; CTR Puglia, sentenza, n. 88 del 29-06-2006; CTR Genova, sentenza n. 27 del 21-022007.
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presupposto impositivo I.c.i. debba ricondursi alla titolarità del diritto reale (diritto di proprietà o altro diritto reale minore di godimento), e non alla mera disponibilità del bene (14). Più precisamente, la Corte, sulla base di un’interpretazione letterale della normativa risultante dal combinato disposto di cui agli artt. 1, comma 2, e 3, del D.Lgs. n. 504 del 1992, in più pronunce ha avuto modo di precisare (talvolta espressamente, talaltra in modo implicito) che il significato da attribuire al termine “possesso” non coincida con la “mera disponibilità” del bene: «possessore, in tale contesto normativo, è il proprietario o il titolare di un diritto reale di godimento sull’immobile» (15). Secondo quest’ultimo orientamento, il termine “possesso” di cui al summenzionato art. 1, comma 2 deve necessariamente essere letto alla luce di quanto specificato nel successivo art. 3, del medesimo decreto, dovendosi pertanto trattare di un “possesso qualificato”, non anche di mero possesso in forza di un titolo diverso dal diritto di proprietà o altro diritto reale di godimento. In questa direzione si colloca la sentenza in commento (16) ove la Corte, nel confermare quanto in precedenza più volte statuito, sancisce che «la nozione di possesso di fabbricati, aree fabbricabili e di terreni agricoli, di cui al comma 2 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 504/1992, va riferita propriamente a quella corrispondente alla [mera] titolarità del diritto di proprietà o di diritto reale minore sull’immobile» (17).
(14) In senso contrario, vd., Cass. sez. trib., sentenza 18-08-2004, n. 16130, secondo cui ai sensi dell’art. 1, comma 2, del D. Lgs. 504 del 1992, presupposto ai fini ICI debba considerarsi il mero possesso dell’immobile. (15) «avendo dato la legge esclusiva rilevanza, nell’indicare chi sia soggetto al tributo, alla titolarità di un diritto di natura reale, il significato da attribuire al termine “possesso”, utilizzato ai fini della definizione del presupposto di imposta, non possa essere fatto coincidere con la situazione di mera disponibilità del bene, rinvenibile anche nei confronti di chi sia titolare di un diritto personale di godimento, ma si sostanzi soltanto nei confronti di situazioni giuridiche soggettive aventi carattere reale. Possessore, in tale contesto normativo, è pertanto il proprietario o il titolare di un diritto reale di godimento sull’immobile»; in questi termini, Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-05-2013, n. 10987. (16) Cass. civ. Sez. V, 30-10- 2015, n.22216. (17) «dalla lettura congiunta delle citate norme soggetto passivo dell’imposta comunale sugli immobili può essere soltanto il proprietario o il titolare di un diritto reale di godimento sull’immobile, di modo che la nozione di possesso di fabbricati, aree fabbricabili e di terreni agricoli, di cui al comma 2 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 504/1992, va riferita propriamente a quella corrispondente alla titolarità del diritto di proprietà o di diritto reale minore sull’immobile».
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Ciò premesso, il giudice di legittimità ritiene dovuto il pagamento dell’imposta anche in caso di sequestro: «non comporta[ndo questo], al contrario della confisca, la perdita della titolarità dei beni ad esso sottoposti» poiché «misura di prevenzione sui generis, di natura provvisoria e cautelare», dunque revocabile. Considerato il suindicato elemento strutturale della provvisorietà, la tesi sostenuta dalla ricorrente circa la perdita della soggettività passiva I.c.i. sin dalla data dell’avvenuto sequestro non è stata ritenuta fondata, perché basata sul concetto di “disponibilità” del bene, che si asserisce essere «estraneo alla delimitazione della soggettività passiva d’imposta, quale desumibile dal combinato disposto del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 1, comma 2, e dell’art. 3». Pertanto, «fino al sopravvenire del decreto di confisca, deve intendersi sussistente il requisito del possesso quanto alla soggettività passiva ai fini ICI» essendo sufficiente la mera titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento sull’immobile (18). 3. Il sequestro anti-mafia e l’attuale “regime di sospensione” di cui al comma 3-bis dell’art. 51 del D.Lgs. n. 159/2011 alla luce delle modifiche apportate dall’art. 32 del D.Lgs. 175/2014. – Nel caso di specie, si affronta la questione con riferimento al cd. “sequestro antimafia”, per il quale, ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, e successive modifiche, si dispone, quale misura di prevenzione patrimoniale finalizzata a contrastare particolari fenomeni di associazione criminale, «nei confronti del soggetto indiziato di appartenere ad un’associazione di stampo mafioso, lo spossessamento dei beni di provenienza illecita che rientrano nella sua disponibilità diretta o indiretta. Il soggetto è quindi temporaneamente privato della disponibilità dei suddetti beni, in attesa che il procedimento si concluda con la definitiva confisca degli stessi o, al contrario, con la restituzione» (19).
(18) «allorquando sia respinta la proposta di applicazione di misura di prevenzione o quando risulti che il sequestro abbia avuto per oggetto beni di legittima provenienza o dei quali l’indiziato non poteva disporre direttamente o indirettamente». (19) In questi termini, Circolare del Ministero delle Finanze, n. 156/E del 7 agosto 2000, ove tra l’altro viene specificato che «L’amministrazione dei beni sequestrati, a norma degli articoli 2-sexies, 2-septies e 2-octies della legge richiamata, è affidata ad un amministratore giudiziario nominato dal Tribunale con il decreto di sequestro. Con lo stesso decreto è nominato anche il giudice delegato, cui sono attribuiti poteri di indirizzo e di controllo sull’amministrazione dei beni sequestrati, tra cui l’autorizzazione al compimento degli atti di straordinaria amministrazione. In particolare, per effetto del comma 1 dell’art. 2-sexies citato, dal momento
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Il problema inerente la disciplina fiscale dei beni sequestrati e confiscati è stato oggetto nel tempo di numerosi contrasti interpretativi, nonché di interventi normativi susseguitisi negli anni: il vuoto legislativo sussistente in passato è stato colmato, almeno in termini formali, dall’entrata in vigore del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, precisamente dagli articoli 50 e 51, disciplinanti gli aspetti fiscali inerenti i beni sottoposti a sequestro o confisca. Non sono mancate poi diverse modifiche apportate agli stessi dalla Legge di stabilità n. 228/2012 e dal D.Lgs. n. 175/2014. Nell’originaria formulazione dell’art. 51 del d.lgs. n. 159/2011 veniva sostanzialmente ripreso quanto precisato precedentemente nella circolare 7 agosto 2000 n. 156/E dell’Amministrazione finanziaria, la quale prevedeva l’imposizione di tutti i redditi di cui all’art. 6 del TUIR, con le stesse modalità adottate prima del sequestro (20), per mezzo della sostituzione provvisoria da parte dell’amministratore giudiziario al soggetto passivo d’imposta, individuato, quest’ultimo, in un momento successivo, ossia all’esito del giudizio (21).
del sequestro, fino a quello della confisca o della revoca, l’amministratore provvede alla custodia, alla conservazione ed all’amministrazione dei beni sequestrati, anche al fine di incrementarne, se possibile, la redditività». (20) «… nonché l’obbligo per l’amministratore giudiziario di presentare autonome dichiarazioni relative ai redditi prodotti con i beni sequestrati, liquidando provvisoriamente le relative imposte; nel caso in cui il sequestro si fosse concluso con la revoca, il soggetto passivo sarebbe stato individuato, con effetto retroattivo, nell’indiziato cui i beni sarebbero stati restituiti e nei suoi confronti l’Agenzia delle Entrate avrebbe effettuato la liquidazione delle imposte definitive, scomputando quelle eventualmente versate a cura dell’amministratore giudiziario»; in questi termini, Consiglio Nazionale dei Dottori commercialisti e degli Esperti Contabili, Linee guida in materia di amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati e confiscati, Roma, ottobre 2015, 72. (21) Circ. 07.08.2000, n.156/E, nello specifico, relativamente ai redditi derivanti dall’amministrazione dei beni sequestrati, è stato precisato che, «Non è sostenibile […] la tesi che vorrebbe escludere i suddetti redditi dalla tassazione, sulla base di una forzatura interpretativa dell’articolo 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n.537 […]», infatti, con riferimento ai redditi derivanti dall’amministrazione dei beni sottoposti a sequestro, «pur se la provenienza dei beni sequestrati è illecita, l’impiego degli stessi, da parte dell’amministratore giudiziario e sotto la vigilanza del giudice delegato, costituisce attività non soltanto lecita, ma dovuta, in forza delle norme di legge e del decreto di sequestro. Ne consegue che i redditi prodotti dai beni sequestrati non possono beneficiare di particolari esenzioni, ma devono essere assoggettati a tassazione, facendo riferimento alle ordinarie categorie reddituali previste dal TUIR. Diversamente ragionando si perverrebbe alla paradossale conclusione per cui, in caso di successiva revoca del sequestro, il soggetto indiziato verrebbe a godere di una ingiustificata esenzione fiscale per i redditi prodotti durante la fase cautelare». Specificandosi, inoltre, che,
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Non trovava disciplina la questione relativa a tutti gli altri tributi gravanti sul patrimonio immobiliare sottoposto a sequestro, quale, a titolo esemplificativo, l’I.c.i. È con la successiva Legge di stabilità n. 228/2012, che vengono apportate rilevanti modifiche al dettato di cui al precedentemente citato art. 51, al quale è stato aggiunto il comma 3-bis (22): “gli immobili sono esenti da imposte, tasse e tributi durante la vigenza del provvedimento di sequestro e confisca e comunque fino alla loro assegnazione o destinazione. Se la confisca è re-
con riferimento al soggetto passivo d’imposta e a quello tenuto agli adempimenti fiscali, in relazione ai beni sottoposti a sequestro, questi, «in attesa della confisca o della restituzione al proprietario, configurano un patrimonio separato, assimilabile per analogia, sotto il profilo che qui interessa, all’eredità giacente disciplinata dall’art.131 del TUIR e dall’art.19 del DPR 4 febbraio 1988, n.42. In entrambi i casi, infatti, l’amministratore esercita in via provvisoria l’amministrazione di un patrimonio, nell’attesa che lo stesso sia devoluto ad un soggetto che attualmente non è individuato a titolo definitivo e che pertanto non ne ha la disponibilità. La veste di soggetto passivo d’imposta spetta a colui il quale assumerà, con effetto retroattivo, la titolarità dei beni sequestrati: ne consegue che, come nel caso di eredità giacente è considerato soggetto passivo il chiamato che accetti, con effetto retroattivo, l’asse ereditario, così nel caso di sequestro il soggetto passivo d’imposta sarà individuato solo a posteriori (seppure con effetto ex tunc) nello Stato o nell’indiziato, a seconda che il procedimento si concluda con la confisca oppure con la restituzione dei beni. L’amministratore giudiziario, in pendenza di sequestro, opera dunque nella veste di rappresentante in incertam personam, curando la gestione del patrimonio per conto di un soggetto non ancora individuato. Nei confronti dell’amministratore, pertanto, possono essere applicate, con le dovute distinzioni, le regole generali previste per il curatore dell’eredità giacente e, in particolare, quelle di cui all’art. 19 del DPR n.42 del 1988 citato […]». In tal senso si riportano ulteriori successive pronunce, precisamente la Ris. 13.10. 2003 n. 195 e la Ris. 27.03.2007 n. 62, che prospettava l’applicabilità dell’articolo 187 del TUIR (rubricato, “eredità giacente”) all’ipotesi del sequestro giudiziario in genere. In particolare veniva precisato che «il sequestro giudiziario previsto dall’articolo 670 del codice di procedura civile risponde all’esigenza di garantire la custodia temporanea e la gestione dei beni mobili, immobili, aziende o altre universalità di mobili, quando ne sia controversa la proprietà o il possesso. L’incertezza relativa al soggetto cui spetta il possesso ovvero la proprietà dei suddetti beni abbinata alla necessità che gli stessi siano custoditi e gestiti finché dura la situazione di incertezza costituiscono i presupposti del provvedimento di sequestro giudiziario. Finalità e presupposti consentono dunque di assimilare il sequestro giudiziario al sequestro dei beni di soggetti indiziati di appartenere ad associazioni di stampo mafioso (cd. sequestro anti-mafia), previsto dall’articolo 2-ter della legge 31 maggio 1964, n.575. A tal riguardo, con la circolare n.156 del 2000, è stato chiarito che “i beni sequestrati […] configurano un patrimonio separato, assimilabile per analogia, sotto il profilo che qui interessa, all’eredità giacente disciplinata dall’articolo 131 (n.d.r. oggi 187) del TUIR e all’articolo 19 del D.P.R. 4 febbraio 1988, n. 42 (n.d.r. oggi articolo 5-ter del D.P.R. n. 322 del 1998) […]». (22) Comma aggiunto dall’art. 1, comma 189, lettera d), Legge n. 228 del 2012.
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vocata, l’amministratore giudiziario ne dà comunicazione all’Agenzia delle Entrate e agli altri enti competenti che provvedano alla liquidazione delle imposte, tasse e tributi dovuti per il periodo di durata dell’amministrazione giudiziaria, in capo al soggetto cui i beni sono stati restituiti”. Dal tenore letterale della disposizione si evince dunque come sia stata prevista una generica esenzione dai tributi relativamente agli immobili sottoposti a sequestro e confisca per tutto il periodo di durata degli stessi, procedendosi, in caso di revoca di detti provvedimenti, alla liquidazione dei tributi dovuti durante tale periodo in capo al soggetto cui i beni sono stati restituiti (23). Sono stati poi apportati ulteriori chiarimenti in materia dall’art. 32 del D.Lgs. n. 175/2014 che, riformando il comma 3-bis, dell’art. 51 del D.Lgs. 159/2011, ha previsto che “durante la vigenza dei provvedimenti di sequestro e confisca e, comunque, fino alla assegnazione o destinazione dei beni a cui si riferiscono, è sospeso il versamento di imposte, tasse e tributi dovuti con riferimento agli immobili oggetto di sequestro il cui presupposto impositivo consista nella titolarità del diritto di proprietà o nel possesso degli stessi …”. È da precisare come l’Agenzia delle Entrate abbia chiarito (24) che per gli immobili sottoposti a sequestro, non sia prevista una generale esenzione da imposte, tasse e tributi, dovendosi piuttosto interpretare la normativa nel senso di una sospensione dal versamento dei tributi che abbiano come presupposto il diritto di proprietà o il possesso dell’immobile (25).
(23) «Appare, dunque, alquanto chiaro dal tenore letterale del comma 3-bis, che gli immobili sequestrati e confiscati sono stati resi “genericamente” esenti da imposte, tasse e tributi durante tutto il periodo di sequestro, di confisca e sino all’assegnazione o loro destinazione. In caso di revoca, l’amministratore giudiziario ne deve dare comunicazione all’Agenzia delle Entrate ed agli altri enti competenti, che provvederanno alla liquidazione delle imposte, tasse e tributi in capo al soggetto, cui i beni sono stati restituiti e per tutto il periodo di sequestro o confisca»; in questi termini, Consiglio Nazionale dei Dottori commercialisti e degli Esperti Contabili, Linee guida in materia di amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati e confiscati, Roma, ottobre 2015, 74. (24) Circ. 30.10.2014, n. 31/E. (25) Al riguardo, è stato osservato che, «In considerazione della sospensione del versamento non viene, dunque, meno in capo all’amministratore giudiziario l’obbligo di adempiere agli ulteriori oneri fiscali, compresi quelli dichiarativi durante la vigenza dei provvedimenti di sequestro e confisca non definitiva. Oggetto di esenzione espressa sono, invece, le imposte di registro, ipocatastale e di bollo, che gravano sugli atti e i contratti relativi a tali immobili, durante il sequestro»; in questi termini, Consiglio Nazionale dei Dottori commercialisti e degli Esperti Contabili, Linee guida in materia di amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati e confiscati, Roma, ottobre 2015, 80.
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Sennonché, alla luce dell’attuale quadro normativo, la Suprema Corte nella sentenza in commento, in merito al regime di sospensione di cui al comma 3-bis, dell’art. 51 del D.Lgs. 159/2011, così come da ultimo modificato dall’art. 32 del D.Lgs. 175/1204, precisa che «il D.Lgs. n. 159/2011, nella sua originaria formulazione, è entrato in vigore il 13 ottobre 2011, la prima modifica apportata all’art. 51 di detto decreto è entrata in vigore dal 1° gennaio 2013, e, da ultimo, il principio della sospensione, durante la vigenza dei provvedimenti di sequestro e confisca, fino all’assegnazione dei beni a cui si riferiscono […] ha effetto, secondo quanto disposto dall’art. 32 1° comma del D.Lgs. n. 175/2014, a decorrere dal 1° gennaio 2014…» (26) non potendosi, di tal ché, ritenere applicabile al caso di specie, dal momento che la pretesa impositiva si riferirebbe all’anno d’imposta 2003. 4. La “disponibilità” come termine riassuntivo dei requisiti di “effettività” ed “attualità” della capacità contributiva. – Preso atto delle posizioni assunte in dottrina e in giurisprudenza, appare in realtà preferibile l’accoglimento di una nozione di “possesso” inscindibilmente connessa con l’elemento della “disponibilità”, ritenendo opportuno procedersi ad una diversa interpretazione rispetto a quella propria del giudice di legittimità; due sono le ragioni di fondo. In primo luogo, per il dato risultante dal tenore letterale delle disposizioni in materia di I.c.i. Da un’attenta lettura del combinato disposto di cui agli artt. 1, comma 2, e 3 del D.Lgs. 504/1992 non sembra corretto doversi desumere che il Legislatore tributario abbia voluto escludere dal presupposto impositivo l’elemento della disponibilità dell’unità immobiliare. Nel richiamare il diritto di proprietà e gli altri diritti reali di godimento, infatti, si evince come lo stesso Legislatore, specificando il significato da attribuire al termine “possesso”, abbia volutamente fatto riferimento a tutte quelle situazioni in cui il soggetto risulti avere effettivamente la disponibilità del bene e la conseguente possibilità di godere degli eventuali frutti, non limitandosi, per l’appunto, a richiamare il solo diritto di proprietà, ma anche quelle altre situazioni giuridiche in cui venga a costituirsi sull’immobile un altro e diverso diritto reale che ne permetta il godimento. Di tal ché, lo stesso diritto reale di godimento, caratterizzandosi soprattutto per il “potere di fatto” che il titolare ha sul bene, verrebbe a configurar-
(26) In questi termini, Cass. civ. Sez. V, Sent., 30-10- 2015, n. 22216.
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si come mera “scatola vuota” nell’ipotesi in cui non sia accompagnato dalla effettiva “disponibilità” del bene medesimo: una sorta di “diritto privo della facoltà di esercitarlo”. In secondo luogo, si ritiene di non poter condividere la pronuncia in esame, per l’imprescindibile legame che necessariamente deve sussistere tra “disponibilità” e “capacità contributiva”, la prima intesa quale possibilità effettiva e concreta, attuale, ancorché potenziale, di utilizzazione e sfruttamento del bene, in termini di abitabilità ovvero di immissione sul mercato dell’immobile, in assenza di provvedimenti che, imponendovi vincoli di indisponibilità, impediscano l’effettivo esercizio della facoltà di disporre dello stesso. A tal riguardo, anche volendosi procedere ad un’analisi comparata che tenga conto delle diverse posizioni assunte in dottrina, la “disponibilità” risulterebbe proprio l’elemento di raccordo tra le stesse. In particolare, chi ha sostenuto che soggetto a tassazione I.c.i. sia quel patrimonio “astrattamente idoneo al conseguimento di un reddito”, si è trovato costretto a lamentare l’incoerenza della disciplina impositiva con la sua stessa ratio impositionis (27) (28) nell’ipotesi di cui all’art. 8 del D.Lgs. 504/1992, nella quale è disciplinata l’imposizione – seppur in misura ridotta – degli immobili inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati, innegabilmente improduttivi di reddito: «… la loro tassazione […] non può non suscitare qualche perplessità» (29) (30).
(27) Sul punto vd., G. Marini, cit., 134: «… la ratio impositionis […] non è tanto quella di colpire l’attitudine alla contribuzione costituita dal patrimonio immobiliare tout court, quanto piuttosto quella di assoggettare ad imposizione quei diritti reali sui cespiti immobiliari che sono astrattamente idonei a consentire il conseguimento del reddito (idoneità che, ad esempio, difetta nel diritto reale del nudo proprietario) […] la coerenza dell’imposta appare compromessa da taluni aspetti della disciplina e, in particolare, dalla imposizione, sia pure ridotta, sugli immobili improduttivi di reddito […] pertanto, l’imposta appare ambigua e contraddittoria». (28) La quale, «come s’è visto, tiene conto del profilo reddituale del “possesso” quale presupposto dell’ICI»; in questi termini, G. Marini, cit., 130. (29) In questi termini, G. Marini, cit., 132. (30) Chi sostiene siffatto orientamento, tuttavia, a giustificazione dell’asserita contraddittorietà della suindicata previsione legislativa (con la complessiva ratio del tributo), pone l’accento sulla funzione sociale della proprietà, e sul conseguente dovere del titolare del diritto sul bene a non disinteressarsi alla cura e manutenzione di questo: «… è anche vero che per questi immobili, la mancata produzione del reddito dipende […] dalla condizione di fatto del bene e, quindi, in ultima analisi, dalla condotta del titolare del diritto sul bene.
Sotto tale aspetto, la tassazione di tali beni potrebbe rinvenire una precisa giustificazione nella stessa funzione sociale della proprietà in genere ed, in particolare,
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Ad avviso di chi scrive, in realtà, quand’anche volesse accogliersi la tesi di un’imposizione sui redditi patrimoniali, questa risulterebbe incompleta nella parte in cui non si consideri l’elemento della “idoneità astratta del cespite alla produzione di un reddito” in collegamento con la “disponibilità” del cespite stesso: nell’ipotesi di cui al citato art. 8 – che a tale dimostrazione meglio si presta – il proprietario o il titolare di altro diritto reale di godimento sul bene – che ne abbia anche la “disponibilità” – ben potrebbe, se non fosse per la sua inerzia, trarre dallo stesso una qualche utilità (da qui la non incoerenza della previsione normativa con la sua ratio impositiva); discorso che chiaramente non potrebbe farsi nell’ipotesi di sequestro, così palesandosi l’irragionevolezza di una tassazione in quest’ultima fattispecie. Qualora, al contrario, volesse accogliersi la tesi di chi sostiene la natura prettamente patrimoniale dell’imposta – avulsa dunque da un qualsiasi collegamento con l’idoneità reddituale del cespite – si evidenzia come uno degli elementi cardine su cui tale ricostruzione si fonda sia la disciplina impositiva dell’abitazione principale. Se da un lato è indubbio che questa denoti l’imposizione di una «situazione aliena da qualsiasi dimensione reddituale» (31), dall’altro non può negarsi come avvalori la necessaria sussistenza di un legame inscindibile tra la titolarità di un diritto sul bene e l’effettiva “disponibilità” del bene stesso, la quale in questa ipotesi si manifesta nella possibilità effettiva e concreta, attuale, ancorché potenziale, di abitare l’immobile. Inoltre, anche nell’ambito di tale ricostruzione strettamente patrimoniale del tributo, negare rilevanza all’elemento della “disponibilità” costringerebbe l’interprete a considerare una «deviazione da biasimare […] nell’indagine intorno alla razionalità della normativa» (32) l’esclusione dal presupposto impositivo della nuda proprietà. Per concludere, con riferimento al concetto della “disponibilità”, calzante risulterebbe l’esempio del possesso ininterrotto del bene che darebbe luogo ad usucapione. In questa ipotesi, infatti, nella quale, a prima vista, durante il
di quella degli immobili urbani e nella conseguente esigenza di incentivare, anche attraverso lo strumento fiscale, l’effettività della loro destinazione d’uso e, quindi, la loro utilità sociale»; in questi termini, G. Marini, cit., 132; sul punto cfr., inoltre, A. Giovanardi, Tributi comunali, in Riv. dir. trib., 1999, I, 503. (31) In questi termini, E. Marello, cit., 113. (32) In questi termini, E. Marello, cit. 116.
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periodo di maturazione del tempo utile ai fini dell’usucapione, sembrerebbe non sussistere, in capo all’effettivo titolare del diritto reale, la disponibilità del bene, si potrebbe lamentare il rischio che si determini una situazione di incertezza sull’individuazione del soggetto passivo. Si potrebbe, infatti, cadere nell’errore di ritenere che, sostenendo debba sussistere anche (non solo) la disponibilità del cespite in capo al contribuente, l’effettivo titolare del diritto, per sottrarsi all’imposizione, potrebbe asserire la non disponibilità del bene; mentre invece il soggetto che ne ha il possesso, addurre di non poter vantare (ancora) alcun diritto sul bene stesso, così creandosi una situazione di incertezza su quale dei due soggetti debba qualificarsi come contribuente. In realtà, un tale inconveniente non sussisterebbe affatto: l’effettivo titolare del diritto ben potrebbe, in ogni momento, agire al fine di recuperare il possesso perduto e ricominciare a godere del bene e degli eventuali frutti che dallo stesso possano derivare, non potendosi di conseguenza parlare, in questa ipotesi, di perdita della disponibilità (il cui significato è stato sopra precisato). Al contrario, nell’ipotesi del sequestro, gravando sul bene un vincolo di indisponibilità, sarebbe a priori preclusa suddetta facoltà: il bene viene sottoposto ad amministrazione giudiziaria ed anche in ipotesi di eventuali proventi derivanti dalla stessa attività di amministrazione, questi confluirebbero comunque nel cd. F.U.G. (Fondo Unico Giustizia), nulla riconoscendosi in capo al titolare del diritto reale. Alla luce di tali considerazioni, non si vede come possa parlarsi di manifestazione di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., effettiva ed attuale, con riferimento al soggetto sottoposto alla procedura in parola. È noto come lo stesso concetto di capacità contributiva abbia subito negli anni rilevanti modifiche, intesa da taluni quale espressione del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., da altri quale mero criterio di riparto (33) del
(33) A. Fedele, Gli incrementi nominali di valore dell’INVIM e il principio di capacità contributiva, in Riv. dir.fin. sc. fin., 1982, I, 57; Id, Concorso alle pubbliche spese e diritti individuali, in Riv. dir. trib., 2002, I, 33; Id, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Parte I, Torino, 2005; Id, La funzione fiscale e la capacità contributiva nella Costituzione italiana, in Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di L. Perrone, C. Berlieri, in Cinquanta anni della Corte Costituzionale della Repubblica Italiana, Napoli, 2006, 11; F. Gallo, Le ragioni del Fisco. Etica e giustizia nella tassazione, Bologna, 2007, 81; V. E. Graneli, L’imposizione dei plusvalori immobiliari, Padova, 1981, 22 ss.; F. Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1922, 145 ss.; S.F. Cociani, Attualità e declino del principio di capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2004, 7-8, 823 ss.; F. Batistoni Ferrara, Eguaglianza e capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2008, 6, 477.
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carico fiscale, in quest’ultimo caso assumendosi a presupposto d’imposta indici espressivi di situazioni di vantaggio e benessere, ben diversi da quelli tradizionalmente intesi come espressivi di ricchezza (patrimonio e reddito) (34). Senza entrare nel merito delle teoriche in parola accogliendosi l’una piuttosto che l’altra delle due diverse concezioni, una puntualizzazione appare, però, necessaria. Quand’anche si dovessero assumere a presupposto d’imposta elementi, prima facie, non espressivi di ricchezza, la “disponibilità” degli stessi in capo al contribuente si mostra come termine riassuntivo di “effettività” (35)
(34) Sul punto, cfr. F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, in AA.VV., Diritto tributario e Corte Costituzionale, a cura di L. Perrone, C. Berlieri, Napoli, 2006, 41-42, il quale prudentemente afferma che «pagare le imposte non è dunque indebita intrusione nella sfera individuale […] “mettere le mani in tasca agli italiani”; è dovere del singolo in quanto persona, cioè soggetto attivo di rapporti solidali, ma nel rispetto rigoroso della capacità a contribuire di ciascuno, specificamente accertata, effettiva, reale ed attuale»; e coerentemente aggiunge che «l’art. 53 è dunque espressione di un sistema di valori, per cui, banalizzare tale disposto normativo in un’implicita interpretazione abrogante, significa banalizzare non solo un articolo della Carta fondamentale (il che è già alquanto grave), ma una concezione fondante (appunto “costitutiva”) i rapporti sociali, un sistema, una coerente sintesi di principi, una condizione di identificazione nella Patria costituzionale”. Detta banalizzazione in parte talora è avvenuta, sotto l’urgenza dell’ “interesse fiscale” […] di una diffusa “cultura” nazionale che resiste all’accettazione dei limiti e valori e forse ancora per l’antico retaggio del “fisco come zoccolo duro dell’autorità dello Stato» richiamando, in questo caso, un’espressione adoperata in una recente pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per escludere nel processo tributario i canoni del giusto processo; al riguardo cfr. sentenza 12 luglio 2001, in Riv. dir. trib., 2002, II, 321 ss., 325-326. Per un’interpretazione meno “garantista”, cfr., F. Gallo, L’evoluzione del sistema tributario e il principio di capacità contributiva, in Rass. trib., 2013, 449 ss., in cui l’Autore, accogliendo un’interpretazione dell’art. 53 Cost. «in un’ottica meramente distributiva, in cui il soggetto passivo d’imposta è scelto in relazione a fatti e atti che non dimostrano necessariamente una forza economica a contenuto patrimoniale e in cui […] il raggiungimento dell’obiettivo della “giusta imposta” è affidato […] al solo rispetto del principio di ragionevolezza…», trova ispirazione da quanto scritto, in epoca antecedente alla nostra Costituzione, da G. Borgatta, così citandone il pensiero: «il principio di ripartizione delle imposte è un problema prima di tutto politico, scientificamente indeterminato, perché la sua soluzione è in funzione di presupposti, storicamente mutevoli, forniti dal complesso delle condizioni economiche e politiche, delle forze e sentimenti operanti in un dato aggregato sociale». Per una ricostruzione più moderata, in un’ottica di bilanciamento tra valori, cfr., P. Boria, Il bilanciamento di interesse fiscale e capacità contributiva nell’apprezzamento della Corte costituzionale, in AA.VV., Diritto tributario e Corte Costituzionale, cit., 57 ss. (35) Sul requisito dell’effettività cfr., F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, 261 ss.; E. De Mita, Capacità contributiva, in Digesto comm., II, Torino,
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ed “attualità” (36) della capacità contributiva, dunque come condizione indispensabile per potersi giustificare il prelievo fiscale alla luce del principio di cui all’art. 53 Cost. cui l’intero sistema impositivo deve uniformarsi (37). L’applicazione del tributo in parola, nella fattispecie del sequestro, sembrerebbe dunque porsi in violazione del principio della capacità contributiva, i cui requisiti sono pacificamente individuati nell’attualità ed effettività della stessa. 5. La declinazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. in relazione all’imposizione in ipotesi di sequestro. – Sempre nella medesima pronuncia, a rafforzamento della propria ricostruzione interpretativa, la Corte richiama quanto statuito in merito all’istituto dell’occupazione d’urgenza preordinata all’espropriazione (38) ed al relativo obbligo di versamento dell’I.c.i.
1987, 463 ss.; G. Marongiu, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria, Torino, 1995, 110 ss.; L. Tosi, Il requisito di effettività, in AA.VV., La capacità contributiva, a cura di F. Moschetti, Padova, 1993, 321 ss. (36) Individuata nella sussistenza di un collegamento temporale del presupposto d’imposta con la potenzialità economica espressa dal soggetto passivo. Con riferimento ad eventuali deroghe o attenuazioni del requisito dell’attualità, cfr. AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, IV ed., Torino, 2012, 92, ove al riguardo: «la giurisprudenza della Corte costituzionale ha chiarito che eventuali deroghe o comunque attenuazioni del requisito di attualità non possono essere giustificate soltanto dall’interesse fiscale, ma devono fondarsi su adeguati elementi di ragionevolezza e coerenza», di poi richiamando, in nota, le relative pronunce: C. cost. n. 44/1966; C. cost. n. 103/1967; C. cost. n. 75/1969; C. cost. n. 143/1982; C. cost. n. 314/1994; C. cost. n. 14/1995; C. cost. n. 410/ 1995; C. cost. n. 7/1999; C. cost. n. 229/1999; C. cost. n. 416/1999; C. cost. n. 341/2000. (37) Cfr. E. De Mita, Capacità contributiva, in Dig. disc. priv., Sez. comm., Torino, 1987; G. Falsitta, Il doppio concetto di capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2004, I, 889; Id, Natura e funzione dell’imposta, in Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 75 ss.; A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 33; G. Gaffuri, Attitudine alla contribuzione, Torino, 1976; Id, Il senso della capacità contributiva, in Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 31; E. Giardina, Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, Milano, 1961; I. Manzoni, G. Vanz, Il diritto tributario. Profili teorici e sistematici, Milano, 2007, 40; I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965; E. Marello, cit., 195; F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, cit.; Id, Capacità contributiva, in Enc. giur., Roma, 1988, 3; Id, La capacità contributiva, Padova, 1933; Id., La capacità contributiva, in Trattato di diritto tributario, a cura di A. Amatucci, vol. I, Padova, 1994; G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario, Padova, 2010, 35. (38) Con riferimento all’istituto dell’espropriazione, trattasi di procedimento amministrativo in forza del quale, per motivi di pubblico interesse, un soggetto riversi nella condizione di vedersi privato in tutto o in parte di beni di sua proprietà, previo riconoscimento, in capo
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in capo al soggetto titolare del diritto di proprietà sottoposto a detta procedura, con riferimento al periodo di possesso che precede l’emanazione del decreto
allo stesso, di una giusta indennità. Carattere peculiare dell’istituto in esame, idoneo al riconoscimento della sussistenza della soggettività passiva ai fini impositivi nella fase antecedente all’emissione del decreto di esproprio, sta nel fatto che solo ed esclusivamente in forza di quest’ultimo, si perfeziona il trasferimento della proprietà in capo al soggetto espropriante, non valendo, a tal fine, la dichiarazione di pubblica utilità, idonea, quest’ultima, a determinare il mero «affievolimento del diritto di proprietà sui beni espropriandi»; in questi termini, G. Marini, cit., 98. Sul punto, l’Autore osserva inoltre che, «tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di esproprio, l’amministrazione talvolta procede all’occupazione del bene necessitata dall’urgenza di eseguire opere dichiarate indifferibili ed urgenti [fase divenuta il più delle volte ricorrente, in forza della L. 22 ottobre 1971, n. 865]. Trattasi di un subprocedimento preliminare all’espropriazione ed oggetto in dottrina e giurisprudenza di perduranti incertezze sistematiche»: risulta evidente che dubbi sulla natura giuridica dell’istituto de quo, possano avere incidenza di non poco conto in merito all’individuazione del soggetto passivo d’imposta al ricorrere della fattispecie in commento; sul punto, cfr., F. Pugliese, Occupazione nel diritto amministrativo, in Dig. Disc. Pubbl., 265 ss.; M. S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. II, Milano, 1988, 1183 ss. «… agli effetti dell’ICI è irrilevante la circostanza che il proprietario venga spossessato del proprio bene in quanto presupposto dell’imposta è la proprietà o la titolarità di specifici diritti reali di godimento. Decisiva risulta allora la considerazione che, a differenza dell’espropriazione, l’istituto dell’occupazione non determina l’estinzione del diritto di proprietà dell’immobile, ma incide solamente sul godimento del bene. Con la conseguenza che soggetto passivo continua ad essere l’espropriando mentre nessun obbligo nasce in capo all’ente espropriante, divenuto possessore, ma non ancora proprietario, del bene»; in questi termini, G. Marini, cit., 100; cfr., inoltre, in tal senso, A. Pucci, L’ICI: imposta comunale sugli immobili, in Fin. loc., 1995, 80; per la tesi contraria, cfr., L. Del Federico, Espropriazione per pubblica utilità e tassazione ai fini ICI, in Il Fisco, 1998, 42, secondo il quale, «il soggetto espropriandoproprietario perde il possesso del bene, con la conseguenza del venir meno in capo a sé medesimo del presupposto d’imposta, nel contempo, il soggetto espropriante, pur acquisendo il possesso del bene, non diviene titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale (usufrutto, uso, eccetra), e quindi non può considerarsi soggetto passivo d’imposta ai fini ICI», riconoscendo così rilevanza al possesso. Invero, discorso diverso pare debba farsi con riferimento all’istituto dell’ occupazione acquisitiva, in forza della quale «a seguito di un’illegittima occupazione [ad opera della Pubblica Amministrazione], interviene una trasformazione del fondo privato, così radicale da determinare la perdita, in via irreversibile, della destinazione propria del fondo e il contestuale acquisto a titolo originario della proprietà del suolo occupato senza titolo da parte dell’ente pubblico», ritenendosi così realizzato il procedimento ablatorio, «a nulla rilevando l’eventuale successiva emissione del decreto espropriativo, che sarà un atto inutiliter dato perché insuscettibile di incidere […] sulla titolarità del diritto dominicale, già acquisito dall’Amministrazione pubblica»; in questi termini, G. Marini, cit., 101. Sul punto cfr., inoltre, Consiglio di Stato, sez. IV, 3 ottobre 1990, n. 940, in Rass. Consiglio Stato 1990, I, 1513; sez. IV, 10 ottobre 1990, n. 751, in Rass. Consiglio Stato 1990, I, 1192.
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di esproprio, dal momento che nell’occupazione d’urgenza il proprietario non perde il “possesso” dell’immobile, continuando ad esserne proprietario finché non interviene il decreto di esproprio, mentre invece l’occupante rivestirà la qualifica di mero detentore (39); per questo motivo, riconoscendo un’indennità per l’occupazione in capo all’espropriando (40). Al contrario, è proprio in forza del riconoscimento di un’indennità in capo al proprietario, che – ad avviso di chi scrive – il parallelismo con l’istituto del sequestro (operato dalla Corte ai fini I.c.i.) appare forzato e privo di fondamento, poiché, in virtù della corresponsione di un’indennità, parrebbe giustificato il riconoscimento della soggettività passiva d’imposta in capo al proprietario del bene, non configurandosi, in quest’ultima fattispecie, una violazione del principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. Se da un lato, infatti, è indubbio che il proprietario, nella fattispecie dell’occupazione, non possa liberamente disporre del bene (dunque non ne abbia la “disponibilità” nell’accezione sopra specificata), mediante la corresponsione di un’indennità, non può negarsi come lo stesso tragga comunque una qualche utilità dall’immobile. Paradossalmente, l’occupazione d’urgenza – data la corresponsione di un’indennità in capo al proprietario, il mantenimento del possesso da parte di questi e la qualifica dell’occupante come mero detentore – presenterebbe, tutt’al più, ai soli fini impositivi, maggiori elementi in comune con la fattispecie della locazione. Al contrario, nell’ipotesi del sequestro, non può ignorarsi che gli eventuali proventi derivanti dall’attività di amministrazione giudiziaria del bene confluiscano nel cd. F.U.G., non potendo di conseguenza, il titolare del diritto reale, godere dei medesimi, nonché, ovviamente, di una qualsiasi indennità, come invece avviene nella fattispecie dell’occupazione d’urgenza finalizzata all’esproprio. Il richiamo all’istituto dell’occupazione d’urgenza sembrerebbe dunque confermare la tesi opposta.
(39) «l’occupazione d’urgenza, per il suo carattere coattivo, non priva il proprietario del possesso dell’immobile, in quanto il bene continua ad appartenergli finché non interviene il decreto di esproprio, mentre [l’]occupante, che riconosce la proprietà in capo all’espropriando, […] deve essere qualificato come mero detentore»; in questi termini, Cass. civ. sez. V, sent., 30-10-2015, n. 22216. (40) «per tal motivo gli si riconosce [al proprietario] un’indennità per l’occupazione»; in questi termini, Cass. civ., sez. I, sent. 12-10-2007, n. 21433.
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Parte seconda
È regola pacifica, al fine di ottemperare al principio costituzionale di cui all’art. 3, trattare in modo eguale situazioni eguali, nonché diverso situazioni diverse: l’ipotesi del sequestro nulla avrebbe a che vedere con quella condizione di normalità prevista e disciplinata dal combinato disposto di cui agli artt. 1, comma 2, e 3, del D.Lgs. 504/1992. Siffatta interpretazione, maggiormente conforme al dettato costituzionale, sembra oltretutto trovare conferma all’interno del successivo art. 8, del medesimo decreto, disponendo quest’ultimo una riduzione della pretesa impositiva in capo al soggetto passivo qualora l’immobile dovesse risultare “… inagibile o inabitabile e di fatto non utilizzato …”; il richiamo a circostanze di “normalità”, nonché al concetto di “disponibilità”, si pone evidente: il proprietario o il titolare di altro diritto reale di godimento sul bene, avendone la disponibilità ben potrebbe, infatti, se non fosse per la sua inerzia, trarre dallo stesso una qualche utilità; discorso che chiaramente non potrà farsi nell’ipotesi del sequestro. Qualora non dovesse tenersi conto di quanto su esposto, si addiverrebbe ad un irragionevole (41) ed ingiustificato trattamento impositivo, così omologandosi tra loro situazioni strutturalmente diverse. Tanto premesso, secondo una lettura coerente ed armonica delle disposizioni in materia tributaria, quanto argomentato sinora troverebbe ratio medesima a quella di cui all’art. 14, comma 4, della L. n. 537/’93, che, con riferimento ai redditi relativi alle categorie di cui all’art. 6, comma 1, del T.u.i.r, prevede non debbano ricomprendersi all’interno delle categorie in parola quei redditi in esse classificabili come illecito civile, penale o amministrativo, qualora siano stati “già sottoposti a sequestro o confisca penale”, traducendosi
(41) Con riferimento al criterio della ragionevolezza, vd. G. Zagrebelsky, Su tre aspetti della ragionevolezza, in, AA.VV., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, Milano, 1994, 182, precisa che, «la ragionevolezza come razionalità, cioè come non contraddittorietà interna al sistema giuridico, ha a che vedere con una nozione di diritto tutt’altro che nuova ed è la nozione del diritto come ordinamento […]. Noi concepiamo il diritto non come somma di scarse norme, alle quali attingere caso per caso il criterio di risoluzione delle controversie, senza alcuna preoccupazione sistematica. Le norme devono stare tra loro in un ordine, non come gregge senza pastore – sto citando un’espressione della Corte costituzionale – ma come sistema determinato dal principio di non contraddizione (principio che rappresenta appunto il pastore delle norme)». Per la tesi opposta cfr., P. Barile, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in, AA.VV., Il principio di ragionevolezza, cit., 21 ss., che paventa perplessità in merito al sindacato sulla ragionevolezza relativa all’eventuale incoerenza della legge, «perché questo può portare indubbiamente al mero arbitrio».
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il dettato normativo (in materia di imposte dirette) nella non imponibilità dei proventi sequestrati per la durata del sequestro stesso. 6. Estensione delle riflessioni alla disciplina dell’I.m.u. – Le considerazioni sinora svolte in materia di I.c.i. trovano agevole applicazione anche per ciò che concerne la disciplina impositiva I.m.u, datane l’incontestabile somiglianza. In relazione alle fonti normative si fa riferimento all’art. 13, comma 1, del D.L. n. 201 del 6 dicembre 2011 (poi convertito in L. n. 214 del 22 dicembre 2011) (42), che ha istituito l’I.m.u. in via sperimentale a partire dall’anno 2012, prevedendone l’applicazione conformemente a quanto disposto negli artt. 8 e 9 del precedente D.Lgs. n. 23 del 14 marzo 2011, ove compatibili. Più precisamente, ai sensi del successivo comma 2 (del medesimo art. 13, D.L. 201/2011), il presupposto dell’Imposta municipale propria è dato dal “possesso” (degli immobili di cui all’art. 2 del D.Lgs. 504/1992). Quanto al soggetto passivo, in forza del rinvio esplicito all’art. 9 del D.Lgs. 23/2011, “i soggetti passivi dell’imposta municipale propria sono il proprietario … ovvero il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie sugli stessi…”. Viene dunque, in questa ipotesi, ripreso il termine “possesso”, nonché il riferimento al diritto di proprietà e agli altri diritti reali minori di godimento: elementi propri della disciplina I.c.i. Ad ulteriore conferma della forte somiglianza si pone quanto disposto ai sensi del comma 3, let. b), dell’art.13 del D.L. 201/2011, che prevede una riduzione dell’imposizione in misura pari al 50% con riferimento ai fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati. 7. Considerazioni conclusive. – Nei paragrafi precedenti sono state analizzate le diverse posizioni assunte sia in dottrina che in giurisprudenza in relazione al presupposto impositivo I.c.i. (nonché I.m.u.). Si è avuto modo di vedere come la Corte di Cassazione abbia interpretato il termine “possesso” in modo del tutto avulso dal concetto di “disponibilità” del bene, così riconoscendo la sussistenza della soggettività passiva al ricor-
(42) Che ha anticipato il passaggio all’ Imposta Municipale propria rispetto all’originaria previsione del 1 gennaio 2015. In questo modo è stato introdotto un regime sperimentale per il triennio 2012-2014.
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rere della mera titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento, per tale motivo anche in ipotesi, come in quella del sequestro, in cui pur mancando la disponibilità dell’immobile non venga meno la titolarità del diritto in capo al soggetto sottoposto al provvedimento in parola. L’obiettivo che ci si è posti è stato quello di dimostrare come, al contrario, nel caso di sequestro il soggetto titolare di uno dei diritti di cui sopra non dovrebbe essere tenuto a scontare l’imposizione sul patrimonio immobiliare, indistintamente dal fatto che questa sia intesa quale imposizione sull’attitudine reddituale del bene ovvero imposizione sul patrimonio in senso stretto, essendo necessario l’accoglimento di una nozione di “possesso” inscindibilmente connessa con l’elemento della “disponibilità”, quest’ultima intesa quale possibilità effettiva e concreta, attuale, ancorché potenziale, di utilizzazione e sfruttamento del bene, in termini di abitabilità ovvero di immissione sul mercato dell’immobile, in assenza di provvedimenti che – imponendo vincoli di indisponibilità – ne impediscano l’effettivo esercizio: condizione indispensabile per potersi giustificare il prelievo fiscale alla luce dei principi costituzionali e del sistema tributario complessivamente inteso.
Roberta Corriere
Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli
Brevi riflessioni in ordine alla rilevanza penale dell’omesso versamento dell’IVA e delle ritenute, tra ne bis in idem e principio di ragionevolezza Sommario: 0. Premesse. – 1. Il “doppio binario” sanzionatorio. – 2. La posizione
assunta dalla giurisprudenza sovrannazionale. – 3. I riflessi sulla verifica di legittimità del sistema interno. – 4. Il quadro sintetico della giurisprudenza nazionale. – 5. Brevi notazioni circa il problema interpretativo legato alla “crisi di liquidità”. – 6. Conclusioni. Il contributo affronta il tema delle fattispecie penali di omesso versamento dell’IVA e delle ritenute (artt. 10 bis e 10 ter d.lg. n. 74/00), esponendo i problemi interpretativi correlati alla crisi di liquidità. Vengono analizzati inoltre, sulla base della ricostruzione della giurisprudenza italiana e sovrannazionale, alcune delle questioni più controverse che attengono a queste norme incriminatrici, tra le quali il bis in idem (sostanziale e processuale), ed alcuni profili di irragionevolezza del sistema. The paper deals with the value added tax and advance tax deduction non-payment crimes (artt. 10 bis and ter d.lg. n. 74/00), exposing the interpretative problems related to the liquidity crisis. It also analyzes, based on the reconstruction of the Italian and supranational law, some of the most controversial issues pertaining to these regulations, including the ne bis in idem and “doppio binario” system. They were also analyzed some profiles of unreasonableness of the Italian criminal-tax system.
0. Premesse. – Il presente contributo ha lo scopo di illustrare brevemente alcune delle questioni che attengono alle fattispecie criminose dell’omesso versamento di ritenute dovute o certificate e dell’omesso versamento IVA,
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disciplinate dagli artt. 10 bis e 10 ter del d.lg. 10 marzo 2000, n. 74 (1) con particolare riferimento al contesto d’impresa. Si tratta di norme che sanzionano condotte oggi assai ricorrenti; il “tempo della crisi” ha provocato infatti un aumento esponenziale degli inadempimenti rispetto alle obbligazioni di pagamento nei confronti dello Stato (2). Tali irregolarità, peraltro, risultano ormai quasi caratteristiche di specifici settori di mercato, ed in particolare di quello sanitario, ove alla più comune e generale situazione di crisi si assommano gli effetti degli inadempimenti delle Pubbliche Amministrazioni rispetto al pagamento delle forniture eseguite dalle imprese poi obbligate al versamento delle imposte (3). Il fenomeno dell’inadempimento tributario, come pure noto, è discendente poi da un ulteriore elemento negativo, a carattere economico trasversale, rappresentato dalla c.d. “stretta bancaria” (“credit crunch”), e cioè dalla chiusura degli istituti di credito rispetto alle imprese (soprattutto alle PMI), che in un contesto di questo tipo sono rimaste evidentemente prive di partner per sopperire alla carenza di cash flow operativo (4). Le disposizioni incriminatrici in esame dunque assumono oggi un ruolo di notevole rilievo, anche statistico, nell’ambito del diritto penale dell’economia. Nel contempo esse sollevano però questioni giuridiche di non poco momento, che meritano di essere approfondite qui di seguito.
(1) Fattispecie che puniscono l’omesso versamento di somme dovute all’Erario risultanti dalle dichiarazioni, superiori, per ciascuna imposta, ad euro 250.000,00, “entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo” (e cioè entro il 27 dicembre dell’anno successivo alla chiusura dell’esercizio nel quale si sono verificati gli inadempimenti periodici). (2) Il Rapporto del Ministro dell’Economia e delle Finanze sui risultati conseguenti in materia di misure di contrasto all’evasione fiscale e contributiva reso ai sensi dell’art. 2 comma 1 del d.lg. 24 settembre 2015, n. 160, così come aggiornato al 28 ottobre 2016, in ordine ai dati sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva (documenti disponibili sul sito www.mef.gov.it) mostra ormai dati costanti (e preoccupanti) sull’entità del gap delle entrate tributarie a partire dal 2010. (3) Dai dati statistici raccolti da Assobiomedica (il report è consultabile sul sito www. assobiomedica.it) i ritardi nel pagamento delle forniture si sono attestati in media in circa 300 giorni nel biennio 2011-2012, 260 nel 2013, 195 nel 2014, 167 nel 2015, ed in 152 per l’anno 2016. (4) Sul tema, tra i contributi più recenti, si veda L. Pisani, Il controllo dei creditori, in Banca Borsa Tit. Cred., 2017, 1, 69 ss.
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1. Il “doppio binario” sanzionatorio. – Il d.lg. n. 74/00 ha introdotto nel nostro ordinamento la “nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”. L’impianto originario mirava in realtà a sanzionare soltanto atti di natura fraudolenta, quali l’utilizzo o produzione di fatture o documenti per operazioni inesistenti, dichiarazioni false o rese mediante artifici, condotte di alterazione finalizzate all’evasione, e solo nel caso dell’art. 5 condotte omissive, costituite per l’appunto dall’omessa dichiarazione, però in ogni caso contraddistinte da carattere sostanzialmente fraudolento. Successivamente il legislatore, con interventi del 2004 (l. 30 dicembre 2004, n. 311) e del 2006 (l. 4 luglio 2006, n. 223), ha inteso però assumere una diversa scelta di politica criminale, inserendo le fattispecie di cui agli attuali artt. 10 bis e 10 ter d.lg. n. 74/00, che sanzionano condotte puramente omissive del versamento di ritenute e di IVA, non associate a condotta fraudolenta (5). Entrambe le fattispecie sono caratterizzate da una struttura elementare. In breve: sono reati omissivi propri, il momento consumativo è segnato dalla scadenza del termine per adempiere, e l’elemento psicologico è costituito dal dolo generico. Proseguendo la disamina della disciplina di questi reati e la posizione del legale rappresentante dell’impresa debitrice (6) si può osservare che: i) l’art. 12 d.lg. n. 74/00 prevede l’applicazione di misure accessorie; ii) l’art. 12 bis (7) consente la confisca, anche per equivalente (nei soli confronti del legale rappresentante medesimo, infra), del “profitto” del reato, che si estende, secondo giurisprudenza consolidata, come si vedrà meglio da qui a breve, all’intera obbligazione tributaria;
(5) Sulla storia e sulle finalità delle modifiche legislative si vedano tra i tanti contributi E.M. Ambrosetti, in E. Mezzetti, M. Ronco, E.M. Ambrosetti, Diritto penale dell’impresa, Bologna, 2016, 453 ss; F. Marzullo, Il delitto di omesso versamento di ritenute certificate, in Cass. Pen., 2007, 4, 1372 ss.; G. Moschetti, L’omesso versamento IVA, non confondibile con l’interposizione fittizia, in Riv. Dir. Trib., 2010, 1, 14 ss; G. Falsitta, L’aberrante cumulo materiale fra sanzioni penali e sanzioni amministrative tributarie nel Decreto delegato n. 74/2000, in Riv. Dir. Trib, 2001, 2, 215 ss. (6) Utilizzeremo il termine “legale rappresentante” o “persona fisica” per indicare generalmente i soggetti che secondo il sistema vigente possono essere chiamati a rispondere in sede penale per l’inadempimento delle obbligazioni tributarie da parte dell’impresa. (7) Introdotto dal d.lg. 24 settembre 2015, n. 158, ma che riproduce quanto in precedenza già previsto dall’art. 1 comma 143 della l. 24 dicembre 2007, n. 244, che aveva operato il rinvio per i reati tributari all’art. 322 ter c.p.
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iii) l’art. 13 (8) vincola l’estinzione del reato tributario all’estinzione dell’intera esposizione debitoria prima dell’apertura del dibattimento. Vi è tuttavia che la scelta operata dal legislatore ha creato, anche per tali ipotesi delittuose, un sistema di “doppio binario” sanzionatorio. L’inadempimento dell’obbligazione relativa al versamento dell’IVA e delle ritenute in favore dell’Erario importa, infatti, due conseguenze: i) l’integrazione dell’illecito amministrativo-tributario; ii) a determinate condizioni (costituite dal superamento delle soglie) la realizzazione dell’illecito penale. Gli atti amministrativi e di riscossione emessi a seguito dell’inadempimento, oltre a compendiare le somme dovute allo Stato a titolo di “sorte”, incorporano delle ingenti sanzioni, interessi ed aggi (i c.d. “accessori”), che conducono spesso al sostanziale raddoppio delle poste debitorie. Il sistema sanzionatorio “non penale” (e cioè amministrativo-tributario), disegnato dalle riforme attuate con i decreti legislativi nn. 471, 472 e 473 del 18 dicembre 1997, che è ricalcato sulle forme strutturali della l. 24 novembre 1981, n. 689 (9), riveste dunque natura eminentemente afflittiva (10). In particolare la sanzione amministrativa-tributaria per l’omesso versamento IVA e delle ritenute consiste nel pagamento di un importo pari al 30% della somma non versata (11), al quale si aggiungono come appena detto altri “accessori”. Del resto sebbene l’art. 19 del d.lg. n. 74/00 al comma 1, ricalcando l’art. 9 comma 1 della l. n. 689/81, sancisca il principio di specialità, sostanzialmente esso risulta inapplicabile per le fattispecie di omesso versamento, ove tale condotta rappresenta il nucleo fondante sia dell’illecito tributario, sia di quello penale. L’art. 20 del d.lg. n. 74/00, nel confermare poi l’insussistenza della c.d. “pregiudiziale penale”, sotto il profilo processuale consente il parallelismo tra i due diversi procedimenti. A tal proposito assume allora un valore centrale nella disamina che stiamo conducendo la considerazione che l’art. 7 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269 (conv. l. 24 novembre 2003, n. 326) stabilisce che “le sanzioni amministrative
(8) Così come modificato per opera del d.lg. n. 158/2015. (9) Cfr A. Lanzi, P. Aldovrandi, L’illecito tributario, Padova 2005, 1 ss. (10) Sul tema della natura afflittiva delle sanzioni tributarie si veda, ex multis, C. Colombo, in Aa.Vv., Reati tributari e doganali, a cura di I. Scalfati, Milano, 2013, 6 ss. (11) Art. 13 del d.lg. n. 471/97 come modificato dal d.lg. n. 158/15.
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relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica” (12). Non v’è dubbio però che anche la posizione dei legali rappresentanti delle imprese con queste caratteristiche sia segnata da notevoli “interferenze” tra i due microsistemi, nella misura in cui, come detto, da un lato l’inadempimento del debito tributario importa a carico di questi soggetti l’esecuzione del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente e dall’altro l’estinzione del reato è vincolata a “condotte riparatorie” che involgono l’intero debito. Le sanzioni tributarie finiscono dunque giocoforza per “assommarsi” in capo alla persona fisica a quelle derivanti dalla commissione del reato anche nel contesto delle imprese dotate di personalità giuridica. C’è da notare inoltre che i delitti in esame (artt. 10 bis e 10 ter d.lg. n. 74/00) rappresentano delle ipotesi non disciplinate dal complesso normativo che regola la responsabilità della persona giuridica prevista dal d.lg. 8 giugno 2001, n. 231. È pure noto, a tale proposito, che la mancata previsione da parte del legislatore di tali fattispecie nell’ambito delle ipotesi per le quali può sorgere la responsabilità dell’ente si è riverberata, in via pratica, sulla sequestrabilità e successiva confiscabilità per equivalente di beni di proprietà della società di capitali per fatti di omesso versamento di imposte. Volendo allora sintetizzare la questione così come delineata dalla giurisprudenza si osserva che: i) è riconducibile al concetto di “profitto” confiscabile il c.d. “risparmio di spesa”, nel cui alveo rientra l’intera obbligazione tributaria (e quindi anche i c.d. “accessori”) (13); ii) non
(12) Sul tema si vedano Cass., Sez. Trib., 11 marzo 2015, Ag. Ent. c. C.P. S.p.A., n. 4854; Cass., Sez. Trib., 23 aprile 2014, Ag. Ent. c. T.P, n. 9122; Cass., Sez. Trib., 16 aprile 2014, Ag. En. c. A.R., n. 8848. (13) In giurisprudenza si veda Cass., Sez. III, 30 aprile 2015, G.A. e altro, n. 22127; Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2013, A.M. e altro, n. 18374; Cass., Sez. III, 19. Settembre 2012, U. S.p.A., n. 1256; Cass., Sez. V, 10 novembre 2011, Mezzieri, n. 1843. Sul tema in dottrina si veda E. Fassi, Le prime indicazioni della Corte di Cassazione sulla interpretazione dell’art. 12 bis recentemente introdotto nel tessuto del d.lg. 74 del 2000, nonché sulla sua efficacia con riguardo a provvedimenti di sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca, in Cass. Pen., 2016, 7-8, 2953 ss. Ed inoltre C.E.Paliero, F. Mucciarelli, Le Sezioni Unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, in www.penalecontemporaneo. it; F. Mazzacuva, La revisione della sentenza di patteggiamento emessa nei confronti dell’ente a seguito dell’assoluzione dell’imputato, in Giur. Comm., 2015, 5, 992 ss; V. Mongillo, Ulteriori questioni in tema di confisca e sequestro preventivo del profitto a carico degli enti: risparmi di spesa, crediti e diritti restitutori del danneggiato, in Cass. Pen., 2011, 6, 2332 ss: M. Romano, Confisca,
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essendo i reati tributari di cui al d.lg. n. 74/2000 delle fattispecie “codificate” in tema di responsabilità delle persone giuridiche, e quindi essendo detti reati esclusi dal novero di quelli c.d. “presupposto”, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente (stante la natura eminentemente sanzionatoria della misura ablativa) non può essere operato nei confronti della persona giuridica medesima (14), pena la violazione del principio di legalità (15). La stessa condotta omissiva (e cioè l’omesso versamento delle imposte dovute) è quindi gravemente sanzionata amministrativamente da norme tributarie; queste norme producono effetti sia sulla sfera della persona giuridica sia su quella del suo legale rappresentante; la medesima condotta tuttavia viene sanzionata per quanto concerne la sola posizione della persona
responsabilità degli enti, reati tributari, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2015, 4, 1674 ss. (14) Salvo le ipotesi simulatorie, e cioè di interposizione fittizia della persona giuridica, nel qual caso la giurisprudenza riconosce l’operatività del sequestro finalizzato a confisca per equivalente anche nei confronti di quest’ultima: “in tema di confisca occorre distinguere la confisca diretta dei beni che costituiscono il profitto del reato, o che derivano dal loro investimento o trasformazione in altri beni (confisca sempre consentita dall’art. 240 comma 1 c.p.), nonché dei beni di cui l’autore del reato abbia l’effettiva disponibilità perché intestati a società schermo, dalla confisca per equivalente, che cade su beni diversi da quelli confiscabili a norma dell’art. 240 c.p. e che ha natura sanzionatoria. Da ciò deriva che, in tema di reati tributari, è possibile procedere alla confisca diretta del profitto del reato commesso dal legale rappresentante o da altro organo della persona giuridica, quando il profitto sia rimasto nella disponibilità dell’ente. Mentre, al contrario, poiché in materia di reati tributari non è prevista la responsabilità dell’ente ex d.lg. n. 231 del 2001, non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica, qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa; e ciò salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio attraverso cui l’amministratore abbia agito come effettivo titolare, giacché, in tale evenienza, la trasmigrazione del profitto del reato in capo all’ente non si atteggerebbe alla stregua di un trasferimento effettivo di valori, ma quale espediente fraudolento non dissimile dalla figura dell’interposizione fittizia, rimanendo, cioè, il bene sempre nella sostanziale disponibilità dell’autore del reato e solo in apparente vantaggio dell’ente”, Cass., Sez. III, 11 febbraio 2014, M.M., n. 13990. (15) Cfr Cass., Sez. Un. 5 marzo 2014, Gubert, n. 10561. Per i commenti alla sentenza si veda in dottrina R. Bricchetti, Sì al sequestro preventivo per equivalente se la persona giuridica è uno “schermo fittizio”, in Guida dir., 2014, 15, 95 ss; G.L. Soana, Le Sezioni unite pongono limiti alla confisca nei confronti delle persone giuridiche per i reati tributari, in Riv. Giur. Trib., 2014, 5, 394 ss.; F. Vitale, Le sezioni unite sulla confisca per equivalente. Reati tributari e 231. Una questione ancora irrisolta, in www.archiviopenale.it, V. Maiello, Confisca per equivalente e pagamento del debito tributario, in Giur. It., 2014, 1, 1 ss.; G. Varraso, Punti fermi, disorientamenti interpretativi e motivazioni “inespresse” delle Sezioni Unite in tema di sequestro a fini di confisca e reati tributari, in Cass. Pen., 2014, 9, 2809 ss. In giurisprudenza si veda, sulla medesima linea delle Sezioni Unite, anche Cass., Sez. III, 9 febbraio 2016, S.S. e altro, n. 28223.
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fisica anche in sede penale, con le fattispecie alle quali si è fatto brevemente cenno. Sicché il contesto in disamina evoca il problema: i) dei rapporti tra sanzione tributaria e penale (“doppio binario”), anche sotto il profilo procedimentale (bis in idem processuale) (16), che dovrà essere analizzato anche alla luce degli
(16) Dal punto di vista processuale, il principio del ne bis in idem pone un limite alla potestà giurisdizionale, e quindi una preclusione rispetto all’idem factum nei confronti dell’eadem persona (F. Callari, La firmitas nel giudicato penale, essenza e limiti, Roma, 2009, 6). La pluralità di pronunce sullo stesso fatto genera infatti un’anomalia (G. Catelani, Manuale dell’esecuzione penale, Milano, 2002, 278) che deve essere risolta in sede esecutiva con l’applicazione dei criteri di cui all’art. 669 c.p.p. Detto divieto, secondo quanto previsto dall’art. 649 c.p.p., presuppone la sussistenza di una pronuncia irrevocabile, e, come detto, l’identità del fatto, anche se “diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze”. Il titolo sta ad indicare la qualificazione giuridica della condotta, mentre il grado “la misura dell’evento nei reati progressivi” (F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1998, 1092). Secondo l’autorevole fonte dottrinaria da ultimo citata, l’identità del fatto sarebbe rappresentata dal binomio condotta-oggetto fisico, con conseguente irrilevanza dell’evento (nel medesimo senso anche M. Ceresa Gastaldo, in M. Bargis, E. Marzaduri, R. Orlandi ed altri, Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso, V. Grevi, Padova, 2008, 972 ss). E tuttavia la giurisprudenza di legittimità ha offerto tradizionalmente una interpretazione diversa per la nozione di “medesimo fatto”: “l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi: condotta; evento; nesso casuale, in riferimento alle stesse condizioni di tempo, di luogo e di persona”, Cass., Sez. Un., 28 giugno 2005, Donati, n. 34655. Sul tema è di recente intervenuta la Corte delle leggi, che con la sentenza Corte cost., 21 luglio 2016, n. 200 (sul caso “Eternit”), in estrema sintesi, ha stabilito che: i) secondo il “diritto vivente” l’art. 649 c.p.p. vieta l’instaurazione di un secondo giudizio sull’identità della “triade” condottaevento-nesso di causalità; ii) l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, in tema di divieto di bis in idem in materia penale, è stato interpretato dalla Corte EDU, a partire dalla sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukine c. Russia, come divieto di un secondo giudizio a seguito di sentenza irrevocabile (secondo i criteri già evidenziati dalla sentenza della Grande Camera della Corte EDU, 27 maggio 2014, Margus c. Croazia) sul medesimo “fatto storico” (con prevalenza dell’idem factum sull’idem legale); iii) la disposizione della Carta EDU non sancisce che per “idem factum” debba considerarsi soltanto la condotta, atteso che il “fatto storico-naturalistico” deve essere individuato mediante un approccio “epistemologico” che consenta di descriverne “il contenuto identitario” e che non può prescindere dall’oggetto fisico fino a giungere all’evento “naturalistico che ne è conseguito”; iv) in questo quadro “non vi è spazio di contrasto tra l’art. 649 c.p.p. e l’art. 4 del Prot. n. 7 alla Carta EDU”; v) nelle ipotesi di concorso formale ex art. 81 c.p., ed in particolare di concorso tra diversi reati consumati con un’unica azione od omissione, il “diritto vivente… ha saldato il profilo sostanziale implicato dal concorso formale dei reati con quello processuale recato dal divieto di bis in idem, esonerando il giudice dall’indagare sulla identità empirica del fatto”; vi) tale ultima impostazione, dipendente dalla struttura della disposizione processuale (art. 649 c.p.p.) ne implica l’illegittimità costituzionale rispetto all’art. 4 del Prot. n. 7 alla Carta EDU, perché “segna l’abbandono dell’idem factum, quale unico fattore per stabilire se sia applicabile o
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orientamenti giurisprudenziali sovrannazionali che definiscono il concetto di “matière pénale”; ii) della ragionevolezza del trattamento sanzionatorio riservato alla persona fisica, secondo canoni sovrannazionali e costituzionali. 2. La posizione assunta dalla giurisprudenza sovrannazionale. – è ora il tempo di passare al vaglio l’esegesi che la giurisprudenza sovrannazionale più recente ha fornito in merito al divieto di bis in idem processuale, ai rapporti tra illeciti amministrativi e penali, e più in genere al c.d. “doppio binario”. Innanzitutto come noto, sotto il profilo sostanziale, secondo costanti orientamenti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, una sanzione amministrativa può, a determinate condizioni, essere qualificata come “penale”. In particolare già a partire dalla nota sentenza Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, secondo le Corti: i) il termine “reato” deve essere inteso in senso “sostanziale”, e non in base al mero nomen iuris, né all’autorità che abbia irrogato la sanzione, rappresentando questi degli elementi che non assumono carattere vincolante; ii) la sanzione amministrativa, pecuniaria o interdittiva, è qualificabile come penale laddove essa si riveli tale in termini di severità e gravità (anche in ordine all’onerosità), e quando essa si ripercuota sulla sfera del soggetto responsabile perseguendo, sostanzialmente, un fine preventivo ed in seconda battuta repressivo (17). Inoltre si aggiunga che con la sentenza Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 18 luglio 2007, Kraaijenbrink c. Belgio la Corte, nell’affrontare il tema dell’idem factum, ha affermato che se in tale alveo non sono riconducibili condotte unificate dall’identità del disegno criminoso, vi rientrano invece “i fatti inscindibilmente legati tra loro, indipendentemente dalla qualificazione giuridica o dall’interesse tutelato” dalle diverse norme incriminatrici (18). Sulla base di tali criteri la giurisprudenza sovrannazionale ha affrontato dunque in diverse occasioni la questione del ne bis in idem processuale, che è sancito: i) dall’art. 4 Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia
no il divieto di bis in idem”. Conseguentemente è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. “nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale”. (17) Nel medesimo senso si veda Corte EDU, 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania. (18) Sull’argomento si veda L. Sanvito, Principio di specialità e divieto di un secondo giudizio nei reati tributari: recenti evoluzioni della giurisprudenza italiana e della Corte EDU, in Riv. Dir. Trib. 2015, n. 1 pp. 23 ss.
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dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Convenzione EDU), a mente del quale “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato”; ii) dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), ai sensi del quale “nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione Europea a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge” (19). In ordine a questo tema e proprio in relazione agli illeciti tributari (per quanto concerne l’evasione IVA, laddove invece la disciplina sanzionatoria dell’omesso versamento delle ritenute non rientra nell’ambito applicativo del diritto dell’Unione) (20) è intervenuta la Corte di Giustizia dell’Unione Europea – Grande Sezione con la sentenza 26 febbraio 2013, Aklagaren c. Hans Akeberg Franssonn che ha affrontato la questione della legittimità dell’instaurazione del procedimento penale a seguito dell’irrogazione di una sanzione amministrativa divenuta già definitiva sull’idem factum, esponendo anche alcuni importanti principi in ordine all’ammissibilità del “doppio binario” sanzionatorio sotto il profilo sostanziale. La Corte di Giustizia, in quella occasione, ribadendo la validità degli Engel criteria, ha statuito allora che se è vero che il principio del ne bis in idem sancito dall’art. 50 della CDFUE non osta in astratto a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni in materia tributaria, una combinazione di sanzioni amministrative e penali, al fine di tutelare gli interessi finanziari dell’Unione Europea mediante il sistema di riscossione di entrate provenienti dall’IVA, altrettanto vero è che il giudice nazionale ha l’obbligo di verificare che le sanzioni tributarie non abbiano, in concreto ed in base ai criteri sopra delineati, natura sostanzialmente penale, per evitare anche sotto il profilo processuale una indebita “duplicazione”.
(19) In proposito al di là della “vicinanza” testuale e letterale all’art. 50 CDFUE all’art. 4 Prot. 7 della Convenzione EDU si osservi che il successivo art. 52 CDFUE stabilisce che “laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione”. Il che si traduce in una sovrapponibilità delle norme contenute nella CDFUE a quelle che compongono la struttura della Convenzione EDU. (20) Cfr in tal senso Cass., Sez., III, 11 febbraio 2015, A.M. n. 19334.
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Orbene, la questione del rapporto tra sanzione penale e sanzione amministrativa (in materia di market abuse) è stata poi affrontata nella nota sentenza Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia, che ha suscitato un acceso dibattito e che ha indotto, come si avrà modo di vedere da qui a breve, a profonde riflessioni in ordine alla compatibilità costituzionale e/o comunitaria del “doppio binario” (21). Estrapolando e sintetizzando il principio espresso in quella pronuncia (22), si può rilevare che la Corte EDU ha affermato la violazione del divieto del bis in idem processuale (stabilito dall’art. 4 Prot. 7 della Convenzione EDU) nell’ipotesi in cui a fronte di atti sanzionatori qualificati come amministrativi (ed adottati nell’ambito di un procedimento definito), ma caratterizzati da particolare afflittività, si instauri nei confronti del medesimo soggetto un successivo giudizio penale avente ad oggetto la stessa condotta (idem factum) (23).
(21) Volendo ripercorrere molto brevemente la questione sottoposta alla Corte EDU si può osservare che i ricorrenti si erano visti irrogare dalla CONSOB sanzioni amministrative con riguardo alla violazione della normativa in materia di abusi di mercato (art. 187 ter d.lg. 24 febbraio 1998, n. 58), sanzioni sostanzialmente confermate in via definitiva, all’esito del procedimento amministrativo instauratosi, in sede giudiziale. Successivamente, era stato attivato, nei confronti dei medesimi soggetti, un procedimento penale per le medesime violazioni, o meglio per i medesimi fatti (in base all’art. 185 d.lg. n. 58/98). I ricorrenti avevano dunque contestato con ricorso alla Corte EDU la violazione del principio del ne bis in idem processuale deducendo di aver subito una sanzione di natura sostanzialmente penale all’esito del giudizio amministrativo, e di esser stati poi destinatari di una successiva azione penale per gli stessi fatti. (22) Sul medesimo solco ermeneutico si vedano anche, tra le altre, Corte EDU, 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia; Corte EDU, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia. (23) Per un commento alla pronuncia, tra i moltissimi contributi dottrinali, si veda anche S. Golino, A. Golino, Ne bis in idem: rilevanza nell’ordinamento tributario della recente sentenza della Corte EDU in materia di abusi di mercato, in Riv. Dott. Comm., 2015, 1, 139 ss (che segnalano la natura afflittiva delle sanzioni tributarie previste dall’ordinamento interno); E. Bindi, L’incidenza delle pronunce della Corte EDU sui procedimenti amministrativi sanzionatori delle autorità amministrative indipendenti, in Giur. Cost., 2014, 3, 3007 ss (che stigmatizza la portata sanzionatoria dei provvedimenti amministrativi adottati dalle autorità indipendenti); A. Alessandri, Prime riflessioni sulla decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo riguardo alla disciplina italiana degli abusi di mercato, in Giur. Comm., 2014, 5, 855 ss (che invoca un ripensamento generale da parte del legislatore sui rapporti tra sanzione penale e sanzione amministrativa, tradizionali “ma ormai incompatibili col quadro europeo”); A.F. Tripodi, Uno più uno (a Strasburgo) da due. L’Italia condannata per violazione del ne bis in idem in materia di manipolazione del mercato, in www.penalecontemporaneo.it (che suggerisce la modifica legislativa del sistema degli illeciti amministrativi in disamina attraverso l’applicazione della sanzione amministrativa solo nel caso di irrilevanza del fatto sotto il profilo
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Il tutto chiarendo che l’espressione “assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale” dello Stato deve essere interpretata con riferimento non solo alle sentenze e agli altri provvedimenti definitivi, comunque denominati, resi nell’ambito di un procedimento qualificabile come penale secondo l’ordinamento interno, ma anche con riguardo a tutti quei procedimenti che, statuendo sulla responsabilità, sfocino in un provvedimento di natura sostanzialmente penale, in base ai noti criteri, tra loro alternativi e non cumulativi, elaborati a tal fine a partire dalla citata sentenza “Engel”. Poco dopo la pronuncia “Grande Stevens” peraltro è intervenuta la sentenza Corte EDU, 20 maggio 2014, Nikanen c. Finlandia che in tema di sanzioni amministrative-tributarie ha chiarito che assumono natura “penale” tutti quei provvedimenti che, seppur irrogati dall’autorità amministrativa, vengono comminati nei confronti del contribuente attraverso una sanzione ulteriore rispetto al recupero dei tributi evasi ed ai relativi interessi; il tutto, si badi bene, anche laddove gli importi della sanzione medesima siano piuttosto modesti (24). Con la successiva sentenza Corte EDU, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia il giudice europeo ha poi affermato il principio secondo il quale non importa la violazione del principio del ne bis in idem processuale la celebrazione del procedimento penale a carico dell’imputato che sia stato già sanzionato in via definitiva con una “sovrattassa” nell’ipotesi in cui tra i due procedimenti sussista una “connessione sostanziale e temporale stretta”. A parte l’espressione di tale principio, che è stato fortemente criticato in dottrina (25), la Corte EDU ha rimarcato però in quella occasione la
penale); V. Notargiacomo, Illecito penale e illecito amministrativo: c’è ancora spazio per il doppio binario sanzionatorio?, in Cass. Pen., 2015, 1, 279 ss (che sostiene la necessità di una revisione del sistema amministrativo, mediante una riduzione delle conseguenze dell’illecito per ammetterne il “cumulo” con le sanzioni in sede penale). (24) Nell’occasione la Corte ha statuito la violazione, da parte dello Stato finlandese, del divieto del bis in idem processuale nei termini dianzi descritti a fronte di una sanzione amministrativa pecuniaria irrogata al contribuente per l’importo di € 1.700,00. Negli stessi termini si veda anche la precedente pronuncia Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia. (25) La decisione è stata già oggetto di alcuni commenti: F. Viganò, La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, in www. penalecontemporaneo.it, che ha definito la sentenza “deludente”.
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“legittimità condizionata” del “doppio binario”, e cioè del mix di sanzioni penali ed amministrative. Il giudice europeo ha precisato che queste condizioni sono costituite dalla sussistenza di un elemento che segni una sostanziale differenza tra precetto tributario e precetto penale; in altri termini il “cumulo” sotto il profilo sostanziale è ammissibile solo laddove la norma penale sia funzionale alla repressione di un quid pluris rispetto al mero inadempimento tributario sanzionato in via amministrativa. Tale elemento potrebbe essere costituito, secondo la Corte EDU, da una condotta fraudolenta (aggiunta all’inadempimento tributario) non validamente contrastabile in sede amministrativa; il tutto ferma in ogni caso la necessaria proporzionalità delle sanzioni applicate nelle diverse sedi rispetto al fatto illecito unitariamente realizzato. Proseguendo l’analisi in ordine al bis in idem processuale è opportuno richiamare la recentissima sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 5 aprile 2017, Orsi e Baldetti c. Italia che, richiamando un precedente della Corte EDU (26), ha affermato che laddove le sanzioni amministrativetributarie vengano irrogate alla persona giuridica, e venga successivamente instaurato un processo penale a carico dei legali rappresentanti della stessa, non si configura bis in idem processuale in ragione dell’asimmetria soggettiva tra procedimenti (27). A conclusione di questa breve ricostruzione si può dunque rilevare che alla luce del diritto sovrannazionale: i) le sanzioni amministrative previste dal sistema tributario nazionale per grado di afflittività debbono essere ricondotte certamente nell’ambito della “matière pénale”; ii) la condotta sanzionata amministrativamente è sovrapponibile a quella descritta dalle fattispecie criminose oggetto del presente studio (idem factum); iii) il problema del bis in idem processuale rimane vivo per le piccole realtà imprenditoriali, e più precisamente per le imprese individuali, e più in generale per i casi in cui l’ordinamento consenta l’applicazione diretta della sanzione amministrativa alla persona fisica (28); iv) la questione di legittimità del “cumulo” delle
(26) Corte EDU, 20 maggio 2014, Pirttimäki c. Finlandia. (27) La sentenza è stata annotata adesivamente da M. Scoletta, Ne bis in idem e doppio binario in materia tributaria: legittimo sanzionare la società e punire il rappresentante legale per lo stesso fatto, in www.penalecontemporaneo.it. (28) Con la conseguenza che la mera sospensione dell’esecuzione (si tratta della sospensione dell’esecuzione prevista dall’art. 21 d.lg. n. 74/00, destinata peraltro ad essere
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sanzioni rappresenta un tema ancora “aperto” per tutte le realtà imprenditoriali. Come è possibile notare agevolmente sia nella sentenza Aklagaren della Corte di Giustizia sia in quella A. e B. c. Norvegia della Corte EDU le Corti, partendo dalla questione del bis in idem processuale, hanno fornito anche delle linee guida in ordine alle condizioni di legittimità del “doppio binario” sotto il profilo sostanziale, rispetto alle quali il sistema italiano, in ordine alle fattispecie oggetto del presente studio, sembra disallineato. Sicché è in dubbio la proporzionalità della risposta punitiva. 3. I riflessi sulla verifica di legittimità del sistema interno. – A completamento del quadro, appare a questo punto opportuno sviluppare alcuni brevi rilievi in merito alla posizione assunta dalla giurisprudenza nazionale relativamente alla questione del ne bis in idem processuale e del “doppio binario”, che verrà necessariamente analizzata in maniera cursoria. Ed invero le Sezioni Unite, prima della pronuncia della Grande Camera nel caso “Grande Stevens”, con la Cass., Sez. Un., 28 marzo 2013, R.B., n. 37424 hanno affermato la legittimità dell’attuale sistema sanzionatorio di “doppio binario”, proprio nell’ambito tributario. E ciò negando già sotto il profilo sostanziale (in base alla differenza temporale tra i termini che scandiscono la consumazione dei diversi illeciti) l’identità tra le condotte illecite (idem factum) disciplinate dalle norme sanzionatorie di riferimento, ed affermando che il rapporto tra le fattispecie amministrative-tributarie da un lato e quelle penali dall’altro non si porrebbe in termini di specialità quanto piuttosto di piena autonomia. Ad avviso della Corte di legittimità, che ha richiamato la figura della “progressione criminosa”, infatti la fattispecie penale “costituisce una violazione molto più grave di quella amministrativa”, connotandosi peraltro di “segmenti comportamentali […] che si collocano temporalmente in un momento successivo al compimento dell’illecito amministrativo” (che si sostanzia attraverso gli inadempimenti periodici). La diversità dell’oggetto dunque, ad avviso delle Sezioni Unite, dovrebbe indurre ad escludere la violazione del bis in idem di natura processuale
rimossa nel caso di definizione positiva del procedimento penale con determinate formule), non è in grado di eliminare l’effetto di duplicazione tra procedimenti: uno concluso in sede “extrapenale” (seppure con conseguenze sanzionatorie “sospese”) ed un altro instaurato davanti al giudice penale, vertenti sull’idem factum.
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nel caso di procedimento penale instaurato dopo la conclusione di quello amministrativo. La soluzione esegetica apprestata dalla Suprema Corte non appare tuttavia convincente. E difatti la realizzazione della fattispecie illecita disciplinata da disposizioni qualificate come penali implica ex se il passaggio attraverso l’illecito “minore” (quello punito con la sanzione amministrativa-tributaria; id est omesso versamento periodico, volendo riconoscere a detto illecito natura “penale”, come sembrano ritenere le medesime Sezioni Unite), che ne costituisce il presupposto logico ed ontologico; ci si trova allora di fronte a stadi crescenti di offesa al medesimo bene giuridico che si intende tutelare (l’interesse erariale alla riscossione dei tributi), e quindi a condotte che non possono essere sanzionate autonomamente senza importare un “cumulo” (29). Del resto secondo diffusi orientamenti giurisprudenziali il reato progressivo (che è la figura che sembra più correttamente associabile a queste ipotesi, e che è ben distinguibile dalla progressione criminosa richiamata dalle Sezioni Unite) (30) importa il concorso apparente di norme, e quindi l’applicabilità di un’unica fattispecie di reato (31).
(29) L’illecito punito con la sanzione (formalmente) amministrativa-tributaria e quello colpito dalle disposizioni incriminatrici oggetto del presente lavoro sono accumunati dall’unitarietà del fatto realizzato (il fatto illecito amministrativo-tributario si colloca sulla medesima linea dell’illecito penale); unitarietà che si coglie sia sul piano della condotta – costituita da un comportamento omissivo correlato all’offesa dell’interesse “maggiore” (omesso versamento annuale) – sia sul piano della colpevolezza (orientata verso un unico evento antigiuridico). (30) Mentre alcuni autori utilizzano i termini “reato progressivo” e “progressione criminosa” come sinonimi (tra di essi G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, Bologna, 1995, 623) altri autori operano una distinzione in questi termini: è reato progressivo l’ipotesi in cui la realizzazione di una fattispecie implica necessariamente il passaggio attraverso gradi diversi di offesa del medesimo bene giuridico; è progressione criminosa l’offesa progressiva a beni giuridici di valore via via crescente, attraverso una modifica della risoluzione criminosa in corso d’opera (in questo senso T. Padovani, Diritto penale, Milano, 2012, 403; A. Pagliaro, Principi di diritto penale, Milano, 2003, 200 ss; F. Ramacci, Corso di diritto penale, Torino, 2001, 490; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, 1991, 478 ss. Tutti questi autori, ad eccezione di Padovani, riconducono peraltro queste ipotesi al concorso apparente di norme). Per un commento critico alla sentenza si veda A. Ciraulo, La punibilità degli omessi versamenti dell’IVA e delle ritenute certificate nella lettura delle Sezioni Unite, in Cass. Pen., 2014, 1, 66 ss. (31) In argomento si può osservare, in estrema sintesi, che la Cassazione è ormai ferma nell’affermare che l’unico criterio utile per la risoluzione del problema del concorso apparente sia quello, proposto da autorevole dottrina (T. Padovani, Diritto penale, op. cit., 383 ss), fondato sul solo criterio di specialità (art. 15 c.p.), con il rigetto di criteri alternativi di natura
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Successivamente con la sentenza Corte cost., 26 marzo 2015, n. 49 la Corte delle leggi è intervenuta sul tema del “doppio binario” affermando che la sovrapposizione della disciplina dell’illecito amministrativo a quella penale, frutto della scelta discrezionale del legislatore, deve comunque rispondere ad una logica di sussidiarietà del diritto penale medesimo, che deve assumere il ruolo di extrema ratio. Sempre in ordine alla legittimità del sistema di “doppio binario” e al problema del bis in idem processuale, si segnala che la Consulta con la sentenza Corte cost., 12 maggio 2016, n. 102 ha stabilito: “è pacifico, in base alla consolidata giurisprudenza europea, che il divieto di bis in idem ha carattere processuale, e non sostanziale. Esso, in altre parole, permette agli Stati aderenti di punire il medesimo fatto a più titoli, e con diverse sanzioni, ma richiede che ciò avvenga in un unico procedimento o attraverso procedimenti fra loro coordinati, nel rispetto della condizione che non si proceda per uno di essi quando è divenuta definitiva la pronuncia relativa all’altro” (32). La Corte di Cassazione, in alcune occasioni (33), è giunta poi a negare la violazione del ne bis in idem processuale in materia di illeciti tributari per un ulteriore aspetto; e cioè, nelle società dotate di personalità giuridica, in ragione della differenza soggettiva tra la figura dell’imputato nel procedimento penale (persona fisica) ed il titolare dell’obbligazione tributaria nel procedimento amministrativo (persona giuridica) (34).
valoriale (sussidiarietà e individuazione dei beni giuridici tutelati, un tempo particolarmente utilizzati in giurisprudenza). Così si sono espresse, ad esempio, Cass., Sez. Un., 28 ottobre 2010, D.L.P., n. 1963; Cass., Sez. Un., Cass., Sez. Un., 19 aprile 2007, C.G., n. 16568, ed in precedenza Cass., Sez. Un., 20 dicembre 2005, M.A., n. 47164. Tuttavia la giurisprudenza generalmente riconduce (a nostro avviso condivisibilmente) al concorso apparente di norme anche il reato progressivo. Cfr Cass., Sez. VI, 12 maggio 2015, C.G. e altri n. 44667; Cass., Sez. VI, 3 novembre 2015, M.F. e altro, n. 45468; Cass., Sez. III, 20 maggio 2015, D.A. e altro, n. 24985. Sulla stessa linea in questa sede accolta si veda G.M. Flick, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto?, in Riv. Dir. Soc., 2014, 5, 953 ss. Tale impostazione peraltro risulta conforme agli orientamenti giurisprudenziali sovrannazionali, espressi nella citata sentenza Kraaijgenbrink c. Belgio della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. (32) La sentenza è stata annotata da A.F. Tripodi, Il doppio binario sanzionatorio all’esame del giudice delle leggi: una decisione in materia di abusi di mercato tra corsi e ricorsi storici, in Giur. Cost. 2016, n. 4 pp. 1498 ss. (33) Cfr Cass., Sez. III, 2 maggio 2015, S.C.M.A. S.r.l., n. 9224; Cass., Sez. III, 24 ottobre 2014, D.A. e altri, n. 43809. (34) In questo senso si veda anche Corte cost., 24 ottobre 2016, n. 229. Tale soluzione ermeneutica si colloca dunque in linea con la recentissima sentenza della Corte EDU nel caso “Orsi e Baldetti”.
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Il tema è ancora peraltro particolarmente vivo e magmatico. Si tenga conto, infatti, che di recente la Sezione Tributaria della Cassazione ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia per un caso in cui il destinatario della sanzione amministrativa oggetto del procedimento a quo aveva già subito una condanna in sede penale, rilevando la questione del bis in idem processuale (35). Più in genere si può rilevare che la giurisprudenza nazionale, pur in costante confronto con quella della Corte EDU e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (ed esprimendo generalmente principi in linea con la giurisprudenza di queste Corti), mostra però un’evidente posizione conservatrice del sistema vigente e del “doppio binario”, come emerge in maniera molto limpida ad esempio dalla lettura della citata sentenza della Corte costituzionale n. 102/16, ove la Consulta ha stigmatizzato gli effetti derivanti da un eventuale accoglimento delle questioni di legittimità del “cumulo” sanzionatorio in termini di vuoto normativo e di crisi della certezza del diritto in sede applicativa. L’attenzione peraltro è concentrata sulla questione del bis in idem processuale laddove invece, come si è detto, non appare affatto trascurabile la frizione del sistema interno con i canoni di proporzionalità pure espressi dalla giurisprudenza europea e comunitaria. 4. Il quadro sintetico della giurisprudenza nazionale. – Il “doppio binario” mostra particolari criticità in relazione alle fattispecie di omesso versamento e con particolare riferimento alle imprese dotate di personalità giuridica, nella misura in cui condotte puramente omissive, e quindi sprovviste del disvalore caratteristico delle altre condotte fraudolente sanzionate dal sistema penaltributario (36), vengono punite: i) con pena detentiva (reclusione da sei mesi
(35) Cass., Sez. Trib., 20 settembre 2016, ord. n. 20675 (F. Viganò, A never-ending story? Alla Corte di giustizia dell’Unione europea la questione della compatibilità tra ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia, questa volta, di abusi di mercato, in www. penalecontemporaneo.it). Per altre questioni pendenti si rinvia alla Relazione di orientamento dell’Ufficio del massimario della Cassazione del 21 marzo 2017 sul tema “Ne bis in idem. Percorsi interpretativi e recenti approdi della giurisprudenza nazionale e europea”. (36) Anche per il diritto comunitario, come accennato, le condotte fraudolente sono ritenute meritevoli di trattamenti sanzionatori più severi perché connotate da un maggior disvalore. Sul tema si veda S. Manacorda, Le garanzie penalistiche nei rapporti con il diritto dell’Unione e il problematico ricorso al rinvio pregiudiziale: una lettura contestualizzata del caso Taricco, in Cass. Pen., 2016, 9, 3488 ss.
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a tre anni); ii) con l’applicazione di misure accessorie che importano una vera e propria capitis deminutio (art. 12 d.lg. n. 74/00); iii) con la responsabilità patrimoniale derivante dalla confisca (art. 12 bis d.lg. n. 74/00), anche per equivalente, che proietta dunque le conseguenze dell’illecito amministrativo sulla sfera della persona fisica, al di là dello “scudo” della persona giuridica, e che importa dunque, di fatto, la responsabilità solidale. Il sistema solleva allora a nostro avviso, anche rispetto alle guide lines provenienti dalla giurisprudenza sovrannazionale, forti dubbi di legittimità sotto l’aspetto della ragionevolezza della scelta legislativa operata (37) innanzitutto, come già accennato, in termini di proporzionalità (38).
(37) In ordine al principio di ragionevolezza F. Modugno, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Napoli, 2007, 6 ss osserva che nella giurisprudenza della Consulta i termini “ragionevolezza”, “uguaglianza”, “razionalità” e “proporzionalità” vengono utilizzati in maniera unitaria, come “criterio composito” di verifica di adeguatezza delle scelte legislative. A. Tesauro, Corte costituzionale, automatismi legislativi e bilanciamento in concreto, in Giur. Cost., 2012, 4909 ss rileva che il principio di ragionevolezza rappresenta il “saldo finale della verifica della razionalità politico-criminale complessiva della disposizione censurata, condotta alla luce dell’insieme dei parametri costituzionali di volta in volta messi in tensione dalla fattispecie in discussione”. F. Consulich, Materia penale e controllo costituzionale “ragionevole”: il caso dell’abuso paesaggistico, in Giur. Cost., 2016, 2 pp. 579 ss rimarca che la ragionevolezza costituisce criterio di riferimento di tutti i giudizi di costituzionalità in materia penale. In questo quadro la verifica di ragionevolezza si attua mediante un “controllo endogeno”, sulla logicità della disposizione, ed “esogeno” in termini di idoneità, necessità e proporzione. D. Pulitanò, Ragionevolezza e diritto penale, Napoli, 2012, 35 afferma che il controllo di ragionevolezza mira a verificare la coerenza logica ed assiologica del sistema. Più in generale si rammentano tra i tanti contributi dottrinali in tema di ragionevolezza: V. Manes, Attualità e prospettive del giudizio di ragionevolezza in materia penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2007, 2-3, 739 ss; A. Lanzi, Considerazioni sull’eventualità di un sindacato di ragionevolezza sulle scelte politico-criminali, in Ind. Pen., 2003, 3, 895 ss; F. Palazzo, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1998, 2, 350 ss. (38) Perplessità derivante dal rapporto tra gli effetti del “cumulo” ed il reale disvalore della condotta. La proporzionalità rappresenta peraltro un canone di verifica della legittimità delle norme incriminatrici anche secondo la CEDU (Cfr artt. 49 e 52). C’è da tener presente al riguardo che la Corte EDU esercita sulle norme incriminatrici un profondo controllo di proporzionalità “dell’ingerenza” (Cfr tra le tante pronunce, e per un caso “italiano” Corte EDU, 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia e la giurisprudenza ivi richiamata. La sentenza è stata annotata da F: Viganò, Belpietro c. Italia: una pronuncia della Corte di Strasburgo in tema di (s)proporzione della sanzione detentiva inflitta ad un giornalista, in Quad. Costituz., 2014, 1, 177 ss). Sul principio di proporzionalità nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con particolare riferimento alla disciplina sanzionatoria in materia tributaria, sempre per un caso nostrano, si veda la sentenza Corte di Giustizia, 17 luglio 2014, Equoland c. Agenzia delle Dogane di Livorno (e giurisprudenza ivi richiamata). In dottrina sul principio di proporzionalità si vedano,
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Il tema dell’applicabilità della confisca per equivalente nel processo penale per questo tipo di reati tuttavia, come si dirà qui di seguito, è stata occasione per l’emersione di una ulteriore criticità in termini di ragionevolezza, e più precisamente in ordine al rispetto del principio di eguaglianza (39). Le Sezioni Unite, in ordine al sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, con la già citata sentenza “Gubert” del 2014 hanno affrontato il tema della legittimità del sequestro, finalizzato a confisca per equivalente, nei confronti della persona giuridica, pervenendo per quanto accennato ad una soluzione negativa. Pur non potendo sollevare allora in quella occasione questione di costituzionalità per l’impossibilità di adozione da parte della Consulta di sentenze additive in malam partem (e quindi per difetto di rilevanza nel giudizio a quo), non hanno tuttavia mancato di evidenziare che il sistema, così come delineato, appare in patente violazione del principio di ragionevolezza, nella misura in cui non è prevista tra le fattispecie rilevanti a carico dell’impresa la violazione tributaria, e quindi nella misura in cui è per l’effetto esclusa la sequestrabilità di beni finalizzata a confisca per equivalente a carico della persona giuridica. E ciò pur a fronte: i) di un sistema che àncora la responsabilità ex d.lg. n. 231/01 a fatti commessi nell’interesse e vantaggio dell’ente; ii) ad illeciti (art. 10 bis e 10 ter d.lg. n. 74/00) che generalmente producono effetti, in termini di “risparmio di spesa”, proprio in favore dell’ente medesimo.
tra i tanti contributi: E. Dolcini, Pene edittali, principio di proporzione, funzione rieducativa della pena: la Corte costituzionale ridetermina la pena per l’alterazione di stato, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2016, 4, 1956 ss, che rileva che il principio di ragionevolezza si esprime anche attraverso l’esigenza di proporzione tra pena e gravità del reato, ricordando che anche l’art. 3 della CEDU stabilisce il divieto di pene inumane e degradanti; A. Merlo, Considerazioni sul principio di proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale in materia penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2016, 3, 1427 ss; S. Corbetta, La cornice edittale della pena, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1997, 1, 145 ss.; F. Bailo, Prosegue la “costituzionalizzazione” del principio di proporzionalità delle pene nella giurisprudenza della Consulta, in Giur. It., 2013, 1, 31 ss. (39) M. Cartarbia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, in www.cortecostituzionale.it chiarisce che l’eguaglianza rappresenta un corollario del principio di ragionevolezza. Sul tema del principio di eguaglianza in materia penale si vedano, tra i tanti contributi: E. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale. Uno studio sulla giurisprudenza costituzionale, Milano 2012; V. Manes, I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di offensività e ragionevolezza, in www.penalecontemporaneo.it; G.P. Dolso, Principio di eguaglianza e diritto penale. Osservazioni a partire dalla recente giurisprudenza costituzionale, in www.giur.cost.org (che si richiama anche in ragione del riferimento operato in quella sede a molteplici pronunce della Consulta sul tema).
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Ma allora se il difetto di ragionevolezza delle norme di riferimento, che si traduce in una violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., è affermazione che deve essere condivisa, la stessa deve essere recepita nella sua interezza. In tale ottica, invero, porre le conseguenze dell’illecito in sede penale (last but not least la confisca per equivalente) solo a carico del legale rappresentante crea, a ben vedere, una situazione di illogica ed incoerente disparità di trattamento. In questo scenario infatti si assiste ad un’ingiustificata asimmetria tra situazioni/posizioni (quella della persona giuridica e quella della persona fisica) che a ben vedere si appalesano omogenee, o addirittura che mostrano uno squilibrio a vantaggio della posizione dell’impresa. Il tutto, pertanto, contravvenendo ad un principio generale che condiziona l’ordinamento nella sua obiettiva struttura; un principio che, vietando alla legge di porre in essere una disciplina che dia luogo ad una immotivata disparità di trattamento delle situazioni giuridiche, esprime “un generale canone di coerenza dell’ordinamento normativo” (40). Il sindacato di ragionevolezza per disparità di trattamento si vincola generalmente ad un tertium comparationis, atteso che l’uguaglianza sancita dall’art. 3 Cost., sotto tale angolo prospettico, “deve essere apprezzata in rapporto alla disciplina che l’ordinamento riserva ad altre categorie o ad altre fattispecie” (41).
(40) B. Caravita, in Aa.Vv., Commentario breve alla Costituzione, a cura di V. Crisafulli, L. Paladin, Padova, 1990, 13 e ss. Anche se, come rilevato tra gli altri da M. Formica, La irragionevolezza “sopravvenuta” dell’art. 649 c.p.: problema non risolvibile dalla Consulta (esclusivamente) per mancanza di soluzioni costituzionalmente vincolate, in Giur. Cost., 2015, 6, 2090 ss il diritto penale tributario rappresenta una delle materie nelle quali si è registrata una minor penetrazione del controllo di ragionevolezza secondo il criterio di uguaglianza. Le norme incriminatrici in disamina peraltro sono state oggetto già di diversi giudizi di costituzionalità. Si rammentano in proposito la sentenza Corte cost., 8 aprile 2014, n. 80 (annotata da G. Flora, Il legislatore penale tributario a lezione di ragionevolezza dalla Corte costituzionale, in Dir. Pen. Proc., 2014, 6, 709 ss) con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità, per violazione del principio di eguaglianza, delle soglie di punibilità previste illo tempre dall’art. 10 ter d.lg. 74/00 rispetto a quelle previste per le fattispecie di cui agli artt. 4-5 del medesimo decreto legislativo; e la sentenza Corte cost. 5 giugno, n. 100 che, partendo dalle diverse soglie di punibilità previste allora dagli artt. 10 bis e 10 ter d.lg. n. 74/00, è pervenuta sostanzialmente ad affermare la legittimità del trattamento differenziato in base al maggior disvalore del delitto di omesso versamento delle ritenute (la pronuncia è stata annotata criticamente da A. Acquaroli, Quando l’apparenza inganna: la Corte costituzionale nega qualsiasi analogia tra l’art. 10 bis e l’art. 10 ter del d.lg. 74/00, in Giur. Cost., 2015, 3, 836 ss). (41) Cfr L. Paladin, Corte costituzionale e principio generale di eguaglianza: aprile
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Ebbene, se l’interesse essenziale è quello di garantire all’Erario l’integrale e tempestiva percezione dei tributi, non si vede come possa risultare ragionevole e rispettosa del principio di eguaglianza la scelta legislativa di sanzionare penalmente soltanto il legale rappresentante dell’impresa, sebbene lo stesso non abbia percepito alcun personale vantaggio dipendente dall’omissione di versamento (42). Si potrebbe obiettare a questa impostazione che ci si troverebbe in ipotesi nelle quali gli elementi del giudizio di comparazione non sarebbero sussumibili nell’ambito dell’art. 3 Cost. in quanto la disparitas sarebbe giustificata dal fatto che il responsabile della violazione penale è il legale rappresentante, quale autore dell’omissione criminosa, e non l’impresa, che in realtà finirebbe per subire gli effetti sanzionatori (in sede amministrativa-tributaria) della condotta del primo. Tuttavia non sembra questo un argomento decisivo. La giurisprudenza ha rilevato infatti in più occasioni che la responsabilità dell’ente ex d.lg. n. 231/01 è per fatto proprio, risiedendo essa nell’interesse/ vantaggio per la persona giuridica e nella colpa organizzativa; il tutto affermando che la responsabilità per l’impresa non è dunque di tipo obiettivo ed ammettendo espressamente lo scrutinio di legittimità costituzionale delle norme di riferimento sulla base dei medesimi criteri utilizzabili per la persona fisica, ivi inclusa la ragionevolezza e l’eguaglianza (43).
1979 – dicembre 1983, in Scritti sulla Giustizia Costituzionale, Padova, 1985, 638. Nella giurisprudenza costituzionale il riferimento al meccanismo del tertium comparationis nel giudizio di verifica del rispetto del principio di eguaglianza rappresenta una costante. Sul principio di eguaglianza ed il controllo di ragionevolezza, anche in ordine a profili comunitari, si veda diffusamente Insolera, N. Mazzacuva, L. Stortoni, S. Canestrari e altri, Introduzione al sistema penale, Torino, 2006, 313 ss. (42) La Corte costituzionale peraltro chiaramente accoglie un concetto allargato di eguaglianza, che involge anche la sfera delle persone giuridiche. Si segnala in argomento la sentenza Corte cost., 11 dicembre 2015, n. 262. Si rammenta inoltre che anche a livello europeo e comunitario vigono principi del tutto analoghi a quelli interni, nella misura in cui gli artt. 20 e 21 della CDFUE stabiliscono il principio di eguaglianza e di non discriminazione; si rammenta poi l’art. 14 CEDU. Sul punto si veda anche il Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n. 1381 del 17 dicembre 2013, che in premessa stabilisce che: “L’Unione europea si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”. (43) Cfr Cass., Sez. VI, 18 febbraio 2010, S.B. e altro, n. 27735. Sul punto si veda anche Cass., Sez. Un., 24 aprile 2014, E.H. e altri, n. 38343 (nel caso “TyssenKrupp”), ove si è
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Né è trascurabile, per quanto appena rimarcato, che in questi casi la destinazione del vantaggio dipendente dall’omissione (in favore dell’impresa attraverso il “risparmio di spesa”) rappresenta elemento che pone fortemente in crisi la ratio del trattamento differenziato. Si tratta dunque di un tema da approfondire, ed ancora sostanzialmente inesplorato in dottrina ed in giurisprudenza. Al riguardo è opportuno richiamare anche la sentenza Cass., Sez. III, 9 luglio 2015, N.A., n. 41210, che ci risulta inedita. La Corte di legittimità nell’occasione ha deciso l’impugnazione avverso un decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente eseguito nei confronti dell’amministratore di una società per azioni, accusato dei delitti di cui agli artt. 10 bis e 10 ter del d.lg. n. 74/00. Tra le varie ragioni di doglianza, il ricorrente (legale rappresentante della società) aveva per l’appunto evidenziato il difetto di ragionevolezza del sistema e la violazione del principio di eguaglianza proprio con riferimento alla mancata previsione tra i reati presupposto ex d.lg. n. 231/01 delle fattispecie contestate. La Suprema Corte in realtà ha affrontato il tema in maniera che appare erronea, rilevando che la questione di legittimità che il ricorrente aveva proposto di sollevare davanti alla Corte costituzionale sarebbe stata inammissibile in quanto finalizzata ad una pronuncia addittiva in malam partem, quando invece era stato denunciato il vizio del sistema rispetto alla posizione del ricorrente medesimo. Si tratta tuttavia di un tema, come detto, del tutto nuovo, e che all’evidenza, se affrontato in maniera più approfondita, potrebbe produrre una questione di legittimità ulteriore rispetto a quelle già sollevate, mettendo ancor più a rischio la tenuta del sistema. 5. Brevi notazioni circa il problema interpretativo legato alla “crisi di liquidità”. –In questo quadro si aggiunge tra le questioni interpretative, ed applicative, quella che attiene alla colpevolezza, che rappresenta un argomento molto à la page per questi reati. L’interprete infatti molto spesso si trova dinnanzi a situazioni aziendali complesse, e ad imprese che, a causa della contrazione dei ricavi, tendono
affermato “quale che sia l’etichetta che si voglia imporre su tale assetto normativo (in ordine alla natura della responsabilità dell’ente), è dunque doveroso interrogarsi sulla compatibilità della disciplina legale con i principi costituzionali dell’ordinamento penale”.
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nella migliore delle ipotesi a “centellinare” le uscite di cassa, eseguendo pagamenti talora solo nei confronti dei dipendenti e dei fornitori “strategici”, al fine di garantire l’operatività e la continuità dell’attività imprenditoriale. In giurisprudenza e dottrina dunque si dibatte se la crisi di liquidità dell’impresa obbligata verso l’Erario, talora ascrivibile ad inadempimenti della Pubblica Amministrazione (44) o di terzi rispetto agli obblighi di pagamento verso l’impresa medesima, o più in generale causata dal trend negativo del mercato, possa essere considerata quale “giustificazione” (in senso lato) rispetto al precetto penale, ed in caso positivo a quali condizioni. L’argomento involge dunque l’applicabilità dell’esimente della forza maggiore (art. 45 c.p.), e comunque l’analisi dell’elemento subiettivo. Quanto alla forza maggiore, in termini generali, si osserva che la giurisprudenza di legittimità, nel chiarire che si tratta di una condizione nella quale si può escludere la “suitas” della condotta, costantemente afferma che la stessa trovi il suo campo applicativo nel caso di assoluta ed incolpevole impossibilità di uniformarsi al “comando” (45), e con esclusione delle ipotesi nelle quali il soggetto responsabile si trovi in condizioni di rimproverabilità (46). Il tutto generalmente negando che le difficoltà economiche possano integrare tale condizione di esclusione (47). In ordine alle ipotesi criminose oggetto del presente contributo si può rilevare allora che la giurisprudenza ha molto spesso espresso una impostazione assai rigorosa, avallata dalla citata sentenza delle Sezioni Unite n. 37424/13, secondo la quale le difficoltà economico-finanziarie dell’impresa non potrebbero costituire forza maggiore in considerazione dell’obbligo di accantonamento periodico, violato il quale non sarebbe possibile invocare detta esimente (48).
(44) Si pensi ai casi nei quali i clienti dell’impresa debitrice siano enti pubblici “commissariati”, e quindi in stato di default e oggetto di provvedimenti amministrativi di “blocco” dei pagamenti. (45) Che spesso la giurisprudenza fa risiedere nel vasto concetto di “imprevedibilità” della situazione che genera l’impossibilità di adempimento (Cfr Cass., Sez. IV, 19 marzo 2015, S.F., n. 15713; Cass., Sez. IV, 24 febbraio 2015, L.C., n. 11142; Cass., Sez. III, 13 maggio 2014, S.A. e altro, n. 24333). (46) Cfr tra le sentenze più recenti Cass., Sez. IV, 22 aprile 2016, C.W., n. 24132; Cass., Sez. IV, 14 luglio 2016, P.G., n. 36883; Cass., Sez. IV, 17 ottobre 2013, C.M., n. 1500. (47) Cfr Cass., Sez. III, 1 giugno 2016, D.R.E., n. 30526; Cass., Sez. III, 19 novembre 2014, M.D., n. 51436; Cass., Sez. III, 25 febbraio 2014, M.G., n. 14953. (48) In questo solco ermeneutico, circa l’irrilevanza della carenza di liquidità, si collocano
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In altri casi, tuttavia, la giurisprudenza ha assunto posizioni più “aperte”, volte ad una verifica in concreto della sussistenza della causa di esclusione in disamina (49). Se da un lato poi in alcune occasioni si è negato che la scelta di destinazione delle risorse disponibili ad un particolare scopo (diverso dall’adempimento tributario) possa sostanziare l’impossibilità caratteristica della forza maggiore (50), dall’altro in alcune pronunce si è chiarito che l’impiego delle disponibilità per la continuità aziendale in alcuni casi connoti una condotta non tipica per difetto di dolo (51), e più in generale che la crisi di liquidità rappresenti un elemento valorizzabile (laddove detta condizione non sia dipendente da colpa o preordinata dall’imprenditore) ai fini dell’affermazione della carenza dell’elemento psicologico caratteristico (52). A tale riguardo si osserva allora che, anche in ragione del particolare contesto economico-finanziario interno e del concreto atteggiarsi della situazione internazionale, anche la dottrina maggioritaria sottolinea costantemente la necessità di valutare profili quali l’imprevedibilità e l’inevitabilità della carenza di liquidità e dell’inadempimento tributario quali cause di esclusione della responsabilità penale per il ricorrere della forza maggiore (nel caso
anche Cass. n. 30526/16 cit.; Cass., Sez. III, 24 febbraio 2016, Z.P., n. 14744; Cass., Sez. III, 28 ottobre 2015, M.L., n. 1623; Cass., Sez. III, 12 giugno 2013, C.A., n. 37528; Cass., Sez. III, 27 novembre 2013, M.P., n. 3124. (49) Cfr Cass., Sez. Fer., 28 agosto 2014, S.S. n. 40394 (che ha valorizzato la circostanza che il soggetto obbligato si era trovato in improvvisa difficoltà per perdita di un cliente “strategico”). Nella giurisprudenza di merito si veda Trib. Terni, Sez. Pen., 10 maggio 2016, G.M., n. 624 (che ha ritenuto che l’infruttuosa attività di recupero del credito da parte del soggetto obbligato rappresentasse elemento dimostrativo dell’impossibilità di adempiere al precetto tributario, e quindi dell’inesigibilità). (50) Cass., Sez. III, 6 ottobre 2015, R.G., n. 45690; Cass., Sez. III, 19 dicembre 2013, C.G., n. 3705; Cass., Sez. III, 19 gennaio 2011, B.G., n. 13100; nella giurisprudenza di merito Cfr Trib. Milano, Sez. III, 18 febbraio 2016, S.S., n. 13701; Trib. Bari, Sez. II, 15 febbraio 2015, L.G., n. 845. (51) Cfr Cass., Sez. III, 11 novembre 2015, T.B., n. 1725. (52) Cfr Cass., Sez. III, 16 settembre 2015, C.C., n. 49666 (che ha escluso il dolo omissivo in un caso in cui l’imprenditore aveva dimostrato le difficoltà economiche derivanti dagli omessi pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione); Cass., Sez. III, 16 luglio 2015, D.T., n. 40352 (che ha escluso la sussistenza dell’elemento psicologico caratteristico in ragione della dimostrazione da parte dell’imputato dell’adozione di tutte le contromisure necessarie al reperimento delle risorse per eseguire il pagamento, risultate infruttuose). Più in genere circa la carenza di dolo nei casi di crisi aziendale si vedano Cass., Sez. III, 8 aprile 2014, B.A., n. 27676; Cass. Sez. III, 6 febbraio 2013, I.A., n. 15176. Nella giurisprudenza di merito si veda Trib. Pordenone, Sez. Pen., 16 dicembre 2016, n. 1282.
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di assoluta indisponibilità); ed ancora che determinate situazioni di crisi debbano indurre a ritenere insussistente il dolo necessario all’integrazione delle fattispecie criminose di riferimento (nel caso di disponibilità di risorse insufficienti, destinate alla continuità aziendale) (53). Come evidente si tratta dunque di un contesto ove l’interprete, attese le soluzioni ondivaghe adottate in giurisprudenza, non dispone di punti di riferimento chiari ed immutabili. 6. Conclusioni. – È ora il tempo di rassegnare le conclusioni. I delitti di omesso versamento disciplinati dagli artt. 10 bis e 10 ter del d.lg. n. 74/00 ed il sistema di “doppio binario” si pongono in rapporto di notevole e costante tensione con i principi espressi dalla giurisprudenza sovrannazionale. Il grado di afflittività delle conseguenze sanzionatorie delle condotte omissive di riferimento pone dinnanzi all’interprete, per le imprese individuali, il problema del bis in idem già a livello processuale.
(53) Sul punto si veda V. Manes, Il ruolo poliedrico del giudice penale, tra spinte di esegesi adeguatrice e vincoli di sistema, in Cass. Pen., 2014, 5, 1918 ss. L’autore parla in proposito di spinte mitigatrici, dipendenti dalla crisi economica, nei confronti della giurisprudenza che dovrebbe assumere posizioni “coraggiosamente responsabili”. Sull’argomento A. Carotenuto, Illiquidità dell’impresa e dolo nell’art. 10-bis del d.lg. n. 74 del 2000, in Il fisco, 2005, 33, 5196, afferma la non condivisibilità di quelle espressioni giurisprudenziali che, facendo leva sul dolo generico caratteristico dei reati in esame, prevengono a ritenere sussistente l’elemento psicologico sulla base della mera “consapevolezza di non adempiere”. Tale impostazione dottrinale peraltro si colloca in linea con le ricostruzioni generali in tema di dolo nei reati omissivi offerte dalla dottrina più autorevole, che ha chiarito che l’elemento psicologico in questi casi è costituito dalla volontà, anche preordinata, di non adempiere (“pur potendo”) rispetto all’obbligo alla scadenza del termine imposto (Cfr F. Mantovani, Causalità, obbligo di garanzia e dolo nei reati omissivi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 4, 984 ss. G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, op. cit., 531). In tal senso anche G. Forte, in Aa.Vv. Corso di diritto penale dell’impresa, a cura di A. Manna, Padova, 2010, 550. L. Cuomo, P. Mulino (Omesso versamento di imposte e crisi d’impresa, in Cass., Pen., 2015, 2, 412 ss) rilevano in particolare la necessità di escludere la responsabilità nei casi di crisi determinata dal mancato incasso di crediti vantati dall’impresa debitrice nei confronti dell’Erario. Sul tema si veda anche G. Chiaraviglio, Omesso versamento IVA e crisi di liquidità, inesigibilità e procedure concorsuali, in Riv. Dott. Comm., 2016, 2, 332 ss, il quale ritiene indispensabile “restringere considerevolmente l’ambito dei casi in cui questi reati possano ritenersi sussistenti allorché il debitore versi in stato di insolvenza”. Per linee esegetiche ancor più estreme si veda F. Romoli, Omesso versamento di IVA e crisi di liquidità, in www.archiviopenale.it che sostiene che i delitti in esame non possano ritenersi configurabili in casi di crisi di liquidità pur derivanti da condotte colpose dell’imprenditore e quindi anche in caso “di mala gestio delle risorse economiche”. In senso analogo A. Martini, Reati in materia di finanze e tributi, in Trattato di diritto penale, diretto da C.F. Grosso, T. Padovani, A. Pagliaro, Milano, 2010, 620.
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Più in generale il “doppio binario” solleva vari dubbi in ordine alla legittimità del “cumulo” sotto il profilo della ragionevolezza, e quindi in primo luogo in ordine al rispetto del principio di proporzionalità. Il trattamento sanzionatorio differenziato riferito ai “protagonisti” dell’omissione, e cioè la persona fisica e quella giuridica, genera inoltre perplessità in ordine al rispetto del principio di eguaglianza. In questo complesso quadro si aggiunge il tema della rilevanza della crisi di liquidità ai fini dell’esclusione della colpevolezza. Ben si comprende pertanto la posizione assunta da gran parte della dottrina, che in alcuni casi ha evidenziato la necessità di una ristrutturazione del sistema, al fine di creare uno “statuto” unitario dell’illecito, ed in altri ha richiamato la teoria del rasoio di Occam (54).
Andrea De Lia
(54) Vi è infatti chi in dottrina ha invocato tout court la depenalizzazione delle fattispecie incriminatrici oggetto del presente studio. Tra questi ad esempio R. Caracuzzo, Omessi versamenti dell’IVA e delle ritenute certificate e crisi d’impresa, in Cass. Pen., 2014, 9, 3071 ss. Più in generale per la necessità di una riforma sistematica dei meccanismi di “doppio binario”, oltre al settore tributario (M. Dova, Ne bis in idem e reati tributari: una questione ormai ineludibile, in www.penalecontemporaneo.it), si sono espressi E.M. Flick, V. Napoleoni, A un anno di distanza dall’affaire Grande Stevens: dal ne bis in idem all’e pluribus unum?, in Riv. Soc., 2015, 5, 868 e ss. (che chiaramente affermano che il problema del bis in idem processuale andrebbe risolto “attraverso una energica riaffermazione del principio del ne bis in idem sostanziale”); D. Pulitanò, La Corte costituzionale sul ne bis in idem, in Cass. Pen., 2017, 1, 70 ss; B. Lavarini, Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem: la crisi del “doppio binario” sanzionatorio, in Dir. Pen. proc., 2015, 1, 82 ss; F. Mucciarelli, La nuova disciplina eurounitaria sul market abuse: tra obblighi di criminalizzazione e ne bis in idem, in www.penalecontemporaneo.it ed ivi anche F. Viganò, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato: una sfida per il legislatore e i giudici italiani, e A. Massaro, Europeizzazione del diritto penale e razionalizzazione del sistema sanzionatorio: il superamento dei “doppi binari” nazionali nel segno sostanzialistico funzionale della “materia penale”; M.L. Di Bitonto, Il ne bis in idem nei rapporti tra infrazioni finanziarie e reati, in Cass. Pen., 2016, 4, 1335 ss.
Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi
La matrice solidaristica dei principi europei e internazionali in materia ambientale e il ruolo della fiscalità nel sistema interno* Sommario: 1. La tutela dell’ambiente nelle conferenze internazionali e la scelta del market-based approach. – 2. Il ruolo dell’OCSE in tema di fiscalità ambientale e l’elaborazione del polluter-pays principle. – 3. Le politiche dell’Unione Europea in materia ambientale. – 3.1 Il principio dello sviluppo sostenibile e la sua matrice solidaristica. – 3.2. L’impiego dello strumento fiscale per la tutela dell’ambiente e l’approccio europeo alla tassazione ambientale. – 3.2.1. Il principio di precauzione e il principio di prevenzione. – 3.2.2. Il principio “chi inquina paga”. – 3.2.2.1. La definizione europea di tributo ambientale. I tributi ambientali in senso stretto e i tributi con funzione ambientale. – 4. La ripartizione delle competenze in materia ambientale e il principio di differenziazione. – 5. Profili interni: la rilevanza ordinamentale del principio dello sviluppo sostenibile e i doveri di solidarietà ambientale. – 5.1. Il ruolo della fiscalità nella tutela dell’ambiente. Il recente approccio della Corte Costituzionale. I principi elaborati a livello internazionale e codificati nei Trattati europei hanno assunto una rilevanza centrale nei sistemi interni. In particolare al principio dello sviluppo sostenibile è riconosciuta valenza ordinamentale in ragione di una interpretazione evolutiva di alcune disposizioni costituzionali. La rilevanza sociale del bene ambiente, gli interessi e i valori ambientali suggeriscono un approccio improntato al principio di integrazione anche relativamente alla funzione fiscale. The principles developed at international level and codified in the European Treaties have become cethat ave been ntral to internal systems. In particular, the principle of sustainable development is recognized as a matter of principle by reason of an evolutionary analysis of some constitutional provisions. The social relevance of the environment, the environmental interests and values suggest an approach to the fiscal function based on the integration principle.
1. La tutela dell’ambiente nelle conferenze internazionali e la scelta del market-based approach. – L’approccio adottato a livello internazionale nell’affrontare il tema della tutela dell’ambiente si è sviluppato, inizialmente,
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attraverso l’adozione di atti giuridicamente non vincolanti. Attraverso tali atti si sono gradualmente affermati una serie di principi ed è stata avviata una progressiva sensibilizzazione nei confronti dei problemi ambientali che ha poi, come vedremo, interessato anche l’Unione Europea. Volendo qui delineare le tappe salienti che hanno caratterizzato in maniera particolare tale percorso, si può far riferimento, in primo luogo, a tre conferenze internazionali (1). Ciò che interessa evidenziare in questa sede è, per un verso, la graduale affermazione dell’ambiente quale valore intrinsecamente suscettibile di tutela e, d’altro canto, la progressiva evoluzione verso l’individuazione degli strumenti economici, tra cui i tributi, quali mezzi per il raggiungimento degli obiettivi fissati a livello sovranazionale. In un primo momento, infatti, emerge dai lavori svolti in seno all’ONU (2) – tradottisi in una serie atti non vincolanti (3) – la centralità degli obiettivi di sviluppo economico cui la trattazione delle tematiche ambientali viene strettamente legata. Ancorché gli atti adottati in quella fase iniziale siano stati i primi strumenti universali a considerare i rischi ambientali prodotti dalle attività umane e la prima elaborazione di principi generali in tema (4), la protezione dell’ambiente non viene considerata finalità distinta e contrapposta allo sviluppo economico, anzi il secondo risulta sovra o, quantomeno, pari ordinato rispetto alla prima. Gli atti di soft law elaborati in questa fase, meramente dichiarativi, e privi di vincoli circa l’attuazione di azioni preventive, riassumevano i principi che successivamente avrebbero dato vita al concetto di “sviluppo sostenibile” (5).
* Intervento cofinanziato dal Fondo di Sviluppo e Coesione 2007-2013 – APQ Ricerca Regione Puglia “Programma regionale a sostegno della specializzazione intelligente e della sostenibilità sociale ed ambientale – FutureInResearch”. (1) La Conferenza ONU sull’ambiente umano (United Nations Conference on the human environment), tenutasi a Stoccolma nel 1972; Conferenza ONU su ambiente e sviluppo, svolta a Rio de Janeiro nel 1992; il “Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile” svoltosi a Johannesburg nel 2002. (2) La Conferenza ONU sull’ambiente umano citata alla nota precedente. (3) Si rinvia per i riferimenti a P. Mastellone, I tributi ambientali analisi economico giuridica, in S. Dorigo, P. Mastellone, La fiscalità per l’ambiente, Roma, 2013, 46 e ss. (4) cfr. L. Pineschi, I principi del diritto internazionale dell’ambiente: dal divieto di inquinamento transfrontaliero alla tutela dell’ambiente come common concern, in Trattato di diritto dell’ambiente, R. Ferrara, C. E. Gallo (a cura di), Tomo I, Le politiche ambientali, lo sviluppo sostenibile e il danno, Milano, 2014, 100. (5) Le ragioni principali che portarono alla mancata produzione di specifiche disposizioni normative da parte degli stati che avevano sottoscritto la dichiarazione di Stoccolma erano
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Anche negli atti successivi (6), sempre non vincolanti, affiora chiaramente l’approccio descritto: il diritto fondamentale dell’uomo ad una vita sana e produttiva in armonia con la natura, non può intralciare il diritto allo sviluppo, il cui unico limite si sostanzia nel non recare pregiudizi all’ambiente al di fuori dei confini nazionali (7). Il livello di tutela dell’ambiente, dunque, può essere inversamente proporzionale al grado di sviluppo, tanto da giustificare lo sfruttamento delle risorse scarse in misura maggiore per i Paesi nei quali più pressante si presenta la necessità di colmare un gap economico. In definitiva, il principio dello “sviluppo sostenibile” che viene così ad essere enucleato implica un bilanciamento tra gli interessi di tipo ambientale con quelli di tipo economico-industriale sottesi al raggiungimento dell’obiettivo dell’abbattimento della povertà dei Paesi in via di sviluppo. Nonostante le dichiarazioni di principio, la riduzione del livello di povertà globale ed il miglioramento delle condizioni ambientali non furono subito perseguiti dagli Stati in maniera efficace, tanto che, in un vertice successivo (8), l’attenzione, piuttosto che sull’individuazione di ulteriori obiettivi, si concentrò sulla valutazione complessiva dei progressi realizzati in seguito alle precedenti Conferenze. In questa occasione il vertice venne aperto non solo ai soggetti di diritto internazionale pubblico, ma anche ai singoli rappresentanti di interessi diffusi proprio nell’intento di sensibilizzare la società civile sui temi trattati. Ma il dato da considerare rilevante è che l’attenzione, in quest’ultima occasione, dalle dichiarazioni di principio cominciò a dirigersi ai metodi da utilizzare per rendere efficace la legislazione ambientale (9). All’elaborazione del concetto di “sviluppo sostenibile” si è affiancata, infatti, sin dalla prima delle Conferenze cui qui si fa riferimento, l’affermazione di principio in base alla quale le autorità nazionali devono adoperarsi per promuovere l’internalizzazione dei costi ambientali e l’utilizzo di strumenti
da rinvenirsi nella circostanza che l’introduzione di strumenti giuridici di tutela ambientale è in grado di influenzare gli equilibri o di modificare radicalmente gli assetti del mercato. Le iniziative di regolamentazione unilaterale del fenomeno ambientale sono state in una prima fase sporadiche e timide. Sul punto cfr. P. Mastellone, I tributi ambientali analisi economico giuridica, cit., 48-49. (6) Adottati nella Conferenza Internazionale di Rio de Janeiro del 1992, meglio nota come conferenza delle nazioni unite su Ambiente e Sviluppo, cui parteciparono 115 Stati fra cui 116 Capi di Stato e di Governo (7) Cfr. principi 2 e 6 della Dichiarazione su Ambiente e Sviluppo adottata a Rio. (8) Vertice di Johannesburg 2002. (9) P. Mastellone, op. loc. ult. cit., 53.
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economici per far sì che il soggetto autore delle diseconomie sopporti i relativi costi senza provocare distorsioni del mercato (10). In quest’ambito la tassazione ambientale è stata posta sullo stesso piano dei diversi strumenti economici – sussidi depositi cauzionali, permessi negoziabili – e relegata ad un ruolo marginale: il tributo ambientale è stato inteso quale mezzo per il reperimento delle risorse finanziarie per il sostenimento dei costi legati alla consumazione di risorse ambientali, ovvero solo quale tributo incentivante che, congiuntamente agli altri strumenti economici, indirizzasse le scelte dei consumatori (11). Ancorché la comunità internazionale abbia espresso una scelta netta per gli strumenti economici considerandoli pari ordinati e adottando quindi il c.d. marked based approach si è, perlopiù, optato, in questa prima fase per l’adozione di sistemi di emission trading, attraverso i trattati (12). 2. Il ruolo dell’OCSE in tema di fiscalità ambientale e l’elaborazione del polluter-pays principle. – Il principio in base al quale il costo delle diseconomie provocate dal consumo di beni ambientali scarsi deve essere sopportato dal soggetto che le ha generate non è, tuttavia, enunciato per la prima volta nell’ambito delle Conferenze internazionali in seno all’ONU, ma in sede OCSE, circa vent’anni prima della Conferenza di Rio. Ed in effetti l’impulso alla trattazione delle tematiche ambientali a livello sovranazionale proviene, per la prima volta, dalla Raccomandazione OCSE del 26 maggio 1972. Il principio “chi inquina paga”, richiamato nella raccomandazione appena citata, è mutuato dalle teorie economiche e, nella sua originaria accezione, è funzionale a consentire la c.d. internalizzazione dei costi ambientali, anche mediante la previsione di tasse ed oneri per ciascun settore economico considerato, al fine di evitare distorsioni del mercato. Infatti, secondo le teorie economiche l’inquinamento deve considerarsi una diseconomia, in quanto pone a carico della generalità dei consociati costi che dovrebbero ricadere solo sul soggetto inquinatore (13). Il principio viene dunque in questa sede assunto nella sua connotazione economica, non in quella giuridico-tributaria in cui,
(10) Cfr., in particolare, art. 16 della Dichiarazione su Ambiente e Sviluppo elaborata in seno alla conferenza di Rio del 1992. (11) R. Alfano, Tributi ambientali profili interni ed europei, Torino, 2012, 22. (12) Si veda, fra tutti, il protocollo di Kyoto sottoscritto l’11 dicembre 1997 ed entrato in vigore 16 febbraio 2005 con la ratifica da parte della Russia. Più di recente si veda il Trattato di Parigi sottoscritto il 22 Aprile 2016. (13) A. C. Pigou, Economia del benessere (trad. italiana a cura di M. Einaudi), Torino, 1968.
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come vedremo, si è – almeno secondo alcuni – successivamente evoluto, costituendo la base per l’introduzione e lo sviluppo dei sistemi fiscali ambientali negli ordinamenti di ciascuno Stato (14). Negli originari intenti, dunque, il “principio chi inquina paga” perseguiva al contempo obiettivi di efficienza, (ovverosia internalizzazione delle esternalità negative ambientali) ed obiettivi di giustizia sociale, essendo funzionale all’addebito del costo sociale in capo al soggetto che lo avesse prodotto. Tali obiettivi rendevano il principio valutabile positivamente sotto il profilo economico, giuridico e politico (15). Gli strumenti individuati dall’OCSE per l’attuazione del principio in questione erano sia quelli di regolazione diretta che di natura economica, quindi: tributi ambientali, pagamenti risarcitori, sussidi, incentivi di vario genere, aste di diritti di inquinamento e sanzioni. L’approccio seguito dall’OCSE contemplava gli strumenti di regolazione diretta come ipotesi eccezionali finalizzate alla rapida riduzione delle emissioni nocive, propugnando, di regola, l’utilizzo degli strumenti economici, compreso, fra questi, lo strumento fiscale. V’è da sottolineare, a quest’ultimo proposito, che nei documenti diramati, anche più di recente (16), l’OCSE pare avallare non solo i tributi che colpiscano il produttore che ha creato l’esternalità negativa, ma anche il consumatore, e ciò al duplice fine della tutela dell’ambiente e dell’aumento del gettito con ricadute positive sugli altri tributi la cui complessiva pressione potrebbe, in tal modo, essere attenuata. È evidente che l’azione svolta in seno all’Ocse prima, e nelle conferenze internazionali poi, non si sia tradotta in uno specifico piano d’azione per l’organizzazione di un sistema di governo ambientale poiché, a livello universale, non pare possibile raggiungere forme di cooperazione istituzionale analoghe a quelle dell’Unione Europea in cui gli Stati hanno ceduto porzioni di sovranità. Il merito dell’opera svolta dagli Stati a livello internazionale sta dunque nell’aver delineato e propugnato i principi cui si è fatto cenno, poi recepiti soprattutto nel diritto europeo primario e derivato (17). È in quest’ultimo am-
(14) Il principio è stato analizzato in una ulteriore chiave di lettura, che fa emergere il carattere risarcitorio dei prelievi ad esso ispirati si veda infra par. 4.2.2 (15) Così oecd, The polluter pays principle. definition analysis, implementation, Paris, 1975, 25. (16) oecd, Enviromentally, related taxes in OECD countries. Issue and strategies, Paris, 2001. (17) si è rilevato in proposito che i principi a carattere ambientale scaturiscono, general-
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bito, dunque, che occorre indagare al fine di verificare se e come un’azione coordinata per la tutela dell’ambiente, anche con l’utilizzo degli strumenti fiscali, possa essere intrapresa e che ruolo giochino le istituzioni interne. È importante altresì sottolineare già da ora (ma il tema verrà trattato in seguito) che un’azione coordinata, volta all’introduzione di misure fiscali ambientali, quantomeno a livello europeo, presuppone l’esistenza di una comune definizione di tributo ed è anche su questo punto che l’Unione, sulla scorta delle indicazioni OCSE (18) ha raggiunto un punto d’approdo. 3. Le politiche dell’Unione Europea in materia ambientale. – Originariamente, nel panorama europeo, l’ambiente e le questioni ad esso attinenti ricevevano una tutela solo indiretta. I Trattati, infatti, non si occupavano delle tematiche ambientali, e gli interventi in materia da parte degli organi della Comunità potevano trovare fondamento e giustificazione unicamente nell’art. 100 del Trattato di Roma, quindi solo attraverso il ravvicinamento delle legislazioni interne e nell’ipotesi in cui le problematiche ambientali, per cui risultasse necessario tale ravvicinamento, incidessero direttamente sull’instaurazione e sul funzionamento del mercato comune (19). In questa prima fase, dunque, l’interesse alla tutela dell’ambiente non era autonomamente apprezzato e perseguito a livello europeo. L’impulso a porre le basi di una politica ambientale comune sorse solo in seguito alla Conferenza di Stoccolma del 1972, soprattutto grazie ai lavori OCSE e all’opera svolta nelle successive conferenze internazionali cui
mente, da dichiarazioni internazionali a carattere non vincolante, che consentono l’affermazione graduale di concetti non ancora accettati sul piano internazionale. Gli atti di soft law contenenti dichiarazioni di principio costituiscono, in genere, la base di partenza di un percorso che può condurre alla stipulazione di impegni vincolanti. si veda S. Quadri, Energia sostenibile. diritto internazionale, dell’unione europea e interno, Torino, 2012, 7. (18) vedi P. Mastellone, Il ruolo dell’Unione Europea nella creazione di un “diritto tributario ambientale” all’interno degli ordinamenti degli stati membri, in S. Dorigo, P. Mastellone, La fiscalità per l’ambiente, Roma, 2013, 67. (19) Si veda sul punto CGUE causa C-91/79 e causa C-92/79 entrambe Commissione/ Italia, in cui si afferma che pur non essendovi un chiaro riferimento all’ambiente nei principi cardine la relativa tutela poteva essere assicurata attraverso l’applicazione derivata di altri principi come, appunto, l’art. 100 menzionato nel testo. in dottrina sul tema si vedano A. Jazzetti, politiche comunitarie e tutela dell’ambiente, in Riv. giur. amb., 1995, 33-49; G. Fonderico, la giurisprudenza della corte di giustizia in materia di ambiente, in Diritto ambientale comunitario, S. Cassese (a cura di), Milano, 1995, 123.
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la Comunità partecipava in qualità di organizzazione sovranazionale (20). La produzione normativa riguardante le tematiche in questione incontrava, tuttavia, l’ostacolo principale nel fatto che la tutela dell’ambiente non rientrava tra le competenze attribuite alla Comunità dagli Stati membri (21). Sopperendo inizialmente a questa lacuna con l’adozione di diversi programmi pluriennali d’azione (22) per il raggiungimento di obiettivi ambientali, si diede avvio, più tardi, ad una serie di modifiche dei Trattati volte proprio a costituire il fondamento giuridico di un’azione ambientale comune. La prima modifica rilevante riguarda l’introduzione nel Trattato originario di un apposito titolo comprensivo degli articoli 130 R/S/T (23) relativi alla tutela dell’ambiente (24), e la definizione dell’ambito di competenza dell’Unione in materia ambientale attraverso il richiamo al principio di sussidiarietà (25). Successivamente, l’attuazione di una politica ambientale comune è stata inclusa a pieno titolo fra le azioni dell’Unione volte al perseguimento degli
(20) Osserva la dottrina come i primi tentativi di sistematizzazione della materia non sono stati immediati O. Porchia, Tutela dell’ambiente e competenze dell’unione europea, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2006, 17 ss., id., Le politiche dell’unione europea in materia ambientale, in Trattato di diritto dell’ambiente, tomo I, Le politiche ambientali, lo sviluppo sostenibile e il danno, R. Ferrara, C.E. Gallo (a cura di), Milano, 2014, 153 ss. (21) L’Italia si difese innanzi alla Corte di Giustizia per non aver adottato le disposizioni attuative della direttiva 73/404/CEE, in tema di ravvicinamento delle legislazioni sui detergenti, e la direttiva 75/716/CEE, in materia di ravvicinamento delle legislazioni sul tenore massimo dei combustibili liquidi, argomentando proprio in ragione del difetto di competenza comunitaria ad emanare provvedimenti normativi per uniformare la legislazione degli stati membri in materia ambientale. La commissione si difese, in questo caso, appunto sostenendo che l’azione di armonizzazione pur riferibile ad una politica ecologica dovesse considerarsi strettamente funzionale all’instaurazione e al funzionamento del mercato unico. cfr. CGUE 18 marzo 1980, causa C- 91/79 Commissione c. Italia; CGUE, 18 marzo 1980, Causa c-92/79 Commissione c. Italia annotate da C. Mastellone, Prime sentenze della corte comunitaria in materia di ambiente, in Riv. dir. int. priv. e proc., 1980, 364 ss. (22) sul punto P. Mastellone, I tributi ambientali analisi economico giuridica, in S. Dorigo, P. Mastellone, La fiscalità per l’ambiente, Roma, 2013, 70-71. (23) Si vedano attualmente gli articolo 174, 175, 176, del Trattato istituivo della Comunità Europea (versione consolidata). (24) Ad opera dell’Atto Unico Europeo del 1986 e, successivamente, del Trattato di Maastricht. sul punto si vedano G. Cordini, ambiente (tutela del) nel diritto delle comunità europee, in Dig. Disc. Pubbl., Torino, 1991, VIII, 665; Id., diritto ambientale comparato, Padova, 2002, 187. (25) Cfr. art. 130 R successivamente generalizzato ai sensi dell’art. 3 B, ora articolo 5. Vedi attualmente gli articoli 174, 175, 176, del trattato istituivo della comunità europea (versione consolidata).
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obiettivi sanciti dal Trattato (26), tra i quali, oggi, è esplicitamente annoverata l’attuazione di uno sviluppo economico sostenibile e il raggiungimento di un elevato livello di protezione dell’ambiente (27). Con la codificazione del principio “chi inquina paga” e dei principi di precauzione e dell’azione preventiva sono stati inoltre sanciti anche i criteri in base ai quali deve orientarsi l’attività dell’Unione nell’ambito considerato (28). In particolare, l’articolo 130 R, come successivamente modificato ed ampliato dal Trattato di Maastricht, ha sancito che la politica UE in materia ambientale deve essere finalizzata a realizzare un “elevato livello di tutela” tarato comunque sulle diversità economiche e ambientali delle varie regioni dell’Unione. Dopo le modifiche operate ai Trattati, la tutela ambientale ha assunto, peraltro, una portata trasversale atteso che le esigenze ad essa connesse devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle altre politiche ed azioni comunitarie, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile (29). Inoltre l’elevazione della Carta di Nizza (30) a rango di diritto europeo primario (31) ha fatto assurgere anche l’obiettivo di tutela ambientale alla stregua di valore giuridico, valore già riconosciuto meritevole di tutela dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, sebbene non esplicitamente previsto nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. È parso particolarmente significativo, peraltro, che la Carta dei diritti fondamentali dell’UE abbia collocato la tutela dell’ambiente e il richiamo allo sviluppo sostenibile proprio nel capo IV dedicato alla “Solidarietà” (32).
(26) Trattato di Maastricht del 2 ottobre 1997. Si veda oggi l’art. 3 lettera l) del trattato istitutivo della comunità europea versione consolidata. La dottrina sostiene che, ancor prima della formale inclusione tra le competenze della CE, la politica ambientale poteva essere collegata a quei principi di struttura sui quali poggiavano comunque i trattati e dei quali potevano considerarsi come principi costituzionali. Cfr. sul punto M. Vacca, La politica comunitaria dell’ambiente e la sua attuazione negli stati membri, Milano, 1992, 100. (27) cfr. art. 2 TCE (versione consolidata). (28) cfr. art. 174, comma 2 TCE (versione consolidata). (29) art. 3 c, oggi art. 6 TCE (versione consolidata); art. 11 TFUE. (30) L’articolo 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea rubricato “Tutela dell’ambiente” prevede quanto segue: «Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile». (31) Com’è noto l’art. 6, par. 1 del TUE prevede: «L’unione riconosce i diritti le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati». (32) Cfr. sul punto C. Videtta, Lo sviluppo sostenibile. Dal diritto internazionale al diritto interno, in Trattato di diritto dell’ambiente, vol. I, Le politiche ambientali, cit., 237.
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3.1 Il principio dello sviluppo sostenibile e la sua matrice solidaristica. – Grande rilevanza ha infatti assunto, nel tempo, il principio dello «sviluppo sostenibile», che fonda il dovere solidaristico, di tutela dell’ambiente. Il principio codificato, come abbiamo visto, dal Trattato di Amsterdam, segna il passaggio dall’antitesi alla simbiosi tra ambiente e sviluppo. La più nota definizione di «sviluppo sostenibile» si trova nel c.d. Rapporto Burtland (33) che considera “sostenibile” «lo sviluppo che soddisfi i bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». Non si è mancato di rilevare come l’espressione “sviluppo sostenibile” – intesa nell’accezione che comunemente le viene attribuita – risulti per certi versi antinomica (34), per altri versi vaga o indeterminata. Qualcuno osserva, infatti, che il principio postulerebbe un’esigenza costante di evoluzione della società verso un maggiore benessere pur ponendovi un chiaro limite. D’altro canto, per l’individuazione dei bisogni e delle esigenze delle generazioni future, valutabili solo con il metro delle generazioni presenti, sarebbe necessario disporre di una quantità di dati e informazioni su tutte le attività economiche. Ed in effetti si è posto in luce, al riguardo, come l’espressione “sviluppo sostenibile” non sarebbe l’adeguata traduzione della locuzione “sustainable development” adottata dal rapporto Burtland, essendo più appropriato l’aggettivo “durevole” (35) che, spostando il significato della locuzione dal piano soggettivo a quello oggettivo, darebbe conto della necessità di utilizzare le risorse con modalità che ne consentano il rinnovo, nel rispetto della biodiversità e dei sistemi naturali di supporto della vita umana. Il concetto espresso con la locuzione sviluppo “sostenibile” o meglio “durevole”, evidentemente, si basa su un criterio solidaristico e trova il suo fondamento nel principio di diritto internazionale dell’equità intergenerazionale e intragenerazionale. A livello internazionale, in base ad una certa impostazione, il principio verrebbe a limitare il tradizionale contenuto del diritto di sovranità o, a seconda dei casi, di libertà di sfruttamento di risorse poste oltre
(33) Rapporto della Commissione mondiale ambiente e sviluppo. Il documento commissionato dalle Nazioni Unite con il titolo Our Common Future è indicato solitamente con il nome della coordinatrice Gro Harlem Burtland, che nel 1987 presiedeva la Commissione. (34) G. Cordini, Diritto ambientale comparato, in Trattato di diritto ambientale, I, Principi generali, P. Dell’Anno e A. Picozza (a cura di), Padova, 2012, 101 ss. (35) G. Robasto, Un po’ di chiarezza sullo sviluppo sostenibile, in Ambiente e sviluppo, 1995, 37 ss.
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la giurisdizione nazionale, ma pare improbabile ritrovare una sua declinazione da cui possa ricavarsi un obbligo per gli Stati di utilizzazione razionale delle risorse che si trovino sul proprio territorio o sotto il relativo controllo (36). D’altro canto l’obiettivo di espandere lo sviluppo in Paesi che presentano un gap economico rispetto a quelli più evoluti – obiettivo prima enunciato nella conferenza di Rio poi codificato con l’introduzione nei Trattati europei – riposa su considerazioni di c.d. “equità intragenerazionale”. Traducendo il principio in termini positivi, alcuni hanno sostenuto che si dovrebbe riconoscere un diritto allo sviluppo dei paesi meno evoluti, il che comporterebbe il riconoscimento di una speciale responsabilità dei Paesi industrializzati in ragione della pressione che le società più evolute esercitano sull’ambiente globale e sulle risorse (37). La codificazione nei Trattati Europei dei principi di integrazione e del “necessario alto livello di tutela” ha consentito allo sviluppo sostenibile di compiere un passo in avanti, poiché l’integrazione non deve intendersi solo come rappresentazione degli interessi ambientali nei processi decisionali e alla limitazione dall’esterno delle contrapposte esigenze economiche e tecnologiche, ma si traduce nella preliminare “interiorizzazione” di tali interessi. In altri termini, l’interesse ambientale che per lungo tempo ha costituito un limite esterno alle politiche europee può considerarsi oggi un limite interno in quanto immanente alle politiche di sviluppo (38). Le esigenze legate alla tutela dell’ambiente diventano, dunque, in tal modo, interne al sistema, nel senso che ogni scelta dell’Unione deve essere parametrata e, ove necessario, riplasmata in ragione di esse. Secondo il Trattato, dunque, le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente non costituiscono semplicemente un elemento da tenersi genericamente in considerazione
(36) Cfr. M. Gestri, Ambiente (dir. int.), in Dizionario di Diritto Pubblico, S. Cassese (a cura di), Milano, 2006, 220. (37) Gestri, cit., 221; Id. Transferts internationaux puor protegere des resources d’interet commun: qui doit payer pour la preservation des forets tropicales? In Academie de droit international de la Haye, La politique de l’environnement. De le reglementation aux instruments economiques, M. Bothe, P.H. Sand (a cura di), Boston - London, 2003, 297 ss. (38) Sul principio di integrazione, inteso nella sua portata trasversale come fondamento dell’intero assetto dei principi ambientali europei cfr. P. Dell’Anno, Il ruolo dei principi nel diritto ambientale europeo, in La forza normativa dei principi. Il contributo del diritto ambientale alla teoria generale, D. Amirante (a cura di), Padova, 2006, 117 ss.; M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, Torino, 2007, 218 ss.
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nell’ambito delle politiche e delle azioni dell’Unione, piuttosto devono essere integrate in esse, in direzione dello sviluppo sostenibile, fine ultimo cui ogni politica, di qualunque genere sia, deve tendere (39). 3.2. L’impiego dello strumento fiscale per la tutela dell’ambiente e l’approccio europeo alla tassazione ambientale. – L’approccio descritto non risulta indifferente rispetto all’emersione in sede europea delle prime indicazioni in materia di tributi ambientali. Poiché il Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea si proponeva ab origine quasi esclusivamente obiettivi economici per la tutela della concorrenza e del mercato, l’intero sistema normativo correlato doveva essere interpretato alla luce di tali finalità. Le norme fiscali, dunque, non costituivano il fine ma lo strumento in base al quale l’azione comunitaria poteva raggiungere i propri obiettivi (40). Con le modifiche ai Trattati, sinteticamente esaminate, si è attuato un deciso mutamento di tendenza. In proposito si deve evidenziare che attraverso l’introduzione dell’art. 130S, prima richiamato, ancorché in relazione alla individuazione delle procedure decisionali utilizzabili per l’emanazione di provvedimenti in materia ambientale (41), le misure fiscali sono state esplicitamente menzionate quali strumenti per il raggiungimento degli obiettivi
(39) Alcuni ritengono che sia possibile parlare di “protezione rafforzata” dell’interesse ambientale, che assurgere così al livello di valore trasversale ad ogni scelta, anche se non principalmente o prevalentemente connessa all’ambiente, potenzialmente idoneo a indurre una coerenza di fondo delle politiche dell’Unione. Si esprime in questi termini C. Videtta, op. cit., 232. Insiste sulla necessità di coerenza tra le politiche dell’UE anche la Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale, Integrare ambiente e sviluppo sostenibile nella politica di cooperazione economica e allo sviluppo. Elementi di una strategia globale (Bruxelles, 18 maggio 2000 COM(2000) 264 def: “nel promuovere sistematicamente lo sviluppo sostenibile, bisogna garantire la coerenza tra le politiche di cooperazione economica e allo sviluppo e le altre politiche UE e comunitarie”. Sul punto anche Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, Conciliare bisogni e responsabilità. L’integrazione delle questioni ambientali nella politica economica, COM(200) 576 def. del 20 settembre 2000. (40) Sul punto P. Selicato, Imposizione fiscale e principio chi inquina paga, Rass. Trib., 2005, 1162; R. Alfano, Tributi ambientali profili interni ed europei, Torino, 2012, 10. (41) Se di regola è stata prevista la deliberazione a maggioranza qualificata, previa consultazione del Comitato Economico e Sociale, per l’introduzione delle disposizioni aventi principalmente natura fiscale è stata sancita, invece, la regola dell’unanimità, su proposta della commissione e previa consultazione del Parlamento Europeo e del Comitato Economico e Sociale. Cfr. ora art. 175 Trattato Istitutivo della Comunità Europea (versione consolidata).
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di tutela dell’ambiente ormai sanciti dal Trattato. Con la norma in questione, dunque, il legislatore europeo fornisce la prima espressa indicazione in materia di tassazione ambientale (42). L’opportunità di un intervento attraverso lo strumento della tassazione ambientale è stato poi esplicitamente propugnato con la Comunicazione COM(97) 9 def (43) nella quale la Commissione espressamente afferma che per conseguire gli obiettivi ambientali, sempre più integrati nella legislazione comunitaria, gli Stati membri dispongono, oltre che delle disposizioni armonizzate a livello comunitario, di tutta una serie di strumenti economici, fra i quali le tasse e le imposte ambientali, che consentono l’applicazione del principio “chi inquina paga” (44). La necessità di stimolare l’impiego ai diversi livelli di governo di strumenti di mercato economici e fiscali per modificare i comportamenti dannosi per l’ambiente è stata evidenziata anche, più di recente, nel Sesto programma comunitario d’azione in materia di ambiente (45) e ribadita nel Settimo. Uno degli obiettivi prioritari sanciti da quest’ultimo programma è quello di garantire investimenti a sostegno delle politiche in materia di ambiente e clima e tener conto delle esternalità ambientali eliminando gradualmente le sovvenzioni, previste a livello europeo ed interno, che risultino dannose per l’ambiente facendo maggiore ricorso a strumenti di mercato, quali ad esempio le misure fiscali, ed espandendo, al contempo, i mercati per i beni e i servizi ambientali (46).
(42) in questo senso si esprime P. Mastellone, Il ruolo dell’unione europea nella creazione di un diritto tributario ambientale all’interno degli ordinamenti degli stati membri, in S. Dorigo, P. Mastellone, La fiscalità per l’ambiente, Roma, 2013, 76. (43) Della Commissione Consiglio e al Parlamento intitolata “Tasse e imposte ambientali nel mercato unico” (COM(97)0009 - C4-0179/97). Per una analisi del percorso che ha condotto all’emanazione della Comunicazione in questione, che segna il passaggio dall’utilizzo degli strumenti di Command and control agli strumenti fiscali, si veda R. Alfano, Tributi ambientali, cit., 23 -26. (44) Riferisce P. Selicato, Imposizione fiscale e principio “chi inquina paga”, in cit., 1157 ss., che già nella legge francese 16 dicembre 1964, n. 1245, sulla istituzione delle agences financières de bassin veniva espressa compiutamente la formula «chi inquina paghi e chi depura viene aiutato”. (45) Decisione n. 1600/2002/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 22 luglio 2002, che istituisce il sesto programma comunitario di azione in materia di ambiente in Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea n. l 242 del 10/09/2002. (46) Obiettivo prioritario n. 6 del Settimo Programma d’Azione per l’Ambiente 20132020 (decisione n. 1386/2013/UE del 20/11/2013 del parlamento europeo e del consiglio “vivere bene entro i limiti del nostro pianeta” pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Eu-
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Emerge, dalla lettura del programma, il nuovo concetto di “economia circolare” Con tale locuzione si vuol far riferimento ad un sistema in cui tutte le attività, a partire dall’estrazione e dalla produzione, sono organizzate in modo che i rifiuti di qualcuno diventino risorse per qualcun altro (47). In quest’ottica l’Unione mira a promuovere, sia tra i produttori che tra i consumatori, l’efficienza nell’uso delle risorse. Con l’adozione di misure volte a migliorare ulteriormente la prestazione ambientale di beni e servizi sul mercato nel corso del loro intero ciclo di vita, e ad aumentare l’offerta di prodotti sostenibili per l’ambiente, sarebbe stimolato un aumento della domanda di tali prodotti da parte dei consumatori attraverso una combinazione equilibrata di incentivi per i consumatori e per gli operatori economici. Gli obiettivi sanciti nei Programmi hanno carattere vincolante per gli Stati Membri, che dispongono di un’ampia rosa di strumenti per il loro perseguimento. Sono espressamente richiamati, infatti, i tre principi comunitari di politica ambientale sanciti sia nel Trattato istitutivo che nel TFUE ovverosia: precauzione, azione preventiva e “chi inquina paga”. 3.2.1. Il principio di precauzione e il principio di prevenzione. – I primi due principi parrebbero interessare tanto la questione della fiscalità ambientale quanto le azioni volte alla gestione dei rischi sull’ambiente e la salute connessi alle attività umane. Gli interventi e le politiche di tutela dell’ambiente hanno sviluppato tre modelli di riferimento tanto sul piano internazionale che sul piano interno: l’approccio risarcitorio, secondo cui la natura è dotata di una infinità capacità di assimilazione e di rigenerazione, tale da sopportare qualsiasi danno; l’approccio preventivo, basato, al contrario, sulla consapevolezza maturata a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, che determinate forme di inquina-
ropea l354 del 28/12/2013), cui ha fatto seguito anche il regolamento UE n. 1293/2013 dell’11 dicembre 2013, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea l347 del 20 dicembre 2013, che istituisce il Programma per l’ambiente e l’azione per il clima (life) per il periodo dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2020. (47) cfr. in tema Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni, Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti /* com/2014/0398 final/2 */. Di recente, in tema, si veda F. Peddis, Sistemi di riciclo dei rifiuti secondo lo sviluppo dell’economia circolare e possibili interventi fiscali a livello locale, in corso di pubblicazione, in cui si evidenzia come la transizione verso un’economia circolare risponda ad una logica tanto ambientale quanto economica e generi benefici in entrambi gli ambiti.
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mento possono produrre danni irreparabili e che, quindi, devono essere impedite; e a partire dagli anni Ottanta l’approccio precauzionale, fondato sulla constatazione dell’assenza di prove scientifiche che dimostrino l’esistenza di un nesso di causalità tra lo svolgimento di determinate attività umane e i danni per l’ambiente da esse derivanti (48). L’approccio preventivo presuppone e richiede la conoscenza del livello di danno “sostenibile” dall’ambiente (che deve essere riparabile, sul piano tecnico, e risarcibile, sul piano economico), mentre l’approccio precauzionale, caratterizzato da una dimensione di incertezza scientifica, stravolge la prospettiva dell’approccio preventivo ed evidenzia l’idea che la natura, nel lungo periodo, non sia dotata di una capacità infinita di rigenerazione (49). L’origine storica del principio di precauzione (50) si fa risalire alla Legge Federale Tedesca sulla protezione contro le immissioni adottata il 15 marzo 1974 (Bundesimmisionshutzgesetz) e la riflessione attorno ad esso e alla sua portata appartiene precipuamente alla tradizione giuridica tedesca quale naturale precipitato della graduale elaborazione di un altro principio, di spettro ancor più ampio: il principio di difesa dai pericoli (Gefahrenabwherprinzip) (51). Da qui il principio fu trapiantato nell’ordinamento internazionale, in particolare in occasione delle conferenze internazionali sulla protezione del Mare del Nord, dove venne coniata l’espressione «the principle of precautionary action». Da quel momento esso cominciò a circolare anche nel diritto comunitario, nel quale fu introdotto, se pur in assenza di una esplicita formulazione, con il Trattato di Maastricht del 1992, quindi passò nel Trattato UE, per essere infine incluso nell’attuale TFUE (52); tuttavia se ne possono trovare tracce
(48) L. Marini, Il principio di precauzione nel diritto internazionale e comunitario, Padova, 2004, 5, nota 13. (49) L. Marini, Il principio di precauzione nel diritto internazionale e comunitario, Padova, 2004, 6, n. 13. (50) Vorsorgeprinzip. (51) Il. Si veda sul punto M. Sollini, Il principio di precauzione nella disciplina comunitaria della sicurezza alimentare, Milano, 2006. Rammenta A. Gragnani, Il principio di precauzione come modello di tutela dell’ambiente, dell’uomo, delle generazioni future, in Riv. dir. civ., 2003, II, 16 ss. Che secondo il Gefahrenabwherprinzip lo Stato ha il potere dovere di intervenire eventualmente con la limitazione di altre situazioni giuridiche soggettive per la prevenzione di eventi dannosi in presenza di una situazione di pericolo. (52) Come accennato nel testo, l’art. 191, paragrafo 2, dell’ultima versione consolidata del Trattato sul Funzionamento dell’UE prevede: «La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul
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applicative nella giurisprudenza della Corte di Giustizia anche ben prima della sua consacrazione formale nei Trattati (53). A livello internazionale, tra le più note formulazioni del principio di precauzione vi è quella della Dichiarazione di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo del 1992: «Al fine di proteggere l’ambiente, gli Stati applicheranno largamente, secondo le loro capacità, il metodo precauzionale. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di certezza scientifica assoluta non deve servire da pretesto per rinviare l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale» (54). Il primo documento elaborato a livello europeo in cui sono contenute delle linee guida per l’applicazione del principio di precauzione è una Comunicazione della Commissione Europea (55)che nasce dall’esigenza di equilibrare la libertà e i diritti degli individui, delle industrie e delle organizzazioni con la necessità di ridurre i rischi di effetti negativi per l’ambiente e per la salute degli esseri umani, degli animali e delle piante in modo da consentire l’adozione di azioni proporzionate, non discriminatorie, trasparenti e coerenti.
principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”». (53) Cfr. in particolare il punto 16 della Sent. 14/07/1983, causa 174/82, Sandoz, in Racc. 1983, 02445, nonché la giurisprudenza anteriore in essa richiamata. (54) Report of the United Nations Conference on Environment and Development (Rio de Janeiro, 3-14 June 1992), A/CONF.151/26, Vol. III. Si veda anche M. Montini, Evoluzione principi e fonti del diritto internazionale dell’ambiente, in Trattato di diritto dell’ambiente, P. Dell’anno, E Picozza (diretto da), Padova, 2012, 35. Riferisce sul punto G. Gorgoni, Il principio di precauzione e la governance dell’incertezza, in Governare la paura. Journal of interdisciplinary studies. Special issue. Fear of nature. The Government of Catastrophe between human and social science, 2013, 179-180 che secondo l’opinione di una parte minoritaria della dottrina (A. Zei, Il principio di precauzione: programma, regola, metodo, in Un diritto per il futuro, R. Bifulco, A. D’Aloia (a cura di), Napoli, 2008, 772) il principio si starebbe affermando quale principio generale del diritto consuetudinario internazionale, mostrando cioè la stessa spiccata tendenza espansiva esibita nell’ordinamento giuridico comunitario, così come in quelli interni. (55) Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione COM (2000) 1 del 2 febbraio 2000. Con la comunicazione la Commissione si proponeva di raggiungere quattro obiettivi: 1) informare l’opinione pubblica e le altre istituzioni circa le modalità con cui il principio sarebbe stato applicato; 2) stabilire delle linee direttrici per la sua applicazione; 3) evitare il ricorso ingiustificato a tale principio al fine di dissimulare misure protezionistiche negli scambi commerciali; 3) promuovere la discussione a livello interno e multilaterale, allo scopo di definire meglio il contenuto e le implicazioni del principio stesso. In tema si veda D. Franzone, Il principio di precauzione in diritto comunitario, in Il principio precauzionale nel diritto internazionale e comunitario, A. Bianchi, M. Gestri (a cura di), Milano, 2006, 5.
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Alla base del principio sta, dunque, l’idea di politica legislativa secondo cui anche se vi è incertezza dal punto di vista scientifico sugli effetti nocivi per l’ambiente di una certa sostanza o attività, bisogna adottare tutte le cautele possibili allo stato della tecnica, in presenza di un rischio concreto e considerato plausibile anche solo da una parte della comunità scientifica (56). Il campo di applicazione del principio di precauzione è stato largamente dibattuto, pare sussistere, tuttavia, consenso sul fatto che sia possibile farvi ricorso non soltanto in materia di ambiente (57) ma anche per la tutela della salute umana, animale e vegetale (58). Tale principio è strettamente correlato con quello dello sviluppo sostenibile e il collegamento emerge soprattutto dall’art. 174 del Trattato CE che rinvia all’articolo 6 dello stesso Trattato. Infatti la dimensione ontologica del principio di precauzione va al di là dei problemi di breve o medio periodo ma si proietta in particolare nel lungo periodo e nei doveri che ogni generazione ha nei confronti delle generazioni future. La Comunicazione fornisce, poi, delle indicazioni circa le condizioni al verificarsi delle quali è possibile fare ricorso al principio in questione, affermando che quest’ultimo entra in gioco laddove le prove scientifiche siano insufficienti, non conclusive o incerte e vi siano indicazioni, ricavate da una preliminare valutazione scientifica obiettiva, circa l’incompatibilità degli effetti potenzialmente pericolosi sull’ambiente e sulla salute umana, animale o vegetale con il livello di protezione prescelto. Le condizioni che giustificano il ricorso al principio di precauzione si fondano dunque su tre elementi: l’incertezza scientifica, il rischio, l’eventuale danno ai beni tutelati (59).
(56) Così G. Visintini, Responsabilità civile e danno ambientale, in Enc. Dir., Annali, IV, 1022. (57) Cfr. sul punto S. Grassi, Prime osservazioni sul “principio di precauzione” come norma diritto positivo, in Dir. e gest. amb., 2001, I, n. 2, 38; A. Gragnani, Il principio di precauzione come modello di tutela dell’ambiente, dell’uomo, delle generazioni future, in Riv. dir. civ., 2003, II, 9 ss.; S. Grassi, A. Gragnani, Il principio di precauzione nella giurisprudenza costituzionale, in Biotecnologie e tutela del valore ambientale, L. Chieffi (a cura di), Torino, 2003, 149; O. Porchia, Le politiche dell’Unione Europea in materia ambientale, in Trattato di diritto dell’ambiente, I, Le politiche ambientali, cit., 166 s. (58) D. Franzone, Il principio di precauzione, cit., 6; cfr. Comunicazione della Commissione Europea sul principio di precauzione, p. 10: «Anche se nel Trattato il principio di precauzione viene menzionato esplicitamente solo nel settore dell’ambiente, il suo campo d’applicazione è molto più vasto». (59) La Commissione pare suggerire di far ricorso in queste ipotesi al criterio del worst case: “Quando i dati disponibili sono inadeguati o non conclusivi, una strategia prudente e di precauzione per la protezione dell’ambiente, della salute o della sicurezza potrebbe essere
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Il principio di precauzione fa quindi obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire i rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, ponendo una tutela anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche e alla fase dell’applicazione delle migliori tecniche proprie del principio di prevenzione (60) (61). Sul piano più specificamente giuridico il principio di precauzione si traduce in una serie di obblighi, e di connessi diritti, mentre il divieto dell’attività pericolosa ne rappresenta solo uno dei possibili (ma non necessari) esiti. Esso non rappresenta, quindi, primariamente uno strumento inibitorio, bensì può e deve essere applicato anche in chiave propositiva, quale strumento di costruzione di processi di responsabilizzazione a monte e di partecipazione diffusa ai processi di gestione del rischio (62). La definizione e la portata normativa del principio rimangono, comunque, gli aspetti più controversi, atteso che i Trattati non contengono indicazioni in merito. Neppure la Commissione nella comunicazione prima richiamata ne fornisce la nozione sottolineando che l’enucleazione della definizione spetta “ai responsabili politici e, in ultima analisi, alle istanze giurisdizionali” (63).
quella di optare per l’ipotesi più pessimista.”. Affinché si possa giustificarne il ricorso pare dunque necessario che si sia in presenza di una situazione di rischio potenziale, ma plausibile, in cui pur mancando la certezza scientifica ne va valutata la dimensione, cioè la combinazione tra probabilità dell’evento e le sue possibili conseguenze. (60) Sottolinea il rilievo applicativo di un atto di soft law quale la comunicazione della Commissione europea sul principio di precauzione, G. Gorgoni, Il principio di precauzione, cit, 189, affermando che il suo valore non risiede tanto nell’offrire un più solido ancoraggio testuale al principio, quanto nel fatto di individuare con maggiore precisione, i criteri per una sua concreta applicazione. In particolare, la Comunicazione specifica le fasi operative in cui si articola la sua applicazione: risk assessment (valutazione del rischio), considerato di pertinenza dell’expertise scientifica; risk management (gestione del rischio), concepita come pertinente la decisione politica; risk communication, ossia la comunicazione del rischio al pubblico. Secondo la Commissione, il principio di precauzione interviene nella fase di gestione del rischio (risk management) ma non anche in quella della sua valutazione (risk assessment), il che sottintenderebbe una netta divisione tra la valutazione scientifica del rischio e la decisione politica relativa alla sua gestione. (61) Soltanto il progredire delle conoscenze potrà portare a ritenere come motivate certe preoccupazioni; se il rischio dovesse poi rivelarsi inesistente, la conseguenza dovrà essere la caducazione delle misure precauzionali adottate per farvi fronte, al contrario, se la sussistenza del rischio sarà positivamente affermata dalla scienza, la precauzione dovrà lasciare spazio all’adozione di misure di prevenzione dei rischi accertati Cfr. M. Marchese, Il principio di precauzione tra luci e ombre, in www.comparazionedirittocivile.it. (62) G. Gorgoni, Il principio di precauzione, cit. (63) Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione COM (2000) 1 del 2 febbraio 2000
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Ulteriori incertezze discendono, dunque, dalla molteplicità dei destinatari cui il principio si rivolge (legislatori, amministratori, imprese, autorità giurisdizionali) e all’eterogeneità delle finalità perseguite, senza ovviamente tralasciare gli aspetti più strettamente giuridici del problema, quali l’ordinamento giuridico di appartenenza (rispetto al quale la forza normativa varia di volta in volta), la natura vincolante o meno del testo in cui è espresso (e la parte del testo in cui compare), e non ultimo la sua formulazione linguistica, tutte caratteristiche che influiscono in varia misura sulla determinazione della sua forza precettiva (64). La necessità di individuare una definizione del principio di precauzione emerge, infatti, in relazione al fatto che, tale principio è spesso utilizzato, nella sua portata direttamente precettiva, in sede giurisdizionale per fondare la responsabilità civile dei soggetti che a quel parametro non si siano attenuti nel porre in essere l’attività potenzialmente dannosa, oltre che al fine di indirizzare le scelte politico-legislative in campo ambientale (65). Al riguardo c’è chi ritiene che il principio di precauzione sia difficilmente collocabile all’interno della distinzione tra regole e principi in ragione dell’intrinseca difficoltà di ricavare dei contenuti sostanziali immediati dalle diverse formulazioni. In quest’ottica, il principio di precauzione dovrebbe essere considerato una policy, ossia un principio di orientamento politico amministrativo, ma non un principio giuridico, in quanto non suscettibile di essere applicato da parte di un tribunale (66) .
(64) G. Gorgoni, Il principio di precauzione, cit., il quale sottolinea come dalle varie formulazioni del principio in questione possano discendere conseguenze diverse sul piano applicativo, in particolare a seconda che venga adottata una formulazione in termini negativi (come nel caso della Conferenza di Rio, dove venne adottata una formulazione triple negative) oppure in termini positivi. Idealmente si possono distinguere tre versioni del principio secondo uno spettro di possibili significati: “l’incertezza non giustifica l’inazione”; “l’incertezza giustifica l’azione”; “l’incertezza richiede l’inversione dell’onere della prova a carico di chi agisce”. (65) La violazione del principio potrebbe fondare l’applicazione di punitives damages, non ammissibili nel nostro ordinamento secondo la Corte di Cassazione per ragioni di carattere sistematico, in base alle quali alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare gli effetti del danno arrecato. Sarebbe quindi da escludere il diritto al risarcimento di un danno del tutto ipotetico in mancanza di un principio di precauzione che consenta una tutela avanzata a fronte di eventi di potenziale, ma non provata pericolosità (Cass. 23 gennaio 2007,1391). Tale orientamento osserva G. Visintini, è destinato a cadere nell’oblio atteso che i principi di precauzione e prevenzione sanciti dall’art. 174 TCE, sono stati anche recepiti dall’art. 301 del d.lgs. n. 152/2006 (Norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente). (66) G. Gorgoni, Il principio di precauzione, cit.
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Secondo un altro orientamento, invece, dovrebbe essere ricondotto a una nuova categoria intermedia tra principi e regole, ossia quella delle «regole a contenuto indeterminato», che si caratterizzano, da un lato, per l’indeterminatezza propria dei principi ma, dall’altro, per un’autentica portata normativa diretta (e non mediata), e che rispondono alla logica propria di un diritto postmoderno, ossia un diritto a struttura aperta (67). Così configurato il principio in questione potrebbe risultare idoneo a mutare i paradigmi giuridici della responsabilità ed il suo fondamento, atteso che si tratterebbe in questo caso di una responsabilità di tipo prudenziale (68). La condizione di incertezza scientifica vale a distinguere il principio fin qui esaminato da quello di prevenzione. Quest’ultimo – meno giovane e meno problematico dell’altro – costituisce l’antecedente logico del primo ed opera, infatti, nel senso di una tutela anticipata dell’ambiente a fronte di rischi conclamati e connessi ad attività potenzialmente pericolose. Si tratta di un principio volto ad imporre agli Stati l’obbligo di prevenire il più possibile qualsiasi tipo di danno, in considerazione, essenzialmente, della estrema difficoltà che esiste nel riparare i danni ambientali una volta che questi si siano verificati. Il principio, anche prima di essere recepito nei Trattati europei, si era già affermato a livello internazionale (69).
(67) L. Marini, Il principio di precauzione nel diritto internazionale e comunitario, cit., 2004, 110: «Il principio di precauzione ha permesso di superare la logica formale cara ai positivisti (e ad una certa visione “cartesiana” del diritto) e di costruire un’architettura giuridica complessa ma originale [...] Iscritto in una vera e propria rottura epistemologica della scienza giuridica, contribuendo a definire un nuovo “diritto a struttura aperta” che non risponde necessariamente al paradigma del positivismo giuridico, né alla distinzione, pur consolidata, tra hard law e soft law, il principio di precauzione in questo modo apre la strada ad una nuova categoria normativa, quella delle regole a contenuto indeterminato». Sulla portata immediatamente precettiva del principio si è espresso il Consiglio di Stato con la pronuncia del 21 agosto 2013 n. 4227. (68) Secondo G. Gorgoni, cit., Quella che verrebbe a configurarsi in questo modo è una forma ibrida di responsabilità che, oltre al carattere prospettico, presenta due ulteriori tratti distintivi rispetto alla responsabilità tradizionale: a) una dimensione eminentemente collettiva e b) un’asimmetria radicale tra i soggetti della relazione di responsabilità, non riconducibile allo schema della reciprocità delle obbligazioni. (69) Al principio di prevenzione si sono ispirate varie norme contenute in diverse convenzioni finalizzate alla protezione dell’ambiente. es. la Convenzione di Vienna per la protezione dello stato di ozono (1985); la Convenzione di Ginevra sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a lunga distanza (1979); la Convenzione di Helsinki sui corsi d’acqua transfrontalieri (1992); la Convenzione di Espoo sulla valutazione di impatto ambientale in un contesto transfrontaliero (1991) e, in una materia non propriamente ambientale, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare.
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Il principio di prevenzione appare ancor più restrittivo di quello sin qui esaminato, in quanto impone l’adozione di misure idonee a eliminare o ridurre il rischio di cagionare danni all’ambiente. La ratio della prevenzione si ricava non solo dal concetto della consumabilità dei beni ambientali e della irreparabilità, in alcuni casi, dei danni all’ambiente, ma anche dalla considerazione che le azioni riparatorie, anche laddove risultino possibili, siano economicamente più gravose (70). Ad ogni modo il principio di prevenzione anticipando la tutela promuove indirettamente lo sviluppo di tecnologie pulite, il risparmio di risorse scarse ed energia (71). 3.2.2. Il principio “chi inquina paga”. – Nel principio “chi inquina paga” si ritrova, invece, il fondamento della politica fiscale comunitaria in materia di ambiente e il criterio in base al quale dovrebbe essere strutturato il tributo ambientale. S’è accennato in precedenza che il principio è stato affermato per la prima volta in sede OCSE e ve n’è traccia anche negli atti emanati all’esito delle conferenze internazionali di cui s’è prima trattato. In ambito europeo si ritrova già nei primi documenti elaborati in materia ambientale. La prima affermazione del principio ancorché in forma implicita e sotto la definizione di “principio di causalità” si rinviene, secondo alcuni (72), nel primo programma d’azione ambientale (73) in base al quale «qualsiasi spesa connessa alla prevenzione e all’eliminazione delle alterazioni ambientali è a carico del responsabile» (74). Secondo altri (75) è possibile ritrovare in nuce il principio in questione in una, di poco precedente, Comunicazione
(70) O. Porchia, cit., 169. (71) A. Uricchio, Emergenze ambientali e imposizione, La dimensione promozionale del fisco, A Uricchio, M. Aulenta, G. Selicato (a cura di), Bari, 2015, 328. (72) M. Meli, Le origini del principio “chi inquina paga” e il suo accoglimento da parte della Comunità europea, in Riv. giur. amb., 1989, 217. (73) Primo “Programma d’azione per la protezione dell’ambiente” CEE del 1973. Tale programma, riguardante il quadriennio 1973-1977, risulta edito in G.U.C.E. 20 dicembre 1973, n. 112 nel punto VI si prevede che «qualsiasi spesa connessa alla prevenzione ed alla eliminazione delle alterazioni ambientali è a carico del responsabile». (74) Con tale principio s’introduceva, secondo alcuni, una sorta di responsabilità oggettiva a carico di chi avesse il controllo dell’attività all’origine del danno. In questo senso si veda A. Uricchio, Emergenze ambientali e imposizione, La dimensione promozionale del fisco, A Uricchio, M. Aulenta, G. Selicato (a cura di), Bari, 2015, 327. (75) G. Tarantini, Il principio “chi inquina paga” tra fonti comunitarie e competenze regionali, in Riv. giur. amb. 1989, 728.
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del Consiglio (76), fino ad arrivare alla sua formale affermazione nel Terzo programma d’azione ambientale (77). C’è chi (78), ancora, evidenzia che l’interesse per l’avvio di una politica ambientale comune è stato rimarcato con l’esplicita affermazione del principio del “chi inquina paga” in un atto di soft law del 1975 (79), in cui si evidenziava che «le persone fisiche o giuridiche, di diritto pubblico o privato, responsabili di inquinamento debbono sostenere i costi delle misure necessarie per evitare o ridurre detto inquinamento. Ciò al fine di rispettare le norme o misure equivalenti stabilite dai pubblici poteri che consentano, laddove previsti, di raggiungere gli obiettivi di qualità prefissati». Tale Raccomandazione per la realizzazione degli indirizzi programmatici comunitari prevedeva tre strumenti: interventi normativi, volti a disciplinare la qualità dell’ambiente, dei prodotti e degli impianti industriali (80); canoni, quali tributi commisurati alla quantità dell’inquinamento prodotto (81); aiuti economici statali, finalizzati transitoriamente, a finanziare l’adeguamento dei processi produttivi ai vincoli comunitari (82). Il principio in questione, che ha, da ultimo, trovato suggello nei Trattati, è stato, secondo alcuni, recepito al fine di evitare che fossero gli Stati a
(76) Comunicazione del Consiglio del 24 marzo 1972 (pubblicata in GUCE, 26 maggio 1972, n. C 52. (77) Dichiarazione del Consiglio delle Comunità europee e dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio del 22 novembre 1973 concernente un programma d’azione delle Comunità europee in materia ambientale in GUCE, n. C 112 del 20 dicembre 1973, 1 ss. In quella sede veniva sancito il principio “paghi l’inquinatore” in base al quale «le spese per la prevenzione e l’eliminazione dei fattori nocivi spettano per principio all’inquinatore». (78) R. Alfano, L’Emission Trading Scheme: applicazione del principio “chi inquina paga”, positività e negatività rispetto al prelievo ambientale, Id. Tributi ambientali profili interni ed europei, cit., 13; C. Verrigni, La rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nei tributi ambientali, in Rass. Trib., 2003, 1614 ss. (79) Si tratta della Raccomandazione 3 marzo 1975, n. 436, avente ad oggetto “l’imputazione dei costi e l’intervento dei pubblici poteri in materia di ambiente” adottata di concerto fra CEE, CECA ed EURATOM (80) Art. 4, lettera a). (81) Art. 4 lettera b). La Raccomandazione prevedeva inoltre che il gettito dei canoni potesse essere utilizzato sia per il finanziamento delle misure adottate dai pubblici poteri, sia per contribuire al finanziamento di impianti realizzati da singoli inquinatori nella misura in cui essi rendessero un servizio particolare alla collettività riducendo, su richiesta specifica dei pubblici poteri, gli inquinamenti o gli inconvenienti ambientali da loro provocati al di là del livello fissato dalle autorità competenti. In quest’ultimo caso, il contributo concesso al finanziamento doveva compensare esclusivamente i servizi resi da questi inquinatori alla collettività. (82) Art. 6.
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sopportare i costi dell’inquinamento, anche attraverso la concessione di aiuti, creando così delle ingiustificate posizioni di vantaggio a livello concorrenziale (83). La tutela ambientale e il principio in questione avevano, dunque, originariamente una valenza mercantile. La regola secondo la quale il costo relativo all’utilizzo delle risorse scarse dovesse ricadere sull’inquinatore era considerata una sorta di precondizione per il corretto svolgimento dei traffici commerciali e delle attività economiche nonché per la tutela della concorrenza (84). Il contesto, tuttavia, è attualmente mutato e, come s’è visto, l’ambiente è stato riconosciuto quale valore autonomamente suscettibile di tutela e la sua promozione è da considerarsi oggi obiettivo perseguito indipendentemente dalle libertà economiche. Non pare possibile, ormai, porre in dubbio che si tratti di uno strumento della politica ambientale ed il dato appare avvalorato dal fallimento delle politiche, anch’esse ambientali, basate sugli strumenti di command and control (85). Rimane ancora incerto, invece, se tale principio debba considerarsi idoneo ad apprestare una tutela preventiva o solo risarcitoria. A fianco di coloro che ne affermano una valenza fondante la tutela risarcitoria, per una responsabilità che si declinerebbe in termini oggettivi (86) (87) c’è
(83) M. Meli, Le origini del principio “chi inquina paga” e il suo accoglimento da parte della Comunità Europea, in Riv. giur. amb., 1989, 218; G. Tarantini, Il principio “chi inquina paga” tra fonti comunitarie e competenze regionali, in Riv. giur. amb., 1989, 732. (84) Cfr. sul punto P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2015, 303. (85) Osserva R. Alfano, Tributi ambientali, cit. 16, che la regolamentazione diretta, se applicata quale unico strumento di tutela risulta poco efficiente per la difficoltà di conciliare le procedure amministrative, tradizionalmente rigide e fortemente burocratizzate con la necessità della flessibilità delle politiche ambientali. Il punto debole del modello sta soprattutto nella fase di concreta attuazione affidata a diversi livelli di governo, condizionati da interessi interni anche protezionistici e su cui ricadono i costi aggiuntivi correlati ai controlli. (86) S. Patti, La tutela civile dell’ambiente, Padova, 1979, 178 ss.; M. Bresso, Pensiero economico e ambiente, Torino, 1982, 65 ss.; ID., Il principio “chi inquina paga” nella teoria e nella legge italiana sulla tutela delle acque, in AA.VV., Atti del Convegno sul tema “La protezione delle acque e delle zone umide in Italia”, M. Pinna (a cura di), Roma, 1983, 118 ss.; P. Bianchi, G. Cordini, Comunità europea e protezione dell’ambiente, Padova, 1983,72 ss.; F. Giampietro, La responsabilità per danno all’ambiente, Milano, 1988, 332; B. Caravita, I principi della politica comunitaria in materia ambientale, in Riv. giur. amb., 1991, 207 e ss.; A. Jazzetti, Politiche comunitarie a tutela dell’ambiente, in Riv. dir. amb, 1995, 46 e ss. (87) Tale ricostruzione ha sostenuto gli interventi della prima fase della produzione normativa comunitaria in materia di tutela dell’ambiente, caratterizzati dalle misure di command and control ma, come si è accennato nel testo, le politiche legate a questa impostazione si sono
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chi ritiene, valorizzando il fondamento economico del principio, che esso tenda a disincentivare le produzioni e le attività destinate a provocare inquinamenti, costringendo gli operatori a ricorrere a mezzi non inquinanti (88). Ancora, alcuni, collocandosi in una posizione intermedia, sostengono che il principio possa avere una valenza aperta, legittimando indifferentemente forme di risarcimento del danno ambientale basate sulla responsabilità civile, previsione di sanzioni amministrative riparatorie o l’istituzione di tributi ambientali (89). In quest’ottica qualcuno, nella dottrina italiana, evidenzia, in modo particolare, i riflessi fiscali del principio, valorizzando l’elemento della coattività che emerge dalla formulazione imperativa dell’art. 174 del Trattato. Si sostiene, infatti, che il principio in questione possa avere un impatto notevole nella definizione del presupposto di un tributo a carattere ambientale, fino a legittimare l’assunzione delle condotte inquinanti a fatti-indice di una autonoma capacità contributiva del contribuente. Più precisamente, secondo tale ultimo orientamento, da una lettura coordinata dei tre principi (precauzione, prevenzione, “chi inquina paga”) sanciti dall’art. 174 par. 2 del Trattato istitutivo e avendo riguardo alla sua formulazione testuale (90), si dovrebbe desumere che chi esercita attività o assume comportamenti contrari al mantenimento di un adeguato standard ambientale è tenuto non solo a sostenere i costi della rimozione (o della riduzione ad un livello accettabile) degli effetti dell›inquinamento prodotto ma anche a porre in essere le azioni di precauzione e di correzione alla fonte. Sotto questo profilo, pertanto, il principio in questione non costituisce un’autorizzazione ad inquinare verso un corrispettivo né ha il carattere di una sanzione ma rappresen-
rivelate insufficienti e poco efficaci a causa della impossibilità di regolare – in via normativa e secondo strumenti giuridici – l’intera materia della tutela dell’ambiente. Si veda sul punto anche R. Miceli, Federalismo fiscale e principi europei, Milano, 2014, 167 (88) Capelli, Per una disciplina uniforme delle sanzioni in materia ambientale nell’Europa comunitaria, in AA.VV., Atti del Convegno nazionale di Gubbio, 5-6-7 ottobre 1990, Roma, 1992, 120; Barde-Gerelli, Economia e politica dell’ambiente, Bologna, 1990, 125 e seguenti. (89) Cfr. C. Verrigni, La rilevanza del principio “chi inquina paga”, cit. ed ivi ulteriori riferimenti. (90) L’attribuzione di contenuti (anche) tributari al principio in questione viene ricavata dalla lettura congiunta dei diversi elementi del citato art. 174, paragrafo 2, e, in particolare, del suo secondo periodo, ove l’azione della Comunità in materia di ambiente viene fondata sui principi: della precauzione e dell’azione preventiva e della correzione in via prioritaria alla fonte, nonché del principio “chi inquina paga”. In base al citato orientamento, la congiunzione “nonché”, presente nella norma citata, sembra collegare, più che separare, le due parti della disposizione, fino al punto di dare l’idea di voler porre la seconda (quella relativa al principio “chi inquina paga”) in posizione strumentale rispetto alla prima.
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ta un criterio preventivo di efficienza distributiva, codificato nell’ordinamento comunitario. L’ampia formulazione della norma potrebbe anche giustificare il ricorso degli Stati membri ad ogni tipo di strumento fiscale, ivi compresa l’adozione di un tributo ambientale il cui presupposto sia costituito dal semplice “potere di inquinare”, ovvero dalla libertà di utilizzare un particolare agente inquinante o un certo quantitativo di risorse ambientali scarse (91). Pare dunque emergere che il principio in questione possa essere considerato fonte e legittimazione del potere, dei singoli Stati, di introdurre misure fiscali ambientali: tanto tributi, quanto agevolazioni. Il principio “chi inquina paga”, dunque, costituisce contemporaneamente la base giuridica per l’esercizio della potestà tributaria in materia ambientale, per l’Unione, al fine di perseguire gli obiettivi fissati dai Trattati, per gli Stati membri, in attuazione dei principi comunitari chiari e incondizionati fissati dall’art. 191 del TFUE (92). La definizione europea di tributo ambientale. I tributi ambientali in senso stretto e i tributi con funzione ambientale. – In ambito europeo, dopo le modifiche ai Trattati, a cavallo degli anni novanta, si possono rintracciare diversi tentativi di introdurre provvedimenti per l’armonizzazione delle misure fiscali ambientali (93). La Commissione, in particolare, sollecitava la realizzazione di una politica sinergica tra gli Stati con forme di prelievo basate su imposte speciali (94), ma, attesa la difficoltà di addivenire all’unanimità necessaria per l’introduzione di misure fiscali, proprio in ragione della assenza di una linea comune in materia, si optò per la sollecitare l’iniziativa dei singoli Stati membri, nel rispetto del quadro giuridico comunitario. Emergeva, in quest’ottica, l’esigenza che le azioni degli Stati membri fossero comunque dirette su una linea comune anche per quanto riguarda gli strumenti da utilizzare. Un atto di soft law cui unanimemente si riconosce una importante valenza per la realizzazione della finalità appena descritta è la Comunicazione “imposte tasse e tributi ambientali” nel Mercato Unico (95). Tale comunicazione in primo luogo ribadiva la competenza esclusiva degli Stati membri nell’in-
(91) Così P. Selicato, Imposizione fiscale e principio “chi inquina paga”, cit., più di recente R. Alfano, Tributi ambientali, cit. 14. (92) P. Selicato, Imposizione fiscale e principio “chi inquina paga”, cit., più di recente R. Miceli, Federalismo fiscale e principi europei, cit., 169. (93) Per un’ampia trattazione del tema si rinvia a R. Alfano, Tributi ambientali, cit., 23 ss. (94) Comunicazione del Consiglio del 27 Aprile 1995, in COM (95). (95) Commissione, Comunicazione imposte Tasse e tributi ambientali nel mercato unico del 29 gennaio 1997, in COM (97) 9 def.
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troduzione dei tributi fiscali ambientali e poi tracciava le linee guida per la definizione di tributo fiscale ambientale (96). In base alla Comunicazione, il prelievo ambientale si connota per la particolare caratterizzazione del presupposto, che deve sostanziarsi nell’utilizzazione impropria dell’ambiente, nel consumo di una risorsa naturale o di una fonte di energia o nella produzione di emissioni inquinanti, con chiari e diretti effetti negativi sull’ambiente. In sostanza l’imponibile è una unità fisica (o un suo sostituto o derivato) di qualcosa di cui si abbia prova scientifica di effetti negativi sull’ambiente quando sia usato o rilasciato (97). Tale definizione è stata poi recepita anche in un successivo Regolamento (98). La comunicazione – sebbene dando prevalenza, nell’elaborazione delle definizioni, agli aspetti economici rispetto a quelli giuridico formali – ha anche enucleato una classificazione dei tributi ambientali. Conseguentemente, sono state distinte le tariffe dai tributi e, fra questi ultimi, i tributi sull’inquinamento e i tributi sui prodotti. Secondo la definizione elaborata in sede europea, dunque, i tributi (taxes) (99) e le tariffe (fees and charges) si dovrebbero distinguere in ragione della natura “para-commutativa” delle seconde che deve essere negata ai primi (100). Con riferimento alla struttura del singolo tributo il presupposto dovrebbe essere individuato nell’unità fisica di uno specifico inquinante calcolata misurando o stimando le emissioni, ovvero dovrebbe essere correlato al consumo di una risorsa, un bene o un prodotto che genera un deterioramento o un possibile danno ambientale.
(96) Più di recente si veda Raccomandazione del Consiglio del 21 giugno 2002, in G.U.C.E. 11 luglio 2002, serie L, n. 182, concernente gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri della Comunità, ha ribadito che i singoli Stati devono ricorrere maggiormente a strumenti basati sui meccanismi di mercato per consentire agli operatori una certa flessibilità al fine di ridurre l’inquinamento ed in applicazione del principio “chi inquina paga”, tali mezzi dovrebbero risultare più efficaci poiché diminuiscono gli effetti esterni negativi e portano ad internalizzare nei prezzi i costi legati alla tutela ambientale. (97) Cfr. in questo senso F. Gallo, F. Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, in Rass. trib., I, 1999, 118. (98) Regolamento UE n. 691/2011 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 6 luglio 2011. (99) Nella Comunicazione menzionata nel testo si precisa, infatti, che i termini in questione sono usati per definire tutti i tributi coattivi non applicati secondo il criterio della controprestazione il cui gettito è versato direttamente all’erario, affermando che per essere considerato ambientale un tributo dovrebbe avere una base imponibile che abbia manifesti effetti negativi sull’ambiente. (100) I tributi devono intendersi come pagamenti che non sono necessariamente associati ad un flusso di ritorno di beni o servizi e le tariffe che invece sono sempre associate ad un flusso di ritorno di beni o servizi.
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La Comunicazione non ha mancato, peraltro, di evidenziare che l’introduzione di prelievi o, più in generale, di misure fiscali ambientali non deve ostacolare il corretto funzionamento del mercato comune, quindi, tali misure non devono produrre effetti discriminatori nei confronti di prodotti provenienti da altri Stati, devono rispettare i principi fondamentali propri del diritto derivato in tema di imposizione indiretta e, laddove si traducano in agevolazioni fiscali, devono essere conformi alle norme sugli aiuti di Stato. Rispetto alla prospettiva definita in sede OCSE (101), l’accento è stato posto, evidentemente, sulla struttura del tributo, con un netto mutamento di tendenza. Il tributo non viene definito solo come strumento per il reperimento
(101) La definizione di tributo ambientale così come enucleata in sede UE differisce quindi dal tributo con finalità ambientale, in cui l’elemento inquinante è estraneo alla fattispecie e che si dovrebbe inquadrare nella categoria dei tributi di scopo. Ed in effetti, la nozione europea si distingue dalla precedente concezione dell’OCSE secondo la quale sono da considerare strumenti economici per la tutela dell’ambiente «tutte quelle misure che incidono sulle scelte tra diverse alternative tecnologiche o di consumo, attraverso la modificazione delle convenienze in termini di costi e benefici privati». Cfr. OCSE, Instruments économiques pour la protection de l’environnement, Paris, 1989. V. anche Ministero dell’ambiente, Spesa pubblica ambientale e incentivi economici, in “Relazione sullo stato dell’ambiente”, Roma, 1997. L’OCSE distingueva almeno cinque categorie di strumenti economici volti alla tutela ambientale, e precisamente: a) tasse (o imposte) e tariffe, che possono avere funzione dis/incentivante o di gettito o entrambe; b) sussidi, che hanno funzione di aiuto finanziario per incoraggiare misure o attività volte alla riduzione dell’inquinamento; c) depositi cauzionali, che consistono in sovrapprezzi sulla vendita di prodotti inquinanti che possono essere restituiti nel caso di raccolta e riciclaggio dei prodotti; d) penalità, e altre misure di deterrenza (fideiussioni, performance bonds) applicabili ai soggetti che svolgono attività inquinanti; e) permessi negoziabili, e altri interventi sul mercato, volti a limitare le produzioni inquinanti ovvero a favorire processi di innovazione produttiva verso procedure con minore impatto ambientale. La tassazione ambientale era posta sullo stesso piano degli altri strumenti economici (sussidi, depositi cauzionali, permessi negoziabili) ed appariva perciò relegata ad un ruolo sostanzialmente marginale, per di più equiparandosi – in termini di efficacia ambientale – gli strumenti tariffari a quelli tributari. In definitiva secondo la concezione OCSE il tributo ambientale non va oltre il ruolo di strumento per il reperimento di risorse finanziarie per l’ambiente o di tributo disincentivante, concorrente con gli altri strumenti economici ad indirizzare le scelte dei consumatori. Lo strumento tributario è quindi inteso come una delle tante misure che possono consentire di “internalizzare” le cosiddette “esternalità” ambientali, e cioè di agire sul costo dei prodotti inquinanti (con imposte sulla fabbricazione o sui consumi) al fine di indirizzare le scelte dei consumatori. Il fine ambientale rimane una finalità politico-sociale del tributo, finalità extrafiscale esterna al suo presupposto. Diffusamente in tema F. Gallo, F. Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, loc. ult. cit., i quali ritengono che tale riduttiva considerazione dello strumento tributario può agevolmente comprendersi, in ragione dell’estrema difficoltà in sede OCSE di pervenire ad una visione minimamente unitaria dei tributi ambientali utilizzati dai Paesi aderenti. Cfr. F. Gallo, F. Marchetti, op. loc. ult. cit.
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di risorse da destinare alle misure di carattere ambientale, ma esso dovrebbe assumere una funzione distributiva del costo sociale in capo ai soggetti inquinatori, valutabile per i suoi effetti di tutela ambientale e di redistribuzione del carico fiscale (102). Secondo la dottrina il tributo ambientale nella definizione propugnata dall’UE è tale per la relazione diretta, causale, che sussiste fra il presupposto e il fatto materiale oggettivo che determina il deterioramento naturale e scientificamente accertato, ma la possibilità che persegua la funzione di salvaguardia dell’ambiente permane non soltanto inalterata ma, secondo alcuni, addirittura favorita (103). Questa impostazione parrebbe tuttavia cogliere solo in parte il ruolo che, più in generale, i Trattati assegnano alla fiscalità in materia di tutela ambientale. 4. La ripartizione delle competenze in materia ambientale e il principio di differenziazione. – Anche dopo l’individuazione di una definizione comune di “tributo ambientale” è rimasta comunque ferma la ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri e loro articolazioni interne, per quanto attiene la materia ambientale e, in particolare, per l’introduzione di misure fiscali ambientali. La materia ‘ambiente’ è annoverata fra quelle per cui l’Unione condivide il potere legislativo con gli Stati membri (104). In quest’ambito, dunque,
(102) La nuova impostazione elaborata in sede europea, oltre a propugnare una nozione di tributo che consenta l’imputazione dei costi legati alle diseconomie al soggetto inquinatore, e non alla collettività in generale, in attuazione del principio “chi inquina paga”, risponde comunque ad un’altra esigenza. Soprattutto con il Libro Bianco di Delors, a livello europeo emerge che la tassazione ambientale non va valutata solo per i suoi effetti di tutela ambientale ma, innanzitutto, per i suoi effetti di redistribuzione del carico fiscale. L’Unione Europea auspica, infatti, uno spostamento della tassazione dal lavoro all’ambiente anche al fine di generare occupazione poiché, in base alla teoria del “doppio dividendo”, la tassazione ambientale potrebbe produrre nuova occupazione e benefici per l’ambiente. La teoria del doppio dividendo (double dividend hypothesis) considera che i tributi ambientali siano in grado simultaneamente di: a) migliorare l’ambiente (c.d. green dividend); e b) migliorare la redistribuzione del reddito mitigando le altre forme di imposizione, ridurre la povertà ed incrementare l’occupazione (c.d. blue dividend). Mentre la dottrina è sostanzialmente concorde nel ritenere che i tributi ambientali siano, indubbiamente, in grado di realizzare il primo dividendo sub lett. a), permane un acceso dibattito sul fatto che questi possano anche realizzare il blue dividend. Si rinvia sul punto a P. Mastellone, I tributi ambientali analisi economico giuridica, in S. Dorigo, P. Mastellone, La fiscalità per l’ambiente, cit. 38 ss. (103) Così R. Alfano, Tributi ambientali profili interni ed europei, cit. 39. (104) Com’è noto il Trattato di Lisbona ha inserito nel TFUE un nuovo titolo “Categorie e settori di competenza dell’Unione” e cinque nuovi articoli che ridefiniscono i settori in cui l’Unione ha competenza esclusiva oppure concorrente con gli Stati membri abrogando peraltro l’art. 3 comma 1 del Trattato CE che elencava le materie in cui l’Unione poteva dispiegare la propria azione.
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l’Unione può agire in base ai principi di attribuzione (105), sussidiarietà e proporzionalità. Il principio di sussidiarietà, in particolare, è stato per la prima volta inserito con l’atto Unico Europeo del 1987 nel testo dell’art. 130R (ora 174) con particolare ed esclusivo riferimento alla politica ambientale comunitaria. Solo successivamente è divenuto il criterio generale di ripartizione delle competenze fra Unione e singoli Stati membri per le materie concorrenti (106). Occorre altresì considerare, per delineare correttamente gli ambiti di competenza, che in base alle disposizioni dei Trattati (107) in materia di ambiente l’Unione mira ad un alto livello di tutela (principio del necessario alto livello di tutela) tenendo conto delle diversità di situazioni nelle diverse Regioni dell’Unione (principio della differenziazione). Si intende realizzare, quindi, un alto livello di tutela avendo cura delle differenze esistenti nell’ambito delle Regioni. Pare possibile desumere, dunque, che l’Unione auspichi l’avvio di politiche ambientali regionali o locali in quanto gli enti territoriali parrebbero essere maggiormente in grado di realizzare interventi mirati sul territorio e di garantire uno sviluppo sostenibile (108). Gli Stati membri, come è stato evidenziato nei paragrafi che precedono, concorrono al raggiungimento degli obiettivi europei di tutela dell’ambiente e sotto il profilo dell’attuazione delle politiche fiscali ambientali dovrebbero considerarsi gli attori principali. Ciò in quanto, per un verso, l’ambito di competenza dell’Unione è limitato, in questa materia, dal principio di sussidiarietà, per altro verso, anche nell’ipotesi in cui si ritenga più efficace un intervento sovranazionale, l’emanazione di un provvedimento normativo richiede, in sede europea, il consenso unanime degli Stati laddove si tratti di misure fiscali ambientali (109). L’azione degli Stati membri, ad ogni modo, dovrebbe essere esercitata nel rispetto di tutti i principi posti dall’ordinamento europeo compreso il principio
(105) Il principio di attribuzione è sancito dall’art. 5 del Trattato CE e stabilisce che la Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi assegnati dal Trattato. (106) Nel 1993 con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht il riferimento al principio di sussidiarietà venne eleminato dall’art. 130 R (ora 174) e trasferito nel nuovo articolo 3B (ora 5) per divenire dunque un principio generale che deve guidare l’azione normativa delle istituzioni comunitarie. (107) Art. 174 CE versione consolidata; art. 191 TFUE. (108) in questo senso si esprime R. Miceli, Federalismo fiscale e principi europei, cit., 164. (109) Art. 192 TFUE (ex art. 175 TCE) par. 2 lett. a).
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di differenziazione. Tale principio pare legittimare le politiche ambientali territoriali, ammettendo la necessità che l’ambiente sia curato a livello regionale e locale sulla base della tipicità di ogni zona geografica europea. L’importanza delle Regioni e degli Enti locali per lo sviluppo di una politica dell’ambiente emerge con evidenza in alcuni passaggi dello stesso art. 191 TFUE, nella parte in cui si afferma (par.1) che la politica dell’Unione contribuisce a promuovere misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale, e nel punto in cui (par. 3) è previsto che, nel predisporre la sua politica in materia ambientale, l’Unione tenga conto dello sviluppo equilibrato delle sue singole regioni. Su queste basi è invalsa l’idea che la previsione di interventi regionali e locali risulti – dal punto di vista europeo – uno dei possibili settori di sviluppo dell’autonomia finanziaria e tributaria delle Regioni e degli Enti locali (110). Nell’ordinamento comunitario e nell’ambito del percorso di riconoscimento anche di obblighi in capo agli enti territoriali, un ruolo importante giocano il principio di effettività (111) e il principio di sussidiarietà prima menzionato. Quest’ultimo, contenuto nell’art. 5 del TUE, prescrive che ogni azione politica che attenga alle materie differenti rispetto a quelle oggetto di competenza esclusiva dell’Unione sia effettuata al livello di governo più adeguato al raggiungimento degli obiettivi. Il livello di governo più adeguato non riguarda solo l’Unione e gli Stati membri, ma coinvolge anche gli Enti territoriali. Il terzo comma dell’art. 6 infatti prevede espressamente che l’intervento dell’Unione sia necessario solo se ed in quanto gli obiettivi dell’azione non
(110) Cfr. in questo senso R. Miceli, op. cit., 176, R. Alfano, Agevolazioni fiscali in materia ambientale e vincoli dell’Unione europea, in Rass. trib., 2011, 353. Sul punto si vedano le considerazioni di O. Porchia, Principi dell’ordinamento europeo: la cooperazione pluridirezionale, Bologna, 2008, 23, la quale ritiene che gli enti sub nazionali sono forse in grado di assumere, in ragione di alcuni obiettivi e in determinati ambiti la veste di enti decentrati dell’Unione in quanto rappresentano circoscrizioni ottimali. (111) O clausola di effettiva applicazione del diritto comunitario che si ricava dall’art. 4 comma 3 del TUE. In tema si vedano i contributi di A. Von Bogdandy, I principi fondamentali dell’Unione Europea. Un contributo allo sviluppo del costituzionalismo europeo, Napoli, 2011, 99; P. Bilancia, F.G. Pizzetti, Riflessioni sul principio di leale cooperazione nell’ordinamento comunitario, in Aspetti e problemi del costituzionalismo multilivello, P. Bilancia, F. G. Pizzetti (a cura di), Milano, 2004, 91; R. Miceli, Il principio comunitario di effettività quale fondamento dell’integrazione giuridica comunitaria, in Studi in onore di V. Atripaldi, II, Napoli, 2009, 1621; G. Ingrao, Dalle teorie moniste e dualiste all’integrazione dei valori nei rapporti tra diritto interno e comunitario alla luce del Trattato di Lisbona, in Riv. dir. trib. 2010, I, 213.
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possano essere conseguiti in misura adeguata a livello centrale, né a livello regionale o locale (112). Il criterio si può tradurre come il principio “del livello appropriato di azione”, che deve guidare l’esercizio della competenza dell’Unione. Con la modifica all’articolo 5 del TUE operata dal trattato di Lisbona si è in sostanza integrato il principio di sussidiarietà con quello di prossimità, in base al quale le decisioni devono essere prese al livello di governo più vicino ai cittadini e ai beni della vita da amministrare (113). L’analisi di questi ultimi principi, tuttavia, se declinata con riferimento alla problematica relativa all’introduzione di misure fiscali ambientali, involge delle considerazioni riguardanti il riparto interno delle competenze tra Stato e Regione, la cui trattazione esula dal presente contributo (114) in quanto è necessario preliminarmente soffermarsi a riflettere in ordine alla forza eventualmente cogente sul piano interno dei principi sin qui esaminati e quindi, più in generale, sul ruolo della fiscalità ambientale nel sistema interno.
(112) Alcuni ritengono che dal principio di sussidiarietà sia possibile ricavare anche un impegno posto a carico delle istituzioni europee, non solo ad intervenire per una migliore realizzazione dell’azione, ma, più in generale, a decentrare l’azione stessa direttamente a livello sub-statale ogni qualvolta ciò garantisca una maggiore efficacia. Sul punto si veda S. Bartole, R. Bin, G. Falcon, R. Tosi, Diritto regionale, Bologna 2005, 60, i quali richiamano le interpretazioni che farebbero discendere dal principio un obbligo a carico dell’UE di rilasciare direttamente alle Regioni le azioni i cui obiettivi non richiedono interventi a livelli superiori operando così una diretta e incisiva ingerenza della normativa comunitaria negli assetti degli Stati Membri. In ordine al rapporto tra sussidiarietà comunitaria e tutela dell’identità nazionale, attualmente sancita dall’art. 4 par. 2 del TUE c’è chi si esprime nel senso che il principio di sussidiarietà opererebbe in favore delle autonomie territoriali precludendo un intervento comunitario incidente sul riparto interno delle competenze volto a sottrarre o a limitare le attribuzioni degli enti sub statali. Sul punto A. Morrone, Il principio di sussidiarietà e l’integrazione europea pluralistica in Profili attuali di diritto costituzionale europeo, E. Castorina (a cura di), Torino, 2007, 150 ss. C’è chi osserva, d’altro canto, che l’art. 4 del TUE impone il rispetto della struttura territoriale non delle singole funzioni degli enti decentrati con la conseguenza che l’art. 4 non potrebbe costituire un limite efficace rispetto ad interventi comunitari incidenti su norme costituzionali riguardanti specifiche competenze delle autonomie locali e regionali, anche se un nucleo essenziale di funzioni va comunque garantito per non ridurre l’ente decentrato, la cui sopravvivenza è assicurata dal necessario rispetto dell’assetto strutturale - ad una entità geografica priva di poteri sostanziali. Cfr. P. Zuddas, L’influenza del diritto dell’unione europea sul riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni, Padova, 2010, 165. (113) In questo senso P. Stancanelli, Il principio di sussidiarietà, commento all’art. 5 del TUE, par. 6, in Codice dell’Unione Europea, C. Curti Gialdino (diretto da), Napoli, 2012, 87; R. Miceli, Federalismo fiscale e principi comunitari, cit., 39 ss. (114) Si rinvia, pertanto sul punto, ai successivi sviluppi della ricerca.
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5. Profili interni: la rilevanza ordinamentale del principio dello sviluppo sostenibile e i doveri di solidarietà ambientale. – Per svolgere l’indagine cui si è appena accennato occorre muovere dal presupposto per cui il principio dello sviluppo sostenibile pare aver assunto una rilevante forza precettiva nei sistemi interni. Numerose sono infatti le ipotesi in cui il principio è stato “costituzionalizzato” dagli Stati membri (115), ma anche laddove non sia stato recepito nel testo costituzionale, ad esso è comunque riconosciuta valenza ordinamentale in ragione di una interpretazione evolutiva di alcune disposizioni costituzionali che consentirebbero l’innesto e la copertura delle problematiche legate allo sviluppo sostenibile e alla responsabilità o equità intergenerazionale. In dottrina si fa riferimento all’art. 41 comma 2 della Costituzione la cui indeterminatezza, in specie nella formula “utilità sociale” in contrasto alla quale non può svolgersi l’iniziativa economica, consentirebbe al testo costituzionale di adattarsi alle nuove frontiere problematiche legate allo sviluppo economico e della sostenibilità ambientale (116). Altrettanto rilevanti sono considerati i principi contenuti negli art. 3 comma 2 e 4 comma 2 Cost. poiché il rapporto tra tutela dell’ambiente e sviluppo o progresso economico sociale costituirebbero uno dei profili più rilevanti del pieno sviluppo della persona umana. Anche l’art. 9, comma 2 Cost., in forza del quale «la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della Nazione» è considerata una norma certamente idonea per legittimare una gestione del territorio attenta o funzionale alle esigenze ambientali e dello sviluppo sostenibile (117). Merita ancora particolare attenzione la tesi in base alla quale la tutela dell’ambiente rientrerebbe nei doveri di solidarietà economica e sociale previsti dall’art. 2 Cost. Pur ammettendo che l’ordinamento interno sia ispirato al principio personalista, in quanto posiziona l’uomo, i suoi valori e le sue esigenze al centro del sistema, c’è chi propende per una visione in cui
(115) In Francia è stata approvata la Carta Costituzionale dell’Ambiente (Charte dell’Environnement) del 2005, in Portogallo è stato introdotto all’art. 66 comma 2 della Costituzione il principio dello sviluppo sostenibile al quale l’art. 18 comma 1, del medesimo testo costituzionale attribuisce valore precettivo. (116) In questo senso R. Bifulco, A. D’Aloia, Le generazioni future come nuovo paradigma del diritto costituzionale, in Un diritto per il futuro. Teorie e modelli dello sviluppo sostenibile e della responsabilità intergenerazionale, II. DD. (a cura di), Napoli, 2008, IX ss. cfr. sul punto M. Pennasilico, Sviluppo sostenibile, legalità costituzionale e analisi “ecologica del contratto, in Persona e Mercato, 2015, I, 40. (117) cfr. sul punto M. Pennasilico, Sviluppo sostenibile, legalità costituzionale, op. loc. ult. cit.
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la tutela dell’ambiente – assunta a valore giuridico unitario – non sia configurata come contenuto di un diritto, ma come oggetto di un dovere. Il riferimento al principio di solidarietà, per dare ingresso e valenza ordinamentale nel sistema interno al principio dello sviluppo sostenibile, comporterebbe in sostanza la rivisitazione della categoria della soggettività giuridica con riguardo ai diritti delle generazioni future. Valorizzando il forte nesso già colto in passato (118) tra l’ambiente e i doveri di solidarietà, il diritto oggettivo ambientale verrebbe a delinearsi con riferimento ai comportamenti e alle situazioni soggettive – anche individuabili come doveri – riferibili al soggetto aggressore. In base a questa impostazione i comportamenti doverosi riconducibili alla materia ambientale sarebbero funzionali a proteggere soprattutto elementi e componenti che in quanto carenti di soggettività e di volontà non sono in grado di attivarsi per rivendicare una tutela. Dall’art. 2 della Costituzione si ricaverebbe quindi una significativa indicazione per il legislatore, indotto ad intervenire, in tutti i settori del diritto, a tutela dell’ambiente, indicazione rafforzata dalla circostanza che i principi di tutela dell’ambiente sono sanciti nel diritto europeo primario e derivato e atteso che il loro rispetto s’impone in forza dell’art. 117 Cost (119). In definitiva, tale approccio, pur muovendo dalla considerazione che il bene ambiente abbia una rilevanza economica e quindi risulti coinvolto nelle dinamiche dello sviluppo, valorizza la sua natura di bene comune patrimonio della collettività e, in quanto tale, oggetto di specifiche discipline in molteplici settori del diritto che impongono dei comportamenti doverosi alla collettività stessa in funzione di preservarlo e consentirne la trasmissione alle generazioni future. Parrebbe trattarsi, in altri termini, di un approccio improntato al principio di integrazione per cui, data la rilevanza sociale del bene ambiente, gli interessi e i valori ambientali dovrebbero considerarsi immanenti nel sistema a tal punto da condizionare e orientare il legislatore e, di conseguenza, tutta la collettività alla loro tutela.
(118) G. Morbidelli, Il regime amministrativo speciale dell’ambiente, in AA.VV., Scritti in onore di Alberto Predieri, II, Milano, 1996, 1121 ss. Enfatizza la circostanza che «dopo la questione nazionale e quella sociale, lo Stato può trovare nell’ecologia una nuova fonte di legittimazione, dato che la natura appare come il bene collettivo per eccellenza», S. Grassi, Problemi di diritto costituzionale dell’ambiente, Milano, 2012, 39. (119) F. Fracchia, Sulla configurazione giuridica unitaria dell’ambiente: art. 2 Cost. e doveri di solidarietà ambientale, in Dir. econ., 2002, 215 ss.; Id., La tutela dell’ambiente come dovere di solidarietà, in Dir. econ, 2009, 491, ss.; Id, Principi di diritto ambientale e sviluppo sostenibile, in Trattato di diritto ambientale, E. Picozza, P. Dell’Anno (a cura di), I, Padova, 2012, 559 ss.
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Pare interessante sottolineare in proposito che, secondo alcuni, l’emersione a livello ordinamentale dell’interesse prima richiamato e l’esistenza di un diffuso dovere di tutela avrebbero rilevanti ricadute anche sull’attività negoziale privata. Gli interessi dei singoli diverrebbero, in tal modo, giuridicamente rilevanti e positivamente apprezzati se rispettosi dell’ambiente e delle generazioni future. In base a questo approccio l’interesse ambientale sarebbe suscettibile di penetrare e colorare la causa del contratto, attesa la convergenza degli interessi dei contraenti all’utilità ambientale e la doverosità dell’uso responsabile delle risorse naturali a vantaggio anche delle generazioni future. In definitiva i tempi, secondo alcuni, sarebbero maturi per enucleare la categoria del contratto “ecologico” fonte non semplicemente di rapporti giuridici patrimoniali ma di rapporti patrimoniali “sostenibili” (120). Evidentemente predicare la doverosità sul piano costituzionale della tutela dell’ambiente significa dunque ragionare su una categoria che presenta maglie piuttosto larghe e risulta in grado di abbracciare qualunque aspetto della tutela stessa ed in qualunque ambito tanto da indurre a ritenere che in forza dell’art. 117 Cost, il legislatore (statale o regionale) in qualunque settore operi, sia portatore di uno specifico interesse. Così ragionando la tutela dell’ambiente o la valorizzazione dei beni ambientali dunque non parrebbero da considerare alla stregua di “materie”, ma di specifici compiti (121) suscettibili di essere svolti con ogni strumento giuridico ed in qualsiasi ambito. 5.1. Il ruolo della fiscalità nella tutela dell’ambiente. Il recente approccio della Corte Costituzionale. – Se è questo l’approccio da cui muovere, che pare conformare anche l’assetto ordinamentale interno, non sembra possa risultare indifferente il ruolo della fiscalità. Un primo dato da considerare a questo proposito è l’emersione di un interesse che forse si potrebbe definire a “bilanciamento necessario” (e cioè quello relativo alla tutela dell’ambiente) in grado di indirizzare anche la funzione fiscale verso la conformazione di un assetto sociale in cui tale interesse assuma un rilievo centrale.
(120) Si veda in tema M. Pennasilico, Le categorie del diritto civile tra metodo e storia, in Riv. dir. civ., 2016, 1253 ss. ed ivi ulteriori riferimenti; N. Lipari, Intorno ai principi generali del diritto, ibidem, 2016, 28 - 31 e spec. nota 17 ove si osserva che l’ambiente diventa il necessario contesto entro il quale è possibile leggere il modo d’essere del soggetto anche nella sua dinamica negoziale. (121) In questo senso di esprime condivisibilmente F. Fracchia, Sulla configurazione giuridica unitaria dell’ambiente, cit., 215 ss.
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L’indicazione che proviene dall’ordinamento sovranazionale parrebbe comportare innanzi tutto, ed in generale, l’obbligo di non porre a carico delle generazioni future i costi legati allo sfruttamento delle risorse ambientali, costi da intendersi non solo in senso economico, ma anche come perdita di chances di partenza in ordine alla libertà di realizzazione della persona in tutte le sue possibili declinazioni. Ciò in funzione del principio dello sviluppo “sostenibile” (o durevole) che si traduce, nell’ordinamento interno, nel dovere di solidarietà ambientale. È in questo quadro che parrebbero doversi collocare e leggere, con una necessaria elaborazione, i tre principi europei (“chi inquina paga” – precauzione – prevenzione), intesi come fondamento delle politiche fiscali in materia ambientale, ed anche la nozione di tributo ambientale propugnata a livello sovranazionale. Così ragionando si ricaverebbe, circa la funzione fiscale, un primo “vincolo” riguardante, appunto, la selezione dei soggetti su cui far gravare i costi necessari all’attuazione delle politiche fiscali ambientali, ovverosia le generazioni presenti. Un ulteriore “vincolo” al legislatore fiscale parrebbe riguardare la selezione e l’apprezzamento degli interessi che emergono e sono tutelati a livello ordinamentale e la conseguente individuazione degli indici, pur espressivi di forza economica, da assumere quali presupposti dei tributi o da porre a giustificazione di regimi promozionali. In funzione del diverso apprezzamento sociale di determinate situazioni a rilevanza ambientale (122) dovrebbero infatti essere orientati il modo e la prospettiva in cui vengono operate le discriminazioni fra i membri “presenti” della collettività in ordine alla diversa misura in cui essi sono chiamati a concorrere alle pubbliche spese. Atteso che la capacità contributiva non è solo un dato oggettivo ma è anche un giudizio storicamente e ideologicamente condizionato (123), parrebbe necessario, nell’ottica della selezione di cui s’è appena trattato, tenere conto che in questo momento storico il solo mercato non può dare una rappresentazione completa
(122) Sulla necessità che il legislatore tributario sia sensibile, nella sua vocazione funzionale, alla realtà e, dunque, alle tematiche ambientali, si veda anche A. Giovannini, Ripensare la capacità contributiva, in Dir. prat. trib., 2016, I, 20 ss. (123) In questo senso G. Fransoni, Stato di diritto, diritti sociali, libertà economica e principio di capacità contributiva (anche alla luce del pareggio di bilancio), in Riv. dir. trib. 2013, 1061, il quale sottolinea che la scelta in ordine al presupposto e agli altri caratteri del tributo è proprio orientata alla discriminazione fra determinati soggetti o gruppi sociali che si trovano in posizioni socialmente differenziate.
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della gamma dei rapporti e delle situazioni assumibili ad indici della suddetta capacità (124). La prospettiva sin qui delineata pare da ultimo accolta anche nella giurisprudenza costituzionale. In base ad un suo recente indirizzo la Consulta pare riconoscere che il tributo costituisca uno strumento di tutela in quanto esso incide sulle scelte economiche di investimento e finanziamento delle imprese (125), scelte che a loro volta si ripercuotono sugli equilibri ambientali. Secondo la Corte tale funzione del tributo è diretta al perseguimento di un interesse, quello alla tutela ambientale, che deve considerarsi prevalente anche laddove si determini interferenza tra diversi titoli di competenza ripartiti tra Stato e Regioni (126). Se ci si muove entro queste coordinate sembra dunque possibile ritenere che le relazioni tra soggetto e ricchezza in cui la produzione e il godimento sono
(124) Osserva F. Gallo (da ultimo in Tributi, Costituzione e crisi economica, relazione al convegno “Tributi e crisi economica”, tenutosi a Firenze 2 dicembre 2016 e organizzata dalla Fondazione Cesifin Alberto Predieri. In corso di pubblicazione sulla rivista Rassegna tributaria e pubblicato provvisoriamente su Astrid Rassegna 21/2016) che nel mercato non si esauriscono tutte le vicende della persona e la proprietà dei beni non costituisce l’unico di apprestamento della base economica necessaria per lo sviluppo della persona. Nello stato sociale la funzione della proprietà è sostituita dalla tutela del posto di lavoro, dagli istituti di sicurezza sociale della tutela dell’abitazione e oggi anche della tutela dell’ambiente. Si veda sul punto anche A. Fedele, in numerosi contributi ma da ultimo in Ancora sulla nozione di capacità contributiva nella Costituzione italiana e sui “limiti” costituzionali all’imposizione in Riv. dir.trib., 2013, I, 1035 e ss. che ricorda le nuove forme di contribuzione che assumono a presupposto il fatto in sé del consumo di beni “comuni” (aria, acqua, ambiente in genere) come tale non indicativo di disponibilità patrimoniali ed auspica posizioni meno rigide in ordine alla legittimità costituzionale delle scelte legislative circa gli indici di capacità contributiva. (125) ma il discorso non appare dissimile per i privati. (126) Con la sentenza 10 Aprile 2015 n. 58 la Corte Costituzionale ha ritenuto prevalente la funzione di tutela ambientale di un tributo regionale sul conferimento di rifiuti in discarica, riconoscendo, di conseguenza la competenza esclusiva statale in ordine alla sua istituzione e, dunque, l’illegittimità costituzionale del tributo stesso ai sensi dell’art. 117 comma 2 lettera s). Si riporta un passaggio della pronuncia: «Il quadro estremamente composito degli interessi sottostanti alla fattispecie normativa in esame determina una inevitabile interferenza tra titoli di competenza formalmente ripartiti tra Stato (tutela dell’ambiente) e Regioni (potestà impositiva di tributi propri), ovvero concorrenti (tutela della salute, governo del territorio). Tale interferenza deve trovare composizione attraverso l’adozione del principio di prevalenza, cui questa Corte ha fatto più volte ricorso, quando appaia evidente l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre (sentenze n. 50 del 2005 e n. 370 del 2003), ovvero quando l’azione unitaria dello Stato risulti giustificata dalla necessità di garantire livelli adeguati e non riducibili di tutela ambientale su tutto il territorio nazionale (sentenza n. 67 del 2014)».
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mediate dalla rilevanza sociale del modus operandi, virtuoso perché rispettoso dell’ambiente (127), possano risultare determinanti al fine di operare, in relazione a tali circostanze, una specifica discriminazione in ordine al concorso alle spese pubbliche. I tributi che assumono a presupposto il consumo di beni ambientali, in quest’ottica, non parrebbero costituire l’unico strumento per realizzare quella funzione di tutela cui gli strumenti fiscali paiono dover tendere. Potrebbero quindi assumere rilevanza per l’introduzione di nuovi tributi, per la modulazione di quelli esistenti, nonché per l’istituzione di regimi promozionali o agevolativi, una serie di indici relativi, ad esempio, per i soggetti che svolgono attività d’impresa (128), all’utilizzo di processi produttivi che consentano, allo stato delle conoscenze tecniche, l’attenuazione o l’eliminazione delle esternalità negative e che permettano, quindi, una discriminazione qualitativa della ricchezza prodotta.
Susanna Cannizzaro
(127) In questo senso V. Ficari, Nuovi elementi di capacità contributiva ed ambiente: l’alba di un nuovo giorno …. fiscalmente più verde? in Riv. trim. dir. trib., 2016, 837 ss. …. (128) Sotto questo profilo si deve ricordare che, a livello europeo, si è affermata l’idea che all’impresa debba essere riconosciuta una “responsabilità sociale”, formula con la quale si vuole intendere l’impegno volontario assunto dagli operatori economici a contribuire di propria iniziativa a migliorare la società e a rendere più pulito l’ambiente. Quest’ultimo rappresenta uno dei pilastri, insieme alle preoccupazioni sociali, sul quale le imprese sono invitate a concentrare il massimo sforzo su base spontanea nello svolgimento delle consuete attività commerciali. Nel Libro verde, Commissione, Libro verde, Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, COM (2001) 366. (pto 2.1.4.) la Commissione ha affermato che “una riduzione del consumo delle risorse o delle emissioni inquinanti e dei rifiuti può comportare una diminuzione delle ripercussioni sull’ambiente. Tale strategia può recare vantaggi all’impresa riducendo la sua fattura energetica e le spese di eliminazione dei rifiuti abbassando le spese di materie prime e di misure contro l’inquinamento”.