Tributario 3/2020

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Vol. XXX - Giugno

Rivista di

Diritto Tributario FONDATORI: Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi

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Rivista bimestrale

www.rivistadirittotributario.it

Vol. XXX - Giugno 2020

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DIREZIONE SCIENTIFICA Loredana Carpentieri - Angelo Contrino - Guglielmo Maisto - Franco Paparella Gaetano Ragucci - Roberto Schiavolin

2020

In evidenza: La rilevanza impositiva di “proventi” e “oneri” generati da operazioni di “calciomercato” Angelo Contrino Notaio, amministrazione finanziaria e parti contraenti, tra responsabilità, collaborazione e fondo di garanzia Guido Salanitro Cooperative compliance e tutela penale dell’interesse fiscale Stefania Gianoncelli La Cassazione chiarisce gli effetti in capo alla controllante della definizione dell’atto di accertamento da parte della controllata nel regime di consolidato fiscale nazionale Roberto Succio Tra diritto di difesa e certezza del diritto, l’istruttoria tributaria nel formante del bilanciamento tra principi Luca Costanzo

ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Rivista di Diritto Tributario

COMPONENTI ONORARI: Francesco D’Ayala Valva - Andrea Fedele - Piera Filippi Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo

Pacini


Indici DOTTRINA

Matteo Aicardi

La disciplina domestica di contrasto agli hybrid mismatch arrangements aventi per oggetto strumenti finanziari: spunti interpretativi e di riflessione critica alla luce delle indicazioni contenute nelle relazioni del BEPS action............................ V, 25 Paolo Aldovrandi

Bene giuridico e principio di offensività nello specchio del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte......................................................................... III, 61 Angelo Contrino

La rilevanza impositiva di “proventi” e “oneri” generati da operazioni di “calciomercato”...................................................................................................... I, 201 Luca Costanzo

Tra diritto di difesa e certezza del diritto, l’istruttoria tributaria nel formante del bilanciamento tra principi (nota a Corte di giustizia UE, sentenza 16 ottobre 2019, causa C-189/18)................................................................................................ IV, 76 Stefania Gianoncelli

Cooperative compliance e tutela penale dell’interesse fiscale.................................. I, 247 Giuseppe Mercuri

Dubbi, (fragili) certezze e suggestioni nell’ordinanza di rimessione sull’art. 20 TUR.......................................................................................................... I, 275 Guido Salanitro

Notaio, amministrazione finanziaria e parti contraenti, tra responsabilità, collaborazione e fondo di garanzia......................................................................................... I, 225 Roberto Succio

La Cassazione chiarisce gli effetti in capo alla controllante della definizione dell’atto di accertamento da parte della controllata nel regime di consolidato fiscale nazionale (nota a Cass., Sez. V civ., sent. 21 novembre 2019 - 17 settembre 2019, n. 30348)........................................................................................................... II, 161 Rubrica di diritto penale tributario

a cura di Gaetano Ragucci.......................................................................................... III, 61 Rubrica di diritto europeo

a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 59


II

indici

Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................ V, 25 I lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna nel rispetto dei criteri stabiliti dall’ANVUR.

INDICE ANALITICO

IMPOSTE SUI REDDITI IRES - Consolidato fiscale nazionale – Accertamento di primo livello con adesione della consolidata - Disciplina previgente alle modifiche apportate dall’art. 35 d.l. n. 78 del 2010, conv., con modif., in l. n. 122 del 2010 - Dichiarazione della consolidante di volerne profittare, in caso di mancata partecipazione al procedimento e di impugnazione dell’accertamento di secondo livello - Sufficienza ai fini dell’estensione degli effetti - Sussistenza - Definitività dell’accertamento di secondo livello - Irrilevanza - Fattispecie (Cass., Sez. V civ., sent. 17 settembre 2019 - 21 novembre 2019, n. 30348, con nota di Roberto Succio) ......................... II, 149 IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO Rinvio pregiudiziale – Direttiva 2006/112/CE – Articoli 167 e 168 – Diritto a detrazione dell’IVA – Diniego – Frode – Assunzione delle prove – Principio del rispetto dei diritti della difesa – Diritto al contraddittorio – Accesso al fascicolo – Articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Sindacato giurisdizionale effettivo – Principio della parità delle armi – Principio del contraddittorio (Corte di giustizia UE, sentenza 16 ottobre 2019, causa C-189/18, con nota di Luca Costanzo)........................................................................................ III, 59

INDICE CRONOLOGICO Corte Giustizia UE 16 ottobre 2019, causa C-189/18............................................................................... III, 59

***

Cass., Sez. V civ. 17 settembre 2019 - 21 novembre 2019, n. 30348.................................................... II, 149


indici

III

Elenco dei revisori esterni Nicolò Abriani - Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Mario Bertolissi - Andrea Carinci - Alfonso Celotto – Marco Cian - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Giuseppe Corasaniti - Roberto Cordeiro Guerra - Adriano Di Pietro - Marco De Cristofaro - Lorenzo Del Federico Eugenio Della Valle - Vittorio Domenichelli - Mario Esposito - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Franco Gallo - Gian Luigi Gatta - Emilio Giardina - Andrea Giovanardi - Alessandro Giovannini - Giuseppe Ingrao - Manlio Ingrosso - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Alberto Marcheselli - Enrico Marello Giuseppe Marini - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Sebastiano Maurizio Messina - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Andrea Parlato - Paolo Patrono - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Maria C. Pierro - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone – Barbara Randazzo - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Giovanni Strampelli - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Giuseppe Tinelli - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Mauro Trivellin - Antonio Uricchio - Arianna Vedaschi - Paolo Veneziani - Marco Versiglioni - Antonio Viotto - Giuseppe Zizzo.



Dottrina

La rilevanza impositiva di “proventi” e “oneri” generati da operazioni di “calciomercato”* Sommario: 1. Le origini, esterne e interne al diritto tributario, delle problematiche di

fiscalità diretta delle operazioni di “calciomercato”. – 2. Due questioni propedeutiche: la qualificazione civilistica del contratto di cessione dei calciatori e, per l’effetto, il tipo di diritto correlato e la sua collocazione nel bilancio delle società calcistiche. – 3. Le conseguenze sul piano tributario dei risultati dell’indagine civilistico-contabile: la qualificazione e l’inquadramento del diritto alla prestazione sportiva sul versante patrimoniale del regime d’impresa. – 4. (Segue). Le soluzioni sul versante reddituale del regime d’impresa: la “spesabilità” del costo di acquisto del calciatore attraverso la deduzione di quote di ammortamento, anche decrescenti, e il realizzo di plusvalenze e minusvalenze al momento della relativa cessione. – 5. (Segue). L’ulteriore questione della deducibilità delle minusvalenze derivanti dal trasferimento di un calciatore senza corrispettivo, ossia “a titolo gratuito”, che non si pone nell’ipotesi di cessione “a parametro zero” (calciatore c.d. “svincolato”). – 6. Il problema dell’iscrivibilità in bilancio del diritto relativo a un calciatore acquisito dalla società sportiva “a titolo gratuito” o “a parametro zero” e della qualificazione fiscale del provento derivante dalla successiva cessione. Muovendo dalla duplice (ancorché non pacifica) premessa che i contratti cessione dei calciatori rientrino nello schema tipico della cessione del contratto ex art. 1406 c.c. e che l’oggetto di tali contratti sia il trasferimento del diritto alla prestazione del calciatore, il contributo si sofferma, previamente, sulla questione della iscrizione in bilancio del diritto alle prestazioni sportive, per trarne, poi, le conseguenze in punto di qualificazione fiscale di tali beni “atipici”, sul versante patrimoniale, e dei proventi e degli oneri che generano, sul versante reddituale. L’ultima parte è dedicata al trattamento bilancistico e fiscale, sempre sul duplice piano patrimoniale e reddituale, dei diritti alle prestazioni sportive acquisiti a “titolo gratuito” (senza corrispettivo) o “a parametro zero” (calciatore c.d. svincolato).

* Testo, con aggiunta delle note, della Relazione svolta dall’Autore al Convegno “Fisco e calcio professionistico”, organizzato dall’Università di Roma – Sapienza (Dipartimento di Diritto dell’Economia e delle Attività Produttive) e dall’Università di Roma – Tre (Dipartimento di Economia Aziendale), che si è tenuto l’11 dicembre 2019 presso la sede della prima delle due Università organizzatrici.


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Parte prima

The article discusses the tax regimes applicable with respect to the transfers of football players and highlights how such regimes may vary depending on whether such transfers occur after the exipiry of the players’ contract or on whether the football teams agree to make a transfer without the payment of a price.

1. Le origini, esterne e interne al diritto tributario, delle problematiche di fiscalità diretta delle operazioni di “calciomercato”. – La fiscalità diretta di proventi e oneri derivanti dalla cessione dei calciatori professionisti è tema da tempo dibattuto e controverso (1), e in ispecie da quando nel 1981 è stato abolito il c.d. “vincolo sportivo” (2), con radicamento in un’unica fonte negoziale del contratto di lavoro dipendente, che lega il calciatore e la società sportiva del settore professionistico (è a queste che, d’ora in avanti, si farà riferimento senza specificare ogni volta), e del diritto all’utilizzazione in esclusiva del calciatore, che spetta alla società medesima. E infatti, sotto il profilo civilistico-contabile, il “vincolo sportivo” – in quanto distinto dal contratto di lavoro vero e proprio – era inquadrato come di-

(1) V., per tutti, F. Benatti e I. Manzoni, Il cd. trasferimento dei giocatori di calcio e l’imposta sul valore aggiunto, in Boll. Trib., 1980, 425 ss.; S. Sammartino, Cessione del contratto (diritto tributario), in Enc. Giur., Vol. VI, Roma 1993, 2 ss.; G. Gelosa e A. Giovanardi, Il bilancio delle società calcistiche, in Boll. Trib., 1995, 973 ss. e G. Luschi e G. Stancati, Aspetti fiscali della “cessione di calciatori”, con particolare riguardo al regime Irap, in Rass. trib., 1999, 1742. (2) Per effetto dell’art. 16 della L. 23 marzo 1981, n. 91 (su tale legge – che regola, a tutt’oggi, lo sport professionistico, unitamente alla L. 18 novembre 1996, n. 586, cui si affiancano le N.O.I.F., ossia Norme Organizzative Interne della Federazione Italiana Giuoco Calcio, e altri interventi interpretativi della medesima FIGC – v., in sede di primo commento, P. Verrucoli, Le società e le associazioni sportive alla luce della legge di riforma, in Riv. dir. comm., 1982, I, 138 ss.; M. De Cristofaro, Legge 23 marzo 1981 n. 91. Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, in Nuove leggi civ. comm., 1982, 573 ss.; e, per un inquadramento sistematico, G. Volpe Putzolu, Le società sportive, in Tratt. delle soc. per az., diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Vol. 8, III, Torino, 1992, 303 ss.). Il c.d. vincolo sportivo era il diritto della società sportiva di utilizzare in esclusiva le prestazioni di un atleta ed era ceduto da una società sportiva all’altra con il trasferimento dell’atleta: con la citata L. n. 91/1981, lo sportivo professionista è stato qualificato come lavoratore dipendente e il c.d. vincolo sportivo formalmente abolito, divenendo parte del contratto di lavoro subordinato con la società sportiva. Sulle problematiche derivanti da tale abolizione, v., sul fronte civilisticocontabile, A. Rossi, I bilanci delle società calcistiche e l’abolizione del vincolo sportivo, in G. Castellano, Riserve e fondi nel bilancio di esercizio, Milano, 1986, 199 ss. e, su quello fiscale, V. Mazzarelli, Calcio mercato: riflessione sul trattamento fiscale del vincolo sportivo e della sua abolizione, in Corr. trib., 1982, n. 2, 70.


Dottrina

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ritto immateriale atipico, collocabile tra i beni in senso giuridico di cui all’art. 810 cod. civ. in ragione del suo contenuto economico-patrimoniale (3), con iscrizione come tale nel bilancio della società e ammortamento in funzione della durata prevista delle prestazioni sportive (4); sotto il profilo fiscale, era pacifica la qualificazione e il trattamento come altro “onere pluriennale” ex art. 71, comma 3, d.p.R. n. 597/73, con deducibilità nel limite della quota imputabile a ciascun periodo di imposta (5). L’unificazione in una sola fonte negoziale di due rapporti giuridici profondamente diversi tra loro (6), in combinato con le successive modifiche nelle more intervenute alla disciplina del bilancio di esercizio e delle imposte dirette (7), è stata l’innesco delle radicali divergenze – ancor oggi esistenti – sul

(3) Cfr., tra gli altri, G. Minervini, Il trasferimento del giocatore di calcio, in Riv. Soc., 1983, 1085 e M. Magnani, Considerazioni sul cosiddetto vincolo oggetto di cessione nel trasferimento del calciatore, in Riv. dir. sportivo, 1978, 211; quanto alla giurisprudenza di legittimità, v. Cass., 28 luglio 1981, n. 4845, in Giust. Civ., 1982, 2416 e, in precedenza, Cass, Sez. III, 2 aprile 1963, n. 811, in Giust. Civ., 1963, 1901. (4) Si vedano G. Volpe Putzolu, Note minime in materia di iscrizione in bilancio del c.d. parco giocatori, in Giur. Merito, 1974, I, 198 e F. Dezzani, Il bilancio delle società per azioni, Milano, 1976, 51. (5) Limitandosi alla prassi, in quanto la questione era pacifica, v. Nota Min. fin., 21 novembre 1981, n. 9/1690 e Ris. Min. fin., 20 ottobre 1983, n. 9/625. (6) Con l’abolizione del c.d. vincolo sportivo, il trasferimento di un calciatore da una società sportiva all’altra – che prima scaturiva dalla mera cessione del vincolo sportivo – si realizza adesso con la cessione del contratto di lavoro sportivo (sulla specifica configurazione di questo contratto, al confronto dell’ordinario contratto di lavoro subordinato, si veda, per tutti, B. Bertini, Il contratto di lavoro sportivo, in Contr. e Impr., 1998, 743 ss.). E infatti, ai sensi dell’art. 3, comma 1, L. n. 91/1981, “La prestazione a titolo oneroso dell’atleta costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato, regolato dalle norme contenute nella presente legge”; l’art. 5, comma 1, prevede, poi, che il contratto “può contenere l’apposizione di un termine risolutivo, non superiore a cinque anni dalla data di inizio del rapporto”; alla scadenza il contratto può essere rinnovato: “È ammessa – prosegue il comma citato – la successione di contratto a termine fra gli stessi soggetti”; infine, e fugando ogni residuo dubbio, l’art. 5, comma 2, dispone che “È ammessa la cessione del contratto, prima della scadenza, da una società sportiva ad un’altra, purché vi consenta l’altra parte e siano osservate le modalità fissate dalle federazioni sportive nazionali”. (7) Il riferimento è, notoriamente, al D.Lgs. 7 aprile 1991, n. 127, con cui furono recepite le Direttive n. 78/660/CEE e n. 83/349/CEE – ossia le Direttive IV e VII in materia di conti annuali e conti consolidati, che sono state adesso abrogate dalla Direttiva n. 2013/34/ UE, attuata in Italia con il D.lgs. 18 agosto 2015, n. 139, in vigore dal 1° gennaio 2016 (sulle modifiche apportate alla precedente disciplina del bilancio d’esercizio, v., per tutti, G. Strampelli, Del bilancio (Artt. 2423-2435-ter), in Le società per azioni. Codice civile e norme complementari, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, t. I, Milano, 2016, 2166 ss.; M. Venuti, I principi ispiratori della nuova disciplina dei bilanci societari, in Giur. Comm., 2016,


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Parte prima

trattamento civilistico-contabile e fiscale dei proventi e degli oneri derivanti dalle operazioni di “calciomercato”, e in modo particolare ai fini dell’IRAP (8), con posizioni antitetiche di società sportive e FIGC, da un lato, e Agenzia delle Entrate, dall’altro. Se la questione della rilevanza ai fini IRAP dei proventi di tali operazioni può oggi ritenersi risolta, ma ciò – si badi – quale mera conseguenza delle modifiche apportate all’assetto del tributo negli ultimi anni (sul punto infra), vi sono ancora diversi fronti rimasti aperti, e oggetto, ancora di recente, di una giurisprudenza di legittimità (oltre che di merito) oscillante e contrapposta. Per analizzare tali questioni, e più in generale inquadrare correttamente le problematiche di fiscalità diretta derivanti dalla cessione dei calciatori, è necessario, brevemente, a monte: (a) qualificare sotto il profilo civilistico il contratto di cessione di un calciatore; (b) individuare la tipologia di diritto correlato a tale contratto e la sua collocazione nel bilancio delle società calcistiche. E ciò perché i risultati di tale indagine costituiscono il punto di partenza per la qualificazione tributaria del diritto stesso e il suo inquadramento sul versante patrimoniale del regime d’impresa, operazioni ermeneutiche – queste ultime – da cui dipendono la natura fiscale dei proventi (e degli oneri) e la correlata disciplina tributaria applicabile.

I, 188 ss.) – e, sul fronte tributario, al D.P.R. 22 dicembre 1987, n. 917, con cui è stato introdotto il T.U.I.R., e al D.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, con cui è stata istituita l’IRAP. (8) Cfr. F. Galgano, La compravendita dei calciatori, in Il fisco, n. 2/2001, 311, in dialogo virtuale con G. Luschi e G. Stancati, Aspetti fiscali della “cessione di calciatori”, con particolare riguardo al regime Irap, in Rass. trib., 1999, 1742; nonché P. Fava, Cessione del contratto di prestazione calcistica e disciplina Irap, in Il fisco, n. 47/2000, 13964; G. Ingrao, La determinazione del reddito imponibile delle società sportive, delle associazioni sportive dilettantistiche e delle onlus sportive, in Rass. trib.” 2001, 1530; A. Tadini, La “cessione di calciatori” e la disciplina Irap: un’altra opinione, in Il fisco, n. 3/2001, 577 e, ancora, P. Fava, Cessione di calciatori: la legge civile e la legge fiscale, in Il fisco, n. 8/2002, 1110. Più di recente, G. Ingrao, L’imponibilità ai fini dell’IRAP dei proventi connessi alla cessione degli atleti da parte delle società sportive, in Riv. dir. trib., 2008, II, 525; M. Procopio, Irap e società calcistiche professionistiche: la rilevanza delle plusvalenze e minusvalenze derivanti dalla cessione dei diritti sportivi, in Dir. prat. trib., 2009, II, 331; G. Pizzonia, Le immobilizzazioni immateriali nelle imposte dirette: il caso dei diritti alle prestazioni sportive dei calciatori, in Rass. trib., n. 5/2011, 1217 ss.; C. Sottoriva, Considerazioni in merito al trattamento fiscale ai fini IRAP delle plusvalenze nell’ambito delle società di calcio professionistico, in Dir. prat. trib., n. 4/2012; Giovannini, Irap e cessione di calciatori e P. Stizza, Profili fiscali della cessione di calciatori professionisti, entrambi in V. Uckmar (a cura di), Lo Sport e il Fisco, Padova, 2016, rispettivamente, alle pp. 178 e 336.


Dottrina

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2. Due questioni propedeutiche: la qualificazione civilistica del contratto di cessione dei calciatori e, per l’effetto, il tipo di diritto correlato e la sua collocazione nel bilancio delle società calcistiche. – La questione della qualificazione civilistica del contratto di cessione di un calciatore ha visto contrapposti, da un lato, la FIGC e le società sportive e, dall’altro, l’Agenzia delle Entrate e – pur nel suo ruolo istituzionale – il Consiglio di Stato. Per i primi, l’unico negozio giuridico di cessione dovrebbe essere segmentato in tre contratti: (i) l’accordo tra le due società sportive per il trasferimento del giocatore; (ii) l’accordo tra la vecchia società sportiva e il calciatore per la risoluzione del contratto di lavoro; (iii) l’accordo tra la nuova società e il calciatore (9). Per i secondi, invece, il negozio avente a oggetto il trasferimento del diritto all’utilizzo esclusivo della prestazione del calciatore verso un corrispettivo rientrerebbe nello schema tipico della cessione del contratto, ex art. 1406 c.c., dal momento che la società sportiva-cessionaria acquista, con il consenso del calciatore-ceduto, proprio il diritto oggetto del contratto e succede in tutti gli obblighi e i diritti connessi (10).

(9) In dottrina, a favore di tale tesi, G. Luschi e G. Stancati, Aspetti fiscali della “cessione di calciatori”, con particolare riguardo al regime Irap, cit., 1742; G. Gelosa e A. Giovanardi, Il bilancio delle società calcistiche, cit., 976; A. Tadini, La “cessione di calciatori” e la disciplina Irap: un’altra opinione, cit., 577; e, più di recente, G. Pizzonia, Le immobilizzazioni immateriali nelle imposte dirette: il caso dei diritti alle prestazioni sportive dei calciatori, cit., 1217. Contra S. Sammartino, Cessione del contratto (diritto tributario), cit., 2 ss., secondo cui il trasferimento degli atleti configura una cessione di contratto e non una pura e semplice rinuncia al diritto di esclusiva alle prestazioni sportive; e F. Galgano, La compravendita dei calciatori, cit., 311, il quale, al termine della sua disamina, afferma che “Non c’è, in conclusione, alcun interesse delle parti, suscettibile di essere valutato come meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322, comma 2, del codice civile, che possa giustificare la scomposizione della vicenda traslativa del contratto di lavoro sportivo nei tre contratti sopra descritti. Una simile modalità traslativa, alternativa alla cessione del contratto, non è dunque praticabile. Se, in ipotesi, praticata essa darà luogo a contratti nulli per mancanza di causa. Questi contratti, in sé nulli, saranno però suscettibili di conversione: essi possono produrre, a norma dell’art. 1424 del codice civile, gli effetti della cessione del contratto di lavoro sportivo, essendo la cessione il contratto che le parti avrebbero voluto se avessero conosciuto la predetta nullità. Alla fine altro non resterà, pertanto, se non una cessione del contratto, con tutte le conseguenze (anche fiscali) che ne derivano”. Hanno condiviso tale opinione, fra gli altri, G. Ingrao, L’imponibilità ai fini dell’IRAP dei proventi connessi alla cessione degli atleti da parte delle società sportive, cit., 525 e, più di recente, A. Giovannini, Irap e cessione di calciatori e P. Stizza, Profili fiscali della cessione di calciatori professionisti, entrambi in V. Uckmar (a cura di), Lo Sport e il Fisco, cit., rispettivamente, alle pp. 178 e 336. (10) La tesi sintetizzata nel testo – che ricalca, in modo quasi pedissequo, quanto argomentato e sostenuto da F. Galgano, La compravendita dei calciatori, cit., 311 – è stata


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Parte prima

Quest’ultima tesi – che si condivide senza riserve – è stata oramai “consacrata” dallo scorrere del “diritto vivente”, e in particolare, a fronte di una giurisprudenza di merito distribuita su entrambe le posizioni senza alcuna prevalenza (11), dalla giurisprudenza di legittimità recente, la quale – dopo la nota sentenza che per prima ha avallato le conclusioni del Consiglio di Stato, riconoscendo anche le “obiettive condizioni di incertezza” e la conseguente eliminazione delle sanzioni per le condotte tenute dalle società calcistiche anteriormente al Parere del Consiglio di Stato (12) – nel corso del 2019 ha consolidato il proprio orientamento (13), ribadendo reiteratamente la validità della interpretazione del Consiglio di Stato e, dunque, dell’Agenzia delle Entrate, pur con conclusioni divergenti in punto di tassabilità delle minusvalenze derivanti dalla cessione di calciatori “a zero” (sulla questione ritornerò più avanti). Dalla qualificazione del negozio di trasferimento come classica cessione del contratto discende che ne costituisce oggetto il diritto esclusivo alla prestazione del calciatore e che tale diritto va collocato tra le “immobilizzazioni immateriali”, come peraltro riconosciuto dalla stessa FIGC nel modello di bilancio approvato – ove è stato inserito nella voce residuale, e in ispecie in quella specifica “Diritti pluriennali alle prestazioni sportive dei calciatori” –

prospettata dall’Agenzia delle Entrate nella Ris. Ag., 19 dicembre 2001, n. 213/E e (dopo l’avvio di molteplici controversie da parte di società sportive) avallata dal Consiglio di Stato nel Parere 11 dicembre 2012, n. 5285, che ha specificamente confutato la tesi della scomponibilità dell’unitario contratto sostenuta da FIGC e società sportive. La predetta tesi è stata poi ribadita, pur se implicitamente, ribadendo le conseguenze che ne discendono, nella Circ. Ag. Entr., 20 dicembre 2013, n. 37/E. (11) A favore della tesi di parte privata, v., fra le molte, Comm. trib. reg. Puglia, n. 22/24/2014; Comm. trib. prov. di Udine, n. 258/1/2014; Comm. trib., prov. di Roma, n. 92/28/2012; Comm. trib. reg. Lazio, n. 92/28/2012; Comm. trib. reg. Sardegna, 8 luglio 2011, n. 146; Comm. trib. prov. di Roma, n. 467/33/2011; Comm. trib. prov. di Lecce, 10 giugno 2009, n. 587; Comm, trib. prov. di Milano, 1 dicembre 2008, n. 319; Comm. trib. prov., di Messina, 21 aprile 2007, n. 516. A favore della tesi di parte pubblica, v., fra le altre, Comm. trib. reg. Friuli Venezia Giulia, 28 gennaio 2016, n. 30; Comm. trib. reg. Lombardia, 19 agosto 2015, n. 3265; Comm. trib. prov. di Torino n. 1346/3/2014; Comm. trib. reg. Lombardia, n. 120/22/11; Comm. trib. prov. di Roma, n. 397/25/2009; Comm. trib. prov. di Parma, 2 aprile 2008, n. 2008; Comm. trib. prov. di Parma, n. 11/9/2008 (in richiamo, però, del divieto di abuso del diritto fiscale); (12) Cass., sez. trib., 2 dicembre 2015, n. 2459, commentata da S. Trettel, Il contrasto della giurisprudenza sul trattamento IRAP delle cessioni di calciatori “salva” dalle sanzioni, in Il fisco, n. 4/2016, 3763 ss. (13) Cfr. Cass., sez. trib,, 9 gennaio 2019, n. 345; Cass., sez. trib., 25 gennaio 2019, nn. 2144, 2145 e 2146; Cass., sez. trib., 4 aprile 2019, n. 9433.


Dottrina

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sul presupposto che “il diritto alle prestazioni di un calciatore professionista configura, per la società acquirente del diritto, una posta patrimoniale attiva a carattere pluriennale e di natura immateriale” (14). Quest’impostazione – fatta salva l’ipotesi di cui si dirà in chiusura di paragrafo – si reputa più corretta rispetto alla possibile soluzione alternativa, ossia la collocazione del costo di acquisto del diritto alla prestazione sportiva tra i “costi pluriennali”, e ciò senza soluzione di continuità nell’avvicendarsi della normativa civilistica sul bilancio di esercizio. In ispecie, fra le altre, per un’assorbente ragione: se è vero – come argomentato dalla maggior parte della dottrina che sostiene il frazionamento in tre contratti del negozio giuridico di cessione del calciatore (15) – che la natura obbligatoria del rapporto di lavoro tra società sportiva e calciatore potrebbe sembrare un ostacolo a tale soluzione, è innegabile e decisivo che il diritto alla prestazione sportiva sia dotato di un’autonoma utilità economica, da cui discende la possibilità di negoziazione, e che, per quanto “atipico”, esso presenti contabilmente tratti di spiccata similarità con altre fattispecie menzionate, come le licenze d’uso di brevetti e l’acquisto derivativo di know-how (16).

(14) Così, in continuità con il passato, la Raccomandazione Contabile n. 1 della FIGC. (15) V., per tutti, G. Pizzonia, Le immobilizzazioni immateriali nelle imposte dirette: il caso dei diritti alle prestazioni sportive dei calciatori, cit., 1217 ss., nota 92; G. Luschi e G. Stancati, Aspetti fiscali della “cessione di calciatori”, con particolare riguardo al regime Irap, cit., 1742 e, ancora prima, G. Gelosa e A. Giovanardi, Il bilancio delle società calcistiche, cit., 976. (16) Se in un primo tempo, G.E. Colombo, Il bilancio di esercizio. Strutture e valutazioni, Torino, 1987, 117, e ivi nota 85, aveva affermato che “la scelta se qualificare tale costo come immobilizzazione immateriale, o come onere pluriennale, o come risconto attivo è estremamente problematica, e non sono in grado, in questa sede, di motivare una preferenza sicura”, nonostante l’opinione a favore dell’utilizzo della voce “costi pluriennale” – fra gli altri – di A. Rossi, I bilanci delle società calcistiche e l’abolizione del vincolo sportivo, in G. Castellano, Riserve e fondi nel bilancio di esercizio, op.cit, 204, l’illustre Maestro – nella versione dell’opera G.E. Colombo, Il bilancio di esercizio, in Tratt. delle soc. per az., diretto da G.E. Colombo e G. B. Portale, Vol. 7, tomo I, Torino, 1994, 249 – ha sciolto la riserva e concluso nel senso di cui nel testo, vale a dire per l’iscrizione nella voce immobilizzazioni immateriali, argomentando che “questa ultima impostazione appare preferibile in considerazione delle analogie, sotto un profilo meramente contabile, con le licenze d’uso di brevetti: conseguentemente, la posta contabile idonea a rappresentare in bilancio l’acquisto del diritto sembra essere la voce B.I.7 di stato patrimoniale” (ossia, appunto, la voce altre immobilizzazioni immateriali). Tale conclusione è stata specificamente condivisa da F. Galgano, La compravendita dei calciatori, cit., 311, ma argomentando, in modo non proprio perspicuo, che “le immobilizzazioni immateriali di cui all’art. 2424 del codice civile comprendono (…) non solo i beni immateriali in senso stretto (brevetti, segni distintivi, eccetera), ma anche altre entità – cosiddette ‘entità ideali’ – non


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Parte prima

Questa soluzione non sembra, oramai, revocabile in dubbio, se si considera che la dottrina bilancistica ritiene applicabile l’art. 2423-ter, comma 4 c.c. – che è finalizzato a consentire l’adattamento della denominazione delle voci e delle sottovoci previste dagli schemi di cui agli artt. 2424 e 2425 c.c., là dove necessario in ragione della natura dell’attività esercitata dalla società – anche alla fattispecie in esame, riconoscendo espressamente che “l’esigenza prospettata potrebbe porsi, ad esempio, per le società sportive che devono iscrivere tra le immobilizzazioni immateriali i diritti alle prestazioni sportive dei giocatori, luogo non riconducibile ad alcuno dei beni immateriali menzionati nello schema di stato patrimoniale” (17). Sotto questo profilo, è dunque conforme alla normativa civilistica la soluzione, adottata dalla FIGC nel modello di bilancio approvato, di coniare la voce specifica “Diritti pluriennali alle prestazioni sportive dei calciatori”. Donde, sul fronte della “spesabilità” del costo, la possibilità di attivare il processo di ammortamento del valore iscritto in bilancio, e corrispondente al costo di acquisto del diritto alla prestazione sportiva aumentato degli oneri accessori (in ispecie, i compensi di mediazione degli agenti), che potrà avvenire in quote costanti, crescenti o decrescenti (queste ultime ammesse, adesso, anche dalla FIGC) (18), purché il predetto processo sia sistematico, uniforme e costante nel tempo. Una precisazione è d’uopo.

definibili come beni, neppure immateriali, quali i costi di impianto e di ampliamento, di ricerca, di sviluppo e di pubblicità, aventi utilità pluriennale, la cui iscrivibilità all’attivo dello stato patrimoniale è giustificata dallo stabile vantaggio che questi costi procurano alla società”. (17) Così, G. Strampelli, Del bilancio (Artt. 2423-2435-ter), in Le società per azioni. Codice civile e norme complementari, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, t. I, Milano, 2016, 2166 ss.; ma v. anche M. Bussoletti, Art. 2423 ter c.c., Società di capitali. Commentario, a cura di G. Niccolini e A. Stagno D’Alcontres, 2, Napoli, 2004, 1003 e M. Caratozzolo, Il bilancio d’esercizio, Milano, 2006, 219. (18) La possibilità di effettuare anche gli ammortamenti decrescenti è stata riconosciuta solo nelle versioni più recenti della citata Raccomandazione contabile n. 1. Tale soluzione è, in effetti, maggiormente prudenziale rispetto alla soluzione secca degli ammortamenti costanti, in quanto l’attribuzione di quote di ammortamento più elevate all’inizio e più basse nel corso degli anni di contratto ben può giustificarsi, ad esempio, per giocatori di età elevata rispetto alla media o per tenere conto, alla luce delle condizioni fisiche pregresse e/o dell’età del calciatore, di possibili cali di forma o infortuni nel corso del tempo. E inoltre, dopo il c.d. “periodo protetto” (dove non è consentito al calciatore la risoluzione unilaterale del contratto pena pesanti sanzioni sportive e disciplinari, ed è conseguentemente verosimile ipotizzare maggiori benefici dell’asset-calciatore), quando il rischio di risoluzione unilaterale del contratto è più alto e le prestazioni possono calare.


Dottrina

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Se quanto affermato vale in generale, non è possibile escludere, in via di mera eccezione, la collocazione del predetto diritto nell’attivo circolante del bilancio di esercizio, ancorché tale ipotesi non sia contemplata nel modello di bilancio predisposto dalla FIGC. E infatti, ai sensi dell’art. 2424-bis, comma 1, c.c., se un calciatore dovesse essere acquistato – ad esempio – a cavallo di due esercizi al fine di valorizzarlo e cederlo a breve, il diritto alle relative prestazioni sportive dovrà essere allocato nell’attivo circolante, non rappresentando un investimento durevole; e ciò a prescindere dalle indicazioni provenienti dalla FIGC, che prevede l’iscrizione tra le immobilizzazioni immateriali senza alcuna alternativa, per l’ovvia ragione che le Raccomandazioni contabili di tale Federazione non possono che essere recessive rispetto alla disciplina codicistica. Ciò comporta che il relativo costo non potrà essere ammortizzato, ma imputato integralmente al momento del perfezionamento del trasferimento (19), e che la cessione del calciatore genererà un ricavo, anziché – com’è nel caso dell’allocazione in bilancio tra le immobilizzazioni immateriali – una plusvalenza o minusvalenza, determinando un differenziale positivo o negativo per contrapposizione, a seconda che il corrispettivo di cessione sia superiore o inferiore al costo imputato a conto economico al momento dell’acquisto. Discussa è la questione della contabilizzazione nello stato patrimoniale, per la società sportiva-cessionaria, del diritto eventualmente acquisito “a titolo gratuito” (ossia senza corrispettivo alcuno) ovvero “a parametro zero” (calciatore c.d. “svincolato”), circostanza, questa, che – se non pone difficoltà relativamente alla “spesabilità” civilistica e fiscale del costo, in quanto, appunto, inesistente – determina un problema in punto di qualificazione fiscale del provento derivante dalla successiva cessione del contratto di prestazione sportiva: su tale questione ci si soffermerà alla fine dell’intervento (v. infra l’ultimo paragrafo).

(19) Tematica – anche questa della competenza del costo di acquisto, da un lato, e della plusvalenza o del ricavo, dall’altro – che è stata oggetto di un acceso dibattito, non ancora sopito: sul tema, L. De Angelis, Osservazioni sul momento della rilevazione contabile delle plusvalenze realizzate dalla “cessione” dei calciatori professionisti, in Contratto e Impresa, 2002, 920 ss., cui si rinvia anche per i riferimenti alle diverse tesi prospettate in dottrina e ai relativi sostenitori. Nella Raccomandazione Contabile n. 1 della FIGC si sostiene che “il momento temporale di iscrizione in bilancio degli effetti economici e finanziari dei contratti relativi alle prestazioni sportive dei calciatori, e pertanto della rilevazione contabile dei diritti, è quello della data di sottoscrizione dei contratti stessi”.


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Parte prima

3. Le conseguenze sul piano tributario dei risultati dell’indagine civilistico-contabile: la qualificazione e l’inquadramento del diritto alla prestazione sportiva sul versante patrimoniale del regime d’impresa. – La collocazione nel bilancio di esercizio del diritto alla prestazione sportiva tra le “immobilizzazioni immateriali”, e in ispecie nella sua voce residuale, permette di trarre una serie di conseguenze sul versante fiscale, nel contesto del regime d’impresa (20), stante il carattere – in principio – servente del diritto tributario (21). La prima, e più immediata, conseguenza è il rigetto dell’ipotesi interpretativa secondo cui il costo di acquisizione del diritto all’utilizzo delle prestazioni del calciatore non può essere ricondotto nel novero dei “beni d’impresa”, ma configurerebbe un mero “onere ad utilità pluriennale” deducibile nei limiti, e alle condizioni, di cui all’art. 108, comma 3, TUIR. (22) E invero, ancorché la categoria delle immobilizzazioni immateriali non abbia in ambito tributario una disciplina unitaria, essendo spezzata in un due sottoinsiemi, è indubbia la sussunzione della nostra fattispecie nell’art. 103, comma 2, TUIR, la cui sfera di azione, oltre ai diritti di concessione, è ampia e abbraccia – con un’espressa clausola residuale e di chiusura – tutti “gli altri diritti iscritti nell’attivo del bilancio” (23): donde l’attrazione di ogni costo che – com’è nella fattispecie in esame, e a differenza di quelle sussumibili

(20) Su cui, per tutti, A. Fantozzi e R. Lupi, Profili tributari e profili concorsuali, in Tratt. delle soc. per az., diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Vol. 9, tomo III, Torino, 1993, 31 ss. (21) La disamina è limitata alle società calcistiche che adottano i principi contabili nazionali. (22) In tale senso, v., ad esempio, E. Della Valle, I costi pluriennali, in G. Tabet (a cura di), Il reddito d’impresa, Padova, 1997, 274; M. Leo, F. Monacchi e M. Schiavo, Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, 1991, 774; e, tra gli Autori che hanno affrontato specificamente la problematica per le società calcistiche, G. Pizzonia, Le immobilizzazioni immateriali nelle imposte dirette: il caso dei diritti alle prestazioni sportive dei calciatori, cit., 1217 ss., par. 8.3., e ivi anche nota 94; G. Luschi e G. Stancati, Aspetti fiscali della “cessione di calciatori”, con particolare riguardo al regime Irap, cit., 1747; G. Gelosa e A. Giovanardi, Il bilancio delle società calcistiche, cit., 976. e F. Benatti e I. Manzoni, Il cd. trasferimento dei giocatori di calcio e l’imposta sul valore aggiunto, 425 ss. (23) A tale conclusione, dopo la classificazione tra gli oneri pluriennali affermata in vigenza del D.P.R. n. 597/73 (v. il primo paragrafo), è giunta anche l’Amministrazione finanziaria nella già citata Ris. Ag. Entr. 19 dicembre 2001, n. 213/E, valorizzando – in base ai verbali degli Ispettori Compartimentali delle imposte dirette predisposti un mese prima dell’introduzione del nuovo t.u.i.r. – la circostanza che l’allora art. 68, relativo all’ammortamento dei beni immateriali, era stato modificato aggiungendo al comma 2, accanto ai diritti di concessione, anche – appunto – gli altri diritti iscritti nell’attivo del bilancio d’esercizio.


Dottrina

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nell’art. 108, comma 3, TUIR – determini l’ingresso nel patrimonio dell’impresa di un bene immateriale, anche se “atipico”, diverso da quelli espressamente menzionati nel comma 1 della medesima disposizione (ossia, diritti relativi a utilizzazione delle opere dell’ingegno, brevetti industriali, processi, formule e know-how tecnico), qual è – come argomentato nel paragrafo precedente – il diritto pluriennale alla prestazione sportiva del calciatore, che, in ragione del suo contenuto economico-patrimoniale, dovrebbe comunque potersi annoverare – com’era per il c.d. vincolo sportivo – tra i beni in senso giuridico di cui all’art. 810 cod. civ. La seconda conseguenza, una volta chiarito ed evidenziato che la compravendita di un calciatore determina l’immissione nel patrimonio dell’impresa di un bene immateriale “atipico”, è l’impossibilità – diversamente da quanto prospettato in dottrina anche in tempi recenti – di qualificare tale cespite alla stregua di un “bene-merce”, dovendosi invece collocare nella categoria residuale dei “beni diversi dai beni-merce”, e in ispecie fra quelli “strumentali” allo svolgimento dell’attività imprenditoriale. E infatti, non sembra revocabile in dubbio che il particolare bene in esame è sì impiegato nel ciclo imprenditoriale, ma non esaurisce la sua utilità in modo istantaneo, come accade per i “beni-merce”, essendo asservito “in maniera durevole” all’esercizio dell’attività economica e costituendone “mezzo” per il conseguimento del fine ultimo dell’impresa (24). E ciò ancorché la

(24) L’attributo della “strumentalità”– che l’art. 102, t.u.i.r., in tema di ammortamenti fiscali, non prevede e definisce – designa, infatti, la partecipazione di un cespite al ciclo produttivo dell’impresa quale mezzo o strumento dell’attività e alla susseguente produzione di reddito: secondo la concezione diffusa in dottrina e in giurisprudenza, un bene d’impresa può definirsi strumentale quand’è impiegato “per” lo svolgimento dell’attività economica e il conseguimento del fine ultimo dell’impresa (v., per tutti, con varie sfumature, G. Moschetti, I beni relativi all’impresa, in V. Uckmar, C. Magnani e G. Marongiu (coordinati da), Il reddito d’impresa nel nuovo testo unico, Padova, 1988, 626; M. Logozzo, I beni relativi all’impresa, in F. Tesauro, diretta da, Giur. sist. dir. trib. Imposta sul reddito delle persone fisiche, Tomo II, Torino, 1994, 593. D. Stevanato, Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, Padova, 1994, 154 e M. Beghin, La “strumentalità” dei beni relativi all’impresa tra problemi interpretativi e questioni fattuali: alcuni spunti alla luce di un recente arresto della Suprema Corte, in Riv.dir.trib., 2007, II, 73. Gli elementi costitutivi della definizione di strumentalità testé prospettata sono colti, ma singolarmente, da Comm. trib. centr., 20 gennaio 1987, n. 553, e Cass. 26 maggio 1987, n. 4705). Ma vi è un ulteriore, indefettibile requisito che il bene deve possedere per essere considerato strumentale: dev’essere suscettibile di utilizzazioni plurime nel ciclo produttivo, dev’essere asservito in maniera durevole all’esercizio dell’attività economica (pongono la giusta enfasi su tale connotazione, nella manualistica, di recente, A. Fantozzi e F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Padova, 2019,


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compravendita dei giocatori rientri tra gli atti di gestione ordinaria delle società professionistiche di calcio (su cui infra), circostanza, questa, che non deve trarre in inganno in punto di qualificazione dei beni in esame. Se è vero che i calciatori professionisti sono ceduti con notevole frequenza (essendo, oggi, le c.d. “bandiere” ridotte ai minimi termini), ciò non implica – e non può, obiettivamente, implicare – che la compravendita dei calciatori sia l’oggetto dell’attività caratteristica delle società sportive: si tratta, infatti, di un mero connotato peculiare dell’attività di queste imprese, che richiede un ricambio quasi continuo dei relativi beni immateriali strumentali. 4. (Segue). Le soluzioni sul versante reddituale del regime d’impresa: la “spesabilità” del costo di acquisto del calciatore attraverso la deduzione di quote di ammortamento, anche decrescenti, e il realizzo di plusvalenze e minusvalenze al momento della relativa cessione. – Le soluzioni sul versante reddituale sono, a questo punto, il precipitato del quadro tracciato e dei punti fermi fissati sul piano patrimoniale. Quanto al costo di acquisto del calciatore, l’incasellamento tra i beni d’impresa di carattere strumentale del relativo diritto immateriale comporta che – in presenza di un ammortamento civilistico sistematico, uniforme e costante nel tempo – le quote di ammortamento del valore iscritto nello stato patrimoniale siano deducibili anche ai fini fiscali, e ciò a prescindere dall’adozione in sede civilistica di un criterio costante o decrescente (25), essendo irrefutabile

186; G. Zizzo, La determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2018, 398 e, in precedenza, F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Torino, 2008, 122); sulla differenza tra strumentalità economica e fiscale, v. M. Pierro, Beni e servizi nel diritto tributario, Padova, 2003, 150 ss. (25) Tra il criterio di imputazione ai fini civilistici e la regola di deducibilità fiscale vi è una sostanziale coincidenza, se si considera che, già sotto il profilo letterale, nell’art. 2426 c.c. (ma anche nei principi contabili) le immobilizzazioni (anche) immateriali sono ammortizzabili in base al criterio della “residua possibilità di utilizzazione” e nell’art. 103 t.u.i.r. (ma anche nell’art. 68 del vecchio t.u.i.r.) è previsto l’ammortamento in base alla “durata di utilizzazione prevista dal contratto o dalla legge”, senza vincolo alcuno, in entrambi casi, in ordine alla costanza delle quote di ammortamento. Nella Circ. Ag. Entr., 20 dicembre 2013, n. 37/E, 16, ai fini della deducibilità, si richiede che “le quote di ammortamento imputate al conto economico siano ancorate a criteri oggettivi in linea con la corretta applicazione dei principi di contabilizzazione e, in caso di adozione di un criterio decrescente, siano rispettati altresì i seguenti requisiti: 1) il sistema delle quote decrescenti sia utilizzato per l’intero parco calciatori; 2) il sistema delle quote decrescenti una volta adottato, non sia modificato, salvo il


Dottrina

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– per le ragioni illustrate – la “strumentalità” del diritto rispetto all’attività d’impresa. Quanto ai proventi e agli oneri derivanti dal trasferimento del calciatore, la cessione di un contratto di prestazione sportiva a titolo oneroso determina – essendo, come detto, il relativo diritto “atipico” inquadrabile fiscalmente nella categoria dei “beni diversi dai beni-merce” – una “plusvalenza” o una “minusvalenza” in ragione dell’entità del corrispettivo pagato dall’acquirente, e non un “ricavo” produttivo di un utile o di una perdita per differenza rispetto al valore fiscale del bene già spesato. L’unica eccezione, per cui vale quanto da ultimo affermato, è l’ipotesi – già vagliata sotto il profilo civilistico – di acquisizione del diritto alle prestazioni sportive di un calciatore destinato a essere ceduto a breve, che, in quanto da allocare nell’attivo circolante, è annoverabile tra i “beni-merce per assimilazione”. In questo caso, ovviamente, il relativo costo di acquisto sarà non ammortizzabile per quote bensì deducibile in modo integrale per competenza, seguendo – in forza del principio di derivazione rafforzata di cui all’art. 83 del TUIR – le regole proprie della competenza civilistico-contabile (26). E’, dunque, condivisibile il monolitico orientamento nel senso dianzi indicato (ma – va precisato – non è stata mai vagliata l’ipotesi supra illustrata come eccezione) della giurisprudenza di legittimità, che tuttavia si è formato non attraverso il percorso argomentativo che è stato svolto fino ad adesso, ma meramente appoggiandosi sulle conclusioni rassegnate dal Consiglio di Stato, nel Parere citato in apertura, ove – dopo avere sancito la riconducibilità del trasferimento di un calciatore nello schema civilistico della cessione del contratto – è stato affermato che il contratto di lavoro degli atleti professionisti rappresenta per le società sportive un bene dotato di un’utilità economica e suscettibile di autonoma negoziazione, collocando per l’effetto i relativi, eventuali proventi tra le plusvalenze imponibili, in ispecie ai fini IRAP. La qualificazione fiscale della cessione del contratto di prestazione sportive come fattispecie che genera plusvalenze (e minusvalenze), in luogo di ricavi (e, dunque, di utili o perdite per contrapposizione allo relativo costo), assume rilevanza ai fini IRES e, in passato, anche ai fini IRAP.

verificarsi di situazioni eccezionali”. (26) V., in merito, il recente e approfondito saggio di F. Crovato, Il principio di competenza dopo la riforma degli OIC, in Riv. dir. trib., 2020, I, n. 2 (in corso di pubblicazione e consultato per gentile concessione dell’Autore).


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Parte prima

Ai fini IRES, il differenziale tra il corrispettivo e il costo d’acquisto – anziché essere sempre tassato per intero al momento del realizzo, come accadrebbe se il corrispettivo della cessione del predetto costituisse ricavo – potrà essere rateizzato in quote costanti nell’esercizio di realizzo e al massimo nei quattro successivi, ai sensi dell’art. 86, comma 4, TUIR (27). Correlativamente, vertendosi sempre nell’ipotesi di cessione a titolo oneroso, in caso di differenziale negativo la minusvalenza sarà integralmente deducibile ai sensi dell’art. 101 del TUIR: con riguardo questa ipotesi, non vi sarebbe stata alcun differenza in caso di qualificazione della fattispecie come generatrice di ricavi, anziché di plusvalenze, poiché la relativa perdita sarebbe stata parimenti deducibile in maniera integrale. Ai fini IRAP, l’inquadramento della fattispecie tra quelle generatrici di ricavi o di plusvalenze è oggi indifferente, posto che il differenziale è destinato a concorrere, in entrambi i casi, alla formazione della base imponibile. In passato non era così. E infatti, l’inquadramento nell’una o nell’altra fattispecie determinava sempre l’assoggettamento a IRAP del differenziale, in caso di qualificazione della fattispecie come generatrice di ricavi; non altrettanto nel caso della plusvalenza, perché si riteneva il differenziale esegeticamente collocabile tra i “proventi straordinari”, che si trovavano all’esterno della base imponibile IRAP, e il sottostante bene immateriale privo del requisito della strumentalità all’esercizio dell’impresa (28). Questa impostazione è stata rigettata – a ragione – dalla totalità delle sentenze di Cassazione che hanno vagliato la questione (29), argomentando che le plusvalenze da cessione dovevano essere indicate non tra i “proventi straordinari”, bensì tra gli “altri ricavi e proventi” – e, dunque, all’interno dei confini della base imponibile

(27) Sul tema, v., per tutti, il recente e fondamentale saggio ricostruttivo di F. Paparella, Il contributo di Augusto Fantozzi e di Andrea Fedele in tema di plusvalenze nel reddito di impresa, in Dir.prat. trib., 2019, I, 509 ss., cui si rinvia anche per la copiosa dottrina anteriore. (28) Sulla disputa in merito, si vedano gli Autori citati retro, nota 9. La sezione del conto economico dedicata alla gestione straordinaria (“Proventi e oneri straordinari”) è stata eliminata dall’art. 6, comma 6, lett. g) del D.lgs. 18 agosto 2015, n. 139: per i riferimenti, v. retro, nota 8. (29) Cfr. Cass., sez. trib., 2 dicembre 2015, da n. 24588 a 24591, ove anche il riconoscimento delle obiettive condizioni di incertezza, ai fini delle sanzioni amministrative, fino all’emanazione del Parere del Consiglio di Stato, di cui si è detto, rigettando la tesi contraria sostenuta dall’Agenzia delle Entrate nella più volte citata Ris. Ag. Entr., 19 dicembre 2001, n. 213/E; più di recente, Cass., sez. trib,, 9 gennaio 2019, n. 345; Cass., sez. trib., 25 gennaio 2019, nn. 2144, 2145 e 2146; Cass., sez. trib., 4 aprile 2019, n. 9433.


Dottrina

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IRAP – in quanto il trasferimento dei calciatori rientra nella gestione ordinaria “accessoria” delle società sportive (30). La questione poteva, invero, essere risolta in modo più lineare e immediato attraverso l’invocazione e l’applicazione del c.d. principio di correlazione (31), in forza del quale – a prescindere dalla natura strumentale, o meno, del diritto in esame e dalla natura ordinaria o straordinaria del provento derivante dalla sua cessione – quest’ultimo risultava comunque imponibile in quanto correlato al costo, deducibile ai fini Irap, sostenuto dalla società sportiva al momento dell’acquisto del diritto alle prestazioni sportive del calciatore. Oggi, la questione non è più controversa, e le conclusioni della giurisprudenza di legittimità – che sono pienamente in linea con la soluzione scolpita dalla normativa odierna – assumono rilevanza per il passato e le cause pendenti. Come si è anticipato in apertura, la risoluzione della problematica non è il frutto dell’adozione normativa di una soluzione ad hoc, ma discende dalle modifiche apportate all’assetto generale della disciplina IRAP in punto di base imponibile. Senza indugiare – per evidenti ragioni – sull’evoluzione di tale disciplina (32), è sufficiente rilevare che, nell’assetto attuale risultante dalle ultime modifiche apportate nel 2016 (33), non è più necessario effettuare una valutazione “qualitativa” del provento-plusvalenza derivante dalla cessione di un

(30) A ragione perché, anche in base ai principi contabili, la straordinarietà della gestione è legata alla estraneità della fonte del provento (o dell’onere) all’attività ordinaria, com’è, ad esempio, nel caso delle plusvalenze e minusvalenze derivanti da operazioni o eventi che hanno un effetto rilevante sulla struttura aziendale (cessione di rami aziendali, partecipazioni strategiche, riorganizzazioni societarie, ecc.) o dalla cessione di beni immateriali che hanno una notevole rilevanza rispetto alla totalità dei beni strumentali utilizzati per lo svolgimento dell’attività aziendale ordinaria. (31) Su cui, per tutti, R. Schiavolin, L’imposta regionale sulle attività produttive. Profili sistematici, Milano, 2007, 363 ss. e, più di recente, A. Bernardini e L. Miele, Il principio di correlazione nella determinazione del valore della produzione netta ai fini Irap, in Corr. trib., n. 11/2014, 833 ss. (32) Per la quale si rinvia ad A. Giovannini, Irap e cessione di calciatori, in V. Uckmar (a cura di), Lo Sport e il Fisco, cit., 178 ss. (33) Art. 13-bis del D.L. 30 dicembre 2016, n. 244, conv. dalla L. 27 febbraio 2017, n. 19. L’intervento manutentivo alla disciplina IRAP, realizzato con il citato decreto, è stato determinato – stante il richiamo delle relative voci ai fini della determinazione della base imponibile – dalle modifiche agli schemi del bilancio di esercizio apportate con il D.lgs. 18 agosto 2015, n. 139, in vigore dal 1° gennaio 2016, già richiamato in nota 8, ove anche i riferimenti bibliografici essenziali.


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Parte prima

calciatore, in quanto l’art. 5, comma 1 del decreto IRAP, così come novellato, esclude dalla base imponibile in modo specifico, e solo, i componenti di natura straordinaria derivanti da trasferimenti di azienda o rami di azienda. Onde qualsivoglia, diverso componente straordinario, positivo o negativo, concorre alla formazione della base imponibile IRAP, con conseguente assoggettamento al tributo, a prescindere dall’appartenenza alla gestione ordinaria e dalla strumentalità del bene da cui è stato generato. 5. (Segue). L’ulteriore questione della deducibilità delle minusvalenze derivanti dal trasferimento di un calciatore senza corrispettivo, ossia “a titolo gratuito”, che non si pone nel caso di cessione “a parametro zero” (calciatore c.d. “svincolato”). – Un’ulteriore questione da affrontare – che scaturisce direttamente dall’inquadramento della cessione del contratto di prestazioni sportive tra le fattispecie che fiscalmente genera plusvalenze e minusvalenze – riguarda il trattamento delle eventuali minusvalenze derivanti dal trasferimento di un calciatore “a titolo gratuito”, ossia senza corrispettivo, nell’ipotesi in cui non sia “svincolato”. E infatti, nella diversa ipotesi di trasferimento “a parametro zero”, che è riferita al calciatore giunto a scadenza del contratto senza rinnovo (34), non vi sono “differenziali” rilevanti ai fini civilistici e tributari, in quanto, a fine contratto, i valori civilistico e fiscale del diritto alla

(34) La possibilità dei trasferimenti “a parametro zero” si deve alla nota sentenza Bosman della Corte di Giustizia 15 dicembre 1995, causa C-415/93, la quale ha portato all’emanazione in Italia del D.L. 20 settembre 1995, n. 485, conv. dalla L. 18 novembre 1996, n. 586, che regola ancora oggi lo sport professionistico, con abolizione il diritto alla c.d. “indennità di preparazione e promozione” che le società calcistiche iscrivevano in bilancio alla fine della durata del rapporto con il calciatore: in pratica, la società calcistica-cessionaria era obbligata a pagare un importo a tale titolo per acquisire un calciatore, pena – se l’accordo tra società venditrice e acquirente non era raggiunto – il “blocco” del calciatore a ingaggio ridotto o addirittura “fuori rosa”; ciò, ovviamente, poneva il calciatore in una posizione di debolezza negoziale nei confronti della società che possedeva il cartellino, la quale poteva imporre il rinnovo a condizioni a sé vantaggiose. In ordine alla portata rivoluzionaria di tale sentenza, v., A.L. Lee, The Bosman Case: Protecting Freedom of Movement in European Football, in Fordham International Law Journal, 1995, 3, 1255 ss. e P. Antonioni e J. Cubbin, The Bosman Ruling and the emergence of a single market in soccer talent, in European Journal of Law and Economics, 2000, 2, 157 ss.; per l’evoluzione della giurisprudenza e della normativa europea dopo tale sentenza, F. Roccatagliata, Zoff, Burgnich, Facchetti ... Bosman, Simutenkov, Sabou ovvero quando il diritto UE entra in tackle, in V. Uckmar (a cura di), Lo Sport e il Fisco, cit., 316 ss., il quale evidenzia (nota 565) che la Corte, vent’anni prima, pur rispondendo a un quesito diverso, ma sempre in ambito calcistico, aveva in nuce anticipato nella sent. 14 luglio 1976, causa 13/76 (Donà c/Mantero) quanto poi affermato nella rinnovatrice sentenza Bosman.


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prestazione sportiva dovrebbero risultare azzerati dalle quote di ammortamento imputate e dedotte in vigenza del contratto sportivo. Nel caso indicato si pone il problema perché – a differenza delle minusvalenze derivanti dalle cessioni “a titolo oneroso” – in caso di cessione “a titolo gratuito” non vi è una perfetta simmetria tra le fattispecie che generano plusvalenze imponibili, ai sensi dell’art. 86, comma 1, t.u.i.r., e quelle che per i medesimi beni generano minusvalenze deducibili, ai sensi dell’art. 101, comma 1: la simmetria è stata infatti frantumata pochi anni dopo la riforma dell’IRES del 2003 (35), con l’espunzione dall’elenco di fattispecie rilevanti – recato da tale ultima disposizione – della “destinazione a finalità estranea all’esercizio dell’impresa”, fattispecie che calamitava tra le minusvalenze deducibili anche quelle derivanti dai trasferimenti di “beni diversi dai beni-merce” effettuati – per l’appunto – senza il pagamento di un corrispettivo (36).

(35) Cfr. art. 36, comma 18, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, conv., con mod., dalla L. 4 agosto 2006, n. 248. Sul tema delle minusvalenze in questione, denominate anche “assimilate”, v., per tutti, N. Fortunato, Profili tributari delle assegnazioni di beni ai soci, Torino, 2012, 104 ss. e, più in là nel tempo, L. Del Federico, Minusvalenze patrimoniali, sopravvenienze passive, perdite ed accantonamenti per rischi su crediti, in F. Tesauro, diretta da, Giur. sist. dir. trib. Imposta sul reddito delle persone fisiche, Tomo II, Torino, 1994, 752 ss. (36) L’espunzione è pacificamente imputabile a ragioni antiabuso (in tale senso anche A. Fantozzi e F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, op. cit., 225, e G. Zizzo, La determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, op. cit., 521), intendendosi chiaramente bloccare la pratica – che si era diffusa dopo la riforma fiscale – di crearsi minusvalenze “in casa”, per abbattere il reddito imponibile, mediante l’estromissione strumentale di taluni “beni diversi dai beni-merce” – quelli con valore normale inferiore al valore fiscalmente riconosciuto – dalla sfera dei beni d’impresa, con chiusura del relativo ciclo mediante una minusvalenza fiscalmente rilevante. La specificità dell’intervento e la limitatezza del raggio d’azione inducono a non condividere la tesi (v. G. Zizzo, La determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali, op. ult. cit., 521) secondo cui la predetta espunzione metterebbe in dubbio il ruolo strutturale, in favore di una più modesta funzione antielusiva di carattere generale, che è proprio della fattispecie della “destinazione a finalità estranea all’esercizio dell’impresa” nel sistema di misurazione del reddito imponibile delle imprese, e ciò sia che si accolga l’interpretazione estensiva, postulante la rilevanza di ogni atto che determini il distacco dei beni dal coacervo del patrimonio imprenditoriale (v., per tutti, G. Falsitta, Il presupposto di imponibilità delle plusvalenze patrimoniali, in La tassazione delle plusvalenze e sopravvenienze nelle imposte sui redditi, Padova, 1986, II ed., 58, e M. Miccinesi, Le plusvalenze d’impresa, Milano, 1993, 159), sia che si sposi l’interpretazione restrittiva, in ragione della quale rilevano solo gli atti non traslativi comportanti un mutamento di funzione dei cespiti (v., per tutti,, M. Versiglioni Profili tributari della cessione gratuita dei beni relativi all’impresa, in Riv.dir.fin., 1992, 481, e A. Silvestri, Destinazione a finalità estranee all’impresa e principio di inerenza nelle imposte sui redditi, in Riv.dir.fin., 1998, 475).


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Questo particolare quadro normativo – che comporta l’indeducibilità delle minusvalenze derivanti dalle cessioni di “beni diversi dai beni-merce” diverse da quelle “a titolo oneroso” – costituisce la ragione delle controversie sorte per i casi di cessione di calciatori senza corrispettivo. Oggetto della disquisizione è l’effettiva possibilità di qualificare tali trasferimenti come cessioni “non onerose”, argomentandosi sul fatto che, pur in assenza di un corrispettivo, la società sportiva cessionaria assume l’onere del pagamento del compenso del calciatore, che viene trasferito, di cui è correlativamente sgravata la società sportiva-cedente: per taluni, il trasferimento in capo alla società acquirente di tale onere sarebbe sufficiente a incardinare la cessione del contratto nella categoria dei contratti “onerosi” e, dunque, latori di minusvalenze deducibili (37). La giurisprudenza di legittimità recente sembrava orientata nel senso di respingere tale tesi, ritenendo la fattispecie “gratuita” per l’assenza di un corrispettivo (38). Sennonché – come spesso accade – tra le due sentenze espressesi in tale modo se ne sono innestate altre tre, identiche fra loro, che hanno concluso in senso diametralmente opposto (39). In particolare, dopo avere preliminarmente affermato che “sono contratti a titolo oneroso quelli in cui i vantaggi sono reciproci al pari dei sacrifici, mentre sono atti a titolo gratuito quelli in cui il sacrificio è sopportato solo da un contraente, a vantaggio dell’altro”, i giudici di queste ultime sentenze hanno concluso che “nella specie, trattandosi di cessione di contratto ‘a

(37) V., in tale senso, S. Massarotto e M. Altomare, Revirement della Cassazione sulla (in)deducibilità delle minusvalenze da cessioni “a zero” di calciatori, in Riv. dir. trib. – On.line, 19 aprile 2019, ove, a sostegno di tale conclusione, un’interessante ricognizione della prassi amministrativa relativa a fattispecie analoghe anche in tributi diversi dalle imposte sui redditi. In senso contrario, P. Boria, Irrilevanti le minusvalenze per cessioni senza corrispettivo del contratto di calciatori, in GT – Riv. giur.trib., n. 5/2019, 402 ss., per il quale “decisiva appare la mancanza di controprestazione principale da parte della società cessionaria in relazione all’arricchimento del proprio patrimonio, riferibile al bene immateriale ricevuto, che porta a riconoscere la sostanziale gratuità della cessione”. In via generale, sui concetti di onerosità e gratuità nella nostra materia, v. V. Ficari e V. Mastroiacovo (a cura di), Corrispettività, onerosità e gratuità. Profili tributari, Torino, 2014, passim. (38) Cfr. Cass., sez. trib., 9 gennaio 2019, n. 345 (commentata adesivamente da P. Boria, op. loc. ult. cit. e criticamente da S. Massarotto e M. Altomare, op. loc. ult. cit.) e Cass., sez. trib., 4 aprile 2019, n. 9433. (39) Cfr. Cass., sez. trib., 25 gennaio 2019, nn. 2144, 2145 e 2146 (commentata adesivamente, da S. Massarotto e M. Altomare op.loc. ult. cit.).


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zero’, è vero che la società cessionaria ha il vantaggio di acquistare senza versare il corrispettivo, ma è anche vero che la cessionaria deve corrispondere il compenso all’atleta, mentre la società cedente non dovrà più pagare tale compenso. Pertanto, i vantaggi sono reciproci per entrambi i contraenti, con la possibilità di dedurre le minusvalenze in quanto ‘realizzate’ mediante cessione dei contratti a titolo oneroso”. Il ragionamento e la conclusione non convincono. E ciò perché il giudizio di onerosità o gratuità del negozio va compiuta soltanto in ragione della “causa concreta”, ossia in relazione all’interesse concretamente perseguito dalle parti (e in particolare dal cedente) con la conclusione del negozio, a prescindere dall’esistenza di un rapporto sinallagmatico o corrispettivo (40). Se è così – e considerato che nel nostro caso l’interesse perseguito è la circolazione del diritto di utilizzare le prestazioni sportive del calciatore oggetto di trasferimento, senza controprestazione a carico del beneficiario – l’atto di cessione è, e rimane, “a titolo gratuito”, poiché gli oneri a carico del beneficiario, la cui traslazione è un effetto solo indiretto, non ne possono far mutare la natura in atto “a titolo oneroso”. L’esistenza di tali oneri incide, infatti, soltanto sulla qualificazione dell’atto di trasferimento del calciatore senza corrispettivo come atto “gratuito”, anziché “liberale”, escludendo l’esistenza di una causa donandi. Le tre sentenze di legittimità in esame confondono due piani nettamente distinti, che tali devono rimanere. Il primo è la cessione del contratto di prestazioni sportive, che è un contratto autonomo; il secondo piano è rappresentato dal rapporto negoziale oggetto della cessione, che è distinto dal primo: quest’ultimo è sì un contratto “oneroso”, ma ciò non incide – e non può incidere – sulla “gratuità” del contratto di cessione attraverso cui esso viene trasferito. Come conferma, peraltro, il fatto che il rapporto giuridico oggetto della cessione gratuita rimane immutato

(40) In giurisprudenza, v. Cass., SS.UU., 18 marzo 2010, n. 6538. Nel senso di cui nel testo, P. Boria, Irrilevanti le minusvalenze per cessioni senza corrispettivo del contratto di calciatori, cit., 402 ss., il quale, nel commentare la sentenza Cass. n. 345/2019 evidenzia che “la Suprema Corte introduce (…) nel proprio ragionamento giuridico l’apprezzamento degli interessi concreti come ‘guida logica’ per la ricostruzione delle fattispecie negoziali. L’effettivo interesse perseguito nel disegno negoziale vale a fornire un contributo decisivo per il riconoscimento della causa civilistica degli atti e, quindi, per la classificazione degli stessi anche ai fini tributari”.


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nei suoi elementi oggettivi (i quali possono, poi, essere modificati da società sportiva-acquirente e calciatore), cambiando soltanto il lato soggettivo. Se è vera questa ricostruzione, e stante l’attuale formulazione dell’art. 101, comma 1, la conclusione sul piano fiscale non può che essere l’indeducibilità delle minusvalenze derivanti dalla cessione del calciatore senza il pagamento di alcun corrispettivo da parte della società sportiva acquirente. 6. Il problema dell’iscrivibilità in bilancio del diritto relativo a un calciatore acquisito “a titolo gratuito” (senza corrispettivo) o “a parametro zero” (calciatore c.d. svincolato) e della qualificazione fiscale del provento derivante dalla sua successiva cessione. – L’ultima problematica da analizzare riguarda la qualificazione fiscale del provento derivante dalla cessione di un calciatore acquisito dalla società “a titolo gratuito”, ossia senza corrispettivo, ovvero “a parametro zero”, perché “svincolato”: la questione è se tale provento sia una plusvalenza, rilevante ai sensi dell’art. 86 del t.u.i.r., là dove il diritto alla prestazione sportiva non dovesse essere iscritto nell’attivo dello stato patrimoniale e – stante l’eliminazione dallo schema di conto economico di cui all’art. 2425 c.c. della sezione dedicata alla gestione straordinaria (“Proventi e oneri straordinari”) (41) – il suddetto provento imputato a conto economico nella voce A5), “Altri ricavi e proventi” (a prescindere dalla sottovoce utilizzata). È, dunque, propedeutico accertare se, in effetti, l’acquisizione di un calciatore “a titolo gratuito” o “a parametro zero” sia o meno iscrivibile nell’attivo dello stato patrimoniale, tra le immobilizzazioni immateriali, com’è nel caso di acquisto “a titolo oneroso”, posto che, in caso di risposta affermativa, si sarebbe indiscutibilmente in presenza di un “bene diverso dai benimerce”, sia pur valorizzato “a costo zero”, generatore di una plusvalenza patrimoniale. Quanto ai beni immateriali, è discusso nella dottrina civilistico-contabile se il principio della “attendibile valutabilità” porti con sé la non iscrivibilità in bilancio di tali beni nel caso di acquisizione “a costo zero”, fronteggiandosi, da un lato, chi sostiene che – in mancanza di un prezzo di mercato per tale categoria di beni – solo la sopportazione di un costo (di acquisto o di produzione) possa costituire un parametro qualificabile come “attendibile valutazione”; e, dall’altro, chi ritiene invece che – in assenza

(41)

V., retro, nota 30.


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di una disposizione che escluda espressamente la rilevazione delle attività immateriali ricevute a titolo gratuito – il principio della “rappresentazione veritiera e corretta” imponga l’iscrizione di tutti gli elementi patrimoniali (42). A favore della prima soluzione milita la circostanza che gli artt. 9 e 10 della IV Direttiva – che, seppur oggi abrogata dalla Direttiva n. 2013/34/UE, attuata in Italia con il D.lgs. 18 agosto 2015, n. 139, costituisce il pilastro dell’attivo anche dell’attuale schema di stato patrimoniale – prevedevano l’iscrivibilità delle attività immateriali solo quando acquistate a titolo oneroso: se tali sono le origini, l’attuale art. 2426, n. 1, c.c., che prescrive l’iscrizione delle immobilizzazioni al costo di acquisto o di produzione, non può che essere letto in maniera restrittiva (43). E lo stesso vale, ovviamente, anche nell’ipotesi – analizzata nel contesto in esame come eccezione, rara, ma comunque possibile – di diritto alla prestazione sportiva che dovesse essere collocabile nell’attivo circolante. Dalla non iscrivibilità del diritto alle prestazioni sportive acquisito “a costo zero” tra le immobilizzazioni immateriali non è corretto inferire – com’è stato inferito (44) – che la successiva cessione del calciatore non possa generare alcuna plusvalenza, qualificando il relativo provento come sopravvenienza attiva, ma senza indicare la fattispecie astratta dell’art. 88 del t.u.i.r. in cui sarebbe sussumibile, e ciò anche là dove il provento sia allocato nella voce A5), “Altri ricavi e proventi”, com’è nell’attuale schema di conto economico privo di sezione straordinaria.

(42) Cfr., nel primo senso, G.E. Colombo, Il bilancio di esercizio, in Tratt. delle soc. per az., diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, op. cit., 185, e G.B., Portale I «beni» iscrivibili nel bilancio di esercizio e la tutela dei creditori nelle società per azioni, in Riv. soc., 1969, 271 ss.; conforme, nella sostanza l’OIC n. 24, ove si afferma (par. 49) che “i beni immateriali ricevuti a titolo gratuito non sono capitalizzabili, sia per la mancanza del sostenimento del costo di acquisto sia perché generalmente non è possibile individuare elementi valutativi attendibili”. Per la seconda opinione, v. E. Bocchini, Diritto della contabilità delle imprese. Bilancio d’esercizio, Torino, 2010, 121 ss. Ritiene invece che il valore della attività immateriali possa basarsi su grandezze diverse dal prezzo di mercato, e che perciò l’iscrizione sia possibile anche in assenza di tale ultimo parametro, M. Caratozzolo, Il bilancio d’esercizio, Milano, 2006, 121. (43) Conf. G. Strampelli, Del bilancio (Artt. 2423-2435-ter), in Le società per azioni. Codice civile e norme complementari, diretto da P. Abbadessa e G. B. Portale, op. cit., 2220 ss. (44) Cfr. P. Stizza, Profili fiscali della cessione di calciatori professionisti, in V. Uckmar (a cura di), Lo Sport e il Fisco, op. cit., 345.


Premesso che i beni immateriali ricevuti a titolo gratuito vanno indicati e descritti nella “nota integrativa” – la quale è, notoriamente, parte integrante del bilancio d’esercizio, tanto che i vizi della nota integrativa sono vizi del bilancio (45) – e che la società che li riceve ne ha la piena e indiscussa proprietà, il bene immateriale non iscritto nello stato patrimoniale di una società sportiva professionistica (con obbligata veste giuridica di S.p.A. e o di S.r.l.) (46) è comunque un “bene relativo all’impresa” ai fini fiscali, ciò costituendo il precipitato sul piano patrimoniale della “presunzione assoluta” secondo cui tutti redditi realizzati dalle società di capitali sono redditi d’impresa (art. 81), prevista anche per le società di persone a forma commerciale (art. 6, comma 3): se tutti redditi prodotti dalle società a forma commerciale sono redditi d’impresa, tutti beni posseduti dalle medesime società, da cui i predetti redditi scaturiscono, non possono che essere beni d’impresa. Donde la qualificazione della regola in tale senso prevista dall’art. 65, comma 2, per le sole società di persone a forma commerciale (a causa di un mero errore di coordinamento incorso in occasione della riforma del 2003) come meramente ricognitiva di un principio generale del regime fiscale d’impresa. Se così è, com’è in effetti, la capacità del bene immateriale di generare plusvalenze all’atto della cessione, ancorché non iscritto nell’attivo dello stato patrimoniale, dipende esclusivamente dal fatto che, nel contesto dei beni d’impresa, sia classificabile tra i “beni diversi dai beni-merce”, com’è indubitabilmente per il diritto alle prestazioni sportive (salva l’eccezione, più volte richiamata, dell’acquisizione del calciatore per una cessione in tempi brevi), trattandosi – per le ragioni illustrate in precedenza (47) – di un bene “strumentale” allo svolgimento dell’attività imprenditoriale tipica delle società sportive, ancorché la compravendita dei giocatori rientri tra gli atti di gestione ordinaria delle società professionistiche di calcio. Dalla qualificazione del provento come plusvalenza patrimoniale, anche in questa ipotesi di cessione del contratto sportivo, discendono ovviamente le

(45) V., per tutti, G. Balp, La nota integrativa, in L.A. Bianchi (a cura di), La disciplina giuridica del bilancio di esercizio, Milano, 2001, 919 e, già in sede di primo commento della nuova disciplina giuridica del bilancio derivante dall’attuazione della IV Direttiva, R. Sacchi, La nota integrativa nel d.lgs. 127/1991, in Giur. comm., 1992, I, pag. 70. (46) Cfr. art. 10, comma 1, della L. 91/1981. (47) V., retro, paragrafo 3.


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medesime conseguenze fiscali illustrate, in via generale, per il caso più frequente di trasferimento a titolo oneroso (48).

Angelo Contrino

(48) Alla medesima conclusione giunge, G. Ingrao, L’imponibilità ai fini dell’IRAP dei proventi connessi alla cessione degli atleti da parte delle società sportive, cit., 530-531, per il quale “a nostro avviso, ciò che viene ceduto è il contratto che lega l’atleta alla società, pertanto il provento connesso alla cessione di questo bene immateriale costituisce una plusvalenza patrimoniale, a nulla rilevando il fatto che esso non era iscritto in bilancio tra le immobilizzazioni immateriali”; l’A. richiama a conforto della conclusione raggiunta, per parallelismo tra le fattispecie, la sentenza Cass., sez. trib., 20 ottobre 2006, n. 22857, ove – con riguardo a un caso di immobili “strumentali” relativi a un’impresa individuale e non iscritti nell’attivo dello stato patrimoniale, né nel registro dei beni ammortizzabili – la Suprema Corte ha sancito che i proventi derivanti dalla cessione di immobili relativi alle imprese, in quanto utilizzati esclusivamente per lo svolgimento dell’attività economica, concorrono a formare il reddito d’impresa quale plusvalenza, a nulla rilevando la mancata iscrizione in bilancio tra le immobilizzazioni.



Notaio, amministrazione finanziaria e parti contraenti, tra responsabilità, collaborazione e fondo di garanzia Sommario: 1. Il notaio e l’adempimento unico. – 2. Sulla perentorietà del termine

entro cui notificare l’avviso di liquidazione. – 3. Sull’imposta che può essere richiesta al notaio in sede di liquidazione – 4. Sull’efficacia liberatoria del pagamento nelle mani del notaio. – 5. Pagamento al notaio delegato nell’ambito delle procedure esecutive. - 6. Soluzione esposta e conformità all’art. 53 della Costituzione. – 7. Il fondo di garanzia – 8. Ultime considerazioni sulla figura del notaio nel sistema tributario. Negli ultimi anni la giurisprudenza è intervenuta più volte in tema di rapporti tra il notaio, le parti contraenti e l’amministrazione finanziaria. Si esaminano alcuni aspetti controversi sottolineando come, nell’apprezzare la peculiarità della figura del notaio nell’ambito dell’imposta di registro, non si debba dimenticare che il soggetto passivo è il titolare della capacità contributiva. In recent years, jurisprudence has intervened several times on the relationship between the notary, the contracting parties and the financial administration. Some controversial aspects are examined by pointing out that, in appreciating the peculiarity of the notary figure in the context of the register tax, it should not be forgotten that the taxable person is the holder of the contribution capacity.

1. Il notaio e l’adempimento unico. – A seguito dell’approvazione del d. lgs. 18 dicembre 1997, n. 463, modificato con il d.lgs. 18 gennaio 2000, n. 9, e relativo regolamento D.P.R. 18 agosto 2000 n. 308, alla registrazione di atti relativi a diritti sugli immobili, alla trascrizione, all’iscrizione e all’annotazione nei registri immobiliari, nonché alla voltura catastale, si provvede, a decorrere dal 30 giugno 2000, con procedure telematiche. Le richieste di registrazione, le note di trascrizione e di iscrizione nonché le domande di annotazione e di voltura catastale sono presentate su un mo-


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dello unico informatico da trasmettere per via telematica unitamente a tutta la documentazione necessaria. Le formalità sono eseguite previo pagamento dei tributi dovuti in base ad autoliquidazione. Gli uffici controllano la regolarità dell’autoliquidazione e del versamento delle imposte e qualora, sulla base degli elementi desumibili dall’atto, risulti dovuta una maggiore imposta, notificano, anche per via telematica, entro il termine di sessanta giorni dalla presentazione del modello unico informatico, apposito avviso di liquidazione per l’integrazione dell’imposta versata. Il pagamento è effettuato, da parte dei notai, entro quindici giorni dalla data della suindicata notifica; trascorso tale termine, sono dovuti gli interessi moratori computati dalla scadenza dell’ultimo giorno utile per la richiesta della registrazione e si applica una sanzione. Contestualmente nell’articolo 42, d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, il comma 1 è sostituito dal seguente: “1. È principale l’imposta applicata al momento della registrazione e quella richiesta dall’ufficio se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione della richiesta di registrazione per via telematica; è suppletiva l’imposta applicata successivamente se diretta a correggere errori od omissioni dell’ufficio; è complementare l’imposta applicata in ogni altro caso”. L’adozione della procedura telematica di adempimento e della relativa autoliquidazione ex art. 3-bis ss. d.lgs. 18 luglio 1997 n. 463, e in particolare di alcuni profili quali la notificazione dell’avviso al solo notaio (peraltro entro un termine piuttosto lungo di sessanta giorni, che di fatto consente contestazioni quali quelle oggetto delle controversie delle decisioni esposte più avanti), hanno indotto la dottrina (1) a sottolineare che la nuova normativa collocherebbe il notaio in una posizione autonoma, sui generis, non riconducibile alla figura del responsabile di imposta né a quella del sostituto. Si è anche suggerita la qualificazione del notaio quale mandatario nell’interesse del fisco (2). Il mandato, che nascerebbe ex lege al momento della stipula dell’atto, avrebbe ad oggetto il compimento di un atto giuridico (la determinazione dell’imposta dovuta e l’adempimento della relativa obbligazione),

(1) Cfr. G. Salanitro, L’autoliquidazione nella disciplina dell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., 2004, I, 1260 ss., a cui si rinvia anche per i riferimenti alla dottrina anteriore. (2) Cfr. P. Puri, Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, Studio n. 855/2014 del Consiglio Nazionale del Notariato, del 23 ottobre 2015; Id., Il mandato nell’interesse del fisco, Roma, 2013, 105 ss.


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a beneficio del fisco, del quale il notaio sarebbe una sorte di rappresentante ex lege in quanto adiectus solutionis causa. Altra dottrina ha ravvisato nel notaio un indicatario di pagamento (3). Sarebbe, il notaio, legittimato ex lege a ricevere il pagamento delle imposte, senza essere né rappresentante del creditore né mandatario di costui (4). Altra dottrina ancora ha invece ritenuto che i profili evidenziati e relativi all’adempimento telematico sono semplici aspetti pratici che non incidono sulla qualificazione del notaio come responsabile di imposta (5). Lettura più tradizionale che svaluta, forse, eccessivamente le novità normative, ma che ha il pregio di mantenere chiara la distinzione tra il titolare della capacità contributiva espressa dall’atto (le parti contraenti) e la responsabilità del pubblico ufficiale. Le difficoltà di inquadramento teorico non sono dovute soltanto alle norme, in questa disciplina insolitamente chiare, ma anche alla peculiarità della materia. Da un lato abbiamo il notaio, che entra in contatto con le parti contraenti (dal vivo, ma in un futuro quasi presente anche a distanza), e con l’amministrazione finanziaria, ormai solo in via telematica. Il notaio liquida e registra l’atto senza incontrare i funzionari, senza nessun contatto che non siano quelli istituzionali dell’interpello e di altre simili forme di consultazione (6). Liqui-

(3) Cfr. V. Pappa Monteforte, Il notaio tra adempimento unico, obbligo di pagamento dell’imposta è contestazione” della pretesa erariale, in Notariato, 2013, 567 ss. Id., Il sistema notarile di riscossione dei tributi, Roma, 2016. (4) Si è comunque evidenziato che la nuova disciplina regolamentare sembra escludere il coinvolgimento delle parti contraenti nella fase del procedimento costituita dalla registrazione telematica (cfr. G. Tabet, Spunti critici sulla figura del notaio nel sistema di registrazione telematica, in Rass. Trib., 2013, 94 ss.). Da ultimo sul punto M. Palmeri, La nuova liquidazione dell’imposta di registro e il ruolo del notaio: profili sostanziali e processuali, in Rivista OPGT, 2017, e G. Di Nardo, Il notaio e l’imposta di registro, responsabile d’imposta o esattore del fisco, in www.amtmail.it per il quale il notaio sarebbe obbligato in proprio. Sui profili processuali vd. S. M. Ronco, Avviso di liquidazione notificato al notaio e profili processuali: questioni problematiche alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione, in Riv, dir. trib. Online, 8.11.2019; G. Salanitro, Liquidazione dell’imposta di registro e legittimazione al rimborso, in Gt Riv. Giur. Trib., 2018, 136 ss. (5) Cfr. S. Ghinassi, La posizione sostanziale e processuale del pubblico ufficiale in ordine alle imposte dovute sull’atto rogato, in Riv. dir. trib., 2016, n. 6. (6) Per ragioni di trasparenza, uniformità di trattamento e lotta alla corruzione, la prassi degli uffici è nel senso, da alcuni anni, di non fornite opinioni e suggerimenti verbali ma di sollecitare istanze formali di interpello. Istanze che vengono prodotte raramente sia per ragioni di tempo sia per evitare risposte scritte nel senso di tassazione più onerosa.


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dando le imposte, ne chiede la relativa provvista alle parti e la gira all’amministrazione finanziaria. Le parti contraenti non hanno rapporti con l’Agenzia. Non firmano la dichiarazione, non pagano modelli online, sottoscrivono l’atto e forniscono al notaio somme che indistintamente coprono spese, imposte e onorario (7). L’amministrazione, infine, ha contatti, nella fase immediatamente successiva alla registrazione, solo con il notaio al quale notifica gli avvisi di liquidazione (8) e occasionalmente chiede chiarimenti e documenti. Solo in un secondo momento, in caso di omesso pagamento dell’imposta principale da parte del notaio e per le imposte complementari e suppletive, agisce nei confronti delle parti contraenti. 2. Sulla perentorietà del termine entro cui notificare l’avviso di liquidazione. – Tre recenti decisioni della Cassazione intervengono su alcuni punti controversi di questo peculiare rapporto, costituendo l’occasione di rimeditare su alcune soluzioni e sull’inquadramento teorico. La prima decisione, la sentenza n. 15450 del 7 giugno 2019 (9), interviene sull’avviso di liquidazione notificato al notaio, in particolare sul termine e sui poteri dell’amministrazione. La sentenza afferma, in primo luogo, che il termine di sessanta giorni previsto per la notificazione dell’avviso al notaio non sarebbe perentorio. La Cassazione ritiene che sussistono oggettivi margini di opinabilità circa gli effetti giuridici del decorso del termine. Opinione potenzialmente dagli effetti dirompenti perché potrebbe coinvolgere molti termini in materia tributaria. È vero che la norma non prevede espressamente la perentorietà del termine, ma diversamente opinando l’amministrazione, in mancanza di altri termini previsti, potrebbe notificare l’avviso entro il termine più lungo di ben tre anni dalla registrazione, lasciando il pubblico ufficiale in balia dell’amministrazione per un lungo periodo per un’imposta, quella principale, che si dovrebbe pagare all’atto della registrazione.

(7) Le somme relative alle imposte vengono poi versate in apposito conto dedicato; nulla impedisce, però, ed anzi in questo senso è orientata la prassi, di pagare con un assegno o un bonifico che comprende indistintamente imposte ed onorari. (8) Con conseguente applicazione di sanzioni e iscrizione a ruolo del pubblico ufficiale in caso di mancato pagamento. (9) In Rivista di diritto tributario online, 18 settembre 2019.


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Chi scrive ha sostenuto fin dal primo commento la perentorietà del termine e sul punto non sembra esservi alcun margine oggettivo di incertezza; salvo verificarne, ma è altra questione, la rilevanza nello specifico giudizio (10). Il decorso del termine comporta la decadenza del potere dell’amministrazione di notificare l’avviso al notaio. L’avviso notificato fuori termine, andrà, però, secondo i principi generali, impugnato dal notaio per far rilevare l’avvenuta decadenza (11). 3. Sull’imposta che può essere richiesta al notaio in sede di liquidazione. – In secondo luogo, la stessa sentenza afferma che l’imposta principale che può essere richiesta al notaio è solo quella immediatamente percepibile per tabulas dal modello unico di registrazione o dalla disamina dell’atto trasmesso telematicamente. La Cassazione desume questa tesi dalla previsione che la procedura di recupero sia esperibile in quanto il maggior dovuto emerga sulla base degli elementi desumibili dall’atto (12). Non possono essere contestati elementi extratestuali o derivanti da particolari accertamenti fattuali o valutazioni giuridico interpretative: in tale caso occorrerà procedere ad un avviso di accertamento per imposta complementare nei confronti delle sole parti contraenti: in tal modo, la Cassazione ha sostenuto che non può essere contestato al notaio una diversa tassazione del trust rispetto all’applicazione delle norme espletata dal pubblico ufficiale. La posizione della sentenza in commento si pone in contrasto con altra giurisprudenza, anche recente e sempre in tema di trust.

(10) Cfr., nello stesso senso, G. Arcella, Sub art. 3ter, in AA. VV., Codice delle leggi tributarie, Torino, 588, che ricorda che la notificazione dell’avviso di liquidazione, dopo lo scadere del termine di sessanta giorni, comporta l’invalidità dell’atto e che l’avviso notificato fuori termine non può interpretarsi come avviso di liquidazione di imposta suppletiva, in quanto il notaio non ne risponde. (11) Cfr., in tema di avviso di accertamento, Cass., ord. 23 maggio 2018, n. 12759. Sui termini in materia tributaria cfr., in generale e da ultimo, F. Farri, Prescrizione e decadenza, (dir. trib.), in Diritto on line 2018, ove ampi riferimenti. (12) Cfr., in senso conforme, la Cassazione, ordinanza n. 12257 del 17 maggio 2017 da me annotata in Riv. Dir. Trib. Online, 2017, dove si sottolinea che l’ufficio può porre alla base della liquidazione notificata al notaio solo elementi desumibili dall’atto, e la sentenza della Cassazione 31 gennaio 2017, n. 2403. Si riscontra giurisprudenza di merito per la quale l’ufficio può emendare solo errori di carattere materiale, cfr. Comm. Trib. Prov. Terni, 27 luglio 2012, n. 124, in Riv. Not. 2012, 1340, con nota di Campione


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Per questo opposto orientamento della Cassazione il controllo dell’ufficio, in caso di autoliquidazione, è sia formale che sostanziale, con conseguente recupero della maggior imposta dovuta che non sarebbe né principale né complementare (13). Orientamento nei fatti seguito spesso dall’Amministrazione finanziaria consapevole che può chiedere il maggior tributo ad un soggetto normalmente solvibile. Si tratta di due orientamenti contrastanti non privi di rilevanza pratica. Il termine di sessanta giorni, se può sembrare breve, è in realtà sufficiente a esaminare l’atto in modo approfondito, con la possibilità per l’amministrazione di consultare le proprie circolari interpretative, compresi gli orientamenti degli uffici delle altre regioni, ignoti al pubblico ufficiale rogante, di procedere a valutazioni giuridiche anche complesse, volendo anche di rettificare i valori e negare agevolazioni a seguito di un controllo fattuale dei relativi requisiti. Può anche capitare che dopo la stipula dell’atto, e nel termine dei sessanta giorni, cambia ufficialmente o di fatto, l’orientamento dell’Agenzia, che tranquillamente procede a recapitare l’avviso di liquidazione citando la circolare emessa dopo la stipula (14). Senza che sia violato il principio di affidamento come consacrato nello Statuto, atteso che non vi è applicazione di sanzione. Due sono i dati testuali da porre in evidenza. Il primo è contenuto nello stesso art. 42 che definisce come principale non solo l’imposta applicata al

(13) Cfr. Cass. 30 maggio 2018, n. 13626, con mia nota, Imposta principale postuma e registrazione di atto istitutivo di trust, in Dir. Prat. Trib., 2019, n. 3, 1239 ss. La tesi si ritrova anche in Cass., sez. V, 18 maggio 2016, n. 10215. La Cassazione, già con una sentenza del 2003, Cass sez trib. 26 marzo 2003, n. 4427 in Vita not., 2003, 382, affermava che nessun decisivo argomento testuale o sistematico impone di limitare il potere dell’ufficio agli errori materiali o di calcolo ben potendo procedere ad una diversa interpretazione delle norme applicabili o ad una diversa qualificazione giuridica dell’atto. Per una critica cfr. anche B. Denora, Adempimento unico: il notaio paga l’imposta di registro a titolo di integrazione?, in Riv. dir. trib. Online, 6 marzo 2017. Sull’argomento cfr. M. Mastroiacovo - P. Puri, Adempimento unico – recupero di imposta principale dopo la registrazione, Studio CNN n. 67/2003/T; B. Denora, Adempimento unico – cd. esito di pagamento negativo, Conseguenze in tema di imposte e sanzioni, risposta a quesito n. 10-2009/T, CNN, in Studi e materiali, 2009, 860; M. Nastri, La liquidazione delle impose effettuate dal notaio nel regime dell’adempimento unico, in Notariato, 2012, 4, 463 ss., che sottolinea il riferimento normativo alla nozione di liquidazione e non di accertamento; V. Pappa Monteforte, L’autoliquidazione notarile nella registrazione telematica, in Rass. trib., 2014, 767 ss; V. Pappa Monteforte, Avviso di liquidazione di principale postuma e legittimazione a ricorrere, in Notariato, 2016, 81 ss. (14) In Sicilia, per es., alcuni anni fa è cambiata, di fatto, l’interpretazione di una agevolazione in materia di agricoltura (il cd. art. 60) e gli uffici hanno notificato avvisi di liquidazione relativamente a tutti gli atti per i quali non era trascorso il termine.


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momento della registrazione, ma anche quella richiesta dall’ufficio se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione della richiesta di registrazione per via telematica. In altri termini, è lo stesso legislatore a definire l’imposta richiesta in sede di autoliquidazione come imposta principale e a limitarla agli errori od omissioni. Il secondo dato testuale si rinviene nella stessa normativa della liquidazione telematica, dove si prevede che gli uffici controllano la regolarità dell’autoliquidazione e del versamento delle imposte sulla base degli elementi desumibili dall’atto. Espressione valorizzata anche dalla Circolare 5 febbraio 2003 n. 6/E (talvolta disattesa nella prassi), per la quale l’Agenzia non può fare riferimento a elementi esterni all’atto, neanche se già in suo possesso, e può censurare esclusivamente errori ed omissioni sulla base di elementi univoci e oggettivi, senza sconfinare in delicate valutazioni o apprezzamenti sulla reale portata degli atti. La valenza del significato letterale della norma, e la peculiarità sotto quest’aspetto della liquidazione notarile, potrebbe essere messa in crisi dal nuovo testo dell’art. 20, 1° comma, del d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131 (15). Il nuovo testo della norma, dal titolo “interpretazione degli atti”, utilizza ora la stessa espressione degli elementi desumibili dall’atto contenuta nella disciplina dell’autoliquidazione notarile. Le due norme contemplano, però, momenti diversi: la prima sull’autoliquidazione, riguarda l’imposta principale; la seconda, sull’interpretazione, concerne anche l’imposta complementare e suppletiva. Al di là degli aspetti letterali, è la ratio sottesa alla norma che dovrebbe condurre ad una lettura restrittiva in quanto il notaio, come vedremo tra breve, è responsabile per fatti espressivi di capacità contributiva altrui (16). Certamente, il termine di sessanta giorni dalla registrazione per la notificazione dell’avviso può spingere l’ufficio a andare oltre i classici limiti dell’imposta applicata in sede di registrazione, giocando anche sulla definizione generica dell’imposta complementare come imposta applicata in ogni altro caso. Ma dovrebbe essere riconosciuto che il termine di sessanta giorni è concesso all’ufficio solo per consentirgli di leggere e controllare tutti gli atti, non solo a campione, mentre dovrebbe valere la tradizionale interpretazione dell’imposta

(15) Come modificato dall’art. 13, lett. a) della Legge di stabilità per il 2018, (16) Il recupero riguarda l’errore grossolano per G. Baralis, Il doppio stato, in AA.VV., Diritto burocratico fiscale, Milano, 2019, 6. L’Autore evidenzia, in una breve ma efficace nota, le criticità della tesi qui contestata, richiamando anche gli articoli 24 e 97 della Costituzione.


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principale come imposta richiesta senza essere preceduta da una particolare attività istruttoria (17). 4. Sull’efficacia liberatoria del pagamento nelle mani del notaio. – La seconda decisione, la sentenza n. 15627 del giorno 11 giugno 2019 (18), afferma che anche nel caso in cui le parti abbiano corrisposto al notaio rogante le somme comprensive delle tasse di registrazione, i soggetti obbligati al pagamento dell’imposta restano le parti sostanziali dell’atto medesimo. Con la conseguenza che se il notaio ha omesso di provvedere al pagamento delle imposte a lui versate, le parti contraenti sono comunque tenute al relativo pagamento. La responsabilità d’imposta del notaio non incide sulla individuazione dei soggetti obbligati al pagamento nelle parti dell’atto ex art- 57, d.p.r. n. 131 del 1986. La sentenza appare coerente con quanto ricordato da altra giurisprudenza della Cassazione (19) per la quale il notaio pubblico ufficiale, ai sensi dell’art. 57, 1° e 2° comma, d.p.r. n. 131 del 1986, risponde solo dell’imposta principale (20): il notaio si configura ancora, per la Suprema Corte, come responsabile d’imposta, con un ruolo di garanzia assegnatogli ex lege per il rafforzamento

(17) In dottrina per V. Pappa Monteforte, Il sistema notarile di riscossione dei tributi, 36, la verifica dell’ufficio non può essere meramente numerica, ma non può neanche giungere ad una riqualificazione della fattispecie negoziale. Per G. Monteleone - E. Santangelo, L’imposta principale applicata dopo la registrazione, citati in V. Pappa Monteforte, Il sistema notarile di riscossione dei tributi, cit., 36, al notaio spetta il compito di individuare la fattispecie imponibile, le agevolazioni, le esenzioni, le qualificazioni giuridiche, l’oggetto del negozio, la base imponibile e l’aliquota, essendo il controllo dell’Agenzia meramente formale. Leggono la giurisprudenza nel senso che le parti contraenti, alle quali può essere richiesta l’imposta, non rispondono dell’omessa registrazione, e quindi delle sanzioni e interessi collegati S.M. Messina, Commento sub. art. 57, in Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di G. Marongiu, Padova, 2011, 955; M. Pierro, Commento sub art. 10, in Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di G. Marongiu, Padova, 2011, 749. (18) In Riv. dir. trib. Online, 18 settembre 2019. (19) In particolare la ordinanza n. 12257 del 17 maggio 2017, annotata da G. Salanitro, “Autoliquidazione” dell’imposta di registro e limiti della responsabilità fiscale del notaio, in Riv. dir. trib online, 2017 e la sentenza 31 gennaio 2017, n. 2403. (20) Talvolta si riscontra la definizione di imposta principale postuma: vd. P. Puri, Le imposte indirette sui trasferimenti, in A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 990. Sulla distinzione tra imposta principale, suppletiva e complementare, e per la qualificazione come principale dell’imposta richiesta in sede di adempimento unico cfr. S. Burrelli, Sub. art. 42, in AA.VV., Codice delle leggi tributarie, Torino, 2014, 222 ss., F. Montanari, Art. 42, in Commentario breve alle leggi tributarie, IV, a cura di G. Marongiu, Padova, 2011, 875 ss.


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della pretesa dell’amministrazione finanziaria e della sua satisfattività, fermo restando che il presupposto impositivo concerne unicamente le parti contraenti, in capo alle quali, e soltanto ad esse, l’ordinamento riconduce “un’espressione di capacità contributiva”. La sentenza appare peraltro conforme ad un paio di precedenti di Cassazione in relazione a imposte da pagare per trasferimenti volontari. Le decisioni affermano che il pagamento presso il notaio non libera la parte contraente, vero soggetto passivo. In particolare, nella sentenza n. 13653 del 12 giugno 2009, è testualmente affermato che “…il sistema delle norme vigenti non esclude una partecipazione attiva della parte nel pagamento dell’imposta all’amministrazione finanziaria, sia sotto il profilo della concreta effettuazione del pagamento ad opera della parte stipulante quanto sotto quello del controllo che il versamento effettuato nelle mani del notaio pervenga effettivamente all’amministrazione finanziaria per la sua destinazione al pagamento dell’imposta, necessario per la registrazione dell’atto. Nella generalità dei casi le parti affidano al notaio il pagamento dell’imposta e versano nelle sue mani la somma necessaria al pagamento per evidenti ragioni di praticità. Questo comportamento si basa sulla fiducia che il notaio riscuote, non solo in quanto espleta un incarico professionale adeguatamente remunerato, ma anche per la veste pubblicistica che la figura professionale notarile assume nel nostro ordinamento…”. La successiva ordinanza n. 5016, del 12 marzo 2015, ha confermato il principio per il quale “la notificazione dell’avviso di liquidazione per l’integrazione dell’imposta versata, notificato al notaio rogante che, in sede di rogito di compravendita immobiliare si sia avvalso della procedura di registrazione telematica, ai sensi del d.leg. n.463 del 1997, come modificato dal d.leg. n.9 del 2000, ed in tale veste abbia provveduto alla relativa autoliquidazione ed al corrispondente versamento vale, solo, a costituirlo quale responsabile d’imposta, tenuto all’integrazione del versamento, ex art.13 d.leg. n.472 del 1997, ma non incide sul principio, fissato dall’art.57 d.p.r. n.131 del 1986, per cui soggetti obbligati al pagamento dell’imposta restano le parti sostanziali dell’atto medesimo. Principio questo destinato a rimanere fermo anche nel caso in cui il notaio rogante abbia omesso di provvedere al versamento delle somme destinate al pagamento” (21).

(21) Si riscontra isolata giurisprudenza di merito per la quale il versamento effettuato dal contraente nelle mani del notaio della somma occorrente per il pagamento del tributo ha


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In senso contrario la prevalente dottrina. Nell’ambito della ricostruzione del notaio quale mandatario nell’interesse del fisco, si è ritenuto applicabile l’articolo 1188 del codice civile, con la conseguente liberazione del debitore che paghi nelle mani del pubblico ufficiale. La soluzione discenderebbe dalla designazione, ad opera della legge, del notaio quale soggetto indicato nell’interesse del fisco per il pagamento dell’imposta. Il mancato adempimento da parte del notaio non avrebbe quindi rilevanza, in quanto la liberazione del debitore avviene in ragione del pagamento al legittimato, id est il notaio (22). Conclude anche a favore dell’effetto liberatorio chi, sempre nell’ambito di una ricostruzione del notaio quale soggetto indicato per il pagamento, richiama la doverosità della funzione notarile, il raccordo che il pubblico ufficiale rogante assicura tra autonomia costituzionalmente garantita dei privati e apparato pubblico, e l’affidamento del privato che richiede di essere salvaguardato (23). Alla stessa soluzione giunge altra dottrina che richiama il principio del ne bis in idem derivante dall’art. 35 del d.P.R. n. 602/1973, che limita la solidarietà del sostituito al caso in cui il sostituto non abbia effettuato le ritenute né i relativi versamenti (24). Non prende una posizione espressa, chi, nell’ambito di una ricostruzione del notaio quale responsabile di imposta, sottolinea come la prassi applicativa dell’amministrazione finanziaria sia orientata in modo univoco per la possibilità di recupero dell’imposta presso il contraente, anche nel caso in cui

efficacia liberatoria per il contribuente: cfr. Comm. Trib. Prov. Campobasso 3 marzo 2011 n. 74, in Giur. Imp. 2011, 2001 ss; Comm. Tri. Reg. Friuli Venezia Giulia, 15 luglio 2019, n. 110/19, la quale osserva che, contrariamente a quanto avveniva in epoca precedente laddove anche il contribuente poteva provvedere autonomamente alla registrazione, il Notaio è l’unico soggetto legittimato ad eseguire il pagamento in via telematica. La sentenza, aderendo all’applicazione degli artt. 1188 c.c. e ss., ricorda anche l’art. 1189 c.c. in forza del quale chi ha pagato a chi appare legittimato a ricevere il pagamento in base a circostanze univoche è liberato se prova di essere stato in buona fede. (22) Cfr. P. Puri, Il mandato nell’interesse del fisco, Roma, 2013, 123 ss; Id., Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, Studio CNN, n. 855-2014/T. Riprende questa tesi G. Di Nardo, Il notaio e l’imposta di registro, responsabile d’imposta o esattore del fisco, in www.amtmail.it. (23) Cfr. V. Pappa Monteforte, Il sistema notarile di riscossione dei tributi, Canterano, 2016, 80 ss. (24) Cfr. G. Tabet, Spunti critici sulla figura del notaio nel sistema di registrazione telematica, in Rass. Trib., 2013, n. 1, 94 ss.


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questi dimostri di aver proceduto al versamento nelle mani del pubblico ufficiale (25). Sembra, però, preferibile, l’orientamento della sentenza in commento. In un sistema nel quale i modi di estinzione dell’obbligazione tributaria sono tipici in quanto tassativamente stabiliti dalla legge, appare già decisiva la circostanza che nessuna norma riconosce espressamente l’effetto liberatorio al pagamento presso il notaio (26). L’argomento dell’impossibilità di registrare l’atto non consente di escludere l’obbligo di pagare il tributo richiesto autoritativamente dall’ufficio (27), cui potrebbero essere tenute le parti contraenti in quanto nella possibilità di pagare quanto richiesto. Restano escluse, ovviamente, le sanzioni, che saranno applicate al solo notaio. Lascia, poi, perplessi l’applicazione delle norme sulla sostituzione, non potendosi configurare il notaio come un sostituto. E sembra difficile ammettere l’applicazione delle norme del codice civile, in un sistema tributario dove il notaio sembra più un garante della riscossione del tributo che un indicatario del pagamento. Il notaio infatti deve versare il tributo anche se il cliente, vero soggetto passivo, non gli ha fornito la relativa provvista. E così come, in quest’ultimo caso, il notaio deve agire nei confronti del cliente, così il cliente nei confronti del notaio che non ha versato il tributo all’Amministrazione, la quale appunto si pone in una posizione di particolare vantaggio, in quanto ente sovrano e impositore, garantito dal notaio e dal contribuente (anzi dai contribuenti, da tutte le parti dell’atto) (28).

(25) Cfr. S. Ghinassi, La posizione sostanziale e processuale del pubblico ufficiale in ordine alle imposte dovute sull’atto rogato, in Riv. Dir. Trib., 2016, n. 6, 731 ss, nt. 32. (26) Lo stesso obbligo di mantenere sul conto vincolato le somme relative ai tributi da pagare conduce a negare effetto liberatorio al versamento nelle mani del notaio. (27) Così A. Fedele, La solidarietà fra i più soggetti coinvolti nel prelievo, in La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive, vol. III, Milano, 1986, 520 ss, ivi 536, ove si ricorda che nel sistema allora vigente era discusso se le sanzioni per tardiva o omessa registrazione fossero applicabili alle parti contraenti; Id., Diritto tributario e diritto civile nella disciplina dei rapporti interni tra i soggetti passivi del tributo, in Riv. Dir. Fin.sc. fin., 1969, I, 21 ss. ivi, 53 ss., con importanti osservazioni sul riparto tra le parti, sulla surrogazione e sulla stessa esistenza di una obbligazione delle parti contraenti al momento in cui si versa l’imposta principale in sede di registrazione. (28) Resta poi il dubbio su come si possa provare con certezza che il cliente abbia pagato le imposte al notaio e, con altrettanta certezza, escludere accordi fraudolenti tra il notaio e le parti contraenti. Nella prassi, anche dopo l’introduzione del cd. conto deposito (art. 143, commi da 63 a 67, legge 27 dicembre 2013, n. 147), il pagamento comprende imposte e onorario, senza


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5. Pagamento al notaio delegato nell’ambito delle procedure esecutive. – La terza decisione della Cassazione che merita di essere ricordata è l’ordinanza n. 724 del 15 gennaio 2019 (29). Per questa decisione, che si pone in consapevole contrasto con la suesposta giurisprudenza, il notaio delegato, all’atto di ricevere le somme occorrenti per la registrazione del decreto di trasferimento, funge da adiectus solutionis causae, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 1188 c.c., il partecipante alla gara deve ritenersi liberato dalla relativa obbligazione nel momento stesso in cui le versa al professionista. Per valutare se, come sostiene la Cassazione, si tratta di due fattispecie differenti che conducono a due soluzioni diverse (il notaio che riceve l’atto e il notaio delegato) giova innanzitutto verificare il rapporto tra il notaio e il cancelliere. Secondo una lettura, di matrice notarile, il notaio non ha sostituito il cancelliere in quanto non è stato modificato l’art. 54 dpr n. 917/1986 (30). In altri termini, essendo il decreto di trasferimento, anche in presenza del notaio dele-

una formale distinzione (sul conto deposito cfr. G. Petrelli, Destinazioni patrimoniali e trust, Milano, 2019, 507 ss.). Qualora sia emessa la fattura, le imposte pagate per conto del cliente possono essere indicate come non imponibili ex art. 15; se però la fattura è redatta in modo cd. sintetico e non analitico, in un’unica somma sono indicati tutti i tributi, senza la precisazione dell’importo pagato per ciascuno di essi. La fattura, comunque, è un documento redatto ai fini dell’iva, senza alcun valore ai fini delle imposte sui trasferimenti. Richiamandoci alla figura della sostituzione, si potrebbe esplorare la possibilità di un’autocertificazione, accompagnata dalla fotocopia dell’assegno o dagli estremi del bonifico, resa dal contribuente. Strada suggerita proprio dall’amministrazione finanziaria per il caso di mancanza di certificazione del sostituto. Ma nella disciplina della sostituzione è espressamente prevista la certificazione, che può essere senz’altro sostituita dall’autocertificazione; nel caso invece delle imposte sui trasferimenti è prevista la certificazione del pagamento solo da parte della pubblica amministrazione. (29) Cfr. Cassazione, Sez. trib., Ord. 15 gennaio 2019, n. 724 con mia nota, L’effetto liberatorio del versamento delle imposte al notaio nell’attività negoziale e nelle procedure esecutive, in GT 2019, n. 6, 507 ss. L’ordinanza decide in senso opposto a quello dei giudici di primo e secondo grado di giudizio, che avevano anche escluso il litisconsorzio necessario nei confronti del notaio, in quanto l’imposta era dovuta dal contribuente. (30) Cfr. E. Fabiani, Espropriazione forzata delegata a notaio e registrazione del Decreto di trasferimento dell’immobile espropriato, Studio n. 5021 del Consiglio nazionale del notariato, in Studi e materiali, Milano, n. 1/2005, 3 ss. Nello stesso senso cfr. G. Petrelli, Profili fiscali delle attività delegate al notaio nel processo esecutivo, in Notariato, n. 2/1999, 166 ss. In un successivo studio si sottolinea come il legislatore non sia intervenuto, nella riforma del 2005, sui profili fiscale delle attività delegate: v. E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare. Novità introdotte dalla riforma del 2005 e ricostruzione sistematica del nuovo istituto, Studio n. 24-2006/E, in Studi e materiali, Milano, n. 1/2007, 534 ss.


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gato, firmato dal giudice, e quindi non ricevuto né autenticato dal pubblico ufficiale, non vi è una norma dalla quale discenda la responsabilità del notaio (se non quella limitata alla esecuzione della formalità, in base all’art. 580 c.p.c.). L’obbligo di pagare il tributo resterebbe quindi in capo al cancelliere, in base all’art. 54, sul punto non modificato; in assenza di un’espressa previsione normativa, appare difficile prevedere, secondo questa opinione, che l’obbligo di pagamento dell’imposta faccia carico ad un soggetto diverso da quello previsto dalla legge, fermo restando che, sul piano pratico, il notaio può provvedere al pagamento delle imposte, avendo la disponibilità del relativo importo. Se si accoglie questa prospettiva, appare arduo ammettere che il versamento dell’imposta nelle mani del notaio abbia effetto liberatorio: si avrebbe infatti la paradossale conseguenza che del tributo non risponderebbe né l’acquirente che ha versato le somme al notaio, né il notaio, che non risponde ex art. 54, ma il solo cancelliere, che non ha ricevuto il denaro. Se, invece, si ritiene che i notai hanno sostituito i cancellieri anche ai fini dell’obbligo di pagamento, e che quindi al posto della parola “cancelliere” bisogna leggere la parola “notaio”, occorre verificare i termini della responsabilità dei cancellieri, ai quali implicitamente sono stati assimilati. In altre parole, andrebbe verificato se i cancellieri sono responsabili di imposta, come classicamente sono considerati i notai, oppure sono obbligati al pagamento solo se e nei limiti di quanto hanno ricevuto (31).

(31) Cfr. S. Formichetti, Sub art. 54, in AA.VV., Codice delle leggi tributarie, UTET, 2014, 302, dove si precisa che il soggetto passivo dell’imposta è l’espropriato mentre richiesta di registrazione e pagamento di quanto dovuto sono affidati al cancelliere. La ratio della norma è ravvisata nella possibilità, per il cancelliere, di disporre di quanto necessario per il pagamento, sia in ragione del fondo che deve essere precostituito dall’aggiudicatario sia per la possibilità di prelevare le somme dalla vendita. Sottolinea lo stretto collegamento tra l’art. 57 e l’art. 10, lett. b), S. Ghinassi, Imposte di registro e di successione, Milano, 1996, 74. In senso contrario G. Mesiano, Sub art. 57, in N. D’amati, La nuova disciplina dell’imposta di registro, Torino, 1989, 358, che ricomprende tra i soggetti obbligati solidalmente al pagamento i cancellieri, limitatamente ai decreti di trasferimento. Qualificano i cancellieri come responsabili di imposta D. Coppa, Gli obblighi fiscali dei terzi, Padova, 1990, 50, nt. 44; A. Parlato, Il responsabile di imposta, Milano, 1963, 99 ss. (con riferimento ai vecchi testi legislativi). Afferma la piena responsabilità solidale del cancelliere Comm. centr., Sez. XXV, 20 settembre 2001, n. 6218, in il fisco, n. 40/2001, 3113, pur concludendo nel senso che l’Amministrazione può valutare l’opportunità di assumere ogni altra azione per soddisfare diversamente il proprio credito; in tal senso anche una sentenza della Cassazione, pur risalente nel tempo, per la quale non può escludersi il cancelliere tra i soggetti obbligati al pagamento: cfr. Cass., Sez. I, 23 agosto 1990, n. 8581. Per la sentenza il cancelliere è tra quelli obbligati a richiedere la registrazione e a pagare l’imposta: in virtù di tali norme rientra tra i soggetti obbligati al pagamento ex art. 55


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Proprio il fatto che non sono contemplati dall’art. 57, titolato “soggetti obbligati al pagamento”, ma dall’art. 54, potrebbe indurre a concludere per una risposta negativa, e si potrebbe sostenere che il cancelliere è tenuto a pagare se e nei limiti in cui ha ricevuto la provvista, a differenza del notaio ex art. 57 che è tenuto a pagare anche se non ha ricevuto quanto necessario per adempiere al tributo. Va, però, riconosciuto che l’opinione prevalente sembra essere nel senso della responsabilità del cancelliere anche in mancanza del versamento della relativa provvista. Accertati i limiti della loro responsabilità, si può procedere a verificare se il versamento delle spese è liberatorio. Anche qui occorre volgere lo sguardo all’art. 54 che precisa che l’imposta deve essere pagata all’atto della richiesta di registrazione. Nel momento in cui l’aggiudicatario versa i soldi al cancelliere non si è all’atto della registrazione. Il delegato è un fiduciario del g.e., è legato da un rapporto di servizio con l’Amministrazione statale, ma non è delegato dall’Agenzia delle entrate. In conclusione, se il cancelliere è responsabile come il notaio, non si vede quale sia la differenza tra le due fattispecie, quella del notaio che riceve l’atto e quella del notaio delegato. In entrambi i casi si prevede l’obbligo del pagamento per garantire la posizione del Fisco. 6. Soluzione esposta e conformità all’art. 53 della Costituzione. – La tesi fin qui esposta, sulla permanenza della responsabilità in capo alle parti, appare conforme alla disciplina tributaria e alla sua lettura tradizionale. È utile ricordare che le tesi per le quali si è sostenuto che il pagamento al notaio libera le parti è stato sviluppato solo di recente, a seguito di alcuni episodi di notai che non hanno versato le imposte riscosse. Vicende incresciose che forse prima non si verificavano, o forse e meglio, prima non venivano scoperte ma che le nuove tecnologie hanno messo facilmente in luce attraverso semplici controlli incrociati. Negare l’effetto liberatorio del pagamento al notaio e riconoscere la possibilità che le parti debbano pagare due volte, a causa di infruttuosa azione di rivalsa contro il pubblico ufficiale, induce a delle perplessità in ordine alla conformità all’art. 53 della Costituzione.

D.P.R. n. 643/1972, oggi art. 57.


Dottrina

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Le parti dell’atto infatti sono obbligati a rivolgersi al pubblico ufficiale e non hanno modo di accertarsi dell’avvenuto pagamento dell’imposta. La semplice ricevuta che il notaio può fornire è un semplice foglio stampato, privo di sottoscrizioni e facilmente falsificabile. Nel nostro ordinamento l’art. 53 della Costituzione recita che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. La norma è al momento al centro di un sentito e approfondito dibattito teorico sotto il profilo oggettivo (32).

(32) Si contrappongono, infatti, almeno due letture: una, che potremmo definire “garantista”, per la quale dal teorema della capacità contributiva deriva il principio di effettività ed attualità degli indici di ricchezza di volta in volta selezionati dal legislatore ed eretti a presupposto oggettivo e soggettivo di ciascun tributo, con il connesso limite della confiscatorietà del tributo. Cfr. G. Falsitta, L’imposta confiscatoria, in Riv. dir. trib., 2008, I, 89 ss.; M. Poggioli, Indicatori di forza economica e prelievo confiscatorio, Padova, 2012. In quest’ultima monografia, in realtà, ravvisando nel reddito l’unico legittimo indice di capacità contributiva, non sono adeguatamente considerati i tributi il cui collegamento con il reddito è inesistente come le imposte sui trasferimenti (come osserva in senso critico G. Fransoni, Stato di diritto, diritti sociali, libertà economia e principio di capacità contributiva (anche alla luce del vincolo del pareggio di bilancio), in Riv. dir. trib., 2013, I, 1049 ss, nota 63). Per i fondamenti della lettura garantista cfr. E. De Mita, Capacità contributiva, in Dig., disc. Priv., sez. comm., vol. II, Torino, 1987, 454 ss. Un’altra e opposta lettura, definita dai detrattori nichilista ed abrogante, partendo dall’assimilazione dell’art. 53 all’art.3 (relativo all’uguaglianza), assume che l’imposizione non ha limiti massimi, può tassare entità, misurabili in denaro, non omologabili né al reddito né al patrimonio, ed è comunque ispirata alla prevalenza dell’interesse del fisco rispetto ai diritti del contribuente, a tutela della “ragion fiscale” Cfr. F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, Napoli, 2012; A. Fedele, Ancora sulla nozione di capacità contributiva nella Costituzione italiana e sui limiti costituzionali all’imposizione, in Riv. dir. trib., 2013, n. 11, I, 1035 ss.; A. Giovannini, Capacità contributiva, in Diritto on line Treccani, 2013. Nel senso che il limite della confiscatorietà va ravvisato solo nella assoluta arbitrarietà e irrazionalità dell’imposizione fiscale cfr. L. Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti Costituzionali, Milano, 1996, 290 ss. Sulla capacità contributiva e nuove fiscalità cfr., anche, F. Batistoni Ferrara, Capacità contributiva, in Enc. Dir., agg., Vol. III, Milano, 1999, 356 ss; P. Boria, Sub. Art. 53, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco e altri, Torino, 2006, vol. I, 1072 ss. In mezzo, sembra stare una teoria intermedia per la quale rileva il tradizionale criterio della ragionevolezza, per il quale le diverse tassazioni di soggetti e presupposti devono trovare sempre la loro giustificazione, non potendosi limitare solo a una questione di percentuale. Cfr. G. Fransoni, Stato di diritto, diritti sociali, libertà economia e principio di capacità contributiva (anche alla luce del vincolo del pareggio di bilancio), in Riv. dir. trib., 2013, I, 1049 ss. In una posizione intermedia si pone anche, esplicitamente, A. Perrone, Tax competition e giustizia sociale nell’Unione Europea, Milano, 2019, 362 ss. Per l’Autore bisogna distinguere tra capacità-legittimazione e capacità- elemento, dissociando la legittimazione alla tassazione


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Più trascurato negli ultimi tempi l’aspetto soggettivo. L’art. 53 implica che la ricchezza tassata sia ascrivibile, imputabile, al soggetto passivo del tributo, designato dalla legge. Come riportato in un diffuso manuale “E’ questa ascrivibilità – se c’è- a trasformare l’indice di ricchezza – che nella sua nuda e cruda oggettività è fatto neutrale – in indice di idoneità soggettiva alla contribuzione del singolo soggetto elevato dalla legge al rango di contribuente (33). E nella giurisprudenza della Corte Costituzionale è tuttora “Punto fermissimo della detta giurisprudenza è anzitutto che per capacità contributiva deve intendersi la idoneità soggettiva all’obbligazione tributaria desumibile dal presupposto d’imposta, e che il collegamento come istituito dal legislatore fra il presupposto e i soggetti dell’obbligazione non è sindacabile, in riferimento al parametro ora invocato, se non sotto il profilo dell’arbitrarietà e irrazionalità” (34). La questione è stata tradizionalmente affrontata con riguardo al notaio responsabile di imposta, ma non al contribuente che rischia di pagare due volte. A giustificare la responsabilità del notaio si è richiamata l’esigenza di rafforzare la pretesa dell’agenzia delle entrate (35). La stessa giustificazione si potrebbe applicare con riguardo al rischio che corre il contribuente, ma è evidente che si tratta di un puro esercizio teorico, che vale fino a quando all’autore della teoria non capita personalmente… di dover pagare due volte. Siamo anche al di fuori del tema del ne bis in idem, inteso come divieto di doppia imposizione, dato che dal punto di vista formale l’imposta allo Stato è pagata una volta sola (36). È a questo punto che entra in gioco la disciplina del fondo di garanzia che, come vedremo, da un lato conferma la tesi qui esposta, dall’altro riduce al “minimo indispensabile” la violazione dell’art. 53 della Costituzione.

dal presupposto della stessa. Seguendo questa distinzione, rileva individuare su quali soggetti un’Istituzione può applicare il tributo, indipendentemente da quali siano gli elementi della tassazione. (33) Cfr. G. Falsitta, Corso istituzionale di diritto tributario, Milano, 2019, 83 (34) Cfr. Corte Costituzionale, 25 luglio 1984, n. 226. (35) Cfr., per tutti, P. Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 174 ss., ove ampi riferimenti bibliografici sulle dottrine più risalenti nel tempo. (36) Si sottolinea anche una possibile violazione dell’art. 3 della Costituzione. Si verificherebbe, secondo questa tesi, una evidente disparità tra il notaio, che ha il potere di rivalersi nei confronti del contribuente avvalendosi dell’art. 58 del d.p.r. n. 131/86, e il contribuente che invece non dispone di alcuna disciplina specifica per recuperare quanto versato al pubblico ufficiale.


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7. Il fondo di garanzia. – A dissipare i dubbi di incostituzionalità della disciplina come tradizionalmente ricostruita, e qui riproposta, entra in gioco la disciplina, introdotta nel 2006, del fondo di garanzia (37). La disciplina è contenuta negli articoli 21 e 22 della legge sull’ordinamento del notariato, legge 16 febbraio 1913 n. 89. Per questa norma, con fondi a carico di tutti i notai (e quindi a spese esclusivamente del notariato), è istituito un Fondo di garanzia per il ristoro dei danni derivanti da reato commesso dal notaio nell’esercizio della sua attività professionale, non coperti da polizze assicurative. L’erogazione dell’indennizzo a favore dei soggetti danneggiati è, comunque, subordinata: a) al passaggio in giudicato della sentenza che accerta la responsabilità del notaio o della sentenza di cui all’articolo 444 del codice di procedura penale; b) alla surrogazione del Consiglio Nazionale del Notariato nel credito vantato nei confronti del notaio responsabile del danno, nei limiti dell’importo del contributo erogato, ai sensi dell’articolo 1201 del codice civile. Con una successiva modifica, è stato previsto che in caso di mancato versamento da parte del notaio dei tributi riscossi in relazione agli atti da lui rogati o autenticati, se il danno non è coperto da polizza assicurativa, l’agente della riscossione può richiederne il pagamento direttamente al Fondo. L’erogazione è subordinata: a) all’esercizio dell’azione penale nei confronti del notaio ed alla pronuncia del suo rinvio a giudizio; b) all’emissione, per il pagamento dei tributi di cui al primo periodo, di un atto esecutivo dell’Agenzia delle entrate, non sospeso dall’autorità giudiziaria o dall’Amministrazione finanziaria, nei confronti del notaio. Il Fondo, quando provvede al pagamento dei tributi di cui al comma 3-bis, è legalmente surrogato nei confronti del notaio in tutte le ragioni, azioni e privilegi spettanti all’Amministrazione finanziaria. Il Fondo può, esibendo il documento attestante la somma pagata, richiedere all’autorità giudiziaria l’ingiunzione di pagamento. L’ingiunzione è provvisoriamente esecutiva a norma dell’articolo 642 del codice di procedura civile. Non è ammissibile l’opposizione fondata sul motivo che le imposte pagate non erano dovute o erano dovute in misura minore. Se è accertato con decisione passata in giudicato che il notaio non ha commesso il fatto ovvero che il fatto non

(37) Per un primo commento cfr. M. Ceolin, Commento al d. legisl. 5 maggio 2006 n. 182: norme in materia per l’assicurazione per la responsabilità derivante dall’esercizio dell’attività notarile ed istituzione di un fondo di garanzia, in Studium iuris, v n. 11, (2006), 1231


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costituisce reato, l’Agenzia delle entrate rimborsa senza indugio le somme pagate al Fondo o, se il Fondo ha recuperato le somme dal notaio, al notaio medesimo. In ogni caso, il danno patrimoniale deve risultare da sentenza passata in giudicato ovvero può essere dimostrato con prova scritta da valutare con le procedure definite dal Consiglio Nazionale del Notariato con il regolamento di cui all’articolo 21 (38). La disciplina del fondo non appare particolarmente approfondita neanche dalla dottrina notarile e neppure sui profili extrafiscali (39). È sfuggita forse proprio la sua incidenza sulla ricostruzione complessiva della posizione del notaio e delle parti nell’ambito dell’imposta di registro. Può certo lasciare perplessi che la disposizione sia recente in presenza di una disciplina di base antica, ma nel frattempo è intervenuta la disciplina dell’autoliquidazione e una serie di episodi di mancato versamento dell’imposta di registro. Episodi che forse si verificavano anche prima ma che i sistemi informatici di controllo consentono oggi di accertare con maggiore facilità. La disciplina del fondo rileva innanzitutto perché il contribuente, a determinate condizioni, può recuperare le somme versate al notaio. Non sembra che si debba dimostrare l’incapienza del notaio, come confermato dall’art. 11 del regolamento; basta la sentenza di condanna (40). La possibilità di recuperare il tributo conferma indirettamente la possibilità per l’agenzia di agire nei confronti del contribuente. Si potrebbe obiettare che la disciplina, per come modificata nel 2016, consente all’agenzia di agire direttamente sul fondo. Ma la norma consente l’azione solo se sia stato notificato al notaio apposito avviso. L’unico avviso che

(38) Il regolamento è stato approvato in data 9 maggio 2013. Non è questa la sede per approfondire la natura giuridica di un regolamento previsto dalla legge e approvato dal consiglio nazionale del notariato. Sulle nuove dinamiche delle fonti del diritto cfr. V. Gunnella - M. Palazzo, Le Regole tecniche elaborate dagli organismi di autoregolamentazione nella rete delle fonti del diritto, Studio 1_2018 B, del Consiglio Nazionale del Notariato. (39) Si riscontra un approfondimento solo sulla deducibilità fiscale dei relativi versamenti: cfr. N. Forte, Studio n. 151/2012 CNN; P. Boero - M. Ieva, La legge notarile, Milano, 2014, 130 ss. (40) Appare pacifica la responsabilità penale del notaio che si appropria delle imposte versategli dalle parti. Normalmente il reato viene configurato come peculato. Cfr. P. Pisa, La responsabilità penale del notaio nella recente giurisprudenza, in Responsabilità del notaio tra disciplina vigente e prassi sanzionatoria, Quaderno fondazione del notariato n. 1/2015.


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oggi può essere notificato al notaio è quello di liquidazione in rettifica entro 60 giorni dalla registrazione. L’omesso versamento dell’imposta, normalmente, viene evidenziata parecchio tempo dopo. Anche nel caso in cui l’agenzia ha azione nei confronti del notaio, e quindi, del fondo di garanzia, resta la possibilità di agire nei confronti delle parti, nel silenzio di un legislatore ben consapevole delle relative problematiche e che quindi avrebbe potuto decidere diversamente. Da sottolinearsi infine, che la disciplina si applica solo ai notai e non è quindi estensibile ad altre figure professionali che siano responsabili di imposta, come per es. i delegati (diversi dai notai) alle procedure esecutive. 8. Ultime considerazioni sulla figura del notaio nel sistema tributario. – Resta da capire come queste evoluzioni normative e giurisprudenziali abbiano influito sulla ricostruzione giuridica della figura del notaio (41). Negare l’effetto liberatorio del versamento al notaio e interpretare in modo rigoroso i termini e i limiti dell’avviso di liquidazione a lui notificabile non significa trascurare le novità della disciplina.

(41) Altri due profili incidono sulla figura del notaio: il pagamento dell’imposta sostitutiva sulle plusvalenze e della tobin tax. Nel primo caso l’articolo 1, comma 496 della legge 23 dicembre 2005, n. 266 dispone che “In caso di cessioni a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, e di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione, all’atto della cessione e su richiesta della parte venditrice resa al notaio, in deroga alla disciplina di cui all’art. 67, comma 1, lettera b), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, sulle plusvalenze realizzate si applica un’imposta, sostitutiva dell’imposta sul reddito, del 20 per cento (ora 26 per cento). A seguito della richiesta il notaio provvede anche all’applicazione e al versamento dell’imposta sostitutiva della plusvalenza di cui al precedente periodo ricevendo la provvista dal cedente. Il notaio comunica altresì all’agenzia delle entrate i dati relativi alle cessioni di cui al primo periodo, secondo le modalità stabilite con provvedimento del Direttore della predetta Agenzia”. Per la dottrina che si è occupata dell’argomento siamo fuori dall’ipotesi di responsabile d’imposta perché il notaio non è soggetto passivo per l’imposta sulla plusvalenza, ma – nei limiti e nei modi di legge – titolare di una serie di obblighi strumentali all’applicazione ed all’adempimento dell’obbligazione tributaria: così Commissione studi CNN, Legge finanziaria 2006 – Imposta sostitutiva sulle plusvalenze, Studio n. 3/2006/T, in Studi e materiali, 2006, I, 519 ss; V. Pappa Monteforte, Il sistema notarile di riscossione dei tributi, cit., 64. Il ruolo del notaio sarebbe allora inquadrabile nell’ambito della delegazione di pagamento che deriva automaticamente per effetto della legge dalla richiesta di avvalersi dell’imposta sostitutiva. Dalla natura di delegazione di pagamento, discenderebbe che il notaio non sarebbe obbligato verso il fisco, neanche se ha ricevuto la provvista.


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L’autonoma notifica al notaio dell’avviso di liquidazione (peraltro entro un termine piuttosto lungo di sessanta giorni, che di fatto consente contestazioni quali quelle oggetto delle controversie prima esaminate), l’irrogazione della sanzione al solo pubblico ufficiale per il tardivo pagamento dell’imposta liquidata dall’ufficio, e la possibilità di compensare le somme versate in eccesso con le imposte dovute per atti di data posteriore, confermano la convinzione che il notaio si discosta oggi dalla tradizionale figura del responsabile di imposta, non essendo elementi meramente procedurali (42). Si tratta però di peculiarità che mantengono la loro efficacia e valenza nei limiti della loro stessa previsione, senza consentire all’interprete di andare oltre (43). In altri termini, il notaio si configura come un soggetto sui generis

Tale soluzione lascia perplessi in quanto la logica della norma sembra essere che, una volta inserita in atto l’opzione, il notaio è tenuto a versare l’imposta, anche se non ha ricevuto la relativa provvista; così peraltro avviene nella normalità delle ipotesi di imposta sostitutiva. Diversamente, non potendo il contribuente versare in proprio, verrebbe meno l’effetto dell’opzione. Piuttosto, come sottolinea la citata dottrina, manca tra i due soggetti qualsivoglia tipo di rapporto obbligatorio rispetto al quale il notaio stesso possa trattenere l’imposta da versare al fisco, rapporto che si considera insito nella figura del responsabile e del sostituto e delle imposte sostitutive in genere. Nel senso che il notaio, ricevuta la provvista e l’opzione, è responsabile nei riguardi del Fisco per il pagamento delle imposte, pur ravvisando un mandatario ex lege nell’interesse del fisco, L. Bellini, Finanziaria 2006. Imposta sostitutiva sulle plusvalenze da cessioni immobiliari, Studio n. 60-2006/T. In senso critico verso una ricostruzione di mera delegazione di pagamento anche P. Puri, Il mandato nell’interesse del fisco, cit., 115 ss. L’Autore sottolinea come il contribuente continui ad essere responsabile verso il fisco fino all’avvenuto pagamento da parte del notaio e che la mancata provvista non sembra escludere un obbligo del notaio al pagamento con diritto alla rivalsa sul cedente. Nel secondo caso, (sul quale vd. G. Corasaniti, Il ruolo del notaio nell’applicazione della tobin tax (art. 1, commi 491 - 500, l. 24 dicembre 2012, n. 228, Studio CNN n. 218 – 2013/T) la stessa norma dell’art. 19 del D.M. 21 febbraio 2013 statuisce che sono responsabili i notai che intervengono nella formazione o nell’autentica degli atti. Si tratta di una esplicita definizione di responsabile, con espresso richiamo all’art. 64, terzo comma dpr n. 600 del 1973, di cui occorre comunque tener conto. Ibrida, in questa ipotesi, definisce la posizione del notaio V. Pappa Monteforte, Il sistema notarile di riscossione dei tributi, cit., 65, nt. 4. (42) Sembra restare nell’ambito del responsabile di imposta la posizione dell’agente di affari in mediazione per le scritture private non autenticate di natura negoziale stipulate a seguito della loro attività per la conclusione degli affari (artt. 10, lett. d-bis e 57 del d.p.r. n. 131/1986) e degli iscritti all’albo dei dottori commercialisti, dei ragionieri e dei periti commerciali per le cessioni di quota (art. 16, comma 10-bis, d.l. 29 novembre 2008 n. 185, conv. dalla l. 28 gennaio 2009, n 2 (cfr. Circ. n. 10/IR del 15 giugno 2009 del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli esperti contabili). (43) Per es., tra l’altro, al notaio non può applicarsi la sanzione da euro 500 a euro


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dove la responsabilità per debito altrui è ulteriormente rafforzata (44), ma non si trasforma in una responsabilità per un debito proprio (45). Trasformazione peraltro che non potrebbe realizzarsi in modo compiuto per non violare l’art. 53 della Costituzione, non essendo il notaio titolare della forza economica espressa dall’atto (46).

Guido Salanitro

10000 prevista dal comma 22.1 dell’art. 35 del decreto legge n. 223/2006 per il caso di omessa, incompleta o mendace indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo. Si tratta di dichiarazione ricevuta dal pubblico ufficiale, della quale può rispondere solo il dichiarante. (44) Sulla funzione di rafforzamento del credito erariale cfr., da ultimo, F. Randazzo, Le rivalse tributarie, Milano, 2012, 31 ss. (45) Si legge che il notaio è obbligato per fatto proprio, connesso all’ufficio che esercita, e che tale caratteristica lo allontana, anche nella disciplina tradizionale, dalla figura del responsabile d’imposta: cfr. V. Pappa Monteforte, Il sistema notarile di riscossione dei tributi, cit. 66. Ma il fatto altrui è il fatto espressivo di capacità contributiva, non l’evento (la stipulazione dell’atto quale pubblico ufficiale) che di per sé fa sorgere la responsabilità. (46) Ed infatti nel citato studio del 2004 (G. Salanitro, L’autoliquidazione, cit., in Riv. dir. trib., 2004, I, 260 ss.) si paventavano possibili rischi di incostituzionalità.



Cooperative compliance e tutela penale dell’interesse fiscale Sommario: 1. L’adempimento collaborativo: breve inquadramento normativo

dell’istituto. – 2. Le conseguenze sanzionatorie e impositive della cooperative compliance: ricostruzione del quadro normativo di riferimento. – 3. L’accertamento dell’evasione fiscale, fra doppio binario e titolarità della potestà impositiva. – 4. Quantificazione e qualificazione dell’evasione potenzialmente rilevante sul piano penale. – 5. L’elemento soggettivo dell’illecito fiscale e l’autonomia dell’autorità giudiziaria penale. L’adempimento collaborativo è stato introdotto nel nostro ordinamento in occasione della riforma del sistema punitivo tributario del 2015. Nessuna specifica previsione è però dedicata alle conseguenze che, sul piano penale, derivano dall’adesione a tale regime, che devono quindi essere desunte dall’interprete. A tal fine occorre riferirsi agli effetti che, ex lege, tale adesione determina in punto sanzioni amministrative e pretesa impositiva, oltreché ai principi generali dell’ordinamento tributario e di quello punitivo, e, non ultimo, alla autonoma funzione che necessariamente deve essere attribuita, nella tutela dell’interesse fiscale, alla sanzione penale. Cooperative compliance was introduced into our legal system on occasion of the reform of the criminal tax penalties of 2015. However, no specific provision is dedicated to the consequences that, in criminal terms, derive from joining this regime; it’s therefore up to the interpreter to infer them. To this end, it is necessary to refer to the effects that, pursuant to law, such accession determines on administrative penalties and tax claims, as well as to the general principles of the tax and criminal systems, and, last but not least, to the autonomous function that necessarily has to be attributed, in the protection of the tax interest, to the criminal sanction.

1. L’adempimento collaborativo: breve inquadramento normativo dell’istituto. – La legge delega 11 marzo 2014, n. 23, recante disposizioni per un sistema fiscale «più equo, trasparente e orientato alla crescita», demandava al legislatore delegato la previsione, «per i soggetti di maggiori dimensioni», di «sistemi aziendali strutturati di gestione e di controllo del rischio fiscale» (c.d.


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tax control framework), con individuazione specifica di responsabili all’uopo preposti nell’ambito del sistema dei controlli interni, nonché l’organizzazione di «adeguate strutture dell’amministrazione finanziaria dedicate» all’attività di comunicazione e cooperazione rafforzata – anche – con i suddetti soggetti (1). Al fine di incentivare i contribuenti potenziali destinatari delle suindicate disposizioni, l’esecutivo era altresì delegato a prevedere, quale contropartita dell’adozione di simili sistemi di gestione e controllo del rischio fiscale: un alleggerimento degli obblighi formali (2); una riduzione delle sanzioni eventualmente applicabili, tenuto conto sia della coeva riforma del sistema penaltributario – orientata, come noto, a riservare ai comportamenti fraudolenti, decettivi o comunque menzogneri la risposta penale dell’ordinamento – sia dei criteri di limitazione e di esclusione della responsabilità degli enti di cui al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, sulla quale si tornerà nella parte finale del presente contributo; infine, l’accesso a forme specifiche di interpello preventivo «con procedura abbreviata». È in attuazione di tale delega che è stato adottato il d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, recante disposizioni volte a promuovere e garantire «la certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente». L’art. 3 di tale fonte, in particolare, ha introdotto il regime di adempimento collaborativo, avente finalità sia deflattive del contenzioso tributario, in quanto volto a prevenire e risolvere possibili controversie di natura fiscale, sia di promozione di forme di comunicazione e cooperazione rafforzata tra Fisco e contribuente, fondate sul «reciproco affidamento» (3). L’accesso a tale regime è riservato ai contribuenti che si siano dotati di un sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del «rischio fiscale».

(1) La previsione è contenuta al comma 1 dell’art. 6 della succitata legge delega. La stessa disposizione si apre in effetti delegando l’esecutivo all’adozione di norme che prevedano forme di comunicazione e di cooperazione rafforzata tra l’amministrazione finanziaria e le «imprese» genericamente intese. (2) Il comma 2 del già citato art. 6 si riferisce in effetti a «incentivi sotto forma di minori adempimenti» genericamente intesi, ma si ritiene che il rimando non possa che essere ad adempimenti di natura formale, dovendosi escludere, in effetti, la possibilità di riduzioni o altre forme di limitazione del carico fiscale sostanzialmente inteso, imposto alle imprese che aderiscano ai regimi di nuova istituzione. (3) Sul Progetto pilota cui ha dato impulso l’Agenzia delle entrate, che ha preceduto l’introduzione del regime di cooperative compliance qui descritto, v. B. Ferroni, Cooperative compliance: finalmente ai blocchi di partenza il regime di adempimento collaborativo, in Fisco, 2016, I-2015 ss.


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La relativa nozione appare particolarmente interessante, oltreché rilevante ai fini della comprensione e dell’applicazione della stessa disposizione che la introduce. Il legislatore si premura peraltro di definirla, individuando il rischio fiscale quale «rischio di operare in violazione di norme di natura tributaria ovvero in contrasto con i principi o con le finalità dell’ordinamento» del quale fanno parte (4). Parrebbero dunque rientrare nella nozione di rischio fiscale accolta dal legislatore sia le condotte potenzialmente integranti ipotesi di vera e propria evasione fiscale, che si sostanzia come noto nell’aperta violazione della norma tributaria, sia i comportamenti elusivi o abusivi, nella misura in cui, in conformità a quanto previsto dall’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, sono diretti al conseguimento di benefici «realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario» (5). «In fase di prima applicazione» (6) unicamente i contribuenti di rilevanti dimensioni, tali in considerazione dell’entità del volume d’affari o dei ricavi, possono optare per l’adempimento collaborativo (7). La limitazione della platea dei possibili destinatari della disposizione del 2015, occorre dire, non può non destare qualche perplessità, dal momento che, alla luce degli inne-

(4) Rischio che – come correttamente sottolineato da D. Conte, Dal controllo fiscale sul dichiarato al confronto preventivo sull’imponibile. Dall’accertamento tributario alla compliance, Padova, 2017, 50 – è «collegato all’incertezza sull’interpretazione e sull’applicazione delle norme tributarie alle questioni fiscali controverse». Il riferimento al concetto di rischio ben si comprende ove si consideri che le violazioni cui fa riferimento la norma sono potenzialmente foriere di conseguenze negative sul piano economico – patrimoniale, nonché – in particolare trattandosi di grandissimi contribuenti – su quello reputazionale; assai chiara sul punto la Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo recante disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra Fisco e contribuente, reperibile in www.documenti. camera.it, 19. (5) Nello stesso senso la Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo, cit., 19, nella quale espressamente si afferma che «ovviamente ricadono a pieno titolo nei rischi fiscali tutte le operazioni che potrebbe configurare abuso del diritto/elusione»; sul punto v. anche le osservazioni di B. Ferroni, op. cit., ibidem. (6) Così l’art. 7, comma 4, d.lgs. n. 128/15. (7) Per amore di completezza occorre aggiungere che l’accesso al regime è garantito altresì ai soggetti che si adeguino alla risposta all’interpello sui nuovi investimenti, proposto ex art. 2, d.lgs. 14 settembre 2015, n. 147, senza distinzioni fondate sull’entità del fatturato o dei componenti positivi dichiarati (v. G. Vanz, Investitori esteri e interpello sui nuovi investimenti, in Rass. Trib., 4, 2017, 947 ss.); non si può non osservare, tuttavia, che, in considerazione in particolare dell’entità degli investimenti previsti dal citato comma 2 dell’art. 1, si tratterà verosimilmente di soggetti che rientrano nella categoria grandi contribuenti, o che, comunque, alle dimensioni di questi ultimi si approssimano in maniera significativa.


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gabili vantaggi che derivano dall’adesione a tale regime, la stessa determina una oggettiva penalizzazione delle imprese di dimensioni più contenute, che peraltro sono, nel tessuto produttivo italiano, la maggioranza assoluta (8). La stessa rilevante limitazione induce poi ad adottare particolari cautele allorché si tratti di verificare le conseguenze dell’adesione al regime volontario, come meglio si cercherà di illustrare. I benefici derivanti dall’accesso alla cooperative compliance sono di varia natura, e spaziano dalla pubblicazione del nome del contribuente aderente sul sito istituzionale dell’Agenzia delle Entrate, prevista dal comma 5 dell’art. 6 del d.lgs. n. 128/15, con l’evidente ritorno in termini di immagine che può derivarne all’impresa (9), al diritto, in caso di rimborso di imposte dirette o indirette, di evitare la prestazione delle garanzie ordinariamente richieste, previsto dal comma successivo. Il principale vantaggio, tuttavia, consiste come è ovvio nella possibilità, per l’impresa, di garantirsi una sorta di previa approvazione delle proprie scelte fiscali da parte dell’amministrazione finanziaria (10), ciò che avviene, secondo quanto previsto dai primi commi dello stesso art. 6, attraverso la «comune valutazione delle situazioni suscettibili di generare rischi fiscali prima della presentazione delle dichiarazioni» grazie a «forme di interlocuzione costante e preventiva su elementi di fatto». Le modalità con le quali in concreto possono svilupparsi tali forme di valutazione congiunta e confronto preventivo sono individuate dal provvedimento adottato dall’Agenzia delle Entrate, nell’ambito del quale è previsto che le parti concordino, tenuto debitamente conto del settore in cui opera il contribuente, le «soglie di materialità quantitativa e qualitativa delle fattispecie» (11) che determinano, in buona sostanza, l’ambito applicativo del regime opzionale. All’interno di tale perimetro sono operanti i doveri di comunicazione imposti al contribuente aderente, e, più in generale, si esplica il summenzionato contraddittorio costante e preventivo, in relazione, in particolare, alle situazioni

(8) In questo senso già le considerazioni di G. Marino, L’IRES nel contesto della tassazione delle società nella UE: bilanci e prospettive, in Rass. Trib., 1, 2015, 131 ss. (9) Gli effetti positive sul piano della reputazione aziendale sono evidenziati altresì da B. Ferroni, op.cit., ibidem. (10) Come si aveva già avuto modo di osservare altrove; sia consentito il rinvio a S. Gianoncelli, S. Ronco, La gestione del rischio fiscale: adempimento collaborativo, sistema punitivo tributario e prospettive de jure condendo, in S. Cerrato (a cura di), Impresa e rischio. Profili giuridici del risk management, Torino, 2019, 353 ss. (11) Così l’art. 4.4 del Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate 26 maggio 2017, recante disposizioni per l’attuazione del regime di adempimento collaborativo.


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suscettibili di generare rischi fiscali significativi o operazioni potenzialmente riconducibili a logiche di pianificazione fiscale aggressiva. In ordine a tali situazioni, o ad altre eventualmente individuate a seguito di approfondimenti istruttori svolti in contraddittorio con il contribuente, l’Ufficio formalizza la propria posizione, attraverso «pareri motivati o altri strumenti idonei a garantire certezza preventiva sulle fattispecie esaminate» (12). A latere di tale estesa e generale forma di cooperazione, è poi prevista, in primo luogo, la possibilità che siffatta anticipazione del controllo si traduca, con riferimento alle ipotesi in cui le operazioni oggetto di disamina congiunta siano ritenute «strategiche» dall’impresa, in un accordo di adempimento collaborativo, vincolante per entrambe le parti tanto per il periodo di imposta nell’ambito del quale è stato raggiunto, quanto per quelli successivi, salvo mutamenti nelle circostanze di fatto e di diritto rilevanti ai fini della valutazione congiunta (13). Inoltre, al contribuente aderente è garantito l’accesso ad una «procedura abbreviata» di interpello, concernente casi concreti, in relazione ai quali egli ravvisi il rischio di operare in violazione delle norme tributarie o del divieto di comportamenti elusivi. L’istituzione di un siffatto canale di confronto continuativo, e per molti aspetti privilegiato, con l’amministrazione finanziaria (14), si inquadra con tutta evidenza nel più ampio scenario che è andato delineandosi nel corso delle riforme intraprese da circa un quinquennio, orientate ad attribuire un ruolo di primo piano, nell’attuazione del rapporto di imposta, al coinvolgimento e al consenso del contribuente (15). L’intento del legislatore è evidentemente

(12) Cfr. art. 5.1. del citato Provvedimento. (13) V. art. 5.4. (14) Assai indicative sul punto sono le parole impiegate nell’ambito del suindicato Provvedimento 26 maggio 2017, laddove si legge di un «contraddittorio di carattere continuativo, che consenta di addivenire ad un comune intendimento in merito agli elementi di fatto costitutivi della fattispecie». (15) Cfr. G. Salanitro, Profili giuridici dell’adempimento collaborativo, tra la tutela dell’affidamento e il risarcimento del danno, in Riv. dir. trib., 5, 2016, 623, il quale si riferisce espressamente al ruolo sempre maggiore attribuito al «consenso del contribuente», da intendersi «nel senso che l’esercizio autoritativo dei poteri tributari è stato in qualche modo coordinato con manifestazioni di adesione del contribuente». Di «spiccata equiparazione» tra le parti del rapporto che si instaura nella cooperative compliance parla F. Pistolesi, Le regole procedimentali nel provvedimento di attuazione dell’adempimento collaborativo, in Corr. Trib., 30, 2017, 2414. Ad un «trend legislativo favorevole all’introduzione di strumenti di promozione della collaborazione con il contribuente» fa riferimento G. Ragucci, Alternative dispute resolution e amministrazione finanziaria, in Riv. Dir. Fin., 2018, 208 ss., il quale vi intravede


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quello di promuovere e garantirsi l’adempimento del dovere fiscale, accettando, quale contropartita, un «depotenziamento dell’imperatività della funzione impositiva» (16). Il presente contributo intende tuttavia focalizzarsi piuttosto su alcune delle ricadute di tale nuovo istituto, che non sulle premesse da cui ha preso le mosse la sua introduzione (17). Oggetto dell’indagine saranno infatti le conseguenze – più o meno dirompenti per la tenuta del sistema – che sul fronte penale possono derivare dall’adesione del grande contribuente al regime di adempimento collaborativo. Quel che maggiormente rileva, dunque, non sono tanto gli obiettivi che il legislatore ha inteso raggiungere con la sua introduzione, sulla quale hanno certamente influito le indicazioni provenienti dall’ambito sovranazionale (18). Piuttosto, ai fini che qui si perseguono, rilevano le conseguenze che derivano dall’acquisizione del suddetto assenso preventivo, prestato dall’amministrazione a vantaggio del contribuente, segnatamente sul piano sanzionatorio, in particolare penale; tali conseguenze devono essere individuate, si ritiene, in considerazione in primo luogo delle disposizioni del decreto delegato che tale profilo disciplinano, e, in secondo luogo, del quadro normativo in cui sono andate ad inserirsi le norme introdotte dal legislatore delegato del 2015, in conformità a quanto prevedono i canoni dell’interpretazione sistematica. 2. Le conseguenze sanzionatorie e impositive della cooperative compliance: ricostruzione del quadro normativo di riferimento. – Focalizzando in prima battuta l’analisi sulle norme che specificamente disciplinano il regime di adempimento collaborativo, vengono in rilievo innanzitutto le previsioni dettate con riguardo alle sanzioni di natura amministrativa. In forza dell’art. 6, comma 3, d.lgs. 128/15, in particolare, esse sono ridotte alla metà, e non possono in nessun caso essere applicate in misura superiore

«il compimento di un progetto unitario, che va al di là di un’opera di generale riequilibrio dei poteri e delle facoltà delle parti del rapporto d’imposta, e il cui principale motivo di interesse è che pone termine a una stagione legislativa eccessivamente influenzata da pregiudiziali emergenziali dovute alle ben note condizioni dei conti pubblici». (16) L’espressione è di G. Ragucci, op. cit., ibidem. (17) Sul quale v. le approfondite riflessioni di D. Conte, op. cit., 163 ss. (18) Si veda, soprattutto, il rapporto Ocse del 21 maggio 2013 Cooperative Compliance: A Framework – from Enhanced Relationship to Cooperative Compliance, reperibile in www. oecd.org. La fonte di ispirazione è chiaramente esplicitata dalla Relazione illustrativa allo schema di decreto delegato a più riprese menzionata.


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al minimo edittale, nel caso in cui l’impresa aderente abbia segnalato all’amministrazione finanziaria in maniera «tempestiva ed esauriente», oltreché in via preventiva rispetto alla presentazione della dichiarazione annuale, i rischi di natura fiscale e, segnatamente, le operazioni potenzialmente rientranti in una prospettiva di pianificazione fiscale aggressiva. È opportuno e significativo sottolineare, ai fini che qui rilevano, come la suddetta riduzione sanzionatoria sia sancita con specifico riguardo alle ipotesi in cui l’amministrazione, resa edotta del potenziale problema di natura fiscale nell’ambito della disclosure attuata dal grande contribuente, non reputi corretto e condivisibile l’approccio con il quale lo stesso soggetto passivo intende affrontarlo e gestirlo; la contrazione della risposta sanzionatoria amministrativa dell’ordinamento è riconosciuta, dunque, in un’ipotesi in cui il preventivo assenso di cui sopra non è stato di fatto acquisito dall’impresa aderente alla procedura, ciò che, si può osservare, rende la relativa previsione non irrilevante, ma neppure centrale o dirimente ai fini della presente indagine (19). Proseguendo quindi nell’analisi delle disposizioni specificamente riguardanti l’istituto di cui si discorre, ed i profili sanzionatori che si riconnettono alla sua applicazione, viene in rilievo la previsione contenuta nel d.m. 15 giugno 2016, recante la regolamentazione della «procedura abbreviata» di interpello precedentemente citata, e prevista dall’art. 6, comma 2, del decreto delegato. La fonte regolamentare, allineandosi sul punto alla disciplina statutaria delle altre tipologie di interpello previste dall’ordinamento, espressamente sancisce, al suo art. 9, comma 2, la nullità di ogni atto successivo, che abbia contenuto impositivo o sanzionatorio difforme rispetto alla risposta fornita dall’Agenzia all’interpello proposto. La scelta legislativa appare sostanzialmente la sola percorribile, se non altro per ovvie ragioni di necessaria razionalità e coerenza del sistema; anche in questo caso l’ambito di applicazione dell’esclusione è espressamente riservato alle sanzioni di natura amministra-

(19) In effetti, a ben vedere, la riduzione alla metà delle sanzioni irrogabili, imposta ex lege, in presenza di violazioni relative a fattispecie in ordine alle quali la condotta del contribuente sia stata comunque ispirata a trasparenza e buona fede, si inserisce nel solco della previsione di cui all’art. 7, comma 4, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, e non rappresenta dunque una innovazione particolarmente significativa, o una peculiarità idonea a caratterizzare in maniera rilevante il nuovo istituto. Inoltre, per quanto attiene al rilievo pratico di tale previsione, sono sostanzialmente condivisibili le considerazioni di B. Ferroni, op.cit., ibidem, secondo il quale, nella misura in cui sia correttamente implementata e gestita la nuova forma di profonda interlocuzione tra contribuente e Fisco, tendenzialmente meno significative risulteranno le altre misure premiali, «prima fra tutte la limitazione delle sanzioni».


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tiva, del momento che – invero differenziandosi sul punto dalla disposizione contenuta all’art. 11 dello Statuto del contribuente – la nullità è comminata con specifico riferimento agli atti «amministrativi» che si discostino dalla risposta resa nell’ambito della procedura abbreviata di interpello. Analoga limitazione al profilo solo amministrativo dell’irrogazione sanzionatoria caratterizza l’ulteriore esclusione prevista in relazione a quelle condotte che il contribuente abbia adottato con riguardo alle posizioni definite dal Provvedimento 26 maggio 2017 come «rinviate»; si tratta di operazioni ritenute strategiche per l’impresa, sulle quali le parti abbiano differito il tentativo di individuare un accordo di adempimento collaborativo al periodo di imposta successivo, in ragione della necessità di effettuare «accertamenti tecnici di particolare complessità». Fintantoché non si addivenga ad una esplicitazione dell’orientamento dell’Ufficio, dunque, la condotta posta in essere dal contribuente non sarà punibile sul piano amministrativo, fatto salvo tuttavia – deve ritenersi – il recupero dell’imposta eventualmente evasa o elusa. Tale precisazione in ordine alla mancata elisione del prelievo, ove l’imposta risulti dovuta, offre modo di volgere lo sguardo al contesto normativo generale in cui le norme in materia di cooperative compliance si inscrivono. Sul punto, è in primo luogo opportuno ricordare come lo Statuto del contribuente preveda, al suo art. 10 ed in applicazione del generale principio di tutela dell’affidamento, la disapplicazione, oltreché degli interessi moratori, di ogni sanzione – genericamente indicata, senza riferimento alla sua natura amministrativa ovvero penale – nei confronti del contribuente che si sia conformato ad indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente questa abbia modificato il proprio orientamento (20).

(20) Il rilievo della previsione contenuta all’art. 10, l. 27 luglio 2000, n. 212, ai fini del corretto inquadramento dell’istituto è evidenziato anche da G. Salanitro, op. cit., 642 ss. L’Autore, nell’esaminare gli effetti che dalla norma statutaria e, più in generale, dal principio di tutela dell’affidamento di cui costituisce attuazione, possono derivare in ordine alla compiuta disciplina del regime di adempimento collaborativo, richiama altresì la tesi secondo la quale, se non altro con riguardo alle fattispecie che si caratterizzano per un affidamento particolarmente rilevante riposto dalla parte privata nell’orientamento adottato dalla parte pubblica, la sua effettiva garanzia dovrebbe comportare anche l’elisione della pretesa impositiva, se del caso unitamente al ristoro dei danni subiti per effetto del revirement dell’amministrazione finanziaria. Il pregiudizio di natura economica può sostanziarsi, ad esempio, negli importi – inutilmente – investiti allo scopo di creare un idoneo sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale. È noto, in effetti, come molteplici siano le possibili declinazioni del principio – unanimemente condiviso – della necessità di tutela dell’affidamento riposto dal contribuente nell’orientamento manifestato dall’amministrazione tributaria. Secondo alcuni (cfr. A. Di


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L’autorità amministrativa è poi gravata dall’obbligo, in conformità a quanto previsto dall’art. 6, comma 2, della medesima fonte statutaria, di informare il contribuente di ogni fatto o circostanza dai quali possa scaturire l’irrogazione di una sanzione nei suoi confronti (21). Sulle conseguenze derivanti dall’inadempimento di tale obbligo informativo non vi è unanimità di vedute: si ritiene, tuttavia, che la risposta maggiormente corretta non possa che essere quella derivante dal principio generale statuito dall’art. 10 già menzionato, che esclude conseguenze sanzionatorie – genericamente intese – nel caso in

Pietro, I regolamenti, le circolari e le altre norme amministrative per l’applicazione della legge tributaria, in A. Amatucci (dir.), Trattato di diritto tributario, I, 2, Padova, 1994, 659; D. Stevanato, Tutela dell’affidamento e limiti all’accertamento del tributo, in Rass. Trib., 2003, 815 ss.), essa non può esorbitare dai limiti letterali imposti dall’art. 10, e, dunque, non può estendersi oltre la disapplicazione delle sole sanzioni – certamente amministrative e civili; resta da interrogarsi in ordine a quelle penali (sul punto, si interroga L. Perrone, Certezza del diritto, affidamento e retroattività, in Rass. Trib., 2016, 933) circa la possibilità – se non altro in tema di tributi armonizzati – di conciliare un simile orientamento, da ultimo abbracciato dalla Suprema Corte, con la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, secondo la quale il principio di affidamento può avere efficacia esimente non solo con riguardo alle sanzioni e agli interessi, ma anche con riferimento al tributo). Secondo altri, invece, tale tutela richiederebbe un quid pluris; ferma restando la necessità di garantire comunque l’applicazione del tributo, una volta verificatosi il presupposto, taluni sostengono l’opportunità di consentire al contribuente la revoca degli atti compiuti confidando nella correttezza dell’orientamento amministrativo originario, o, in ogni caso, quella di assicurare il ristoro del pregiudizio economico sofferto dal soggetto passivo che vi si sia spontaneamente adeguato (in questo senso v. G. Falsitta, Rilevanza delle circolari “interpretative” e tutela giurisdizionale del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 1988, I, 133 ss. e A. Turchi, In tema di tutela dell’affidamento riposto dal contribuente nelle indicazioni provenienti dall’amministrazione finanziaria, in Giur. it., 2003, 2194). Una parte consistente della dottrina appare poi allineata su una posizione più marcatamente garantista, sostenendo – sia pure al ricorrere di particolari condizioni individuate in maniera variegata – la necessità di escludere altresì la debenza del tributo (cfr. A. Colli Vignarelli Considerazioni sulla tutela dell’affidamento e della buona fede nello Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2001, I, 678 ss.; E. Della valle, Affidamento e certezza del diritto tributario, Milano 2001, 153 ss.; E. De Mita, La buona fede in diritto tributario (quando l’amministrazione cambia orientamento), in E. De Mita (a cura di), Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2000, 277; M. Logozzo, I principi di buona fede e del legittimo affidamento: tutela “piena” o “parziale”?, in Dir. Prat. Trib., 2018, 2325, anche in considerazione dell’orientamento manifestato sul punto dalla Corte di Giustizia europea; S. Sammartino, Le circolari interpretative delle norme tributarie emesse dall’amministrazione finanziaria, in AA.VV., Studi in onore di V. Uckmar, II, Padova, 1997, 1085; M. Trivellin, Il principio di buona fede nel rapporto tributario, 2009, 213 ss.). (21) Sul dovere di informazione che grava in capo all’amministrazione finanziaria non solo in ragione dell’art. 6 dello Statuto, ma altresì tenuto conto del diritto alla buona amministrazione, riconosciuto in capo ad ogni cittadino europeo dall’ordinamento unionale, v. MC Pierro, Il dovere di informazione dell’amministrazione finanziaria, Torino, 2016.


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cui il comportamento del contribuente sia riconducibili a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa; fra questi, si ritiene, a buon diritto può essere fatta rientrare l’omessa informazione in ordine alla illiceità, e dunque alla sanzionabilità, di un determinato comportamento. Nell’ambito dello scenario che si è delineato, una prima conclusione che è possibile trarre è che, con l’introduzione della cooperative compliance, il legislatore non ha apportato particolari innovazioni sul piano dell’adeguamento della risposta sanzionatoria amministrativa, in tutti i casi in cui, in relazione ad una determinata fattispecie, sia stata ingenerata nel contribuente, per effetto del comportamento dell’amministrazione finanziaria, una determinata aspettativa in ordine alle conseguenze fiscali delle proprie scelte, o, comunque, lo stesso soggetto passivo abbia adottato una logica di massima trasparenza e collaborazione con l’ente impositore in relazione a tali scelte. Meno agevole è la risposta con riguardo al profilo squisitamente impositivo, che pure, per ragioni intuibili e che comunque meglio si specificheranno, non è privo di conseguenze ai fini della presente indagine. Qualora il contribuente si sia avvalso della facoltà di proporre interpello attraverso la procedura abbreviata, nulla quaestio, dal momento che, come si è visto, è espressamente escluso il recupero di tributi attuato in contraddizione con la risposta resa dall’amministrazione. Al di fuori di tale ipotesi, peraltro disciplinata in conformità a quanto previsto per l’interpello ordinario, non si afferma esplicitamente, nell’ambito della normativa in tema di cooperative compliance, che all’impresa aderente possa essere comunque garantita anche l’elisione del prelievo tributario, laddove la sua debenza fosse stata originariamente esclusa nel quadro dell’interlocuzione con l’amministrazione finanziaria. Unicamente nell’ambito del più volte richiamato Provvedimento attuativo si afferma che «le posizioni espresse dall’Agenzia delle entrate all’esito delle interlocuzioni costanti e preventive vincolano l’amministrazione finanziaria», e conservano il proprio valore fintantoché permangono invariate le circostanze di fatto e di diritto sulla base delle quali sono state rese (22). Occorre domandarsi se una simile affermazione legittimi, ex se, la conclusione circa l’invalidità di ogni provvedimento impositivo, oltreché sanzionatorio, che contraddica a tale posizione; conclusione che, a ben vedere, indurrebbe a chiedersi per quale ragione prevedere una procedura di interpello abbreviata,

(22)

Cfr. art. 2.2. c) del citato Provvedimento.


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riservata alle imprese aderenti al regime di adempimento collaborativo, e finalizzata a raggiungere il medesimo risultato. Non solo; lo stesso riferimento al permanere delle condizioni di fatto e di diritto che hanno legittimato l’adozione della posizione espressa dall’amministrazione costituisce a ben vedere uno strumento potenzialmente duttile nelle mani di quest’ultima, al fine di giustificare eventuali inversioni di orientamento e, quindi, pretese in via di principio contrastanti con l’orientamento in precedenza manifestato. A tale eventualità è del resto dedicato l’intero art. 7 del Provvedimento attuativo, rubricato, in maniera significativa, «modifica delle posizioni assunte nel corso delle interlocuzioni preventive», a riprova del fatto che una simile eventualità è ritenuta tutt’altro che remota. Si espungono per semplicità, e sostanziale irrilevanza, dal campo di indagine fattispecie per così dire patologiche, nell’ambito delle quali la condotta che abbia ottenuto il previo avvallo dell’amministrazione si sia in concreto svolta con modalità differenti rispetto a quelle alla stessa prospettate, ovvero, nel corso di tale prospettazione, il contribuente abbia taciuto circostanze invero rilevanti, o, ancora, ne abbia allegate di non corrispondenti al vero. Fermo restando che, in conformità ai principi generali, sarà onere dell’Agenzia dare la prova di simili reticenze, o false indicazioni, in cui sia incorsa l’impresa aderente al regime di adempimento collaborativo, è evidente che in simili casi nessuna tutela potrà esserle accordata, neppure sul piano sanzionatorio (23). Restano da valutare le ipotesi in cui, invece, la disclosure operata dal grande contribuente sia stata veritiera ed esaustiva, e la ripresa tributaria possa invece derivare da una differente valutazione della medesima condotta da parte dell’Agenzia delle Entrate, eventualmente determinata da un rilevante intervento giurisprudenziale, quale una decisione a Sezioni Unite della Cassazione, o una sentenza della Corte di Giustizia, o da un intervento legislativo chiarificatore, per sua natura retroattivo. Al fine di indagare tale profilo, può essere utile osservare quanto segue. Tra i primi commentatori del nuovo regime si è efficacemente osservato che, nel contesto della procedura di adempimento collaborativo, è possibile pervenire ad una sorta di «accertamento con adesione anticipato rispetto al verifi-

(23) In simili ipotesi il Provvedimento prevede, in particolare, il venir meno di ogni effetto della risposta resa dall’amministrazione e la risoluzione, con efficacia ex tunc, dell’accordo eventualmente sottoscritto.


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carsi della fattispecie» (24); tale possibilità è tuttavia circoscritta alle ipotesi in cui le parti siano addivenute ad un «accordo di adempimento collaborativo», vincolante per il periodo di imposta in corso e per quelli successivi, anche in questo caso, peraltro, «salvo mutamenti nelle circostanze di fatto o di diritto rilevanti ai fini della comune valutazione», secondo quanto previsto dal punto 5.4. del Provvedimento 26 maggio 2017. Il che vale quanto dire, si ritiene, che, quanto meno al di fuori di tale ipotesi, l’elisione del prelievo non è garantita. È possibile a questo punto, alla luce del contesto che si è cercato di ricostruire, soffermarsi sulle conseguenze che concretamente l’adesione al regime di adempimento collaborativo può comportare dal punto di vista della tutela penale dell’interesse fiscale, o, adottando la prospettiva del contribuente, sulle garanzie che possono derivare al soggetto aderente sotto il profilo dell’attenuazione, se non dell’esclusione, della eventuale responsabilità penale astrattamente derivante dalla violazione di norme fiscali. 3. L’accertamento dell’evasione fiscale, fra doppio binario e titolarità della potestà impositiva. – Come si è anticipato, l’introduzione del regime di adempimento collaborativo nell’ambito del nostro ordinamento è avvenuta contestualmente ad una significativa riforma del sistema delle sanzioni tributarie, tanto sotto il profilo amministrativo, quanto – ed è quel che qui maggiormente rileva – dal punto di vista della risposta penale alle violazioni di natura fiscale. È in effetti lo stesso legislatore ad aver istituito una diretta connessione, come in precedenza si è ricordato, tra l’introduzione del nuovo strumento di tax compliance -che si caratterizza, quanto meno nel sistema attualmente vigente, per le peculiarità che connotano i suoi potenziali fruitori - e la ricostruzione dell’ordinamento penaltributario in una prospettiva palesemente ispirata alla volontà di colpire unicamente i comportamenti dotati di maggiore disvalore, vuoi per l’entità del danno erariale causato, vuoi, soprattutto, per la natura particolarmente riprovevole delle condotte che hanno consentito l’evasione, caratterizzate, quanto meno, da mendacio (25).

(24) In questo senso F. Pistolesi, Le regole, op. cit., 2412 ss. (25) Per alcune interessanti considerazioni, che muovono da una prospettiva parzialmente differente, v. A. Perini, Reati tributari (voce), Dig. Pen. Agg., 2016, 545.


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Sono frutto evidente di tale scelta di politica legislativa non solo e non tanto l’innalzamento delle soglie di punibilità, quanto, soprattutto, la netta delimitazione del reato di dichiarazione fraudolenta rispetto alla ipotesi di condotta meramente elusiva (26), riconosciuta espressamente come penalmente irrilevante (27), nonché quella del reato di dichiarazione infedele. Quest’ultimo è oggi in effetti ricostruito intorno alle ipotesi di - solo - mendacio, ossia di omessa indicazione in dichiarazione di componenti positivi effettivamente sussistenti, ovvero di inserimento al suo interno di componenti negativi inesistenti; conseguentemente, sono ormai penalmente irrilevanti le violazioni di norme tributarie sostanziali volte ad affermare la indeducibilità, anche per difetto di inerenza, di componenti negativi comunque esistenti, o la imponibilità di componenti positivi non effettivamente conseguiti, ovvero conseguiti ma erroneamente indicati in dichiarazione come non imponibili (28). La oggettiva contrazione dell’area di rilevanza – anche – penale delle condotte fiscali illecite, o presunte tali, non dovrebbe avere determinato, in via di principio, un particolare rafforzamento della pretesa reciproca indipendenza tra l’ambito tributario amministrativo e quello penaltributario, che si vorrebbe consacrata dal ricorso alla pur suggestiva immagine del «doppio binario», la cui formalizzazione legislativa si rinviene all’art. 20, d.lgs. n. 74/00. La delimitazione delle condotte penalmente rilevanti non dovrebbe in effetti avere ridotto, se non quantitativamente, l’area di possibile coincidenza dei fatti rilevanti ai fini tanto amministrativi, quanto penali; le fattispecie che assumono rilevanza ai sensi delle disposizioni del decreto n. 74 del 2000 dovrebbero in via di principio seguitare ad averne anche dal punto di vista dell’amministrazione finanziaria. L’utilizzo del condizionale – e, dunque, l’astratta possibilità

(26) Nell’ambito dell’art. 3, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, che disciplina l’ipotesi di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, differenti dall’utilizzo di false fatture, risponde a tale logica, si ritiene, il riferimento al compimento di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente, e la definizione di queste ultime, all’interno dell’art. 1 del medesimo decreto n. 74, quali «operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti», come tali nettamente distinte dalle operazioni elusive o abusive. (27) Come noto, per espressa previsione dell’ultimo comma dell’art. 10-bis, l. n. 212/00, le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. (28) Questo è il significato che si ritiene di poter attribuire alla previsione contenuta al comma 1-bis del nuovo art. 4, d.lgs. n. 74/00, laddove esclude tipicità alla fattispecie in cui si assista alla non corretta classificazione di un componente di reddito, purché siano esplicitati i criteri sulla base dei quali è stata operata.


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che vi siano fattispecie che assumono in concreto rilievo unicamente penale – dipende proprio, come subito si dirà, dall’introduzione di istituti quali quello cui è dedicato il presente contributo. Ma è opportuno procedere con ordine. La concreta impossibilità di garantire la effettiva impermeabilità tra i due ambiti, nonostante l’operare del principio del doppio binario, è nota (29). Essa si manifesta in diverse forme. In primo luogo, attraverso la trasmigrazione delle prove dal procedimento penale a quello tributario, con i problemi non indifferenti che ne derivano, tenuto conto della disomogeneità che caratterizza i livelli di garanzia accordati ai soggetti sottoposti a controllo, nonché i regimi probatori che connotano l’accertamento dell’evasione, anche allorché esso sia sottoposto al vaglio del giudice speciale. Anche il rilievo che ex lege assumono le determinazioni adottate in ambito penale, ai fini della concreta esecuzione delle sanzioni amministrative eventualmente irrogate nei confronti del reo, ex art. 21, d.lg. n. 74/00, così come più in generale, la reciproca influenza che possono avere le decisioni amministrative o giudiziarie assunte in un ambito o nell’altro, concorrono in maniera significativa ad attenuare la presunta separazione (30). Da ultimo, non certo insignificanti, nella stessa prospettiva, sono le variegate conseguenze che derivano, sul piano penale, dall’avvenuta estinzione del debito tributario, comprensivo di interessi e sanzioni (31). Vi è però un aspetto che più di altri, si ritiene, sin dal 2000 rende disagevole la netta separazione del piano penale da quello amministrativo. Il riferimen-

(29) Già all’inizio del decennio appena concluso la dottrina parlava di «crisi del doppio binario» (E. Marello, Raddoppio dei termini e crisi del doppio binario, in Riv. Dir. Trib., 2010, III, 85 ss.) per poi, pochi anni dopo, rilevarne la «dissoluzione» (E. Marello, Evanescenza del principio di specialità e dissoluzione del doppio binario: le ragioni per una riforma del sistema punitivo penale tributario, in Riv. Dir. Trib., 2013, 269 ss.). Sul punto v. anche F. Pistolesi, Crisi e prospettive del principio del doppio binario nei rapporti tra processo e procedimento tributario e giudizio penale, in Riv. Dir. Trib., 2014, I, 29 ss. (30) La giurisprudenza tributaria ammette da tempo la possibilità che il giudice speciale utilizzi le decisioni adottate in sede penale al fine di corroborare il proprio convincimento, purché egli abbia cura di esplicitare le ragioni per cui ritiene le relative determinazioni adattabili al proprio ambito di competenza (v. da ultimo Cass., 26 febbraio 2019, n. 5546, in Dir. Giust., 2019, 1° marzo, con nota di I. Buscema, Il giudice tributario non deve limitarsi ad estendere al giudizio sull’atto impositivo l’esito del giudizio penale). Per quanto riguarda la giurisprudenza penale, pur avendo costantemente ribadito l’assenza di qualsiasi vincolo, in capo al giudice ordinario, derivante dalle pronunce del giudice speciale, non ha mai escluso che di tali decisioni l’autorità penale possa tenere conto al fine di maturare il proprio convincimento. (31) Il riferimento va, naturalmente, agli artt. 13 ss. del più volte richiamato d.lgs. n. 74/00.


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to va alla circostanza, non banale né scontata (32), per cui il perfezionamento delle fattispecie punite dal più volte richiamato d.lgs. n. 74/00 presuppone necessariamente la sussistenza di un’evasione di imposta, che possa essere ascritta, a seconda del titolare del rapporto tributario sottostante e del tipo di reato, all’agente, al contribuente nel cui interesse egli agisce, o ad un soggetto terzo. Nella maggior parte dei casi, tale evasione è specificamente connotata sul piano quantitativo, in quanto la sua rilevanza penale presuppone il superamento di determinate soglie di punibilità; a seguito della riforma del 2015, come si è anticipato, il fenomeno è stato delimitato anche sotto il profilo qualitativo, perché la rilevanza della – sola – evasione sub specie di reato tributario è condizionata alla sussistenza di condotte fraudolente o quanto meno mendaci. In un siffatto contesto assume rilievo determinante l’individuazione dell’autorità cui sono demandati l’accertamento dell’evasione e la sua delimitazione sul piano qualitativo e quantitativo: le ipotesi astrattamente percorribili sono in effetti più d’una e, ai fini che qui rilevano, conducono evidentemente a conseguenze molto differenti le une dalle altre. Potrebbe in effetti assumersi che l’accertamento di cui si discute sia riservato in ogni caso all’amministrazione finanziaria; essa diverrebbe così, a ben vedere, l’unica autorità legittimata non solo ad appurare la sussistenza di una violazione fiscale, ma altresì ad ipotizzarne in astratto, in considerazione della sua entità e delle modalità con le quali è stata perpetrata, il rilievo delittuoso, che dovrebbe poi essere in concreto confermato o escluso dall’autorità giudiziaria penale. In alternativa, potrebbe invece sostenersi l’esclusiva competenza di quest’ultima ad accertare la sussistenza di un’evasione penalmente rilevante, svincolando completamente le sue determinazioni da quelle – eventualmente in tutto o in parte differenti – dell’Agenzia delle entrate. Tra queste due ipotesi ricostruttive sostanzialmente opposte, possono individuarsi differenti opzioni intermedie, che, di fatto, riconoscano minore o maggiore autonomia all’autorità giurisdizionale ordinaria. Nel diritto vivente, al di là di petizioni di principio connesse alla già ricordata logica del doppio binario, appare maggioritaria la posizione secondo cui l’accertamento dell’evasione fiscale, sotto il profilo dell’an e del quantum,

(32) Nel sistema previgente all’entrata in vigore del decreto 74, meno di un ventennio addietro, non era in effetti così, e l’attenzione del legislatore penaltributario era focalizzata sulle condotte prodromiche all’evasione.


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è in primo luogo demandato all’autorità amministrativa titolare della potestà impositiva. Nei termini impiegati dalla Cassazione penale, infatti, l’autorità giudiziaria penale «non può prescindere dalla pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria», la quale «fissa il limite della soglia di punibilità» (33). Tale soggezione, per così dire, dell’autorità giudiziaria penale rispetto alle risultanze dell’accertamento amministrativo si attenua però in maniera significativa qualora dalla originaria individuazione dell’evasione, e dalla sua quantificazione in senso penalmente rilevante, ci si discosti; e questo tanto qualora ciò avvenga a seguito dell’instaurazione del contenzioso, e, dunque, nell’ambito di un giudizio svoltosi di fronte alle commissioni tributarie (34), quanto nel caso in cui il quantum dell’evasione si ridimensioni in sede di accertamento con adesione, e, dunque, a seguito del contraddittorio instauratosi tra Fisco e contribuente. La giurisprudenza penale, esaminata nel suo complesso, tende infatti sostanzialmente ad istituire una sorta di gerarchia, nell’ambito della quale il maggior vincolo in capo all’autorità giudiziaria penale deriva appunto dalla fase di accertamento amministrativo, per così dire, unilaterale; sostanzialmente nessun condizionamento esercitano invece sul giudice ordinario le decisioni di quello speciale, anche in considerazione delle profonde differenze che caratterizzano il sistema probatorio applicabile nei due giudizi. Fra i due estremi, si colloca in posizione per così dire intermedia l’ipotesi in cui la pretesa impositiva sia stata rideterminata, in particolare sotto il profilo quantitativo, nell’ambito di un procedimento di accertamento con adesione. Secondo un orientamento a più riprese confermato dalla Cassazione, infatti, nel caso in cui le parti giungano ad una (ri)determinazione della pretesa, e dunque dell’evasione accertata, in contraddittorio fra loro, maggiore sarebbe la libertà di apprezzamento riconosciuta al giudice penale che debba verificarne la effettiva rilevanza delittuosa. In particolare, nelle parole della Suprema Corte, qualora si avveda di «concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta» (35), l’auto-

(33) V. Cass. pen. sez. III., 2 dicembre 2011, n. 5640, in Riv. pen., 2012, 5, 513 e in Riv. dir. trib. 2012, 9, II, 529 (s.m.), con nota di G. Scanu. (34) Cass. pen., sez. III, 26 febbraio 2008, n. 21213, in www.cortedicassazione.it. In senso conforme la successiva Cass. pen., sez. III, 2 dicembre 2011, cit., e, da ultimo, Cass. pen., sez. III, 26 settembre 2016, n. 39789, in Dir. Giust., 2016, 27 settembre. (35) In questi termini Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2014, n. 19138, in Dir. Giust., 2014, 12 maggio e Id., Sez. III, 2 dicembre 2011, n. 5640, cit. V., fra le altre, Cass. pen., sez. IV, 22


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rità giudiziaria penale ben potrebbe sostanzialmente disattendere la rideterminazione operata nel contraddittorio tra le parti, e dunque, in ipotesi, persistere nell’affermarne il rilievo penale, benché, in adesione alle conclusioni raggiunte dall’amministrazione finanziaria, lo stesso dovrebbe venire meno (36). Per le ragioni che di seguito si cercherà di illustrare, tale conclusione potrebbe assumere rilievo ai fini del presente contributo. 4. Quantificazione e qualificazione dell’evasione potenzialmente rilevante sul piano penale. – La ragione del distinguo operato tra accertamento, per così dire, non concordato ed accertamento con adesione, ai fini dell’individuazione di eventuali vincoli derivanti, in capo all’autorità giudiziaria penale chiamata a verificare la sussistenza di un’ipotesi di reato fiscale, dalle determinazioni dell’amministrazione finanziaria, è stata chiarita dagli stessi giudici di legittimità. Secondo questi ultimi, come ancora di recente ribadito, «la definizione concordata del tributo» scaturirebbe da «un intento transattivo»,

gennaio 2015, n. 8924, in www.cortedicassazione.it e Cass. pen., sez. III, 19 settembre 2012 n. 1256, in Dir. Giust., 2013, 11 gennaio, con nota di D. Galasso, Vietata la confisca per equivalente dei beni della società coinvolta nella frode fiscale e in Riv. Dir. trib., 2012, 12, III, 349 (s.m.), con nota di I. Caraccioli, Reati tributari contestati a dirigenti di istituto bancario ed inapplicabilità della confisca per equivalente). (36) La questione presenta alcuni profili di assonanza con quella che di recente si è posta in relazione ai rapporti tra transazione fiscale – ex art. 182-ter l. fall. – e reato di omesso versamento IVA – previsto dall’art. 10-ter, d.lgs. n. 74/00. A seguito del riconoscimento normativo della possibilità di falcidia del debito afferente all’imposta europea, nel contesto di una procedura concorsuale, si è posto in effetti il problema di stabilire se la domanda di ammissione alla stessa, con conseguente obbligo di sospensione di ogni pagamento, anche tributario, possa escludere il perfezionamento del suddetto delitto di omesso versamento. In proposito si sono consolidati due opposti orientamenti giurisprudenziali, l’uno volto a negare e l’altro invece ad ammettere – in particolare in forza del richiamo all’art. 51 c.p. – la suddetta esclusione. Particolarmente rilevante sul punto – anche per l’illustrazione delle motivazioni poste alla base delle due differenti opzioni ricostruttive – è la pronuncia Cass. pen., sez. IV, 17 novembre 2017, n. 52542, in Riv. pen. 2018, 2, 139. Con tale decisione la Suprema Corte si è espressamente riferita alla necessità di garantire la coerenza dell’ordinamento, affermando l’impossibilità di ascrivere il reato previsto dall’art. 10-ter al soggetto che non abbia provveduto al materiale versamento dell’imposta sul valore aggiunto pur dichiarata, quale conseguenza della domanda di accesso alla procedura concorsuale. Il riferimento al principio di non contraddizione dell’ordinamento potrebbe di per sé considerarsi rilevante ai fini del presente studio; per le ragioni che si cercherà di illustrare, tuttavia, quel che si ritiene ancora più rilevante sono gli effetti che in entrambi i casi derivano dall’adesione alle pur distinte e differenti procedure – di cooperative compliance in un caso, e concorsuali nell’altro – sul piano dell’elemento soggettivo della condotta delittuosa astrattamente ipotizzabile.


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ciò che ne renderebbe necessario il vaglio «sul piano della maggiore o minore attendibilità rispetto all’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta» (37). Una simile posizione non appare condivisibile. Focalizzando l’attenzione sulla sola amministrazione finanziaria, e tralasciando ogni considerazione sulla posizione del contribuente, che appare irrilevante ai fini della presente indagine, deve osservarsi come non si ritenga possibile imputare agli uffici un intento transattivo propriamente detto, in considerazione se non della indisponibilità che comunque, si ritiene, caratterizza l’obbligazione tributaria (38), quanto meno del principio di legalità che con certezza deve informare l’azione dell’amministrazione finanziaria. In effetti, la prospettiva adottata dalla Suprema Corte, che inquadra in un’ottica schiettamente transattiva l’accertamento con adesione (39), e forse,

(37) V. la nota 35. (38) E che, si ritiene, impedisce che l’amministrazione possa avallare definizioni che non rispondano ad un modello di giusta imposizione. Si è però consapevoli del fatto che sul punto non vi è unanimità di vedute, in particolare in dottrina; per alcune considerazioni sul punto e per una analitica ricostruzione delle differenti posizioni sul tema v. A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 94 ss. (39) Come è noto, la dottrina sul punto è divisa. Semplificando qui per ovvie ragioni, il dibattito può sintetizzarsi nei termini che seguono (per una approfondita ricostruzione delle diverse posizioni v. E. Marello, Concordato tributario, in Diz. dir. pubbl. Cassese, II, Milano, 2006, 1134 e M. Versiglioni, Accertamento con adesione e conciliazione giudiziale, in diritto online, 2015). Da un lato vi è la posizione di quanti ritengono che l’istituto abbia una connotazione propriamente transattiva, di stampo privatistico (v. F. Batistoni Ferrara, Accertamento con adesione, in Enc. dir., Agg., II, Milano, 1998, 22; P. Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 2002, 322 ss. e Id., Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in Rass. trib., 2008, 595); dall’altro vi sono la concezione cosiddetta “accertativa” (secondo la terminologia impiegata da M. Versiglioni, Accertamento, op. ult. cit., 2015), secondo la quale l’accertamento con adesione non si discosta ontologicamente, per così dire, dall’accertamento tout court, nella misura in cui l’Amministrazione finanziaria non può che perseguire il fine della giusta imposizione, indipendentemente dall’adesione che vi presti il contribuente (S. La Rosa, Concordato, conciliazione e flessibilità dell’amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 1995, I, 1089; E. Marello, L’accertamento con adesione, Torino, 2000; M. Miccinesi, Accertamento con adesione e conciliazione giudiziale, in Miccinesi (a cura di), Commento agli interventi di riforma tributaria, Padova, 1999, 1 ss.; M.T. Moscatelli, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, I, Parte generale, Torino, XI ed., 2011, 237) e la concezione “compositiva” (il termine è ancora mutuato da M. Versiglioni, Accertamento, op. ult. cit., che di tale teoria è il principale sostenitore: cfr. M. Versiglioni, Accertamento con adesione, Padova, 2011), la quale, pur distinguendosi per molteplici profili dalla concezione accertativa, muove da presupposti analoghi quanto alla impossibilità di ricostruire l’accertamento con adesione in termini privatistico - contrattualistici.


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più in generale, ogni ipotesi di definizione concordata e condivisa della pretesa tributaria, perviene ad attenuarne o addirittura a disconoscerne l’attendibilità (40), in particolare al fine di valutare l’effettivo rilievo penale della fattispecie; essa perviene quindi, a ben vedere, all’aberrante conclusione per cui, in simili ipotesi, l’amministrazione in concreto abbandonerebbe la corretta quantificazione della pretesa impositiva – i.e. quella che può continuare a fondare il rilievo penale della fattispecie – per aderire ad una sua rideterminazione in chiave riduttiva, al solo scopo di assicurarsene la definizione. Non sfuggono le conseguenze dirompenti di una simile opzione ricostruttiva; ciò a fortiori laddove essa dovesse essere applicata all’istituto dell’adempimento collaborativo, che qui occupa, per sua natura riservato ad una categoria ristretta, e privilegiata, di – grandi – contribuenti. L’ultima affermazione merita, certamente, un chiarimento. Vi sono certo innegabili differenze che intercorrono tra accertamento con adesione da un lato e, dall’altro, accordi raggiunti in sede di adempimento collaborativo, al più astrattamente inquadrabili alla stregua di accertamenti concordati anticipati rispetto al presupposto; né in questa sede si intende in qualche modo forzare la mano su una simile equiparazione. Tuttavia, se si considera che la minore attendibilità riconosciuta dalla giurisprudenza penale all’accertamento con adesione, ai fini della determinazione del rilievo criminoso della fattispecie, dipende dalla circostanza per cui a tale risultato si perviene attraverso una interlocuzione per così dire collaborativa tra amministrazione e contribuente, è legittimo chiedersi se alle medesime conclusioni la giurisprudenza non sarà incline a pervenire anche con riferimento agli accordi che si perfezionino nel quadro della cooperative compliance. È legittimo chiedersi, cioè, se la Cassazione penale non sarà orientata ad attribuire anche a tali accordi, e più in generale alla predeterminazione, concordata in contraddittorio fra le parti, delle conseguenze fiscali derivanti dalle scelte dei contribuenti aderenti alla compliance, natura latamente transattiva, individuando nell’interesse dell’amministrazione ad assicurarsi la collabora-

(40) Al fine di discostarsi dalla determinazione condivisa da entrambe le parti del rapporto, segnatamente allo scopo di riferirsi alla pretesa originaria, sulla base della quale la fattispecie assumeva rilevanza delittuosa, l’autorità giudiziaria è comunque tenuta a riferirsi a «concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta»: così Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2014, n. 19138, cit. e Id., sez. III, 2 dicembre 2011, n. 5640, cit.


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zione e la trasparenza del grande contribuente, la giustificazione di una maggior disponibilità della stessa autorità a legittimarne le scelte fiscali. Ma se così dovesse essere, non sfuggono le criticità potenzialmente derivanti dalla tesi della possibile irrilevanza penale degli accordi raggiunti in sede di adempimento collaborativo, in considerazione della possibilità che essi siano il risultato di una deviazione, sia pure parziale, da uno schema di corretta e piena imposizione, consentita in ragione dell’interesse ad assicurarsi la compliance di grandi e grandissimi contribuenti. Ne va, evidentemente, della tenuta del sistema: per questo, si ritiene, la risposta alla domanda che ci si è posti, in ordine alle possibili conseguenze che sul piano penale derivano dall’adesione al regime di cooperative compliance, non può essere rinvenuta nelle indicazioni provenienti dalla Suprema Corte in tema di accertamento con adesione, appena richiamate, e deve essere invece ricercata altrove. E non è da escludersi che la sua possibile soluzione incroci la medesima traiettoria di un altro e più generale problema, divenuto particolarmente significativo a seguito della già ricordata restrizione dell’area delle violazioni fiscali penalmente rilevanti voluta dalla riforma del 2015. Il riferimento va, in particolare, alla possibilità che, sussistendo la quantificazione del tributo dovuto oltre le soglie di rilevanza penale, condivisa tanto dall’amministrazione quanto dall’autorità giudiziaria penale, le stesse non concordino invece circa la qualificazione della condotta che ha portato alla sottrazione dell’imposta. Fermo restando che, ovviamente, nessuna questione si pone in concreto qualora sia l’autorità giudiziaria penale ad escludere rilievo a tale condotta sub specie di reato previsto dal d.lgs. n. 74, occorre chiedersi cosa accada nel diverso caso in cui sia l’amministrazione a configurare la accertata sottrazione di imposta in termini privi di rilievo penale. È cioè concretamente configurabile l’ipotesi in cui, sebbene l’Agenzia delle entrate ritenga il costo recuperato non sufficientemente documentato o non inerente, e come tale irrilevante ai fini del perfezionamento del reato di dichiarazione infedele, l’autorità giudiziaria penale lo consideri invece inesistente, o supportato da documentazione fraudolenta, o dal ricorso ad altri artifici? E ancora: potrebbe la medesima fattispecie essere inquadrata come fraudolenta da parte dell’autorità giudiziaria penale, sebbene l’amministrazione finanziaria l’abbia considerata meramente elusiva, e come tale non punibile penalmente? Più in generale; a prescindere dal problema della quantificazione dell’imposta evasa, e da ogni distinzione fra la sua determinazione unilaterale o in contraddittorio con il contribuente da parte degli uffici fiscali, quale margine di autonomia è concretamente ga-


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rantito all’autorità giudiziaria penale nell’adottare le proprie determinazioni in materia penaltributaria, prescindendo dal giudizio dell’amministrazione? E la risposta a tale domanda può eventualmente discostarsi da quella data dalla giurisprudenza penale in ordine alla quantificazione dell’imposta evasa? Occorre subito rilevare come la regolamentazione del regime di adempimento collaborativo potrebbe indirettamente deporre a favore di una simile autonomia. Ciò non solo e non tanto per la previsione di cui al comma 4 dell’art. 6, d.lgs. n. 128/15, secondo cui «in caso di denuncia per reati fiscali, l’Agenzia delle Entrate comunica alla Procura della Repubblica se il contribuente abbia aderito al regime di adempimento collaborativo, fornendo, se richiesta, ogni utile informazione in ordine al controllo del rischio fiscale e all’attribuzione di ruoli e responsabilità previsti dal sistema adottato» (41). Tale disposizione, in effetti, sembrerebbe trovare applicazione con riguardo ai casi in cui la notitia criminis provenga dalla stessa Agenzia, la quale, evidentemente, ritenga illecita la condotta adottata dall’impresa, e dunque, verosimilmente, non vi abbia accordato il proprio avallo; conseguentemente, non pare di potersene trarre un’indicazione particolarmente significativa circa possibili e più o meno ampi spazi di autonomia dell’autorità giudiziaria penale. Piuttosto, qualche utile elemento di riflessione si ritiene provenga dalla disposizione di cui all’art.7, comma 1, del decreto del 2015, in base al quale, nei riguardi dei contribuenti ammessi al regime, l’Agenzia – e più specificamente la Direzione Centrale accertamento, e, al suo interno, l’Ufficio cooperative compliance – è competente in via esclusiva (unicamente) «per i controlli e le attività relativi al regime di adempimento collaborativo». A contrario, tale disposizione pare in effetti ammettere che i controlli fiscali, o potenzialmente forieri di conseguenze fiscali, sui contribuenti aderenti al regime di cooperative compliance possano essere altresì condotti non solo dagli uffici periferici dell’Agenzia territorialmente competenti in ragione della sede del contribuente, ma anche da soggetti diversi dall’Agenzia delle Entrate, quale, in primis, la Guardia di Finanza.

(41) Con riferimento a tale previsione osserva D. Conte, op. cit., 186, che si tratta a ben vedere di un vantaggio marginale rispetto agli adempimenti cui ha l’onere di provvedere l’impresa al fine di accedere al regime di adempimento collaborativo. La stessa Autrice ritiene infatti che tale disposizione finisca per disincentivare l’adesione alla compliance, ponendosi in contrasto con la sua ratio, ravvisabile nella volontà di garantire certezza e stabilità giuridica al rapporto tributario.


Quel che non emerge con chiarezza dalla disposizione è se tali controlli possano riguardare anche fattispecie rientranti tra quelle oggetto di confronto ed interlocuzione preventiva nell’ambito della procedura instaurata dall’impresa interessata dall’adempimento collaborativo. Parrebbe peraltro deporre a favore di tale possibilità il contenuto della già citata Relazione illustrativa allo schema di decreto, laddove si riconosce, a commento dell’art. 7, comma 1, l’esclusiva competenza dell’Agenzia – rectius: della Direzione centrale – in tema di valutazione del sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale approntato dai contribuenti che accedono al regime, nonché con riguardo allo svolgimento delle nuove modalità di interlocuzione costante e preventiva, «anche con riferimento al rilascio del parere nell’ambito della procedura abbreviata di interpello preventivo» (42). Una simile affermazione pare infatti legittimare la conclusione per cui, con riferimento alle altre tipologie di controlli per così dire ordinari, non sia escluso l’intervento di altri organi verificatori – esclusione che forse, peraltro, avrebbe potuto dare adito a più di un dubbio e a qualche criticità. Inevitabile è quindi domandarsi se sia configurabile la possibilità che i suddetti verificatori dissentano dalle conclusioni raggiunte in sede di controllo preventivo, nel contraddittorio tra l’impresa aderente al regime di adempimento collaborativo e l’Ufficio Cooperative Compliance. A rigor di logica, si ritiene che una simile eventualità debba essere ammessa: appare in effetti evidente che, nella misura in cui è ammessa la possibilità di un controllo da parte di soggetti diversi dalla Direzione centrale in ordine alle fattispecie rientranti nel regime di adempimento collaborativo, deve essere altresì ammesso che essi pervengano a conclusioni differenti da quelle raggiunte dall’Ufficio preposto al regime di adempimento collaborativo. In caso contrario, non si vede quale utilità potrebbe caratterizzare un simile controllo. Nello scenario che si è descritto, è inevitabile che, ravvisando la sussistenza di violazioni fiscali – anche – penalmente rilevanti, i verificatori procedano alla loro segnalazione all’autorità giudiziaria penale. Se così è, occorre allora e da ultimo domandarsi se possa verificarsi che quest’ultima, condividendo le conclusioni dei verificatori, e non quelle della Direzione Centrale, intraprenda un procedimento nei confronti dei legali rappresentanti della società aderente al regime di cooperative compliance.

(42)

Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo, cit., 23.


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La connessione con la questione in precedenza richiamata, relativa alla sussistenza di un effettivo margine di autonomia in capo all’autorità giudiziaria penale, rispetto alle risultanze dei controlli svolti dall’Agenzia delle Entrate, e alle determinazioni da quest’ultima adottate, appare evidente. Inquadrando il problema nella prospettiva dell’adempimento collaborativo, tuttavia, più agevolmente si perviene alla soluzione del problema ragionando – quanto meno in prima battuta - non tanto in termini di autonomia dell’autorità giudiziaria penale rispetto a quella amministrativa, quanto, piuttosto, in quelli di effettiva sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di reato, ivi incluso, necessariamente, quello soggettivo. 5. L’elemento soggettivo dell’illecito fiscale e l’autonomia dell’autorità giudiziaria penale. – Si è detto in precedenza delle conseguenze che, sul piano delle sanzioni amministrative, derivano dall’adesione al regime di adempimento collaborativo; si è detto, in particolare, che, in forza tanto delle previsioni specificamente dettate sul punto dal legislatore del 2015, quanto delle norme generali dell’ordinamento tributario, la debenza di tali sanzioni deve sistematicamente essere esclusa tutte le volte in cui il contribuente, avendo debitamente informato l’Agenzia delle Entrate circa le situazioni suscettibili di determinare rischi fiscali, si sia adeguato alle indicazioni provenienti dalla stessa autorità, o abbia ricevuto il suo avallo circa la correttezza del proprio comportamento. Non così può essere, per le ragioni già illustrate, per quanto attiene all’imposta che si riveli successivamente dovuta, ciò che in concreto esclude che l’accordo rinvenuto nell’ambito della procedura di cooperative compliance possa di per sé eliminare in radice la violazione della norma tributaria sostanziale e la sussistenza di un’evasione; anche tenuto conto di tale circostanza, troppo semplicistico sarebbe ritenere, per quanto attiene alle sanzioni penali, che la loro esclusione derivi sic et simpliciter da quella delle sanzioni amministrative, secondo un ragionamento invero piuttosto basico, per il quale se non sono dovute queste ultime a fortiori non lo sono neppure le prime, notoriamente percepite come maggiormente gravose e penalizzanti in quanto connesse a condotte connotate da maggiore gravità. La soluzione della questione si ritiene passi invece, necessariamente, per la disamina di un profilo ulteriore e differente; da tale disamina, peraltro, scaturiscono alcune riflessioni utili in primo luogo a meglio inquadrare l’istituto dell’adempimento collaborativo e, più in generale, i rapporti tra accertamento


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amministrativo e accertamento penale delle violazioni della norma tributaria sostanziale (43). In effetti, in forza dei principi fondamentali che permeano l’ordinamento sanzionatorio generalmente inteso, e quello penale in particolare, si ritiene che il preventivo avallo che il grande contribuente aderente alla cooperative compliance abbia ottenuto in ordine alla liceità e correttezza della propria condotta fiscale da parte dell’Agenzia debba necessariamente riverberarsi sulla valutazione dell’elemento soggettivo che tale condotta ha caratterizzato. Si prescinde qui intenzionalmente – come già in precedenza – da ipotesi evidentemente patologiche, nelle quali l’impresa abbia conseguito in maniera capziosa un nulla osta anticipato da parte dell’interlocutore pubblico, fornendo allo stesso informazioni false, o volontariamente tacendo circostanze rilevanti nell’ambito del confronto con lo stesso instaurato. Si tratta di ipotesi auspicabilmente non frequenti, e comunque non rilevanti ai fini della presente indagine, oltreché di pronta soluzione, una volta che il mendacio e la fraudolenza siano emerse. In tutti gli altri casi, la trasparenza e la collaborazione manifestate dalla parte privata nel contraddittorio instaurato con l’Agenzia non possono che ritenersi logicamente incompatibili con il dolo indispensabile al perfezionamento del reato tributario, e vieppiù con il dolo di evasione previsto dalla maggior parte delle fattispecie delittuose disciplinate dal decreto n. 74/00. In tale prospettiva, non è quindi in ragione di una pretesa sistematica insussistenza della violazione fiscale oggettivamente considerata – che dovrebbe conseguire alla preventiva approvazione data dall’Agenzia alla condotta del grande contribuente – che si devono escludere conseguenze sul versante penale, anche allorché tale condotta si riveli in realtà contraria alla norma sostanziale (44); ma tali conseguenze devono invece essere escluse in consi-

(43) Sul punto si segnalano le considerazioni di S. La Rosa, Orientamenti e disorientamenti in tema di rapporti tra norme penali e tributarie, in Riv. Dir. Trib., I, 2016, 444, il quale ritiene doveroso chiedersi se davvero per i due ambiti assumano rilievo i medesimi fatti, ancorché inquadrati nel prisma di regole differenti, ovvero se siano invece diversi, ex se, i fatti rilevanti ai fini amministrativi e ai fini penali, e solo conseguentemente divergano le regole in base alle quali essi vanno analizzati. (44) Per tale ragione, anche qualora si volesse inquadrare la questione nella prospettiva che poggia sulla teoria della tripartizione del reato (per la quale v. soprattutto G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2004, 154 ss.), si ritiene occorrerebbe comunque riferirsi alla carenza di elemento soggettivo che impedisce il perfezionamento della fattispecie criminosa, non potendosi invece sostenere che, in simili ipotesi, venga meno l’antigiuridicità del fatto. Non può ricorrere tale circostanza, in effetti, nei casi in cui il


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derazione dell’assenza dell’altro elemento necessario, a latere di quello oggettivo, al perfezionamento del reato tributario, ossia quello soggettivo. Da tale constatazione è possibile muovere per due differenti riflessioni. La prima attiene alla prospettiva in cui occorre correttamente inquadrare, in particolare dal punto di vista della ratio sottostante e dei presupposti di applicazione, le differenti risposte sanzionatorie che l’ordinamento riserva alle violazioni tributarie. Tale riflessione non è peraltro priva di connessioni con la previsione normativa già richiamata, in base alla quale, qualora proceda a segnalare una ritenuta violazione alla Procura della Repubblica, non condividendo le scelte fiscali adottate dal grande contribuente in relazione ad una o più delle fattispecie esaminate congiuntamente, l’Agenzia delle Entrate è tenuta ad evidenziare l’adesione del medesimo al regime di adempimento collaborativo. In ragione di quanto si è sostenuto poc’anzi, si ritiene che l’esigenza a cui risponde tale previsione sia quella di imporre all’amministrazione di dare conto della trasparenza e collaborazione manifestate dall’impresa contribuente, al fine di consentire all’autorità giudiziaria penale di valutare la (in)sussistenza dell’elemento soggettivo. Sul punto occorre tuttavia sottolineare come una ricostruzione in parte differente si rinvenga nella Relazione illustrativa del decreto legislativo introdotto nel 2015, laddove si afferma che lo scopo della comunicazione dell’adesione al relativo regime, in sede di segnalazione alla Procura di condotte ritenute dall’Agenzia astrattamente rilevanti sul piano penale, sia quello di permettere all’autorità giudiziaria di valutare tali comportamenti «anche in relazione alle eventuali iniziative poste in essere al fine di limitare o evitare gravi conseguenze». Come altri hanno sottolineato (45), è evidente l’assonanza della terminologia usata con il linguaggio tipico del decreto n. 231 sulla responsabilità amministrativa degli enti per fatto penale dei propri rappresentanti. Proprio il ricorso a tale terminologia si ritiene, tuttavia, tradisca un malinteso: la sanzione penale eventualmente applicabile al legale rappresentante, o comunque al soggetto che commetta una violazione relativa al rapporto tributario facente capo all’ente, non è infatti assimilabile sotto alcun profilo alle sanzioni previ-

trasgressore sia stato indotto – anche da fonte autorevole ed incolpevolmente – a ritenere non antigiuridico il proprio comportamento, ma esso non sia realmente tale. In simili casi è in effetti ancora l’elemento soggettivo ad assumere rilievo, data la errata convinzione circa la correttezza della propria condotta. (45) V. B. Ferroni, op.cit., ibidem.


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ste dalla normativa 231, e, conseguentemente, nessun parallelismo può essere istituito sul piano delle cause di esclusione o attenuazione della punibilità. Piuttosto, a voler istituire una simmetria dotata di qualche plausibilità, all’interno dell’ordinamento fiscale la sanzione più simile a quelle previste dal d.lgs. n. 231/01, a fronte della commissione di determinati reati (46) da parte dei rappresentanti di enti dotati di personalità giuridica, è quella tributaria amministrativa, irrogata ai sensi dell’art. 7, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, ed esclusivamente riferibile all’ente; sanzione che, pacificamente, concorre con quella penale eventualmente applicabile alle persone fisiche che rappresentano o comunque agiscono in nome e per conto dello stesso ente. Di tale sanzione amministrativa tuttavia, come si è visto, il legislatore prevede già in maniera espressa la disapplicazione, ovvero la riduzione, in tutti i casi in cui la società si sia attivata al fine di adottare quel tax control framework che costituisce il vero cuore, oltreché il presupposto dell’adesione al regime di adempimento collaborativo (47). Non vi è dunque necessità alcuna che tale profilo sia valutato – anche – dall’autorità giudiziaria penale, che è invece chiamata ad altri accertamenti e valutazioni, sulla base di elementi tutti esplicitati dal decreto n. 74/00; e non è probabilmente un caso che, per quanto si fosse ventilata tale possibilità (48), nessuna specifica previsione in ordine ai risvolti penali dell’adesione al regime di cooperative compliance è stata introdotta con la riforma del medesimo decreto dedicato ai reati tributari. Fra i sopra menzionati accertamenti e valutazioni, non solo demandati, ma più propriamente riservati all’autorità giudiziaria penale, non possono poi esservi, a ben vedere, soltanto quelli relativi all’elemento soggettivo; gli stessi devono invece includere altresì quelli concernenti la natura, più o meno fraudolenta, simulatoria o mendace, della condotta ascrivibile ai soggetti che hanno agito per la società.

(46) Fra i quali sono stati da ultimo inseriti, con la riforma entrata in vigore il 25 dicembre 2019, i reati di cui agli artt. 2, 3, 8, 10 e 11, d.lgs. n. 74/00. (47) Sul punto cfr., ancora, la Relazione illustrativa allo schema di decreto delegato, cit., 13 e 19. (48) Si legge nella stessa Relazione illustrativa di cui al punto precedente, 22 ss., in risposta ad una sollecitazione sul punto della commissione finanze: «Per quel che concerne, in particolare, l’opportunità di regolare la rilevanza penale connessa ai rischi fiscali comunicati in modo tempestivo ed esauriente all’Agenzia delle entrate prima della presentazione delle dichiarazioni fiscali, l’inserimento di una apposita previsione sarà valutata nel corso della procedura che porterà alla approvazione del decreto legislativo in materia di revisione del sistema sanzionatorio».


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Ciò, occorre dire, per venire al secondo ordine di riflessioni di cui sopra, non nel solo caso in cui il contribuente abbia aderito alla cooperative compliance; e meno che mai in ragione di quella matrice transattiva – ingiustamente – attribuita dalla Suprema Corte ad istituti quali l’accertamento con adesione, e a fortiori, ponendosi nella stessa scorretta prospettiva, astrattamente predicabile con riguardo all’adempimento collaborativo. La piena ed esclusiva competenza dell’autorità giudiziaria penale deve invece essere affermata in ogni caso in cui sia ipotizzabile, in capo al contribuente, la sussistenza di un inadempimento tributario di importo superiore alle soglie di punibilità, derivante da una condotta caratterizzata da modalità concrete di cui spetta appunto soltanto a tale autorità accertare e valutare in concreto il rilievo delittuoso, in applicazione delle dettagliate previsioni contenute sul punto nel decreto n. 74/00. La conclusione pare l’unica corretta e accettabile, pena il sostanziale appiattimento del diritto penale tributario su quello amministrativo, la riduzione della risposta sanzionatoria penale a mero “braccio armato” della riscossione, o, in una prospettiva ancora più svilente, a mero strumento di aggravio delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’accertamento dell’evasione di imposta. In una simile inaccettabile prospettiva, per riprendere in conclusione il riferimento all’istituto oggetto del presente contributo, la cooperative compliance rischierebbe infatti di diventare un comodo strumento per garantirsi una sorta di sistematica immunità penale, con le inaccettabili e dirompenti conseguenze che ne deriverebbero per la tenuta del sistema, anche e soprattutto considerata la oggettiva esiguità, e la pacifica forza economica, della platea dei possibili destinatari delle relative previsioni. È dunque anche al fine di garantire la razionalità e l’equità dell’ordinamento che va ribadita la piena autonomia dell’autorità giudiziaria penale, allorché si tratti di valutare in concreto la rilevanza delittuosa delle condotte evasive. Ciò anche al di là del risultato cui in concreto, quanto meno nella gran parte dei casi e fuori da ipotesi patologiche e devianti, potranno pervenire tali valutazioni con riferimento a fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’adempimento collaborativo, tenuto conto di quanto si è osservato in punto di elemento soggettivo della condotta astrattamente rilevante ai sensi del decreto legislativo n. 74/00.

Stefania Gianoncelli



Dubbi, (fragili) certezze e suggestioni nell’ordinanza di rimessione sull’art. 20 TUR Sommario: 1. Introduzione. – 2. Dubbi e certezze dell’ordinanza di remissione sull’art. 20. – 3. Suggestioni nel metodo e considerazioni sul merito. – 4. Conclusioni.

Il potere di riqualificazione degli atti ai fini dell’imposta di registro merita di essere ricondotto nel novero dei temi più divisivi del diritto tributario. Tant’è vero che, anche a seguito della recente riforma dell’art. 20 del TUR e della successiva norma d’interpretazione autentica, la dialettica istituzionale ha posto in essere un vero e proprio conflitto fra giurisprudenza di legittimità e legislatore. Da ultimo, la Corte di Cassazione ha sollevato la questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 53 Cost., censurando la coerenza nella scelta di delimitare il campo di indagine alla luce del presupposto impositivo. Tuttavia, è proprio sull’individuazione del fatto generatore dell’obbligazione di imposta che emergono le principali perplessità circa la ricostruzione operata dall’ordinanza. The reclassifications of deeds for the purposes of registration tax can be include into the category of the most divisive issues of Italian tax law. Indeed, even following the recent reform of the art. 20 of the TUR and of the subsequent norm of authentic interpretation, the institutional dialectic has put in place a real conflict between case law and lawmaker. Lastly, the Corte di Cassazione raised the question of constitutional legitimacy according to Articles 3 and 53 of the Italian Constitution, censoring the consistency of the choice to delimit the field of investigation in the light of the tax assumption. However, it is exactly on the recognition of the chargeable event of the tax obligation that the main concerns about the reconstruction made by the ordinance arise.

1. Introduzione. – Il dubbio non è altro che la sospensione di un giudizio a fronte di proposizioni fra loro contraddittorie: l’una di affermazione, l’altra di negazione. Se ciò appare uno dei percorsi di conoscenza possibili nella ricerca della verità, non può negarsi come la sollevazione di un dubbio si risolva in un momento di accrescimento formativo. Tali considerazioni risultano ancor più calzanti, là dove alla sospensione del giudizio si affianchi


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un connotato particolare nel ragionamento giuridico e cioè quello di “costituzionalità” della questione, nel qual caso la situazione di incertezza verte sulla conformità di una norma rispetto alla fonte di rango superiore (1). Già solo per questa attitudine al controllo della razionalità del sistema, la circostanza che sia sollevato un dubbio di legittimità costituzionale deve essere salutata con favore, essendo il controllo del Giudice delle Leggi un momento in cui si suggella il dinamismo dell’ordinamento giuridico per il tramite dell’innesco di una riflessione su quelle norme che appaiono “problematiche” rispetto ai principi e ai valori fondanti l’ordine della nostra convivenza civile. Tali considerazioni possono trovare conferma anche rispetto alla recente ordinanza di rimessione della questione di costituzionalità in relazione all’art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 (d’ora in avanti, breviter “art. 20 del TUR”) (2). Non si può fare a meno di rilevare, del resto, come tra i primi commenti aventi ad oggetto tale pronunciamento si percepisca una certa “tensione istituzionale” sul tema della riqualificazione degli atti da parte dell’Amministrazione finanziaria (3). Ciò che deriva dalla netta contrapposizione fra posizioni assunte a diversi livelli (giurisprudenziale, dottrinale e legislativo) e poggiante sull’(asserita) eccedenza assiologica del principio secondo cui vi

(1) Come già segnalato da G. Zagrebelsky, la sproporzionata quantità di leggi e leggine corrisponde alla struttura pluralista della società attuale. In questo nuovo scenario l’unità dell’ordinamento assurge ad un problema di difficile soluzione. Da qui si pone l’esigenza di ancorare l’attività nomopoietica ad un nucleo di valori e principi di rango superiore, proprio perché cristallizzati nella nostra Costituzione e, come tali, è ragionevole ritenere che su di essi si sia formato un sufficiente consenso sociale. Sicché, il «principio di costituzionalità» è considerato come un valido strumento per assicurare l’unità della società politica (cfr. vedasi, G. Zagrebelsky, Il diritto mite, 1992, Torino, 47-50). (2) Corte di Cassazione, ord. 23 settembre 2019. n. 23549. (3) Fra i primi commenti si rammentano, A. Fedele, La Cassazione porta alla Corte Costituzionale la questione della rilevanza dei collegamenti negoziali ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., 1, 2020; G. Tabet, Interpretativa di secondo livello e incostituzionalità della disciplina di risulta?, in Riv. dir. trib., 1, 2020; D. Stevanato, Imposta di registro e discrezionalità del legislatore nella progettazione dei tributi, in Corr. Tri., 1, 2020, 37-42; F. Tundo, Le torsioni della giurisprudenza sull’imposta di registro e la certezza del diritto, in Corr. Trib., 11, 2019, 979 ss., al quale preme rimarcare come il richiamo fatto al principio della prevalenza della sostanza sulla forma si atteggerebbe «quale vero e proprio cavallo di Troia», favorendo «una destrutturazione dell’ordinamento tributario, un’anarchia normativa determinata dal sovvertimento delle fonti del diritto. Ancor meglio: ad una sostituzione di queste ultime con un diritto vivente del caso singolo e del (mutevole) precedente giurisprudenziale. Tutto ciò non ha nulla a che vedere né con il diritto tributario così come lo abbiamo conosciuto sinora, né con il nostro assetto giuridico più in generale».


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sarebbe antitesi fra sostanza e forma e, per l’effetto, la prima dovrebbe sempre prevalere sulla seconda (4). E del resto, tale stato di cose ormai si perpetua da moltissimo tempo, avendo interessato, dapprima, un primo “conflitto” fra dottrina (orientata verso una delimitazione della riqualificazione poggiante esclusivamente sugli effetti giuridici e sulle risultanze dell’atto sottoposto alla registrazione (5)) e la giurisprudenza (che aveva ampliato l’accertamento del negozio anche sulla base del c.d. collegamento negoziale (6), nonché, in seconda battuta, uno

(4) Sul punto vedasi A. Fedele, La Cassazione porta alla Corte Costituzionale la questione della rilevanza dei collegamenti negoziali ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, ult. op. cit., nota n. 4, là dove l’Autore dubita della fondatezza di quella contrapposizione che si vorrebbe rimarcare fra “forma (giuridica)” e “sostanza (economica)” per ciò che «a prescindere dall’arbitrarietà dell’identificazione fra “concretezza” ed economicità (anche l’economia, in quanto scienza, opera su astrazioni), si dimentica che ogni disciplina giuridica opera necessariamente tramite astrazioni e che il risultato pratico di ogni ragionamento fondato sul prevalere della “sostanza” sulla “forma” è l’individuazione di una categoria astratta (“tipo”, negoziale, effettuale, ecc.) e di una conseguente, diversa, disciplina cui sottoporre il caso esaminato». V. anche sulla dicotomia forma/sostanza, L. Del Federico, Forma e sostanza nella tassazione del reddito d’impresa: spunti per qualche chiarimento concettuale, in Riv. dir. trib., 6, 2018, 171, il quale – riconoscendo come l’art. 20 del TUR assolva la funzione di rivelare la forma effettiva (andando al di là della forma apparente) – ne intravede la funzione di «meccanismo di natura interpretativa, tale da legittimare l’interprete ad individuare gli effetti concreti (realmente prodotti dall’atto, secondo la stessa logica degli artt. 1362 ss c.c.)». Nello stesso senso, v. anche G. Tabet, L’applicazione dell’art. 20 T.U. Registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, in Rass. Trib., 2016, 913 ss.. (5) Vedasi per tutti, P. Russo, Profili storici e sistematici in tema di elusione ed abuso del diritto in materia tributaria: spunti critici e ricostruttivi, in Dir. e Prat. Trib., 2016, 1, 10001; G. Tabet L’applicazione dell’art. 20 t.u. registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, in Rass. trib., 2016, 4, 913; A. Fedele, Assetti negoziali e “forme d’impresa” tra opponibilità simulazione e riqualificazione, in Riv. dir. trib., 12, 2010, 1112-115; G. Zizzo, Imposta di registro e atti collegati, in Rass. trib., 4, 2013, 870; S. La Rosa, L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali e processuali, in Riv. dir. trib., 2014, 499; F. Gallo, Le nuove frontiere dell’abuso in materia fiscale, in Riv. dir. trib., 6, 2015, 1322, n. 7; V. Mastroiacovo, La nuova disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale nella prospettiva dell’imposta di registro, in Riv. not., 2016, 31; M. Beghin, L’imposta di registro e l’interpretazione degli atti incentrata sulla sostanza economica nell’“abracadabra” dell’abuso del diritto, in GT - Riv. giur. trib., 2, 2010, 158; D. Canè, Brevi note sullo stato della giurisprudenza intorno all’art. 20 del T.U. Registro, in Rass. trib., 3, 2016, 649. (6) In tal senso si rammenta fra i primi pronunciamenti Cass., sentenza 23 novembre 2001, n. 14900, là dove i Supremi Giudici evidenziavano la rilevanza del collegamento negoziale “in ogni caso” (ossia quand’anche l’assetto fosse risultato da plurimi atti), in quanto «la sostituzione ad unico strumento giuridico, con determinazioni pattizie multiple, di più contenitori negoziali, non può incidere sulla fattispecie sostanziale tributaria, inducendo in risultati irragionevolmente differenziati, in contrasto col principio (art. 53 Cost.) della capacità


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scontro “meta-politico” fra il legislatore – il quale è intervenuto con la modifica dell’art. 20 TUR e con successiva norma di interpretazione autentica proprio per assicurare l’uniforme applicazione della nuova norma anche ai giudizi pendenti (7) – e i giudici, i quali hanno viceversa espresso posizioni di arroccamento su linee esegetiche ultra-ortodosse (8) e di continuità rispetto all’orientamento precedente (seppur con qualche eccezione (9)), mantenendo la barra dritta sulla rotta già tracciata come se la mappa di navigazione non fosse mutata. Le ragioni di siffatto atteggiamento sono probabilmente da rinvenirsi nella considerazione che la norma è il frutto del diritto vivente, che – risentendo degli aspetti “climatici” all’interno dell’istituzione (10) – possono dar luogo

contributiva […]. Conclusione, questa, tanto più necessitata, ove il ricorso ad un procedimento negoziale vero e proprio - in relazione al quale dovrà riguardarsi al profilo teleologico e non certo quello meramente cronologico -, in luogo dello strumento apprestato per conseguire in via diretta il risultato finale, risulti frutto di un regime negoziale distorsivo, secondo l’impostazione della stessa ricorrente». (7) Per un approfondimento sulle recenti modifiche dell’art. 20, vedasi G. Marongiu, Ancora dubbi sul riscritto art. 20 della legge di registro, in Notariato, 2019, 2, 203; M. Procopio, L’interpretazione degli atti e l’esistenza di un principio antiabuso contenuto nell’art. 20 del testo unico sull’imposta di registro, in Dir. e Prat. Trib., 2019, 1, 65; G. Fransoni, La Cassazione e l’art. 20 del Testo Unico dell’Imposta di Registro: fra contorsioni argomentative, moniti e scelte di campo, in Riv. dir. trib. on line del 30 gennaio 2018; A. Pischetola, Riqualificazione e legittimo risparmio d’imposta ex art. 20 t.u.r., in Notariato, 2018, 5, 573. (8) Cfr. Cass., Sez. VI – 5, ord., 9 aprile 2018, n. 8619 secondo cui in relazione all’art. 1, comma 87, lett. a) della L. 27 dicembre 2017, n. 205 avrebbe dovuto «riconoscersi natura innovativa e non meramente interpretativa, ciò comportando che essa non possa trovare applicazione retroattiva, a nulla valendo l’intenzione, palesata nella relazione illustrativa alla Legge di stabilità 2018, di chiarire il criterio di individuazione della natura e degli effetti che devono essere presi in considerazione ai fini della registrazione, che, in effetti, viene a raccordarsi con la nuova disciplina dell’abuso del diritto quale prevista dall’art. 10-bis della Legge n. 212/2000, per effetto della quale l’Amministrazione finanziaria, qualora voglia contestare l’intento volto a conseguire un indebito vantaggio fiscale in ragione del collegamento di più negozi, deve previamente esperire il contraddittorio». Nello stesso senso, Cass., sent., 28 febbraio 2018, n. 4589 (con note di S. Cipollina, Curvature del tempo e interpretazione degli atti nell’imposta di registro, in Riv. Dir. Fin. e Sc. Fin., 2, 2018, 29), Cass., ord., 28 marzo 2018, n. 7637, Cass., ord., 9 marzo 2018, n. 5748; Cass., sent., 23 febbraio 2018, n. 4407; Cass., sent., 26 gennaio 2018, n. 2007 (con nota di G. Tabet, Il collegamento negoziale tra riqualificazione ed abuso, in Rass. trib., 1, 2018, 227). (9) Cfr. Corte di Cassazione, Sezione V, sentenza 27 gennaio 2017, n. 2054, con nota di V. Mastroiacovo, L’attività riqualificatoria ex art. 20 TUR non può travalicare lo schema negoziale tipico in cui l’atto risulta inquadrabile, in Riv. dir. trib. on line del 7 febbraio 2017. (10) S’intende quivi far riferimento all’istituzione, quale «opera superindividuale che la coscienza comune, grazie alla costante ripetizione di comportamenti individuali, proietta al di


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(addirittura) al perpetuarsi di soluzioni applicative non più attuali alla luce del mutato contesto legislativo. Tali resistenze di carattere istituzionale hanno probabilmente contribuito alla determinazione della Suprema Corte di fermarsi a riflettere se sia vero (o meno) che l’inequivocabile mappa tracciata dal legislatore possa ritenersi effettivamente coerente con il dettato costituzionale. 2. Dubbi e certezze dell’ordinanza di remissione sull’art. 20. – Molti pensavano che la presa di posizione “radicale” potesse avere ad oggetto non già la norma dell’art. 20 del TUR (secondo cui «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extra–testuali e dagli atti ad esso collegati» (11)), quanto piuttosto la norma interpretativa che ne ha esteso retroattivamente gli effetti a tutti i giudizi pendenti (12). E invece, la Corte di Cassazione punta il dito proprio contro la formulazione della norma, censurandone la conformità al parametro costituzionale della ragionevolezza e della capacità contributiva. Al riguardo, l’iter logico-argomentativo riversato fra le pagine dell’ordinanza manifesta una spiccata determinazione verso la necessaria coerenza fra premesse e conclusioni. Sennonché, non sempre i punti di partenza paiono condivisibili e, conseguentemente, non lo possono essere nemmeno le relative conclusioni, pur dovendosi comunque apprezzare lo sforzo metodologico messo in atto. Ma procediamo con ordine, muovendo gradatamente dalle assunzioni fondamentali poste dalla Corte. Tralasciando le questioni particolari in termini di rilevanza nella decisione posta al vaglio della Corte, sul presupposto della “non manifesta infondatez-

fuori e al di sopra delle labilità dei singoli impulsi di volontà, costituendo quel nodo di rapporti organizzativi, funzioni, valori in cui l’istituzione consiste, quel nodo che viene ad assumere una realtà autonoma con una sua vita stabile all’interno dell’esperienza sociale» (cfr. P. Grossi, Prima lezione di diritto, Bari, 2010, 30). Cfr. rispetto allo specifico tema dell’art. 20 del TUR, v. G. Fransoni, L’elusione e la qualificazione degli atti negoziali ai sensi dell’art. 20 t.u.r. fra le vane speranze e il van dolore del contribuente, in Riv. dir. trib. on line del 15 febbraio 2018. (11) Cfr. art. 1, comma 87, della Legge 27 dicembre 2017, n. 205. (12) V. art. 1, comma 1084, l. n. 145/2018. Sui dubbi di legittimità costituzionale della norma di interpretazione autentica, vedansi G. Tabet, Interpretativa di secondo livello e incostituzionalità della disciplina di risulta?, ult. op. cit.; sulla norma de qua anche A. Carinci, Parola fine sulla natura interpretativa della modifica apportata all’art. 20 t.u.r. dalla legge di bilancio 2018 (?), in Fisco, 2019, 4, 335 ss..


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za”, si ritiene che il nuovo art. 20 TUR presenterebbe «consistenti dubbi di incompatibilità» in relazione agli artt. 3 e 53 Cost.. La ricostruzione della disciplina in materia di imposta di registro appare imprescindibile. E difatti, il punto di partenza è l’individuazione del presupposto del tributo de quo. A questo riguardo, si esprime il convincimento che, trattandosi di un’imposta d’atto, esso (presupposto) debba essere individuato nell’atto-documento, quale dato materiale, e nell’atto-negozio, quale concetto nel cui novero si ricomprende anche il collegamento negoziale quale complesso di disposizioni preordinate ed avvinte da un nesso finalistico alla cui stregua si vuole dar luogo ad un regolazione unitaria dell’assetto risultante dagli effetti giuridici prodotti. L’addentellato normativo sulla cui base si giunge a tale (prima) assunzione fondamentale viene ritratto dalle disposizioni dell’art. 1 (ove l’oggetto dell’imposta viene identificato nell’atto sottoposto a registrazione), dell’art. 3 (sulla registrazione dei contratti verbali), dell’art. 21 (sull’autonoma e plurima registrazione delle disposizioni riversate nel corpo di un atto complesso e in rapporto di reciproca indipendenza secondo la loro intrinseca natura), nonché dell’art. 22 (sull’enunciazione di atti non registrati). Se ciò è vero, allora ai fini dell’individuazione del presupposto impositivo sarebbe legittimo investigare la causa concreta (o reale) dell’atto-negozio, essendo il tema qualificatorio attinente ad un profilo che, agli effetti tributari, risulta addirittura sottratto alla sfera dell’autonomia privata (13). Tale concetto (quello della causa concreta) costituirebbe un elemento di raccordo con il dato testuale dell’art. 20 TUR (e, segnatamente, in relazione alla rilevanza della “natura intrinseca” e degli “effetti giuridici” dell’atto), per ciò che consentirebbe di cogliere l’assetto negoziale complessivo secondo lo scopo economico cui è preordinato e, quindi, tenendo conto del sostrato economico in cui si sostanzia il principio capacità contributiva.

(13) In tal senso parrebbe leggersi il punto dell’ordinanza di cui trattasi, là dove si dice che «il recupero di elementi negoziali esterni e collegati all’atto presentato alla registrazione risponde all’esigenza di evidenziare, appunto in attuazione della regola per cui la sostanza vince sulla forma, la causa reale di tale atto, assunta quale criterio ispiratore di un’attività (quella di qualificazione negoziale volta all’emersione della materia imponibile) che, per sua natura, non può essere lasciata alla discrezionalità delle parti contribuenti né a quello che le parti abbiano dichiarato (sulla indisponibilità della qualificazione contrattuale ai fini fiscali: Cass. 2009/2018».


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Su tali basi, dipoi, l’ordinanza ripercorre la casistica che ha interessato la riqualificazione degli atti proprio in ragione del collegamento negoziale (i.e. fattispecie di conferimento di azienda o di immobili; cessioni di aree fabbricabili; operazioni di finanziamento a medio e lungo termine con recesso unilaterale nel contratto di conto corrente con apertura di credito). Assumendo l’esegesi del fatto impositivo nei termini di cui sopra, il criterio di censura costituzionale è presto detto. E difatti, se è vero che il collegamento negoziale è suscettibile di individuare l’atto-negozio (recte: il presupposto di imposta), va da sé che non sarebbe rispondente al principio di ragionevolezza limitare l’indagine al solo attodocumento presentato alla registrazione, escludendo la rilevanza degli indici extra-testuali. Ciò che non consentirebbe di inquadrare la capacità contributiva che l’imposta vuole colpire (ripetesi, quella forza economica che potrebbe emergere anche dal collegamento negoziale alla stregua della causa reale), con la conseguenza che la limitazione dello spettro di indagine ai soli elementi desumibili dall’atto-documento evidenzierebbe un difetto di coerenza interna della struttura dell’imposta rispetto al proprio presupposto giuridicoeconomico. Ciò che avrebbe come «effetto pratico» quello di «sottrarre ad imposizione una tipica manifestazione di capacità contributiva» quale sarebbe giustappunto il collegamento negoziale. Oltre a ciò, si agita un ipotetico vulnus al principio di uguaglianza per il concretizzarsi di un’eventuale difformità di trattamento fiscale a fronte di situazioni manifestanti identica forza economica: come accadrebbe nel caso di cessione unitaria del complesso aziendale oppure nel frazionamento degli atti con multiple e separate vendite di asset. A tali dubbi si contrappongono due “fermi convincimenti” palesati dalla Suprema Corte. Il primo è che la soluzione esegetica riedita non genererebbe alcuna lesione alla libera iniziativa economica e alla libertà negoziale delle parti (art. 41 Cost.), per ciò che la validità e l’efficacia inter partes degli atti-documento interessati non sarebbero intaccati dalla riqualificazione basata sul collegamento negoziale. La seconda “certezza” riguarda il coordinamento dell’art. 20 TUR con la disciplina dell’abuso del diritto (art. 10-bis della l. 212/2000). Al proposito, si escludono interferenze fra gli ambiti applicativi delle due norme per ciò che: a) nei casi di collegamento negoziale mediante operazioni prive di sostanza economica diversa dal mero risparmio, l’Amministrazione finanziaria è


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legittimata a rendere inopponibili gli effetti dell’operazione secondo l’art. 10-bis; b) là dove il collegamento risponda ad «esigenze pratiche sostanziali, nel senso di non deviate né strumentali né unicamente orientate al risparmio di imposta», il collegamento negoziale potrebbe continuare a rilevare ai sensi dell’art. 20 TUR. 3. Suggestioni nel metodo e osservazioni sul merito. – Fermo che tale risulta essere il percorso argomentativo articolato dalla Suprema Corte, non può negarsi che, sotto il profilo meramente metodologico, l’ordinanza presenti il pregio di voler recuperare il parametro della ragionevolezza nel sistema dei tributi (ancorché – come si dirà a breve – sulla base di premesse nient’affatto condivisibili). Tant’è vero che all’esigenza di coerenza interna, logicità e razionalità dell’assetto normativo delle imposte si potrebbe aggiungere altresì un parametro fondato sulla proporzionalità (14). E difatti, il discorso svolto appare suscettibile di ingenerare suggestioni in chi apprezza l’affermazione di una sorta di “utilitarismo sistematico”, secondo cui occorrerebbe mettere a confronto i mezzi predisposti dall’ordinamento con i fini che si intende perseguire, proprio perché il diritto non si risolve in una monade avulsa dagli obiettivi che la politica (il legislatore) vuole realizzare nell’interesse della convivenza civile. In ambito tributario (e, segnatamente, nella disciplina delle singole imposte), tale parametro si risolve nell’esigenza di assicurare che la misura fiscale: a) risulti idonea all’accertamento del presupposto di imposta; b) nonché abbia anche carattere necessario, nel senso che non vi devono essere altri strumenti (alternativi) aventi un minore impatto negativo sulla sfera di libertà dei cittadini/contribuenti.

(14) Sul principio di proporzionalità, vedasi nella dottrina italiana, G. Moschetti, Il principio di proporzionalità come “giusta misura” del potere nell’evoluzione del diritto tributario, Padova, 2017. Nella dottrina tedesca, da cui emerge l’originaria elaborazione del concetto, vedasi da ultimo N. Petersen, Verhältnismäßigkeit als Rationalitätskontrolle: eine rechtsempirische Studie verfassungsgerichtlicher Rechtsprechung zu den Freiheitsgrundrechten, Tübingen, Mohr Siebeck, 2015, là dove si valorizza il ruolo del controllo di legittimità costituzionale nell’apprezzamento dell’operato del legislatore secondo una logica razionale e proporzionale. Per ciò che riguarda più nel dettaglio il ruolo della proporzionalità nel sistema tedesco e segnatamente nel diritto tributario tedesco, vedasi H. Kube, Verhältnismäßigkeit von Steuern und Abgaben, in M. Jestaedt – O. Lepsius, Verhältnismäßigkeit, Tübingen, Mohr Siebeck, 2015, 157-183.


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Sicché, volendo seguire – sia pure per mero esercizio mentale – le assunzioni dell’ordinanza sull’individuazione del presupposto di imposta, sarebbe realmente dubitabile la proporzionalità di una misura che, a fronte di un fattogeneratore da individuare nell’atto-negozio (nel cui novero rientrerebbero anche le fattispecie complesse di collegamento negoziale), restringa lo spettro di indagine dell’Amministrazione finanziaria al solo ambito “cartolare”. Ma lasciando da banda le suggestioni ritraibili da speculazioni di carattere sistematico e/o metodologico in punto di rilevanza della proporzionalità in ambito tributario, le premesse maggiori del sillogismo su cui poggiano i dubbi di legittimità costituzionale destano perplessità. Anzitutto, l’individuazione del presupposto della considerata imposta è un’operazione ermeneutica tutt’altro che di agevole soluzione (15). E invero, le norme richiamate dall’ordinanza non paiono affatto decisive ai fini dell’individuazione del presupposto fondato anche sul collegamento negoziale. A questo proposito non lo è l’art. 1 del TUR riferito all’«oggetto» dell’imposta, in quanto trattasi di una norma di rinvio alla tariffa. Come tale, la norma testé citata sarebbe poco significativa, se non nella parte in cui si afferma la rilevanza della registrazione (obbligatoria o volontaria) degli atti di cui alla ridetta tariffa. Un fuor d’opera appare altresì il richiamo all’art. 3 del TUR sui contratti verbali, riconoscendone l’obbligo di registrazione esclusivamente rispetto a fattispecie eccezionali (quali la locazione o l’affitto di immobili oppure la costituzione o il trasferimento o l’affitto di aziende, ivi comprese le relative vicende contrattuali successive) e, comunque, anche in siffatte ipotesi, la denuncia (da redigersi secondo i modelli predisposti in duplice originale) «assume la qualità di atto» (art. 12, co. 3 del TUR) (16). Analogo discorso può essere

(15) Tali asperità emergono chiaramente in G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, Padova, 2017, 23-27. Sul punto vedasi anche, G. Fransoni, Il presupposto dell’imposta di registro fra tradizione ed evoluzione, in Rass. Trib., 5, 2013, 955, il quale evidenzia come l’individuazione del presupposto sia resa difficoltosa dai numerosi rinvii esistenti nel tessuto normativo di cui trattasi (primo fra tutti, quello operato dall’art. 1 del TUR alla tariffa e agli ulteriori articoli al fine di stabilire gli atti soggetti a registrazione e quelli volontariamente registrabili). Inoltre, l’assetto normativo è rimasto pressocché identico nel tempo, pur a fronte di mutamenti che hanno interessato il complessivo contesto giuridico ed economico. (16) Al riguardo, occorre rammentare che, secondo Autorevole dottrina, tale indice normativo imporrebbe di ricondurre nel concetto di atto rilevante ai fini dell’imposta di registro non solo quelli aventi natura negoziale, amministrativa e giurisdizionale, abbracciando altresì


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rivolto in relazione a tutti gli altri contratti verbali, i quali vengono in rilievo solo a fronte di enunciazione (art. 22 del TUR). Proprio su tale profilo, l’evocazione dell’art. 22 del TUR varrebbe in senso contrario alla tesi che si dovrebbe dimostrare (ripetesi, la rilevanza del collegamento ai fini del presupposto impositivo). E difatti, il meccanismo dell’enunciazione evidenzia la necessità di cristallizzazione in un supporto – quale entità fisica (avente funzione rappresentativa attraverso il linguaggio (17)) o dematerializzata nelle forme proprie del documento informativo (18) – ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro. Il che depone – come anticipato – in favore del carattere eccezionale della registrazione di (alcuni) contratti verbali (art. 3, comma 2 del TUR) e risulta quale ulteriore conferma della tesi dottrinale che vuole una considerazione isolata dell’atto: e infatti, se è vero che le disposizioni enunciate (contenuto) assumono autonoma rilevanza rispetto alle disposizioni dell’atto enunciante (contenente ed ulteriore contenuto), va da sé che, pur a fronte di un collegamento negoziale, l’imposta di registro non verrebbe comunque applicata secondo una ricostruzione unitaria della vicenda contrattuale complessiva (19).

le manifestazioni di volontà non scritte (seppur riferite alle surricordate fattispecie tipizzate dall’art. 3 del TUR). In tal senso, leggesi N. Dolfin, L’imposta di registro, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario – Parte speciale, XII, Padova, 2018, 989, là dove si intravede il presupposto dell’imposta di registro nella «sostanza giuridica» dell’atto, «anche se quest’ultima viene assunta come indicativa di una sottostante vicenda economica, che giustifica il tributo sul piano costituzionale». (17) Secondo la nota definizione di F. Carnelutti, Documento (teoria moderna), in NN.D.L,VI, Torino, 1960, 86 ss. (18) Sul punto si rammenta il d.lgs. 7 marzo 2005 n. 82 (c.d. Codice dell’Amministrazione digitale), entrato in vigore il 1° gennaio 2006, modificato ed integrato dal d.lgs. 30 dicembre 2010 n. 235. L’art. 20 del ridetto codice precisa che «il documento informatico soddisfa il requisito della forma scritta e ha l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del Codice civile quando vi è apposta una firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata o, comunque, è formato, previa identificazione informatica del suo autore, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall’AgID ai sensi dell’articolo 71 con modalità tali da garantire la sicurezza, integrità e immodificabilità del documento e, in maniera manifesta e inequivoca, la sua riconducibilità all’autore. In tutti gli altri casi, l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità. La data e l’ora di formazione del documento informatico sono opponibili ai terzi se apposte in conformità alle Linee guida». (19) In tal senso vedasi, G. Fransoni, Il presupposto dell’imposta di registro fra tradizione ed evoluzione, ult. op. cit., 966; G. Fransoni, Oggetto dell’imposta - Commento all’art. 1 del D.P.R. n. 131 del 1986, in Codice Delle Leggi Tributarie, a cura di G. Mariconda,


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Quanto poi alla disposizione concernente gli atti aventi plurime disposizioni (art. 21 del TUR), essa non pare deporre a favore dell’imposizione del collegamento negoziale, risultando, anzi e semmai, confermativa della tesi esattamente opposta. E difatti, a fronte di plurime disposizioni – le quali non sono in rapporto di reciproca implicazione secondo un’interpretazione giuridica dei loro effetti (i.e. «secondo la loro intrinseca natura») – viene mantenuta l’autonomia impositiva secondo una fictio iuris, dovendosi considerare il supporto documentale (seppur fisicamente unitario) come distinto per ciascuna disposizione. Sicché, quand’anche tali plurime disposizioni recate dal medesimo atto-documento fossero avvinte da un nesso funzionale (ossia dal perseguimento di un fine comune) che dà luogo ad mero collegamento tra disposizioni negoziali aventi causa autonoma (20), il trattamento impositivo dovrebbe fondarsi su un’autonoma considerazione degli effetti giuridici. Sicché, a fortiori, tale identico ragionamento deve essere replicato ove molteplici disposizioni (pur collegate) siano riversate in plurimi supporti documentali separati, con distinta rilevanza ai fini dell’imposta di registro. Tant’è vero che, nella ipotesi opposta alla precedente (art. 21, co. 2 del TUR) e cioè là dove ricorra un rapporto di vicendevole implicazione fra disposizioni (nel qual caso si tassa la disposizione più onerosa), la fattispecie de qua impone di aver riguardo esclusivamente a «disposizioni contenute nell’atto» e, quindi, ove ricorra l’unicità di instrumentum. A ciò occorre aggiungere altresì come l’ordinanza non affronti il tema dell’irrilevanza della nullità e dell’annullabilità dell’atto ai fini della debenza

A. Fedele, V. Mastroiacovo, Torino, 2014. V. anche sul tema dell’enunciazione, Idem, Appunti sull’enunciazione nell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., 2, 2017, 175. (20) Si pensi al caso di contestuali e plurime cessioni di quote (“da parte” e/o “a favore” di plurimi soggetti). In tal caso, secondo la giurisprudenza, «si configura un’ipotesi di mero collegamento tra disposizioni negoziali aventi causa autonoma, non già di atto complesso connotato da un’unica causa; il che è reso evidente dal fatto che la connessione tra le varie disposizioni trova nell’unitarietà dell’atto una contingente modalità attuativa frutto della volontà delle parti, ma non un vincolo di necessità causale». In tal senso vedasi, da ultimo, Cass., sent., 21 giugno 2019, n. 16706. Un’altra fattispecie (rilevante ai fini del discorso quivi svolto) concerne i trasferimenti a soggetti diversi del diritto di proprietà e di usufrutto di un unico bene, quali riversati in unico atto. In siffatta ipotesi sussiste un mero collegamento e non già un atto complesso (avente unità causale), per ciò che non è dato intravedere alcuna necessaria concatenazione di carattere obbiettivo tra la vendita del diritto di nuda proprietà ed il contestuale trasferimento del diritto di usufrutto a due beneficiari diversi, bensì una connessione derivante esclusivamente dalla volontà delle parti, con conseguente autonoma tassazione delle disposizioni costituenti il negozio (cfr. Cass., ord., 23 giugno 2017, n. 15774).


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dell’imposta: anche in presenza di situazioni contrattuali patologiche, la disciplina non dispensa dall’obbligo di registrazione e, quindi, di versamento del tributo (art. 38 del TUR). Il che – come già osservato (21) – non consentirebbe di individuare il presupposto nell’effetto giuridico, per ciò che, se tale tesi fosse corretta, la declaratoria di nullità dovrebbe evidenziare l’inesistenza del presupposto e dell’obbligo di versamento. Invece, si prevede un autonomo diritto di rimborso per la parte eccedente la misura fissa, sol ove l’atto non sia suscettibile di ratifica, convalida o conferma e purché la causa della nullità non sia imputabile alle parti. Ciò dovrebbe far pensare ad una rilevanza dell’atto sottoposto a registrazione nella potenziale attitudine a generare effetti giuridici e, quindi, a prescindere dalla loro concreta produzione. E ancora. Non risulta affatto da escludere l’ipotesi se la registrazione – pur costituendo un adempimento formale – non possa assumere di per sé stessa un ruolo centrale rispetto alla complessiva disciplina dell’imposta fino al punto di assurgere ad elemento co-essenziale ai fini dell’integrazione del presupposto (22). E difatti, a sostegno di tale tesi si potrebbe rimarcare come l’art. 15 del TUR valorizzi la registrazione, in quanto essa – ove sia obbligatoria (in termine fisso) e le parti omettano di farvi richiesta – dev’essere eseguita d’ufficio (secondo la rubrica della norma medesima) e l’imposta è riscossa a fronte di siffatta formalità. Sicché, delle due l’una: o l’atto è stato registrato e, quindi, da quel momento decorrono i termini per la richiesta dell’ulteriore imposta (principale, complementare o suppletiva); oppure l’atto non è stato registrato e, conseguentemente, l’Amministrazione finanziaria deve procedere alla registrazione d’ufficio e alla contestuale liquidazione della relativa imposta. Ciò che condurrebbe a riconoscere la preminenza della registrazione all’interno della vicenda impositiva, dovendosi integrare la formalità omessa e, solo in corrispondenza a tale adempimento, è dato esigere la relativa imposta.

(21) Cfr. G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, ult. op. cit., 25, il quale evidenzia come, nel caso dell’atto nullo, ai fini tributari si realizzerebbe una sorta di “digressione” del negozio a mero fatto giuridico. (22) Cfr. A. Berliri, Le leggi di registro, Milano 1961, 19, secondo cui «il fatto giuridico dal quale nasce l’obbligo di pagare l’imposta di registro non è la stipulazione ma la registrazione di un atto». Su una posizione intermedia si attesta E. Potito, L’ordinamento tributario italiano, Milano, 1978, 480, il quale ritrae il presupposto nel duplice evento: «a) il fatto stesso della formazione dell’atto (ancorché nullo o annullabile), della stipulazione del contratto verbale o del compimento dell’operazione della società od ente estero, per quanto concerne i casi di obbligo di registrazione in termine fisso; b) la richiesta di registrazione dell’atto, negli altri casi».


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Fermi tali dati normativi, non è dato sottacere come anche l’art. 20 del TUR contribuisca alla determinazione del presupposto impositivo. Se nella precedente formulazione si ipotizzava che tale disposizione potesse fornire argomenti in favore di una considerazione unitaria dei complessivi assetti negoziali (23), ad oggi tale norma depone senza alcun dubbio per una soluzione di segno contrario, imponendo una considerazione limitata al supporto documentale presentato in sede di registrazione. Tale norma interpretativa discende da una chiara ed inequivocabile scelta discrezionale del legislatore e, come tale, insindacabile in sede applicativa. E difatti, come precisato nei documenti parlamentari relativi alla Legge di Bilancio per l’anno 2018 e quella per l’anno 2019, il legislatore ha inteso introdurre un chiarimento nel bilanciamento degli interessi quivi in rilievo: il concorso alle pubbliche spese in ragione della capacità contributiva, da un lato, nonché l’interesse alla certezza del diritto e alla tutela dei diritti del contribuente, dall’altro. A questo riguardo, dagli atti parlamentari e dai lavori preparatori (24) emerge l’intento di voler

(23) Cfr. G. Fransoni, Il presupposto dell’imposta di registro fra tradizione ed evoluzione, ult. op. cit., 966, il quale rammenta in chiave storica come le modifica introdotta con l’espresso riferimento agli effetti giuridici (onde rifuggire da qualsiasi tentazione di operare un riqualificazione poggiante sulla valorizzazione di aspetti prettamente economici) non abbia conseguito l’obiettivo di rimuovere ogni fonte di incertezza, con la conseguenza che l’art. 20 del TUR rimaneva la chiave per riconoscere il potere di riqualificazione in chiave unitaria di plurimi atti. (24) Cfr. Dossier del 22 gennaio 2019, Legge di Bilancio 2019 – Legge 30 dicembre 2018, n. 145 Volume III, articolo 1, comma 802 – articolo 19, là dove si osserva che «in sostanza, la legge di bilancio 2018 ha limitato l’attività riqualificatoria dell’amministrazione finanziaria posta in essere sulla base dell’articolo 20 del Testo unico dell’imposta di registro, poiché essa può essere svolta unicamente sulla base degli elementi desumibili dall’atto sottoposto a registrazione, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati. È stata fatta salva la disciplina dell’abuso del diritto contenuta nello statuto dei diritti del contribuente, nell’ambito delle attribuzioni e poteri degli uffici nella determinazione della base imponibile». V. anche la Relazione illustrativa al d.d.l. n. 2960 relativo alla Legge di Bilancio per il 2018, là dove leggesi che «la modifica è volta a dirimere alcuni dubbi interpretativi sorti in merito alla portata applicativa dell’articolo 20 del DPR 26 aprile 1986, n. 131 (TUR), rubricato ‘interpretazione degli atti’. Tali incertezze interpretative sono rese evidenti anche dall’esame delle pronunce della giurisprudenza di legittimità che, in alcune sentenze, ha riconosciuto una valenza antielusiva all’articolo 20 del TUR, mentre in altri arresti, soprattutto in quelli più recenti, ha ritenuto di dover procedere alla riqualificazione delle operazioni poste in essere dai contribuenti, attraverso il perfezionamento di un atto o di una serie di atti, facendo ricorso ai principi sanciti dall’articolo 20 del TUR; secondo tale tesi interpretativa, la riqualificazione può essere operata, dunque, senza dover valutare il carattere elusivo dell’operazione posta in essere dai contribuenti. La norma introdotta è volta, dunque, a definire la portata della previsione di cui all’articolo 20 del TUR, al fine di stabilire che detta disposizione deve essere applicata


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distinguere nettamente il raggio applicativo dell’art. 20 del TUR, quale norma che dovrebbe investire l’Amministrazione finanziaria di un controllo sull’atto-documento (onde evitare che si adotti un nomen iuris difforme rispetto al reale contenuto dell’atto a fronte dell’utilizzo delle ordinarie regole di interpretazione del contratto ai sensi dell’art. 1362 c.c.), da quello dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000 in tema di abuso del diritto, là dove si richiama espressamente la fattispecie del collegamento negoziale ai fini dell’inopponibilità al Fisco dell’operazione (se e in quanto connotata dall’assenza di valide ragioni economiche, nonché dal perseguimento di un vantaggio fiscale indebito). Tale scelta di campo muove molto probabilmente dalla considerazione del possibile vulnus, anzitutto, al valore fondamentale della certezza del diritto e, quindi e in seconda battuta, viene dato rilievo anche all’eventuale restrizione della libertà di iniziativa economica che ne deriverebbe (qui da intendersi anche come sfera di autonomia entro cui i privati possono scegliere le forme atte a regolare i propri interessi). Nell’ordinanza, invece, si adotta una ricerca unidirezionale dei termini del problema, in quanto si liquida la questione con una prospettiva limitata ai rapporti civilistici, escludendone la rilevanza in ragione del mantenimento dell’efficacia inter partes dell’atto contestato. In realtà, avendo riguardo ad un diverso livello (e cioè quello prettamente pubblicistico concernente il rapporto fra lo Stato e l’individuo), il tema attiene giocoforza anche alla libertà di impresa (tutelata dall’art. 41 Cost.), in quanto, nell’adozione delle proprie determinazioni (e, quindi, anche nell’ambito della

per individuare la tassazione da riservare al singolo atto presentato per la registrazione, prescindendo da elementi interpretativi esterni all’atto stesso (ad esempio, i comportamenti assunti dalle parti), nonché dalle disposizioni contenute in altri negozi giuridici “collegati” con quello da registrare. Non rilevano, inoltre, per la corretta tassazione dell’atto, gli interessi oggettivamente e concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte (non potrà, ad esempio, essere assimilata ad una cessione di azienda la cessione totalitaria di quote). È evidente che ove si configuri un vantaggio fiscale che non può essere rilevato mediante l’attività interpretativa di cui all’articolo 20 del TUR, tale vantaggio potrà essere valutato sulla base della sussistenza dei presupposti costitutivi dell’abuso del diritto di cui all’articolo 10-bis della Legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente). In tale sede andrà quindi valutata, anche in materia di imposta di registro, la complessiva operazione posta in essere dal contribuente, considerando, dunque, anche gli elementi estranei al singolo atto prodotto per la registrazione, quali i fatti, gli atti e i contratti ad esso collegati. Con le modalità previste dall’articolo 10bis della Legge 27 luglio 2000, n. 212, potrà essere, quindi, ad esempio, contestato l’abusivo ricorso ad una pluralità di contratti di trasferimento di singoli assets al fine di realizzare una cessione d’azienda».


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sfera dell’autonomia privata), le imprese devono essere messe in condizione di poter prevedere anticipatamente i costi fiscali derivanti dalle operazioni economiche poste in essere (25). In questo senso, la riqualificazione degli atti sottoposti a registrazione in difetto della considerazione del solo supporto documentale acuirebbe le incertezze nell’applicazione della legislazione tributaria (al di là delle ipotesi patologiche di cui all’art. 10-bis cit.) e, conseguentemente, ciò inciderebbe in negativo sull’esatta e preventiva identificazione dei costi fiscali dell’impresa. Sicché, in questa prospettiva, il legislatore ha ragionevolmente orientato il proprio intervento a tutela della libertà di impresa, onde evitare che la spada di Damocle di una riqualificazione dai contorni confusi possa concretare un inatteso ed ulteriore onere a titolo di imposte. E del resto, la soluzione legislativa non può certamente recare una lesione all’interesse generale ad un eguale trattamento impositivo (art. 3 e 53 Cost.), atteso che l’art. 10-bis cit. rimarrebbe (e rimane) a presidio della lotta contro le condotte elusive fondate sul collegamento negoziale. Per tale via, peraltro, è dato soddisfare le esigenze di tutela del contribuente secondo le garanzie prescritte per gli accertamenti di cui all’art. 10-bis (contraddittorio, motivazione specifica e rafforzata, sospensione della riscossione frazionata). Ciò discende dalla portata assorbente della fattispecie dell’art. 10-bis rispetto a qualsiasi aspetto che possa investire contestazioni in termini di elusione o abuso (26). E

(25) Sull’affermazione nell’ordinamento giuridico dello statuto dell’impresa alla stregua della tutela dell’iniziativa economica privata e dei fattori di produzione di cui agli artt. 41 e 42 Cost., cfr. A. Fantozzi - F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Milano, 2019, 2. V. anche S. Muleo, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2016, 41, là dove si vede il problema del legittimo affidamento alla luce dell’esigenza di prevedibilità degli oneri tributari in ossequio alla tutela della libertà di iniziativa economica. Per ciò che concerne più in generale il rapporto fra Fisco e mercato, vedansi F. Gallo, Il diritto e l’economia. Costituzione, cittadini e partecipazione, in Rass. Trib., 2016, 2, 287; M. Luciani, Costituzione, tributi e mercato, in Rass. Trib., 2012, 4, 831. (26) Circa la delimitazione dell’ambito applicativo dell’art. 20 del TUR e dell’art. 10bis Stat. contr. vedasi A. Fantozzi - F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Milano, 2019, 448, secondo cui «l’art. 20 dovrebbe aver assunto una configurazione definitiva, limitata al versante dell’interpretazione, che impone di valutare solo gli effetti giuridici desumibili direttamente dall’atto […]. Nondimeno, in presenza di assetti privi di sostanza economica o preordinati a conseguire un vantaggio fiscale indebito, l’Amm. Fin. potrà comunque avvalersi della disciplina sull’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis […]»; v. anche V. Mastroiacovo, L’abuso del diritto o elusione in materia tributaria: prime note nella prospettiva della funzione notarile, Studio n. 151-2015/T, là dove l’Autrice sottolineava come – all’esito dell’introduzione della disciplina dell’art. 10-bis – la giurisprudenza di legittimità avesse spostato il focus dalla natura antielusiva dell’art. 20 sull’effetto concreto cui gli atti plurimi e collegati danno luogo. A


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del resto, la libertà di iniziativa economica (su cui trova un valido fondamento costituzionale anche l’autonomia privata (27)) trova un limite nel divieto dell’abuso di tale diritto, allorquando il contribuente strumentalizzi le forme giuridiche mediante uno scollamento fra l’instrumentum e i reali effetti giuridici risultanti dalla comune intenzione delle parti (28).

questo riguardo, si rimarcava che «tale interpretazione deve essere, a nostro avviso, avversata e arginata fermamente in quanto si fonda sul pericoloso equivoco che l’effetto “concreto” dell’operazione sia rinvenibile a prescindere da una valutazione abusiva dell’operazione stessa, con la conseguenza di consentire una “riqualificazione giuridica” in mancanza delle garanzie sostanziali e procedimentali che il legislatore ha invece inteso introdurre a livello generalizzato con l’art. 10-bis». Individuando la distinzione su altri presupposti (e, segnatamente, sulla valorizzazione del collegamento in seno al sistema dell’imposta di registro, quale imposta di negozio più che di imposta d’atto), G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, ult. op. cit., 180-212, afferma l’autosufficienza dell’art. 20 del TUR nella corretta qualificazione degli effetti giuridici (sulla scorta delle regole esegetiche dell’art. 1362 c.c. e, in specie, in base alla comune intenzione delle parti ritraibile anche dai comportamenti successivi dei contraenti). In quest’ordine di idee, si osserva che «nell’imposta di registro non si riesce a scollare la forma giuridica dalla sostanza economica che viene ritenuta rilevante ai fini impositivi in ossequio al principio di capacità contributiva, in quanto la seconda è rappresentata dalla prima. Tale stretta connessione fra forma e sostanza è peculiare dell’imposta di registro, poiché la tassazione è incentrata sul negozio giuridico che di per se stesso è ritenuto sintomatico di capacità contributiva. Nelle imposte sui redditi e sull’IVA, invece, i fenomeni impositivi assumono una completa autonomia rispetto alla forma giuridica: oggetto di tassazione non è il contratto di compravendita ma gli effetti economici di esso. Qui la sostanza economica ha dignità impositiva autonoma e la forma giuridica tesa a sminuire la prima diventa correttamente inopponibile al Fisco che – ai sensi dell’art. 10-bis – non considera l’architettura giuridica ritenuta abusiva in quanto essa è a sé stante, autonoma ed indipendente dalle reali dinamiche economiche ritenute sintomatiche di capacità contributiva e, dunque, espresse dai presupposti di tali tributi». (27) Sull’ampio tema vedasi per tutti, F. Macario, (voce) Autonomia privata (profili costituzionali), in Enc. dir., Annali, VIII, Milano, 2015, 61. (28) A questo riguardo, si rammenta che, secondo una parte della dottrina, il fondamento del divieto dell’abuso del diritto non dovrebbe essere ricavato dal principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), sibbene dalla tutela della libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.), per ciò che la norma testé citata, «dopo aver proclamato che l’iniziativa economica privata è libera, essa assurgendo ad oggetto di un vero e proprio diritto, vi appone tuttavia un limite stabilendo che essa non può svolgersi, tra l’altro, in contrasto con l’utilità sociale». Pertanto, posto che le entrate tributarie sono «strumento essenziale affinché l’ente impositore possa svolgere le funzioni istituzionali ad esso assegnate nell’interesse della collettività», «emerge all’evidenza che il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito (costituente in ultima analisi […] il fulcro contenutistico dell’abuso del diritto), si ponga in antitesi con quell’utilità sociale individuata dall’art. 41 Cost. quale limite invalicabile in sede di svolgimento dell’attività economica dei privati». In tal senso, leggesi P. Russo, Profili storici e sistematici in tema di elusione ed abuso del diritto in materia tributaria: spunti critici e ricostruttivi, ult. op. cit..


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Alla scelta di misura voluta dal legislatore l’ordinanza contrappone una soluzione che non appare conforme al principio di proporzionalità, in quanto immagina una duplicazione di mezzi in relazione al medesimo fine, ossia rispetto all’accertamento del collegamento negoziale. E difatti, si pretende di riconoscere in capo all’Amministrazione finanziaria un potere di accertamento sia in relazione alle fattispecie di collegamento negoziale “elusive” (in base all’art. 10-bis cit.), sia in relazione a quelle fattispecie prive dei connotati dell’abuso (secondo l’art. 20 del TUR). Una ricostruzione di tal fatta non poggia su solide premesse per le surrichiamate ragioni concernenti i dubbi sull’esatta identificazione del presupposto impositivo. Né risulta coerente con una valutazione in termini di “necessità” dello strumento riservato all’Amministrazione finanziaria, atteso che – secondo il sistema attuale – le ipotesi di collegamento negoziale (risultante da atti plurimi) suscettibili di venire in rilievo concernono quello privo di sostanza economica e rivolto essenzialmente al conseguimento di vantaggi fiscali indebiti. Ma a ben vedere la posizione assunta dalla Corte di Cassazione sembra essere condizionata più dal convincimento dell’esistenza di una lacuna (ideologica), piuttosto che da un autentico vulnus nella struttura della singola imposta. Questa percezione emerge nella parte dell’ordinanza in cui si afferma che «l’esenzione del collegamento negoziale dall’opera di qualificazione giuridica dell’atto produce l’effetto pratico di sottrarre ad imposizione una tipica manifestazione di capacità contributiva». A questo riguardo, si rimarca altresì che tale principio impone un «collegamento tra prestazione imposta e presupposti economici presi in considerazione, in termini di forza e consistenza economica dei contribuente». Ciò è vero, ma qui il tema si sposta sull’individuazione del presupposto di impositivo. È il fatto generatore dell’obbligazione a dover esprimere forza economica, ma occorre che quel fatto sia esattamente determinato alla luce del sistema. Operazione questa che – come evidenziato da più parti – risulta tutt’altro che agevole. Tuttavia, è anche vero che in difetto di una delimitazione in questo senso si darebbe l’ingresso ad un’interpretazione della capacità contributiva basata su valutazioni meramente soggettive e, come tali, contrarie al principio di legalità, proprio perché si tratterebbe di un’indebita invasione del c.d. margin of appreciation che dev’essere riservato in capo al legislatore nella scelta (giustappunto, discrezionale) dei presupposti impositivi. Il che, dipoi, pone il dubbio se una tesi siffatta non sia suscettibile di ridare linfa vitale ad una considerazione economica degli atti collegati (oltre i


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limiti della rilevanza tracciata dall’art. 10-bis) dietro il simulacro della causa concreta. Se così fosse, l’operazione sarebbe chiaramente antistorica, tenuto conto dell’evoluzione che ha interessato la disciplina in materia di imposte d’atto (29). E difatti, non si può fare a meno di rimarcare che l’art. 20 del TUR (nella formulazione precedente alla recente riforma) ricalcava l’art. 19 del d.P.R. n. 634/1973 nel riferimento ai soli effetti giuridici (30). La formula impiegata in quella sede discendeva da una specifica scelta di campo del legislatore. E difatti, per il tramite della rimeditazione del testo, si voleva espungere qualsiasi discussione dottrinale circa la natura degli effetti cui occorreva dare rilevanza ai fini dell’esegesi dell’assetto negoziale: l’art. 8 del R.d. n. 3269/1923 aveva condotto ad una riflessione circa la possibilità di considerare gli effetti economici dell’atto (31), presupponendo una contrapposizione fra la forma e la

(29) Cfr. D. Stevanato, Imposta di registro e discrezionalità del legislatore nella progettazione dei tributi, ult. op. cit., là dove si osserva che «il collegamento negoziale e il riferimento alla causa concreta del negozio, che pure in astratto potrebbero assurgere a validi criteri di interpretazione degli atti da assoggettare a registrazione (come nel caso di vendita frazionata dei beni aziendali), vengono in realtà utilizzati, nelle pronunce della Corte, come un espediente argomentativo per mantenere apparentemente nell’ambito degli effetti giuridici – e rispettare così, sulla carta, l’art. 20 – una tassazione che finisce invece per insistere sugli effetti economici». Sul “sostanziale” ritorno agli effetti economici, v. anche da ultimo G. Giusti, La riforma dell’art. 20 del TUR: un’occasione persa?, in Riv. dir. trib., 6, 2019, 45, il quale osserva che «superare la forma giuridica per dare rilievo ad una presunta sostanza economica delle vicende negoziali perché ciò, significa, nella sostanza, legittimare una riedizione delle tesi della Scuola di Pavia che, con fatica, l’evoluzione normativa aveva tentato di superare. Va respinta, pertanto, l’idea che l’apprezzamento del collegamento negoziale che discende dall’impiego del concetto di causa concreta possa consentire, in modo surrettizio, un sindacato sulla sostanza economica dell’operazione». (30) E difatti, nell’art. 19 cit. leggevasi che «le imposte sono applicate secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente». (31) Sul punto, E. Vanoni, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, Padova, 1932, 9 ss.; D. Jarach, Principi per l’applicazione delle tasse di registro, Padova, 1937, 41; B. Griziotti, Il principio della realtà economica sugli artt. 8 e 68 della legge di registro, in Riv. dir. fin., 1939, II, 202. Più nel dettaglio, l’art. 8 del R.d. n. 3269/1923 prevedeva che «le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei trasferimenti, se anche non vi corrisponda il titolo o la forma apparente. Un atto che, per la sua natura e per i suoi effetti, secondo le norme stabilite nell’art. 4, risulti soggetto a tassa progressiva, proporzionale o graduale, ma non si trovi nominativamente indicato nella tariffa, è soggetto della tassa stabilita dalla tariffa per l’atto col quale per la sua natura e per i suoi effetti ha maggiore analogia». Il riferimento agli “effetti” costituiva l’addentellato normativo per ritrarre la rilevanza dell’effetto economico prodotto dagli atti giuridici, valorizzando la somiglianza della disposizione di cui


Dottrina

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sostanza secondo cui la prima si presta tendenzialmente ad essere “sfruttata” in senso strumentale onde poter nascondere la situazione effettiva (32). 4. Conclusioni. – Sicché, tenuto conto dell’equo bilanciamento di interessi operato dal legislatore con la recente riforma, ci si augura che la Corte Costituzionale intervenga definitivamente sul punto, risolvendo una diatriba che si trascina ormai da troppo tempo con tutte le conseguenze che ne derivano a danno delle imprese in termini di incertezza normativa e di imprevedibilità dei costi fiscali delle operazioni realizzate. A questo riguardo, preme rammentare che il Giudice delle Leggi è depositario anche del potere di interpretare autonomamente le disposizioni legislative poste al suo vaglio, non essendo vincolato all’esegesi avanzata

al comma 2 dell’art. 8 cit. con il paragrafo 10 Reichsabgabenordnung (nella versione vigente nel 1934) e con il paragrafo 6 Steueranpassungsgesetz (per un’analisi storica dell’elaborazione dottrinale della Scuola di Pavia, v. G. Falsitta, L’influenza dell’opera di Albert Hensel sulla dottrina tributaristica italiana e le origini dell’interpretazione antielusiva della norma tributaria, in Riv. Dir. Trib., 1, 2007, 569). In particolare, Jaracht aveva teorizzato la prevalenza del gestum economico rispetto al contratto o all’atto giuridico posto dalle parti. Altra parte della dottrina sottolineava come la teoria dell’interpretazione funzionale ponesse dei problemi di conformità con il principio della riserva di legge (art. 23 Cost.). Al riguardo, Berliri rilevava una sorta di “confusione delle lingue” nella conduzione dell’indagine, essendo il legislatore a dover individuare quale capacità contributiva possa essere ritratta da un atto e, quindi, ancorché sia incorso in errore in tale scelta, l’errore non può essere corretto dall’interprete (A. Berliri, Negozi giuridici o negozi economici quale base di applicazione per l’imposta di registro, retro, 1941, 165). Dopo la parola “effetti” il legislatore del 1972 aggiunse l’aggettivo “giuridici” nella disposizione dell’art. 19 del d.P.R. n. 634/1972, mantenendo una formulazione per il resto identica al previgente art 8 del r.d. n. 3269/1923. Con circolare assonime 12 marzo 1973, n. 48, si chiariva che «l’imposta di registro […] permane essenzialmente un’imposta d’atto, cioè un’imposta dovuta, determinata e liquidata in funzione del contenuto di un atto. Tale principio […] risulta ancor più accentuato dal decreto 26 ottobre 1972 di quanto non lo fosse nella legge del 1923 […]. Ai fini della determinazione del contenuto dell’atto resta fermo il principio già affermato dall’art. 8 della precedente legge secondo cui si ha riguardo agli effetti del medesimo […] si precisa quindi, per troncare ogni incertezza e recependo una ormai ferma giurisprudenza, che gli effetti che caratterizzano l’atto ai fini dell’imposta di registro sono quelli giuridici e non quelli economici». Detto in altri termini, risultava del tutto pacifico che l’art. 19 del D.P.R. n. 634 del 1972 (e, poi, l’art. 20 del d.P.R. n. 131/1986) esprimessero senza equivoci la scelta legislativa di riaffermare – superando ogni incertezza – che ciò che rileva sono gli effetti giuridici dell’atto e non quelli economici. (32) Sulle perplessità circa siffatta impostazione, vedasi ancora A. Fedele, Assetti negoziali e “forme d’impresa” tra opponibilità simulazione e riqualificazione, in Riv. dir. trib., 12, 2010, 1112.


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dall’Autorità giudiziaria rimettente (ancorché si tratti della Corte Suprema di Cassazione) (33). Ciò posto, si dovrebbe pronosticare l’emissione di una sentenza interpretativa di rigetto della questione di legittimità costituzionale sollevata, se è vero che il collegamento negoziale (risultante da molteplici atti) è suscettibile di assumere rilevanza ai fini dell’imposta di registro sol ove l’adozione di plurimi atti collegati sia rivolto alla realizzazione di operazioni prive di sostanza economica ed essenzialmente rivolte al conseguimento di un indebito vantaggio fiscale (34). Il che dovrebbe comportare la sopravvivenza dell’art. 20 del TUR secondo una lettura (risultante dall’interpretazione dell’attuale formulazione della disposizione) volta a riconoscere la legittimità costituzionale della limitazione dell’attività interpretativa del negozio sulla scorta dei dati testuali ritraibili dal supporto documentale presentato per la registrazione, senza dover investigare le ulteriori risultanze documentali derivanti da altri atti successivi.

Giuseppe Mercuri

(33) Cfr. P. Barile - E. Cheli - S. Grassi, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 2005, p. 214; U. De Siervo, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, 2010, 409-410, il quale tuttavia evidenzia come in realtà il giudice a quo non sia tenuto da alcun vincolo a seguire la soluzione esegetica data dalla Corte Costituzionale, avendo quindi tale interpretazione un valore solo persuasivo nei confronti degli altri giudici. Nello stesso senso R. Bin - G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, Torino, 2014, p. 485, secondo cui il giudice a quo non può insistere nella propria interpretazione originale (altrimenti la riproposizione della medesima questione darebbe luogo ad un’ordinanza inammissibile), con la conseguenza che il giudice o si adegua all’interpretazione proposta dalla Corte oppure deve promuovere un’ulteriore interpretazione conforme a Costituzione e diversamente potrebbe sollevare una nuova questione sulla scorta di una diversa interpretazione della norma ritraibile dalla medesima disposizione interessata dal primo vaglio (senza incorrere così in alcuna preclusione di carattere processuale). (34) Ciò tenuto conto del differente raggio applicativo dell’art. 20 del TUR e dell’art. 10-bis Stat. contr. come sottolineato da V. Mastroiacovo, L’abuso del diritto o elusione in materia tributaria: prime note nella prospettiva della funzione notarile, Studio n. 151-2015/T.


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Cass. Civ., Sez. V Trib., sent. 21 novembre 2019 - 17 settembre 2019, n. 30348 – Pres. Cirillo, Est. Nicastro Consolidato fiscale nazionale – Responsabilità solidale per le sanzioni – Art. 127 TUIR –Accertamento di primo livello alla società consolidata – Accertamento con adesione con pagamento delle sanzioni – Art. 1304 c.c. – Applicabilità – Sussiste – Art. 1292 c.c. – Applicabilità – Sussiste – Effetti automatici sull’accertamento di secondo livello alla società consolidante che intenda avvalersi dell’adesione della consolidata – Sussistono – Effetti automatici sulle sanzioni dovute in solido dalla società consolidante che intenda avvalersi dell’adesione della consolidata – Sussistono – Diniego di adeguamento da parte dell’amministrazione finanziaria – Impugnabilità immediata – Sussiste In materia di consolidato fiscale, laddove la società consolidata abbia definito in sede di adesione l’avviso di accertamento di primo livello (secondo la disciplina vigente fino al 2011), l’amministrazione finanziaria è vincolata ad adeguare agli esiti dell’adesione gli atti di secondo livello (avviso di accertamento e atto di contestazione delle sanzioni) destinati alla società consolidante laddove quest’ultima manifesti la volontà di volersene avvalere. Ciò anche laddove la società consolidante non abbia tempestivamente impugnato gli atti ad essa notificati e non abbia partecipato al procedimento di adesione della consolidante. L’atto con il quale l’amministrazione nega in tutto o in parte tale adeguamento è immediatamente impugnabile di fronte al giudice tributario. (1)

(Omissis) Fatti di causa. –1. Nell’esercizio sociale 2005, la S. s.p.a. partecipava, in qualità di consolidante, a un consolidato fiscale nazionale, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. da 117 a 129, al quale aderiva, in qualità di consolidata, la I. S. s.p.a. (poi incorporata, con effetto dal 1 gennaio 2010, da un’altra società del gruppo, la S.E.S. s.p.a., successivamente, a sua volta, incorporata, con effetto dal 1 gennaio 2012, dalla S. s.p.a.). 2. Il 18 ottobre 2010, l’Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di Nuoro, Ufficio controlli, competente per la società consolidata, notificò alla S.E.S. s.p.a., quale incorportante della consolidata I.S. s.p.a., e alla S. s.p.a., quale consolidante, l’avviso di


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accertamento cosiddetto di primo livello, con il quale, per l’anno 2005, venivano determinati un maggior reddito complessivo netto della società consolidata e una maggiore IRES “teorica” di Euro 69.249,00. Sulla base di tale atto, il 21 dicembre 2010, l’Agenzia delle entrate, Direzione regionale della Lombardia, Ufficio “Grandi contribuenti”, competente per la società consolidante, notificò alle stesse S.E.S. s.p.a., quale incorportante della consolidata I.S. s.p.a., e S. s.p.a., quale consolidante, l’avviso di accertamento cosiddetto di secondo livello, con il quale, per l’anno 2005, veniva determinato il maggior reddito complessivo globale del consolidato, veniva liquidata una maggiore IRES di gruppo di Euro 69.249,00, oltre a interessi e veniva determinata la sanzione amministrativa di Euro 69.249,00. Il 29 dicembre 2010, l’Agenzia delle entrate, Direzione regionale della Lombardia, Ufficio “Grandi contribuenti”, notificò alla S.E.S. s.p.a., quale incorportante della consolidata I.S. s.p.a., un atto di contestazione, con il quale irrogava la sanzione amministrativa di Euro 69.249,00. Nel frattempo, la S.E.S. s.p.a. aveva presentato (secondo la ricorrente, il 14 dicembre 2010, secondo la S. s.p.a., il 16 novembre 2010) istanza di accertamento con adesione per la definizione dell’accertamento di primo livello. Il conseguente procedimento si concluse positivamente con la sottoscrizione, da parte della S.E.S. s.p.a., quale incorportante della consolidata I.S. s.p.a., il 28 febbraio 2011, dell’atto di definizione, con il quale fu determinata una maggiore IRES “teorica” di Euro 25.816,00 (in luogo di Euro 69.249,00). Con riguardo all’accertamento di secondo livello, non fu né attivato il procedimento di accertamento con adesione né proposta impugnazione da parte della S. s.p.a. Con istanza dell’11 aprile 2011, la S. s.p.a. chiese all’Agenzia delle entrate, Direzione regionale della Lombardia, Ufficio “Grandi contribuenti”, di riliquidare l’IRES di gruppo, nonché gli interessi e le sanzioni, “al fine di tener conto della intervenuta definizione dell’accertamento con adesione da parte della società consolidata I.S. s.p.a.”. L’istanza della S. s.p.a. veniva accolta parzialmente, con l’adozione di due provvedimenti. Con un primo provvedimento, concernente l’avviso di accertamento di secondo livello e notificato alla S. s.p.a., l’Ufficio “Grandi contribuenti” della Direzione regionale della Lombardia, ridusse il reddito complessivo globale del consolidato, riliquidò l’IRES di gruppo nella misura di Euro 25.816,00, oltre ai corrispondenti interessi, e rideterminò la sanzione amministrativa in Euro 25.816,00. Con un secondo provvedimento, concernente l’atto di contestazione e notificato sia alla S. s.p.a. che alla S.E.S. s.p.a., quale incorportante della consolidata I.S. s.p.a., lo stesso Ufficio “Grandi contribuenti” della Direzione regionale della Lombardia riduceva la sanzione amministrativa irrogata con il suddetto atto di contestazione a Euro 25.816,00.


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3. Questi ultimi due provvedimenti furono impugnati, con distinti ricorsi, dalla S. s.p.a. e dalla S.E.S. s.p.a. davanti alla Commissione tributaria provinciale di Milano (hinc: “CTP”). Le ricorrenti dedussero l’illegittimità della rideterminazione della sanzione amministrativa nella misura del 100 per cento della riliquidata maggiore IRES di gruppo (ai sensi, deve ritenersi, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, comma 2, nel testo vigente ratione temporis) anzichè nella misura di un quarto del minimo previsto dalla legge – e, quindi, nella misura di Euro 6.454,00 – ai sensi del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, art. 2, comma 5, primo periodo (anch’esso nel testo vigente ratione temporis), stante l’intervenuta definizione in adesione dell’accertamento di primo livello a opera della S.E.S. s.p.a., quale incorportante della consolidata I.S. s.p.a. La CTP, riuniti i ricorsi, li accolse. 4. Avverso tale pronuncia, l’Agenzia delle entrate, Direzione regionale della Lombardia, propose appello alla Commissione tributaria regionale della Lombardia (hinc, anche: “CTR”), che lo rigettò. La CTR ritenne non condivisibile l’assunto dell’Agenzia appellante secondo cui, nell’attività di accertamento relativa alla tassazione di gruppo, gli avvisi di accertamento di primo e di secondo livello sarebbero “indipendenti e autonomi”, con la conseguenza che la definizione in adesione dell’accertamento di primo livello da parte della consolidata “non avrebbe alcun effetto” né sull’accertamento di secondo livello, né sull’imposta di gruppo, né sulla “misura delle sanzioni dovute”. Secondo la CTR, tale tesi, oltre a “non trovare riscontro in alcuna espressa disposizione normativa”, trascurerebbe di considerare sia che “il consolidato fiscale non ha (...) una soggettività tributaria autonoma rispetto alle società che vi partecipano, nè esprime una autonoma capacità contributiva”, sia che, “per effetto del principio di solidarietà”, come già affermato dalla CTP, “basta che una società corrisponda all’erario quanto dovuto a titolo d’imposta e sanzioni per liberare l’altra o altre società dall’obbligazione tributaria vera e propria”. Deponeva, infine, per il rigetto dell’appello anche l’argomento che, “ex art. 127 T.U.I.R., la responsabilità principale nel pagamento della sanzione correlata alla maggiore imposta è della società consolidata, mentre in capo alla consolidante è posta una responsabilità esclusivamente solidale”. 5. Avverso tale sentenza di secondo grado, notificata il 21 giugno 2013, ricorre per cassazione l’Agenzia delle entrate, che affida il proprio ricorso, notificato il 16-17 settembre 2013 e depositato il 27 settembre 2013, a un unico motivo. 6. La S. s.p.a. resiste con controricorso, notificato il 25-26 ottobre 2013. 7. La stessa S. s.p.a. ha depositato una memoria. 8. Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 17 settembre 2019, nella quale il Procuratore generale ha concluso come indicato in epigrafe. Ragioni della decisione. – 1. Con l’unico articolato motivo di ricorso, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 122 e 127, dei principi del procedimento


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di accertamento con adesione di cui al D.Lgs. n. 218 del 1997, e dell’art. 1304 c.c., per avere la CTR reputato, in contrasto con tali disposizioni e principi, che, nel regime del consolidato fiscale nazionale, le vicende tributarie della consolidata successive alla presentazione, da parte della consolidante, della dichiarazione dei redditi del consolidato, e, in particolare, la definizione con adesione dell’accertamento di primo livello da parte della consolidata, incidano automaticamente sulla dichiarazione dei redditi del consolidato e sui rapporti tra la consolidante e il fisco. Più nel dettaglio, la ricorrente asserisce che, dalla complessiva lettura del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 122 e art. 127, comma 1 – là dove, in particolare, pongono in capo alla consolidante l’obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi del consolidato (art. 122) e prevedono la responsabilità della stessa consolidante per la maggiore imposta accertata e per gli interessi relativi, riferita al reddito complessivo globale risultante da tale dichiarazione (art. 127, comma 1, lett. a) – si trarrebbe che, pur non essendo effettivamente configurabile, come affermato dalla CTR, una soggettività autonoma del consolidato, nondimeno “il rapporto tributario conseguente alla presentazione della dichiarazione dei redditi in esame si instaura unicamente tra Fisco e società controllante, con la conseguenza che, nei confronti del primo, e in ordine alla dichiarazione in parola, risponde esclusivamente la seconda”. Ne discenderebbe, quale “ineludibile corollario”, che, “per converso, nessuna incidenza possono avere le successive vicende impositive che attengano alla società controllata, se non nell’ambito dei rapporti tra quest’ultima e la società controllante”. Conclusione che sempre secondo l’Agenzia delle entrate – troverebbe conferma anche nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 127, comma 2, atteso che tale disposizione “disciplina l’ambito di operatività della responsabilità della società controllata nei confronti della società controllante in ordine alla maggiore imposta accertata, ma tace sull’ipotesi inversa, vale a dire sugli effetti che possano conseguire a una modifica in favore della società controllata, con riferimento al reddito di quest’ultima, nei rapporti con la società controllante e in relazione alla dichiarazione di cui all’art. 122”. La ratio del complesso normativo in considerazione sarebbe, del resto, quella di “individuare un soggetto unico di riferimento in ordine al bilancio consolidato, soggetto il quale ne risponde nei confronti del Fisco, al fine di evitare proprio (...) il ripercuotersi in danno sempre del Fisco di possibili ulteriori vicende reddituali e impositive che attengano a una delle società controllate”. La ricorrente ha ulteriormente dedotto che anche la natura di accordo transattivo dell’accertamento con adesione escluderebbe che l’atto di adesione concernente l’accertamento di primo livello nei confronti della consolidata possa “riverberarsi automaticamente”, mentre “sarebbe stato casomai onere della società controllante intervenire nel predetto procedimento in relazione alla dichiarazione dei redditi relativa al bilancio consolidato che aveva presentato”. Da tale prospettiva, la sentenza della CTR si porrebbe altresì in contrasto sia con l’art. 1304 c.c., “essendo evidente che sarebbe stato necessario un atto di adesione tempestivo, e non a termini scaduti (come invece


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avvenne), da parte della controllante alla definizione chiesta dalla controllata”, sia con le norme del D.Lgs. n. 218 del 1997, “falsamente applicate perché qui si trattava di autotutela” (gli atti impugnati essendo stati, infatti, adottati nell’esercizio di tale potere, atteso che la pretesa impositiva nascente dalla dichiarazione dei redditi del consolidato era divenuta ormai definitiva per la mancata tempestiva impugnazione sia dell’avviso di accertamento di secondo livello sia dell’atto di contestazione delle sanzioni, annullati, appunto, parzialmente, in via di autotutela, dagli atti impugnati). Dal che il contrasto della sentenza impugnata anche con il costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità in tema di (non) impugnabilità dei provvedimenti di diniego di annullamento, in via di autotutela, di atti impositivi divenuti definitivi. 2. Vanno anzitutto scrutinate le eccezioni di inammissibilità parziale del motivo di ricorso sollevate dalla controricorrente sull’assunto che, con esso, l’Agenzia delle entrate avrebbe introdotto due questioni nuove, mai prospettate nei gradi di merito, relative alla violazione e falsa applicazione, rispettivamente, dell’art. 1304 c.c. e delle norme del D.Lgs. n. 218 del 1997. Le eccezioni non sono fondate. Costituisce un principio pacifico quello per cui i motivi di ricorso per cassazione “devono attenere al decisum della sentenza impugnata ed a quanto controverso tra le parti ed una questione non esaminata dalla sentenza impugnata deve considerarsi nuova e come tale inammissibile, salvo che questa non sia affetta da vizio di omessa pronuncia per non avere delibato su una questione proposta dalle parti” (Cass., 24 luglio 2013, n. 17957). In questa stessa pronuncia, la Corte ha altresì precisato che “(i) I ricorrente può tuttavia svolgere, in diritto, argomenti nuovi o sviluppare una diversa costruzione giuridica per risolvere una questione già posta, in sintonia con il principio ‘iura novit curia’, purché sempre la prospettazione di nuove questioni di diritto non postuli indagini o accertamenti in fatto non compiuti dal giudice di merito”. Applicando tali principi al caso di specie, va anzitutto constatato che la questione degli effetti della definizione con adesione dell’accertamento di primo livello da parte della consolidata sulla responsabilità nei confronti del fisco della consolidante che non abbia nè partecipato a tale procedimento di accertamento con adesione nè tempestivamente impugnato l’avviso di accertamento di secondo livello attiene certamente – come si è visto – al decisum dell’impugnata sentenza della CTR e a quanto controverso tra le parti. Alla luce di ciò, va affermata la possibilità, per la ricorrente, di dedurre le questioni di diritto se, ai fini della produzione dei predetti effetti, siano necessari: ex art. 1304 c.c., la dichiarazione della consolidante, da rendere anteriormente alla definitività dell’accertamento di secondo livello, di volere profittare della definizione con adesione da parte della consolidata; l’adozione di un provvedimento di annullamento in autotutela dell’accertamento di secondo livello divenuto definitivo, il cui diniego non sarebbe impugnabile. Tale due questioni si fondano, infatti, su elementi di fatto (la definizione con adesione dell’accertamento di primo livello da parte della consolidata, la mancata parte-


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cipazione della consolidante a tale procedimento, la mancata tempestiva impugnazione, da parte della stessa consolidante, dell’avviso di accertamento di secondo livello, la presentazione dell’istanza di riliquidazione dell’IRES di gruppo, nonché degli interessi e delle sanzioni, sempre da parte della consolidante, successivamente all’intervenuta definitività dell’accertamento di secondo livello) già dedotti dinnanzi al giudice di merito e incontestati dalle parti, sicché, con riguardo agli stessi, non sono necessari nuovi accertamenti in fatto. 3. Nel merito, l’unico motivo di ricorso non è fondato. Con lo stesso, è per la prima volta sottoposta all’esame di questa Corte la questione degli effetti della definizione con adesione dell’accertamento di primo livello da parte della consolidata sulla responsabilità nei confronti del fisco – qui, in particolare, per le sanzioni – della consolidante che non abbia né partecipato a tale procedimento di accertamento con adesione (e, quindi, sottoscritto, unitamente alla consolidata, il relativo atto di adesione) né tempestivamente impugnato l’avviso di accertamento di secondo livello, che è divenuto, perciò, definitivo. La questione – che involge delicati aspetti degli istituti del consolidato fiscale nazionale, dell’accertamento con adesione e dell’autotutela tributaria – deve essere scrutinata, ratione temporis, avendo riguardo alla disciplina vigente anteriormente all’inserimento, a opera del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 35 commi 1 e 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 40-bis, e del D.Lgs. n. 218 del 1997, art. 9-bis. Tali due “nuovi” articoli – che, nel dichiarato intento della “(r)azionalizzazione dell’accertamento nei confronti dei soggetti che aderiscono al consolidato nazionale” (così la rubrica del D.L. n. 78 del 2010, art. 35), hanno introdotto, rispettivamente, tra l’altro, l’accertamento “con unico atto” (superando, così, la precedente complessa articolazione dello stesso su due livelli) e la correlativa “adesione unica” – sono infatti applicabili solo a decorrere dal 1 gennaio 2011 (D.L. n. 78 del 2010, art. 35, comma 3). Ciò detto, occorre prendere le mosse dalla disciplina, invocata dalla ricorrente, dettata dal D.P.R. n. 917 del 1986 in tema di obblighi e di responsabilità delle società e degli enti che hanno optato per l’applicazione del regime del consolidato nazionale. Quanto agli obblighi delle società consolidate, lo stesso D.P.R. n. 917 del 1986, art. 121, prevede che, “(p)er effetto dell’esercizio congiunto dell’opzione di cui all’art. 117, ciascuna società controllata, secondo quanto previsto dal decreto di cui all’art. 129, deve: a) compilare il modello della dichiarazione dei redditi al fine di comunicare alla società o ente controllante la determinazione del proprio reddito complessivo, delle ritenute subite, delle detrazioni e dei crediti d’imposta spettanti, compresi quelli compensabili ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, art. 17, e degli acconti autonomamente versati. Al modello deve essere allegato il prospetto di cui all’art. 109, comma 4, lett. b), con le indicazioni richieste relative ai componenti negativi di reddito dedotti; b) fornire alla società controllante i dati relativi ai beni ceduti ed acquistati secondo il regime di neutralità fiscale di cui all’art. 123, specificando la diffe-


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renza residua tra valore di libro e valore fiscale riconosciuto; c) fornire ogni necessaria collaborazione alla società controllante per consentire a quest’ultima l’adempimento degli obblighi che le competono nei confronti dell’Amministrazione finanziaria anche successivamente al periodo di validità dell’opzione”. Quanto agli obblighi della società o ente consolidante, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 122, nel testo vigente ratione temporis (anteriore alla sostituzione operata dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 133, lett. s), stabilisce che “la società o l’ente controllante presenta la dichiarazione dei redditi del consolidato e calcola il reddito complessivo globale apportando alla somma algebrica dei redditi complessivi dei soggetti partecipanti le seguenti variazioni: a) in diminuzione per un importo corrispondente alla quota imponibile dei dividendi distribuiti dalle società controllate di cui all’art. 117, comma 1, anche se provenienti da utili assoggettati a tassazione in esercizi precedenti a quello di inizio dell’opzione; b) in diminuzione o in aumento per effetto della rideterminazione del pro-rata patrimoniale di cui all’art. 97, secondo quanto previsto dallo stesso art., comma 2; c) in diminuzione per un importo corrispondente alla differenza tra il valore di libro e quello fiscale riconosciuto dei beni assoggettati al regime di neutralità di cui all’art. 123”. Pertanto, mentre sulle società consolidate, inclusa la consolidante nella qualità di società partecipante al consolidato, grava l’obbligo di compilare la propria dichiarazione con la determinazione del proprio reddito complessivo netto – ma senza la liquidazione dell’imposta individuale – e di presentarla all’Agenzia delle entrate (come precisato dal D. applicativo Ministro dell’economia e delle finanze 9 giugno 2004, art. 7, e, ora, dall’art. 7 D. 1 marzo 2018, stesso Ministro) e trasmetterla al soggetto consolidante, su quest’ultimo, in tale sua veste, grava l’obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi del consolidato con la determinazione del reddito complessivo globale di esso, mediante il calcolo della somma algebrica dei redditi complessivi netti delle consolidate (quali risultanti dalle loro dichiarazioni) e apportando a tale somma le cosiddette rettifiche di consolidamento di cui all’art. 122, lett. a), b) e c), nonché di liquidare l’unica imposta del consolidato. Risulta dunque evidente il rapporto di dipendenza, quanto meno parziale (stante l’esistenza delle rettifiche di consolidamento), tra la dichiarazione del soggetto consolidante e le dichiarazioni delle società consolidate, atteso che la prima riprende i redditi complessivi netti risultanti dalle seconde per sommarli algebricamente. Quanto alla responsabilità delle società e degli enti che hanno optato per l’applicazione del regime del consolidato nazionale, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 127, dispone che “1. La società o l’ente controllante è responsabile: a) per la maggiore imposta accertata e per gli interessi relativi, riferita al reddito complessivo globale risultante dalla dichiarazione di cui all’art. 122;


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b) per le somme che risultano dovute, con riferimento alla medesima dichiarazione, a seguito dell’attività di controllo prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36-ter, riferita alle dichiarazioni dei redditi propria di ciascun soggetto che partecipa al consolidato e dell’attività di liquidazione di cui all’art. 36-bis del medesimo Decreto; c) per l’adempimento degli obblighi connessi alla determinazione del reddito complessivo globale di cui all’art. 122; d) solidalmente per il pagamento di una somma pari alla sanzione di cui al comma 2, lett. b), irrogata al soggetto che ha commesso la violazione. 2. Ciascuna società controllata che partecipa al consolidato è responsabile: a) solidalmente con l’ente o società controllante per la maggiore imposta accertata e per gli interessi relativi, riferita al reddito complessivo globale risultante dalla dichiarazione di cui all’art. 122, in conseguenza della rettifica operata sul proprio reddito imponibile, e per le somme che risultano dovute, con riferimento alla medesima dichiarazione, a seguito dell’attività di controllo prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36-ter, e dell’attività di liquidazione di cui all’art. 36-bis medesimo D., in conseguenza della rettifica operata sulla propria dichiarazione dei redditi; b) per la sanzione correlata alla maggiore imposta accertata riferita al reddito complessivo globale risultante dalla dichiarazione di cui all’art. 122, in conseguenza della rettifica operata sul proprio reddito imponibile, e alle somme che risultano dovute con riferimento alla medesima dichiarazione, a seguito dell’attività di controllo prevista dall’art. 36-ter D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dell’attività di liquidazione di cui all’art. 36-bis medesimo D., in conseguenza della rettifica operata sulla propria dichiarazione dei redditi; c) per le sanzioni diverse da quelle di cui alla lettera b). 3. (-). 4. L’eventuale rivalsa della società o ente controllante nei confronti delle società controllate perde efficacia qualora il soggetto controllante ometta di trasmettere alla società controllata copia degli atti e dei provvedimenti entro il ventesimo giorno successivo alla notifica ricevuta anche in qualità di domiciliatario secondo quanto previsto dall’art. 119”. L’ora riportato art. 127 prevede dunque sia ipotesi di responsabilità esclusiva sia ipotesi di corresponsabilità in via solidale. Per quanto attiene all’imposta e ai relativi interessi, occorre distinguere i casi in cui il recupero a tassazione dell’imposta di gruppo dipende da errori commessi nella sola dichiarazione dei redditi del consolidato (o dal mancato versamento del tributo da parte del soggetto consolidante) dai casi in cui la rettifica di tale dichiarazione dipende – è una “conseguenza” (art. 127, comma 2, lett. a) – della rettifica della dichiarazione di una società consolidata (operata, secondo quanto stabilisce lo stesso art. 127, comma 2, lett. a, o con le procedure di accertamento di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, o nelle forme di accertamento cosiddetto cartolare di cui agli artt. 36-bis e 36-ter stesso D.).


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Nel primo ordine di casi, poiché il recupero a tassazione è connesso all’inosservanza di obblighi posti a carico del solo soggetto consolidante, il legislatore ha previsto una responsabilità esclusiva di questo (art. 127, comma 1, lett. b, là dove fa riferimento alle somme dovute a seguito della liquidazione automatizzata della dichiarazione del consolidato D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36-bis, stesso comma 1, lett. c). Nel secondo ordine di casi, invece, dell’imposta e degli interessi rispondono, in solido, sia il soggetto consolidante che la società consolidata la rettifica del cui reddito ha costituito il presupposto del recupero a tassazione dell’imposta di gruppo (quanto alla responsabilità del soggetto consolidante: art. 127, comma 1, lett. a e b, quest’ultima lettera là dove fa riferimento alle somme dovute a seguito dell’attività di controllo, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36-ter, delle dichiarazioni delle società consolidate; quanto a queste ultime: art. 127, comma 2, lett. a). Per quanto attiene alle sanzioni – profilo che, come si è visto, viene qui direttamente in rilievo – l’art. 127, comma 2, lett. b), stabilisce la responsabilità della società consolidata, in quanto “soggetto che ha commesso la violazione” (art. 127, comma 1, lett. d), per la sanzione “correlata” alla maggiore imposta di gruppo accertata “in conseguenza” della rettifica della dichiarazione della stessa società (operata, anche qui, o con le procedure di accertamento di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, o nelle forme di accertamento cosiddetto cartolare di cui allo stesso D., artt. 36-bis e 36-ter). L’art. 127, comma 1, lett. d), prevede poi la responsabilità solidale del soggetto consolidante per il pagamento di “una somma pari” a tale sanzione. Tali previsioni dell’art. 127, comma 2, lett. b), e comma 1, lett. d) sono quelle che vengono direttamente in rilievo nella fattispecie in esame. Infine, l’art. 127, comma 2, lett. c), prevede una responsabilità esclusiva della società consolidata “per le sanzioni diverse da quelle di cui alla lett. b)” (quali le sanzioni cosiddette fisse, cioè non correlate alla maggiore imposta di gruppo accertata in conseguenza della rettifica della dichiarazione della stessa consolidata). Alla luce di tale disciplina, emerge, da un lato, che i soggetti che esercitano l’opzione per la tassazione di gruppo mantengono la propria autonomia soggettiva (Cass., 31 luglio 2018, n. 20302 e 21 novembre 2018, n. 30014), in quanto soggetti a obblighi e correlative responsabilità individuali; dall’altro lato, la natura della solidarietà (passiva) tra consolidante e consolidata, che si configura come solidarietà dipendente (secondo l’espressione tradizionale), che riflette il nesso di pregiudizialità-dipendenza: quanto alla responsabilità per l’imposta e i relativi interessi, tra la situazione giuridica della consolidata, che realizza il presupposto d’imposta, e la situazione giudica della consolidante, che risponde dell’obbligazione tributaria; quanto alla responsabilità per le sanzioni, tra la situazione giuridica della consolidata, “che ha commesso la violazione”, e la situazione giuridica della consolidante, che risponde per il pagamento di “una somma pari” alla sanzione irrogata alla consolidata.


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Operata la sintetica ricostruzione che precede, è possibile affrontare la questione degli effetti della definizione con adesione dell’accertamento di primo livello da parte della consolidata sulla responsabilità nei confronti del fisco – qui, in particolare, per le sanzioni – della consolidante che non abbia partecipato a tale procedimento di accertamento con adesione (e, quindi, sottoscritto, unitamente alla consolidata, il relativo atto di adesione) né tempestivamente impugnato l’avviso di accertamento di secondo livello, che è divenuto, perciò, definitivo. In proposito, premesso che “la regolamentazione delle obbligazioni solidali tributarie va tratta, in linea di principio, dalla disciplina delle obbligazioni solidali di diritto comune” (così, per tutte, Cass., Sez. U., 22 giugno 1991, n. 7053), occorre fare qui applicazione, in via analogica, dell’art. 1304 c.c., comma 1, che regola gli effetti della transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido. Questa Corte ha infatti già chiarito che, ai fini di tale applicazione, l’accertamento con adesione “p(uò) essere parificato ad una transazione” (Cass., 10 luglio 2013, n. 17064). Secondo l’art. 1304 c.c., comma 1, “(L)a transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido non produce effetto nei confronti degli altri, se questi non dichiarano di volerne profittare”. Dall’applicazione di tale disciplina, in base alla quale la transazione tra il creditore e uno dei debitori solidali, in via di principio, non ha effetti (né favorevoli né sfavorevoli) nei confronti degli altri, salvo che il condebitore che non ha transatto dichiari di volere profittare della transazione, discende anzitutto l’esclusione di qualsiasi propagazione automatica degli effetti della definizione con adesione dell’accertamento di primo livello da parte della consolidata nei confronti della consolidante che non sia addivenuta alla definizione con l’erario. Dalla stessa disciplina discende peraltro altresì che quest’ultima condebitrice, ancorché rimasta estranea alla definizione con adesione da parte della consolidata, può dichiarare di volere profittare di detta definizione. E una tale dichiarazione – che, come più volte affermato da questa Corte, non richiede particolari requisiti di forma (ex plurimis, Cass., 29 agosto 1995, n. 9101, 29 gennaio 1998, n. 884, 23 febbraio 2005, n. 3747, 25 settembre 2014, n. 20250, 18 giugno 2018, n. 16087) – deve ritenersi essere stata effettuata dalla società ricorrente mediante l’istanza dell’11 aprile 2011, con la quale fu chiesto all’Agenzia delle entrate di riliquidare l’IRES di gruppo, nonché gli interessi e le sanzioni, “al fine di tener conto della intervenuta definizione dell’accertamento con adesione da parte della società consolidata I.S. s.p.a.”. A questo punto, resta da stabilire se alla propagazione degli effetti della definizione con adesione da parte della consolidata nei confronti della consolidante, che della stessa definizione ha dichiarato di volere profittare, si opponga o no la circostanza che tale dichiarazione fu fatta dalla consolidante quando l’avviso di accertamento di secondo livello che le era stato notificato – e che recava anche la determinazione della sanzione – era ormai divenuto definitivo per omessa impugnazione.


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In proposito, va infatti precisato che, poiché nel regime anteriore all’inserimento del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 40-bis (che, come si è detto, ha previsto l’accertamento “con unico atto”), nel consolidato nazionale, la pretesa tributaria si esplicava con una duplicità di avvisi di accertamento, intestati a soggetti diversi (quello di primo livello alla società consolidata e quello di secondo livello alla società o ente consolidante) e finalizzati alla rettifica delle loro rispettive dichiarazioni, ne discende che, nel caso di omessa tempestiva impugnazione, da parte della consolidante, dell’avviso di secondo livello – come è avvenuto nella specie – questo diviene definitivo, a prescindere dal fatto che la società consolidata possa avere impugnato l’accertamento di primo livello o averlo definito con adesione. Ciò detto, si deve anzitutto rilevare che il testo dell’art. 1304 c.c., comma 1, non prevede l’esclusione della sua applicazione quando, nei confronti di chi la invochi, sia intervenuto un accertamento amministrativo non più impugnabile. Diversamente, come è ovvio, dal giudicato, tale atto amministrativo non può, in alcune ipotesi, rimanere insensibile rispetto a successive vicende amministrative che riguardano lo stesso imponibile e le sanzioni correlate all’imposta dovuta in ragione del medesimo. Ciò va affermato, in particolare, nel contesto delle peculiari modalità di attuazione del rapporto obbligatorio d’imposta nel consolidato fiscale nazionale, per l’avviso di accertamento di secondo livello che, ancorché non più impugnabile dalla consolidante, non può non risentire – sempre che la consolidante, beninteso, ai sensi dell’art. 1304 c.c., comma 1, dichiari di volerlo – della definizione con adesione, da parte della consolidata, dell’accertamento di primo livello con il quale è stata operata la rettifica dell’imponibile della consolidata che costituisce il presupposto della determinazione dell’imposta di gruppo e delle sanzioni contenuta nell’accertamento di secondo livello. L’atto di definizione con adesione, in vero, “non ha natura negoziale o transattiva, (...) ma di atto unilaterale, espressione del potere impositivo” dell’amministrazione (Cass., 31 maggio 2018, n. 13907). Ne consegue che la formalizzazione, da parte dell’amministrazione, nella definizione con adesione dell’accertamento di primo livello, del (maggiore) imponibile della consolidata, con la conseguente applicazione delle sanzioni nella misura di un quarto del minimo previsto dalla legge (ai sensi del D.Lgs. n. 218 del 1997, art. 2, comma 5, nel testo vigente ratione temporis), non può non estendere i propri effetti alla consolidante coobbligata dipendente (che dichiari di volerlo), chiamata a rispondere solidalmente dell’obbligazione tributaria che nell’imponibile della consolidata trova il presupposto nonchè per il pagamento di “una somma pari” alla sanzione irrogata alla consolidata in correlazione con la maggiore imposta di gruppo dovuta in conseguenza dello stesso (maggiore) imponibile. Questa soluzione, d’altro canto, risulta coerente con la complessiva disciplina delle obbligazioni solidali, in particolare, con la fondamentale regola, dettata, in ma-


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teria di solidarietà passiva, dall’art. 1292 c.c., secondo cui il singolo debitore, pagando quanto da lui dovuto, libera anche gli altri, atteso che tale norma potrebbe essere elusa ove si consentisse che l’amministrazione finanziaria possa rivolgersi al contribuente condebitore solidale rimasto inerte per ottenere una somma maggiore di quella che, se nel frattempo fosse stata pagata dall’altro condebitore, avrebbe estinto l’intero credito. In relazione a questo aspetto, la medesima soluzione risulta anche conforme al precetto dell’art. 97 Cost., comma 2, oltre che maggiormente coerente ai precetti degli artt. 3 e 53 Cost., evitando che condebitori solidali in relazione a un determinato imponibile e per le sanzioni correlate alla maggiore imposta dovuta in conseguenza dello stesso possano essere chiamati a un pagamento in misura diversa. La soluzione accolta non trova infine ostacolo nella giurisprudenza di questa Corte in tema di impugnabilità dei provvedimenti di diniego (qui, parziale) di annullamento, in via di autotutela, di provvedimenti impositivi divenuti definitivi. Da quanto si è affermato circa l’estensione degli effetti della definizione con adesione dell’accertamento di primo livello, da parte della consolidata, alla consolidante rimasta processualmente inerte che abbia dichiarato di volerlo, discende che l’amministrazione finanziaria, da un lato, avrebbe dovuto adottare un atto vincolato, nel senso, appunto, dell’estensione alla consolidante degli effetti della definizione con adesione dell’accertamento di primo livello; dall’altro lato, che essa potrebbe legittimamente iscrivere a ruolo nei confronti della consolidante solo l’imposta e gli interessi dovuti in conseguenza del (maggior) reddito definito nell’atto di adesione della consolidata e una somma pari alla sanzione, correlata a tale reddito, ridotta, ratione temporis, a un quarto del minimo previsto dalla legge. Poiché l’amministrazione finanziaria ha adottato un atto di parziale diniego del menzionato atto vincolato, confermativo di una volontà impositiva parzialmente illegittima, e procederà, quindi, a iscrivere a ruolo somme maggiori rispetto a quelle sopra indicate e legittimamente dovute dalla società consolidante – in particolare, una somma pari alla sanzione amministrativa del 100 per cento della maggiore imposta dovuta in conseguenza del (maggior) reddito definito nell’atto di adesione della consolidata – la società consolidante potrà opporsi a tale pretesa in sede di impugnazione della pedissequa cartella di pagamento che le verrà notificata (a ciò non ostando, come si è detto, il fatto che essa sia rimasta processualmente inerte nei confronti dell’accertamento di secondo livello). Il riconoscimento della facoltà di impugnare immediatamente il parziale diniego di attività amministrativa vincolata – che, confermando una volontà impositiva parzialmente illegittima, il contribuente ha interesse a contrastare il più tempestivamente possibile – senza costringere quest’ultimo ad attendere la notificazione di un ulteriore atto (la cartella di pagamento), è dunque imposto da evidenti e imprescindibili esigenze di salvaguardia sia del diritto alla tutela giurisdizionale (non trovando ragionevole giustificazione la posticipazione dell’accesso a essa a un momento successivo al sorgere dell’interesse ad agire) sia dello stesso buon andamento della pubblica ammini-


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strazione (consentendo di evitare i costi di una procedura di riscossione illegittima e del conseguente pregiudicato contenzioso). Nessun error in judicando ha dunque commesso la CTR nel ritenere l’estensione degli effetti della definizione con adesione dell’accertamento di primo livello da parte della consolidata sulla responsabilità della consolidante, che di tale adesione aveva dichiarato di volere profittare, nei confronti del fisco – in particolare, per le sanzioni – ancorché la stessa consolidante non avesse né partecipato a tale procedimento di accertamento con adesione né tempestivamente impugnato l’avviso di accertamento di secondo livello, che era divenuto, perciò, definitivo. 4. L’infondatezza dell’unico motivo di ricorso comporta il rigetto dello stesso. 5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., comma 1, e sono liquidate come indicato in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della S. s.p.a., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.935,00, oltre agli accessori di legge e alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento. (Omissis)

(1) La Cassazione chiarisce gli effetti in capo alla controllante della definizione dell’atto di accertamento da parte della controllata nel regime di consolidato fiscale nazionale. Sommario: 1. Il fatto. – 2. Le vicende sottoposte all’attenzione della Corte di cassazio-

ne e le questioni di diritto sostanziale. – 3. La natura della responsabilità per la maggior imposta accertata nel contesto di gruppo. – 4. I profili procedimentali e gli aspetti relativi alle sanzioni. In sede di consolidato fiscale nazionale, la Corte di cassazione ha stabilito che l’accertamento nei confronti della consolidata – e la definizione dello stesso in sede di accertamento con adesione – va valutata quanto alle conseguenze nei confronti dell’accertamento emesso con riferimento alla controllante. Conseguentemente, l’avviso di accertamento emesso nei confronti della controllante va rettificato o annullato anche in autotutela. As far as it concerns the national consolidated accounts, the Italian Supreme Court states that the assessment against the controlled entity – and the composition with the Tax Administration, which followed – has to be taken in account regarding the controlling


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holding corporation. Consequently, the verification notice against the controlling company has to be modified or renounced.

1. Il fatto. – Il fatto oggetto della vicenda decisa con la pronuncia in esame può riassumersi come segue. Nell’esercizio sociale 2005, la S. s.p.a. partecipava, in qualità di consolidante, a un consolidato fiscale nazionale al quale aderiva, in qualità di consolidata, la I.S. s.p.a. (poi incorporata, con effetto dal 1° gennaio 2010, da un’altra società del gruppo, la S.E.S s.p.a., successivamente, a sua volta, incorporata, con effetto dal 1° gennaio 2012, dalla S. s.p.a.). Nel 2010, l’Ufficio competente per la società consolidata, notificò alla S.E.S. s.p.a., quale incorporante della consolidata I.S. s.p.a., e alla S. s.p.a., quale consolidante, l’avviso di accertamento cosiddetto di primo livello con il quale, per l’anno 2005, venivano determinati un maggior reddito complessivo netto della società consolidata e una maggiore IRES “teorica”. Sulla base di tale atto, poco dopo, l’Ufficio competente per la società consolidante, notificò alle stesse S.E.S. s.p.a., quale incorporante della consolidata I.S. s.p.a., e S. s.p.a., quale consolidante, l’avviso di accertamento cosiddetto di secondo livello con il quale, per l’anno 2005, veniva determinato il maggior reddito complessivo globale del consolidato, veniva liquidata una maggiore IRES di gruppo oltre a interessi e veniva determinata la sanzione amministrativa conseguente. Nel frattempo, la S.E.S. s.p.a. aveva presentato istanza di accertamento con adesione per la definizione dell’accertamento di primo livello. Il conseguente procedimento si concluse positivamente con la sottoscrizione, da parte della S.E.S. s.p.a., quale incorporante della consolidata I.S. s.p.a., il 28 febbraio 2011, dell’atto di definizione con il quale fu determinata una conseguente maggiore IRES. Con riguardo all’accertamento di secondo livello, non fu né attivato il procedimento di accertamento con adesione né proposta impugnazione da parte della S. s.p.a. Con istanza dell’Il aprile 2011, la S. s.p.a. chiese all’Agenzia delle entrate, Direzione regionale della Lombardia, Ufficio “Grandi contribuenti”, di riliquidare l’IRES di gruppo, nonché gli interessi e le sanzioni, «al fine di tener conto della intervenuta definizione dell’accertamento con adesione da parte della società consolidata I.S.» s.p.a. L’istanza della S. s.p.a. veniva accolta parzialmente, con l’adozione di due provvedimenti: il primo riguardava l’avviso di accertamento di secondo livello e notificato alla S. s.p.a. e produceva una rettifica del reddito complessivo globale del consolidato, riliquidandosi


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l’IRES di gruppo in diversa misura oltre ai corrispondenti interessi, con conseguente rideterminazione anche della sanzione amministrativa. Il secondo provvedimento riguardava l’atto di contestazione notificato sia alla S. s.p.a. che alla S.E.S. s.p.a., quale incorporante della consolidata I.S. s.p.a.; con esso lo stesso Ufficio “Grandi contribuenti” della Direzione regionale della Lombardia riduceva la sanzione amministrativa irrogata con il suddetto atto di contestazione. Questi ultimi due provvedimenti furono impugnati, con distinti ricorsi, dalla S. s.p.a. e dalla S.E.S. s.p.a. davanti alla Commissione tributaria provinciale di Milano. Le ricorrenti dedussero l’illegittimità della rideterminazione della sanzione amministrativa nella misura del 100 per cento della riliquidata maggiore IRES di gruppo (ai sensi, deve ritenersi, dell’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, nel testo vigente ratione temporis) anziché nella misura di un quarto del minimo previsto dalla legge ai sensi dell’art. 2, comma 5, primo periodo, del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218 (anch’esso nel testo vigente ratione temporis), stante l’intervenuta definizione in adesione dell’accertamento di primo livello a opera della S.E.S s.p.a., quale incorporante della consolidata I.S. s.p.a. Sia la CTP sia la CTR ritennero non condivisibile l’assunto dell’Agenzia appellante secondo cui, nell’attività di accertamento relativa alla tassazione di gruppo, gli avvisi di accertamento di primo e di secondo livello sarebbero «indipendenti e autonomi», con la conseguenza che la definizione in adesione dell’accertamento di primo livello da parte della consolidata «non avrebbe alcun effetto» né sull’accertamento di secondo livello, né sull’imposta di gruppo, né sulla «misura delle sanzioni dovute». Secondo la CTR, tale tesi, oltre a «non trovare riscontro in alcuna espressa disposizione normativa», trascurerebbe di considerare sia che «il consolidato fiscale non ha [...] una soggettività tributaria autonoma rispetto alle società che vi partecipano, né esprime una autonoma capacità contributiva», sia che, «per effetto del principio di solidarietà», come già affermato dalla CTP, «basta che una società corrisponda all’erario quanto dovuto a titolo d’imposta e sanzioni per liberare l’altra o altre società dall’obbligazione tributaria vera e propria». Deponeva, infine, per il rigetto dell’appello anche l’argomento che, «ex art. 127 del d.P.R. n. 917 del 1986 (nel prosieguo anche Tuir), la responsabilità principale nel pagamento della sanzione correlata alla maggiore imposta è della società consolidata, mentre in capo alla consolidante è posta una responsabilità esclusivamente solidale».


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2. Le vicende sottoposte all’attenzione della Corte di cassazione e le questioni di diritto sostanziale. – Il ricorso dell’Agenzia delle Entrate insiste, in particolare, sul disposto di cui al comma 2 dell’art. 127 Tuir atteso che tale disposizione «disciplina l’ambito di operatività della responsabilità della società controllata nei confronti della società controllante in ordine alla maggiore imposta accertata, ma tace sull’ipotesi inversa, vale a dire sugli effetti che possano conseguire a una modifica in favore della società controllata, con riferimento al reddito di quest’ultima, nei rapporti con la società controllante e in relazione alla dichiarazione di cui all’art. 122». La ratio del complesso normativo in considerazione sarebbe, secondo la prospettazione dell’Amministrazione Finanziaria ricorrente in cassazione, quella di «individuare un soggetto unico di riferimento in ordine al bilancio consolidato, soggetto il quale ne risponde nei confronti del Fisco, al fine di evitare proprio [...] il ripercuotersi in danno sempre del Fisco di possibili ulteriori vicende reddituali e impositive che attengano a una delle società controllate». Sinteticamente, quindi, della maggiore imposta accertata nei confronti della controllante risponde la controllante stessa in qualità di soggetto obbligato agli adempimenti per la capacità contributiva collettiva ad essa riferita ai fini del consolidamento (1); se la rettifica però ha origine dal reddito imponibile della controllata, essa diviene titolare di un’obbligazione solidale per la porzione di maggiore imposta riferibile al reddito complessivo globale della Fiscal Unit, ma conseguente a quella rettifica. Comunque, la controllata risponde per la sanzione correlata alla maggiore imposta riferita al reddito globale “in conseguenza della rettifica operata sul proprio reddito imponibile”, mentre la controllante, in tal caso è obbligata in solido al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata alla controllata. La ricorrente ha ulteriormente dedotto che anche la natura di accordo transattivo dell’accertamento con adesione escluderebbe che l’atto di adesione concernente l’accertamento di primo livello nei confronti della consolidata

(1) Sul tema delle responsabilità per le obbligazioni tributarie delle società coinvolte nel consolidato, si leggano P. Russo, I soggetti passivi dell’Ires e la determinazione dell’imponibile, in Riv. dir. trib., 2004, I, 333 e 334; G. Marongiu, La responsabilità per tributi e le sanzioni nel consolidato fiscale nazionale, in Riv. Dir. Trib., 2004, I, 1501; G. Fransoni, Osservazioni in tema di responsabilità e rivalsa nella disciplina del consolidato nazionale, in Riv. dir. trib., I, 2004, 539, con postilla di A. Fantozzi; G. D’Abruzzo, Analisi critica del regime di responsabilità nella disciplina del consolidato fiscale nazionale, in Boll. trib., 2004, 1528.


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possa «riverberarsi automaticamente», mentre «sarebbe stato casomai onere della società controllante intervenire nel predetto procedimento in relazione alla dichiarazione dei redditi relativa al bilancio consolidato che aveva presentato». Da tale prospettiva, la sentenza della CTR si porrebbe altresì in contrasto sia con l’art. 1304 cod. civ., «essendo evidente che sarebbe stato necessario un atto di adesione tempestivo, e non a termini scaduti (come invece avvenne), da parte della controllante alla definizione chiesta dalla controllata», sia con le norme del d.lgs. n. 218 del 1997, «falsamente applicate perché qui si trattava di autotutela» (2). Dal che il contrasto della sentenza impugnata anche con il costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità in tema di (non) impugnabilità dei provvedimenti di diniego di annullamento, in via di autotutela, di atti impositivi divenuti definitivi. Come la Corte stessa rileva in motivazione, “è per la prima volta sottoposta all’esame di questa Corte la questione degli effetti della definizione con adesione dell’accertamento di primo livello da parte della consolidata sulla responsabilità nei confronti del fisco – qui, in particolare, per le sanzioni – della consolidante che non abbia né partecipato a tale procedimento di accertamento con adesione (e, quindi, sottoscritto, unitamente alla consolidata, il relativo atto di adesione) né tempestivamente impugnato l’avviso di accertamento di secondo livello, che è divenuto, perciò, definitivo”. Il quadro normativo di riferimento è articolato sia in merito alle disposizioni in materia di consolidato fiscale nazionale (3), sia quanto all’accerta-

(2) Infatti, gli atti impugnati erano stati adottati nell’esercizio di tale potere atteso che la pretesa impositiva nascente dalla dichiarazione dei redditi del consolidato era divenuta ormai definitiva per effetto della mancata tempestiva impugnazione sia dell’avviso di accertamento di secondo livello, sia dell’atto di contestazione delle sanzioni. (3) La bibliografia in argomento è cospicua. Per riferimenti generali al consolidato nazionale leggasi A. Fantozzi, La disciplina Ires: i rapporti di gruppo, in Riv. Dir. Trib., 2005, I, 489 e ss.; V. Ficari, Gruppo di imprese e consolidato fiscale all’indomani della riforma tributaria, in Rass. Trib., n. 5/2005, 1592 e ss.; M. Miccinesi, Alcune riflessioni in tema di consolidato nazionale, in Giur. Imp., n. 2/2004, 482 e ss.; M. Miccinesi-F. Dami, Il consolidato mondiale nella riforma del sistema fiscale statale, in La nuova imposta sul reddito delle società, a cura di R. Esposito-F. Paparella, Napoli, 2006, 58 ss.; G. Zizzo, Osservazioni in tema di consolidato nazionale, in Riv. dir. trib., 2004, I, 646; D. Stevanato, Il consolidato fiscale, in AA.VV., La tassazione delle società nella riforma fiscale, in Il Sole-24 Ore, Milano, 2003, 9; M. Versiglioni, Indeterminazione e determinabilità della soggettività passiva del “consolidato nazionale”, in Riv. dir. trib., 2005, I, 427 e ss.; A. Marinello, Tassazione consolidata e soggettività tributaria, Siena, 2007, 306 ss.; F. Padovani, Consolidato fiscale nazionale: riflessioni in tema di attuazione del rapporto obbligatorio d’imposta, in Riv. Dir. Trib., 2010, I, 1270 ss. Più di recente, si veda f. Dami, I rapporti di gruppo nel diritto tributario, Milano, 2011; S. Moratti,


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mento con adesione e all’autotutela tributaria applicate nei confronti dei soggetti partecipanti al consolidato in parola. Non rilevano, sul punto i commi 1 e 2 dell’art. 35 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122), l’art. 40-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e l’art. 9-bis del d.lgs. n. 218 del 1997. Tali due “nuovi” articoli – che, nel dichiarato intento della «[r]azionalizzazione dell’accertamento nei confronti dei soggetti che aderiscono al consolidato nazionale» hanno introdotto, rispettivamente, tra l’altro, l’accertamento «con unico atto» (superando, così, la precedente complessa articolazione dello stesso su due livelli) e la correlativa “adesione unica” – sono infatti applicabili solo a decorrere dal 10 gennaio 2011 ai sensi del comma 3 dell’art. 35 del d.l. n. 78 del 2010 (4). Come indica la relazione di accompagnamento, l’intervento legislativo era finalizzato, da un lato, a “migliorare l’efficienza dell’azione amministrativa, dall’altro, a realizzare una migliore tutela del diritto di difesa dei contribuenti sottoposti a controllo nel particolare ambito del consolidato nazionale”. In forza di tale innovazione le rettifiche del reddito complessivo proprio di ciascun soggetto partecipante al consolidato, la determinazione della maggiore imposta e l’irrogazione della sanzione amministrativa, sono effettuate con unico atto, notificato sia alla consolidata, sia alla consolidante. Il pagamento delle somme così determinate estingue pertanto l’obbligazione se effettuato dalla consolidata o dalla consolidante; essa consolidante ha quindi la corrispondente facoltà di chiedere che siano computate in diminuzione dagli imponibili rettificati le perdite del consolidato non utilizzate presentando, entro il termine di proposizione del ricorso, apposita istanza all’ufficio competente. La Corte, nella pronuncia in commento, esamina in primo luogo i profili sostanziali, in tema di obblighi formali prima e quindi in tema di responsabilità delle società e degli enti che hanno optato per l’applicazione del regime del consolidato nazionale.

Il consolidato fiscale nazionale, Torino, 2013; C. Ricci, La tassazione consolidata nell’IRES, Torino, 2015. (4) Il profilo procedimentale derivante dall’esercizio del potere di controllo dell’Amm. Fin. è esaminato, tra gli altri, da L. Salvini, Accertamento, adesione e altre forme di definizione nel consolidamento nazionale, in Corr. Trib., 2010, 3073 ss., e Id., Atto di accertamento unico per la rettifica dei redditi dei soggetti aderenti al consolidato, ivi, 2011, 2824 ss., quest’ultimo riguardante la disciplina successivamente introdotta.


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In forza delle indicazioni degli artt. 121 e 122 del d.P.R. n. 917 del 1986 (in prosieguo anche Tuir) sulle società consolidate, inclusa la consolidante che nondimeno partecipa alla determinazione dell’imposta dovuta dalla Fiscal Unit (5), grava l’obbligo di redigere e presentare la propria dichiarazione con la determinazione del proprio reddito complessivo netto, sia pur senza la liquidazione dell’imposta individuale. In tal senso depone anche il dettato dell’art. 7 del decreto applicativo del Ministro dell’economia e delle finanze 9 giugno 2004 e, ora, dall’art. 7 del decreto dello stesso Ministro del 1 marzo 2018; oltre a ciò ciascuna di esser deve trasmettere detta propria dichiarazione alla consolidante, che è onerata dell’obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi del consolidato con la determinazione del reddito complessivo globale di esso, mediante il calcolo della somma algebrica dei redditi complessivi netti delle consolidate, risultanti dalle loro dichiarazioni, ovviamente apportando a tale somma le cosiddette rettifiche di consolidamento di cui alle lett. a), b) e c) dell’art. 122; infine essa è onerata di liquidare e versare l’unica imposta del consolidato. Alla luce di tali disposizione, sussiste secondo la Corte “il rapporto di dipendenza, quanto meno parziale (stante l’esistenza delle rettifiche di consolidamento), tra la dichiarazione del soggetto consolidante e le dichiarazioni delle società consolidate, atteso che la prima riprende i redditi complessivi netti risultanti dalle seconde per sommarli algebricamente”. 3. La natura della responsabilità per la maggior imposta accertata nel contesto di gruppo. – Risulta necessario in primo luogo indagare il tema della responsabilità delle società e degli enti che hanno optato per l’applicazione

(5) È ben noto che, per la pluralità di soggetti coinvolti, la creazione di un gruppo, mediante una Fiscal Unit, determina il conseguimento di risultati più vantaggiosi rispetto a quelli perseguibili singolarmente. A fronte degli inevitabili vantaggi derivanti dall’appartenenza di una società al gruppo perseguendo c.d. sinergie di gruppo si rilevano, però, notevoli questioni giuridiche, tra cui la soggettività passiva del gruppo. A livello comunitario, esistono diversi modelli di tassazione consolidata riconducibili a tre diverse modalità applicative quali la Fiscal Unity; il Group Contribution; il Group Relief. Il modello accolto in Italia è quello della Fiscal Unity in cui, fermo restando che ciascuna società controllante possiede autonoma soggettività, la Fiscal Unity compenetra gli imponibili delle società controllate, operando la compensazione tra poste positive e negative e nel caso specifico dell’IVA di gruppo tra posizioni creditorie e debitorie. La Fiscal Unity è, infatti, obbligata ad adempiere agli obblighi di determinazione dell’imponibile, liquidazione e versamento del tributo.


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del regime del consolidato nazionale, al fine di identificare di quale genere di responsabilità si tratti. In questo senso, com’è noto, l’art. 127 del Tuir dispone indicazioni sia sul lato della società controllante (comma 1), anche sul piano della rivalsa (comma 4), che a carico di ciascuna controllata partecipante al consolidato. Sotto il profilo generale, la citata forma di responsabilità è stata inquadrata tra quella “solidale dipendente” (6): ciò consegue dal fatto che si tratta di responsabilità “accessoria ed avente funzione di garanzia rispetto all’obbligazione di versamento dell’imposta dovuta dal gruppo, facente carico alla società od ente controllante” (7). Nell’ipotesi di gruppo, quindi, non si atteggiano in modo unitario né il presupposto dell’imposizione reddituale, perché ogni società (controllante o controllata) produce il proprio reddito, né conseguentemente la base imponibile, tant’è che la società controllante dichiara il reddito del gruppo ed esso risulta dalla somma algebrica dell’imponibile proprio e di quelli delle società controllate. La dottrina prevalente concorda nel ritenere che la disciplina in materia di consolidato nazionale configuri una capacità contributiva consolidata di gruppo pur senza assurgere ad una vera e propria attribuzione di autonoma soggettività alla Fiscal Unit: e ciò nonostante le modifiche apportate con la legge 24 dicembre 2007, n. 244, che, com’è noto, ha abrogato le rettifiche di consolidamento (8). In particolare, come è stato efficacemente sintetizzato,

(6) Non è questa la sede opportuna per provare ad inquadrare in poche battute il tema della solidarietà tributaria, le distinte rationes che soddisfa e la partizione generalmente accolta in dottrina tra solidairetà paritetica e dipendente. Senza alcuna pretesa di completezza, tuttavia, occorre richiamare i principali contributi forniti dalla dottrina a partire dalla fondamentale monografia di A. Fantozzi, La solidarietà tributaria, Torino, 1968; Id., La solidarietà tributaria, in A. Amatucci (diretto da), Tratt. di dir. trib., II, Padova, 1994, 453; G.A. Micheli-G. Tremonti, Obbligazioni (dir. trib.), in Enc. del dir., XXIX, Milano, 1979, 444; A. Fedele, La solidarietà tra più soggetti coinvolti nel prelievo, in AA. VV., La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive, III, Milano, 1986, 507; F. Piccaredda, La solidarietà tributaria, Aracne, 2017; M.C. Fregni, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1998, 244; L. Castaldi, Solidarietà tributaria, in Enc. Giur. Treccani, XXIX, Roma, 1993. (7) Si veda M. Leo, Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, 2007, 2224, che richiama, per i principi generali, il contributo di M. Miccinesi, Solidarietà nel diritto tributario, in Dig. Comm., XIV, Torino, 1997, 451. Per la giurisprudenza, invece, si rinvia a Cass., Sez. I, 27 ottobre 1999, n. 12066. (8) In proposito cfr. A. Fantozzi, La disciplina Ires: i rapporti di gruppo, in Riv. Dir. Trib., 2005, I, pagg. 489 e seguenti; V. Ficari, Gruppo di imprese e consolidato fiscale all’indomani della riforma tributaria, in Rass. Trib., n. 5/2005, 1592 e ss.; M. Miccinesi, Alcune


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“la capacità per così dire del gruppo è la stessa capacità contributiva dei singoli sebbene, in ragione del consolidamento, la sua quantificazione subisca o possa subire modificazioni” (9). La solidarietà paritetica, pertanto, è stata esclusa nella fattispecie in esame in quanto il presupposto d’imposta si verifica distintamente e solo autonomamente in capo a ciascuna società controllata come prova, peraltro, l’obbligo di presentare un’autonoma dichiarazione dei redditi. Sotto questo profilo, la scelta del legislatore è da ritenere anche in linea con il principio costituzionale della capacità contributiva essendo pacifico che non sia configurabile la sua violazione ogniqualvolta venga coinvolto nella responsabilità un soggetto che, per quanto estraneo alla realizzazione del presupposto, sia nelle condizioni di poter esercitare concretamente il diritto di rivalsa nei confronti dell’obbligato principale (10). La scelta legislativa ha avuto ovviamente conseguenze sul procedimento di accertamento, soprattutto a seguito della ricordata eliminazione delle rettifiche di consolidamento. Ne è conseguito che l’Amministrazione finan-

riflessioni in tema di consolidato nazionale, in Giur. Imp., n. 2/2004, 482 e ss. Ma si veda anche M. Versiglioni, Indeterminazione e determinabilità della soggettività passiva del “consolidato nazionale”, in Riv. dir. trib., 2005, I, 427 e ss. (9) Così G. Marino, Contributo allo studio dei rapporti di gruppo attraverso le relazioni di controllo, cit., 556, il quale osserva che “è ribadito che il gruppo di imprese non costituisce un soggetto giuridico, ma si aggiunge che esso è un fenomeno di fatto. L’interesse sociale da prendere in considerazione per valutare la sussistenza del conflitto di interessi andrebbe identificato esclusivamente con riferimento all’autonomia soggettiva delle singole società del gruppo”. (10) Per una prospettiva favorevole alla rilevanza fiscale del gruppo si veda V. Ficari, Reddito d’impresa e programma imprenditoriale, cit., 253, mentre sulla meritevolezza dell’interesse di gruppo in forza dell’art. 2497 del Cod. Civ. cfr. E. Marchisio, Il valore del gruppo e il valore nel gruppo. Disciplina civilistica e fiscale negli scambi infragruppo e valore diverso da quello di mercato, in Riv. Dir. Trib., 2014, I, 89. Sulle questioni di teoria generale riferibili ai gruppi, soprattutto sotto il profilo della soggettività e della capacità contributiva, si veda V. Uckmar, Gruppi e disciplina fiscale, in Dir. prat. trib., 1996, 3; F. Gallo, I gruppi d’imprese e il fisco, in Studi in Onore di V. Uckmar, Padova, 1997, 580; A. Giovannini, Gruppo di società e capacità contributiva, in L. Perrone-C. Berliri (a cura di), Diritto tributario e Corte Costituzionale, cit., 213; Id., Personalità dell’imposizione e consolidato nazionale, in Riv. Dir. Trib., 2006, I, 645 ss.; M. Beghin, Il consolidato nazionale, in Imposta sul reddito delle società, opera diretta da Tesauro, Torino, 2007, 557 ss., specie 566 ss.; A. Lovisolo, Gruppo di imprese e imposizione tributaria, Padova, 1985; A. Lovisolo, L’imposizione dei gruppi di società: profili evolutivi, in L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano, a cura di V. Uckmar, Padova, 2000; G. Tabellini, Gruppi di società nel diritto tributario, in Dig. disc. priv., Sez. comm., VI, Torino, 1991, l440.


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ziaria doveva avviare, in modo autonomo, un procedimento di accertamento per ciascuna consolidata e per la consolidante; circostanza questa che, oltre a desumersi dalla formulazione degli artt. 119 e 127 del Tuir, è stata confermata anche dall’art. 17 del ricordato decreto ministeriale. In verità, l’Amministrazione aveva tentato di dare un certo ordine in via di mera interpretazione introducendo un doppio livello di accertamento: il primo a carico delle singole consolidate e il secondo nei confronti della Fiscal Unit. In altri termini, era stato disposto che la rettifica del consolidato fosse in concreto – in forza di un mero modus operandi degli uffici competenti ad esercitare la funzione di controllo – sempre successiva a quella operata in capo alle società consolidate stante il nesso di consequenzialità fra i due livelli. Conseguentemente, in forza di indicazioni operative dell’Agenzia delle Entrate, l’ufficio competente per la consolidante sulla base delle rettifiche operate al primo livello emetteva progressivamente, ai sensi dell’art. 17, comma 3, del D.M. 9 giugno 2004, una serie di atti in rettifica del modello CNM (portante la dichiarazione del gruppo) utilizzando lo strumento dell’accertamento integrativo di cui all’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 e successive modificazioni. Era però evidente che tal modalità operativa, oltre che fondarsi su meri atti interni e prassi operative dell’Erario non riduceva affatto, a priori, il rischio di dover emettere una pluralità di atti relativi alla consolidante. Per evitare tale inconveniente, era stato disposto che l’ufficio competente per la capogruppo, operata una ricognizione su tutte le posizioni relative alle società consolidate, effettuasse, se possibile, un’unica rettifica del reddito complessivo globale ai fini della determinazione della maggiore imposta dovuta, che tenesse conto di “tutte le rettifiche operate in capo alle società consolidate”, limitando così la sequenza accertativa ad un unico accertamento cosiddetto simultaneo. Inoltre, in merito all’accertamento con adesione, con una interpretazione ampiamente estensiva, andando ben al di là delle proprie attribuzioni, l’Agenzia delle Entrate aveva ritenuto – con il provvedimento di prassi recante anche le indicazioni operative sopra richiamate – che la stessa si perfezionasse con la sola sottoscrizione della società consolidante pur salvaguardando la “facoltà della consolidante di intervenire al contraddittorio e sottoscrivere l’atto congiuntamente alla consolidata” (11). L’affermazione, in principio corretta, lascia invero perplessi, in quanto pone una condizione (la ridetta facoltà di intervento) senza dubbio non prevista dalla legge e nel concreto certamente

(11) Cfr. Agenzia delle Entrate, circ. 31 ottobre 2007, n. 60/E, in Il fisco, 2007, 5670.


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penalizzante che potrebbe concretizzare una violazione del diritto di difesa delle controllate, particolarmente evidente in caso di fuoriuscita delle stesse dal gruppo. L’art. 127 Tuir prevede poi in modo anche piuttosto analitico sia ipotesi di responsabilità esclusiva sia ipotesi di corresponsabilità in via solidale (12). Innanzitutto, occorre evidenziare che il principio appena riportato non presenta una valenza di carattere generale ma riguarda soltanto la rettifica della dichiarazione ai fini Ires per cui resta invariata la disciplina con riferimento a tutti gli altri tributi e in particolare, all’Iva. Per quanto attiene all’imposta e ai relativi interessi, occorre distinguere i casi in cui il recupero a tassazione dell’imposta di gruppo dipende da errori commessi nella sola dichiarazione dei redditi del consolidato (o dal mancato versamento del tributo da parte del soggetto consolidante) dai casi in cui la rettifica di tale dichiarazione dipende – è una «conseguenza» (art. 127, comma 2, lett. a) – della rettifica della dichiarazione di una società consolidata (operata, secondo quanto stabilisce lo stesso art. 127, comma 2, lett. a, con le procedure di accertamento di cui all’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 o nelle forme di accertamento di cui agli artt. 36-bis e 36-ter dello stesso decreto). Nel primo ordine di casi, poiché il recupero a tassazione è connesso all’inosservanza di obblighi posti a carico del solo soggetto consolidante, il legislatore ha previsto una responsabilità esclusiva di questo (lett. b del comma 1 dell’art. 127, là dove fa riferimento alle somme dovute a seguito della liquidazione automatizzata della dichiarazione del consolidato ex art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973; lett. c dello stesso comma 1). Nella seconda ipotesi, invece, dell’imposta e degli interessi rispondono, in solido, sia il soggetto consolidante che la società consolidata la rettifica del cui reddito ha costituito il presupposto del recupero a tassazione dell’imposta di gruppo (quanto alla responsabilità del soggetto consolidante: lett. a e b del comma 1 dell’art. 127, quest’ultima lettera là dove fa riferimento alle somme dovute a seguito dell’attività di controllo, ex art. 36-ter del d.P.R. n. 600 del 1973, delle dichiarazioni delle società consolidate; quanto a queste ultime: lett. a del comma 2 dell’art. 127). Per quanto attiene alle sanzioni – profilo che, come si è visto, viene qui direttamente in rilievo – la lett. b) del comma 2 dell’art. 127 stabilisce la re-

(12) Tra i tanti commentari si veda, in particolare, M. Versiglioni, Commento all’art. 127, in G. Tinelli (a cura di), Commentario al testo unico delle imposte sui redditi, Padova, 2009, 1172.


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sponsabilità della società consolidata, in quanto essa – e solo essa – è il «soggetto che ha commesso la violazione» (lett. d del comma 1 dell’art. 127), per la sanzione «correlata» alla maggiore imposta di gruppo accertata «in conseguenza» della rettifica della dichiarazione della stessa società (operata, anche qui, con le procedure di accertamento di cui all’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 o nelle forme di accertamento cosiddetto cartolare di cui agli artt. 36-bis e 36-ter dello stesso decreto). La lett. d) del comma 1 dell’art. 127 prevede poi la responsabilità solidale del soggetto consolidante per il pagamento di «una somma pari» a tale sanzione. Tali previsioni della lett. b) del comma 2 e della lett. d) del comma 1 dell’art. 127 sono quelle che vengono direttamente in rilievo nella fattispecie in esame nella sentenza oggetto del presente commento. Infine, la lett. c) del comma 2 dell’art. 127 prevede una responsabilità esclusiva della società consolidata «per le sanzioni diverse da quelle di cui alla lettera b)» (quali le sanzioni cosiddette fisse, cioè non correlate alla maggiore imposta di gruppo accertata in conseguenza della rettifica della dichiarazione della stessa consolidata). Pertanto, se è vero che i soggetti che esercitano l’opzione per la tassazione di gruppo mantengono la propria autonomia soggettiva (13) in quanto soggetti a obblighi e correlative responsabilità individuali; dall’altro lato, è nondimeno altrettanto vero che la natura della solidarietà passiva tra consolidante e consolidata, che si configura come solidarietà dipendente. E ciò è vero quanto alla responsabilità per l’imposta e i relativi interessi, operando il legame solidale tra la situazione giuridica della consolidata, che realizza il presupposto d’imposta, e la situazione giudica della consolidante, che risponde dell’obbligazione tributaria. In analoghi termini si pone anche la connessa responsabilità per le sanzioni, tra la situazione giuridica della consolidata, «che ha commesso la violazione», e la situazione giuridica della consolidante, che risponde per il pagamento di «una somma pari» alla sanzione irrogata alla consolidata. In tal contesto, la funzione della consolidante come garante per le obbligazioni tributarie nel loro complesso risulta logico riflesso del suo atteggiarsi come “polo di aggregazione” (14). La controllante assume infatti la duplice veste di contribuente-soggetto passivo, per la prestazione corrispondente alla

(13) Sul punto leggasi Cass., 31 luglio 2018, n. 20302 e 21 novembre 2018, n. 30014. (14) L’espressione calzante è di G. Zizzo, Osservazioni in tema di consolidato nazionale, in Riv. dir. trib., 2004, I, 646.


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porzione di capacità contributiva che le compete, e di vero e proprio responsabile di imposta, per la rimanente prestazione che sta a fronte delle ulteriori porzioni di detta capacità che le sono, viceversa, estranee. Ciò, peraltro, ben si concilia con il generale obbligo di corretta amministrazione che grava sulla consolidante in quanto soggetto investito delle funzioni di direzione e coordinamento ex art. 2497 del codice civile (15). Sotto questo profilo, analoghe risultano le ragioni di garanzia sia per le obbligazioni di natura civilistica nei confronti dei terzi, sia per le obbligazioni tributarie nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria. 4. I profili procedimentali e gli aspetti relativi alle sanzioni. – Risolta in tal modo la questione relativa alla responsabilità derivante dalla sussistenza dell’obbligazione tributaria principale, possono esaminarsi i profili derivanti dalla obbligazione tributaria sanzionatoria. La questione posta riguarda, come si è visto, la consolidante che non abbia partecipato al procedimento di accertamento con adesione (e, quindi, sottoscritto, unitamente alla consolidata, il relativo atto di adesione) né tempestivamente impugnato l’avviso di accertamento di secondo livello, che è divenuto, perciò, definitivo. Va premesso che la Corte Suprema ritiene già ricorrere l’ipotesi di litisconsorzio necessario ogni volta che, per effetto della norma tributaria o per l’azione esercitata dall’Amministrazione finanziaria “l’atto impositivo debba

(15) Si tratta delle funzioni che impongono agli amministratori della consolidante, in virtù degli obblighi di direzione e coordinamento, di prestare attenzione anche ad altri aspetti, come quelli che attengono alla “gestione” dei diritti compensativi dei soci di minoranza delle consolidate, esposti a possibili lesioni per effetto dell’accesso alla tassazione consolidata. A tal proposito si rileva che la stessa decisione di aderire alla Fiscal Unit deve essere presa con cognizione di causa se si considera che l’art. 2497-ter del codice civile prevede che “le decisioni delle società soggette ad attività di direzione e coordinamento … debbono essere analiticamente motivate … Di esse viene dato adeguato conto nella relazione di cui all’art. 2428”. Come è stato osservato in dottrina da G. Presti, Il consolidato di gruppo nella nuova imposta sulle società: profili di diritto commerciale, in Tributimpresa, 2004, 57 e ss. da ciò consegue che la decisione di esercitare l’opzione congiunta va assunta “sulla base di una informazione piena ed esauriente da parte della società o dell’ente che esercita l’attività di direzione e di coordinamento sulle sue possibili conseguenze: in primis, dunque, deve essere chiaro ex ante qual è il perimetro fiscalmente rilevante nel quale con l’esercizio dell’opzione la società si va a collocare. La mancanza di un’adeguata informazione e motivazione incide, ai sensi del nuovo art. 2497 del codice civile, sulla responsabilità nei confronti della controllata, dei suoi soci di minoranza e dei suoi creditori”.


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essere o sia unitario, coinvolgendo nella unicità della fattispecie costitutiva dell’obbligazione tributaria una pluralità di soggetti e il ricorso proposto da uno o più degli obbligati abbia ad oggetto non la singola posizione debitoria del ricorrente ma la posizione inscindibilmente comune a tutti i debitori rispetto all’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato” (16). In sostanza, il litisconsorzio necessario scatta per le obbligazioni caratterizzate dalla unicità della fattispecie costitutiva dell’obbligazione e dall’oggetto del ricorso che deve riguardare l’indicata fattispecie costitutiva (17). La Corte invero, senza addentrarsi in questa problematica, ritiene di dover fare applicazione, in via analogica, dell’art. 1304, primo comma, cod. civ., che regola gli effetti della transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido. Questa Corte ha infatti già chiarito che, ai fini di tale applicazione, l’accertamento con adesione «p[uò] essere parificato ad una transazione» (18). Secondo l’art. 1304, primo comma, cod. civ., «la transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido non produce effetto nei confronti degli altri, se questi non dichiarano di volerne profittare». Tale dichiarazione – che, come più volte affermato dalla Corte Suprema, non richiede particolari requisiti di forma (19) – deve ritenersi essere stata effettuata dalla società ricorrente mediante l’istanza dell’ aprile 2011, con la quale fu chiesto all’Agenzia delle entrate di riliquidare l’IRES di gruppo, nonché gli interessi e le sanzioni, «al fine di tener conto della intervenuta definizione dell’accertamento con adesione da parte della società consolidata» s.p.a. È pertanto risolta quindi in senso positivo la questione relativa all’applicazione in via generale ed astratta di tal meccanismo estensivo degli effetti favorevoli della transazione.

(16) Cfr. Cass., SS.UU., 18 gennaio 2007, n. 1052, in Il fisco, n. 6/2007, fascicolo n. 1, pag. 882. In dottrina, per il relativo commento, si veda G. Falsitta, Presupposto unitario plurisoggettivo, giusto riparto e litisconsorzio necessario nella solidarietà passiva tributaria, in Riv. Dir. Trib., 2007, II; 167 e ss.; C. Glendi, Le SS.UU. della Suprema Corte officiano i “funerali” della solidarietà tributaria, in Riv. Giur. Trib., 2007, 189 e ss. (17) Sulle questioni teoriche connesse al tisconsorzio nelle sue diverse configurazioni, tra i tanti, si veda B. Bellè, Il processo tributario con pluralità di parti, Torino, 2002, 89, ove ampi riferimenti di dottrina; M. Travaglione, Le problematiche del litisconsorzio nel processo tributario, Aracne, 2015. (18) In termini, si veda Cass., 10 luglio 2013, n. 17064. (19) Ex plurimis, si leggano Cass., 29 agosto 1995, n. 9101, 29 gennaio 1998, n. 884, 23 febbraio 2005, n. 3747, 25 settembre 2014, n. 20250, 18 giugno 2018, n. 16087.


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La Corte deve poi valutare se l’intervenuta definitività dell’avviso di accertamento di secondo livello in capo alla consolidante (che non lo impugnò) costituisca in concreto elemento preclusivo all’efficacia dell’estensione in parola. Prima dell’introduzione nel sistema dell’art. 40-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, in forza del quale l’accertamento delle maggiori imposte per la consolidata e, di riflesso, per la consolidante viene eseguito «con unico atto»), nel consolidato nazionale, la pretesa tributaria si esplicava con una duplicità di avvisi di accertamento, intestati a soggetti diversi (quello di primo livello alla società consolidata e quello di secondo livello alla società o ente consolidante) e finalizzati alla rettifica delle loro rispettive dichiarazioni. Tal autonomia formale e professa degli atti impositivi faceva sì che nel caso di omessa tempestiva impugnazione, da parte della consolidante, dell’avviso di secondo livello – come è avvenuto nella specie – questo diventava irreparabilmente definitivo, a prescindere dal fatto che la società consolidata potesse avere impugnato l’accertamento di primo livello o averlo definito a seguito del positivo esperimento della procedura di accertamento con adesione. È significativo, dal punto di vista interpretativo, che l’art. 9-bis, d. Lgs. n. 218 del 1997 introdotto anch’esso dal d.l. n. 78 del 31 maggio 2010 già richiamato, riprendendo la logica sottesa alla unicità del provvedimento di rettifica, stabilisca che ad esso procedimento partecipano sia la società consolidante, sia e società consolidate interessate all’accertamento, e che l’atto di adesione, sottoscritto anche da una sola di esse, si perfeziona quando il versamento delle somme dovute per effetto dell’adesione avviene anche ad opera di una soltanto di esse società. La Corte nel suo argomentare sul punto esordisce infatti sottolineando proprio la natura dell’atto di adesione, risultato conclusivo del sub-procedimento amministrativo che ha luogo con l’instaurazione della procedura di accertamento con adesione, che non coincide con la transazione civilistica di cui all’art. 1965 c.c. In particolare, “l’avviso di accertamento di secondo livello …ancorché non più impugnabile dalla consolidante, non può non risentire – sempre che la consolidante, beninteso, ai sensi dell’art. 1304, primo comma, cod. civ., dichiari di volerlo – della definizione con adesione, da parte della consolidata, dell’accertamento di primo livello con il quale è stata operata la rettifica dell’imponibile della consolidata che costituisce il presupposto della determinazione dell’imposta di gruppo e delle sanzioni contenuta nell’accertamento di secondo livello”. Ciò risulta coerente, anzi è conclusione coerentemente


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imposta, con la giurisprudenza più recente e meglio motivata della Corte secondo la quale l’atto di definizione con adesione, invero, «non ha natura negoziale o transattiva, resta atto unilaterale, espressione del potere impositivo dell’amministrazione” (20). Ne consegue che la formalizzazione, da parte dell’amministrazione, nella definizione con adesione dell’accertamento di primo livello, del (maggiore) imponibile della consolidata, con la conseguente applicazione delle sanzioni nella misura di un quarto del minimo previsto dalla legge (ai sensi dell’art. 2, comma 5, del d.lgs. n. 218 del 1997, nel testo vigente ratione temporis), non può non estendere i propri effetti alla consolidante coobbligata dipendente (che dichiari di volerlo), chiamata a rispondere solidalmente dell’obbligazione tributaria che nell’imponibile della consolidata trova il presupposto nonché per il pagamento di «una somma pari» alla sanzione irrogata alla consolidata in correlazione con la maggiore imposta di gruppo dovuta in conseguenza dello stesso (maggiore) imponibile. Questa soluzione, d’altro canto, risulta pure coerente anche con la complessiva disciplina delle obbligazioni solidali, in particolare, con la fondamentale regola, dettata, in materia di solidarietà passiva, dall’art. 1292 cod. civ., ma applicabile senza dubbio anche alle obbligazioni tributarie, secondo cui il singolo debitore, pagando quanto da lui dovuto, libera anche gli altri. È chiaro infatti che tale norma potrebbe essere elusa ove si consentisse che l’amministrazione finanziaria possa rivolgersi al contribuente condebitore solidale rimasto inerte per ottenere una somma maggiore di quella che, se nel frattempo fosse stata pagata dall’altro condebitore, avrebbe estinto l’intero credito. Opportunamente la Corte richiama anche le previsioni costituzionali recate dagli artt. 97, secondo comma, 3 e 53: va infatti evitato che, in relazione a un determinato imponibile e per le sanzioni correlate alla maggiore imposta dovuta, i condebitori solidali possano essere tenuti a subire un pagamento in misura diversa per tal medesimo titolo e ragione. Conclusivamente, quindi, la statuizione della Corte di legittimità è meritevole di essere condivisa; essa pone un punto fermo e adeguatamente bilanciato tra le esigenze di tutela dell’interesse erariale e quelle di garanzia di esercizio del prelievo tributario nel rispetto del principio di capacità contributiva, in un contesto nel quale il difetto di soggettività della Fiscal Unit, connesso con la

(20) Così Cass., 31 maggio 2018, n. 13907.


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

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sua diversa rilevanza ai fini della determinazione del debito tributario, resta tema tutt’altro che definitivamente approfondito e univocamente risolto.

Roberto Succio



Rubrica di diritto penale tributario a cura di Gaetano Ragucci

Bene giuridico e principio di offensività nello specchio del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte Sommario: 1. Premessa: uno sguardo al “bene giuridico” ed al “principio di offensività”

nell’epoca del “formante giurisprudenziale”. – 2. Il bene giuridico nella giurisprudenza penal-tributaria: ovvero, l’offesa che “divora” la tipicità. A) Profili generali. – 3. Continua. B) La sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte nella giurisprudenza: da reato a forma vincolata a reato a forma libera? – 4. Il cerchio si chiude: la rinuncia al disvalore di evento (id est, all’offesa) nel delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte e l’approdo al “diritto penale d’autore”. – 5. L’estensione della c.d. “confisca allargata” al delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte: un ulteriore, irragionevole, cedimento al “diritto penale d’autore”? Nell’attuale momento storico di crisi del principio di legalità, la funzione garantista del “principio di offensività” – vero e proprio baluardo posto a difesa di un “diritto penale del fatto” – tende a cedere spazio all’utilizzo in chiave espansiva del concetto di bene giuridico, al fine di coprire qualsiasi (supposto) vuoto di tutela determinato dalla formulazione delle fattispecie incriminatrici, con ricorso a vere e proprie forme di analogia in malam partem, in tensione con il principio di tassatività, ricavabile dall’art. 25, comma 2, Cost. Il fenomeno è particolarmente evidente nel settore penaltributario, ove la rilevanza del bene che viene in considerazione (l’interesse alla percezione dei tributi, che trova fondamento nell’art. 53 Cost.) ha spesso spinto la giurisprudenza a dilatare lo spettro applicativo delle disposizioni incriminatrici, forzandone la tipicità. Tale processo ha interessato anche la fattispecie di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in relazione alla quale, peraltro, si deve registrare come, ad un orientamento che ha valorizzato in chiave espansiva il concetto di “bene giuridico”, si siano venute accostando pronunce che sono giunte a trascurare anche la dimensione offensiva, con la conseguenza che il disvalore sembra talora concentrarsi sulla qualità del soggetto attivo, cioè di contribuente con un debito superiore a cinquantamila euro. Rimane alla fine l’idea che si punisca non una significativa offesa all’interesse tutelato dalla norma (garanzia patrimoniale), ma un “significativo contribuente”, che arrechi qualsiasi offesa, anche del tutto trascurabile, al bene tutelato: la logica sembra quindi quella di un “diritto penale dell’autore” anziché “del fatto”. In the current historical moment of legality principle crisis, the “principle of offensiveness” guarantee function - a “criminal law of the fact” real wall - gives way to


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the expansive use of the concept of legal property, in order to cover any (supposed) void of protection determined by the formulation of the incriminating cases, with recourse to real forms of analogy in malam partem, against the principle of exhaustivity of criminal offences, deriving from art. 25, paragraph 2, of the Constitution. This fact is particularly evident in the penal sector, where the relevance of the asset that is taken into consideration (the interest in taxes perception, which is based on art. 53 of the Constitution) has often pushed the jurisprudence to dilate the application spectrum of the incriminating provisions, forcing their typicality. This process also involved the case of fraudulent conversion from the taxes payment, in respect of which, moreover, it must be noted that, next to an orientation that has enhanced the concept of “legal good” in an expansive key, pronouncements came up neglecting the offensive dimension, with the consequence that the negative value sometimes seems to concentrate on the quality of the active subject, that is, of a taxpayer with a debt of more than fifty thousand euros. In the end, it appears that is not a “significant offense” against the interest protected by the law (property guarantee) to be punished, but a “significant taxpayer” which causes any offense to the protected asset: the “criminal law of the author” instead of the “ criminal law of the fact”.

1. Premessa: uno sguardo al “bene giuridico” ed al principio “offensività” nell’epoca del “formante giurisprudenziale”. – Il “principio di offensività”, oltre a costituire irrinunciabile baluardo di un diritto penale liberale, appare imposto già da un’esigenza di “razionalità strumentale”, “implicita nella funzione attribuita al diritto penale dal pensiero politico che ha accompagnato la formazione degli Stati moderni”: la fuoriuscita dalla situazione di conflitto permanente tra gli uomini connaturato all’originario stato di natura, attraverso la sottoposizione al potere dello Stato, raffigurato da Hobbes nel Leviatano, non può che accompagnarsi all’uso della forza, giacché solo la minaccia della sanzione può realisticamente assicurare “l’osservanza dei patti e delle leggi da cui dipende una convivenza sicura”; se ne ricava che “nucleo essenziale del diritto penale è (o dovrebbe essere) la criminalizzazione e repressione di fatti offensivi del modello di convivenza che il potere sovrano ha costruito e ha il compito di garantire” (1). Se “a livello più astratto l’idea di offensività (del delitto come offesa) si limita ad evocare la funzione per la quale il diritto penale è generalmente pensato, in un’ottica di mera razionalità strumentale” (2), è noto, però, che

(1) Così D. Pulitanò, Offensività del reato (principio di), in Enc. dir., Annali, VIII, Milano, 2015, 665 s. (2) Cfr. ancora D. Pulitanò, op. cit., 666.


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il principio è stato elaborato e sviluppato nell’ambito del costituzionalismo italiano in funzione di garanzia, quale limite al potere del legislatore. Il principio, nella visione di Bricola, a cui, com’è noto, se ne deve la compiuta elaborazione, nasce, teoricamente, come prescrittivo, in grado cioè di orientare le scelte del legislatore: infatti, come riconosce la stessa Corte Costituzionale, sulla base di tale principio le norme penali devono essere “dirette alla tutela di valori almeno di «rilievo costituzionale», e tali da essere percepite anche in funzione di norme «extrapenali», di civiltà, effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare” (3). In realtà, la capacità del principio di operare in senso critico rispetto alle scelte del legislatore è risultata, alla prova dei fatti, piuttosto modesta. Già nella visione bricoliana la portata precettiva del principio si attenua, non appena si consideri che l’Autore, rendendosi perfettamente conto che la Costituzione non può essere considerata un catalogo chiuso di beni, estende la possibilità di tutela penale ai “beni implicitamente garantiti dalla Costituzione” ed a quelli che, anche se privi di diretta rilevanza costituzionale, siano legati “ad un valore costituzionale da un rapporto di presupposizione necessaria” (4). Il fatto è che la progressiva penetrazione del principio sia in dottrina sia in giurisprudenza si è accompagna ad una sorta di “diluizione” dello stesso, come emerge, in particolare, dall’elaborazione della Corte costituzionale che, “lungi dal far proprio il catalogo chiuso dei beni giuridici, adotta uno schema di giudizio decisamente aperto per controllare la legittimità delle scelte di criminalizzazione”, giacché il modulo di verifica che viene utilizzato è quello del giudizio di “ragionevolezza”, fondato principalmente sui canoni “del corretto bilanciamento tra beni espressi dalla fattispecie, della proporzione tra costi e benefici della tutela, dell’adeguatezza del mezzo allo scopo, della meritevolezza dell’interesse in sé” (5).

(3) Cfr. Corte cost., 24.3.1988, n. 364; in senso analogo, cfr. Corte cost., 25.10.1989, n. 487, secondo cui “il diritto penale tutela interessi, beni e valori giuridici”, e la “normazione penale”, sulla base delle indicazioni della Costituzione, “dovrebbe essere ridotta al minimo indispensabile al raggiungimento (attraverso l’incriminazione di gravi modalità di lesioni di beni costituzionalmente significativi od almeno socialmente rilevanti) delle elementari condizioni del vivere democratico”. (4) Cfr. F. Bricola, voce «Teoria generale del reato», in Noviss. dig. it., vol. XIX, Torino, 1973, 16. (5) Cfr. F. Palazzo, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 369 e 379. Nello stesso senso, si


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Alla prova dei fatti, quindi, “molte delle questioni che la dottrina penalistica ricollega al principio di offensività sono state impostate dalla Corte costituzionale (…) nella forma «ben meno radicale ed assolutista» del principio di ragionevolezza” (6): si abbandona, quindi, quello che può essere definito, il “modello forte di offensività” (7), per adottare un modello, per così, dire soft, con il quale, come è stato osservato, la Corte mira anche “ad allontanare più facilmente da sé la possibile accusa di farsi surrettiziamente legislatore attraverso un sindacato su opzioni politiche che effettivamente non le spetta” (8); e nell’impiego di tale modello soft emerge un chiaro atteggiamento di self-restraint della Corte, che, al di là delle dichiarazioni di principio, appare in concreto ben poco incline a dichiarare l’illegittimità di norme per violazione del principio di offensività/ragionevolezza (9). Ciò non significa, però, che il principio di offensività non abbia operato alcuna significativa influenza sull’ordinamento giuridico: occorre tener conto, infatti, della circostanza che il principio in parola, oltre a svolgere una funzione critica rispetto alle scelte del legislatore, ha una dimensione ermeneutica, ben sottolineata dalla stessa Corte Costituzionale, che, peraltro, in tal modo “finisce per spostare sul potere giudiziario gran parte dell’effettività di un principio che ha invece un’innegabile vocazione ad operare prioritariamente sul piano legislativo” (10). Secondo la “costante giurisprudenza” della Corte costituzionale, infatti, il principio di offensività opera “su due piani distinti. Da un lato, come precetto

è orientata anche la prevalente dottrina, come rileva in chiave critica E. Musco, L’illusione penalistica, Milano, 2004, 67; in tema, cfr. anche V. Manes, Il principio di offensività. Tra codificazione e previsione costituzionale, ne L’Indice pen., 2003, 150 ss. (6) Cfr. D. Pulitanò, Offensività del reato, cit., 679, che richiama V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale, Torino, 2005, 137, il quale sottolinea il “progressivo trasmodare del criterio di offensività nel differente e contiguo paradigma offerto dal criterio di proporzione, presto individuato come unico erede delle prestazioni ragionevolmente attendibili dai principi costituzionali sul piano del controllo delle scelte di criminalizzazione”; in senso critico rispetto a tale processo, cfr. M. Donini, Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, in Diritto penale contemporaneo. Rivista trimestrale, fasc. 4/2013, 18 s.. (7) Cfr. G. Fornasari, Offensività: beni e tecniche di tutela. Offensività e postmodernità. Un binomio inconciliabile? In Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1518. (8) Cfr. G. Fornasari, Offensività, cit., 1531 s. (9) Cfr. M. Donini, Il principio di offensività, cit., 37, il quale rimarca come si tratti di pochissime pronunce, che hanno annullato “norme vetuste o di modesto significato”. (10) Cfr. D. Pulitanò, Offensività del reato, cit., 679.


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rivolto al legislatore, il quale è tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensività «in astratto»). Dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (cosiddetta offensività «in concreto») (sentenze n. 225 del 2008, n. 265 del 2005, n. 519 e n. 263 del 2000)” (11). Proprio muovendo da tale prospettiva, la Corte tende a rigettare le questioni alla stessa proposte, “scaricando” sul giudice il compito di adeguare la fattispecie astratta al criterio di offensività/ragionevolezza: in tal senso, fra le pronunce più recenti, appare particolarmente significativa Corte cost. 11.6.2014, n. 172, che, nel respingere una questione di legittimità per difetto di determinatezza del delitto di cui all’art. 612-bis c.p., conclude ricordando “come spetti al giudice ricostruire e circoscrivere l’area di tipicità della condotta penalmente rilevante sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del principio di offensività, che per giurisprudenza costante” della stessa Corte costituzionale, “costituisce canone interpretativo unanimemente accettato” (12). Se, quindi, il principio di offensività non è riuscito né ad orientare le scelte del legislatore, agendo come “bussola” di una razionale politica criminale, né a svolgere una funzione critica di tale scelte, si deve riconoscere che lo stesso ha dato frutti nella sua “dimensione ermeneutica”: tale dimensione infatti, “attraverso l’interpretazione conforme, là dove possibile e non vietata dalla riserva di legge (…), ha conosciuto enormi sviluppi negli ultimi lustri (…) registrando successi che vanno ben al di là del dato poco significativo della scarsità delle pronunce di accoglimento della Corte costituzionale rispetto alla dimensione legislativa dell’offensività” (13).

(11) Così Corte Cost., 9.3.2016, n. 109. In senso analogo, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. pen., Sez. Unite, 25.2.2016, n. 13681, secondo cui “l’interprete delle norme penali ha l’obbligo di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente offensivi; offensivi in misura apprezzabile”. (12) Per analoghi rilievi sviluppati in relazione al reato di cui all’art. 2, comma 1-bis, d.l. 12.9.1983, nella versione anteriore alla riforma operata dal d.lgs. 15.1.2016, n. 8, cfr. Corte cost., 19.5.2014, n. 139. (13) Cfr. M. Donini, Il principio di offensività, cit. 37; l’incidenza del principio di


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Com’è stato perspicuamente rilevato da attenta dottrina, dal principio di offensività va però tenuto ben distinto il concetto di bene giuridico, pur se quest’ultimo è il necessario presupposto del primo, giacché, com’è intuitivo, non si dà offesa se non vi sia un bene da offendere. Nondimeno, “principio di offensività” e “bene giuridico” non appartengono al medesimo ceppo ideologico, anche se spesso vengono “declinati insieme”: infatti, mentre “il principio di offensività è una declinazione contemporanea del diritto penale del fatto, tradizionalmente contrapposto al diritto penale d’autore” (14) ed “è ideologicamente in funzione della sussidiarietà, dell’ultima ratio e pertanto della restrizione garantista dell’area del penalmente rilevante”, il bene, al contrario, “è utilizzabile sia in chiave espansiva e sia restrittiva” (15), laddove il giudice si lasci vincere dalla tentazione di estendere la tutela del bene anche nei confronti di condotte differenti da quelle tipizzate dal legislatore, colmando così ogni (supposta) lacuna di tutela ed al contempo negando il carattere di frammentarietà che dovrebbe essere il necessario portato del principio di stretta legalità. Potrebbe sembrare che anche in tal caso si sia facendo applicazione del principio di offensività; come è stato esattamente rimarcato, in realtà, non si tratta “di un’autentica declinazione del principio di offensività, ma di quello di tutela dei beni, o delle vittime, che è cosa distinta”: infatti, “il carattere necessariamente lesivo del reato non significa dovere di estendere la protezione ad offese simili o a nuove vittime, realizzando l’opposto del carattere frammentario del diritto penale. Se così fosse l’offensività indurrebbe alla violazione del divieto di analogia, e viceversa i due principi devono precedere in sintonia” (16).

offensività sul piano ermeneutico, spesso attraverso la valorizzazione del disposto di cui all’art. 49 c.p., nella lettura fornita dalla c.d. “concezione realistica del reato”, è rimarcato anche da G. Fornasari, Offensività, cit., 1529 ss. e D. Pulitanò, Offensività del reato, cit., 677 ss. (14) Cfr. M. Donini, Il principio di offensività, cit. 15. (15) Cfr. M. Donini, Il principio di offensività, cit. 6. (16) Cfr. M. Donini, Il principio di offensività, cit. 41; sul punto, l’Autore ritorna in M. Donini, Fattispecie o case law? La prevedibilità del diritto i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Questione Giustizia, fasc. 4/2018, 95, osservando che “c’è un contrasto tra principio di eguaglianza e diritto penale. Poiché il diritto penale è frammentario è anche diseguale. Non punisce ogni danno e ogni offesa, ogni lesione di diritti. A ogni incriminazione, che ritaglia alcune condotte tipiche, ne corrispondono tante altre, parimenti lesive, che il legislatore ha estromesso dal circuito criminale (…) la stessa Corte costituzionale non è autorizzata a introdurre nuove ipotesi incriminatrici per sanare con sentenze manipolative una ritenuta diseguaglianza per omessa incriminazione. A maggior ragione, dunque, non può il


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Orbene, nell’attuale momento storico, la vocazione espansiva del concetto di bene appare particolarmente evidente. La progressiva erosione del principio di legalità - dovuta al concorrere di una pluralità di fattori, fra cui spicca la dilatazione del sistema delle fonti, col passaggio ad un ordinamento multilivello, che coinvolge fonti sovranazionali, imponendo interpretazioni conformi, non solo alla Costituzione, ma anche a norme sovranazionali, a convenzioni (innanzitutto alla CEDU), e alle letture della disciplina sovranazionale fornita dalla Corte EDU e dalla Corte di Giustizia UE (17) – pone in primo piano il ruolo “creativo” del Giudice, confermato dalle moderne acquisizioni dell’ermeneutica di derivazione gadameriana (che rendono il Giudice maggiormente consapevole del proprio ruolo e sempre più “audace”), ed esaltato dalla scarsa autorevolezza del Parlamento, nonché dal modesto livello tecnico della legislazione, sempre bisognosa di letture correttive, che ne garantiscano un’accettabile razionalità: situazione che oggi trova riscontro nella ormai riconosciuta distinzione tra “disposizione”, prodotta dal legislatore, e “norma”, che costituisce il c.d. diritto “in action”, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale (18). La giurisprudenza acquista così un ruolo sostanzialmente creativo analogo a quello del legislatore: dato che trova riconoscimento nella terminologia giuridica, che oggi accosta al “formante legislativo” il “formante giurisprudenziale” (19). In un tale quadro, il Giudice tende a vedersi investito del ruolo di assicurare sempre ed in ogni caso la tutela dei beni, colmando ogni (reale o

singolo giudice, de plano, realizzare un analogo effetto in via meramente ermeneutica, se per l’appunto si tratta di produrre una nuova norma che alla fine imporrebbe di riscrivere la stessa disposizione”. (17) La dilatazione del sistema del fonti “ha generato un processo interpretativo che ha sostituito al primato della legge statale, anche in materia penale, il principio dell’interpretazione conforme, non solo, come ovvio, alla Costituzione, ma anche alla normativa europea e, per questa via, ai pronunciamenti della Corte europea di giustizia e della Corte di Strasburgo”: cfr. M. Ronco, La legalità stratificata, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1397. Sui rapporti, in ambito penale, con il diritto eurounitario, cfr. da ultimo G. Cocco, Il “primato” della riserva di legge parlamentare in materia penale affermato da Core cost. n. 115/2018 e il diritto eurounitario, in Resp. civ. e previdenza, fasc. 4/2019, 1078 ss. (18) Sul tema, cfr., recentemente, M. Donini, Iura et leges. Perché la legge non esiste senza diritto, in www. sistemapenale.it (nonché ne Il Pensiero. Rivista di filosofia, fasc. 2/2019), il quale rimarca la centralità dell’apporto giurisprudenziale, sottolineando, però, che occorre che l’interprete “osservi la regola del gioco: nessun testo normativo nuovo viene scritto dall’interprete, che deve trovare o ricostruire significati potenzialmente precostituiti” (ivi, 23). (19) Cfr. M. Ronco, La legalità stratificata, cit., 1396.


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supposta) lacuna di tutela: il principio di frammentarietà viene quindi vissuto come una sorta di “intralcio alla giustizia” (20) e – come ha rilevato attenta dottrina – si registra il progressivo svilupparsi di “un indirizzo ermeneutico (…) post-gadameriano”, che si risolve “costantemente in un’interpretazione estensiva, se non – in alcuni casi – (analogicamente) additiva dei contenuti del Tipo, le cui maglie selettive vengono sfiancate, con complessivo effetto di ‘de-frammentarizzazione’ del penalmente rilevante” (21) (22). 2. Il bene giuridico nella giurisprudenza penal-tributaria: ovvero, l’offesa che “divora” la tipicità. A) Profili generali. – La sopra tratteggiata “sinergia” tra “crisi” del principio di legalità e utilizzo in chiave “inflattiva” del concetto di bene giuridico, impiegato per ampliare lo spettro di tutela, in funzione di “deframmentazione” del sistema penale e di copertura di ogni (ritenuta) lacuna di tutela, è particolarmente evidente nel settore penale tributario, che anzi costituisce esempio paradigmatico di tale situazione.

(20) Cfr. M. Donini, Il diritto giurisprudenziale penale, in Diritto penale contemporaneo – Rivista, fasc. 3/2016, 22. (21) Cfr. C. E. Paliero, Extrema ratio: una favola raccontata a veglia? In Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1475, il quale conclude rilevando che l’impressione finale che si ricava è che “la lex, ancorché ‘scripta’, non solo non è ‘stricta’, ma neppure si discosta dalle funzioni di una mera guideline la cui concretizzazione è demandata al caso di volta in volta intercettato dalle sensibilità e oggettive (i ‘bisogni di pena’ del momento) e soggettive (il personale ‘circolo ermeneutico’ a matrice etico-politica rilasciato dal singolo ‘giurista-giudice-interprete’); ma, comunque, a vettore inflattivo e, mai, deflattivo” (ivi, pag. 1476). (22) Gli esempi sono numerosi. Si può pensare, innanzitutto, ai tre casi che Donini, nel suo saggio in materia di “diritto giurisprudenziale”, ha icasticamente definito come “casi tipici, e patologici, di un diritto penale “di lotta”. Lotta ermeneutica contro fenomeni che non si ritengono adeguatamente tutelati dalla legge” (Cfr. M. Donini, Il diritto giurisprudenziale, cit., 23); il riferimento è all’art. 318 c.p., che, pur riferendosi, nella formulazione anteriore alla riforma operata dalla l. 6.11.2012, n. 190, al compimento di un “atto ‘ufficio”, veniva esteso dalla giurisprudenza alla “corruzione per la funzione”; al concetto di “malattia-infortunio” sviluppato dalla giurisprudenza per estendere l’operatività dell’art. 437, comma 2, c.p., che fa riferimento al verificarsi di “un infortunio”, “alle malattie professionali realizzate con mezzi non violenti”; al reato di getto di cose pericolose, di cui all’art. 674 c.p., esteso dalla giurisprudenza fino ad abbracciare le emissioni pericolose di onde elettromagnetiche (Cfr. M. Donini, Il diritto giurisprudenziale, cit., 23 s.). Una recente ipotesi di estensione ermeneutica che sembra travalicare in un’inammissibile analogia in malam partem è rappresentata dall’estensione della portata della fattispecie di cui al combinato disposto degli artt. 476 e 482 c.p., relativa alla falsità materiale in atto pubblico commessa da privato, alla contraffazione di una copia “semplice” (cioè non autentica) di una sentenza; copia presentata ai terzi come tale, e quindi senza farla apparire quale documento originale (cfr. Cass. pen., sez. V, 17.10.2019, n. 45369).


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In un contesto caratterizzato da una pesante crisi economica, che, com’è noto, nel nostro Paese trova tra le proprie specifiche concause, oltre che nell’elevata spesa pubblica, anche in un’atavica propensione all’evasione fiscale, il settore penale-tributario, dopo una brevissima pausa che aveva fatto seguito alla riforma del 2000 (23), è rapidamente tornato al centro d’interesse del legislatore (24) e della magistratura, le cui linee d’azione, però, sembrano convergere nel delineare un quadro caratterizzato da una situazione di estrema incertezza, nella quale le istanze garantiste sottese al principio di legalità cedono il passo alle esigenze della “ragion fiscale”. Ad un legislatore che si muove, secondo una logica emergenziale, per un verso inseguendo “esigenze di cassa” (25) e, per l’altro verso, assecondando,

(23) Riforma che aveva segnato il recupero di una dimensione di «normalità» del diritto penale tributario (in particolare, sotto il profilo del rispetto dei principi di offensività e di extrema ratio), con superamento della logica “particolaristica” che aveva caratterizzato l’assetto della l. 516/82 (incentrata in gran parte su reati di pericolo presunto, che determinavano un forte arretramento della tutela penale, tale da permettere di colpire anche condotte, in realtà, prive di effettivo disvalore, quali, ad es., mere irregolarità formali nelle tenuta delle scritture contabili), e che, peraltro, già ispirava la l. 7.1.1929, n. 4, prima disciplina organica in materia di illecito tributario: sul punto, ci si permette di rinviare ad A. Lanzi, Aldrovandi, Diritto penale tributario, II ed., Padova, 2017, 35/62. (24) E ciò a partire dalla l. 30.12.2004, n. 311, che ha introdotto l’art. 10-bis, a cui hanno fatto seguito il d.l. 4.7.2006, n. 223 (che ha introdotto gli artt. 10-ter e 10-quater); il d.l. 31.5.2010, n. 78 (che ha inciso sull’art. 11); la l. 14.9.2011, n. 148 (la quale, convertendo il d.l. 13.8.2011, n. 138, all’articolo 2 ha inserito il comma 36-vicies semel, che ha fortemente inciso, in più punti e in senso marcatamente rigoristico, sull’assetto del d.lgs. 74/2000); il d.l. 6.12.2011, n. 201, convertito con modifiche dalla l. 22.12.2011, n. 214 (che, all’art. 11, ha introdotto una sanzione penale in relazione a condotte di trasmissione o esibizione di atti o documenti falsi o anche solo di comunicazione di “dati o notizie non rispondenti al vero”); il d.lgs. 24.9.2015, n. 158 (che ha “rimodellato” l’assetto complessivo del d.lgs. 74/2000, incidendo su numerosi aspetti della disciplina penal-tributaria, riducendo, in controtendenza rispetto alle precedenti riforme, il rigore nei confronti dei comportamenti non connotati da fraudolenza), ed infine il d.l. 26.10.2019, n. 124, che ha inciso in senso rigoristico, sotto vari profili, sulla disciplina penal tributaria, soprattutto (ma non solo) in relazione ai comportamenti fraudolenti. (25) Il riferimento, innanzitutto, è all’inserimento nell’art. 13 d.l.gs. 74/2000, ad opera del d.l. 13.8.2011, n. 138, così come convertito nella l. 14.9.2011, n.148, del comma 2-bis, che, per i reati tributari, subordina la possibilità di richiedere l’applicazione di pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. alla ricorrenza della circostanza attenuante del pagamento del debito tributario, in tal modo strumentalizzando la disciplina penale e quella penal-processuale per finalità di cassa (la previsione in parola – si aggiunge per inciso - per effetto della riforma operata dal d.l.gs. 158/2015, trova oggi collocazione nel secondo comma dell’art. 13-bis d.lgs. 74/2000). Le “esigenze di cassa”, peraltro, emergono anche nella progressiva dilatazione della rilevanza riconosciuta - come causa di esclusione della punibilità, o, a seconda dei casi, come attenuante - del pagamento del debito tributario (v. artt. 13 e 13-bis).


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attraverso un marcato irrigidimento del trattamento sanzionatorio (26), istanze emotive di rassicurazione sociale, fa riscontro, sul piano applicativo, una giurisprudenza essenzialmente preoccupata di coprire ogni supposto vuoto di tutela, con un atteggiamento in linea di massima di estremo rigore, che non di rado sfocia in applicazioni chiaramente analogiche delle disposizioni incriminatrici. Gli esempi di tale atteggiamento sono molteplici. Particolarmente significativo è il percorso ermeneutico che ha caratterizzato la sfera applicativa del delitto di cui all’art. 2, sotto il profilo dell’oggetto materiale del reato. In giurisprudenza, inizialmente, ha prevalso una lettura restrittiva, che limitava la portata del concetto di “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” alle ipotesi di mero falso ideologico (27); nel corso del 2011 è venuto però consolidandosi un opposto indirizzo, favorevole ad estendere la portata del concetto in esame alla documentazione materialmente falsa; in tal senso, infatti, si è espressa dapprima Cass. pen., sez. III, 9.2.2011, n. 9673, seguita da un folto gruppo di pronunce, relative ad una medesima fattispecie concreta, avente ad oggetto la contraffazione di documentazione sanitaria (apparentemente emessa da cliniche private), utilizzata da numerosi contribuenti per esporre spese sanitarie mai sostenute, ottenendo una detrazione, ai fini IRPEF, del 19%, per una somma complessivamente di elevato importo, che però, con riferimento alle singole dichiarazioni, rimaneva al di sotto delle soglie di punibilità all’epoca contemplate dall’art. 3 d.lgs. 74/2000 (euro 77.468,53) (28). Tale orientamento è rimasto fermo anche successivamente alla riforma attuata dal d.lgs. 158/2015, che ha espressamente inserito, tra le modalità di condotta fraudolenta che caratterizzano la fattispecie di cui all’art. 3, l’impiego di “documenti falsi”: la giurisprudenza ha infatti continuato ad affermare che ogni tipologia di falsità – si tratti cioè di falso meramente

(26) Situazione particolarmente evidente alla luce della riforma recentemente attuata dal d.l. 26.10.2019, n. 124, che ha operato un generale inasprimento sanzionatorio. (27) Cfr. Cass. pen., sez. III, 25.6.2001, n. 30896; Cass. pen., sez. I, 20.2.2004, n. 32493; Cass. pen., sez. III, 14.11.2007, n. 12720; in senso opposto si era pronunziata solamente Cass. pen., sez. III, 7.2.2007, n. 12284, subito superata da Cass. pen. 12720/2017, che aveva riconfermato quello che sembrava un indirizzo in via di consolidamento. (28) Cfr. Cass. pen., sez. III, 18.10.2011, n. 2156; Id., 10.11.2011, n. 46785; Id., 24.11.2011, n. 48486; Id., 24.11.2011, n. 48498; Id., 23.2.2012, n. 10987; Id., 11.4.2012, n. 18788; Id., 27.4.2012, n. 27392.


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ideologico o di falso materiale – concernente fatture e documenti alle stesse equiparati, continua rilevare nella prospettiva del delitto di cui all’art. 2 (29). La conclusione in parola, però, si pone in contrasto oltre che con la logica sottesa alla fattispecie incriminatrice contemplata dall’art. 2 (30), con il dettato legislativo; l’oggetto materiale del delitto in parola, infatti, è costituto, secondo la definizione fornita dall’art. 1, lett. a), d.l.gs. 74/2000, da documenti “emessi” a fronte di operazioni non realmente effettuate e il termine “emessi” non si presta – se non a prezzo di una illegittima forzatura ermeneutica – ad abbracciare le ipotesi di contraffazione o alterazione di documenti da parte dello stesso utilizzatore, come chiarisce – se ve ne fosse necessità – la stessa disciplina tributaria, giacché l’art. 21, comma 1, d.p.r. 26.10.1972, n. 633 prevede che “la fattura si ha per emessa all’atto della sua consegna o spedizione all’altra parte ovvero all’atto della sua trasmissione per via elettronica” (31). La volontà di non lasciare prive di copertura penale ipotesi di evasione fiscale perpetrate attraverso comportamenti fraudolenti, che però non integravano le soglie di punibilità previste dal delitto di cui all’art. 3, si è quindi tradotta in una indebita estensione della sfera applicativa del reato di cui all’art. 2 (32). Analogo l’atteggiamento di una parte significativa della giurisprudenza in relazione alla sottrazione di materia imponibile attuata, anziché mediante evasione, con comportamenti elusivi: in questo caso – com’è noto – il

(29) () Cfr. Cass. pen., sez. III, 25.8.2018, n. 6360; Id., 6.11.2015, n. 5703; Cass. pen., sez. feriale, 17.10.2017, n. 47603. (30) Il reato di cui all’art. 2 è l’unico tra quelli in materia di dichiarazione che non presenta soglie di punibilità: come si chiarisce anche nella Relazione di accompagnamento al d.lgs. 74/2000, ciò trova spiegazione nella circostanza che si è in presenza di fatti che si caratterizzano, rispetto alle altre tipologie di artifici, per un “maggiore indice di «decettività» nei confronti dell’amministrazione finanziaria”; si assiste, in sostanza, ad una parziale rinuncia al disvalore di evento, a fronte di un pregnante disvalore di condotta: tale situazione, chiaramente, si verifica però solo in caso di falsità meramente ideologica, giacché laddove il documento fiscale inserito in contabilità al fine di incrementare gli elementi passivi sia stato contraffatto, la falsificazione emergerà non appena si provveda ad effettuare – come sempre avviene in sede di verifica fiscale – un “controllo incrociato” con i soggetti che risultano essere indicati come emittenti dei documenti fiscali. (31) In tale senso, cfr., fra i primi commenti al d.lgs. 74/2000, C.M. Pricolo, Commento all’art. 2, in I. Caraccioli, A. Giarda, A. Lanzi, Diritto e procedura penale tributaria, Padova, 2011, 97. (32) Per ulteriori approfondimenti sul punto, ci si permette di rinviare a Aldrovandi, La nozione di “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”: la Suprema Corte conferma la rilevanza della falsità materiale e approfondisce la frattura tra ‘legge’ e ‘diritto vivente’, ne L’Indice pen., 2019, 281 ss.


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legislatore, dopo che, successivamente alla c.d. “sentenza Dolce e Gabbana” del 2011, si era venuto consolidando nella giurisprudenza di legittimità un orientamento favorevole ad ammettere la rilevanza penale dell’elusione fiscale, è intervenuto con il d.lgs. 5.8.2015, n. 128, il quale ha inserito nella l. 27.7.2000, n. 212 (c.d. “Statuto dei diritti del contribuente”) l’art. 10-bis, che contiene la disciplina dell’“abuso del diritto o elusione fiscale”, stabilendo, al comma 13, che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”. Nonostante il chiaro tenore della previsione in esame, la giurisprudenza di legittimità non ha rinunciato all’idea che anche il risparmio fiscale frutto di abuso possa essere punito e, fin dalla prima sentenza successiva alla riforma, ha operato una sorta di inversione concettuale nel rapporto tra illecito penale ed abuso di diritto, giungendo a ravvisare un limite all’operatività del disposto del comma 13 (norma deputata ad escludere qualsiasi rilevanza penale dei fatti di abuso del diritto) nella sussistenza di un illecito penale: secondo Cass. pen., sez. III, 1.10.2015, n. 152, infatti, “la disciplina dell’abuso del diritto ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari, in particolare l’evasione e la frode”; “fattispecie che vanno perseguite con gli strumenti che l’ordinamento già offre”. Sulla scorta di tale principio, non sono mancate successive sentenze di legittimità che, in effetti, hanno riconosciuto rilevanza penale ad operazioni di carattere meramente elusivo, giungendo finanche a negare espressamente che la mera natura elusiva di un’operazione sia idonea ad escludere la rilevanza penale della stessa, giacché l’“ipotesi penalmente irrilevante dell’abuso del diritto” postulerebbe l’utilizzo di strumenti “aventi una loro meritevole causa giuridica ulteriore rispetto alla mera elusione fiscale” (33): affermazione che contraddice la stessa definizione di elusione/abuso del diritto, che si sostanzia in un’operazione “priva di sostanza economica” e diretta a realizzare “essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”, cioè “in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario” (34). Fra le ipotesi di applicazione analogica in malam partem si possono annoverare anche le pronunce che estendono la sfera operativa del delitto di

(33) Cfr. Cass. pen., sez. III, 20.11.2015, n. 41755. (34) Sul punto, per maggiori approfondimenti, cfr. Aldrovandi, Elusione fiscale e diritto penale nella giurisprudenza: l’eterogenesi dei fini del legislatore nel “diritto vivente” e la crisi del principio di legalità nel diritto penale postmoderno, ne L’Indice pen., 2018, 170 ss.


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occultamento o distruzione di scritture contabili all’ipotesi di omessa istituzione di tali scritture, chiaramente incompatibile con il tenore letterale della norma incriminatrice, che prevede condotte aventi come oggetto materiale scritture contabili in precedenza istituite (35). Per completare il quadro esemplificativo della tendenza giurisprudenziale a “coprire” ogni supposto vuoto di tutela del bene “interesse alla percezione dei tributi”, si richiama infine un orientamento giurisprudenziale che è pervenuto ad estendere l’applicazione del disposto di cui all’art. 10-quater d.lgs. 74/2000, in materia di indebita compensazione operata in sede di versamento “ai sensi dell’art. 17-bis del decreto legislativo 9.7.1997, n. 241” (e quindi con la compilazione del Modello F 24) anche alle ipotesi di detrazione di un credito IVA, derivante da una dichiarazione annuale e poi utilizzato negli anni successivi; situazione che indiscutibilmente non è disciplinata dall’art. 17 d.lgs. 241/2000, ma dall’art. 30 d.p.r. 26.10.1972, n. 633, e che, quindi, non rientra tra le ipotesi tipicizzate dalla norma incriminatrice; tale condotta è stata però ritenuta penalmente rilevante, “non perché i due istituti della detrazione e della compensazione siano omogenei (…) ma perché il risultato conseguito è quello tipico dell’istituto di cui al D.Lgs. n. 241 del 1997, art. 17, cioè quello di consentire al contribuente di evitare di pagare imposte qualora vanti una pretesa creditoria di natura tributaria verso lo Stato”: si è presenza di una vera e propria esplicita legittimazione del ricorso alla analogia in malam partem, giacché il Giudice, rilevata l’integrazione di un’offesa al bene tutelato dalla norma incriminatrice, ne estende la tutela a condotte che in nessun modo possono riportarsi al possibile range dei significati compatibili con la lettera della previsione legislativa, che fa riferimento ad un preciso istituto giuridico, qual è la compensazione ex art. 17 d.lgs. 241/1997 (36).

(35) Cfr. Cass. pen., sez. III, 26.2.2015, n. 11267; Id., 1.12.2011, n. 6752; Id., 4.6.2009, n. 28656. Va peraltro riconosciuto che tale orientamento sembra superato dalle più recenti pronunzie, che escludono la rilevanza della mera omessa tenuta della contabilità: cfr. Cass. pen., sez. III, 2.3.2016, n. 19106; Id., 16.1.2019, n. 7646; Id., 13.9.2018, n. 57506. (36) Cfr. Cass. pen., sez. III, 12.9.2018, n. 5934; in precedenza, nello stesso senso, cfr. Cass. pen., sez. III, 11.11.2010, n. 42462; Trib. Napoli, sez. XIII pen., ord. 26.4.2010. In senso opposto, però, cfr. Cass. pen., sez. III, 20.6.2019, n. 44737, secondo cui “l’indebita compensazione deve (…) risultare dal modello F24 mediante il quale la stessa è stata realizzata, indicandovi, appunto in compensazione, crediti inesistenti o non spettanti, trattandosi dello strumento imposto dal legislatore tributario per poter eseguire le compensazioni tra debiti e crediti tributari, che, quindi, non possono che essere realizzate attraverso la presentazione di tale modello debitamente compilato, in difetto del quale non può dirsi sussistente una


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In tutte le pronunzie sopra richiamate, e con particolare evidenza nell’ultima, il concetto di bene giuridico viene utilizzato - in coerenza con l’atteggiamento giurisprudenziale sopra stigmatizzato in apertura del presente lavoro -, anziché in chiave garantista, in funzione di estensione dell’ambito della tutela. La stessa offesa cessa di fungere da baluardo garantista rispetto all’estensione della sfera del penalmente rilevante e opera invece in chiave “inflattiva”. In breve, l’offesa “divora” la tipicità, consentendo di colpire condotte diverse da quelle delineate dal legislatore. E ciò in evidente tensione con il principio di stretta legalità, di cui all’art. 25, comma 2, Cost., che – come limpidamente chiarito dalla Corte Costituzionale – “coglie un tratto costitutivo degli ordinamenti costituzionali degli Stati (…) di civil law. Essi non affidano al giudice il potere di creare un regime legale penale, in luogo di quello realizzato dalla legge approvata dal Parlamento, e in ogni caso ripudiano l’idea che i tribunali penali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente predefinito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire” (37). 3. Continua. B) La sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte nella giurisprudenza: da reato a forma vincolata a reato a forma libera? – Fra i reati tributari, il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte contemplato dall’art. 11, comma 1 (38), ad avviso di chi scrive, costituisce un esempio paradigmatico della crisi che sta vivendo, in particolare nel settore penal-tributario, la funzione garantista del principio di offensività. Si tratta di fattispecie che trova il proprio antecedente nel reato contemplato dall’art. 97, comma 6, del d.p.r. 29.9.1973, n. 602, il quale puniva con la reclusione fino a tre anni “il contribuente che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte, interessi, soprattasse e pene pecuniarie dovuti”, avesse compiuto, successivamente all’inizio di “accessi, ispezioni e verifiche”

compensazione” (nello stesso senso, in precedenza, cfr. Cass. pen., sez. III, 23.1.2019, n. 8704). (37) Cfr. Corte Cost., 23.11.2016, n. 24. (38) Ogni riferimento operato nel presente scritto al reato di sottrazione fraudolenta al pagamento d’ imposte, o all’art. 11 d.lgs. 74/2000, va inteso come riferito alla fattispecie di cui al primo comma: l’ipotesi inserita al secondo comma dell’art. 11 dall’art. 29, comma 4, d.l. 31.5.2010, n. 78, concernente false indicazioni nella transazione fiscale, costituisce un delitto del tutto autonomo, che condivide con l’ipotesi di cui al primo comma esclusivamente la collocazione “topografica” nel medesimo articolo, divergendone però del tutto, sia per struttura, sia per oggettività giuridica; sul punto, ci si permette di rinviare ad A. Lanzi, Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 414.


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o dopo la notifica degli “inviti” e delle “richieste” previsti dalla legge, ovvero dopo la notifica di “atti di accertamento o iscrizioni a ruolo, atti fraudolenti sui propri o sugli altrui beni”, che avessero reso “in tutto o in parte inefficace la relativa esecuzione”; con la precisazione che la disposizione in parola non si applicava “se l’ammontare delle somme non corrisposte” non fosse risultato “superiore a lire 10 milioni”. La fattispecie contemplata dall’art. 97 d.p.r. 602/1973 non aveva dato buona prova di sé, visto che era risultata sostanzialmente disapplicata: la ricchezza degli elementi strutturali che la caratterizzavano ne rendeva infatti improbabile l’integrazione, la quale postulava che il contribuente si fosse attivato solo successivamente all’inizio di una verifica fiscale e che la condotta dello stesso avesse in concreto reso inefficace, almeno in parte, la procedura di riscossione coattiva. Il legislatore del 2000, nel recepire il reato all’interno del corpo normativo rappresentato dal d.lgs. 74/2000, ha quindi ritenuto di ampliarne la sfera operativa, anticipando l’intervento repressivo ad un momento anteriore a quello dell’inizio delle attività di verifica fiscale e prescindendo dal verificarsi di un danno per la procedura esecutiva. Il tutto in coerenza con il nuovo assetto penal tributario: lo “snellimento” della fattispecie (cui si accompagnava un inasprimento del trattamento sanzionatorio) rispetto alle previsioni dell’art. 97, comma 6, d.p.r. 602/73 rappresentava una sorta di bilanciamento – come sottolineato nella stessa Relazione governativa (39) – rispetto alla scelta di escludere qualsiasi rilevanza penale per “il mero inadempimento dell’obbligazione pecuniaria avente ad oggetto l’imposta ed i relativi accessori (...) una volta che il contribuente abbia compiutamente e correttamente assolto il dovere di dichiarazione”, con la conseguente scomparsa del “delitto omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d’imposta, previsto dall’art. 2 del decreto-legge n. 429 del 1982: figura criminosa che, più di altre, [era] stata al centro di vivaci polemiche, anche a fronte dell’abnorme numero di procedimenti penali cui essa (...) aveva dato esca”; figura – si aggiunge per inciso – che poi è stata reintrodotta dalla l. 30.12.2004, n. 311: prima di una lunga serie di riforme (40) che si sono susseguite, e che, ispirate ad una logica emergenziale, hanno fatto perdere coerenza al sistema penal-tributario.

(39) V. par. 3.2.3 della Relazione governativa. (40) V. retro, nt. 24 e nt. 26. Per un esame delle riforme che si sono succedute fino al 2015, cfr. A. Lanzi, Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 54 ss.


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Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte, secondo l’opinione prevalente in dottrina e in giurisprudenza, costituisce un reato posto a tutela della “garanzia generica data dai beni dell’obbligato” (41), per proteggere la quale si è anticipato l’intervento penale alla soglia del mero pericolo concreto (42): ferma la necessità che sussista un debito per tributi, interessi e sanzioni superiore ad euro cinquantamila (43), vengono infatti punite condotte poste in essere “al fine di sottrarsi al pagamento” dello stesso e che risultino idonee a “rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”, senza necessità che il debito tributario sia stato accertato

Non si può mancare di rilevare che il legislatore nell’ultimo decennio ha ritoccato livelli sanzionatori e soglie di punibilità con frequenza inquietante, incompatibile con il carattere tendenzialmente stabile che dovrebbe contraddistinguere l’ordinamento penale, apparendo difficile giustificare, nella prospettiva dei principi di offensività e di sussidiarietà, il continuo e frenetico mutamento di valutazioni legislative su cosa “meriti” (principio di offensività) e “necessiti” (principio di sussidiarietà) di sanzione penale cui si è assistito dopo la riforma del 2000. Il d.l. 124/2019, peraltro, incide sul sistema penal tributario anche sotto ulteriori rilevanti profili, estendendo la confisca per sproporzione di cui all’art. 240-bis c.p. ai delitti di cui agli artt. 2, 3, 8 e 11, comma 1 e comma 2, al superamento di determinate soglie (v. art. 12-ter del d.lgs. 74/2000) e la responsabilità amministrativa degli enti ai reati di cui agli artt. 2, 3, 8, 10 e 11 (v. art. 25-quinquiesdecies d.l.gs. 8.6.2001, n. 231). (41) Cfr. Cass. pen., sez. III, 24.2.2016, n. 13233, in CED Cass., Rv. 266771; Cass. pen., sez. III, 8.4.2015, n. 15449; nello stesso senso è orientata anche la dottrina prevalente: cfr. C. M. Pricolo, A. Trabacchi, sub Art. 11, in C. Nocerino, S. Putinati (a cura di), La riforma dei reati tributari, Torino, 2015, 261; E. Musco, F. Ardito, Diritto penale tributario, III ed., Bologna, 2016 331; S. Delsignore, I delitti di fraudolenta sottrazione al pagamento d’imposte, in A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, Diritto penale dell’economia, I, Torino, 2016, 1010 s.; nel senso che sia preferibile individuare l’oggetto giuridico “nel corretto funzionamento della procedura di riscossione coattiva, nell’astensione da azioni di «sviamento» della stessa”, cfr. Aldrovandi, Commento all’art. 11, in I. Caraccioli, A. Giarda, A. Lanzi, Diritto e procedura penale tributaria, Padova, 2001, 357; in senso analogo, cfr. A. Lanzi, Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 403 s., e in giurisprudenza Cass. pen., sez. V, 10.11.2011, n. 1843. (42) Cfr. Cass. pen., sez. III, 2.3.2018, n. 29636; Id., 24.2.2016, n. 13233; in dottrina, cfr. A. Lanzi, Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 413. (43) È infatti pacifico che il debito di euro 50.000 costituisca un presupposto della condotta, e quindi un dato che deve preesistere alla condotta stessa: cfr., per tutti, Aldrovandi, Commento all’art. 11, cit., 360 ss.; A. Ingrassia, Le diverse forme di sottrazione al pagamento delle imposte, in R. Bricchetti, Veneziani (a cura di), I reati tributari, Torino, 2017, 379; G. L. Soana, I reati tributari, IV ed., Milano, 2018, 450. Per quanto concerne la giurisprudenza, a chi scrive non risultano pronunce che facciano applicazione del delitto in esame con riferimento a fattispecie concrete in cui la condotta sia stata tenuta anteriormente al sorgere del debito tributario.


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prima di tali condotte ed anzi senza che neppure occorra che sia stata iniziata un’attività di verifica (44). Posto che ad essere incriminato è un atto dispositivo che il soggetto gravato dal debito tributario compie sui propri beni (45), senza che neppure sia necessario che si realizzi l’inadempimento (46), il disvalore del reato viene a fondarsi, per un verso, sul pregnante coefficiente soggettivo richiesto, cioè sul dolo specifico di evasione, e per l’altro verso sulle modalità della condotta, che il legislatore individua utilizzando la locuzione “aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti”. Il concetto di “alienazione simulata” non sembra porre particolari dubbi ermeneutici, riferendosi a “tutte le ipotesi di trasferimento ad altri della proprietà (per compravendita, donazione, permuta, etc. …) di un bene, in cui la volontà, appalesata all’esterno, di operare tale trasferimento non corrisponda alla reale intenzione delle parti, sia che le stesse non abbiano voluto produrre alcun effetto giuridico tra di loro (simulazione assoluta: v. art. 1414, comma 1, c.c.); sia che abbiano inteso «concludere un contratto diverso da quello apparente» (simulazione relativa: v. art. 1414 c.c.)” (47). Più problematico risulta il concetto di “atti fraudolenti”. In dottrina, pur se non manca chi propende per un’accezione ampia, di carattere marcatamente soggettivo, che si spinge ad abbracciare tutti “gli atti – diversi dalle simulate alienazioni – consistenti in negozi giuridici realizzati al fine di rendere inefficace la riscossione, attraverso la diminuzione (o la eliminazione) delle

(44) V. le sentenze richiamate alla nota 42; cfr., inoltre, Cass. pen., sez. III, 9.4.2013, n. 39079; Id., 6.3.2008, n. 14720; Cass. pen., sez. V, 10.1.2007, n. 7916; in dottrina, cfr. per tutti A. Ingrassia, Le diverse forme di sottrazione al pagamento delle imposte, cit., 381; E. Musco, F. Ardito, Diritto penale tributario, cit., 339. (45) O che il rappresentante o l’amministratore della società gravata dal debito tributario compie sui beni della società, come chiarisce, per escludere qualsiasi dubbio, la formulazione della norma incriminatrice, laddove fa riferimento a beni “altrui”. (46) È infatti del tutto pacifico che è priva di “efficacia esimente la circostanza che, successivamente al perfezionamento del reato, - essendo presenti al momento della condotta, tutti gli elementi richiesti dalla fattispecie in esame – il credito dell’erario venga estinto attraverso il pagamento, da parte del debitore o la sua cancellazione da parte dell’amministrazione finanziaria (in sede di autotutela) o del giudice tributario”: cfr. G. L. Soana, I reati tributari, cit., 449. (47) Cfr. Aldrovandi, Commento all’art. 11, cit., 366; conf., per tutti, G. L. Soana, I reati tributari, cit., 435, nonché, in giurisprudenza, Cass. pen., sez. III, 2.3.2018, n. 29636, la quale rimarca che, laddove “il trasferimento del bene sia effettivo, la relativa condotta non può essere considerata alla stregua di un atto simulato, ma deve essere valutata esclusivamente quale possibile atto «fraudolento»”.


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garanzie che potrebbero assicurare all’erario il soddisfacimento della pretesa tributaria” (48), prevale una interpretazione restrittiva, che limita la portata del concetto ai soli “atti che comportino un depauperamento apparente delle garanzie patrimoniali” (49), cioè “alle condotte caratterizzate dall’utilizzazione di artifici, con le quali si prospetti una situazione diversa da quella reale, così impedendo che il procedimento di riscossione possa aggredire i beni del debitore” (50). L’accezione restrittiva, in effetti, sembra imporsi con evidenza per più ragioni. Innanzitutto, in forza delle indicazioni provenienti dalla lettera della previsione normativa: l’aggettivo “altri” che precede il sintagma “atti fraudolenti”, rende evidente come questi ultimi costituiscano il genere cui appartengono gli “atti simulati”, che ne costituiscono, quindi una “ipotesi paradigmatica” (51), esemplificativa, a cui si deve quindi fare riferimento per riempire di contenuto il concetto di “atti fraudolenti”. L’accezione restrittiva del concetto di “atti fraudolenti” trova peraltro fondamento soprattutto in una lettura teleologica della fattispecie incriminatrice, alla luce della necessità di ricostruire la stessa in coerenza con i principi costituzionali di materialità e di offensività. Come rilevato da attenta dottrina subito dopo l’emanazione del d.lgs. 74/2000, una indiscriminata estensione della sfera applicativa dell’art. 11, che conduca a ricomprendervi ogni condotta che presenti “attitudine (…) a vulnerare le chanche di positivo esperimento della procedura di riscossione coattiva”, rischierebbe di dar luogo ad “una spada di Damocle incombente sull’attività negoziale di qualsiasi contribuente” (52). L’unico filtro rispetto alla rilevanza penale di semplici atti di disposizione del contribuente sui propri

(48) Cfr. E. Musco, F. Ardito, Diritto penale tributario, cit., 337. (49) Cfr. V. Napoleoni, I fondamenti del diritto penale, Milano, 2000, 203. (50) Cfr. Aldrovandi, Commento all’art. 11, cit., 369. In senso analogo, cfr. G. L. Soana, I reati tributari, cit., 436 ss.; S. Del Signore, I delitti di fraudolenta sottrazione al pagamento di imposte, cit., 1019, secondo il quale il concetto abbraccia “solo le condotte in grado di far sembrare il patrimonio del contribuente meno capiente di quanto non sia in realtà”; A. Perini, voce Reati tributari, in Dig. disc. pen., IX aggiornamento, Torino, 2016, 617; C. M. Pricolo, A. Trabacchi, Sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte, in C. Nocerino, S. Putinati (a cura di), La riforma dei reati tributari, Torino, 2015, 265 s. (51) Così V. Napoleoni, I fondamenti del diritto penale, cit., 202, il quale rileva che “il riferimento preliminare alla «simulazione» illumina (..) lo «slabbrato» concetto di fraudolenza”. (52) Cfr. V. Napoleoni, I fondamenti del diritto penale, cit., 204.


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beni (atti costituenti esercizio del diritto riconosciuto dall’art. 832 c.c.) verrebbe ad essere costituito dal dolo specifico di sottrazione al pagamento del debito tributario: il disvalore di condotta verrebbe quindi a spostarsi essenzialmente su un coefficiente soggettivo, in evidente tensione con i principi di materialità ed offensività; e ciò peraltro a fronte di una fattispecie incriminatrice che prevede un quadro sanzionatorio oltremodo rigoroso. Si aggiunga che una tale lettura si porrebbe in contrasto con il canone ermeneutico di conservazione di un significato alle espressioni utilizzate dal legislatore. Se inizialmente sembra essere prevalsa una lettura estensiva della fattispecie incriminatrice, in base alla quale, “ai fini della configurabilità del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, rileva qualunque atto idoneo ad ostacolare il soddisfacimento di un’obbligazione tributaria” (53), va dato atto del fatto che negli ultimi anni, ed in particolare a partire dal 2016, la Suprema Corte sembra aver aderito, quanto meno in linea di principio, all’accezione restrittiva del concetto di “atti fraudolenti”: il reale “punto di svolta” è rappresentato da Cass. pen., sez. III, 24.2.2016, n. 13233, la quale ha rilevato che “la «tenuta» anche costituzionale (in particolare sotto il profilo del principio di offensività) della configurabilità in chiave di pericolo dell’illecito (altrimenti davvero fragile) appare garantita dalla necessità che la condotta volta alla sottrazione del bene si caratterizzi per la natura simulata dell’alienazione del bene o per

(53) Cosi Cass. pen., sez. V, 14.10.2014, n. 48424, che assegna rilevanza penale alla cessione d’azienda; come rilevato da attenta dottrina, per la Corte di cassazione sembrano assumere rilevanza tutte le “operazioni straordinarie in senso lato”, cioè “le operazioni di scissione, di cessione o affitto di ramo d’azienda, o ancora di conferimento di beni in società”, poste in essere da soggetti gravati da debiti tributari al fine di sottrarsi al pagamento degli stessi, senza che possa rilevare che “molte delle operazioni straordinarie citate siano assistite da previsioni normative poste a tutela dei creditori proprio al fine di evitare queste forme di strumentalizzazione”, come l’art. 2650 c.c. per il trasferimento dell’azienda o il comma 3 dell’art. 2506-quater c.c. per la scissione, giacché l’art. 11 costituisce un reato di pericolo, e le previsioni parola – secondo la Suprema Corte – non valgono ad impedire che le operazioni societarie integrino comunque un ostacolo al regolare svolgimento della procedura esecutiva: cfr. A. Perini, Il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: reato di pericolo e limiti costituzionali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1205 s., cui si rinvia per ulteriori richiami giurisprudenziali; per un’attenta ricostruzione del quadro giurisprudenziale, cfr. anche E. C. Leoni, Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: il caso della cessione d’azienda, in Rass. trib., fasc. 2, 404 ss.. Ad avviso di chi scrive, espressione significativa dell’atteggiamento giurisprudenziale in parola sono le pronunce che ravvisano gli estremi del reato nelle operazioni di sale and lease back, con cui il contribuente si spoglia della proprietà dei beni pur mantenendone il godimento: cfr. Cass. pen., sez. III, 9.4.2008, n. 14720 e Cass. pen., sez. III, 12.10.2011, n. 46212.


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la natura fraudolenta degli atti compiuti sui propri o sugli altrui beni: in altre parole, solo un atto di disposizione del patrimonio che si caratterizzi per tali modalità, strettamente tipizzate dalla norma, può essere idoneo a vulnerare le legittime aspettative dell’Erario posto che, diversamente, verrebbe sanzionata, in contrasto con il diritto di proprietà, costituzionalmente garantito, ogni possibile condotta di disponibilità dei beni, allo stesso diritto di proprietà strettamente connaturata”. Il concetto ha poi trovato più esplicita espressione in Cass. pen., sez. III, 5.7.2016, n. 3011, la quale ha precisato che “per «atto fraudolento» deve intendersi qualsiasi atto che, non diversamente dalla alienazione simulata, sia idoneo a rappresentare ai terzi una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero”, aggiungendo che, “in un terreno «minato» quale quello definito dalla norma in questione (già sotto osservazione proprio sotto il profilo della genericità ed indeterminatezza del concetto di «atti fraudolenti»), interpretazioni che fanno leva sul risultato comunque preso in considerazione dall’agente potrebbero innescare pericolose derive soggettivistiche a detrimento del concetto di «fraudolenza» che qualifica la condotta sul piano oggettivo, prima ancora che su quello soggettivo”. Conclusioni che trovano infine conferma in una pronuncia delle Sezioni Unite, che, nel ricostruire il concetto di “atti fraudolenti” in relazione al delitto di cui all’art. 388, comma 1, c.p., richiama e fa propri i principi enunciati dalle sentenze sopra richiamate (54). Alla prova dei fatti, il quadro appare però ben diverso. Le esigenze di tutela del bene “percezione dei tributi” continuano ad esercitare una suggestione tanto forte da condurre spesso a travalicare i confini della tipicità, come tratteggiata – oltre che dalla prevalente dottrina – negli arresti giurisprudenziali fatti propri dalle Sezioni Unite: anche per il reato in esame, l’offesa tende a “divorare” la tipicità, con il rischio di trasfigurare lo stesso in reato “a forma libera”,

(54) Cfr. Cass. pen., Sez. Unite, 21.12.2017, n. 12213; con specifico riferimento al delitto di cui all’art. 11 d.lgs. 74/2000, la pronuncia delle Sezioni Unite è richiamata e fatta propria da Cass. pen., sez. III, 2.3.2018, n. 29636, che annulla la sentenza impugnata, in quanto non risultava “adeguatamente illustrato il requisito della natura fraudolenta delle operazioni compiute”: si trattava, però, di un caso, per così dire, “facile”, visto che si era in presenza di vendite effettive a prezzi congrui, di talché appariva evidente che, assegnando rilevanza alle stesse, ci si sarebbe posti in contrasto con il dettato della norma incriminatrice, laddove limita la rilevanza penale delle alienazioni a quelle “simulate”.


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nella cui prospettiva viene ad assumere rilevanza ogni condotta che si presti a “rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”. Il dato emerge già laddove la Corte di cassazione perviene ad assegnare rilevanza ad un’operazione di scissione societaria, essenzialmente per la ragione che la stessa appariva preordinata a “rendere parzialmente o totalmente inefficace la procedura esecutiva”, come reso evidente da “eventi successivamente seguiti all’operazione di scissione” (55). Ad avviso di chi scrive, però, l’espressione più significativa del perdurare di una lettura estensiva del concetto di “atti fraudolenti”, che tende ad abbracciare ogni condotta (quand’anche non connotata da elementi decettivi) finalizzata a sottrare i beni del debitore all’esecuzione esattoriale, è rappresentata dall’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale che riconduce alla nozione di “atti fraudolenti” “la costituzione di un fondo patrimoniale, avente ad oggetto tutti i beni mobili ed immobili” del contribuente, in quanto “indubbiamente atto idoneo a limitare le ragioni del fisco” (56). In realtà, nel caso di costituzione di un fondo patrimoniale, sembra evidente che non viene in considerazione un ‘atto fraudolento’, con il quale, per usare le parole di Cass. pen. 3011/2016, si rappresenti “ai terzi una realtà (…) non corrispondente al vero”, per distorcere l’esito della procedura esecutiva. Si tratta, invece, di condotta con la quale, utilizzando un istituto previsto dall’ordinamento (v. artt. 167 e ss. c.c.), si limita la possibilità di assoggettare ad esecuzione determinati beni, che vengono messi effettivamente, ed in modo trasparente, al di fuori dell’ambito della garanzia patrimoniale della generalità dei creditori; non sembra, pertanto, che l’atto possa qualificarsi «fraudolento», sicché, ove ritenuto pregiudizievole, potrà essere fatto oggetto tutt’al più di revocatoria (57).

(55) Cfr. Cass. pen., sez. III, 27.9.2017, n. 232. (56) Cfr. Cass. pen., sez. III, 10.6.2009, n. 38925, la quale aggiunge che, nel caso di specie, la conclusione trovava conforto nel fatto che non erano “state indicate le ragioni della costituzione del fondo patrimoniale”. Nello stesso senso, cfr. Cass. pen., sez. III, 4.4.2012, n. 40561; Id., 5.5.2011, n. 23986; Id., 18.12.2007, n. 5824; Cass. pen., sez. III, 19.11.2015, n. 9154, che precisa come sia onere dell’accusa dimostrare la “strumentalizzazione della causa tipica negoziale allo scopo di evitare il pagamento del debito tributario”, in tal modo rendendo evidente come sia la finalità perseguita dal contribuente il dato valorizzato per fondare la natura fraudolenta della condotta. (57) In tale senso, cfr. anche A. Martini, Reati in materia di finanze e tributi, Milano, 2010, 566.


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Tale orientamento, però, è rimasto fermo anche negli anni più recenti, e pure nelle pronunzie che dichiarano di far applicazione dell’impostazione restrittiva – fatta propria anche dalle Sezioni Unite – secondo la quale la nozione di “atti fraudolenti” rinvia ad una condotta che offra una falsa rappresentazione della realtà. Esemplificativa di tale atteggiamento è Cass. pen., sez. III, 8.5.2018, n. 41704, che in effetti muove dal recepimento dei principi espressi da Cass. pen. 3011/2016, riconoscendo che “per atto fraudolento (…) deve intendersi qualsiasi atto che, non diversamente dalla alienazione simulata, sia idoneo a rappresentare ai terzi una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero, mettendo a repentaglio o comunque rendendo più difficoltosa l’azione di recupero del bene in modo da sottrarlo alle ragioni dell’Erario”. La motivazione, però, si sviluppa successivamente spostando l’attenzione dal momento dell’inganno (falsa rappresentazione della realtà) a quello dell’offesa, cioè al “pericolo” per la “garanzia patrimoniale del debito erariale”, e al coefficiente soggettivo, cioè allo “scopo fraudolento dell’operazione”, permettendo alla Corte di cassazione di giungere alla conclusione che “la costituzione di un fondo patrimoniale (…) può concretizzare il delitto di cui all’art. 11 quando consenta al contribuente di sottrarre, in tutto o in parte, le garanzie patrimoniali alla riscossione coattiva del credito tributario”, con la precisazione che il Giudice “è tenuto a motivare sulla ragione per cui la segregazione patrimoniale rappresenta, in concreto, uno strumento idoneo a rendere in tutto o in parte inefficace il recupero del credito”. Nonostante la premessa iniziale circa la necessità di una condotta decettiva, con cui si rappresenti “una realtà non corrispondente al vero”, alla prova dei fatti il disvalore viene quindi a polarizzarsi sull’offesa al bene “garanzia patrimoniale” e sul coefficiente soggettivo, di talché il delitto si trasforma sostanzialmente – secondo l’impostazione sopra già sottoposta a censura – in un reato a forma libera, nel quale le modalità di condotta tratteggiate dal legislatore perdono ogni rilevanza (58).

(58) In senso analogo, circa la rilevanza penale della costituzione di un fondo patrimoniale, cfr. anche Cass. pen., sez. III, 12.7.2017, n. 47827. A rilievi critici analoghi a quelli sopra sviluppati in relazione alla giurisprudenza in materia di fondo patrimoniale si espone anche Cass. pen., sez. III, 8.4.2015, n. 15449, che ravvisa una condotta fraudolenta, rilevante ex art. 11 d.lgs. 74/2000, nella costituzione di un trust, nel quale disponente e trustee coincidevano, e che non sembrava avere alcuna ragion d’essere, se non lo scopo di sottrarre beni alla procedura di


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Come recentemente rilevato da attenta dottrina, l’impressione complessiva che si ricava dall’esame dell’elaborazione giurisprudenziale è che “il dolo specifico di sottrarsi al pagamento delle imposte e l’idoneità degli atti ad una tale finalità [siano] divenuti, di fatto, gli unici filtri selettivi della tipicità delle condotte poste in essere dai contribuenti raggiunti dalle indagini del fisco” (59). La conclusione – provvisoria – cui sembra di poter pervenire è che, così come si è già sopra rilevato in relazione alla complessiva produzione giurisprudenziale nel settore penal tributario, anche con specifico riferimento al delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, la giurisprudenza sia in difficoltà ad accettare il carattere frammentario del diritto penale, necessario corollario del principio di stretta legalità, e pervenga a sanzionare anche condotte prive di qualsivoglia idoneità decettiva, ogniqualvolta le stesse mettano in pericolo il bene tutelato dalla norma incriminatrice. Si perviene così ad una interpretatio abrogans, difficilmente conciliabile con il principio di legalità, del requisito delle modalità di condotta, tipizzate dal legislatore con le locuzioni “aliena simulatamente” e “compie atti altri fraudolenti”: la finalità di sottrarsi al pagamento del debito tributario e l’idoneità della condotta a rendere in tutto in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva sembrano essere sufficienti per integrare la “fraudolenza”, che, quindi, alla prova dei fatti, perde ogni capacità selettiva (60).

riscossione coattiva (in ordine alla rilevanza ex art. 11 della costituzione di un trust, cfr. anche Cass. pen., sez. III, 16.12.2015, n. 6798; Cass. pen., sez. III, 17.9.2018, n. 2569 e Cass. pen., sez. III, 21.4.2017, n. 36801, che peraltro rimarca la necessità di accertare in concreto il dolo specifico di sottrazione fraudolenta di beni al Fisco). In senso critico in ordine all’atteggiamento della giurisprudenza, che valorizza come “presunti elementi di fraudolenza elementi che viceversa appaiono fisiologici nell’istituto del trust”, cfr. S. Dorigo, I nuovi confini giurisprudenziali del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in Dir. prat. trib., fasc. 4/2017, 1583, il quale, più in generale, osserva come si sia “assistito al proliferare di pronunce di legittimità con le quali il ricorso ad ordinari strumenti di pianificazione societaria o patrimoniale è stato incriminato in quanto ritenuto idoneo a configurare in concreto la fattispecie astratta di cui all’art. 11”. (59) Cfr. A. Perini, Il reato di sottrazione fraudolenta, cit., 1205. (60) Nello stesso senso, cfr. A. Perini, Il reato di sottrazione fraudolenta, cit., 1215, il quale perspicuamente sintetizza il concetto rilevando che la fraudolenza “è divenuta il grimaldello per scardinare il richiamo alla simulazione onde estendere la fattispecie anche a condotte prive di qualsivoglia connotazione decettiva”.


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4. Il cerchio si chiude: la rinuncia al disvalore di evento (id est, all’offesa) nel delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte e l’approdo al “diritto penale d’autore”. – La conclusione cui si è pervenuti, circa la polarizzazione della tipicità sul momento offensivo, è in realtà solo provvisoria, o perlomeno, non è da sola sufficiente per offrire un quadro corretto della “dilatazione giurisprudenziale” delle possibilità applicative della fattispecie incriminatrice in esame. Come si è rilevato in apertura del presente lavoro, “bene giuridico” e “offesa”, pur se strettamente correlati, atteso che non si dà “offesa” ove non vi sia un “bene” da offendere, non si muovono sempre nella medesima direzione. Mentre il primo concetto opera necessariamente in funzione di garanzia, cioè di contenimento dell’area della rilevanza penale (61), il secondo può essere utilizzato sia in chiave “restrittiva”, in sintonia con il principio di offensività (e quindi per escludere dall’area della tipicità condotte inoffensive), sia in chiave “estensiva”, per giustificare un ampliamento della sfera della tipicità al di là del perimetro tracciato dal legislatore, per coprire (attraverso interpretazioni analogiche) ogni (supposto) vuoto di tutela del bene. Orbene, come si è sopra cercato di chiarire, con riferimento al reato di cui all’art. 11 d.lgs. 74/2000 (così come, avviene, del resto, per molti altri reati tributari) la giurisprudenza tende sovente a fare impiego del concetto di bene giuridico in chiave espansiva, per assicurare una tutela, per così dire, “incondizionata” al bene “garanzia patrimoniale del debito erariale”, contro ogni condotta idonea a porlo in pericolo, ancorché priva del connotato della “fraudolenza”. La stessa attenzione non viene però dedicata al bene giuridico quando si tratta di contenere la sfera della tipicità, limitandola alle condotte che il legislatore ha individuato come sufficientemente offensive per essere meritevoli della sanzione penale, nell’ottica del principio di sussidiarietà. In altri termini, la giurisprudenza, una volta operata una semplificazione strutturale della fattispecie, con un’interpretazione sostanzialmente abrogativa del requisito della fraudolenza operata in forza delle capacità espansive del concetto di bene giuridico, perviene talora a punire anche condotte che, in

(61) E ciò, come si è già chiarito, sia rispetto alle scelte del legislatore sia, per quanto più direttamente interessa nella prospettiva in questa sede in esame, in relazione all’attività esegetica del Giudice: v. retro, par. 1, ed ivi nt. 11.


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realtà, determinano un’offesa scarsamente significativa del bene tutelato, e che il legislatore aveva quindi inteso tenere al di fuori della sfera della tipicità. Il riferimento è alla lettura della fattispecie incriminatrice offerta da Cass. pen., sez. III, 17.11.2017, n. 15133, in CED Cass. Rv. 272505, secondo la quale – come è dato leggere nella massima ufficiale – “il delitto previsto dall’art. 11, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è reato di pericolo, integrato dall’uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare – secondo un giudizio «ex ante» – l’attività recuperatoria della amministrazione finanziaria, anche se il valore dei beni sottratti alla garanzia patrimoniale dell’erario è inferiore alla soglia di punibilità di 50.000 euro di imposta evasa”. Tale conclusione, sebbene risulti conforme alla lettera della previsione normativa (che riferisce la soglia dei cinquantamila euro solo al debito tributario, e non al valore di beni sottratti all’esecuzione esattoriale) e trovi il conforto di una parte della dottrina (62), non può essere condivisa, e – si aggiunge – rende evidente come, in ambito penal tributario, la giurisprudenza, da un canto, valorizzi (in chiave “estensiva”) il bene giuridico, cercando (in tensione con il principio di stretta legalità) di assicurare allo stesso piena tutela, superando le “lacune” inevitabilmente connesse alla logica frammentaria del diritto penale, mentre, dall’altro canto, trascuri la necessità di utilizzare il criterio dell’offensività in prospettiva di interpretazione teleologica, per escludere la rilevanza penale di condotte solo apparentemente tipiche, in quanto compatibili con la lettera della previsione legislativa. Com’è dato leggere nella Relazione di accompagnamento al d.lgs. 74/2000, lo scopo principale della riforma del 2000 era quello di superare l’impostazione della l. 516/82, fondata su “reati prodromici”, ossia su “fattispecie criminose volte a colpire, indipendentemente da un’effettiva lesione degli interessi dell’erario, comportamenti ritenuti astrattamente idonei a «preparare il terreno» ad una successiva evasione”: al fine di raggiungere tale obiettivo – si legge nella Relazione – il d.lgs. 74/2000 ha imperniato il sistema penal tributario “su un ristretto catalogo di fattispecie criminose, connotate da una rilevante offensività” (63). La scelta, peraltro, risulta evidente già sulla base del contenuto della delega legislativa: infatti, all’art. 9, lett. d), l. 25.6.1999, n. 205, si indica, tra i criteri cui doveva attenersi il legislatore delegato, la

(62) Cfr., ad esempio, A. Perini, Il reato di sottrazione fraudolenta, cit., 1203 s. (63) V. par. 1 della Relazione.


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previsione di “soglie di punibilità idonee a limitare l’intervento penale ai soli illeciti economicamente significativi”. Ovviamente, il principio del contenimento della sfera di rilevanza penale ai fatti dotati di “rilevante offensività”, in quanto “economicamente significativi”, ha guidato il legislatore anche nella costruzione della fattispecie contemplata dall’art. 11, come chiarisce la Relazione, ove si precisa che la soglia di punibilità “è stata aumentata a lire cento milioni in conformità delle direttrici generali di intervento” (64). Orbene, tale obiettivo del legislatore deve essere tenuto presente nel momento in cui si proceda alla ricostruzione ermeneutica della fattispecie incriminatrice: lo impone la già sopra rimarcata (65) “dimensione ermeneutica dell’offensività” (66). Atteso che si è pacificamente in presenza di un reato posto a tutela della “garanzia patrimoniale del debito erariale” e che il legislatore, come sopra chiarito, ha inteso limitare la rilevanza penale a fatti connotati da una “rilevante offensività”, è evidente che, ove la lettera della legge lo consenta, una interpretazione costituzionalmente orientata, alla stregua del principio di

(64) V. par. 3.2.3 della Relazione. (65) V. retro, par. 1, ed ivi, nt. 11. (66) Per tale espressione, cfr. M. Donini, Il principio di offensività, cit., 37, il quale precisa che la declinazione in chiave ermeneutica del principio di offensività ovviamente “presuppone fattispecie suscettibili di riconversione ermeneutica in chiave di offesa” (ivi 38); in caso contrario si andrebbe infatti incontro ad una forzatura ermeneutica che implicherebbe la violazione del principio di riserva di legge. In tema, cfr. recentemente anche le lucide osservazioni di V. Manes, Dalla fattispecie al precedente: appunti di deontologia ermeneutica, in www.penalecontempoaraneo, 17.1.2018, il quale muove dal condivisibile presupposto del “diritto penale come «diritto dei limiti» e «scienza delle garanzie» - cioè come settore dove il rapporto autorità/libertà subisce la massima torsione, rendendo cruciale il problema della legittimazione del potere”, per ricavarne la necessità di “approcci metodologici e soluzioni peculiari”, che “impongono di adottare un precipuo modello deontologico e prescrittivo dell’interpretazione, in quel percorso – più volte indicato dalla Corte costituzionale – volto a conferire alla decisione del giudice un «fondamento costituzionale»” (ivi, 6); in tale prospettiva, si impone una interpretazione “tassativizzante e tipizzante”, che rifugga dall’analogia e le cui “fondamentali direttrici possono trarsi dagli ulteriori principi-limite che contraddistinguono il diritto penale come ius exceptum: il principio di offensività, che un roccioso orientamento della Corte costituzionale riconosce come «canone ermeneutico universalmente accettato» ma anche il principio di proporzione, che la stessa Corte ha ormai affermato come principio autonomo (…), e che, come tutti i principi, può operare – deve operare – anzitutto come criterio interpretativo, quale riflesso di un più generale canone di «saggezza pratica» e buon senso […] nell’esercizio dell’ars interpretandi” (ivi, 15).


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offensività, impone di limitare la sfera della tipicità ai fatti in grado determinare una offesa rilevante del bene “garanzia patrimoniale” del credito erariale. Come già rilevato da chi scrive poco dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina penal tributaria (67) (68), in realtà una tale lettura, non solo è compatibile con la lettera della legge, ma, ben più, costituisce il percorso ermeneutico dalla stessa chiaramente suggerito, in particolare attraverso la locuzione che descrive il presupposto della condotta (69) e il dolo specifico, e cioè l’espressione “al fine di sottrarsi al pagamento di imposte etc.… per un valore superiore a ad euro cinquantamila”. Per un verso, infatti, offre una indicazione in tal senso lo stesso coefficiente soggettivo, ove si aderisca all’impostazione dottrinale secondo cui per i reati a dolo specifico nei quali l’evento perseguito dall’agente è “un evento offensivo dei beni giuridici protetti dall’ordinamento”, il principio costituzionale di offensiva, “il quale reclama per tutti i reati almeno la creazione di un pericolo per il bene tutelato dalla legge”, “esige la oggettiva idoneità degli atti dell’agente a cagionare l’evento dannoso o pericolo preso di mira” (70): nel caso di specie, in forza di tale prospettiva occorre il pericolo che vengano sottratti all’esecuzione esattoriale beni il cui presumibile valore, al momento della condotta, sia superiore ad euro cinquantamila. Nello stesso senso – e con evidenza ancora maggiore - depone il fatto che il debito tributario costituisca – secondo la tesi pacificamente accolta dalla prevalente dottrina e dalla giurisprudenza – il presupposto della condotta tipica, e cioè la circostanza che la fattispecie incriminatrice riguardi solo la condotta tenuta da chi abbia un debito tributario di almeno cinquantamila euro, come riconosce, del resto, anche Cass. pen., 15133/2017 (71).

(67) Cfr. Aldrovandi, Commento all’art. 11, cit., 359 ss., cui ci si permette di rinviare per un maggior approfondimento del percorso ermeneutico che ci si accinge a tratteggiare. (68) E come peraltro aveva rilevato ancor prima V. Napoleoni, I fondamenti, cit., 206, il quale, perspicuamente, dopo aver dato atto del fatto che, per l’integrazione del reato, è sufficiente “che l’atto avuto di mira si presenti idoneo a diminuire la prevedibile percentuale di soddisfo dell’erario, pur senza azzerarla”, precisa che resta ferma “peraltro l’esigenza che tale decremento varchi comunque la soglia dei cento milioni di lire”. (69) Rappresentato dal debito tributario superiore ad euro cinquantamila: v. retro, nt. 43. (70) Cfr. G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, VIII ed., Milano, 2019, 521 s. (71) La quale rimarca che “il legislatore ha inteso selezionare, ai fini penalistici, solo le condotte che pongono in pericolo la riscossione di imposte (…) complessivamente superiore all’ammontare di 50.000 euro”.


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Infatti, se il legislatore ha inteso costruire l’intera disciplina penal tributaria circoscrivendo, nel rispetto del principio di offensività, la tipicità ai fatti dotati di “rilevante offensività”, è chiaro che, nella prospettiva di un delitto posto a tutela della garanzia patrimoniale del credito erariale, la “rilevanza” dell’offesa deve essere parametrata all’integrità della garanzia patrimoniale; ciò significa che, nella prospettiva di escludere la rilevanza penale di fatti “bagatellari”, ben poco possa dire di per sé l’entità del debito tributario: l’unico dato significativo infatti è costituito dall’entità del danno alla procedura di esecuzione coattiva. Con la locuzione “al fine di sottrarsi al pagamento di imposte etc.… per un valore superiore a ad euro cinquantamila”, il legislatore ha quindi voluto limitare la rilevanza penale alle condotte tenute da chi abbia un debito tributario di almeno cinquantamila euro e tenga condotte idonee a sottrare beni per un tale valore; la soglia di cinquantamila euro non può che integrare, quindi, anche il valore di presumibile realizzo dei beni sottratti ad esecuzione; in altre parole, si tratta del valore minimo a cui fa riferimento la parte finale della norma incriminatrice, laddove richiede che la condotta debba essere idonea “a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva” (72). L’opposta conclusione cui perviene Cass. pen. 15133/2017 è frutto di un percorso ermeneutico che costituisce paradigmatica esemplificazione della tendenza giurisprudenziale a superare la natura frammentaria del diritto penale, per coprire ogni supposto vuoto di tutela. Se solitamente tale atteggiamento si concretizza in letture analogiche della disposizione incriminatrice, in tensione con il principio di legalità, nel caso di specie si è invece in presenza di un “fideistico” rispetto della lettera della previsione legislativa, che nega qualsiasi spazio al momento dell’interpretazione teleologica, che, come si è sopra chiarito, dovrebbe essere guidata, innanzitutto, dal principio di offensività (73).

(72) In tal senso, cfr. anche E. Vagnoli, Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte, in Rass. trib., 2004, 1356; G. L. Soana, I reati tributari, cit., 453; A. Ingrassia, Le diverse forme di sottrazione al pagamento delle imposte, cit., 385 s.; S. Del Signore, I delitti di fraudolenta sottrazione al pagamento di imposte, cit., 1025; E. Musco, F. Ardito, Diritto penale tributario, cit., 345. (73) Momento, peraltro, a cui la stessa giurisprudenza di legittimità è solita assegnare rilevanza prioritaria, perlomeno quando si tratta di leggere in senso estensivo le fattispecie incriminatrici: cfr. Cass. pen., Sez. Unite, 31.3.2016, n. 22474, in materia di false comunicazioni sociali, la quale, dopo aver premesso che “l’interpretazione letterale altro non è che un (indispensabile) «passaggio» funzionale verso la completa ed esaustiva intelligenza del comando legislativo”, è pervenuta a qualificare il testo normativo come mero “involucro


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Secondo la Corte di cassazione, “il fatto che il legislatore [abbia] inteso selezionare, ai fini penalistici, solo le condotte che pongono in pericolo la riscossione di imposte (ovvero sanzioni e interessi ad essi relativi) complessivamente superiori all’ammontare di 50.000,00 Euro, non autorizza l’interpretazione secondo la quale anche il valore del bene simulatamente alienato deve essere superiore a detto ammontare. È il dato testuale che priva di fondamento tale tesi: la possibilità che la procedura di riscossione possa essere anche «solo in parte» pregiudicata dalla condotta fraudolenta comporta necessariamente che il valore del bene possa essere inferiore al credito erariale agito, e poiché la «soglia di punibilità» riguarda il credito e non il bene, è arbitrario ritenere che il suo superamento costituisca predicato di entrambi”. In breve, la Corte valorizza la lettera della norma come barriera per evitare una lettura teleologica che ridurrebbe lo spazio applicativo della norma. Lo scopo è sempre quello di chiudere ogni varco, evitando “supposte” lacune di tutela: infatti, come è dato leggere nella motivazione, secondo la Corte, ove si accogliesse la lettura che limita la rilevanza penale alle condotte aventi ad oggetto beni di presumibile valore superiore ad euro cinquantamila, si darebbe luogo “alla creazione di un’inammissibile zona franca”, giacché “il contribuente sarebbe sostanzialmente legittimato a diminuire la garanzia del debito erariale (e dunque la sua possibilità di recupero per intero) con alienazioni simulate penalmente indifferenti se il valore dei beni sottratti è ogni volta inferiore a 50.000,00 Euro. Conseguenza ancora più assurda se, ipotizzando, un credito di imposta pari a 50.100,00 Euro, la sottrazione di beni di valore complessivo pari a 49.000,00 Euro sarebbe penalmente irrilevante benché idonea a pregiudicare la riscossione del credito nella sua interezza e certamente a pregiudicarla in parte”. In sostanza, la Corte non ritiene ammissibile che possa sfuggire a sanzione penale il contribuente che, pur avendo un debito superiore ad euro cinquantamila, sottragga beni di valore anche di poco inferiore a tale importo:

verbale” dell’“intenzione del legislatore”, che però non si identifica “con quella dell’Organo o dell’Ufficio che ha predisposto il testo”, e va quindi ricercata dal giudice “nella volontà statuale, finalisticamente intesa”. In senso analogo, cfr. più recentemente Cass. pen., Sez. Unite, 21.11.2017, n. 8770, che sembra assegnare rilevanza prevalente al canone interpretativo teleologico, individuando come unico limite “quello di andare «contro» il significato delle espressioni usate” dal legislatore, senza che, però, sia vietato all’interprete “andare «oltre» la lettera del testo”, soprattutto quando sia “necessario per giungere ad un risultato costituzionalmente adeguato”.


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per chiudere ogni varco, la Corte valorizza il dato letterale, e sancisce la punibilità di sottrazione di beni per qualsiasi importo, purché il soggetto attivo sia un contribuente gravato da un debito erariale superiore ad euro cinquantamila. La Corte non si avvede, però, che così argomentando, si perviene a costruire il reato di sottrazione fraudolenta, oltre che in antitesi con la volontà del legislatore (che aveva inteso sanzionare solo fatti “economicamente significativi”), anche in violazione del principio costituzionale di offensività. Se, nel caso di specie, si è in presenza di un reato che tutela la garanzia patrimoniale, è chiaro che la soglia di punibilità volta a garantire la significatività dell’offesa deve essere riferita anche al valore dei beni sottratti ad esecuzione, tanto più che la lettera della legge, come sopra chiarito, non pone alcun reale ostacolo ad una tale lettura. L’interpretazione formalistica offerta dalla Suprema Corte giunge a legittimare la punizione di offese insignificanti al bene tutelato, purché siano poste in essere da un “contribuente significativo”, cioè da un soggetto che abbia un debito tributario di almeno cinquantamila euro. Detto in altri termini, laddove a venire in considerazione sia un contribuente avente debiti inferiori ad euro cinquantamila, lo stesso non sarà mai punibile, neppure se sottragga beni per un valore pari all’importo del proprio debito. Laddove, invece, a venire in considerazione sia chi abbia un debito superiore ad euro 50.000, questi sarà sempre soggetto a sanzione penale, anche nel caso in cui vengano sottratti beni di valore trascurabile. La divergenza di esiti appare incompatibile con i principi di offensività e di uguaglianza, ove si tenga conto del fatto che si è in presenza di reato che tutela – come si è più volte rimarcato – la garanzia patrimoniale del credito erariale: infatti, la medesima offesa acquista o perde rilevanza a seconda che a venire in considerazione sia un contribuente “significativo” o un “piccolo” contribuente (secondo il parametro individuato dall’art. 11). È chiaro che così argomentando, si abbandona il solido terreno garantista del diritto penale del fatto, di cui è “declinazione” il principio penale di offensività (74), per avventurarsi nell’insidioso ambito del diritto penale del

(74) Come rimarca M. Donini, Il principio di offensività, cit., 15.


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tipo normativo d’autore (75), nella cui prospettiva “si è puniti per quel che si è e non per quel che si fa” (76). Il soggetto avente rilevanti debiti tributari assurge, in sostanza, al ruolo di “nemico”, e rientra, quindi, “nel tipo di autore del soggetto pericoloso: se ne chiede la damnatio o la punizione, non per quello che eventualmente avrebbe fatto ma per quello che [è], a prescindere dalla commissione di un fatto” (77), e, quindi, nel caso di specie, indipendentemente dall’entità del pericolo creato al bene giuridico tutelato (garanzia patrimoniale). In breve, il fatto che si sia in presenza di un contribuente “significativo” fa sì che assurga al rango di reato qualsivoglia sottrazione di beni all’esecuzione esattoriale: la sanzione, quindi, colpisce il “tipo di contribuente”, anziché il fatto dallo stesso posto in essere. La medesima prospettiva sembra emergere in una pronuncia in materia di sequestro preventivo ai fini di confisca, che perviene alla conclusione secondo cui il “profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte” è rappresentato dal valore dei “beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase”, anche laddove tale valore superi l’importo del credito tributario (78).

(75) Già F. Bricola, voce «Teoria generale del reato», in Noviss. dig. it., vol. XIX, Torino, 1973, 38, rimarca come il principio di offensività e cioè la “lesività necessaria di ogni reato” sia la barriera che “impedisce nel nostro sistema la risoluzione della dogmatica generale del reato in una dogmatica del reo” e, quindi, in sostanza il sorgere di un diritto penale del tipo d’autore. (76) Cfr. G. Flora, Verso un diritto penale del tipo d’autore, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 559. Secondo l’efficace sintesi offerta da F. Mantovani, Diritto penale, VIII ed., Padova, 2013, 568, in base a tale teoria, che si è sviluppata nella Germania nazionalsocialista, l’autore “corrisponde ad un determinato modo di essere dell’individuo in seno alla comunità. Esso costituirebbe un tipo concreto, che è presente e reale nella coscienza del Popolo, con sue determinate caratteristiche (quale l’omicida, il ladro, l’incendiario) e che vive dietro la fattispecie legale. L’interprete deve coglierlo dalla coscienza popolare, perché esso costituisce il criterio illuminante della norma legislativa, per allargarne come per restringerne la portata, per punire o non punire certi fatti”. Per approfondimenti sul tema, cfr., nella dottrina italiana, A. Calvi, Tipo criminologico e tipo normativo d’autore, Padova, 1967. (77) Cfr. L. Violante, L’infausto riemergere del tipo di autore, in Questione giustizia, fasc. 1/2019, 102. (78) Cfr. Cass. pen., sez. III, 11.4.2017, n. 37136, che conferma la legittimità del sequestro preventivo della somma di circa ottocentomila euro, rinvenuta su un conto corrente estero del contribuente, pur se l’importo del debito tributario accertato era di circa trecentomila euro.


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Com’è noto, la confisca è istituto poliedrico, come ha rimarcato la stessa giurisprudenza di legittimità: infatti, “a fronte di identico effetto sostanziale, consistente nell’ablazione del bene (…), diversa può essere la fisionomia dell’istituto (donde il suo ‘polimorfismo’) in rapporto alla specifica disciplina positiva” (79). Così, per quanto rileva nella presente sede, la confisca del profitto o del prezzo del reato, prevista, in linea generale, dall’art. 240 c.p. e per il reati tributari dall’art. 12-bis d.lgs. 74/2000, riveste la natura di misura di sicurezza (80); a diversa conclusione si deve pervenire in relazione alla confisca per equivalente, anch’essa contemplata in relazione ai reati tributari dall’art. 12-bis, per le ipotesi in cui non sia possibile provvedere alla confisca “diretta” del prezzo o del profitto: in questo caso, “la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all’assenza di un «rapporto di pertinenzialita» (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni, conferiscono all’indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura «eminentemente sanzionatoria»” (81), sicché si è in presenza di una vera e propria pena. Per quanto riguarda il concetto di “profitto” assoggettabile a confisca, la giurisprudenza è pervenuta ad accogliere un’accezione particolarmente ampia, in base alla quale la derivazione dal reato va intesa in senso meramente economico, di talché il concetto di profitto assume rilevanza anche in ambito penal-tributario: secondo la giurisprudenza, infatti, “il profitto, nei reati tributari, va inteso come qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo” (82), con la precisazione che il denaro rinvenuto nella disponibilità del contribuente, trattandosi di bene fungibile, deve sempre essere considerato

(79) Cfr. Cass. pen., Sez. Unite, 26.6.2014, n. 4880. (80) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 19.3.1986, n. 9903, secondo cui “la confisca prevista dall’art. 240 cod. pen. è una misura di sicurezza patrimoniale, tendente a prevenire la commissione di nuovi reati mediante l’espropriazione a favore dello Stato di cose che, essendo quanto meno collegate alla esecuzione di illeciti penali, manterrebbero viva l’idea e la attrattiva del reato; essa quindi ha carattere cautelare e non punitivo”. (81) Così Corte Cost., ord. 2.4.2009, n. 97; nello stesso, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, cfr., ad esempio, Cass. pen., Sez. Unite, 26.6.2015, n. 31617; Cass. pen., sez. III, 19.1.2016, n. 4097. (82) Cfr. Cass. pen., sez. III, 2.3.2018, n. 24042; nello stesso senso, cfr., ad es., Cass. pen., sez. III, 19.1.2016, n. 4097.


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“profitto” del reato, in quanto frutto del risparmio di spesa connesso all’omesso versamento dei tributi, sicché sarà suscettibile di confisca diretta (83). Così tratteggiata, nei limiti dello stretto necessario, la disciplina in materia di confisca, occorre prendere in considerazione la problematica relativa al concetto di “profitto”, in relazione al reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. Il reato in parola differisce profondamente dagli altri illeciti tributari già per il fatto che, come si è sopra sottolineato, non è diretto a tutelare l’interesse alla percezione dei tributi, sibbene la funzione di garanzia patrimoniale rivestita dai beni del contribuente per i crediti tributari o, secondo altra prospettiva, il corretto funzionamento della procedura di riscossione coattiva. Tale configurazione dell’interesse tutelato (o meglio, la struttura del delitto, da cui tale configurazione dipende) ha evidenti ripercussioni sull’individuazione del “profitto”. La più recente giurisprudenza di legittimità ritiene, infatti, che, nel caso di specie, il profitto vada “individuato non nell’ammontare dell’imposta evasa, essendo semmai tale quello dei diversi reati di evasione fiscale eventualmente commessi, quanto invece nel valore dei beni sottratti all’esecuzione fiscale, essendo questo più propriamente l’oggetto della condotta incriminata, la cui ratio è pacificamente la tutela della garanzia generica del credito tributario e non il credito in quanto tale” (84). Ciò, però, non può significare che oggetto della confisca debba essere sempre e necessariamente l’intero valore dei beni costituenti la garanzia patrimoniale sulla quale il Fisco avrebbe potuto soddisfarsi.

(83) Cfr. Cass. pen., Sez. Unite, 26.6.2015, n. 31617, secondo cui “ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perde - per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo - qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica. Non avrebbe, infatti, alcuna ragion d’essere - né sul piano economico né su quello giuridico - la necessità di accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita: ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo”. (84) Così, testualmente, Cass. pen., sez. III, 22.2.2016, n. 6798 che si conforma a Cass. pen., sez. III, 22.1.2015, n. 10214; nello stesso senso, cfr. anche Cass. pen., sez. V, 1.2.2019, n. 8850; Id., 10.1.2019, n. 11261; Cass. pen., sez. III, 18.5.2018, n. 49199; Id., 12.7.2017, n. 47827.


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È ovvio che la ratio del principio giurisprudenziale sintetizzato nelle massime secondo cui il profitto va individuato nel valore dei beni sottratti va inteso nel senso che il profitto “coincide con il patrimonio sottratto alla garanzia dell’esazione” (85), cioè, detto in altri termini, con il “risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale” (86), di talché si è precisato che la confisca “non può riguardare somme superiori all’effettivo profitto conseguito, quantificato decurtando dal valore del patrimonio sottratto le somme recuperate dal fisco a seguito delle cessioni di ramo d’azienda e dei versamenti effettuati dall’imputato” (87). Da ciò discende che, in realtà, il valore dei beni sottratti corrisponde solo all’importo massimo assoggettabile a confisca, e cioè al valore confiscabile laddove il debito tributario sia pari o superiore alla somma ricavabile dai beni in parola. Posto, infatti, che il profitto del reato di cui all’art. 11 è il “risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale”, ne deriva che lo stesso coincide con la parte dei beni sui quali l’Erario si sarebbe sodisfatto, laddove gli stessi non fossero stati sottratti. È chiaro a questo punto l’errore di prospettiva in cui incorre Cass. 37136/2017, laddove ammette l’assoggettabilità a confisca di beni (nella specie, disponibilità liquide su conto corrente) per oltre ottocentomila euro a fronte un debito tributario accertato di circa trecentomila euro: si viene in tal modo ad irrogare una sanzione che è priva di qualsiasi rapporto di proporzione con l’offesa arrecata e che, ancora una volta, sembra quindi diretta essenzialmente a “retribuire l’autore” del reato, che incarna il “tipo criminologico dell’evasore”; conclusione che – si noti – rimane ferma anche quando a venire in considerazione sia una confisca “diretta” (come nel caso di specie, in cui il sequestro riguardava disponibilità presenti su un conto corrente), che quindi, per definizione, dovrebbe avere natura di misura di sicurezza: il fatto che vengano colpiti beni che in realtà non costituiscono “profitto”, essendo privi di nesso di pertinenzialità con il reato (le somme sulle quali il Fisco non si sarebbe soddisfatto, giacché superavano l’importo del credito dalla stesso vantato) fa sì che, in relazione a tali beni, anche la confisca di un bene fungibile – che dovrebbe essere sempre confisca diretta – alla

(85) Così Cass. pen., sez. V, 14.3.2019, n. 32018. (86) Cfr. Cass. pen., sez. III, 6.7.2018, n. 52166. (87) Cfr. Cass. pen., sez. III, 19.1.2016, n. 4097, in CED Cass., Rv. 265843.


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prova dei fatti si trasfiguri, venendo ad acquisire i connotati di una sanzione, che però perde qualsiasi relazione con la gravità del fatto posto in essere, rapportandosi, piuttosto, alla tipologia di autore e alle capacità economiche dello stesso (88). La complessiva elaborazione giurisprudenziale di cui si è dato conto rivela una preoccupante tendenza ad una sorta di “destrutturazione” della fattispecie incriminatrice contemplata dall’art. 11, che, muovendo da una valorizzazione del profilo offensivo, per marginalizzare la rilevanza delle modalità di condotta, perviene poi a mettere in secondo piano la stessa offesa. L’idea dell’offesa sembra perdere dunque qualunque valenza garantistica: dapprima tende a trasformare l’art. 11 in reato a forma libera, per poi “evaporare” anch’essa, nel momento in cui l’attenzione si concentra sul debito tributario, che, in realtà, è estraneo all’oggettività giuridica della norma (v. Cass. 15133/2017), oppure si rivolge - in prospettiva di confisca - al mero valore dei beni, a prescindere dall’importo del debito tributario (v. Cass. 37136/2017). Rimane alla fine l’idea che si punisca non una significativa offesa all’interesse tutelato (garanzia patrimoniale per il credito tributario/ funzionamento della procedura esecutiva), ma un “significativo contribuente”, che arrechi qualsiasi offesa, anche del tutto trascurabile, al bene tutelato: la logica – si ribadisce – è però quella di un suggestivo e pericoloso “diritto penale dell’autore”, e non quella di un diritto penale del “fatto”, di matrice illuministica e fondato sulla stessa lettera della nostra Costituzione che, all’art. 25, comma 2, limita la rilevanza penale al “fatto” previsto dalla legge: solido aggancio al principio di materialità, su cui si radica il principio di offensività. 5. L’estensione della c.d. “confisca allargata” al delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte: un ulteriore, irragionevole, cedimento al “diritto penale d’autore”? – Con riferimento al delitto di sottrazione

(88) Nello stesso senso, in sede di commento a Cass. 37136/2017, cfr. L. Pellegrino, Confisca e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, in Giur. it., 2018, 2261: “Dalle parole della Suprema Corte parrebbe (…) affiorare la chimera di un diritto penale d’autore. Le fattispecie (art. 11 e 12-bis) si colorerebbero, così, di aspetti non sanzionatori, né riscossivi, ma autenticamente «neutralizzanti» dell’autore-evasore. (…) Pure intesa come sanzione, ma persi i caratteri essenziali della proporzione e colpevolezza, la confisca tributaria finisce con il fondarsi unicamente su di un giudizio di pericolosità presunta, con conseguente perdita di freni e limiti espansivi”.


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fraudolenta al pagamento d’imposte, aspetti di irrazionalità, che denotano una visione ispirata al diritto penale del tipo d’autore, sembrano emergere anche nella recente riforma operata dall’art. 39 d.l. 26.10.2019, n. 124. In relazione al delitto di cui all’art. 11 d.l.gs. 74/2000, la novella del 2019 opera due interventi indiretti, che cioè non incidono sul disposto dell’art. 11: si tratta, infatti, dell’inserimento di tale delitto tra i reati presupposto di due istituti che lo stesso d.l. 124/2019 estende ai reati tributari, e cioè la c.d. “confisca allargata”, prevista dall’art. 240-bis c.p., estesa, dal nuovo art. 12-ter d.ls. 74/2000 ai delitti di cui agli artt. 2, 3, 8 e 11, commi 1 e 2, al superamento di determinate soglie, e la responsabilità amministrativa degli enti, che il nuovo art. 25-quinquiesdecies del d.lgs. 8.6.2001, n. 231 estende ai reati di cui agli artt. 2, 3, 8, 10 e 11. L’inserimento dei reati tributari tra i presupposti della responsabilità amministrativa degli enti era da tempo suggerito da una parte della dottrina (89), pur se non mancava chi avanza sul punto perplessità (90), ed era imposto, in relazione ai “reati gravi contro il sistema comune dell’IVA”, dalla Direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5.7.2017 (c.d. “Direttiva PIF”), in relazione alla quale il nostro Stato si è attivato con la

(89) Cfr., per tutti, Sorbello, Evasione fiscale e politica criminale: considerazioni sull’inopportunità sistematica della mancata corresponsabilizzazione degli enti nei reati tributari, ne L’Indice pen., 2011, 167 ss. (90) Cfr., ad esempio, C. Santoriello, I reati tributari nella responsabilità da reato degli enti collettivi: ovvero dell’opportunità di configurare la responsabilità amministrativa delle società anche in caso di commissione di reati fiscali, in Arch. pen., fasc. 1/2017, 82 ss., che, oltre a ritenere eccessivo il carico sanzionatorio che si verrebbe a determinare per effetto del cumulo fra sanzioni contemplate dal d.lgs. 231/2001 e sanzioni amministrative, sottolinea la tensione con il principio del ne bis in idem processuale, di cui all’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU. In ordine alle problematiche poste dal principio europeo del ne bis in idem in relazione allo specifico settore penal tributario, cfr. A. Lanzi, Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 136 ss., ove, peraltro, si sottolineava come tali problematiche non avessero ragione di porsi in relazione “ad illeciti relativi al rapporto fiscale di persona giuridica”, atteso che in tali ipotesi non vi era coincidenza tra “soggetto sottoposto a procedimento penale” (la persona fisica) e “soggetto sottoposto a procedimento amministrativo” (la persona giuridica) (ivi, 144). Per effetto della riforma operata dal d.l. 124/2019, la situazione è oggi differente, visto che la persona giuridica oltre ad essere soggetta alle sanzioni amministrative (v. art. 7 d.l. 30.9.2003, n. 269), sarà soggetta anche alle sanzioni di cui al d.lgs. 231/2001: infatti, alla luce dei criteri “sostanziali” sviluppati dalla Corte EDU (c.d. “criteri Engel”, elaborati dalla Corte EDU nel caso Engel e altri c. Paesi Bassi, dell’8.6.1974), anche le sanzioni qualificate come amministrative possono essere considerate come “penali”, e assumono quindi rilevanza nella prospettiva dell’art. 4 del Protocollo 7.


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l. 4.10.2019, n. 117 (c.d. “legge di delegazione europea 2018”), indicando al Governo principi e criteri per dare attuazione alla direttiva. Occorrerà ora chiedersi se l’inserimento nel d.lgs. 231/2001 dell’art. 25-quinquiesdecies sia sufficiente per dare attuazione alla Direttiva PIF, o se rispetto alla stessa permangano tuttora lacune di tutela (91). In ogni caso, la riforma in parola non pone problemi in relazione ai temi in questa sede di esame. Nella prospettiva che viene in considerazione nella presente sede, suscita invece perplessità l’inserimento tra i presupposti della confisca allargata di cui all’art. 240-bis c.p. del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte. Com’è noto la confisca allargata, o confisca per sproporzione, di cui all’art. 240-bis c.p. (che costituisce trasposizione, operata dall’art. 5 d.lgs. 1.3.2018, n. 21, della previsione in precedenza contenuta nell’art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992 n. 306) è prevista nel caso di condanna, o di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p., in relazione ad un determinato catalogo di reati, che il legislatore è venuto via a via ampliando, in relazione a beni ed utilità di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e di cui abbia la disponibilità in valore sproporzionato al proprio reddito o alla propria attività economica. La ratio dell’istituto, che si caratterizza per “un allentamento del rapporto tra l’oggetto dell’ablazione e singolo reato”, nonché per “l’affievolimento degli oneri probatori gravanti sull’accusa”, è quella di “superare i limiti di efficacia della confisca penale classica: limiti legati all’esigenza di dimostrare l’esistenza di un nesso di pertinenza – in termini di strumentalità o di derivazione – tra i beni da confiscare e il singolo reato per cui è pronunciata condanna” (92).

(91) Per un verso, l’art. 25-quinquiesdecies d.lgs. 8.6.2001, n. 231 contempla una responsabilità che va ben al di là di quanto richiesto dalla direttiva PIF, visto che si riferisce anche alle imposte dirette (che sono estranee alla sfera operativa della direttiva PIF), e, per quanto riguarda le frodi IVA, abbraccia anche ipotesi diverse dai “reati gravi contro il sistema comune dell’IVA”, che, secondo le indicazioni fornite dalla direttiva PIF, riguardano solo i reati che risultino connessi “al territorio di due o più Stati membri” e “comportino un danno complessivo pari ad almeno 10.000.000,00 EUR” (v. art. 2 della Direttiva). Per altro verso, però, la nozione di frode in materia di Iva fornita dalla direttiva PIF, che invero suscita dubbi, sembra abbracciare quanto meno anche la dichiarazione infedele e l’omessa dichiarazione, secondo quanto previsto dall’art. 3, par. 2, lett. d), punti i) e ii) della direttiva stessa. (92) Cfr. Corte Cost., 24.1.2019, n. 19, che, sul punto, richiama Corte Cost., 21.2.2018, n. 33, e che sviluppa le proprie argomentazione, oltre che in relazione alla confisca allargata, con riferimento anche alla “confisca di prevenzione”, oggi disciplinata dall’art. 24 del d.lgs. 6.9.2011, n. 159, pervenendo a concludere che, con riferimento a tali tipologie di confisca, non


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La disciplina in parola ha già superato più volte il vaglio della Corte costituzionale, che ha confermato la ragionevolezza della presunzione circa “l’esistenza di un nesso pertinenziale tra alcune categorie di reati e i beni di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e che risultino di valore sproporzionato rispetto al reddito o all’attività economica del condannato stesso” (93).

si sia in presenza di una sanzione, ma semplicemente di uno strumento “diretto a far venire meno il rapporto di fatto del soggetto con il bene, dal momento che tale rapporto si è costituito in maniera non conforme all’ordinamento giuridico, o comunque a far sì (eventualmente attraverso la confisca per equivalente) che venga neutralizzato quell’arricchimento di cui il soggetto, se non fosse stata compiuta l’attività criminosa, non potrebbe godere”. (93) Cfr. Corte Cost., ord. 29.1.1996, n. 18, a cui aderisce Cass. pen., Sez. Unite, 17.12.2003, n. 920, la quale afferma che la presunzione “trova ben radicata base nella nota capacità dei delitti individuati dal legislatore, quali, per indicarne alcuni, l’associazione per delinquere di stampo mafioso, la riduzione in schiavitù e la tratta e il commercio di schiavi, l’estorsione ed il sequestro di persona a scopo di estorsione, l’usura, la ricettazione, il riciclaggio nelle sue varie forme o il traffico di stupefacenti, ad essere perpetrati in forma quasi professionale e a porsi quali fonti di illecita ricchezza. La sua congruità è poi rafforzata dal fatto che il giudice non è autorizzato ad espropriare un patrimonio quando comunque sia di ingente valore, ma deve invece accertarne la sproporzione rispetto ai redditi ed alle attività economiche del condannato e ciò, come s’è visto, attraverso una ricostruzione storica della situazione esistente al momento dei singoli acquisti”. Successivamente la legittimità della previsione ha trovato conferma, in relazione all’inserimento del delitto di ricettazione nel catalogo dei reati presupposto, da parte di Corte Cost., 21.2.2018, n. 33, la quale ha preso atto del fatto che il legislatore ha progressivamente ampliato la lista dei reati cui si ricollega la confisca allargata, “allontanandosi spesso da quello che era l’obiettivo iniziale della confisca allargata, “esplicitamente individuato nel contrasto all’accumulazione dei patrimoni della criminalità organizzata, e mafiosa in specie, e alla loro infiltrazione massiccia nel circuito economico”; ciò però, ad avviso della Corte costituzionale, non vale a permettere di ritenere irragionevole, e quindi in contrasto con l’art. 3 Cost., l’inserimento nel catalogo dell’art. 12-sexies d.l. 306/1992 del delitto di ricettazione in quanto, per un verso, “la presunzione di origine illecita dei beni del condannato” è solo relativa, mentre, per altro verso, “la ricettazione (…) resta, per sua natura, un delitto idoneo a determinare un’illecita accumulazione di ricchezza e suscettibile, secondo un’osservazione «sociologica» di essere perpetrato in forma «professionale» o, comunque sia, continuativa”. In relazione a tale pronuncia, cfr. S. Milone, La confisca allargata al banco di prova della ragionevolezza e della presunzione di innocenza, in www.lalegislazionepenale.eu, 1.6.2018, che, pur apprezzando la lettura “garantista” della Corte Costituzionale – che, per un verso, accoglie l’orientamento giurisprudenziale consolidato che richiede un rapporto di “ragionevolezza temporale” tra gli acquisti e la realizzazione del reato che viene in considerazione e, per l’altro verso, sembra aprire spazi di discrezionalità per escludere l’applicazione della confisca “in relazione alle circostanze del caso concreto e della personalità del suo autore” – non ritiene che la stessa sia sufficiente “a porre la confisca allargata al riparo da dubbi di legittimità costituzionale”.


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Va però rimarcato che la stessa Corte Costituzionale non ha mancato di mostrare preoccupazioni in ordine alla ragionevolezza delle presunzioni su cui si fonda la confisca allargata, avvertendo circa la possibilità che l’ampliamento dei reati cui connette la possibilità di far ricorso all’istituto in parola possa dar luogo a violazioni del principio di ragionevolezza. Corte Cost. 21.2.2018, n. 33 (94), nel dichiarare non fondata la questione di legittimità sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost, nei confronti dell’art. 12-sexies, comma 1, d.l. 306/1992, nella parte in cui include il delitto di ricettazione tra quelli in relazione ai quali è prevista la confisca allargata, rivolge al legislatore un chiaro monito: “a fronte del (…) processo di accrescimento della compagine dei reati cui è annessa la misura ablativa speciale, questa Corte non può astenersi (…) dal formulare l’auspicio che la selezione dei «delitti matrice» da parte del legislatore avvenga, fin tanto che l’istituto conservi la sua attuale fisionomia, secondo criteri ad essa strettamente coesi e, dunque, ragionevolmente restrittivi. Ad evitare, infatti, evidenti tensioni sul piano delle garanzie che devono assistere misure tanto invasive sul piano patrimoniale, non può non sottolinearsi l’esigenza che la rassegna dei reati presupposto si fondi su tipologie e modalità di fatti in sé sintomatiche di un illecito arricchimento del loro autore, che trascenda la singola vicenda giudizialmente accertata, così da poter veramente annettere il patrimonio «sproporzionato» e «ingiustificato» di cui l’agente dispone ad una ulteriore attività criminosa rimasta «sommersa»”. Orbene, pare a chi scrive che il delitto di sottrazione fraudolenta contemplato dall’art. 11, comma 1, d.lgs. 74/2000 non sia idoneo a fondare una ragionevole presunzione di provenienza illecita dei beni posseduti dal contribuente, già in quanto si tratta di reato che, a differenza di tutte le altre fattispecie contemplate dal d.lgs. 74/2000, non determina alcun arricchimento del reo, venendo in considerazione semplicemente una condotta con cui si frappone un ostacolo all’esecuzione forzata per crediti erariali. Accertando la commissione del reato di cui all’art. 11, comma 1, c.p., non si accerta una condotta con la quale il soggetto si sia arricchito – anche solo sotto forma di risparmio d’imposta – e che valga a legittimare la presunzione che tutti i beni sproporzionati al proprio reddito o alla propria attività economica siano provento di delitto: in relazione al delitto in parola, infatti, il “risparmio” si realizza solo a fronte di un’attività di esecuzione esattoriale; in mancanza di precedenti procedimenti esecutivi, è evidente che il reo non

(94) Già richiamata retro, nella nota che precede.


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può avere tratto vantaggi economici da condotte riconducibili al delitto di cui all’art. 11, comma 1, d.lgs. 74/2000. Pare quindi del tutto irragionevole ritenere che una condanna per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte possa valere a fondare la presunzione che tutti beni patrimoniali, sproporzionati rispetto alle capacità reddituali del contribuente, possano essere il frutto di altre ipotesi di sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte (95): si è infatti in presenza di un reato che, in mancanza di attività esecutive da parte dell’Amministrazione Finanziaria, non può ontologicamente produrre alcun risparmio d’imposta, di talché – per usare le parole di Corte Cost. 33/2018 – si deve escludere che l’accertamento di una singola fattispecie concreta di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte possa essere considerata sintomatica “di un illecito arricchimento” dell’autore della stessa, “che trascenda la singola vicenda giudizialmente accertata, così da poter veramente annettere il patrimonio «sproporzionato» e «ingiustificato» di cui l’agente dispone ad una ulteriore attività criminosa rimasta «sommersa»”. Ciò ovviamente a meno che non ci si voglia spingere fino a ricavare una valenza presuntiva dal fatto che, pur venendo in considerazione una tipologia di delitto inidoneo a determinare un arricchimento trascendente la specifica ipotesi oggetto di condanna, in ogni caso, lo stesso valga a fondare una tipologia di autore – l’“evasore” inteso in senso lato, come tipo criminologico presente nella coscienza sociale (96) – che di per sé legittima la presunzione della provenienza illecita dei beni posseduti in misura sproporzionata alle proprie capacità economiche: in tal modo, però, sembra trovare ulteriore conferma il progressivo scivolamento del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte sulla china del “diritto penale d’autore”.

Paolo Aldrovandi

(95) E tanto meno di altri reati tributari, rispetto ai quali, come si è più volte sopra rimarcata, il delitto di cui all’art. 11 appare del tutto eterogeno, già dal punto di vista del bene tutelato. (96) Come si è più volte sottolineato, l’art.11 sanziona infatti la messa in pericolo della garanzia patrimoniale per l’Erario o, detto in altri termini, della procedura di riscossione coattiva, e non l’“evasione fiscale”, che - come si ricava dalla definizione di “imposta” evasa fornita dall’art. 1, lett. f), d.lgs. 74/2000 - si sostanzia nella definitiva sottrazione di imponibile e, quindi, di imposte, attraverso la presentazione di una dichiarazione fiscale infedele/fraudolenta, oppure con l’omessa presentazione di una dichiarazione (con la precisione che, secondo la previsione della lett. f) dell’art. 1, l’imposta evasa viene a determinarsi al netto delle somme comunque versate prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine).


Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte di giustizia dell’Unione europea, Sez. V, C-189/18, 16 ottobre 2019, ECLI:EU:C:2019:861 – Pres. E. Regan, Est. I. Jarukaitis, Avv. Gen. M. Bobek IVA – Detrazione dell’imposta sugli acquisti – Procedura di accertamento della frode del cessionario – Vincolo dell’Amministrazione alle risultanze dell’accertamento del fornitore – Sussistenza del diritto di conoscenza e di accesso agli elementi di prova risultanti, di contestazione e di difesa in giudizio – Compatibilità con il diritto dell’Unione europea (artt. 167 e 168 Direttiva 2006/112/CE; art. 47 Carta dei Diritti Fondamentali UE) Il diritto di detrazione di cui alla direttiva 2006/112/CE sull’imposta sul valore aggiunto, il principio del rispetto dei diritti della difesa e l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa di uno Stato membro per la quale, nell’ambito di un accertamento di una frode IVA a carico di un soggetto passivo, l’Amministrazione finanziaria è vincolata alle risultanze raccolte nell’ambito dell’accertamento del relativo fornitore, a condizione che siano garantiti al soggetto passivo la conoscenza e l’accesso agli elementi di prova risultanti dal primo accertamento, il diritto di contestarli utilmente e l’attivazione di un controllo giudiziale sulla legittimità dell’ottenimento e dell’utilizzo di tali risultanze. (1)

(Omissis) 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva IVA»), del principio del rispetto dei diritti della difesa e dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»). 2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Glencore Agriculture Hungary Kft. (in prosieguo: la «Glencore») e il Nemzeti Adó-és Vámhivatal Fellebbviteli Igazgatósága (Direzione ricorsi dell’Amministrazione nazionale delle imposte e delle dogane, Ungheria) (in prosieguo: l’«amministrazione finanziaria») in merito a due decisioni con cui è stato disposto il pagamento di importi a titolo dell’imposta sul valore aggiunto (in prosieguo: l’«IVA») per gli esercizi 2010 e 2011.


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Contesto normativo Diritto dell’Unione 3. L’articolo 167 della direttiva IVA prevede: «Il diritto a detrazione sorge quando l’imposta detraibile diventa esigibile». 4. L’articolo 168 di tale direttiva dispone quanto segue: «Nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo ha il diritto, nello Stato membro in cui effettua tali operazioni, di detrarre dall’importo dell’imposta di cui è debitore gli importi seguenti: a) l’IVA dovuta o assolta in tale Stato membro per i beni che gli sono o gli saranno ceduti e per i servizi che gli sono o gli saranno resi da un altro soggetto passivo; (…)». Diritto ungherese 5. L’articolo 119, paragrafo 1, dell’általános forgalmi adóról szóló 2007. évi CXXVII. törvény (legge CXXVII del 2007 relativa all’imposta sul valore aggiunto) stabilisce quanto segue: «Salvo disposizioni contrarie, il diritto a detrazione sorge nel momento in cui si deve determinare l’imposta dovuta corrispondente all’imposta calcolata a monte (articolo 120)». 6. Ai sensi dell’articolo 120 di tale legge: «Nella misura in cui il soggetto passivo – che agisce in quanto tale – utilizzi, o impieghi in altro modo, prodotti e servizi per eseguire cessioni di beni o prestazioni di servizi soggette ad imposta, avrà diritto a detrarre dall’imposta di cui è debitore: a) l’imposta addebitatagli da altro soggetto passivo – compresi le persone o gli organismi assoggettati ad imposta sulle società semplificata – in occasione dell’acquisto di beni o della fruizione di servizi; (…)». 7. L’articolo 1, paragrafo 3a, dell’adózás rendjéről szóló 2003. évi XCII. törvény (legge generale sui tributi n. XCII del 2003: in prosieguo: la «legge generale sui tributi») così recita: «Nell’ambito di un controllo delle parti di un rapporto giuridico (contratto, operazione) riguardante l’obbligazione tributaria, l’amministrazione finanziaria non può qualificare un medesimo rapporto giuridico oggetto del controllo, e che è già stato qualificato, in modo diverso per ciascun soggetto passivo, e applica d’ufficio le constatazioni effettuate presso una delle parti del predetto rapporto giuridico in caso di controllo presso tutte le altre parti del predetto rapporto». 8. A norma dell’articolo 12, paragrafi 1 e 3, della legge generale sui tributi, il soggetto passivo, come ogni persona tenuta al pagamento dell’imposta ai sensi dell’articolo 35, paragrafi 2 e 7, ha il diritto di controllare i documenti relativi all’imposizione. Può consultare, fare o richiedere copie di tutti i documenti necessari per l’esercizio dei suoi diritti e per l’adempimento dei suoi obblighi. Tuttavia, il soggetto passivo non


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può consultare, in particolare, parti di un documento che contengono informazioni relative ad un’altra persona e la cui divulgazione violerebbe una disposizione in materia di segreto fiscale. 9. L’articolo 97, paragrafi 4 e 5, di tale legge così dispone: «4. Durante il controllo, l’amministrazione finanziaria ha l’obbligo di accertare e dimostrare i fatti, tranne nel caso in cui, in forza di una legge, l’onere della prova incomba sul contribuente. 5. Saranno ritenuti mezzi di prova e prove ammissibili, in particolare, (…) le constatazioni risultanti dai controlli connessi che sono stati disposti (…)». 10. Ai sensi dell’articolo 100, paragrafo 4, del suddetto codice: «Se l’amministrazione finanziaria comprova le conclusioni di un’indagine mediante i risultati di un controllo connesso effettuato presso un altro soggetto passivo, o mediante dati e prove ottenuti in quella sede, il soggetto passivo riceve una comunicazione dettagliata relativa alla parte che lo riguarda del verbale e della decisione pertinenti, e dei dati e delle prove raccolte in occasione del controllo stesso». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 11. La Glencore è una società avente sede in Ungheria, la cui principale attività consiste nel commercio all’ingrosso di cereali, semi oleaginosi e mangimi per animali, nonché di materie prime. 12. A seguito di controlli relativi, da un lato, a tutte le imposte e alle sovvenzioni per gli esercizi 2010 e 2011, ad eccezione dell’IVA dei mesi di settembre e di ottobre 2011, e, dall’altro, all’IVA del mese di ottobre 2011, l’amministrazione finanziaria ha adottato due decisioni, la prima delle quali imponeva in particolare alla Glencore di versare la somma di 1.951.418.000 fiorini ungheresi (HUF) (circa EUR 6.000.000) a titolo dell’IVA nonché una sanzione e interessi di mora, mentre la seconda le ingiungeva di pagare un supplemento d’IVA di importo pari a HUF 130171000 (circa EUR 400.000). 13. In tali decisioni, l’amministrazione finanziaria ha ritenuto che la Glencore avesse illegittimamente detratto l’IVA in quanto sapeva o avrebbe dovuto sapere che le operazioni che essa ha effettuato con i suoi fornitori si iscrivevano in una frode relativa all’IVA. Essa si è basata su constatazioni effettuate presso tali fornitori considerando tale frode come un fatto accertato. 14. Dopo il rigetto del suo ricorso amministrativo proposto avverso tali due decisioni, la Glencore ha proposto un ricorso di annullamento dinanzi al Fővárosi Közigazgatási és Munkaügyi Bíróság (Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest, Ungheria), giudice del rinvio. 15. A sostegno di tale ricorso, la Glencore sostiene in particolare che l’amministrazione finanziaria ha violato il diritto a un processo equo garantito dall’articolo 47 della Carta nonché i requisiti che tale diritto implica e ha violato, in particolare, il principio della parità delle armi. Tale amministrazione ha inoltre, a suo avviso, violato il principio del rispetto dei diritti della difesa ad un duplice titolo. Da un lato,


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solamente detta amministrazione avrebbe avuto accesso all’intero fascicolo relativo ad un procedimento penale in cui erano implicati taluni fornitori, in cui la Glencore non era parte e nel quale essa non poteva quindi avvalersi di alcun diritto, ed elementi di prova sarebbero stati così raccolti e utilizzati contro di essa. D’altro lato, tale medesima amministrazione non avrebbe messo a sua disposizione né il fascicolo relativo ai controlli effettuati presso tali fornitori, in particolare i documenti sui quali si fondano le constatazioni da essa operate, né il suo verbale, né le decisioni amministrative da essa adottate, limitandosi a comunicargliene solo una parte, da essa selezionata secondo i propri criteri. 16. L’amministrazione finanziaria sostiene che, sebbene la Glencore non possa disporre dei diritti connessi alla qualità di parte in un procedimento tributario riguardante un altro soggetto passivo, i diritti della difesa non sono stati violati per questo, poiché essa ha potuto esaminare, nell’ambito del procedimento che la riguarda, gli scritti e le dichiarazioni provenienti da procedimenti connessi e versati agli atti, e contestarne il valore probatorio esercitando il suo diritto di ricorso. 17. Il giudice del rinvio rileva che il diritto alla detrazione dell’IVA costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA e che, in linea di principio, non si può negare qualora le condizioni sostanziali richieste siano soddisfatte. Orbene, la prassi dell’amministrazione finanziaria attuata nel procedimento principale, fondata in particolare su un’interpretazione dell’articolo 1, paragrafo 3a, della legge generale sui tributi, secondo la quale tale amministrazione è vincolata alle constatazioni contenute nelle decisioni da essa adottate in esito a controlli effettuati presso i fornitori del soggetto passivo e aventi carattere definitivo, avrebbe portato a negare alla Glencore tale diritto a detrazione. 18. Tale giudice osserva che l’articolo 1, paragrafo 3a, della legge generale sui tributi ha lo scopo di garantire la certezza del diritto imponendo che si traggano da un’unica operazione le stesse conclusioni. Si pone tuttavia, a suo avviso, la questione se tale obiettivo giustifichi una prassi, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in base alla quale l’amministrazione fiscale si svincola dall’onere della prova gravante su di essa, prendendo in considerazione, d’ufficio, constatazioni effettuate nell’ambito di un procedimento anteriore, nel quale il soggetto passivo non aveva la qualità di parte né poteva quindi esercitare i diritti connessi a tale qualità e lo stesso ha preso conoscenza delle decisioni adottate al termine di tali procedure e divenute definitive solo nell’ambito dei controlli ai quali è stato assoggettato. 19. Detto giudice aggiunge che la Glencore ha ricevuto soltanto una comunicazione parziale di tali decisioni e dei documenti sui quali sono fondate, dato che l’amministrazione finanziaria si è limitata ad indicare, nel suo verbale, ciascuna delle constatazioni contenute nelle suddette decisioni, senza produrre queste ultime né tantomeno i documenti su cui si fondano. 20. Il giudice del rinvio si interroga sulla conformità di una siffatta prassi con il principio del rispetto dei diritti della difesa nonché con il diritto a un processo


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equo sancito dall’articolo 47 della Carta, tenuto conto dei limiti del controllo giurisdizionale che esso può operare, non essendo competente ad esaminare la legittimità delle decisioni adottate in esito a controlli che hanno riguardato altri soggetti passivi e, in particolare, a verificare se le prove sulle quali tali decisioni si fondano siano state legittimamente acquisite. Facendo riferimento alla sentenza del 17 dicembre 2015, WebMindLicenses (C‑419/14, EU:C:2015:832), esso chiede se i requisiti di un processo equo richiedano che il giudice investito di un ricorso avverso la decisione dell’amministrazione finanziaria che procede alla rettifica fiscale sia legittimato a controllare che le prove provenienti da un procedimento amministrativo connesso siano state ottenute conformemente ai diritti garantiti dal diritto dell’Unione e che le constatazioni basate su queste ultime non violino tali diritti. 21. In tali circostanze, il Fővárosi Közigazgatási és Munkaügyi bíróság (Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest) ha deciso di sospendere la decisione e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se le disposizioni della direttiva IVA, nonché, in quanto ad esse pertinente, il principio fondamentale del rispetto dei diritti della difesa e l’articolo 47 della [Carta], debbano essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa di uno Stato membro e a una prassi nazionale che si basa su detta normativa ai sensi delle quali le constatazioni, nel contesto del controllo delle parti del rapporto giuridico (contratto, operazione) relativamente all’obbligazione tributaria, effettuate dall’amministrazione finanziaria in esito a un procedimento avviato nei confronti di una delle parti del predetto rapporto giuridico (l’emittente delle fatture nel giudizio principale) e che comportano una riqualificazione del rapporto giuridico, devono essere prese in considerazione dall’amministrazione finanziaria in occasione del controllo nei confronti di un’altra parte del rapporto giuridico (il destinatario delle fatture nel giudizio principale), fermo restando che l’altra parte del rapporto giuridico non gode di alcun diritto, in particolare di diritti connessi alla qualità di parte, nel procedimento originario di controllo. 2) In caso di risposta negativa alla prima questione, se le disposizioni della direttiva IVA, nonché, in quanto ad esse pertinente, il principio fondamentale del rispetto dei diritti della difesa e l’articolo 47 della [Carta], ostino ad una prassi nazionale che consente una procedura come quella di cui alla prima questione tale che l’altra parte del rapporto giuridico (il destinatario delle fatture), non gode, nel procedimento originario di controllo, dei diritti connessi alla qualità di parte, e non può quindi nemmeno esercitare il diritto di ricorso nel contesto di un procedimento di controllo le cui constatazioni devono essere prese in considerazione d’ufficio dall’amministrazione finanziaria nel procedimento di controllo riguardante l’obbligazione tributaria dell’altra parte e possono essere imputate a carico di quest’ultima, tenuto presente che l’amministrazione finanziaria non mette a disposizione dell’altra parte il fascicolo relativo al controllo effettuato nei confronti della prima parte del rapporto giuridico (l’emittente delle fatture), e in particolare gli elementi su cui si fondano le constatazioni, i verbali


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e le decisioni amministrative, ma gliene comunica soltanto una parte, per estratto, di modo che l’amministrazione finanziaria porta l’altra parte a conoscenza del fascicolo soltanto in modo indiretto, operando una selezione secondo criteri che le sono propri e sui quali l’altra parte non può esercitare alcun controllo. 3) Se le disposizioni della direttiva IVA, nonché, in quanto ad esse pertinente, il principio fondamentale del rispetto dei diritti della difesa e l’articolo 47 della [Carta], debbano essere interpretati nel senso che ostano ad una prassi nazionale ai sensi della quale le constatazioni, nel contesto del controllo delle parti del rapporto giuridico relativamente all’obbligazione tributaria, effettuate dall’amministrazione finanziaria in esito a un procedimento avviato nei confronti dell’emittente delle fatture e che comportano la constatazione che tale emittente ha concorso a una frode fiscale attiva devono essere prese in considerazione d’ufficio da detta amministrazione in occasione del controllo nei confronti del destinatario delle fatture, fermo restando che il predetto destinatario non gode, nel procedimento originario di controllo avviato nei confronti dell’emittente, dei diritti connessi alla qualità di parte e non può quindi nemmeno esercitare il diritto di ricorso nel contesto di un procedimento di controllo le cui constatazioni devono essere prese in considerazione d’ufficio dall’amministrazione finanziaria nel procedimento di controllo riguardante l’obbligazione tributaria del destinatario e possono essere imputate a carico di quest’ultimo, tenuto presente che [l’amministrazione finanziaria] non mette a disposizione del destinatario il fascicolo relativo al controllo effettuato nei confronti dell’emittente, e in particolare gli elementi su cui si fondano le constatazioni, i verbali e le decisioni amministrative, ma gliene comunica soltanto una parte, per estratto, di modo che l’amministrazione finanziaria porta il destinatario a conoscenza del fascicolo soltanto in modo indiretto, operando una selezione secondo criteri che le sono propri e sui quali egli non può esercitare alcun controllo». Sulle questioni pregiudiziali Osservazioni preliminari 22. Dalla decisione di rinvio risulta che la Glencore, in seguito a controlli fiscali di cui i suoi fornitori e essa stessa sono stati oggetto, si è vista negare l’esercizio del diritto alla detrazione dell’IVA e imporre di conseguenza le rettifiche IVA. In particolare, l’amministrazione finanziaria ha fondato tale rifiuto, conformemente all’articolo 1, paragrafo 3a, della legge generale sui tributi, su constatazioni effettuate nell’ambito di procedimenti condotti contro tali fornitori e nei quali la Glencore non era quindi parte, che hanno dato luogo a decisioni divenute definitive, secondo le quali i suddetti fornitori avevano commesso una frode relativa all’IVA. 23. Poiché la domanda di pronuncia pregiudiziale fa riferimento ad un procedimento penale, ad un procedimento amministrativo tributario anteriore e a decisioni amministrative di cui i fornitori della Glencore sono stati oggetto, la Corte, conformemente all’articolo 101 del suo regolamento di procedura, ha chiesto al giudice del rinvio di fornire chiarimenti sul procedimento o sui procedimenti penali di cui trattasi


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e di indicare se essi siano stati definiti con decisioni emanate da un giudice penale divenute definitive. In risposta a tale richiesta, il giudice del rinvio ha dichiarato di non disporre di informazioni circa la chiusura, con sentenza nel merito, dei procedimenti penali riguardanti i fornitori della Glencore e ha comunicato quattro decisioni amministrative tributarie definitive riguardanti alcuni di tali fornitori. 24. In udienza è stato precisato dalla Glencore e dal governo ungherese che due procedimenti penali riguardanti la frode di cui trattasi erano ancora pendenti quando l’amministrazione fiscale ha consultato i documenti di tali procedimenti e ha adottato le due decisioni amministrative impugnate dalla Glencore nel procedimento principale. Pertanto, tali procedimenti non si erano ancora conclusi con una decisione resa nel merito da un giudice penale. Ne consegue che la presente causa non solleva questioni connesse con l’autorità di cosa giudicata. 25. Alla luce di tali precisazioni, occorre considerare che, con le sue tre questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva IVA, il principio del rispetto dei diritti della difesa e l’articolo 47 della Carta debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa o a una prassi di uno Stato membro secondo la quale, in occasione di una verifica del diritto a detrazione dell’IVA esercitato da un soggetto passivo, l’amministrazione finanziaria è vincolata dalle constatazioni di fatto e dalle qualificazioni giuridiche, da essa già effettuate nell’ambito di procedimenti amministrativi connessi condotti nei confronti dei fornitori di tale soggetto passivo, sui quali si basano le decisioni divenute definitive che accertano l’esistenza di una frode relativa all’IVA commessa da tali fornitori. 26. Secondo le informazioni fornite dal giudice del rinvio, l’amministrazione finanziaria ritiene che il fatto di essere vincolata dalle constatazioni di fatto e dalle qualificazioni giuridiche contenute in tali decisioni che hanno acquisito carattere definitivo la esoneri dal fornire nuovamente le prove della frode nel procedimento a carico del soggetto passivo. In tale contesto, detto giudice si chiede in particolare se la direttiva IVA e il principio del rispetto dei diritti della difesa ostino ad una prassi dell’amministrazione finanziaria consistente, come nel procedimento principale, nel non dare a tale soggetto passivo accesso al fascicolo relativo a procedimenti connessi e, in particolare, all’insieme dei documenti su cui si fondano tali constatazioni, ai verbali redatti e alle decisioni adottate, e nel comunicargli indirettamente, in forma sintetica, solo una parte di tali elementi da essa selezionati secondo criteri che le sono propri e sui quali lo stesso non può esercitare alcun controllo. 27. A tal riguardo, è stato precisato in udienza che, per dimostrare il coinvolgimento della Glencore in tale frode, l’amministrazione finanziaria si è basata su elementi di prova raccolti nell’ambito dei procedimenti penali pendenti, dei procedimenti amministrativi avviati nei confronti dei fornitori della Glencore e del procedimento amministrativo di cui quest’ultima è stata oggetto. 28. Il giudice del rinvio, nell’esporre, peraltro, di non essere competente ad esaminare la legittimità delle decisioni anteriori pronunciate in esito a controlli di altri


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soggetti passivi e, in particolare, a verificare se le prove su cui si fondano tali decisioni siano state ottenute legittimamente, si interroga altresì, facendo riferimento alla sentenza del 17 dicembre 2015, WebMindLicenses (C-419/14, EU:C:2015:832), sulla questione se le condizioni di un processo equo richiedano che il giudice investito di un ricorso avverso la decisione dell’amministrazione finanziaria che procede ad una rettifica dell’IVA sia abilitato a verificare che le prove provenienti da un procedimento amministrativo connesso siano state ottenute conformemente ai diritti garantiti dall’ordinamento dell’Unione e che le constatazioni basate su queste ultime non violino tali diritti. 29. Poiché, nelle sue osservazioni scritte e orali, il governo ungherese ha fornito un’interpretazione delle disposizioni nazionali e una spiegazione delle prassi dell’amministrazione finanziaria, riguardanti l’assunzione delle prove, la portata dell’accesso al fascicolo e la portata del controllo giurisdizionale, diverse da quelle esposte dal giudice del rinvio, occorre ricordare che non spetta alla Corte, nell’ambito del sistema di cooperazione giudiziaria istituito dall’articolo 267 TFUE, verificare o rimettere in discussione l’esattezza dell’interpretazione del diritto nazionale effettuata dal giudice nazionale, dato che tale interpretazione rientra nella competenza esclusiva di quest’ultimo. Perciò la Corte, qualora sia adita in via pregiudiziale da un giudice nazionale, deve attenersi all’interpretazione del diritto nazionale che ad essa è stata esposta da detto giudice (sentenza del 6 ottobre 2015, Târşia, C-69/14, EU:C:2015:662, punto 13 e giurisprudenza ivi citata). 30. Analogamente, non spetta alla Corte, bensì al giudice nazionale, accertare i fatti all’origine della causa e trarne le conseguenze ai fini della sua pronuncia. Infatti, incombe alla Corte prendere in considerazione, nell’ambito della ripartizione delle competenze tra essa e i giudici nazionali, il contesto materiale e normativo nel quale si inseriscono le questioni pregiudiziali, quale definito dal giudice del rinvio (v., in tal senso, sentenza del 7 giugno 2018, Scotch Whisky Association, C-44/17, EU:C:2018:415, punto 24 e giurisprudenza ivi citata). 31. Inoltre, non spetta alla Corte nemmeno pronunciarsi sulla conformità di norme nazionali con il diritto dell’Unione né interpretare disposizioni legislative o regolamentari nazionali (sentenze del 1o marzo 2012, Ascafor e Asidac, C-484/10, EU:C:2012:113, punto 33 e giurisprudenza ivi citata, e del 6 ottobre 2015, Consorci Sanitari del Maresme, C-203/14, EU:C:2015:664, punto 43). La Corte è tuttavia competente a fornire al giudice del rinvio tutti gli elementi d’interpretazione attinenti al diritto dell’Unione che gli consentano di pronunciarsi su tale compatibilità per la definizione della controversia della quale è investito (sentenze del 1o marzo 2012, Ascafor e Asidac, C-484/10, EU:C:2012:113, punto 34 e giurisprudenza ivi citata, e del 26 luglio 2017, Europa Way e Persidera, C-560/15, EU:C:2017:593, punto 35). 32. Alla luce di tali osservazioni preliminari, occorre esaminare in successione i requisiti derivanti dalla direttiva IVA, dal principio del rispetto dei diritti della difesa e dall’articolo 47 della Carta per quanto riguarda l’assunzione delle prove, la portata


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dell’accesso del soggetto passivo al fascicolo e la portata del controllo giurisdizionale in un procedimento quale quello principale. Sulla produzione delle prove sulla base della direttiva IVA e del principio del rispetto dei diritti della difesa 33. Secondo costante giurisprudenza, il diritto dei soggetti passivi di detrarre dall’IVA di cui sono debitori l’IVA dovuta o versata a monte per i beni acquistati e per i servizi loro prestati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA istituito dalla normativa dell’Unione. Come ripetutamente sottolineato dalla Corte, il diritto a detrazione previsto dagli articoli 167 e seguenti della direttiva IVA costituisce parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni (sentenze del 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11, EU:C:2012:774, punti 25 e 26; del 19 ottobre 2017, Paper Consult, C-101/16, EU:C:2017:775, punti 35 e 36, nonché del 21 marzo 2018, Volkswagen, C-533/16, EU:C:2018:204, punti 37 e 39). 34. Ciò detto, la lotta contro frodi, evasione fiscale ed eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla direttiva IVA e la Corte ha più volte dichiarato che i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell’Unione. Pertanto, spetta alle autorità e ai giudici nazionali negare il beneficio del diritto a detrazione se è dimostrato, alla luce di elementi obiettivi, che tale diritto viene invocato in modo fraudolento o abusivo (v., in tal senso, sentenze del 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11, EU:C:2012:774, punti da 35 a 37, nonché giurisprudenza citata, e del 28 luglio 2016, Astone, C-332/15, EU:C:2016:614, punto 50). 35. Tale situazione, così come ricorre nel caso di una frode commessa dal soggetto passivo stesso, ricorre altresì quando il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad un’operazione che si iscriveva in una frode relativa all’IVA. Il beneficio del diritto a detrazione può, pertanto, essere negato a un soggetto passivo qualora si dimostri, e solamente qualora si dimostri, alla luce di elementi oggettivi, che detto soggetto passivo, al quale sono stati ceduti i beni o prestati i servizi posti a fondamento del diritto a detrazione, sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con l’acquisto di tali beni e servizi, partecipava ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA commessa dal fornitore o da altro operatore intervenuto a monte o a valle nella catena di tali cessioni o prestazioni (v., in tal senso, sentenze del 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11, EU:C:2012:774, punti da 38 a 40, e del 13 febbraio 2014, Maks Pen, C-18/13, EU:C:2014:69, punti 27 e 28). 36. poiché il diniego del diritto a detrazione è un’eccezione all’applicazione del principio fondamentale che tale diritto costituisce, spetta alle autorità tributarie dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in tale frode (v., in tal senso, sentenza del 13 febbraio 2014, Maks Pen, C-18/13, EU:C:2014:69, punto 29 e giurisprudenza ivi citata).


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37. Poiché il diritto dell’Unione non prevede norme relative alle modalità dell’assunzione delle prove in materia di frode relativa all’IVA, tali elementi oggettivi devono essere stabiliti dall’amministrazione finanziaria secondo le norme in materia di prova previste dal diritto nazionale. Tuttavia, tali norme non devono pregiudicare l’efficacia del diritto dell’Unione e devono rispettare i diritti garantiti da tale diritto, specialmente dalla Carta (v., in tal senso, sentenza del 17 dicembre 2015, WebMindLicenses, C-419/14, EU:C:2015:832, punti da 65 a 67). 38. Pertanto, e a tali condizioni, la Corte, nella sentenza del 17 dicembre 2015, WebMindLicenses (C-419/14, EU:C:2015:832), ha dichiarato, al punto 68 di quest’ultima, che il diritto dell’Unione non osta a che l’amministrazione finanziaria possa, nell’ambito di un procedimento amministrativo, al fine di accertare la sussistenza di una pratica abusiva in materia di IVA, utilizzare prove ottenute nell’ambito di un procedimento penale parallelo non ancora concluso riguardanti il soggetto passivo. Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 39 delle sue conclusioni, una siffatta valutazione si applica anche all’utilizzo, al fine di accertare l’esistenza di una frode relativa all’IVA, di prove ottenute nell’ambito di procedimenti penali non conclusi non aventi ad oggetto il soggetto passivo o raccolte nel corso di procedimenti amministrativi connessi nei quali, come nel caso del procedimento principale, il soggetto passivo non era parte. 39. Tra i diritti garantiti dal diritto dell’Unione vi è il rispetto dei diritti della difesa il quale, secondo una giurisprudenza consolidata, costituisce un principio generale del diritto dell’Unione che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto che gli arreca pregiudizio. In forza di tale principio i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione. Tale obbligo incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano misure che rientrano nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, quand’anche la normativa dell’Unione applicabile non preveda espressamente siffatta formalità (sentenze del 18 dicembre 2008, Sopropé, C-349/07, EU:C:2008:746, punti da 36 a 38, e del 22 ottobre 2013, Sabou, C-276/12, EU:C:2013:678, punto 38). 40. Detto principio generale si applica in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, nelle quali uno Stato membro, per conformarsi all’obbligo, derivante dall’applicazione del diritto dell’Unione, di adottare tutte le misure legislative e amministrative al fine di garantire che l’IVA dovuta sia interamente riscossa nel suo territorio e a lottare contro la frode sottopone un contribuente a una procedura di verifica fiscale (v., in tal senso, sentenza del 9 novembre 2017, Ispas, C-298/16, EU:C:2017:843, punto 27). 41. Costituisce parte integrante del rispetto dei diritti della difesa il diritto di essere ascoltati, il quale garantisce a chiunque la possibilità di manifestare, utilmente ed efficacemente, il proprio punto di vista durante il procedimento amministrativo prima


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dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi. Secondo costante giurisprudenza della Corte, la regola secondo cui il destinatario di una decisione ad esso lesiva deve essere messo in condizione di far valere le proprie osservazioni prima che la stessa sia adottata ha lo scopo di mettere l’autorità competente in grado di tener conto di tutti gli elementi del caso. Al fine di assicurare una tutela effettiva della persona coinvolta, la suddetta regola ha in particolare l’obiettivo di consentire a quest’ultima di correggere un errore o far valere elementi relativi alla sua situazione personale tali da far sì che la decisione sia adottata o non sia adottata, ovvero abbia un contenuto piuttosto che un altro (sentenza del 5 novembre 2014, Mukarubega, C-166/13, EU:C:2014:2336, punti 46 e 47 e giurisprudenza ivi citata). 42. Il diritto di essere ascoltati implica anche che l’amministrazione presti tutta l’attenzione necessaria alle osservazioni così presentate dall’interessato esaminando, in modo accurato e imparziale, tutti gli elementi rilevanti della fattispecie e motivando circostanziatamente la sua decisione, laddove l’obbligo di motivare una decisione in modo sufficientemente dettagliato e concreto, al fine di consentire all’interessato di comprendere le ragioni del diniego opposto alla sua domanda, costituisce un corollario del principio del rispetto dei diritti della difesa (sentenza del 5 novembre 2014, Mukarubega, C-166/13, EU:C:2014:2336, punto 48 e giurisprudenza ivi citata). 43. Tuttavia, secondo una giurisprudenza costante della Corte, il principio del rispetto dei diritti della difesa non è una prerogativa assoluta, ma può soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti (sentenza del 9 novembre 2017, Ispas, C-298/16, EU:C:2017:843, punto 35 e giurisprudenza ivi citata). 44. Inoltre, l’esistenza di una violazione dei diritti della difesa deve essere valutata in funzione delle circostanze specifiche di ciascuna fattispecie, segnatamente della natura dell’atto in oggetto, del contesto in cui è stato adottato e delle norme giuridiche che disciplinano la materia in esame (sentenza del 5 novembre 2014, Mukarubega, C-166/13, EU:C:2014:2336, punto 54 e giurisprudenza ivi citata). 45. Occorre peraltro ricordare che la certezza del diritto è inclusa tra i principi generali riconosciuti nel diritto dell’Unione. Infatti, la Corte ha constatato, segnatamente, che il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza di termini ragionevoli di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce alla certezza del diritto e da ciò deriva che il diritto dell’Unione non esige che un organo amministrativo sia, in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo (v., in tal senso, sentenze del 13 gennaio 2004, Kühne & Heitz, C-453/00, EU:C:2004:17, punto 24; del 12 febbraio 2008, Kempter, C-2/06, EU:C:2008:78, punto 37, e del 4 ottobre 2012, Byankov, C-249/11, EU:C:2012:608, punto 76).


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46. Per quanto riguarda una prescrizione, come quella contenuta nell’articolo 1, paragrafo 3a, della legge generale sui tributi, in forza della quale, secondo il giudice del rinvio, l’amministrazione finanziaria è vincolata dalle constatazioni di fatto e dalle qualificazioni giuridiche che essa ha effettuato nell’ambito di procedimenti amministrativi connessi avviati nei confronti dei fornitori del soggetto passivo, nei quali quest’ultimo non era quindi parte, risulta che essa è idonea, come ha fatto valere il governo ungherese e come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 46 delle sue conclusioni, a garantire la certezza del diritto e l’uguaglianza tra i contribuenti, in quanto obbliga tale amministrazione a dar prova di coerenza, attribuendo ai medesimi fatti qualificazioni giuridiche identiche. Il diritto dell’Unione non osta quindi, in linea di principio, all’applicazione di una tale prescrizione. 47. Tuttavia, ciò non vale per il caso in cui, in forza di tale prescrizione e a causa del carattere definitivo delle decisioni adottate in esito a tali procedimenti amministrativi collegati, l’amministrazione finanziaria sia esentata dal far conoscere al soggetto passivo gli elementi di prova, compresi quelli provenienti da detti procedimenti, in base ai quali essa intende prendere una decisione, e il soggetto passivo di cui trattasi sia così privato del diritto di rimettere in discussione utilmente, nel corso del procedimento di cui è parte, tali constatazioni di fatto e tali qualificazioni giuridiche. 48. Infatti, da un lato, una siffatta applicazione di detta regola, che si traduce nel conferire autorità a una decisione amministrativa definitiva, la quale constata l’esistenza di una frode, nei confronti di un soggetto passivo che non era parte nel procedimento che ha condotto a tale constatazione, è contraria all’obbligo gravante sull’amministrazione finanziaria, ricordato al punto 36 della presente sentenza, di dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in una frode, dato che tale obbligo presuppone che tale amministrazione fornisca, nel procedimento in cui è parte il soggetto passivo, la prova dell’esistenza della frode alla quale gli viene addebitato di aver partecipato passivamente. 49. Dall’altro lato, nell’ambito di un procedimento di controllo fiscale, come quello oggetto del procedimento principale, il principio della certezza del diritto non può giustificare una siffatta restrizione dei diritti della difesa, il cui contenuto è richiamato ai punti 39 e 41 della presente sentenza, restrizione che costituisce, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile tale da ledere la sostanza stessa di tali diritti. Essa priva, infatti, il soggetto passivo al quale si intende negare l’esercizio del diritto a detrazione dell’IVA della possibilità di far conoscere utilmente ed efficacemente, nel corso del procedimento amministrativo e prima dell’adozione di una decisione sfavorevole ai suoi interessi, il suo punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondarsi. Essa altera la possibilità che l’autorità competente sia messa in grado di tener utilmente conto di tutti gli elementi pertinenti e che la persona interessata corregga, se del caso, un errore. Essa solleva, infine, l’amministrazione, dal suo dovere di prestare tutta l’attenzione necessaria alle osservazioni


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della persona coinvolta esaminando, in modo accurato e imparziale, tutti gli elementi rilevanti della fattispecie e motivando sufficientemente la sua decisione. 50. Di conseguenza, se è pur vero che la direttiva IVA e il principio del rispetto dei diritti della difesa non ostano, in linea di principio, a una regola del genere, è a condizione che la sua applicazione non sollevi l’amministrazione finanziaria dal far conoscere al soggetto passivo gli elementi di prova, compresi quelli provenienti dai procedimenti connessi avviati nei confronti dei suoi fornitori, in base ai quali essa intende prendere una decisione, e che tale soggetto passivo non sia così privato del diritto di rimettere in discussione utilmente, nel corso del procedimento di cui è oggetto, le constatazioni di fatto e le qualificazioni giuridiche effettuate da tale amministrazione nell’ambito di tali procedimenti collegati. Sulla portata dell’accesso del soggetto passivo al fascicolo alla luce del principio del rispetto dei diritti della difesa 51. La necessità, ricordata ai punti 39 e 41 della presente sentenza, di poter manifestare utilmente il proprio punto di vista sugli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione presuppone che il destinatario di quest’ultima sia messo in condizione di conoscere detti elementi (v., in tal senso, sentenza del 9 novembre 2017, Ispas, C-298/16, EU:C:2017:843, punto 31). Il principio del rispetto dei diritti della difesa ha così come corollario il diritto di accesso al fascicolo (v., in tal senso, sentenza del 7 gennaio 2004, Aalborg Portland e a./Commissione, C-204/00 P, C-205/00 P, C-211/00 P, C-213/00 P, C-217/00 P e C-219/00 P, EU:C:2004:6, punto 68). 52. Poiché il destinatario di una decisione che arreca pregiudizio deve essere messo in condizione di far valere le proprie osservazioni prima che la stessa sia adottata, al fine, in particolare, che l’autorità competente sia messa in grado di tenere utilmente conto di tutti gli elementi pertinenti e che, eventualmente, tale destinatario possa correggere un errore e far valere utilmente tali elementi relativi alla sua situazione personale, l’accesso al fascicolo deve essere autorizzato nel corso del procedimento amministrativo. Quindi, una violazione del diritto di accesso al fascicolo intervenuta durante il procedimento amministrativo non è sanata dal semplice fatto che l’accesso a quest’ultimo è stato reso possibile nel corso del procedimento giurisdizionale relativo ad un eventuale ricorso diretto all’annullamento della decisione contestata (v., per analogia, sentenze dell’8 luglio 1999, Hercules Chemicals/Commissione, C-51/92 P, EU:C:1999:357, punto 78; del 15 ottobre 2002, Limburgse Vinyl Maatschappij e a./Commissione, C-238/99 P, C-244/99 P, C-245/99 P, C-247/99 P, da C-250/99 P a C-252/99 P e C-254/99 P, EU:C:2002:582, punto 318, e del 7 gennaio 2004, Aalborg Portland e a./Commissione, C-204/00 P, C-205/00 P, C-211/00 P, C-213/00 P, C-217/00 P e C-219/00 P, EU:C:2004:6, punto 104). 53. Ne consegue che, in un procedimento amministrativo tributario come quello di cui trattasi nel procedimento principale, il soggetto passivo deve poter accedere al complesso degli elementi del fascicolo sui quali l’amministrazione fiscale intende fondare la propria decisione. Pertanto, qualora l’amministrazione finanziaria intenda fondare la


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propria decisione su elementi di prova ottenuti, come nel caso di specie, nell’ambito di procedimenti penali e di procedimenti amministrativi connessi avviati nei confronti dei suoi fornitori, detto soggetto passivo deve poter accedere a tali elementi. 54. Inoltre, come ha rilevato l’avvocato generale nei paragrafi 59 e 60 delle sue conclusioni, si deve anche consentire al soggetto passivo di accedere ai documenti che non servono direttamente a fondare la decisione dell’amministrazione finanziaria, ma possono essere utili per l’esercizio dei diritti della difesa, in particolare agli elementi a discarico che tale amministrazione ha potuto raccogliere (v., in tal senso, sentenza del 13 settembre 2018, UBS Europe e a., C-358/16, EU:C:2018:715, punto 66 e giurisprudenza ivi citata). 55. Tuttavia, dal momento che, come è stato ricordato al punto 43 della presente sentenza, il principio del rispetto dei diritti della difesa non costituisce una prerogativa assoluta, ma può comportare restrizioni, occorre rilevare che, in un procedimento di controllo tributario, restrizioni del genere, sancite dalla normativa nazionale, possono in particolare essere intese a tutelare le esigenze di riservatezza o di segreto professionale (v., in tal senso, sentenza del 9 novembre 2017, Ispas, C-298/16, EU:C:2017:843, punto 36), nonché, come ha fatto valere il governo ungherese, la vita privata di terzi, i dati personali che li riguardano o l’efficacia dell’azione repressiva, che possono essere pregiudicati dall’accesso a talune informazioni e a determinati documenti. 56. Il principio del rispetto dei diritti della difesa, in un procedimento amministrativo come quello di cui trattasi nel procedimento principale, non impone quindi all’amministrazione finanziaria un obbligo generale di fornire un accesso integrale al fascicolo di cui dispone, ma esige che il soggetto passivo abbia la possibilità di ricevere, a sua richiesta, le informazioni e i documenti contenuti nel fascicolo amministrativo e presi in considerazione da tale amministrazione ai fini dell’adozione della sua decisione, a meno che obiettivi di interesse generale giustifichino la restrizione dell’accesso alle suddette informazioni e a detti documenti (v., in tal senso, sentenza del 9 novembre 2017, Ispas, C-298/16, EU:C:2017:843, punti 32 e 39). In quest’ultimo caso, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 64 delle sue conclusioni, spetta all’amministrazione finanziaria esaminare se sia possibile un accesso parziale. 57. Ne consegue che, qualora l’amministrazione finanziaria intenda fondare la propria decisione su elementi di prova ottenuti, come nel procedimento principale, nell’ambito di procedimenti penali e di procedimenti amministrativi connessi avviati nei confronti dei fornitori del soggetto passivo, il principio del rispetto dei diritti della difesa esige che quest’ultimo, durante il procedimento di cui è oggetto, possa avere accesso a tutti questi elementi e a quelli che possano essere utili alla sua difesa, a meno che obiettivi di interesse generale giustifichino la restrizione di tale accesso. 58. Non soddisfa tale requisito una prassi dell’amministrazione finanziaria consistente nel non dare al soggetto passivo interessato alcun accesso a tali elementi e, in particolare, ai documenti su cui si fondano le constatazioni effettuate, ai verbali redatti e alle decisioni adottate in esito a procedimenti amministrativi collegati, e nel comunicar-


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gli indirettamente, sotto forma di sintesi, solo una parte di tali elementi da essa selezionati secondo criteri che le sono propri e sui quali egli non può esercitare alcun controllo. Sulla portata del controllo giurisdizionale alla luce dell’articolo 47 della Carta 59. Poiché il giudice del rinvio si chiede se i requisiti di un processo equo impongano che il giudice chiamato a pronunciarsi su un ricorso avverso una decisione dell’amministrazione finanziaria che procede ad un avviso di rettifica dell’IVA sia legittimato a verificare che le prove provenienti da un procedimento amministrativo connesso siano state ottenute conformemente ai diritti garantiti dal diritto dell’Unione e che le constatazioni fondate su queste ultime non violino tali diritti, occorre ricordare che i diritti fondamentali garantiti dalla Carta sono destinati ad applicarsi in una situazione del genere, dato che una rettifica dell’IVA in seguito all’accertamento di una frode, come quella oggetto del procedimento principale, costituisce attuazione del diritto dell’Unione, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta (v., in questo senso, sentenze del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105, punti 19 e 27, e del 17 dicembre 2015, WebMindLicenses, C-419/14, EU:C:2015:832, punto 67). 60. Ai sensi dell’articolo 47 della Carta, ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste in detto articolo. Ogni persona ha diritto, in particolare, a che la sua causa sia esaminata equamente. 61. Il principio della parità delle armi, che costituisce parte integrante del principio della tutela giurisdizionale effettiva dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione, sancito dall’articolo 47 della Carta, in quanto è un corollario, come, segnatamente, il principio del contraddittorio, della nozione stessa di processo equo, implica l’obbligo di offrire a ciascuna parte una possibilità ragionevole di esporre la propria posizione, comprese le proprie prove, in circostanze che non la pongano in una situazione di netto svantaggio rispetto all’avversario (v., in tal senso, sentenze del 17 luglio 2014, Sánchez Morcillo e Abril García, C-169/14, EU:C:2014:2099, punto 49, e del 16 maggio 2017, Berlioz Investment Fund, C-682/15, EU:C:2017:373, punto 96 e giurisprudenza ivi citata). 62. Tale principio è inteso ad assicurare l’equilibrio tra le parti del processo, garantendo la parità dei loro diritti e obblighi per quanto concerne l’amministrazione delle prove e il contraddittorio dinanzi al giudice, nonché i loro diritti di ricorso (sentenza del 28 luglio 2016, Ordre des barreaux francophones et germanophone e a., C-543/14, EU:C:2016:605, punto 41). Perché siano soddisfatte le prescrizioni connesse al diritto a un processo equo, occorre che le parti possano discutere in contraddittorio tanto sugli elementi di fatto quanto sugli elementi di diritto decisivi per l’esito del procedimento (sentenza del 2 dicembre 2009, Commissione/Irlanda e a., C-89/08 P, EU:C:2009:742, punto 56). 63. Nella sentenza del 17 dicembre 2015, WebMindLicenses (C-419/14, EU:C:2015:832), alla quale fa riferimento il giudice del rinvio, la Corte, nella causa che ha dato luogo a tale sentenza, relativamente alle prove ottenute nell’ambito di un


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procedimento penale non ancora concluso, all’insaputa del soggetto passivo, mediante intercettazioni di telecomunicazioni e sequestri di messaggi di posta elettronica idonei a costituire una violazione dell’articolo 7 della Carta, e del loro utilizzo nell’ambito di un procedimento amministrativo, ha rilevato, al punto 87 di tale sentenza, che l’effettività del controllo giurisdizionale garantita dall’articolo 47 della Carta esige che il giudice che ha effettuato il controllo di legittimità di una decisione che costituisce attuazione del diritto dell’Unione possa verificare se le prove sulle quali tale decisione si fonda non siano state ottenute e utilizzate in violazione dei diritti garantiti dal diritto dell’Unione e, in special modo, dalla Carta. 64. La Corte ha rilevato, al punto 88 di tale sentenza, che tale requisito è soddisfatto se il giudice investito di un ricorso avverso la decisione dell’amministrazione tributaria relativa a una rettifica dell’IVA è abilitato a controllare che dette prove, sulle quali si basa la decisione, siano state ottenute in detto procedimento penale conformemente ai diritti garantiti dal diritto dell’Unione o se può quantomeno sincerarsi, sulla base di un controllo già effettuato da un giudice penale nell’ambito di un procedimento in contraddittorio, che le prove di cui trattasi siano state ottenute conformemente a detto diritto. 65. L’effettività del controllo giurisdizionale garantita dall’articolo 47 della Carta esige, allo stesso modo, che il giudice investito di un ricorso avverso una decisione dell’amministrazione finanziaria recante una rettifica dell’IVA sia abilitato a controllare che le prove assunte in un procedimento amministrativo connesso, del quale il soggetto passivo non era parte, e sulle quali si basa tale decisione, non siano state ottenute in violazione dei diritti garantiti dal diritto dell’Unione e, in special modo, dalla Carta. Lo stesso dicasi quando, come nel procedimento principale, su tali prove sono state fondate talune decisioni amministrative adottate nei confronti di altri soggetti passivi e diventate definitive. 66. A tal riguardo, occorre sottolineare che, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 74 delle sue conclusioni, le dichiarazioni e le constatazioni delle autorità amministrative non possono vincolare i giudici. 67. Più in generale, tale giudice deve poter verificare, nell’ambito di un dibattito in contraddittorio, la legittimità dell’ottenimento e dell’utilizzo delle prove assunte nel corso di procedimenti amministrativi connessi avviati contro altri soggetti passivi, nonché delle constatazioni effettuate nelle decisioni amministrative adottate in esito a tali procedimenti, che sono decisive per l’esito del ricorso. Infatti, la parità delle armi verrebbe meno e il principio del contraddittorio non sarebbe rispettato se l’amministrazione finanziaria, per il fatto di essere vincolata dalle decisioni adottate nei confronti di altri soggetti passivi e divenute definitive, non fosse tenuta a produrre tali prove dinanzi ad essa, se il soggetto passivo non potesse averne conoscenza, se le parti non potessero discutere in contraddittorio tanto su dette prove quanto su tali constatazioni e se detto giudice non potesse verificare tutti gli elementi di fatto e di diritto sui quali si fondano tali decisioni e che sono decisivi per la soluzione della controversia di cui è investito.


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68. Se detto giudice non è legittimato ad effettuare tale verifica e se, pertanto, il diritto a un ricorso giurisdizionale non è effettivo, le prove ottenute nell’ambito dei procedimenti amministrativi connessi e le constatazioni effettuate nelle decisioni amministrative adottate nei confronti di altri soggetti passivi in esito a tali procedimenti non devono essere ammesse, e la decisione impugnata, che si basa su tali prove e su tali constatazioni, deve essere annullata se, per tale ragione, essa risulta priva di fondamento (v., in tal senso, sentenza del 17 dicembre 2015, WebMindLicenses, C-419/14, EU:C:2015:832, punto 89). 69. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alle questioni poste dichiarando che la direttiva IVA, il principio del rispetto dei diritti della difesa e l’articolo 47 della Carta devono essere interpretati nel senso che essi non ostano, in linea di principio, a una normativa o a una prassi di uno Stato membro secondo la quale, in occasione di una verifica del diritto a detrazione dell’IVA esercitato da un soggetto passivo, l’amministrazione finanziaria è vincolata dalle constatazioni di fatto e dalle qualificazioni giuridiche, da essa già effettuate nell’ambito di procedimenti amministrativi connessi avviati nei confronti dei fornitori di tale soggetto passivo, sulle quali si basano le decisioni divenute definitive che accertano l’esistenza di una frode relativa all’IVA commessa da tali fornitori, a condizione che, in primo luogo, essa non esoneri l’amministrazione finanziaria dal far conoscere al soggetto passivo gli elementi di prova, ivi compresi quelli risultanti da tali procedimenti amministrativi connessi, sui quali essa intende fondare la propria decisione, e che tale soggetto passivo non sia in tal modo privato del diritto di contestare utilmente, nel corso del procedimento di cui è oggetto, tali constatazioni di fatto e tali qualificazioni giuridiche, in secondo luogo, che detto soggetto passivo possa avere accesso durante tale procedimento a tutti gli elementi raccolti nel corso di detti procedimenti amministrativi connessi o di ogni altro procedimento sul quale l’amministrazione intende fondare la sua decisione o che possono essere utili per l’esercizio dei diritti della difesa, a meno che obiettivi di interesse generale giustifichino la restrizione di tale accesso e, in terzo luogo, che il giudice adito con un ricorso avverso la decisione di cui trattasi possa verificare la legittimità dell’ottenimento e dell’utilizzo di tali elementi nonché le constatazioni effettuate nelle decisioni amministrative adottate nei confronti di detti fornitori, che sono decisive per l’esito del ricorso. Sulle spese 70. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara: La direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, il principio del rispetto dei diritti della difesa e l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono


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essere interpretati nel senso che essi non ostano, in linea di principio, a una normativa o a una prassi di uno Stato membro secondo la quale, in occasione di una verifica del diritto a detrazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) esercitato da un soggetto passivo, l’amministrazione finanziaria è vincolata dalle constatazioni di fatto e dalle qualificazioni giuridiche, da essa già effettuate nell’ambito di procedimenti amministrativi connessi avviati nei confronti dei fornitori di tale soggetto passivo, sulle quali si basano le decisioni divenute definitive che accertano l’esistenza di una frode relativa all’IVA commessa da tali fornitori, a condizione che, in primo luogo, essa non esoneri l’amministrazione finanziaria dal far conoscere al soggetto passivo gli elementi di prova, ivi compresi quelli risultanti da tali procedimenti amministrativi connessi, sui quali essa intende fondare la propria decisione, e che tale soggetto passivo non sia in tal modo privato del diritto di contestare utilmente, nel corso del procedimento di cui è oggetto, tali constatazioni di fatto e tali qualificazioni giuridiche, in secondo luogo, che detto soggetto passivo possa avere accesso durante tale procedimento a tutti gli elementi raccolti nel corso di detti procedimenti amministrativi connessi o di ogni altro procedimento sul quale l’amministrazione intende fondare la sua decisione o che possono essere utili per l’esercizio dei diritti della difesa, a meno che obiettivi di interesse generale giustifichino la restrizione di tale accesso e, in terzo luogo, che il giudice adito con un ricorso avverso la decisione di cui trattasi possa verificare la legittimità dell’ottenimento e dell’utilizzo di tali elementi nonché le constatazioni effettuate nelle decisioni amministrative adottate nei confronti di detti fornitori, che sono decisive per l’esito del ricorso. (Omissis)

(1) Tra diritto di difesa e certezza del diritto, l’istruttoria tributaria nel formante del bilanciamento tra principi. Sommario: 1. La fisionomia della questione pregiudiziale. – 2. La frode Iva nel prisma

della giurisprudenza eurounitaria. – 3. Profili critici della normativa sottoposta al giudizio della Corte UE. – 4. Lo statuto del contribuente europeo tra principio del contraddittorio e diritto di accesso. – 5. L’applicazione delle garanzie tributarie da parte della Corte di giustizia. – 6. Il principio di proporzionalità come forma del bilanciamento… – 7. …e fonte della partecipazione procedimentale. – 8. Alcune conclusioni. La Corte di giustizia dell’Unione europea conferma l’indirizzo giurisprudenziale, peraltro ormai consolidato, che estende l’accertamento dell’evasione Iva del fornitore di beni/ servizi anche al committente dell’operazione connessa all’illecito. Più particolarmente, la Corte si interroga sulla compatibilità di siffatto meccanismo di accertamento automatico in capo al committente con il diritto di difesa sancito dall’art. 47 della Carta di Nizza, avuto riguardo ai due corollari del contraddittorio e del diritto di accesso. La soluzione della controversia è ricercata attraverso il bilanciamento tra l’interesse erariale, i diritti fondamentali collateralmente incisi e il diritto di difesa del privato, giocandovi un ruolo


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essenziale il criterio di proporzionalità. I diritti del contribuente ritrovano così il loro posto nella conformazione del patrimonio costituzionale dell’Unione europea. The European Court of Justice develops its case law on VAT evasion, examining the procedure which extends the findings of the tax assessment of the issuer of invoices to the related recipient. In particular, the Court dwells on the compatibility of this procedure, where the recipient of invoices does not have rights attaching to the status of a party, with the rights to defence enshrined in art. 47 of the Charter of Fundamental Rights of EU. The solution is found in the balance struck, in the light of the principle of proportionality, between the tax interest, the fundamental rights concerned by the fiscal action and the right to defence of the taxpayer. The decision thus confirms the fundamental role played by the taxpayer’s rights in shaping the European Union constitutional framework.

1. La fisionomia della questione pregiudiziale. – Con decisione del 14 febbraio 2018, il Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest ha sollevato dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea questione pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE, concernente la compatibilità con il diritto eurounitario del criterio dell’“automatica applicabilità” nei confronti dell’acquirente di beni o destinatario di servizi resi in ambito Iva delle risultanze di un accertamento fiscale precedentemente definito a carico del suo fornitore. Nel caso posto all’attenzione della Corte, il committente di beni/servizi era la società ungherese Glencore Agriculturale, esercente attività di commercio all’ingrosso di sementi, cereali e materie prime, cui veniva contestato il diritto di detrazione dell’imposta sul valore aggiunto pagata sugli acquisti a seguito dell’avvenuto accertamento, statuito con decisione amministrativa definitiva, di operazioni in frode Iva da parte dei suoi fornitori. La contestazione rivolta alla Glencore si fondava, in particolare, sul criterio enunciato all’art. 1, par. 3a, della legge generale sui tributi ungherese, in forza del quale l’Amministrazione finanziaria, nel valutare la legittimità della detrazione Iva esposta dai committenti, sarebbe appunto vincolata alle constatazioni contenute nelle decisioni da essa stessa adottate e divenute definitive in esito a controlli effettuati presso i rispettivi fornitori. Sennonché, con la questione pregiudiziale prospettata, il giudice del rinvio ha eccepito la possibile interferenza del predetto disposto legislativo di diritto interno con il diritto di difesa di cui all’art. 47 della Carta dei diritti dell’Unione e, segnatamente, con il suo precipitato processuale del principio di parità delle armi.


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Tale è, in sostanza, la questione centrale che la Corte di giustizia ha dovuto affrontare con la sentenza 16 ottobre 2019, C-189/18, oggetto di queste note (1). La relativa problematica, nell’esame del Giudice del rinvio, risultava dunque scandita su tre quesiti connessi e graduati, vertenti, rispettivamente, sulla compatibilità col diritto dell’Unione: a) del meccanismo di riferibilità delle risultanze di un accertamento amministrativo tributario definitivo realizzatosi a carico del fornitore di prestazioni/beni soggetti a Iva anche al suo acquirente, rimasto però estraneo a detto accertamento; b) dell’utilizzabilità delle predette risultanze in sede di accertamento avverso il committente Iva, attraverso una loro produzione da parte dell’autorità fiscale “per estratto” e in via indiretta “secondo criteri che le sono propri e sui quali l’altra parte non può esercitare alcun controllo”; c) della natura automatica e operante d’ufficio del meccanismo di estensibilità al destinatario di beni/servizi Iva dell’esito accertativo realizzatosi a carico del relativo fornitore, cui il primo sia rimasto completamente estraneo. 2. La frode Iva nel prisma della giurisprudenza eurounitaria. – La norma sottoposta all’esame della Corte di giustizia non pare, a una prima analisi, divergere dall’indirizzo giurisprudenziale di matrice eurounitaria che estende la responsabilità del fornitore verso il quale è accertata una frode Iva anche al suo acquirente, laddove questi sapeva o, usando l’ordinaria diligenza, avrebbe dovuto sapere che l’operazione cui egli ha preso parte si inscriveva in un disegno esitante nell’evasione dell’imposta. In effetti, proprio la giurisprudenza UE si è più volte espressa nel senso di consentire all’Amministrazione finanziaria il disconoscimento del diritto alla detrazione del soggetto passivo Iva, collocato a valle dell’operazione fraudolenta, laddove “risulti acclarato, alla luce degli elementi oggettivi, che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto

(1) Per un primo commento a questa sentenza, F. Mattarelli, Contestazione dell’Iva detratta e frode del fornitore: la Corte di Giustizia indica le garanzie procedimentali e processuali per il contribuente, in Riv. dir.trib. – Supplemento Online, 30 novembre 2019. Sul tema in generale, v., tra i lavori monografici, G. Moschetti, “Diniego di detrazione per consapevolezza” nel contrasto alle frodi Iva, Padova, 2013, 2 ss. e A. Giovanardi, Le frodi Iva. Profili ricostruttivi, Torino, 2013, 3 ss.


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partecipava ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’IVA, anche se l’operazione in oggetto soddisfaceva i criteri oggettivi sui quali si fondano le nozioni di cessioni di beni effettuate da un soggetto passivo che agisce in quanto tale e di attività economica” (2). Tale orientamento pone quindi l’accento sullo stato soggettivo di buona fede del committente Iva, quale elemento decisivo ai fini di configurare o meno la frode: e proprio detto aspetto ha costituito un punto nodale nel percorso della giurisprudenza UE volto a tracciare i rapporti e gli equilibri tra le esigenze di accertamento fiscale e i diritti dei singoli destinatari di un accertamento fiscale (3). In effetti, un primo orientamento della Corte di giustizia in materia di frode Iva, ancorché reso con riguardo a operazioni elusive anziché evasive di imposta, sembrava conferire una rilevanza eminentemente oggettiva alle operazioni poste in essere dai contribuenti, al fine di ricondurle o meno nell’alveo normativo dell’imposta sul valore aggiunto e quindi riconoscere come applicabili, almeno a livello formale, i meccanismi di rivalsa e detrazione che concretizzano il principio di neutralità dell’Iva. Secondo tale impostazione le nozioni di cessione di beni e prestazione di servizi “che definiscono le operazioni imponibili ai sensi della sesta direttiva, hanno tutte un carattere obiettivo e si applicano indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui

(2) Kittel e Recolta Recycling SPRL, 6 luglio 2006, C-439/04 e C-440/04, 6 luglio 2006, in Raccolta 2006, I-6177, ECLI:EU:C:2006:446, §59. Sul punto, v. anche PPUH Stehcemp, C-277/14, 22 ottobre 2015, ECLI:EU:C:2015:719; Maks Pen, C-18/13, 13 febbraio 2014, ECLI:EU:C:2014:69; Ordinanza Jagiello, C-33/13, 6 febbraio 2014, EU:C:2014:184; Stroy trans, C-642/11, 31 gennaio 2013, ECLI:EU:C:2013:54; Lvk, C-643/11, 31 gennaio 2013, ECLI:EU:C:2013:55; Bonik, C-285/11, 6 dicembre 2012, ECLI:EU:C:2012:774; Tòth, C-324/11, 6 settembre 2012, ECLI:EU:C:2012:549; Mahagében, cause riunite C-80/11 e C-142/11, 21 giugno 2012, ECLI:EU:C:2012:373; Véleclair, C414/10, 29 marzo 2012, ECLI:EU:C:2012:183; Dankowski, C-438/09, 22 dicembre 2010, ECLI:EU:C:2010:818; Netto Supermarkt, C-271/06, 21 febbraio 2008, ECLI:EU:C:2008:105; Teleos e a., C-409/04, 27 settembre 2007, EU:C:2007:548; Optigen, Fulcrum, Bond House, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03, 12 gennaio 2006, ECLI:EU:C:2006:16. In tema, v. anche W. Andreoni, Diritto alla detrazione e neutralità dell’Iva: spunti critici alla responsabilità solidale del cessionario Iva, in Riv. dir. trib., 2006, III, 221; S. Dorigo, Frodi carosello e detraibilità dell’Iva da parte del cessionario: il difficile percorso”comunitario” della giurisprudenza della Corte di Cassazione, in Dir. prat. trib., 2009, I, 1252. (3) Sul punto, v. A. Marcheselli, Frodi fiscali e frodi nella riscossione iva, carosello tra onere della prova, inesistenza e inerenza, in Dir. e prat. trib., 2012, I, 1335 e ss., ove si osserva come, in ambito Iva, l’effettiva neutralità dell’imposta, che può essere realizzata anche attraverso l’esercizio del diritto di detrazione, sia divenuta nei fatti una variabile dipendente da un atteggiamento soggettivo delle parti.


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trattasi” (4). Una volta riscontrata la natura reale dell’operazione, dunque, gli intenti eventualmente perseguiti dai contribuenti non avrebbero alcun ruolo nell’escludere la detraibilità dell’Iva assolta a monte (5). Parallelamente, però, più precisamente in tema di “frodi carosello”, la Corte UE aveva parzialmente “corretto il tiro” riconoscendo il diritto di detrazione e rivalsa rispetto all’esercizio delle cessioni di beni e prestazioni di servizi “indipendentemente dall’intenzione di un operatore, diverso dal soggetto passivo di cui trattasi, che intervenga nella stessa catena di cessioni e/o dall’eventuale natura fraudolenta, di cui il detto soggetto passivo non aveva e non poteva avere conoscenza, di un’altra operazione appartenente alla stessa catena, precedente o successiva all’operazione realizzata dal detto soggetto passivo”, ossia affiancando, ai fini dell’esercizio della detrazione, al requisito di rilevanza oggettiva dell’operazione la circostanza, invero soggettiva, che il contribuente “non poteva avere conoscenza” dell’eventuale frode attivata a monte (6). Ciò, in quanto per il giudice di Lussemburgo assume carattere fondamentale la salvaguardia del principio di neutralità dell’Iva, il quale può trovare disconoscimento nei confronti del committente, non in ragione di un qualsiasi inadempimento nella catena delle operazioni che l’hanno preceduto nella catena produttiva, bensì soltanto laddove egli abbia assunto un atteggiamento di (intenzionale o negligente) corresponsabilità rispetto alla condotta evasiva. Così, la conoscibilità della frode Iva in capo al committente si configura nei termini dello stato di buona fede soggettiva del destinatario della fattura, incorrendosi però nell’inconveniente di rendere meno nitidi i presupposti probatori della sua corresponsabilità nel fatto illecito commesso dal fornitore (7).

(4) Cfr. Halifax, C-255/02, 21 febbraio 2006, in Raccolta 2006, I-1655, ECLI:EU:C:2006:121, §56; sicché “l’obbligo per l’amministrazione fiscale di procedere ad indagini per accertare la volontà del soggetto passivo sarebbe contrario agli scopi del sistema comune IVA di garantire la certezza del diritto e di agevolare le operazioni inerenti all’applicazione dell’imposta dando rilevanza, salvo in casi eccezionali, alla natura oggettiva dell’operazione di cui trattasi” (ibidem, §57). Tale aspetto è rilevato in I. Caraccioli, La responsabilità penale dei “buffers” (o “filtri”) nelle “frodi carosello” in materia di Iva: gli orientamenti della giurisprudenza, in Riv. dir. trib., 2014, I, p. 1. (5) Ciò a condizione, com’è noto, che nell’economia complessiva dell’operazione l’eventuale vantaggio fiscale ottenuto non ricopra una finalità essenziale, rilevabile sulla base di elementi obiettivi. (6) V. ancora Optigen, cause riunite C-354/03 e C-484/03, 12 gennaio 2006, in Raccolta 2006, I-500, ECLI:EU:C:2006:16, §55. (7) Sulla ripartizione e il contenuto degli oneri probatori in materia di frodi Iva, v., da ultimo, Cass., Sez. trib., 31 luglio 2019, n. 20587. In tale decisione si conferma la spettanza


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È appena il caso di osservare che la nostra Corte di cassazione è pervenuta, in sostanza, al medesimo esito della Corte UE, ancorché per altra via, ossia valorizzando l’inesistenza soggettiva dell’operazione (id est, la riconducibilità solo formale della cessione di beni o prestazione di servizi alla cartiera interposta); in tale ottica, sarebbe l’impossibilità di ricondurre l’operazione a una prestazione/cessione in campo Iva, poiché priva del carattere di realità del fornitore, a legittimare l’Agenzia delle entrate ad attivare il recupero della detrazione. Tuttavia, per il giudice interno la condizione soggettiva del committente potrebbe comunque rilevare (non già quale “elemento negativo” di disattivazione del principio di neutralità, bensì) quale “esimente” positiva dalla responsabilità nella frode e, dunque, dall’esposizione all’azione erariale (8). Se quindi la Corte UE intende garantire la neutralità Iva “fino a prova contraria”, l’indirizzo della nostra Suprema Corte è inverso, consistendo nell’affermare in via generale il principio di indetraibilità dell’operazione inesistente, salva la prova della buona fede del cessionario. 3. Profili critici della normativa sottoposta al giudizio della Corte UE. – Nel caso in commento, la summenzionata previsione di diritto ungherese, ancorché sembri prima facie muoversi in aderenza alla giurisprudenza eurounitaria, a un più approfondito esame risulta invece distonica rispetto sia all’orientamento della Corte di giustizia, sia alle linee interpretative formatesi nel nostro diritto interno. Infatti, tale disciplina pretende che la prova dell’avvenuta evasione dell’Iva, una volta raggiunta con riferimento all’emittente la fattura, si possa estendere in via oggettiva a tutti i soggetti in qualche modo interessati dall’operazione in cui si è configurata l’evasione; ciò sul presupposto che potrebbero trarsi elementi oggettivi dell’accertamento soggettivo dello stato di consapevolezza, o conoscibilità, della frode Iva in capo al committente all’interno del

all’Amministrazione finanziaria della prova circa la conoscibilità della frode in capo al committente che ha effettuato la detrazione, precisando come, a tal fine, possano essere assunti in via presuntiva elementi sintomatici dell’inesistenza soggettiva del fornitore, quali: l’acquisto a un prezzo inferiore a quello di mercato; la limitatezza del ricarico; la compresenza di una varietà di soggetti indicati nei documenti di trasporto; numero, quantità e qualità delle transazioni. (8) V., ex multis, Cass., 28 agosto 2013, n. 19746; nonché N. Raggi, Fine delle operazioni inesistenti nell’IVA, in Dir. prat. trib., I, 2011, 282 e ss. Per un più corretto inquadramento del fenomeno evasivo in termini di “frode da riscossione” si v. A. Marcheselli, Frodi IVA del fornitore: presupposti, limiti e natura della responsabilità del cliente, in GT - Riv. giur. trib., 2014, XI, 894 e ss.


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procedimento già perfezionatosi a carico del suo fornitore, particolarmente ove tali indagini siano divenute definitive. Siffatta peculiarità istruttoria sarebbe giustificabile alla luce dei principi di economia procedimentale (e processuale) e, soprattutto, di certezza del diritto, per i quali non sarebbe razionale che una medesima fenomenologia (la frode Iva), assuma connotati differenti a seconda che sia contestata al soggetto “a monte” o “a valle” dell’operazione contestata. Si tratta di una conclusione che, tuttavia, pare eccessivamente gravosa per il committente dell’operazione, nei cui confronti si rischierebbe di configurare una fattispecie di responsabilità oggettiva, la cui problematicità rispetto ai principi dell’UE emerge soprattutto ove si consideri la curvatura parasanzionatoria del meccanismo di recupero della detrazione Iva connesso all’accertamento della frode (9). Infatti, come visto, il disconoscimento della detrazione alla luce degli orientamenti della Corte di giustizia viene condizionato al mancato assolvimento da parte del committente del ruolo di “controllore diffuso” della legittimità dei passaggi “a monte” della catena di operazioni in ambito Iva, ossia all’assenza di “diligenza positiva” (id est, buona fede soggettiva) in capo al destinatario della fattura, che non avrebbe rinunciato all’acquisto (o comunque alla detrazione) nonostante la varietà di elementi sintomatici circa l’inaffidabilità fiscale del suo fornitore. In tale contesto, la funzione di recupero dell’importo detratto è quindi tesa anche a “sanzionare” il committente dell’operazione per la sua presumibile indifferenza rispetto all’inadempimento degli obblighi fiscali da parte della controparte contrattuale, in ipotesi soggettivamente ravvisabili. Laddove quindi la mancanza di buona fede soggettiva in capo al committente si potesse trarre per automatismo dall’istruttoria parallelamente esperita nei confronti dell’emittente la fattura, come sembra consentire la normativa ungherese, il correlato recupero impositivo si baserebbe su una presunzione iuris et de iure sproporzionatamente compressiva dei diritti individuali del committente; si determinerebbe, in effetti, una responsabilità sanzionatoria personale del destinatario della prestazione, ancorché accertata in assenza delle correlate garanzie di difesa. Tale responsabilità avrebbe una natura

(9) Sul punto v. A. Albano, Riflessioni sistematiche e profili innovativi in materia di contrasto alle frodi Iva alla luce della sentenza Italmoda: il complesso “equilibrio dinamico” tra tutela del contribuente e fattispecie repressive “impropriamente” sanzionatorie, in Riv. dir. trib., 2015, II, 59 e ss.; in tema di “sanzioni improprie” e “sanzioni camuffate” nell’ordinamento tributario si v. L. Del Federico, Le sanzioni improprie nel sistema tributario, in Riv. dir. trib., 2014, I, 693 e ss.


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eminentemente oggettiva, perché stabilita in assenza di un previo confronto e contraddittorio con il soggetto cui si imputa la violazione omissiva consistente nella presumibile tolleranza della frode altrui. La Corte UE riscontra tale problematicità attraverso un’analisi accurata della propria giurisprudenza su temi affini. In proposito, viene assunta a riferimento dialettico la sentenza WebMindLicenses del 17 dicembre 2015 (10), in cui non veniva ravvisato un contrasto con il diritto dell’Unione nella possibilità riconosciuta in capo all’Amministrazione finanziaria, al fine di accertare la sussistenza di una pratica abusiva in materia Iva, di utilizzare prove ottenute nell’ambito di un procedimento penale parallelo, ancorché non ancora concluso, riguardanti il soggetto passivo. La sentenza tuttavia non chiarisce immediatamente se il vincolo dell’accertamento operato dall’amministrazione finanziaria con riferimento al precedente connesso trovi applicazione sotto il profilo giuridico o fattuale, ovverosia se le risultanze trasfuse nel nuovo procedimento accertativo siano soltanto quelle inerenti al fatto realizzatosi o debbano estendersi anche alla sua qualificazione giuridica. La prima ipotesi parrebbe però maggiormente compatibile con l’assenza di vincoli interpretativi in capo al soggetto procedente e, come vedremo, con gli spazi residui di difesa che devono essere assicurati in capo all’accertato, così configurandosi un principio, per così dire, di iura novit curia procedimentale. In ogni caso, questo è il punto, la Corte UE osserva che un vincolo così concepito, sia esso meramente fattuale o anche giuridico, risulterebbe ostativo al pieno dispiegarsi del diritto di difesa, di cui all’art. 47 della Carta di Nizza, risultando ìmpari il confronto tra il contribuente, assoggettato di fatto a un accertamento eseguito aliunde e in sua assenza, e l’Amministrazione finanziaria, alleggerita dagli oneri probatori preventivamente adempiuti nel caso connesso.

(10) CGUE, C-419/14, 17 dicembre 2015, ECLI:EU:C:2015:832, a mente della quale il diritto UE non osta a disposizioni nazionali per le quali “l’amministrazione tributaria possa, allo scopo di accertare la sussistenza di una pratica abusiva in materia d’imposta sul valore aggiunto, utilizzare prove ottenute nell’ambito di un procedimento penale parallelo non ancora concluso, all’insaputa del soggetto passivo, mediante, ad esempio, intercettazioni di telecomunicazioni e sequestri di messaggi di posta elettronica, a condizione che l’ottenimento di tali prove nell’ambito di detto procedimento penale e il loro utilizzo nell’ambito del procedimento amministrativo non violino i diritti garantiti dal diritto dell’Unione”.


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4. Lo statuto del contribuente europeo tra principio del contraddittorio e diritto di accesso. – In tema, è appena il caso di rilevare per incidens la pregnanza assiologica che il diritto di difesa assume nella giurisprudenza euro-tributaria, come risulta, esemplarmente, dalla sentenza Sopropé (11), in cui esso assurge a principio fondamentale dell’Unione, vigente anche laddove le singole normative nazionali attuative del diritto UE non lo prevedano espressamente. Tale preminenza valoriale si riverbera, quindi, in combinato disposto col principio dell’effetto utile del diritto dell’Unione, nell’esigenza di garantire al contribuente in ogni circostanza procedimentale e processuale la facoltà di incidere nella definizione del provvedimento di cui sarà destinatario: ciò che, sempre secondo la Corte di Lussemburgo, postula la correlata garanzia dell’accertato di essere messo nella condizione di manifestare utilmente il proprio punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intenda fondare la sua decisione (§ 39 della pronuncia in commento) (12). In tal senso, anzi, il diritto in parola si configura come una fattispecie valoriale ampia, connotata da un “eccesso di dover essere” che non pare esauribile riduttivamente in un singolo principio, rappresentando la fonte di un ventaglio di garanzie tra loro inscindibilmente intrecciate nel costituire la trama giuridica del tessuto difensivo del privato dinanzi al possibile abuso del potere pubblico. Se, dunque, la compartecipazione sostanziale del privato alla definizione del provvedimento accertativo si sostanzia nell’esigenza di garantire al con-

(11) CGUE, Sopropé, C-349/07 del 18 dicembre 2008, ECLI:EU:C:2008:746, con commento di G. Ragucci, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario, in Rass. trib., 2009, 580 ss. Sul principio del contradditorio in materia tributaria, si vedano, tra le opere monografiche, A. Viotto, I poteri di indagine dell’amministrazione finaziaria, Milano, 2002, 144 ss., con particolare riguardo ai fondamenti costituzionali; G. Ragucci, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, passim e P. Accordino, Problematiche applicative del “contraddittorio” nei procedimenti tributari, Milano, 2018, passim, cui si rinvia anche per la compiuta ricostruzione dell’evoluzione della giurisprudenza europea e interna di legittimità. (12) Si tratta di un aspetto enunciato dalla Corte di giustizia già con la sentenza Cipriani del 12 dicembre 2002, C-395/00, in cui si afferma infatti che il contraddittorio “impone che i destinatari di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro interessi siano messi in condizione di formulare utilmente le proprie osservazioni (v. sentenze 24 ottobre 1996, causa C-32/95 P, Commissione/Lisrestal e a., Racc. pag. I-5373, punto 21, e 21 settembre 2000, causa C-462/98 P, Mediocurso/Commissione, Racc. pag. I-7183, punto 36)”. In proposito, si v. anche A. Marcheselli, L’effettività del contraddittorio nel procedimento tributario tra Statuto del contribuente e principi comunitari, in A. Bodrito - A. Contrino - A. Marcheselli, Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente, Torino, 2012.


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tribuente un contraddittorio effettivo, conforme ai requisiti individuati dalla giurisprudenza multilivello, per cui il diritto di difesa sussiste solo se l’attività dialettica del privato non si atteggi a “puro simulacro” (13); è parimenti vero che la garanzia della dialettica procedimentale dell’accertato non può sussistere in via irrelata rispetto ad altre fondamentali dimensioni della sua tutela giuridica che, rispetto al contraddittorio, ne costituiscono, per così dire, la “condizione di esistenza”. In particolare, il diritto al contraddittorio non potrà configurarsi in senso effettivo laddove il rapporto tra contribuente e amministrazione sia strutturalmente contaminato dall’asimmetria informativa circa gli elementi posti alla base della contestazione erariale; né, a fortiori, esso potrà acquisire consistenza alcuna nel caso che il privato difetti completamente del potere di “filtrare” i fondamenti conoscitivi della pretesa tributaria, attraverso il confronto puntuale con l’ente pubblico. In questi termini, allora, il contraddittorio necessita di essere accompagnato (o, se si vuole, “preparato”) dalla previa garanzia del diritto di accesso ai presupposti fattuali dell’azione erariale. Non è, quindi, un caso che la stessa attenzione che si rinviene nella giurisprudenza eurounitaria con riguardo al diritto al contraddittorio sia estensibile al diritto di accesso, tanto da aver quest’ultimo vissuto una progressiva “emersione”, da una proclamazione meramente formale (14) sino a vincolo effettivo per l’amministrazione, ancorché con esclusivo riguardo ai dati connotati da un carattere di “pertinenza” con la decisione erariale (15). In un primo momento, infatti, la Corte di giustizia aveva ritenuto immanente al diritto dell’Unione europea anche un generale diritto di accesso del

(13) Cass., SSUU, 9 dicembre 2015, n. 24823, sulla scorta di CGUE, Kamino, C-129/13 e C-130/13, 3 luglio 2014, ECLI:EU:C:2014:2041, commentata, con sfumature e spunti diversi, da A. Marcheselli, Il contraddittorio va sempre applicato ma la sua omissione non può eccepirsi in modo pretestuoso, in Corr. Trib., 2014, 2536 ss., R. Iaia, I confini di illegittimità del provvedimento lesivo del diritto europeo al contraddittorio preliminare, in GT – Riv.giur. trib, 2014, 838 ss. e M.V. Serranò, Innovativo e sostanziale contributo della corte di giustizia europea in tema di contraddittorio endoprocedimentale tributario, in Boll. trib., 2015, 466. (14) Così potrebbe leggersi la sua enunciazione in CGUE, Sabou, C-276/12, 22 ottobre 2013, ECLI:EU:C:2013:678, commentata da P. Mastellone, L’Unione europea non riconosce participation rights al contribuente sottoposto a procedure di mutua assistenza amministrativa tra autorità fiscale, in Riv. dir. trib., 2013, IV, 349 e ss. (15) In tal senso, si v. CGUE, Berlioz, C-682/15, 16 maggio 2017, ECLI:EU:C:2017:373, con commento di D. Berlin, Souveraineté et protection des droits fondamentaux, in Revue des affaires européennes, 2017, II, 307 – 320.


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contribuente anche con riguardo alle procedure di cooperazione informativa per le indagini fiscali tra Stati membri; tuttavia, la Corte UE aveva subordinato l’attivazione del diritto al suo esercizio nell’ambito dell’attività valutativa delle risultanze istruttorie già raccolte dall’Amministrazione finanziaria, mentre ne escludeva l’azionabilità in funzione della partecipazione del contribuente alla fase di indagine fattuale propriamente detta (16). In seguito, tuttavia, il giudice di Lussemburgo ha riconosciuto con maggiore convinzione il diritto del contribuente all’accesso e alla partecipazione alle procedure istruttorie che lo riguardino, dichiarando la legittimità di una richiesta del contribuente di accesso alla procedura di scambio informativo tra Stati membri, ancorché limitatamente agli elementi necessari a contestare le indagini nei propri confronti (17). Sicché, il diritto di accesso, quale aspetto

(16) Così, al §30 della sentenza Sabou, in cui si afferma che “occorre distinguere, nell’ambito dei procedimenti di controllo fiscale, la fase d’indagine nel corso della quale vengono raccolte le informazioni e che comprende la richiesta d’informazioni da parte di un’amministrazione fiscale ad un’altra, dalla fase contraddittoria, tra l’amministrazione fiscale e il contribuente cui essa si rivolge, la quale inizia con l’invio a quest’ultimo di una proposta di rettifica”; sul punto, però, si deve ricordare l’ordinanza 14 gennaio 2015 n. 527 della Corte di Cassazione, in cui si è opportunamente osservato come la distinzione “fra indizio [riconducibile alla fase di mera indagine] e prova [riferibile alla fase valutativa] tende, dunque, a sfumare, divenendo quasi impercettibile in un processo il cui esito può essere determinato da canoni di giudizio di carattere probabilistico (si pensi al largo ricorso al criterio dell’id quod plerumque accidit) e non occorre il superamento di ‘ogni ragionevole dubbio’”. (17) Cfr. il §100 della sentenza Berlioz, in cui la Corte afferma che “affinché la causa dell’amministrato coinvolto sia esaminata equamente quanto alla condizione di prevedibile pertinenza, non è necessario che egli abbia accesso alla richiesta di informazioni nella sua interezza. È sufficiente che egli acceda all’informazione (…) relativa all’identità del contribuente coinvolto e al fine fiscale delle informazioni richieste. Tuttavia, se il giudice dello Stato membro interpellato considera che detta informazione minima non sia sufficiente a questo proposito, e se esso richiede all’autorità interpellata elementi di informazione complementari (…) tale giudice è tenuto a fornire detti elementi di informazione complementari all’amministrato coinvolto, tenendo debitamente conto, nel contempo, dell’eventuale riservatezza di taluni di questi elementi”. Sul diritto di accesso agli atti in materia amministrativa nel diritto europeo la dottrina è copiosa: v., senza pretesa di completezza, F. Bignami, Tre generazioni di diritti di partecipazione nei procedimenti amministrativi europei, in S. Cassese - F. Bignami, (a cura di), Il procedimento amministrativo europeo, Milano, 2004, 98 ss.; M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, 2018; D.U. Galetta, Trasparenza e governance amministrativa nel diritto europeo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2006, p. 280; e, più di recente, D.U. Galetta, L’accesso ai documenti amministrativi, in AA.VV., La pubblica amministrazione e il suo diritto, Bologna, 2012, 264 ss.; quanto alla materia tributaria, v., fra gli altri, A. Viotto, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria, op.cit., 325 ss.: M. Basilavecchia, Impossibile l’accesso agli atti tributari, in Corr. trib., 2008, 3093 ss. D. D’Angelo - A. Buscema, L’ac-


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“ancillare” del diritto al contraddittorio e ad esso complementare nel coacervo di garanzie intrinseche al diritto di difesa, risulta ormai un dato indefettibile nello statuto, per così dire, del contribuente costituito in via sedimentaria dalle plurime pronunce del giudice dell’Unione europea in campo tributario. 5. L’applicazione delle garanzie tributarie da parte della Corte di giustizia. – L’enunciato rapporto quasi di pregiudizialità-dipendenza tra l’accesso e il contraddittorio appare dunque suggellato anche nella sentenza in commento, in cui si afferma che “il principio del rispetto dei diritti della difesa ha così come corollario il diritto di accesso al fascicolo” (§ 51) nel corso del procedimento di accertamento; sicché, una violazione di tale diritto “intervenuta durante il procedimento amministrativo non è sanata dal semplice fatto che l’accesso (…) è stato reso possibile nel corso del procedimento giurisdizionale” (§ 52). Per questa strada, il diritto di accesso assume una valenza fondamentale, la cui tutela si prospetta addirittura più ampia di quella tradizionalmente riservata al contraddittorio tout court dalla giurisprudenza multilivello, che ne considera la violazione a volte come irrilevante, restando la sanzione di nullità sempre subordinata alla prova della sua indefettibilità per la decisione finale (18), o comunque sempre sanabile (19). Con la sentenza annotata, la Corte UE sembra infatti ritenere che l’accesso al fascicolo dell’autorità finanziaria non possa subire compressione alcuna, configurandosi senza eccezioni, a fronte della sua violazione, la nullità dell’intera procedura che ne dipende fino a travolgere la stessa decisione finale.

cesso alla documentazione tributaria, in Il Fisco, 2009, VIII, 1226 ss.; Del Federico, L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva: verso l’amministrazione di risultato, in Riv. trim. dir. trib., 2013, 851 ss.; A. Marcheselli, Il giusto procedimento tributario. Principio e disciplina, Padova, 2012; M. Bambino, Accesso agli atti dell’Amministrazione finanziaria e tutela del contribuente, in Rass. trib., 2012, 1557 ss. e, più di recente, G. Dellabartola, Diritto di accesso agli atti del procedimento tributario (quasi) senza limiti, in Corr. Trib., 2018, 457. (18) Così in CGUE, Kamino e Datema, C-129/13 e C-130/13, cit. (19) Si v. la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo Grande Stevens c. Italia, nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10, ECHR, 4 marzo 2014, secondo cui è ben possibile che “la decisione di un’autorità amministrativa che non soddisfi essa stessa le condizioni dell’articolo 6 [in quel caso, il diritto a un contraddittorio in udienza pubblica] sia successivamente sottoposta al controllo di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione”.


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Non solo; la sentenza pare richiedere, quale requisito della discovery del materiale probatorio alla base dell’accertamento, un suo adempimento da parte dell’Ufficio secondo canoni di mera esecutività e terzietà, in quanto, nell’esibire al privato il fascicolo contenente i documenti su cui si fonda l’indagine pubblica, all’autorità fiscale dovrebbe essere interdetta ogni condotta selettiva, che la portasse a comunicare “indirettamente, sotto forma di sintesi, solo una parte di tali elementi da essa selezionati secondo criteri che le sono propri e sui quali egli [il privato] non può esercitare alcun controllo” (§ 58) – così derivandone l’esito negativo del secondo dei quesiti sollevati, sub b). Il gradiente di effettività richiesto al diritto di accesso risulta, dunque, ben più elevato di quello caratterizzante il contraddittorio tout court; non comportando tuttavia tale peculiarità alcun ridimensionamento del secondo a favore del primo perché, come visto, si tratta di profili interrelati e inscindibili del medesimo diritto fondamentale di difesa ex art. 47 della Carta di Nizza. 6. Il principio di proporzionalità come forma del bilanciamento… – Le raggiunte conclusioni, se condivise, devono, a questo punto, confrontarsi con i loro possibili limiti specie in relazione al ruolo attualmente interpretato dalla Corte di giustizia anche in sede di rinvio pregiudiziale, nel cui ambito il giudice eurounitario si trova a operare un vero e proprio bilanciamento di principi alla stregua di un giudice costituzionale europeo. Una volta ravvisati, infatti, nel diritto al contraddittorio e nel diritto d’accesso due componenti fondamentali del diritto di difesa, la Corte UE passa, nella sentenza in commento, a definirne la concreta fisionomia a fronte del principio antagonista ed altrettanto fondamentale, della certezza del diritto che presiede, nella specie, alla tutela dell’interesse fiscale, nonché con altri interessi di rango costituzionale. Ciò che comporta la rilevazione dei “punti di rottura” del bilanciamento e delle forme logiche entro cui esso può svilupparsi. In proposito, la pronuncia in commento osserva che “il principio del rispetto dei diritti della difesa non costituisce una prerogativa assoluta, ma può comportare restrizioni (…) [le quali possono] essere intese a tutelare le esigenze di riservatezza o di segreto professionale (…) o l’efficacia dell’azione repressiva, che possono essere pregiudicati dall’accesso a talune informazioni e a determinati documenti”. Pertanto, il requisito di effettività del diritto di accesso non implica necessariamente l’integralità dell’esposizione documentale nelle mani dell’amministrazione, ma si limita a conferire al contribuente un ruolo proattivo nella selezione degli elementi istruttori da sottoporre a


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contraddittorio, così da consentirgli di “ricevere, a sua richiesta, le informazioni e i documenti (…) presi in considerazione da tale amministrazione ai fini della sua decisione, a meno che obiettivi di interesse generale giustifichino la restrizione dell’accesso alle suddette informazioni” (§ 56). Laddove il bilanciamento effettuato dalla Corte UE risulta commisurato al parametro della proporzionalità, il quale assume la funzione di “valvola giuridica” di regolazione del conflitto tra il diritto di difesa, la certezza del diritto e gli altri interessi di rango primario in gioco (20): proprio in tale ottica, “il principio del rispetto dei diritti della difesa non è una prerogativa assoluta, ma può soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti” (§ 43). Ma anche sotto il più saliente profilo della comparazione tra certezza del diritto e principio di accesso/contraddittorio (id est, diritto di difesa), il principio di proporzionalità riveste un compito essenziale, traducendosi nella prerogativa del contribuente di contestare la legittimità “dell’ottenimento e dell’utilizzo delle prove assunte nel corso di procedimenti amministrativi connessi avviati contro altri soggetti passivi, nonché delle constatazioni effettuate nelle decisioni amministrative adottate in esito a tali procedimenti, che sono decisive per l’esito del ricorso” (§ 67). Del resto, in tema di Iva il principio di proporzionalità riveste un ruolo fondamentale anche perché direttamente connesso all’attuazione della regola di neutralità dell’imposta rispetto ai passaggi produttivi cui la cessione di beni o la prestazione di servizi ineriscono (21). Numerose, in tal senso, sono le

(20) Sul principio di proporzionalità quale limite, con radici costituzionali, all’esercizio del potere impositivo (in senso lato), v. G. Moschetti, Il principio di proporzionalità come “giusta misura” del potere nel diritto tributario, Padova, 2017, 96 ss., ma v. anche G. Petrillo, Il principio di proporzionalità e diniego di detrazione per “consapevolezza” nelle frodi IVA, in Riv. trim. dir. trib., 2017, II, 431 ss. e P. Pistone, Diritto tributario europeo, Torino, 2018, 9 ss. (21) La genesi del principio di proporzionalità è tradizionalmente fatta risalire all’ordinamento tedesco e, particolarmente, al caso Kreuzberg, su cui si pronunciò il Tribunale Amministrativo Superiore Prussiano (Oberwaltungsgerichts) il 14 giugno 1882 (fattispecie che verteva sulla correttezza dell’ordine di chiusura di un locale per aver esercitato una vendita abusiva di alcolici); secondo la sua fisionomia “classica”, il vaglio circa la proporzionalità delle misure assunte dal pubblico potere consta di un esame a “tre gradini”, vertente a ravvisare, in ordine, l’idoneità, la necessarietà e la proporzionalità in senso stretto della decisione autoritativa rispetto al caso specifico cui essa si rivolge: v., sul punto, N. Emiliou, The principle of proportionality


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pronunce, sia di diritto interno sia di matrice eurounitaria, che hanno sancito

in European law. A comparative study, London-the HagueBoston, 1996, 23 e ss.; T. Tridimas, The principle of proportionality in Community law: from the rule of law to market integration, in The Irish Jurist, XXXI, Dublin, 1996, 83 e ss.; G. Scaccia, Il principio di proporzionalità, in S. Mangiameli (a cura di), Ordinamento Europeo. L’esercizio delle competenze, vol. II, Milano, 2006, 227 e ss.; D.U. Galetta, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998. Si sostiene una preesistenza del principio di proporzionalità nel nostro ordinamento, inoltre, in F. Merusi, Gian Domenico Romagnosi tra diritto e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 1234 e ss. Il principio di proporzionalità è stato poi mutuato dall’ordinamento interno secondo il meccanismo di “spill-over”, con conseguenze rilevanti anche nel nostro ambito, come messo in luce da A. Mondini, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’Iva europea, Pisa, 2012; G. Vanz, I principi della proporzionalità e della ragionevolezza nelle attività conoscitive e di controllo dell’amministrazione finanziaria, in Dir. e prat. trib., 1997, II, 805 e ss.; F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, Torino, 2013, 186 e ss.; A. Comelli, I principi di neutralità fiscale e proporzionalità ai fini della disciplina dell’Iva europea e nazionale; M. Lugato, Principio di proporzionalità e invalidità di atti comunitari nella giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, in Dir. com, sc. intern., 1991, 67 e ss.; C. Monaco, Neutralità fiscale, ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri e prevenzione dell’evasione: la difficile opera di bilanciamento della Corte di Giustizia – Rassegna di giurisprudenza (luglio-dicembre 2007), in Riv. dir. fin. e sc. fin., 2008, I, 126 e ss. L’ambito di operatività del principio di proporzionalità si estende, peraltro, anche alla giurisprudenza della Corte EDU, risultando particolarmente funzionale al compito di “promozione persuasiva” dei diritti fondamentali cui è preposto il giudice di Strasburgo: la proporzionalità consente, in effetti, di mitigare il bilanciamento tra valori, sottraendo la Corte al rischio di ingerenza nella sfera di sovranità nazionale degli Stati appartenenti al Consiglio d’Europa, eventualità particolarmente vivida laddove si controverte di questioni tributarie (v. Ferrazzini c. Italia, n. 44759/98, 12 luglio 2001, ECHR 2001). Il principio di proporzionalità si presenta, in ambito Edu, nella formula del “giusto equilibrio” tra valori contrapposti: così, in Buffalo Srl in liquidazione c. Italia, n. 38746/97, 3 luglio 2003, ECHR 2003, in cui il diritto di proprietà viene salvaguardato, ancorché considerato recessivo rispetto all’interesse fiscale dall’art. 1 del Prot. 1 Cedu, in quanto sarebbe inesigibile un suo sacrificio eccessivo e sproporzionato a beneficio delle esigenze finanziarie dello Stato; così, in Eko-Elda AVEE c. Grecia, n. 10162/02, 9 marzo 2006, ECHR 2006, in cui il ritardo prolungato alla corresponsione di un credito di imposta richiede l’erogazione anche degli interessi sulle somme dovute, altrimenti violandosi il giusto equilibrio tra l’interesse erariale e il diritto di proprietà, sub specie di diritto fiscale, del contribuente; ovvero, si consideri il caso Di Belmonte c. Italia, n. 72638/01, 16 marzo 2010, ECHR 2010, in cui il protrarsi di una procedura di esproprio aveva consentito l’attivazione, nelle forme del ius superveniens, della ritenuta del 20% sulla relativo giusto indennizzo, così configurando una preminenza delle finanze pubbliche del tutto sproporzionata rispetto al legittimo affidamento del contribuente. Sul punto si v. A. Merone (a cura di), La tutela dei diritti del contribuente tra Corti europee e giustizia interna, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018; nonché, più in generale, V. De Bonis, Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e giusto processo tributario, Canterano, 2019. Cfr. anche C. Ovey - R. White, The European Convention on Human rights, Oxford, 2006; e C. Gioè, Profili di responsabilità civile dell’Amministrazione Finanziaria, Padova, 2007, 178 e ss.


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l’illegittimità del disconoscimento del diritto alla detrazione ovvero all’esenzione Iva, corollario fondamentale del principio di neutralità, affermato dalla normativa interna in corrispondenza di violazioni meramente formali da parte del contribuente committente, o cessionario-esportatore: quali sono, ad esempio, le violazioni di natura contabile che non arrechino pregiudizio alcuno all’attività accertativa dell’Ufficio, ove riferite a operazioni sostanzialmente conformi alla Direttiva 2006/112/CE (22). In senso analogo, si è ritenuto esorbitante dal campo di compatibilità col diritto UE il novero di sanzioni apprestate dagli ordinamenti nazionali in misura sostanzialmente dissolutoria dei benefici derivanti dalla detrazione Iva, laddove la logica repressiva delle misure adottate non fosse orientata a colpire il carattere fittizio delle operazioni commerciali, bensì la semplice deviazione dall’adempimento a obblighi meramente formali (23). Su questa linea, anche nel nostro caso, la Corte sembra ammettere la preminenza del diritto di difesa sul principio di certezza del diritto (e uniformità degli accertamenti fiscali tra fornitore e acquirente in ambito Iva), solo in quanto tale superiorità valoriale e operativa risulti proporzionata al fine di garantire la parità delle armi; e quindi si configuri in misura tale da non

(22) V., sul punto, Cass., 1° marzo 2019, n. 6092, che ha sancito l’illegittimità del recupero della detrazione a carico di una società farmaceutica che aveva omesso l’autofatturazione degli acquisti da un soggetto non residente, in quanto “il principio fondamentale di neutralità dell’i.v.a. esige che la detrazione dell’imposta a monte sia accordata, nonostante l’inadempimento di taluni obblighi formali, se sono soddisfatti tutti gli obblighi sostanziali, di cui le violazioni formali non impediscano la prova certa, sicché il diritto alla detrazione non può essere negato nei casi in cui, pur non avendo l’operatore nazionale applicato la procedura d’inversione contabile (reverse charge) ed in particolare avendo omesso la doppia registrazione delle fatture integrate o autofatture nei registri di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 23 e 25, è, comunque, dimostrato, o non controverso, che gli acquisti siano fatti da un soggetto passivo i.v.a. e che le merci siano finalizzate a proprie operazioni imponibili (cfr. Cass. 9 marzo 2016, n. 4612; Cass. 14 aprile 2015, n. 7576; tra la giurisprudenza eurounitaria, Corte Giust., 11 dicembre 2014, Idexx)”; in senso analogo, ex multis, Cass., SSUU, 8 settembre 2016, n. 17757; Cass., 24 febbraio 2016, n. 3586; Cass., 24 settembre 2015, n. 18924. Sul piano della giurisprudenza euro-unitaria, cfr. Unitel, C-653/18, 17 ottobre 2019, ECLI:EU:C:2019:876; Ecotrade, cause riunite C-95/07 e C-96/07, 8 maggio 2008, ECLI:EU:C:2008:267; nonché, Idexx, C-590/13, 11 dicembre 2014, ECLI:EU:C:2014:2429. (23) Si v. Cass., 9 agosto 2016, n. 16679, con nota di F. Farri, in Riv, dir. trib. online, 13 settembre 2016; Cass., 15 luglio 2015, n. 14767; nonché, nella giurisprudenza della Corte di giustizia, Equoland, C-272/13, 17 luglio 2014, ECLI:EU:C:2014:2091; EMS-Bulgaria Transport, C‑284/11, 12 luglio 2012, ECLI:EU:C:2012:458; Rēdlihs, C-263/11, 19 luglio 2012, ECLI:EU:C:2012:497.


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produrre un completo travolgimento dell’istruttoria previamente effettuata nei confronti del fornitore, ma si rivolga principalmente alle modalità di assunzione probatoria e alle relative constatazioni e valutazioni in punto di diritto. Di qui la possibile risposta al dilemma circa i confini di operatività in fatto e in diritto della critica del contribuente rispetto alle risultanze di istruttorie pregresse: le quali resterebbero controvertibili sotto i profili di fatto limitatamente alla legittimità delle relative fonti di prova (il predetto “ottenimento e utilizzo delle prove assunte”); mentre la critica del privato potrebbe, invece, svolgersi ad ampio raggio con riguardo alle conclusioni (le “constatazioni”) giuridiche raggiunte nella prima istruttoria, in conformità al menzionato principio di iura novit curia procedimentale. D’altro canto, il confronto tra la pronuncia della Corte UE e il principio della parità delle armi richiede di puntualizzare ulteriormente la posizione del contribuente rispetto alla contestazione erariale preconfezionata, per così dire, sulla base del procedimento inerente al soggetto emittente la fattura. Occorre, in particolare, comprendere se il destinatario della fattura sia semplicemente ammesso alla, ovvero più gravosamente onerato della “prova contraria” circa le risultanze derivanti dal procedimento a carico del proprio fornitore. Tale alternativa rileva in termini effettuali, poiché se la prova del contribuente fosse configurata come onere, la sua assenza consentirebbe di qualificare come completo e, per così dire, automatico, in virtù del principio di non contestazione, l’accertamento erariale formatosi nel procedimento precedente e parallelo; mentre, d’altro canto, la semplice ammissione del committente al contraddittorio circa l’istruttoria pregressa e ora a lui rivolta non esonererebbe l’amministrazione dal fornire comunque un quid pluris, quanto meno in punto motivazionale, circa il difetto di buona fede soggettiva a questi imputabile. Sotto il profilo probatorio, tale dualismo determinerebbe, nel primo dei casi descritti, un aggravamento procedimentale in capo al contribuente, il quale sarebbe ora onerato di produrre la prova della propria diligenza e non, come la tradizionale giurisprudenza UE aveva finora affermato, la prova contraria circa l’assenza di negligenza. Ciò che rischierebbe di far rifluire in via presuntiva nella prova della frode, integrante un elemento oggettivo rinvenibile sulla base dell’istruttoria rivolta all’emittente la fattura, anche la dimostrazione della partecipazione colposa del committente, che costituisce invece un elemento soggettivo proprio del procedimento radicato avverso quest’ultimo. Si tratta, in realtà, di elementi distinti che soltanto un approfondimento istruttorio separato e specifico, aderente al secondo corno dell’alternativa sopra delineata,


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sembra consentire di vagliare in maniera realmente conforme al principio di parificazione processuale delle parti pubblica e privata; detto esito interpretativo porrebbe, d’altro canto, la pronuncia de qua pianamente in linea con il consueto riparto probatorio e i precedenti giurisprudenziali sopra descritti, i quali esigono, quanto meno in prima battuta, la formulazione erariale della prova circa la negligenza colpevole del committente (24). 7. …e fonte della partecipazione procedimentale. – Come che sia, residua la bontà della pronuncia in esame con riguardo al ruolo meta-normativo che assume il principio di proporzionalità nel guidare il giudice dell’Unione europea alla ridefinizione dei rapporti tra interesse fiscale e diritti del contribuente nell’ambito dell’istruttoria Iva. Non si tratta, invero, di un profilo del tutto innovativo. La Corte di giustizia aveva infatti in altre occasioni fatto ricorso al principio di proporzionalità nella ripartizione del rischio tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria con riguardo alla frode commessa da un terzo (25). Il precipitato procedimentale di tale principio consiste proprio nella compartecipazione probatoria del privato all’accertamento del fatto evasivo, cui è sottesa la possibilità di fornire la prova della propria buona fede (26). Su

(24) V. sul tema, tra gli altri, F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino 2017, 171; M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino 2018, 141; G. Dellabartola, Diritto di accesso agli atti del procedimento tributario (quasi) senza limiti, in Corr. Trib., 2018, 457; A. Gaggero, Operazioni soggettivamente inesistenti: ancora qualche pericolosa oscillazione in tema di ripartizione dell’onere della prova della buona fede”, in Dir.Prat. Trib., 2018, 1681; M. Damiani, Indebita detrazione delle fatture ai fini IVA e delle imposte dirette: ripartito l’onere della prova, in GT – Riv. Giur. Trib., n. 5/2018, 416. (25) Così, nella sentenza Teleos, C-409/04 del 27 settembre 2007 la Corte UE afferma l’impossibilità per l’Ufficio di recuperare l’Iva dal fornitore di cessione intracomunitaria, laddove questi “ha agito in buona fede e ha presentato prove giustificanti prima facie il suo diritto all’esenzione di una cessione intracomunitaria di beni, ad assolvere successivamente l’IVA su tali beni, quando tali prove si rivelano essere false senza che risulti tuttavia provata la partecipazione del fornitore medesimo alla frode fiscale”. Sul punto, v. anche P. Piantavigna, Note a margine di una pronuncia della Cassazione sulla rilevanza della buona fede del cessionario nelle operazioni soggettivamente inesistenti, in Riv. dir. fin. sc. fin., I, 2019, 60 e ss. (26) Tale aspetto, più volte ribadito, costituisce del resto una chiave di lettura anche di altre situazioni di corresponsabilità tributaria normativamente previste. Ci si riferisce, ad esempio, al meccanismo previsto all’art. 60-bis, co. 2, del d.P.R. 633/1972, per il quale “in caso di mancato versamento dell’imposta da parte del cedente relativa a cessioni effettuate a prezzi inferiori al valore normale, il cessionario, soggetto agli adempimenti ai fini del presente decreto, è obbligato solidalmente al pagamento della predetta imposta”. In proposito, è stato osservato


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questa linea la proporzionalità del meccanismo sanzionatorio e di recupero impositivo attivato nei confronti del contribuente si è tradotta nella giurisprudenza della Corte UE anche nella rimediabilità di violazioni meramente formali, ossia non esitanti in una perdita di gettito fiscale, attraverso la rettifica del debito di imposta, una volta che sia acclarata l’assenza di nocumento per le casse erariali (27). Simmetricamente, e siamo al terzo quesito – sub c), osserva la Corte UE che la parità delle armi verrebbe meno “se le parti non potessero discutere in contraddittorio tanto su dette prove quanto su tali constatazioni e se detto giudice non potesse verificare tutti gli elementi di fatto e di diritto sui quali si fondano tali decisioni e che sono decisivi per la soluzione della controversia di cui è investito” (§ 67). Così ritenendosi che le medesime facoltà di rideterminazione dell’esito del procedimento accertativo pregresso riconosciute al contribuente debbano essere consentite anche in ambito giurisdizionale, in sede di ricorso avverso la decisione eventualmente scaturita dalle indagini rivolte nei confronti del committente Iva, al netto di qualsivoglia automatismo probatorio per il giudice (non potendo certo sussistere vincoli valutativi alla luce del principio iura novit curia), e di preclusioni deduttive per il privato (v. § 69). La corresponsabilità tra fornitore e committente è quindi valida “fino a prova contraria”, la quale può essere allegata sia a livello procedimentale, sia sul piano processuale; tale prova, inoltre, si sostanzia tanto nella buona fede soggettiva del soggetto collateralmente lambito dalla frode Iva, sia, più in generale, nella dimostrazione di assenza di qualsivoglia perdita d’imposta per la parte erariale.

che proprio l’esigenza di condizionare l’esigibilità dell’obbligazione solidale alla negligenza del cessionario, in virtù dei principi di proporzionalità e di neutralità, sarebbe ostativa al recupero di imposta presso il committente della fornitura che non abbia avuto rapporti col proprio fornitore, non potendo quindi avvedersi della natura di mera cartiera di quest’ultimo. Nei casi di responsabilità solidale, infatti, la buona fede del coobbligato potrà escludersi solo nei casi in cui questi abbia “preso parte” al (quindi sia entra in contatto con) lo schema fraudolento architettato da un terzo. V. sul punto A. Giovanardi, Le frodi Iva. Profili ricostruttivi, cit., 53 ss. e G. Zizzo, Incertezze e punti fermi in tema di frodi carosello, in Corr. trib., 2010, 962. (27) Ciò, peraltro, a prescindere dallo stato soggettivo dell’emittente la fattura e del suo committente: v. la sentenza CGUE, EN.SA Srl, C‑712/17, 8 maggio 2019, ECLI:EU:C:2019:374.


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8. Alcune conclusioni. – In conclusione, l’interesse della pronuncia in commento risiede nel suo valore riassuntivo e chiarificatore di profili essenziali affermatisi nella giurisprudenza multilivello, e in particolare eurounitaria, con riguardo al rapporto tra il diritto di difesa, le sue componenti fondamentali, e la certezza del diritto, di cui il principio di interesse fiscale è sovente un portato specifico. Inoltre, le conclusioni maturate finora sulla generale tematica sono qui estese all’istruttoria tributaria in ambito Iva, che interseca, a “doppio filo”, le figure del fornitore e del committente, al fine di vagliare lo stato soggettivo di consapevolezza del secondo rispetto alla frode del primo; e così aprendo le porte alla parziale rimodulazione del materiale istruttorio “di risulta”, proveniente da istruttorie pregresse, nella disponibilità dell’autorità fiscale, secondo i canoni del giusto procedimento e giusto processo. A tale risultato corrisponde una rilettura giurisprudenziale della normativa Iva attraverso le lenti del principio di proporzionalità, il quale, nel contemperare e bilanciare gli interessi concorrenti, perviene a realizzare la neutralità dell’imposta senza, parallelamente, sacrificare le esigenze di accertamento dell’eventuale evasione Iva rappresentate dalla parte erariale. In definitiva tale procedimento giunge a definire una “neutralità plastica” dell’imposta, la quale, attagliandosi alle singolarità di ogni situazione concreta oggetto di indagine tributaria, si caratterizza in senso dinamico e partecipato, conducendo a riconoscere in capo al contribuente il diritto alla prova della propria buona fede soggettiva anche con riferimento alle risultanze istruttorie di un accertamento connesso, ovvero la possibilità di dimostrare l’assenza di perdita di gettito fiscale intrinseca all’operazione contestata (28). Sotto altro profilo, anche la rilevanza del principio di parità delle armi esclude la possibile inferenza dall’eventuale contegno inerte del contribuente della relativa compartecipazione colposa o dolosa alla frode, residuando la necessità di una precisazione erariale, nei termini di una motivazione concreta e aderente al caso di specie, anche su questo aspetto. Il principio di proporzionalità, in sinergia con le garanzie che presiedono a informare il “giusto procedimento”, si configura, così, quale “strumento attuativo” della neutralità dell’Iva, il cui meccanismo accertativo non può risolversi nella semplice oggettivizzazione della responsabilità del destinatario

(28) In tal senso, la neutralità non si realizza per mezzo dell’eventuale ravvedimento del contribuente, ma nell’inibizione di conseguenze sanzionatorie e impositive rispetto a operazioni in cui è già ex ante assente il rischio erariale.


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della fattura in ragione della rilevata evasione da parte del suo fornitore; ciò, in accordo anche con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che ha ravvisato nella eccessiva rigidità del recupero Iva in capo al committente dell’operazione un’infrazione del “giusto equilibrio” che deve governare le possibili interferenze dell’interesse fiscale nella struttura del diritto di proprietà (29). La normativa ungherese applicata alla Glencore si poneva in netto contrasto con la proporzionalità dell’accertamento, rendendo il relativo procedimento connotato da un chiaro carattere oggettivo, senza però far venire meno anche il profilo sanzionatorio delle sue conseguenze. Ciò che ha comportato la tutela unilaterale e “ad ogni costo” dell’interesse fiscale e della certezza del diritto, sacrificando d’altro canto le esigenze di accertamento del reale rapporto intrattenuto dal committente con la frode Iva e, dunque, i suoi diritti fondamentali che dovrebbero invece trovare voce privilegiata nella fase di compartecipazione all’istruttoria amministrativa. La certezza del diritto non può costituire un valore di parte, ma dovrebbe beneficare tutti i soggetti convolti nell’accertamento; ciò che potrebbe verificarsi ove fossero stabiliti in maniera certa, predeterminata e nel dettaglio gli elementi sintomatici della frode Iva da parte dell’emittente della fattura e sui quali il relativo destinatario avrebbe l’obbligo di vigilare. La sentenza in commento mette, invece, in luce il carattere unilaterale della normativa accertativa ungherese, la quale pertanto non riesce a superare il vaglio operato alla luce dei principi fondamentali cui la sottopone la Corte di giustizia. In tal modo, il procedimento e il processo tributario escono come “cesellati” dalla forza informante dei principi, di cui la Corte dell’Unione europea si fa naturale interprete e promotore.

(29) CEDU, Bulves AD c. Bulgaria, n. 3991/03, 22 aprile 2009, ove si afferma che “se le autorità nazionali, in assenza di ogni indicazione di coinvolgimento diretto di un individuo o ente nell’evasione fraudolenta messa in atto in una catena di fornitura Iva, o in assenza di una conoscenza della stessa, tuttavia penalizzano il committente dell’operazione che sia completamente adempiente ai suoi obblighi Iva per le zioni od omissioni del suo fornitore sul quale egli non ha nessun controllo, né mezzi di accertamento, esse stanno agendo in maniera sproporzionata, violando il giusto equilibrio che dovrebbe essere mantenuto tra le esigenze di generale interesse fiscale della comunità e la protezione del diritto di proprietà”. Sul punto, A. Marcheselli, Il giusto processo tributario. Efficienza e giustizia nel diritto finanziario d’Europa, Vicalvi, 2016, 21 e ss.


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Un nuovo tassello allora alla configurazione del giudice euro-tributario come giudice dei principi fiscali, che, se nello specifico incidono sul piano procedimentale e accertativo delle pretese erariali, esibiscono in generale la capacitĂ di costituire una trama fondamentale del tessuto valoriale e costituzionale europeo.

Luca Costanzo



Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto

La disciplina domestica di contrasto agli hybrid mismatch arrangements aventi per oggetto strumenti finanziari: spunti interpretativi e di riflessione critica alla luce delle indicazioni contenute nelle relazioni del BEPS action 2 Sommario: 1. Le ragioni a fondamento della nuova disciplina sugli ibridi. – 2. Una

platea limitata di soggetti destinatari. – 3. I disallineamenti oggetto di contrasto. – 4. I disallineamenti da “strumenti finanziari ibridi”. – 4.1. Il perimetro di applicazione. – 4.2. Le disposizioni di contrasto e le c.d. timing differences. – 4.3. Criticità attinenti al requisito del “pagamento”. – 4.4. L’assenza di “gradazione” nelle regole di reazione. – 5. I disallineamenti da “trasferimenti ibridi”. – 5.1. Trasferimento di strumento finanziario con corrispettivo ibrido. – 5.2. Trasferimento di strumento finanziario con titolarità ibrida. – 6. Considerazioni conclusive. Il presente contributo si propone di esaminare la novella disciplina di contrasto ai hybrid mismatch arrangements introdotta dal decreto di attuazione alla ATAD 2, con particolare riferimento ai disallineamenti scaturenti da fattispecie ibride aventi per oggetto strumenti finanziari. In particolare, si intende dapprima individuare i lineamenti generali del fenomeno dei disallineamenti da ibridi, per poi inquadrare compiutamente gli specifici presupposti di applicazione della disciplina domestica. Si procederà dunque all’individuazione e all’esame del suo campo di applicazione sotto il profilo della platea dei soggetti e delle operazioni coinvolte (ovvero escluse), focalizzando in seguito l’analisi sulle singole tipologie di disallineamento ibrido da “strumenti finanziari ibridi” e da “trasferimenti ibridi”. Nell’ambito di tale indagine verrà posta particolare attenzione allo specifico perimetro di applicazione delle due citate fattispecie ibride e alle disposizioni di contrasto previste dalla normativa domestica, facendo altresì riferimento agli esempi proposti nell’ampia casistica offerta nelle relazioni del BEPS Action 2, allo scopo di calare i suddetti strumenti di contrasto nella concretezza del contesto giuridico italiano e di valutare la rilevanza delle indicazioni fornite dall’OCSE ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione della novella disciplina in esame. This contribution aims to analyse the newly introduced measures against hybrid mismatch arrangements under the domestic decree implementing the ATAD 2, with specific reference to the mismatches arising from hybrid situations concerning financial instruments. In particular, the subject matter will be approached by firstly introducing the general outline of the phenomenon


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related to hybrid mismatches, in order to provide a comprehensive overview of the assumptions underlying the application of the domestic provisions. After that, it will be outlined and examined the extension of its scope of application, both under the subjective and the objective requirements, by focusing then on the analysis of two specific types of hybrid mismatches, resulting from “hybrid financial instruments” and “hybrid transfers”. In this investigation it will be carried out an indepth analysis of the specific material scope and of the mechanism of application of the domestic provisions, by making reference to the examples and the position provided under the extensive report of BEPS Action 2, in order to test the implementation of these anti-avoidance measures into the concrete internal legal framework and to assess the relevance of the indications provided by the OECD in the interpretation and application of the newly introduced measures at stake.

1. Le ragioni a fondamento della nuova disciplina sugli ibridi. – In ambito fiscale, non è raro incontrare situazioni di confine “ibride”, la cui qualificazione giuridica risulta particolarmente complessa ed incerta, in ragione della presenza di elementi riconducibili a diverse fattispecie cui corrispondono trattamenti fiscali di matrice opposta. Il carattere ibrido può riguardare, innanzitutto, la qualificazione di quei prodotti finanziari la cui natura non è univocamente inquadrabile, da un punto di vista legale, contabile e finanziario, come partecipativa al capitale di rischio o come capitale di debito (1): è il caso, ad esempio, di un’obbligazione convertibile, di un’obbligazione a conversione obbligatoria, di un’obbligazione subordinata, di un’azione postergata o di un’azione di risparmio, in cui si presentano contestualmente e con sfumature differenti aspetti caratterizzanti sia i titoli rappresentativi dell’Equity che i titoli rappresentativi del Debt (2). Questa incertezza connota altresì la caratterizzazione fiscale di certe entità che, a seconda dei casi, possono essere riconosciute o meno come stabili organizzazioni, possono venir qualificate come residenti o non residenti, o essere assoggettate ad un regime di trasparenza fiscale ovvero essere trattate come “opache”. Infine, assumono connotati di ibridismo anche quelle operazioni la cui forma giuridica si discosta da quella che è l’effettiva finalità economico-finanziaria sottostante: si pensi, a titolo esemplificativo, ad un’operazione “pronti

(1) Per un approfondimento sul tema dell’ibridismo rispetto agli strumenti finanziari, W. Schön, “The Distinct Equity of the Debt-Equity Distinction”, 66 Bulletin for International Taxation, 9 (2012), Journals IBFD, pp. 494-496. (2) Per un’analisi approfondita sul tema degli strumenti finanziari ibridi, J. Bundgaard, Hybrid Financial Instruments in International Tax Law, Wolters Kluwer (2016).


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contro termine”, la cui finalità prevalente è quella di ottenere un finanziamento garantito da titoli, sebbene formalmente si presenti come un’operazione di cessione di titoli (con patto di riacquisto a termine). L’elaborazione di specifici criteri da parte del legislatore consente di far pendere la bilancia della qualificazione giuridica di queste fattispecie ibride, garantendo un trattamento uniforme ed allineato nell’ambito dello stesso ordinamento fiscale che si traduce, generalmente, in un “gioco a somma zero” in cui ciò che è deducibile per il pagatore è imponibile per il percettore (3). Tuttavia, qualora le operazioni aventi per oggetto queste forme ibride non rimangono confinate nel territorio di un unico Stato ma coinvolgono più ordinamenti, la presenza di sistemi giuridici – in specie fiscali – fisiologicamente divergenti e le peculiari caratteristiche di certe costruzioni negoziali transfrontaliere possono dare adito a differenze in termini di qualificazione giuridica della medesima fattispecie, consentendo ai soggetti coinvolti di ricevere un trattamento fiscale asimmetrico nei diversi Stati (4). Inoltre, questa divergenza potrebbe interessare anche l’interpretazione e l’applicazione di norme di diritto internazionale, laddove l’antinomica qualificazione di tali costruzioni ibride transfrontaliere determini un disallineamento nell’attribuzione della potestà impositiva tra Stati nell’ambito di Convenzioni contro le doppie imposizioni (5). La strumentalizzazione di queste antinomie per finalità di pianifica-

(3) Per un’analisi comparata del trattamento fiscale riservato agli strumenti finanziari ibridi in Italia, Australia, Germania e Olanda prima del progetto di riforma del BEPS, si veda l’analisi svolta in S.E. Barsch, Taxation of Hybrid Financial Instruments and the Remuneration Derived Therefrom in an International and Cross-border Context, Springer-Verlag Berlin Heidelberg (2012). (4) S. Cipollina, “I redditi nomadi delle società multinazionali nell’economia globalizzata”, Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, LXXIII, 1, I (2014), pp. 21-63. (5) Un caso di conflitto di attribuzione della potestà impositiva nell’ambito di un Trattato contro le doppie imposizioni è quello trattato dalla Corte di Giustizia nella causa C-648/2015, avente per oggetto la qualificazione di uno strumento finanziario ibrido emesso da una società residente in Germania e detenuto da una società con residenza austriaca, ai fini dell’applicazione delle disposizioni pattizie tra i due Stati. In particolare, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla possibilità che il reddito prodotto da tale strumento finanziario (Genussscheine) il cui carattere ibrido risiedeva proprio nella sua particolare remunerazione, che presentava connotati tipici sia di un titolo di debito (rendimento fisso con scadenza) che del capitale di rischio (la subordinazione di tale rendimento ad un risultato economico positivo dell’emittente e fino a capienza dello stesso) potesse configurare un “reddito derivante da diritti o da crediti con partecipazione agli utili […]” che, in base all’art. 11, c. 2 della Convenzione tra Austria e Germania, avrebbe dovuto subire tassazione esclusiva mediante ritenuta nello Stato della fonte (in deroga al primo comma dello stesso articolo, che prevedeva invece la tassazione esclusiva


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zione fiscale “aggressiva” (6) consente ai soggetti che svolgono questo tipo di transazioni cross-border di ottenere, a livello aggregato, un vantaggio fiscale che può sostanziarsi in una doppia non imposizione o in un differimento di tassazione nel lungo periodo (7).

nello Stato di residenza del percettore nel caso in cui il flusso reddituale fosse qualificato come un “normale” interesse da titolo di debito). In merito, la CGUE ha deciso, con sentenza emessa in data 12 settembre 2017, in senso negativo, qualificando tale strumento finanziario nel novero dei “normali” strumenti di debito di cui al primo comma dell’art. 11, in quanto l’espressione “partecipazione agli utili” implica tipicamente “la vocazione a ottenere una quota dei risultati positivi della gestione annuale di un’impresa”, “è ordinariamente associata alla variabilità e all’imprevedibilità inerente al risultato annuale di qualsiasi attività economica rischiosa” ed “implica altresì, di norma, il diritto di ricevere un importo indeterminato all’inizio dell’esercizio, che può variare di esercizio in esercizio, e che può essere peraltro pari a zero” (si confrontino i §§ 40-42 della CGUE, sentenza 12 settembre 2017, causa C-648/15). Tuttavia, la sentenza in esame e le conclusioni dell’Avvocato Generale sono particolarmente interessanti non tanto per il risultato ermeneutico ottenuto, quanto per i profili attinenti alla competenza della CGUE ratione materiae (si tratta invero del primo caso in cui la Corte è stata chiamata “a pronunciarsi, ai sensi dell’articolo 273 TFUE, su una controversia «in connessione con l’oggetto dei trattati» e «sottoposta in virtù di un compromesso»”, si confrontino le Conclusioni dell’Avvocato Generale Mengozzi del 27 aprile 2017, paragrafo 1) e ai criteri interpretativi da questa utilizzati. Per esigenze di economia di trattazione, si rinvia l’esposizione e l’analisi critica dei suddetti profili ai seguenti contributi in dottrina: J. Luts e C. Kempeneers, Case C-648/15 Austria v. Germany: Jurisdiction and Powers of the CJ to Settle Tax Treaty Disputes Under Article 273 TFEU, in EC Tax Review, n. 1 (2018), 5-18; G. Fort, CGE dell’Unione Europea e procedure amichevoli: una nuova prospettiva?, in Corriere Tributario, n. 26/2017, 2068; G. Rolle, Trattati bilaterali fra stati UE: la nozione di “prestito partecipativo” nella convenzione Austria Germania, in Fiscalità & Commercio Internazionale, n. 5, 2018, 36; M. Trivellin, Studio degli strumenti di soluzione delle controversie fiscali, Torino, 2018, 189. (6) In merito al concetto di pianificazione fiscale “aggressiva” si veda, ex multis, P. Pistone, La pianificazione fiscale aggressiva e le categorie concettuali del diritto globale, in Rivista Trimestrale di Diritto Tributario, 2, 2016, 395-439, in cui vengono delineati i tre tratti caratterizzanti di tale fenomeno, ovverosia: “i) lo sfruttamento delle disparità tra sistema diversi con la finalità di trarre un vantaggio fiscale, ii) il disallineamento tra la produzione della ricchezza e il potere statuale d’imposizione e iii) la sussistenza di una doppia non imposizione che gli Stati non hanno inteso concedere”. (7) OECD (2012), Hybrid Mismatch Arrangements, Tax Policy and Compliance Issues, OECD, Marzo 2012, 5.


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Questo tipo di arbitraggio fiscale internazionale (8), nonostante induca a dannose distorsioni di mercato (9), è stato per anni largamente diffuso nella prassi dei gruppi multinazionali a causa delle peculiari difficoltà riscontrate nell’aggredire questi fenomeni (10): in particolare, il carattere ibrido di tali costruzioni, il rispetto formale delle disposizioni negli ordinamenti coinvolti e la loro precisa collocazione a livello trasfrontaliero non ha consentito di individuare nel set degli strumenti di contrasto disponibili un efficace dispositivo per la loro neutralizzazione. Invero, gli hybrids si manifestano ad un livello che non permette di individuare agevolmente quale sia la giurisdizione danneggiata né consente l’applicazione delle disposizioni generali antiabuso (c.d. GAAR – General Anti-Avoidance Rules) (11): il fatto che questi traggano

(8) Sul tema del contrasto a simili fenomeni di arbitraggio fiscale internazionale si è sviluppato negli anni un dibattito dottrinale particolarmente ricco e acceso, nell’ambito del quale è possibile distinguere un primo orientamento a sostegno della necessità di contrastare tali fenomeni di tax arbitrage [si confrontino, tra gli altri, R. Avi-Yonah, Commentary (Response to Article by H. David Rosenbloom), in Tax L. Rev. 53, 2, 2000, 167 ss.; D.M. Ring, One Nation Among Many: Policy Implication of Cross-border Tax Arbitrage, in Boston College Law Review, 44, 1, 2002, 79 ss.; L. Dell’Anese, Tax Arbitrage and the Changing Structure of International Tax Law, Milano, Comparative and International Taxation, 2006, 90 ss.] da un secondo orientamento che invece si oppone alle relative normative di contrasto (si confrontino, in particolare: H.D. Rosenbloom, Cross-Border Arbitrage: The Good, the Bad and the Ugly, in Taxes – The Tax Magazine, 85, 2007, 155 ss.; A.J. Auerbach, Should Interest Deductions Be Limited?, in Henri J. Aaron et alter eds., Uneasy Compromise: Probles of Hybird Income-Consumption Tax, The Brookings Institution 1988; T.D. Greenaway, International Tax Arbitrage: A Frozen Debate Thaws, in Tax Notes, International, 57, 2010, 391 ss.). Sul tema specifico degli arbitraggi fiscali emergenti da strumenti finanziari ibridi si confrontino altresì A. Krahmal, International Hybrid Instruments: Jurisdiction Dependent Characterization, in Houston Business and Tax Law Journal, vol. 5, 2005, 2-30; E. Eberhartinger e M. Six, Taxation of Cross-Border Hybrid Finance: A Legal Analysis, Intertax, 1, 4-18. (9) D.M. Ring, supra nota n. 8, 108; A. Della Carità e R. Biancolli, Disallineamenti da ibridi e misure di contrasto: le modifiche alla Direttiva ATAD, in Fiscalità e Commercio Internazionale, n. 12 (2017), p. 25. (10) L. Danicz, Purpose of and Policy Considerations for Implementing Hybrid Mismatch Rules, in Pinetz/Schaffer (eds.), Limiting Base Erosion, Series on International Tax Law, 2017, 7. (11) Con riferimento alle difficoltà riscontrate dalle disposizioni anti-elusive generali a contrastare i fenomeni di disallineamenti da ibridi e al possibile coordinamento tra le stesse, si vedano la preziosa analisi svolta da Assonime nelle sue Circolari n. 21/2016 “D.L.vo n. 128 del 2015 sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente: la disciplina sull’abuso del diritto”, paragrafo 1.2, 23 e n. 19/2018 Fiscalità internazionale: le nuove linee di intervento OCSE, USA e UE a confronto, al paragrafo 2.4.2, nonché il contributo di M. Greggi, Coordinamento fiscale e doppie deduzioni internazionali nel quadro dell’iniziativa BEPS, in Rivista di diritto tributario internazionale, n. 3, 2013, 73.


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origine da un disallineamento di norme giuridiche presso ordinamenti diversi che, singolarmente individuati, legittimano l’operazione, senza che la ratio di nessuna disposizione possa considerarsi effettivamente violata o aggirata, fa sì che tali strategie di aggressive tax planning abbiano carattere geneticamente “non abusivo” dal punto di vista dei singoli ordinamenti coinvolti, rendendo inapplicabili le clausole generali anti-abuso ivi previste. Il carattere abusivo è dunque apprezzabile solo visionando unitariamente tali fenomeni e i vantaggi fiscali da questi conseguiti: tuttavia, parimenti impervia è risultata l’applicazione sia della nozione unionale di abuso del diritto elaborata dalla CGUE (12), in assenza di circostanze oggettive che consentano di evidenziare il mancato rispetto delle finalità delle disposizioni di diritto euro-unitario, che delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, considerate le difficoltà di eliminazione delle asimmetrie interpretative che connotano i diversi ordinamenti (13). Alcuni Paesi hanno individualmente sperimentato disposizioni volte a contrastare in modo specifico (si parla, specularmente a quanto sopra, di c.d. SAAR – Specific Anti-Avoidance Rules) i benefici derivanti da alcune tipologie di strutture ibride (14); ciononostante, la presenza di numerose asimmetrie tra

(12) Nel cui merito, tra l’altro, si è recentemente pronunciata la CGUE con le note sentenze “danesi” (sentenza T-Denmark) pubblicate in data 26 febbraio 2019 (cause riunite C-116/16 e C- 117/16 e cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16, C-299/16) in cui la stessa ha tracciato un solco di parziale discontinuità rispetto ai suoi precedenti orientamenti con particolare riferimento al tema della “dignità fiscale” delle società holding c.d. “statiche”. Per un’analisi delle citate sentenze si confronti, ex multis, L. De Broe e S. Gommers, Danish Dynamite: The 26 February 2019 CJEU Judgments in the Danish Beneficial Ownership Cases, in EC Tax Review, 28, n. 6 (2019), p. 270-299. Per una disamina invece del rapporto tra clausola generale anti-abuso domestica e concetto di abuso del diritto di matrice euro-unitaria, si confronti tra gli altri L. De Broe e D. Beckers, The General Anti-Abuse Rule of the Anti-Tax Avoidance Directive: An Analysis Against the Wider Perspective of the European Court of Justice’s Case Law on Abuse of EU Law, in EC Tax Review, 26, n. 3, 2017, 133-144. (13) M. Greggi, supra nota n. 11, paragrafo 4. (14) Tra questi Paesi figura anche l’Italia che ha adottato, tra le altre, una disposizione volta a negare l’esenzione al 95% nel caso in cui gli utili di fonte estera siano trattati come oneri deducibili nello Stato della fonte (si veda l’art. 89, comma 3 e art. 44, comma 2, del TUIR), una disposizione volta a contrastare, a certe condizioni, il riconoscimento di crediti per imposte pagate all’estero in presenza di contratti di “repo”, prestiti di titoli o di altre operazioni generatrici di effetti simili (si veda l’art. 2, comma 3 del D.Lgs. n. 461/1997, così come modificato dall’art. 7-quater, comma 4 del D.L. n. 5/2009, convertito con modificazioni dalla Legge n. 33/2009), una norma di coordinamento per i soggetti IAS-adopter riguardante i criteri di qualificazione fiscale degli strumenti finanziari assimilati ad azioni o obbligazioni (si confronti l’art. 5 del D.M. 8 giugno 2011), e via dicendo. Analogamente, altri Stati come Austria, Danimarca,


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le stesse, sommata all’inerzia della maggioranza degli altri Paesi (15), ha reso evidente ed imprescindibile un intervento coordinato su scala internazionale da parte dei diversi Stati (16). A tale esigenza ha dapprima risposto l’OCSE che, nell’ambito dell’Action 2 del progetto BEPS avviato all’inizio di questo decennio, ha predisposto una serie di precise raccomandazioni in tema di disallineamenti da ibridi, raccolte nel conclusivo Final Report del 2015 (17), successivamente integrato nel 2017 con riferimento ai disallineamenti scaturenti da stabili organizzazioni (18). Tali raccomandazioni, nonostante si risolvano in misure di soft legislation, sono state prontamente recepite e adottate da numerosi Paesi e, in particolare, dall’Unione Europea che ha individuato nella Direttiva lo strumento per l’elaborazione di una soluzione armonizzata e vincolante per gli Stati membri, in grado di rispondere all’esigenza di fornire uno strumento di contrasto efficace nell’ambito di un mercato, basato sui principi di libera circolazione di persone, capitali, merci e servizi e della libertà di stabilimento, ma allo stesso tempo caratterizzato dalla presenza di sistemi fiscali divergenti (19). In questo contesto, la Direttiva (UE) 2016/1164 (ATAD 1) (20) e, soprattutto, la successiva

Germania, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti hanno introdotto disposizioni che negano specificamente i benefici derivanti da alcune tipologie di strutture ibride, così come descritto dal rapporto pubblicato dall’OCSE: OECD (2012), supra nota n. 7. (15) Con riferimento alle risposte del legislatore nazionale italiano, si confronti F. Amatucci, L’adeguamento dell’ordinamento tributario nazionale alle linee guida del­l’OCSE e UE in materia di lotta alla pianificazione fiscale aggressiva, in Rivista Trimestrale di Diritto Tributario, 4, 2015, 3 ss. (16) Per un’analisi delle principali criticità generalmente riconducibili ai disallineamenti da ibridi si veda anche P. Valente, Erosione della base imponibile mediante gli strumenti ibridi: criticità secondo l’OCSE, in Rivista di Diritto Tributario Internazionale, 2, 2014, 169. (17) OECD (2015), “Neutralising the Effects of Hybrid Mismatch Arrangements, Action 2 - 2015 Final Report”, OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, OECD, Paris (http://dx.doi.org/10.1787/9789264241138-en). (18) OECD (2017), “Neutralising the Effects of Branch Mismatch Arrangements, Action 2: Inclusive Framework on BEPS”, OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, OECD, Paris (http://dx.doi.org/10.1787/9789264278790-en). (19) I diversi Paesi membri adottano sistemi impositivi che, nonostante alcuni tentativi di convergenza ed armonizzazione, presentano differenze sostanziali che non si limitano a disallineamenti nelle aliquote di tassazione nominale, ma riguardano aspetti cruciali dell’imposizione. Sulle ragioni sottostanti alle divergenze nei diversi sistemi impositivi, si confronti D.M. Ring, supra nota n. 8, 88-89. (20) Per un’analisi comparativa delle modalità con cui la Direttiva ATAD 1 è stata recepita dai diversi Stati membri, si veda D. Gutmann, A. Perdelwitz, E. Raingeard de la Blétière, R.H.M.J. Offermanns, M. Schellekens, G. Gallo, A. Grant Hap, M. van


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Direttiva (UE) 2017/952 (ATAD 2) hanno recepito le linee guida dell’OCSE in materia di contrasto ai c.d. disallineamenti ibridi (21), con alcune differenze nella definizione del perimetro applicativo laddove gli approcci elaborati in ambito BEPS non fossero conformi con i principi fondamentali dell’Unione Europea. L’Italia come Stato membro ne ha dato attuazione con il Decreto Legislativo n. 142 del 29 novembre 2018, in cui al Capo IV vengono ricalcati in modo sostanzialmente coincidente le definizioni e i presidi contenuti nella disciplina di contrasto ai disallineamenti da ibridi elaborata nelle ATAD dal legislatore europeo. L’influenza “europea” e, in special modo, dei lavori del BEPS è uno degli elementi caratterizzanti la novella disciplina anti-ibridi domestica (22): ciò si evince non solo dall’evidente rapporto di discendenza tra le raccomandazioni BEPS e le regole di reazione ai disallineamenti da ibridi, ma soprattutto dall’importanza attribuita a tali report dalla stessa Relazione illustrativa al decreto, quando ne sancisce la “piena rilevanza in relazione all’interpretazione delle disposizioni del presente decreto”, nella misura in cui essi siano coerenti con le disposizioni delle direttive ATAD (e, quindi, del Decreto) (23). Il presente contributo ha lo scopo di fornire un breve inquadramento della nuova disciplina domestica di contrasto ai disallineamenti da ibridi, andando ad indagare, sulla scorta di alcuni esempi proposti nelle relazioni del BEPS Action 2, le diverse fattispecie ibride aventi per oggetto strumenti finanziari che la stessa si propone di ostacolare. Lo svolgimento di tale indagine sarà

Doorn-Olejnicka, The Impact of the ATAD on Domestic Systems: A Comparative Survey, in European Taxation, 57, 1, 2017. (21) G. Degani, F. Lucini, Verso un sistema fiscale equo: gli Hybrid Financial Instruments Mismatches nelle iniziative del Progetto BEPS e delle Direttive ATAD I e ATAD II, in Diritto e pratica tributaria internazionale, Padova, 3, 2018. (22) G.F. Patti, ATAD II – Overview and open issues – part I, in Diritto e pratica tributaria internazionale, 2, 2019, 361 ss.; F. Bontempo, Lo schema di recepimento di ATAD: le norme di contrasto ai disallineamenti da ibridi, in Corriere Tributario, 38, 2018, 2887. (23) Si vedano l’ottavo e il nono paragrafo del Capo IV (Disposizioni in materia di disallineamenti da ibridi) della Relazione Illustrativa al Decreto Legislativo n. 142 del 29 novembre 2018 e il Considerando n. 28 della Direttiva (UE) 2017/952 (ATAD 2). Sulle difficoltà che tale richiamo ha comportato e comporterà per gli Stati membri e per gli interpreti nell’implementazione e nell’applicazione della Direttiva, si veda anche G.K. (Gijs) Fibbe e A.J.A. (Ton) Stevens, Hybrid Mismatches Under the ATAD I and II, in EC Tax Review, 3, 2017, 159 e G.K. (Gijs) Fibbe, Hybrid Mismatch Rules under ATAD I & II, in P. Pistone, D. Webber, Hybrid Mismatch Rules under ATAD I & II in the Implementation of Anti-BEPS rules in the EU: A Comprehensive Study, in IBFD, 2018, capitolo 18.


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altresì l’occasione per valutare se e in che modo la reportistica del progetto BEPS possa fornire indicazioni aggiuntive e rilevanti ai fini dell’interpretazione delle disposizioni domestiche. 2. Una platea limitata di soggetti destinatari. – Non tutte le ipotesi “ibride” a cui si è fatto riferimento pocanzi rientrano nel campo di applicazione della nuova disciplina anti-hybrid del Decreto. Ai fini dell’attivazione dei suoi strumenti di contrasto è infatti necessario che vengano soddisfatti innanzitutto i requisiti soggettivi per la sua applicazione. Si tratta di limitazioni che non interessano la natura giuridica dei soggetti che sono tenuti, al ricorrere dei presupposti rilevanti, a neutralizzare il disallineamento attraverso l’applicazione delle disposizioni anti-ibride: la normativa, in linea con le esistenti disposizioni antiabuso dell’ordinamento tributario italiano, annovera infatti tutti i soggetti passivi delle imposte sui redditi relative ai redditi d’impresa, comprese dunque anche le persone fisiche che esercitano un’attività d’impresa e le stabili organizzazioni in Italia di soggetti non residenti (24). Il campo di applicazione risulta invece particolarmente limitato con riferimento alla relazione che intercorre tra i soggetti coinvolti nella fattispecie ibrida: si è in presenza di disallineamenti colpiti dalla normativa in esame solamente se la fattispecie ibrida che li genera viene posta in essere con una “impresa associata”, con una sua stabile organizzazione o sede centrale, ovvero sia riconducibile ad un “accordo strutturato” (25).

(24) Si confronti l’art. 6, comma l, lettera t), del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018 che detta la definizione di “soggetto passivo”. Così come sottolineato nella Relazione al Decreto, l’inclusione nel novero dei soggetti destinatari delle disposizioni anti-hybrid delle “persone fisiche” costituisce un ampliamento rispetto all’ambito di applicazione previsto nelle Direttive ATAD, motivato dalla volontà di allineare la nuova normativa alle esistenti disposizioni antiabuso dell’ordinamento tributario italiano che si applicano, appunto, nei confronti di tutti i titolari di reddito d’impresa (si pensi alla clausola antiabuso generale di cui all’articolo 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente e alle disposizioni sulle CFC). Da altro punto di vista, è stato altresì correttamente evidenziato che la limitazione di tale ampliamento ai soggetti che producono solamente reddito d’impresa è motivata dalla volontà di fornire uno strumento destinato specificamente al contrasto delle strategie di pianificazione fiscale aggressiva messe in atto dalle imprese multinazionali [si confronti F. Leone, Gli Strumenti finanziari ibridi nel Decreto ATAD, in Strumenti Finanziari e Fiscalità (SFEF), 44, 2019, 60; D. Liburdi e L. Nobile, Contrasto al disallineamento da ibridi: eliminazione dei benefici fiscali indebiti nei gruppi ed effetti sui soggetti terzi, in Il fisco, n. 46 2018, 4451). (25) Si confronti l’art. 6, comma 2, lett. c) del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018.


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Per quanto concerne il concetto di “impresa associata” (26), il legislatore fa riferimento a tutti i soggetti che appartengono al medesimo gruppo, proponendo una nozione di controllo piuttosto vasta che include e supera quella contenuta all’articolo 2359, comma 1, del codice civile: assume, infatti, rilevanza ai fini della sussistenza del requisito del controllo il possesso, diretto, indiretto, o in concerto con altri soggetti, di un’interessenza partecipativa pari o superiore al 50 per cento in termini di diritto di voto, di partecipazione al capitale e di diritto alla percezione degli utili, ovvero di una partecipazione che consenta l’esercizio di un’influenza dominante o che faccia rientrare tale soggetto all’interno del medesimo perimetro di consolidamento ai fini della informativa finanziaria. La vastità della nozione di gruppo e di “impresa associata” è chiaramente da ricondurre alla volontà del legislatore e dell’OCSE di prevenire ogni possibilità di aggiramento del perimetro soggettivo della normativa anti ibridi (27); tale perimetro viene ulteriormente allargato con specifico riferimento alle fattispecie di disallineamenti ibridi che si trovano potenzialmente esposte a maggior rischio di manipolazione e che, come si vedrà, formano oggetto di analisi nel presente lavoro: invero, la summenzionata soglia di partecipazione del 50 per cento è ridotta al 25 per cento con riferimento ai disallineamenti ibridi scaturenti da strumenti finanziari o da “trasferimenti ibridi” (28). Rientrano inoltre nel campo di applicazione della norma anche le fattispecie ibride intercorse tra soggetti terzi non facenti parte del medesimo gruppo, purché questi abbiano consapevolmente posto in essere il disallineamento al fine di ottenere un beneficio fiscale (c.d. “accordo strutturato”): l’elemento soggettivo della consapevolezza dovrà quindi essere specificamente dimostrato da parte dell’A.F. e si presumerà in ogni caso verificato qualora il soggetto terzo abbia ottenuto un beneficio dall’arbitraggio fiscale, anche attraverso il

(26) La definizione di “impresa associata” viene fornita dal legislatore all’art. 6, comma 1, lett. u) del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018, integrato con alcune precisazioni all’art. 6, commi 3, 4 e 5. (27) Si veda conformemente L. Parada, Hybrid Entity Mismatches and the International Trend of Matching Tax Outcomes: A Critical Approach, in Intertax, Volume 46, Issue 12, Kluwer Law International, 2018, 983. (28) Ai sensi dell’art. 6, comma 4, del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018, con specifico riferimento ai disallineamenti da ibridi derivanti da strumenti finanziari o da “trasferimenti ibridi” di cui al comma 1, lett. r), numero 1) del medesimo articolo 6, la percentuale rilevante ai fini della verifica della sussistenza del requisito controllo è diminuita dal 50% al 25%.


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riconoscimento implicito di tale beneficio nel prezzo convenuto con la terza parte (29). Il novero dei soggetti destinatari delle disposizioni anti-hybrid viene inoltre ulteriormente delimitato sotto il profilo della territorialità del soggetto con cui il disallineamento ibrido viene posto in essere: si deve trattare, infatti, di un disallineamento ibrido verificatosi in ambito transnazionale, derivato dall’interazione con un’impresa associata o con un soggetto terzo “consapevole” che sia residente o localizzato in uno Stato estero. Gli eventuali disallineamenti da ibridi domestici potranno invece essere eventualmente contrastati attraverso la norma generale antiabuso contenuta nello Statuto dei diritti del contribuente. 3. I disallineamenti oggetto di contrasto. – L’ambito applicativo della disciplina presenta un’ulteriore delimitazione, questa volta sotto il profilo oggettivo, considerato che non tutte le operazioni transnazionali generatrici degli effetti tipicamente attribuiti ai disallineamenti da ibridi vengono contrastate dalla normativa in esame. Gli effetti fiscali generalmente riconducibili ai disallineamenti ibridi sono definiti nell’ambito della stessa disciplina, secondo cui questi possono consistere in una “doppia deduzione” (c.d. “D/D”) o in una “deduzione senza inclusione” (c.d. “D/NI”): nel primo caso, lo stesso componente reddituale determina una deduzione in due diverse giurisdizioni, mentre nel secondo caso il medesimo reddito comporta una deduzione in una giurisdizione senza che si verifichi la corrispondente inclusione ai fini del computo della base imponibile del soggetto che beneficia di quel compenso nell’altra giurisdizione (30). Questi disallineamenti fiscali, per essere contrastati dalla novella disciplina anti-hybrid, devono necessariamente derivare da una delle fattispecie “ibride” definite all’art. 6, comma 1, lett. r) del Decreto: si deve trattare dunque di un’asimmetria originatasi dalla diversa qualificazione fiscale di uno “strumen-

(29) Si confronti l’art. 6, comma 1, lett. q) del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018. Si veda conformemente anche G. Degani, La disciplina nazionale di contrasto ai disallineamenti da ibridi: tra il recepimento delle Direttive eurounitarie e dei risultati dei progetti BEPS, in Strumenti Finanziari e Fiscalità (SFEF), 40, 2019, 24, ove viene affermato che in caso di structured arrangement tra soggetti terzi è necessario che “il terzo abbia beneficato del vantaggio fiscale”. Sulla vaghezza e sulle difficoltà probatorie del concetto di “accordo strutturato” si veda R. de Boer and O. Marres, BEPS Action 2: Neutralizing the Effects on Hybrid Mismatch Arrangements, in 43 Intertax, 1, 40, 2015. (30) Si confronti l’art. 6, comma 1, lett. a)-e) del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018.


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to finanziario ibrido”, di un c.d. “trasferimento ibrido”, di una “entità ibrida”, di una c.d. “entità ibrida inversa”, di una stabile organizzazione, di una stabile organizzazione “disconosciuta”, di una entità c.d. “dual resident” ovvero da un disallineamento c.d. “importato”. Inoltre, differentemente da quanto previsto nell’ambito dell’Action 2 del progetto BEPS, ai fini dell’attivazione degli strumenti di contrasto, queste fattispecie ibride devono avere effettivamente prodotto gli effetti fiscali di cui sopra (D/D ovvero D/NI), a nulla rilevando la circostanza che tali effetti si prospettino meramente come potenziali. Nel prosieguo la trattazione del presente contributo si limiterà, come anticipato in premessa, alla presentazione e all’esame solamente delle prime due fattispecie ibride di disallineamento previste dalla normativa aventi per oggetto strumenti finanziari (31). Restano inoltre espressamente esclusi dal campo di applicazione della norma i disallineamenti che non derivano da una costruzione ibrida ma che sono stati generati dalla fruizione di appositi regimi fiscali di favore accordati da una giurisdizione, come una particolare esenzione o un regime speciale quale l’ACE, ovvero che si sono prodotti per effetto di una differente valorizzazione ai fini fiscali del medesimo componente di reddito, anche a seguito dell’applicazione delle regole dei prezzi di trasferimento. Inoltre, le misure di contrasto non trovano applicazione laddove il beneficio fiscale non emerga a livello aggregato, in presenza di un componente di reddito incluso a norma delle leggi di entrambe le giurisdizioni in cui si è verificato il disallineamento (c.d. “reddito a doppia inclusione”) in misura complessivamente pari o superiore alla deduzione rilevante (32); nel caso in

(31) Con riferimento alle altre fattispecie di disallineamento da ibridi si segnalano, ex multis, i seguenti contributi: G. F. Patti, supra nota n. 22, 386 ss.; G.K. (Gijs) Fibbe, supra nota n. 23; F. Antonacchio, L’impatto della disciplina di contrasto ai disallineamenti da ibridi nei rapporti con le partnership estere, in Il Fisco, 37, 2019, 3551; L. Rossi e S. Massarotto, La Direttiva ATAD e le disposizioni anti hybrid-mismatches – Le possibili ripercussioni sulla disciplina dei fondi di investimento alternativi, in Bollettino Tributario, n. 4, 2019, 249; L. Parada, Hybrid Entity Mismatches: Exploring Three Alternatives for Coordination, Intertax, 47, 1, 2019, 24; G. Corradi, Gli hybrid mismatches: disallineamenti da ibridi, tipologie di disallineamento, norme anti-ibrido, linking rules, in Fiscalità & Commercio Internazionale, 11, 2019, 29; M. Piazza e A. Trainotti, Disallineamenti da ibridi: una normativa da mettere alla prova, in Norme & Tributi Mese, 4, 2019, 31; M. Piazza, Le entità ibride nel decreto ATAD, in Strumenti Finanziari e Fiscalità (SFEF), 41, 2019, 67. (32) Si confronti l’art. 6, comma 2, lett. b) del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018. Si precisa e sottolinea che tale particolare esenzione si applica, al ricorrere dei presupposti, limitatamente alle fattispecie di c.d. “doppia deduzione” (D/D) di cui all’art. 6, comma 1, lett.


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cui tale reddito sia invece di misura inferiore rispetto alla deduzione rilevante, la differenza dovrà essere eliminata per mezzo delle regole di reazione applicabili. Allo stesso modo, i disallineamenti meramente temporanei, che verranno annullati in un arco temporale comprendente più periodi d’imposta (c.d. timing differences), non saranno oggetto di contrasto della disciplina in esame. Tuttavia, con specifico riferimento alle situazioni di deduzione senza inclusione (D/NI) scaturenti da strumenti finanziari (i.e. “strumenti finanziari ibridi” e “trasferimenti ibridi”), viene individuata una soglia temporale entro il quale assoggettare a tassazione il componente positivo di reddito “non incluso”, fatta salva la possibilità di ottenere l’annullamento della disposizione di contrasto a seguito della dimostrazione della sua successiva inclusione (si veda il successivo paragrafo 4.2) (33). Infine, non rientra nel campo di applicazione della normativa del Decreto il disallineamento da ibridi che sia già stato specificamente neutralizzato per mezzo di altre norme dell’ordinamento italiano o della giurisdizione estera coinvolta nella transazione.

r) numero 8) e a due particolari situazioni di “deduzione senza inclusione” (D/NI): si tratta dei casi di c.d. “disregarded payments made by a hybrid payer” (dove un componente negativo di reddito sostenuto ovvero che si ritiene sia sostenuto da parte di un’entità ibrida genera una deduzione senza inclusione e tale disallineamento origina dal fatto che il corrispondente componente positivo di reddito non è riconosciuto come tale in base alle leggi della giurisdizione del beneficiario.) di cui all’art. 6, comma 1, lett. r) numero 6) e di c.d. “deemed branch payment” (dove un componente negativo di reddito, relativo ad una operazione che si ritiene sia intervenuta tra la sede centrale e la stabile organizzazione ovvero tra due o più stabili organizzazioni, genera una deduzione senza inclusione e tale disallineamento origina dal fatto che il corrispondente componente positivo di reddito non è riconosciuto come tale in base alle leggi della giurisdizione del beneficiario) di cui all’art. 6, comma 1, lett. r) numero 7). (33) Sul punto si possono richiamare alcune norme esistenti già da tempo nel sistema fiscale U.S. per contrastare questi effetti di timing. Ad esempio, il dispositivo contenuto nel Code of Federal Regulation (CFR), Regular Section 1904-6(a)(1)(iv) – c.d. “timing difference rule” – prevede che qualora, sulla base della normativa di un Paese straniero o di territori non incorporati degli U.S., un’imposta venga irrogata per un componente reddituale che costituisce reddito imponibile in base ai principi dell’imposta federale sul reddito ma non venga rilevata ai fini della stessa nel periodo d’imposta corrente, tale imposta deve essere allocata e ripartita nell’opportuna categoria (o categorie) reddituale in cui sarebbe stata allocata e ripartita nell’ipotesi in cui tale reddito fosse stato riconosciuto ai fini dell’imposta federale sul reddito nel periodo di imposta in cui ne è prevista la tassazione.


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4. I disallineamenti da “strumenti finanziari ibridi”. – Nella presente sezione verrà analizzata nel dettaglio la fattispecie di deduzione senza inclusione (D/NI) generata da uno “strumento finanziario ibrido”, ponendo particolare attenzione alle specificità del suo perimetro di applicazione e delle disposizioni di contrasto previste dalla normativa domestica anti-ibridi (34). Le regole ivi descritte e i principi che regolano i dispositivi di contrasto ai disallineamenti che emergono da uno “strumento finanziario ibrido” assumono rilevanza anche con riferimento alla fattispecie di disallineamento emergenti da un c.d. “trasferimento ibrido”, che formerà oggetto di specifica trattazione nel capitolo successivo. Inoltre, si farà riferimento ad alcuni degli esempi proposti nell’ampia casistica offerta nelle relazioni del BEPS Action 2 allo scopo di calare le suddette disposizioni nella concretezza del contesto giuridico italiano e di valutare la rilevanza delle indicazioni fornite dall’OCSE ai fini dell’interpretazione delle disposizioni domestiche. 4.1. Il perimetro di applicazione. – Al fine di tracciare in modo compiuto il perimetro di applicazione della prima fattispecie “ibrida” prevista dal Decreto (35), occorre innanzitutto far riferimento alla definizione ivi contenuta di “strumento finanziario”. Si tratta di una definizione particolarmente ampia e generica che guarda unicamente alla natura degli effetti fiscali generati nelle giurisdizioni coinvolte (36): invero, ai fini della disciplina anti-ibridi, sono da considerarsi “strumenti finanziari” tutti gli strumenti da cui derivano componenti positivi di reddito riconosciuti fiscalmente come proventi da investimenti in capitale di rischio, di debito o in strumenti derivati, in conformità alle legislazioni domestiche di almeno uno dei due Paesi coinvolti (37). Viene dunque rimessa alla disciplina fiscale nazionale la determinazione della linea di confine tra uno strumento finanziario ed altre tipologie di accor-

(34) Per un’analisi approfondita della capacità della disciplina contenuta nell’ATAD 2 di contrastare fattispecie ibride con Paesi terzi all’UE originate da strumenti finanziari ibridi, si veda R. Tomazela Santos, European Union – The Anti-Tax Avoidance Directive 2 and Hybrid Financial Instruments: Countering Deduction and Non-Inclusion Schemes in Third-Country Situations, in Bulletin for International Taxation, 72, 8, 2018. (35) Si confronti l’art. 6, comma 1, lett. r), paragrafo 1 e 2 del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018. (36) Sull’ampiezza della definizione fornita dal D.lgs. n. 142/2018 si veda anche F. Leone, supra nota n. 24, 62. (37) Si confronti l’art. 6, comma 1, lett. l) del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018.


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di, vista l’impossibilità di giungere ad una definizione comune e ad un trattamento fiscale armonizzato tra tutti i Paesi coinvolti. Di conseguenza, non rientra nel perimetro di applicazione della normativa il disallineamento originatosi da componenti di reddito che, in base alle normative tributarie dei rispettivi Paesi, non sono inquadrabili come rendimenti derivanti da investimenti in strumenti finanziari. Dovrebbero inoltre restare escluse dalla definizione di strumenti finanziari le partecipazioni nel capitale di rischio di c.d. “entità ibride”, considerato che tali disallineamenti formano oggetto di una diversa fattispecie ibrida prevista dalla normativa (38). Una volta accertata la natura del componente reddituale da cui si origina il disallineamento fiscale, l’effettivo conseguimento di tale effetto fiscale e la sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi della normativa anti-ibridi, di fondamentale importanza è andare ad indagare la causa scatenante di tale disallineamento. Infatti, non tutte le ipotesi in cui si presenta uno strumento finanziario che genera l’effetto fiscale di una D/NI sono oggetto di contrasto della presente disciplina: il perimetro applicativo è confinato solamente a quelle situazioni in cui tale disallineamento è imputabile alla natura ibrida dello strumento finanziario, ossia ad asimmetrie scaturenti da differenze nella caratterizzazione fiscale dello stesso o dei relativi componenti reddituali. Pertanto, come si è già avuto modo di osservare in precedenza, esula dal campo di applicazione della norma il disallineamento derivato da un particolare “sgravio fiscale” (39) concesso dalla normativa ovvero dall’amministrazione finanziaria competente (anche attraverso c.d. ruling) esclusivamente in ragione dello status fiscale del possessore dello strumento finanziario o del fatto che lo strumento sia soggetto ai termini di un regime fiscale speciale. Si pensi, ad esempio, all’interesse passivo deducibile nella giurisdizione del debitore che, nello Stato del creditore, beneficia di una particolare esenzione soggettiva: nonostante questo sgravio fiscale consenta al portatore del titolo di non assoggettare ad imposizione gli interessi maturati e di realizzare, a livello aggregato, un effetto fiscale di deduzione senza corrispondente inclusione (D/

(38) In particolare, dovrebbero rientrare nel novero dei disallineamenti di cui all’art. 6, comma 1, lett. r), punto 3), del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018. (39) Per “sgravio fiscale” (in lingua inglese “tax relief”) si deve intendere, così come definito dall’art. 6, comma 1, lett. f) del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018: “l’esenzione totale o parziale dall’imposizione, l’esclusione dal concorso alla formazione della base imponibile, la riduzione dell’aliquota d’imposta applicabile ovvero un qualsiasi credito o rimborso di imposta, diverso da un credito per ritenute alla fonte”.


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NI), il disallineamento in questione non sarebbe oggetto di contrasto della disciplina anti-ibridi (40). Tuttavia, qualora tale “sgravio fiscale” fosse stato accordato in conseguenza di un’asimmetrica qualificazione dello stesso strumento finanziario – in base alla quale, per esempio, viene riconosciuto alla stregua di un titolo di capitale dalla normativa dello Stato del beneficiario – vi sarebbero chiaramente i presupposti per attivare le reazioni anti-ibridi (41). L’obiettivo della disciplina anti-ibridi è l’eliminazione di tutte le situazioni di erosione della base imponibile (DD o D/NI) che emergono esclusivamente per effetto dello sfruttamento di asimmetrie nella caratterizzazione fiscale di un fenomeno tra due ordinamenti: tutte le altre fattispecie di DD o D/NI che sono connesse a fenomeni diversi, come ad esempio all’utilizzo di regimi fiscali speciali o a particolari benefici accordati in una prospettiva di competizione fiscale, non formano oggetto di interesse della normativa antiibridi e, pertanto, non determinano l’attivazione delle relative disposizioni di contrasto (42). Restano inoltre fuori dal perimetro di applicazione della norma anche tutti i disallineamenti fiscali che sono stati originati da processi di mera valorizzazione dello stesso componente di reddito, quali ad esempio quelli riferibili a differenze nei tassi di cambio con i quali sono state registrate le operazioni (43), ovvero emersi per effetto dell’applicazione di diversi criteri di valorizzazione previsti dagli standard contabili o dalle normative fiscali di riferimento. Rientrano invece nell’ambito di applicazione oggettivo della norma tutti i disallineamenti generati da un asimmetrico trattamento fiscale dei componenti reddituali sottostanti agli strumenti finanziari, non imputabile ad un particolare regime fiscale di favore o all’asimmetrica valorizzazione del medesimo componente di reddito, bensì alla difforme caratterizzazione fiscale operata dalla normativa domestica “ordinaria” delle giurisdizioni coinvolte (44). A

(40) Si confronti, esempi n. 1.5, 1.8 e 1.9 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17. (41) Si confronti l’art. 6, comma 1, lett. e), secondo periodo del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018. (42) Qualora tali effetti fiscali emergessero in ragione di regimi agevolativi “harmful”, questi saranno contrastati con strumenti diversi individuati in altre azioni del progetto BEPS (Si confronti, Assonime, Circolare n. 19/2018 Fiscalità internazionale: le nuove linee di intervento OCSE, USA e UE a confronto, 32). (43) Si confronti l’esempio 1.17 di cui OECD (2015), supra nota n. 17. (44) È il caso, ad esempio, di un dividendo, considerato deducibile nello Stato del pagatore, che beneficia dell’esenzione (totale o parziale) ordinariamente accordata a tale tipologia


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questo scopo, come evidenziato dall’OCSE nell’ambito dell’Action 2 del progetto BEPS, assumono rilevanza non solo i disallineamenti originatisi con riferimento ai componenti reddituali relativi a dividendi ed interessi, ma anche quelli generati dai pagamenti sostenuti per l’estinzione anticipata o per la modifica dei termini di un titolo di debito (45). Tuttavia, questa indagine non si dovrà limitare solamente alla verifica dei presupposti soggettivi, oggettivi e della causa scatenante del disallineamento da “strumento finanziario ibrido”, ma dovrà altresì svolgere un’analisi comparata di quello che sarebbe stato il relativo trattamento fiscale nell’ipotesi in cui non si fosse verificata alcuna asimmetria nella sua caratterizzazione fiscale: come opportunamente sottolineato dall’OCSE, se l’effetto fiscale di D/NI si sarebbe verificato anche in assenza della summenzionata asimmetria, poiché, ad esempio, lo Stato del beneficiario riconosce la medesima esenzione ai componenti positivi derivanti da tutte le tipologia di strumenti finanziari (indipendentemente dalla loro appartenenza alla categoria di titoli debt o di equity), la normativa anti-ibridi non dovrebbe trovare applicazione; qualora invece la percentuale di esenzione riconosciuta fosse superiore rispetto a quel-

di redditi nello Stato del beneficiario: in questo caso, la norma anti-ibridi potrà o meno attivarsi a seconda che la deducibilità nel primo Stato sia riconosciuta in base alla normativa domestica “ordinaria” ovvero in base ad un particolare regime speciale. Si veda, a questo scopo, l’esempio n. 1.10 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17, in cui viene trattato il caso di un dividendo pagato da uno special purpose vehicle (nella fattispecie un Real Estate Investment Trust) che, a norma delle leggi del Paese in cui risiede, beneficia di uno status fiscale speciale, tale per cui può beneficiare di una variazione in diminuzione per i dividendi pagati ai suoi investitori. In tal caso, il dividendo deducibile non dà origine ad un disallineamento da ibridi in quanto la deduzione è da ricondurre unicamente allo status speciale del soggetto pagatore; tuttavia, così come sottolineato dall’OCSE nei commenti all’esempio, occorre sempre verificare quale sarebbe stato il trattamento fiscale accordato ad un contribuente di status “ordinario” da parte della sua normativa fiscale interna: qualora da tale analisi comparativa emergesse che il disallineamento non era unicamente imputabile allo status del soggetto pagatore, tale fattispecie dovrebbe rientrare nell’ambito di applicazione della normativa antiibridi. In ogni caso, giova segnalare che, così come espresso nella raccomandazione 2.1 dell’OCSE OECD (2015), supra nota n. 17, lo Stato del beneficiario dovrebbe altresì adottare una normativa domestica che vincoli il beneficio dell’esenzione in relazione ai soli dividendi che non abbiano generato una deduzione nello Stato del pagatore, in linea con la disposizione già da tempo adottata dallo Stato italiano all’art. 89, comma 3 e all’art. 44, comma 2, del TUIR. Sulle criticità connesse all’applicazione di quest’ultima norma si confronti R. Michelutti e C. Silvani, Modifiche alla Direttiva Madre Figlia e BEPS: un’occasione per ripensare il regime degli strumenti ibridi, in Corriere Tributario, 11, 2016, 857. (45) Si vedano gli esempi 1.18 e 1.19 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17.


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la generalmente accordata ai componenti di reddito derivanti da altre tipologie di strumenti finanziari, le norme di reazione anti-ibridi si dovrebbero attivare andando ad eliminare il beneficio fiscale derivante da tale asimmetria (46). 4.2. Le disposizioni di contrasto e le c.d. timing differences. – Le reazioni antiibridi previste dalla normativa seguono le modalità di intervento elaborate nelle raccomandazioni dell’OCSE (47) e prevedono, innanzitutto, il disconoscimento della deduzione del componente negativo di reddito operata nello Stato del “pagatore”, salvo che il corrispondente componente positivo di reddito non sia stato incluso nella base imponibile nella giurisdizione del “beneficiario” (48). Nell’eventualità in cui questa risposta “primaria” non sia stata attivata dallo Stato del “pagatore”, lo Stato del “beneficiario” deve necessariamente procedere all’inclusione del corrispondente componente positivo di reddito al fine di cancellare l’effetto fiscale dello schema ibrido. Questo approccio basato su c.d. “linking rules” (49), secondo cui è prevista una risposta “secondaria” (o “difensiva”, così come chiamata dall’OCSE) destinata ad operare in via residuale laddove non abbia trovato applicazione la regola di reazione “primaria” nell’altra giurisdizione coinvolta, ha l’evidente funzione di garantire l’effettiva neutralizzazione dei disallineamenti da ibridi anche nei casi in cui gli Stati tra cui è posta in essere l’operazione non si siano dotati di una normativa anti-hybrids equivalente (50).

(46) Si confrontino le considerazioni svolte nell’esempio 1.3 di cui OECD (2015), supra nota n. 17. (47) Si confronti la raccomandazione n. 1 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17, 23. (48) L’articolo 7 del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018 individua il ruolo dello Stato italiano rispetto alle modalità di intervento previste dalla normativa in esame: in particolare, qualora la componente negativa di reddito sia deducibile ai fini della determinazione del reddito imponibile di un soggetto passivo italiano, lo Stato italiano viene identificato come lo Stato del “pagatore” (art. 7, comma 1); se, invece, la componente positiva di reddito viene attribuita a un soggetto passivo italiano in base alla giurisdizione del pagatore, lo Stato italiano è identificabile come lo Stato del “beneficiario” (art. 7, comma 3). (49) In merito all’efficacia di tale meccanismo di contrasto alle operazioni che sfruttano i disallineamenti da ibridi, si confrontino: B. Peeters e L. Vanneste, The Hybrid Financial Instruments: The Effects of the OECD BEPS Action 2 Report and the ATAD, in Intertax, 48, 2020, 31; L. Parada, supra nota n. 27, 981. (50) Per un’analisi completa delle modalità di intervento contro i disallineamenti da strumenti finanziari ibridi elaborate dall’OCSE e dall’EU, si veda F.D.M. Laguna, Hybrid Financial Instruments, Double Non-taxation and Linking Rules, in Series on International Taxation, 73, Kluwer Law International, 2019. Per un’illustrazione delle modalità di applicazione della disciplina di contrasto interna ai disallineamenti ibridi emergenti da “strumenti finanziari ibridi” si veda F. Leone, supra nota n. 24, 62.


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Si ricorda, inoltre, che con riferimento a questa specifica tipologia di disallineamenti, le summenzionate regole di reazione potrebbero attivarsi anche in presenza di disallineamenti da ibridi meramente temporanei: la “non inclusione”, infatti, si presume confermata se non eseguita entro la fine del periodo d’imposta successivo a quello in cui la corrispondente deduzione è stata operata (51), fatta in ogni caso salva la possibilità di recuperare il beneficio di tale deduzione qualora sia possibile dimostrare che le c.d. timing differences vengano effettivamente eliminate in un momento successivo (52). Questa particolare deroga al principio generale che prevede la disattivazione della normativa anti-hybrid con riferimento ai disallineamenti “temporanei” rappresenta una delle principali differenze tra l’approccio elaborato dall’OCSE (53) e quello adottato dal legislatore domestico (54). Anziché individuare in modo aprioristico ed arbitrario una soglia temporale fissa, l’OCSE privilegia infatti un criterio maggiormente flessibile, in base al quale le reazioni anti-ibridi trovano applicazione solo nella misura in cui non sia possibile sostenere che il disallineamento possa autonomamente annullarsi in un arco temporale “ragionevole”: in particolare, la “ragionevolezza” di tale lasso di tempo dovrà essere valutata secondo le informazioni disponibili e si considererà dimostrata se di volta in volta coerente con il periodo di tempo che ci si

(51) Più precisamente, la norma prevede che il corrispondente componente positivo di redito venga incluso dalla giurisdizione del beneficiario “in un periodo d’imposta che inizia entro 12 mesi dalla fine del periodo d’imposta del pagatore con riferimento al quale il componente negativo di reddito è stato dedotto” (si confronti l’art. 6, comma 1, lett. r), punto 1.1. del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018). Pertanto, in caso di periodo d’imposta di durata inferiore o superiore a 12 mesi per il soggetto beneficiario, il summenzionato limite (“la fine del periodo d’imposta successivo a quello in cui la corrispondente deduzione è stata operata”) deve essere coerentemente rimodulato. Sulle criticità scaturenti dall’applicazione di tale meccanismo si veda G.F. Patti, supra n. 22, 380-386. (52) Si confronti l’art. 8, comma 2, lett. c) del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018. (53) Si confronti la raccomandazione n. 1, paragrafo 1, lett. c) di cui al OECD (2015), supra nota n. 17. (54) Il legislatore europeo ha invece lasciato possibilità di scelta tra i due approcci agli Stati membri: si veda in particolare il Considerando n. 22 e l’art. 2, punto 9, lett. a) della Direttiva (UE) 2017/952 (ATAD 2). Il legislatore italiano, tra le opzioni proposte dalle Direttive ATAD, ha preferito l’approccio maggiormente restrittivo (di cui al punto i. del summenzionato articolo) che prevede l’attivazione delle regole di reazione qualora il componente positivo di reddito non venga “incluso dalla giurisdizione del beneficiario in un periodo d’imposta che inizia entro 12 mesi dalla fine del periodo d’imposta del pagatore con riferimento al quale il componente negativo di reddito è stato dedotto” (art. 6, comma 1, lett. r), punto 1.1. e art. 8, comma 2, lett. c) del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018).


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aspetterebbe in operazioni similari tra soggetti indipendenti, sulla base delle caratteristiche dello strumento finanziario, dei suoi termini contrattuali e di ogni altra circostanza rilevante per una valutazione at arm’s length. Per converso, la scelta del legislatore di apporre un limite temporale predefinito con riferimento ai disallineamenti emergenti da “strumenti finanziari ibridi” sarebbe da ricondurre, così come esplicitato nella Relazione Illustrativa al decreto, a finalità di natura meramente pratica-operativa, volta a garantire un controllo fiscale più efficace, ad evitare il complesso apprezzamento della “ragionevolezza” del periodo di inclusione e, infine, a contrastare ab origine il verificarsi di un fenomeno di disallineamento in una delle situazioni a più elevato rischio (55). In ragione di tale divergenza, si ritiene che le argomentazioni fornite nelle relazioni del BEPS Action 2 con riferimento al tema delle c.d. timing differences non dovrebbero assumere alcuna rilevanza ai fini dell’interpretazione delle disposizioni del decreto in esame, in deroga al summenzionato principio secondo cui le stesse debbano assumere “rilevanza centrale” nell’esegesi delle disposizioni anti-hybrids domestiche (56). Si pensi al caso, preso in esame dall’OCSE, dello zero coupon bond a medio-lungo termine che, sulla base di un asimmetrico trattamento contabile, produce un differimento temporale tra il momento della deduzione e quello dell’inclusione del corrispondente componente di reddito: invero, l’interesse passivo viene contabilizzato e rilevato fiscalmente nel Paese dell’emittente in base al metodo del costo ammortizzato, con l’emersione ogni anno della componente implicita di competenza e della relativa deduzione, senza che le corrispondenti rilevazioni vengano medio tempore effettuate dal soggetto beneficiario che, per converso, includerà tali componenti di reddito solo al momento della loro effettiva percezione (57). In questo contesto, le considerazioni fornite dall’OCSE in merito alla valutazione della “ragionevolezza” delle tempistiche dell’inclusione non assumono alcuna rilevanza, atteso che

(55) Cfr. il dodicesimo paragrafo della Relazione Illustrativa al D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018 e il considerando n. 22 della Direttiva (UE) 2017/952 (ATAD 2). (56) Si confronti quanto indicato nella precedente nota n. 23. (57) Si vedano gli esempi 1.21 e 1.22 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17. Più nel dettaglio, questi esempi prendono in esame il caso di zero coupon bond con scadenza a lungo termine che prevedono la possibilità di anticipare il pagamento degli interessi maturati a discrezione del portatore del titolo ovvero al ricorre di certi indicatori dello stato di insolvenza.


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la normativa anti-hybrid troverebbe automaticamente applicazione laddove il differimento temporale superasse i summenzionati limiti. Si osserva dunque come questa parziale deroga all’esenzione per le c.d. timing differences, se combinata con il principio di derivazione “rafforzata” dell’imponibile fiscale dal dato contabile che caratterizza il sistema fiscale del reddito d’impresa in Italia, inevitabilmente assurgerà l’asimmetria dei principi contabili di riferimento tra i diversi Stati ed operatori economici ad una delle principali cause di emersione dei disallineamenti da “strumenti finanziari ibridi” (58). Nel prosieguo verranno presi in esame due aspetti, attinenti alla disciplina di contrasto al disallineamento da “strumenti finanziari ibridi” e riguardanti rispettivamente la definizione del suo perimetro di applicazione e le modalità operative delle sue regole di reazione, che necessitano di alcuni chiarimenti. 4.3. Criticità attinenti al requisito del “pagamento”. – Una prima criticità investe i requisiti oggettivi della normativa in esame (59): in particolare, ai fini dell’attivazione delle regole di reazione anti-hybrids, l’OCSE richiede che il disallineamento da “strumenti finanziari ibridi” sia stato originato da un “pagamento” (60), ossia da un “qualsiasi importo suscettibile di essere pagato, tra cui i crediti, i debiti, le distribuzioni o gli accantonamenti di denaro, ad esclusione invece degli importi che si presumono pagati ai fini fiscali e che non implicano l’insorgere di diritti patrimoniali tra le parti” (61). Il requisito del “pagamento” fa dunque riferimento ad un concetto molto ampio, all’interno del quale rientrano non solo i disallineamenti derivanti da operazioni che comportano flussi monetari, ma anche le asimmetrie che scaturiscono in presenza di un futuro o potenziale obbligo di effettuare un pagamento. Ciononostante, sulla base di tale requisito, vengono espressamente esclusi dall’ambito di applicazio-

(58) Non sempre agevole è la distinzione tra il disallineamento ascrivibile ad un processo di mera valorizzazione e quello maturato in ragione di una diversa caratterizzazione contabile (e conseguentemente fiscale). Sotto questo profilo, meritano particolare attenzione, per i risvolti pratici a cui conducono, i casi del prestito obbligazionario con conversione obbligatoria e del prestito obbligazionario con conversione volontaria che sono stati oggetto di illustrazione e disamina da parte dell’OCSE negli esempi 1.15 e 1.16 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17. (59) Sul tema si veda anche G.F. Patti, supra nota n. 22, pp. 363-367. (60) Si confronti Raccomandazione n. 1.1., paragrafo 28 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17. (61) Si confronti Raccomandazione n. 12, definizione di “payment” di cui al OECD (2015), supra n. 17.


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ne della disciplina di matrice OCSE i disallineamenti da strumenti finanziari originati nell’ambito di operazioni che, pur non soddisfacendo il requisito della – attuale ovvero potenziale – manifestazione monetaria, determinano comunque la rilevazione di componenti reddituali che potrebbero generare un’equivalente asimmetria fiscale tra le giurisdizioni coinvolte: è il caso, ad esempio, dei componenti di reddito derivanti dall’atto di rinuncia ad un credito (62), dalla rilevazione di interessi impliciti di un finanziamento interest free (63) ovvero delle deduzioni riconosciute sulla base di un rendimento figurativo degli incrementi di patrimonio netto (c.d. “NID - Notional Interest Deduction”) (64). La scelta dell’OCSE di introdurre il requisito del “pagamento” per il riconoscimento dei disallineamenti da ibridi oggetto di contrasto sarebbe da ricondurre a ragioni di ordine pratico, finalizzata invero a ridimensionare la portata applicativa della disciplina anti-ibridi alle situazioni più facilmente tracciabili e di maggior interesse internazionale (65). Si tratta tuttavia di un approccio per certi versi opinabile, in quanto contribuirebbe al proliferare di nuove strutture ibride capaci di insinuarsi nei tax loopholes non coperti dalla disciplina di contrasto e di ottenere vantaggi da disallineamenti fiscali sostanzialmente equivalenti ma privi del requisito della manifestazione monetaria. La scelta dell’OCSE, benché non sia stata esente da critiche (66), è stata implicitamente accolta dalle Direttive ATAD che, richiamando con insistenza al concetto di “pagamento”, sembrano anch’esse limitare il perimetro di applicazione della normativa anti-ibridi a tale ulteriore requisito (67). Per con-

(62) Si confronti l’esempio 1.20 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17. (63) Si confronti l’esempio 1.14 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17. (64) Misure agevolative sostanzialmente equivalenti all’ACE (Aiuto alla Crescita Economica), introdotta nell’ordinamento italiano dal D.L. 6.12.2011, n. 201 e successivamente soppressa dall’art. 1, c. 1080 della legge di bilancio 2019. In particolare, l’OCSE fa riferimento alle “deemed interest deductions for equity capital” al paragrafo 11 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17. (65) L. Parada, supra nota n. 27, 976. (66) Sul punto, si vedano anche le osservazioni critiche di G. Cooper, Some Thoughts on the OECD’s Recommendations on Hybrid Mismatches, in Bulletin of International Taxation, n. 69, 2015, 342; e C. Kahlenbergh e A. Kopec, Hybrid Mismatch Arrangements – A Myth or a Problem That Still Exists?, in World Tax Journal, 8, 1, 2016, 40; B. Peeters e L. Vanneste, supra nota n. 48, 32. (67) Si rileva tuttavia la mancanza nelle Direttive ATAD di una definizione analoga a quella fornita dall’OCSE alla Raccomandazione n. 12 (definizione di “payment” di cui al OECD (2015), supra nota n. 17).


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verso, il decreto recante la disciplina attuativa nell’ordinamento italiano non fa mai riferimento al concetto di “pagamento”, preferendo piuttosto la nozione di “componente reddituale”. Come noto, la distinzione tra i due termini non è irrilevante, considerato che non tutti i componenti di reddito aventi rilevanza fiscale hanno come contropartita una manifestazione numeraria. La scelta terminologica del nostro legislatore sembra dunque sottintendere un allargamento del perimetro di applicazione della normativa di contrasto ai disallineamenti da ibridi rispetto a quello previsto originariamente dall’OCSE, all’interno del quale dovrebbero quindi rientrare i disallineamenti derivanti sia dagli interessi impliciti contabilizzati a fronte di un finanziamento interest free che dai componenti di reddito che si originano dall’atto di rinuncia ad un credito. Tale approccio appare maggiormente condivisibile e coerente con l’obiettivo della riforma di dare attuazione ad una disciplina di contrasto “il più possibile onnicomprensiva” (68), in grado di minimizzare le possibilità di arbitraggio che scaturiscono da asimmetrie esistenti tra i diversi sistemi fiscali, senza lasciare lacune che possono essere strumentalizzate per finalità di pianificazione fiscale aggressiva. Si pensi al caso che nel 2007 ha visto coinvolte alcune società del gruppo multinazionale LVMH in cui, a fronte di una rinuncia ad un credito vantato da una società francese (i.e. Parfums Christian Dior) nei confronti di una sua filiale americana (i.e. LVMH Parfumes et Cosmetics Inc.), la prima ha potuto beneficiare della deduzione per perdite su crediti sulla base della normativa pro tempore vigente in Francia, mentre la seconda ha qualificato tale rinuncia come un apporto di capitale di rischio, irrilevante sotto il profilo della determinazione del reddito imponibile (69): si tratta di un disallineamento che, ancorché privo di un “pagamento”, indiscutibilmente integra i connotati di ibridismo che contraddistinguono le fattispecie oggetto di interesse della disciplina in esame e che, pertanto, dovrebbe essere ugualmente neutralizzato per mezzo dei medesimi strumenti di contrasto. Occorre rilevare, dall’altro canto, che le considerazioni ivi svolte non trovano nessun riscontro né all’interno della Relazione illustrativa al decreto, né, come si è detto, nella Direttiva UE a cui lo stesso ha dato attuazione. Ciò potrebbe essere giustificato dalla residualità della fattispecie esaminata che, da una parte, potrebbe non averne reso rilevante un esame specifico nella Rela-

(68) Si confronti il Considerando n. 5 della Direttiva (UE) 2017/952 del 29 maggio 2017. (69) Sul punto si veda la recente sentenza del Consiglio di Stato francese (Conseil d’État, 9ème – 10ème chambres réunies) n. 398271 del 13 aprile 2018.


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zione e che, dall’altra parte, avrebbe richiesto un grado di dettaglio normativo che va al di là del “livello essenziale di coordinamento” (70) a cui mirano le Direttive ATAD. Ad ogni modo, considerato il ruolo fondamentale di cui è investita la reportistica dell’OCSE per l’interpretazione e l’applicazione della normativa interna di contrasto ai disallineamenti ibridi (71), si auspicano precisi chiarimenti sulla rilevanza del requisito della – effettiva ovvero potenziale – manifestazione monetaria ai fini dell’applicazione della normativa anti-ibridi domestica. Sul tema si rileva infine che, così come precisato nello stesso decreto (72) e in coerenza con quanto espresso dall’OCSE (73), sicuramente non rientrano nell’ambito di applicazione della disciplina anti-ibridi italiana i disallineamenti derivanti da deduzioni riconosciute sulla base della disciplina ACE: si tratta, invero, di deduzioni agevolative che non trovano origine in alcun componente di reddito (né tantomeno in un “pagamento”), ma che vengono riconosciute in via extra-contabile direttamente sul reddito imponibile netto. 4.4. L’assenza di “gradazione” nelle regole di reazione. – Un ulteriore aspetto che necessita di chiarimenti riguarda l’ammontare del beneficio (deduzione ovvero non inclusione) che dovrebbe essere disconosciuto ai fini dell’eliminazione del disallineamento: se da un lato è parsa opportuna la precisazione dell’OCSE di non attivare le regole anti-hybrids laddove il medesimo beneficio sarebbe stato accordato anche in assenza dell’asimmetrica qualificazione fiscale (74), dall’altro lato ci si aspetterebbe che le summenzionate regole di reazione debbano mirare ad eliminare solamente il gap tra la situazione di indebito vantaggio e il beneficio che sarebbe stato ordinariamente riconosciuto in assenza di tale asimmetrica caratterizzazione.

(70) Si confronti il Considerando n. 27 della Direttiva (UE) 2017/952 del 29 maggio 2017. (71) Si confronti il nono paragrafo del Capo IV (Disposizioni in materia di disallineamenti da ibridi) della Relazioni Illustrativa al Decreto Legislativo n. 142 del 29 novembre 2018. (72) Si confronti l’art. 6, comma 2, lett. e) del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018. (73) Si confronti il paragrafo 11 di cui al OECD (2015) (“deemed interest deductions for equity capital”), supra nota n. 17. (74) Poiché, ad esempio, viene riconosciuta la stessa esenzione, indipendentemente dalla sua qualificazione come titolo di debt o di equity (Si confronti l’esempio 1.3 di cui OECD (2015), supra nota n. 17).


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Tuttavia, le reazioni anti-ibridi previste dalla normativa domestica non sembrano prevedere alcuna “gradazione” nella determinazione della misura del disconoscimento della deduzione ovvero dell’inclusione del componente positivo di reddito. Da ciò deriva che se, ad esempio, in conseguenza di un’asimmetrica qualificazione tra due Stati di uno strumento finanziario, venisse accordata nella giurisdizione del beneficiario un’esenzione quasi-totale (si supponga al 95%) per i componenti reddituali derivanti da titoli di equity, in luogo dell’esenzione parziale (si supponga al 10%) riconosciuta nello stesso Paese ai redditi da titoli di debt, e al contempo lo Stato del pagatore avesse qualificato tale strumento finanziario come un rapporto di debito, con la conseguente emersione di un onere totalmente deducibile, quest’ultimo – in base all’attuale formulazione normativa - sarebbe tenuto a negare tale deduzione nella sua interezza. Considerato che, invece, sulla base delle indicazioni fornite dall’OCSE (75), la normativa anti-hybrids non avrebbe trovato applicazione nell’ipotesi in cui lo Stato del beneficiario avesse accordato allo strumento di debito la medesima esenzione del titolo partecipativo, sarebbe stato opportuno declinare la reazione anti-ibridi in modo da mantenere invariato il quantum soggetto a tassazione-deduzione tra i due Stati rispetto alla fattispecie in cui il disallineamento non si fosse verificato. Riprendendo l’esempio sopra formulato, lo Stato del pagatore avrebbe dovuto negare - secondo questo ragionamento - una deduzione pari al 85%, in modo che, a livello aggregato, si avesse come risultato la medesima materia imponibile-deducibile che si sarebbe conseguita in assenza di asimmetrie tra gli ordinamenti: attraverso questo aggiustamento, infatti, verrebbe garantito il medesimo beneficio fiscale che sarebbe stato riconosciuto in assenza di disallineamenti da ibridi tra i due ordinamenti (una deduzione del 15% nello Stato del pagatore, con la corrispondente inclusione del 5% nello Stato del beneficiario, a fronte di una deduzione del 100% ed una corrispondente inclusione del 90% che si sarebbe ottenuta in assenza di disallineamenti). Alla luce di quanto sopra esposto, si ritiene auspicabile un chiarimento sulle modalità di applicazione delle regole di reazione anti-ibridi e sulla possibilità di rimodulare gli effetti prodotti da tali norme in modo che le stesse siano maggiormente coerenti con l’obiettivo di eliminare le possibilità di arbitraggio tra diversi ordinamenti che emergono per effetto di disallineamenti

(75) Si confronti supra nota n. 46.


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da “strumenti finanziari ibridi” e che, al contempo, non siano eccessivamente penalizzanti e lesive del principio di uguaglianza e di non discriminazione. 5. I disallineamenti da “trasferimenti ibridi”. – La seconda ipotesi di disallineamento oggetto di contrasto della disciplina anti-hybrids è quella di un c.d. “trasferimento ibrido” che origina gli effetti fiscali di una deduzione senza corrispondente inclusione (D/NI). Con l’espressione “trasferimento ibrido” il legislatore fa riferimento a due distinte fattispecie, accomunate dalla presenza di un accordo per il trasferimento cross-border di uno strumento finanziario, dove il rendimento sottostante è, a seconda dei casi: i. rilevante per la determinazione della remunerazione del trasferimento, ovvero ii. considerato, ai fini fiscali, come conseguito simultaneamente da più di una delle parti dell’accordo (76). Il disallineamento in esame vede quindi ancora una volta come protagonista uno strumento finanziario in cui, tuttavia, il carattere ibrido non è da ricercare nelle particolari caratteristiche dello stesso o dei relativi componenti di reddito, bensì (i.) nel corrispettivo pattuito per il suo trasferimento ovvero (ii.) nel titolo con cui lo stesso è detenuto in capo ai soggetti coinvolti nel suo trasferimento (77). Si tratta di due fattispecie che nell’ambito dei rapporti BEPS prodotti dall’OCSE formano invece oggetto di due separate fattispecie: la prima, infatti, viene trattata alla stregua di un disallineamento originato da uno “strumento finanziario ibrido” (78), mentre la seconda come “trasferimento ibrido” vero e proprio. Da tale sottile divergenza formale tuttavia non derivano conseguenze sostanziali di rilievo ai fini dell’interpretazione della normativa anti-ibridi domestica, considerato che la disciplina e i principi che regolano i dispositivi di contrasto alle due diverse fattispecie di hybrid mismatch (da strumenti finanziari e da trasferimento ibrido) sono i medesimi. Per questo stesso motivo, molti degli aspetti già evidenziati nell’analisi della normativa di contrasto ai disallineamenti da “strumenti finanziari ibridi” assumono rilevanza anche con riferimento alla disciplina dei c.d. “trasferi-

(76) Si confronti l’art. 6, comma 1, lett. n) del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018. (77) Si confronti P. Blessinig, The Debt-Equity Conundrum – A Prequel, in Bulletin for International Taxation”, 66, 2012, 198. (78) Si vedano in merito le considerazioni di cui all’esempio 1.30 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17.


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menti ibridi”: di conseguenza, esulano dal suo perimetro di applicazione tutti i disallineamenti da trasferimenti ibridi che sono derivati esclusivamente da un particolare “sgravio fiscale”, che si sono originati da processi di mera valorizzazione ovvero che non sono imputabili alla natura ibrida dell’operazione e all’antinomica caratterizzazione fiscale della stessa tra gli ordinamenti coinvolti. Sono altresì analoghe le modalità di intervento, basate su linking rules, che prevedono nell’ambito di un’operazione che produce gli effetti fiscali di una D/NI, come risposta “primaria”, il disconoscimento della deduzione del componente negativo di reddito e, come risposta “secondaria”, l’inclusione del corrispondente componente positivo di reddito. Infine, assumono parimenti rilevanza ai fini dell’attivazione delle summenzionate disposizioni di contrasto le c.d. timing differences, nella misura in cui l’effetto del disallineamento non sia stato neutralizzato entro la fine del periodo d’imposta successivo a quello di deduzione del componente negativo di reddito e fatta comunque salva la possibilità di ottenere l’annullamento della disposizione di contrasto a seguito della dimostrazione della sua successiva inclusione. Inoltre, rispetto a quanto illustrato con riferimento alla disciplina dei disallineamenti da “strumenti finanziari ibridi”, è stata inserita una ulteriore esimente avente per oggetto i “trasferimenti ibridi sul mercato”, la cui applicazione è subordinata al verificarsi delle seguenti tre condizioni (79): 1. il trasferimento ibrido deve avere come attore un “operatore finanziario”, ovverosia “un soggetto che esercita regolarmente l’attività di acquisto o di vendita di strumenti finanziari per proprio conto a scopo di lucro” (80), 2. il trasferimento ibrido deve essere stato realizzato nell’ambito dell’attività ordinaria dell’operatore finanziario, e 3. il trasferimento ibrido non deve rientrare nel quadro di un “accordo strutturato” (81). La previsione di tale esimente intende rispondere in primo luogo all’esigenza di non ostacolare il funzionamento del mercato finanziario, laddove l’azione dei suoi operatori non abbia come finalità precipua quella di trarre benefici fiscali da situazioni di disallineamento (82). Invero, nell’alveo delle

(79) Si confronti l’art. 6, comma 1, lett. o) del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018. (80) Si confronti l’art. 6, comma 1, lett. m), del D.lgs. n. 142/2018 e quanto esposto in precedenza nel paragrafo 2. (81) Si confronti l’art. 6, comma 1, lett. q) del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018. (82) Si confronti i lavori preparatori della Direttiva ATAD 2 e, segnatamente, i documenti n. 15307/16 (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=consil:ST_15307_2016_INIT)


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operazioni che presentano le caratteristiche di “trasferimenti ibridi” potrebbe rientrare, come si vedrà nel prosieguo del presente lavoro, l’attività di prestito titoli (c.d. securities lending) che riveste un ruolo centrale nel funzionamento del mercato finanziario e nel sostenimento della sua liquidità complessiva. Inoltre, così come espresso nei lavoratori preparatori alla ATAD 2, si tratta di situazioni con un rischio di elusione fiscale piuttosto limitato, in cui è inverosimile ritenere che gli operatori del mercato possano conoscere l’identità o la residenza fiscale della controparte nella specifica operazione e di fatto conseguire un effettivo vantaggio fiscale (visto anche il regime di imposizione che li caratterizza che impone la tassazione integrale dei rendimenti conseguiti da strumenti finanziari) (83). Nel prosieguo la trattazione esaminerà più diffusamente le due specifiche fattispecie di “trasferimento ibrido” previste dalla disciplina domestica antihybrids aventi per oggetto trasferimenti di strumenti finanziari (i.) con “corrispettivo ibrido” e (ii.) con “titolarità ibrida”. 5.1. Trasferimento di strumento finanziario con corrispettivo ibrido. – La prima fattispecie di “trasferimento ibrido” riguarda tutte le operazioni in cui si realizza un disallineamento per effetto di trasferimento cross-border di strumenti finanziari i cui rendimenti sono rilevanti per la determinazione del prezzo del trasferimento. Essa può dunque riferirsi, ad esempio, a un’operazione di cessione di quote di partecipazione societaria che prevede, in aggiunta ad una parte fissa del prezzo di vendita pagata al closing dell’operazione, una componente remunerativa variabile, corrisposta in via differita, basata sulle performance realizzate dalla società in un arco temporale stabilito (c.d. clausola di earn-out) (84).

e n. 15308/16 (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=consil:ST_15308_2016_ INIT). (83) Questi infatti sono tipicamente soggetti a tassazione sul risultato netto dell’operazione, includendo quindi nella base imponibile anche il rendimento sottostante dello strumento finanziario trasferito. Si confronti in particolare il già citato documento n. 15308/16 (supra nota n. 82), 5, dove viene sottolineato come: “Securities lending is generally a high volume / low margin business where trading is either on-market or conducted through nominees making it impossible for a market participant to know the identity or tax residency of the counterparty to a particular trade. […] Some Member States also point out that payment made by a financial trader under a share lending or repo transaction generally raises little tax risk, as the financial trader will be subject to taxation on the net income under the arrangement (including tax on the underlying return on the borrowed instrument)”. (84) Si confronti l’esempio 1.30 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17.


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Qualora tale corrispettivo aggiuntivo fosse trattato in modo disomogeneo nei due Paesi coinvolti nell’operazione, come ad esempio un costo fiscalmente deducibile da una parte e come un componente aggiuntivo del prezzo di vendita dall’altra – che determina presumibilmente una plusvalenza esente – si verrebbe a realizzare un effetto fiscale di D/NI da neutralizzare per mezzo della normativa anti-hybrids in esame. Risultano quindi determinanti, ai fini dell’inquadramento come “trasferimento ibrido”, la tipologia di asset trasferito (i.e. uno strumento finanziario, così come definito dalla disciplina anti-ibridi) e l’origine del corrispettivo pattuito per il suo trasferimento. L’assenza di uno dei summenzionati elementi, tuttavia, non comporta necessariamente l’inapplicabilità delle disposizioni di contrasto previste dalla normativa in esame, poiché si potrebbe comunque ricadere nell’alveo dei disallineamenti da “strumenti finanziari ibridi”. Si consideri, ad esempio, il caso presentato dall’OCSE dell’operazione di compravendita di uno strumento finanziario che prevede, a fronte di un pagamento differito, l’emersione di un interesse finanziario nel prezzo di acquisto, riconosciuto come deducibile nello Stato del cessionario e quale parte integrante del prezzo di vendita – esente – nello Stato del cedente (85). Tale fattispecie, nonostante presenti evidenti caratteri di somiglianza con la fattispecie sopra analizzata, non sarebbe riconducibile alla nozione di “trasferimento ibrido”, dato che il disallineamento è emerso in ragione di un componente reddituale non direttamente imputabile al rendimento dello strumento finanziario trasferito. Sebbene tale disallineamento non derivi da un “trasferimento ibrido”, esso sarebbe ugualmente contrastato dalla disciplina in esame: si tratta invero di una D/NI che si origina per effetto di un’asimmetrica qualificazione di un componente reddituale derivante da uno strumento finanziario, diverso rispetto a quello oggetto di trasferimento e venuto in essere implicitamente nell’accordo per il differimento del termine di pagamento. Infatti, come si è accennato nel precedente paragrafo 4.1., la definizione di “strumento finanziario” prodotta dalla normativa anti-ibridi è particolarmente ampia e prescinde, ad esempio, dalla materializzazione o negoziabilità dello stesso, interessandosi unicamente alla natura degli effetti fiscali generati nelle giurisdizioni coinvolte: considerato che dalla summenzionata fattispecie si originano componenti di reddito collegati alla messa a disposizione di una

(85) Si confronti l’esempio 1.27 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17.


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provvista di denaro e aventi natura di interessi finanziari deducibili nei limiti dell’art. 96 del TUIR, si è in presenza di un disallineamento da “strumento finanziario ibrido” ai sensi della normativa anti-ibridi. 5.2. Trasferimento di strumento finanziario con titolarità ibrida. – La seconda fattispecie di “trasferimento ibrido” attiene invece a tutte quelle operazioni in cui si realizza un disallineamento nell’individuazione del soggetto titolare dello strumento finanziario trasferito (e quindi dei relativi componenti reddituali) per effetto dell’utilizzo di diversi criteri di qualificazione fiscale da parte delle giurisdizioni coinvolte. Il disallineamento in esame, diversamente da quelli precedentemente analizzati, ha carattere soggettivo, in quanto non scaturisce da un’antinomica qualificazione fiscale dello strumento finanziario o dei componenti di reddito da esso derivanti, ma è da attribuire alla diversa qualificazione del titolo con cui lo strumento finanziario trasferito è detenuto in capo ai diversi soggetti coinvolti (86). Infatti, in presenza di costruzioni negoziali transfrontaliere la cui forma giuridica si discosta da quella che è la sottostante finalità economico-finanziaria, qualora gli ordinamenti coinvolti valorizzino in via disomogenea gli effetti sostanziali ovvero gli aspetti formali ai fini del loro inquadramento fiscale, questi potrebbero ascrivere la titolarità dello strumento finanziario non al medesimo soggetto, ma bensì in capo a due entità distinte, consentendo di beneficiare nei rispettivi ordinamenti del trattamento fiscale tipicamente spettante al detentore dello strumento finanziario. Orbene, laddove queste asimmetrie ingenerino effetti fiscali di una D/NI, ci si trova dinnanzi ad una costruzione negoziale che perfettamente integra i connotati di ibridismo a cui mira a far fronte la disciplina anti-hybrids domestica.

(86) C. Garbarino e A. Turina, Il Progetto BEPS e gli “hybrid mismatch arrangement”: un esame del relativo “Deliverable”, in Fiscalità & Commercio Internazionale, n. 5, 2015, 24.


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Più nello specifico, possono essere delineate due situazioni (87) riconducibili alla fattispecie in esame che tipicamente si prestano ad essere sfruttate per conseguire i suddetti vantaggi fiscali (88). La prima ipotesi si riferisce alla conclusione di un accordo di “pronti contro termine” (c.d. repo), ossia di vendita con patto di riacquisto a termine di un titolo azionario ad un corrispettivo predeterminato (89). Evidentemente, benché l’operazione sia formalmente strutturata come un accordo di trasferimento di titoli azionari, essa maschera nella sostanza un finanziamento garantito da titoli che potrebbe consentire ai soggetti coinvolti di conseguire un effetto fiscale di D/NI, qualora negli Stati coinvolti venga adottato, dal lato del soggetto cedente, un approccio fondato sulla sostanza economica della transazione e, dal lato del cessionario, un approccio formalistico legato alla titolarità giuridica del titolo sottostante. In tale circostanza, infatti, il soggetto cessionario (o finanziatore) verrebbe qualificato nel proprio ordinamento quale titolare dello strumento finanziario trasferito e dei relativi dividendi, beneficiando del diritto all’esenzione prevista su tali componenti positivi di reddito, mentre dall’altro lato, il soggetto cedente “a pronti” (o mutuatario) verrebbe identificato nel proprio ordinamento come il soggetto sostanzialmente titolare dei titoli azionari trasferiti a titolo di garanzia del prestito contratto, mantenendo dunque il diritto ai dividendi e dovendo rilevare un interesse finanziario figurativo deducibile per il prestito ottenuto (in misura tipicamente pari al dividendo trattenuto dal cessionario come rendimento concordato sul finanziamento). In questo modo, considerato che a fronte di un costo di finanziamento deducibile

(87) Nel rapporto pubblicato nel 2015 nell’ambito del BEPS Action 2 (cfr. OECD (2015), supra nota n. 17) viene presa in esame un’ulteriore fattispecie che potrebbe generare l’effetto fiscale di un trasferimento ibrido, ovverosia quella risultante da un ordinario accordo di compravendita di strumenti finanziari in cui le giurisdizioni coinvolte si trovano in conflitto nella determinazione del timing del trasferimento. Nell’ambito del presente lavoro, tuttavia, ci si limiterà ad esaminare, per economia di trattazione, i disallineamenti scaturenti dalle due principali fattispecie di trasferimenti di strumenti finanziari con titolarità ibrida: i disallineamenti da operazioni di “pronti contro termine” e da prestito titoli. (88) Per una più diffusa trattazione delle due ipotesi di “trasferimento ibrido” qui richiamate si rimanda al contributo di L. Rossi e V. Maiese, Operazioni di prestito titoli e pronti contro termine aventi ad oggetto partecipazioni societarie: coordinamento tra la direttiva ATAD e la norma antielusiva interna, in Bollettino Tributario, n. 6, 2019, 420. (89) Si confronti l’esempio 1.31 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17, avente per oggetto un accordo di “pronti contro termine a pagamento netto” (c.d. net repaying repo), ossia di vendita con patto di riacquisto a termine di un titolo azionario ad un corrispettivo predeterminato e diminuito dell’importo dell’eventuale dividendo distribuito.


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emergono dividendi esclusi dalla determinazione del reddito imponibile del soggetto percipiente, l’operazione genera gli effetti di un disallineamento da “trasferimento ibrido” che potrebbe determinare l’attivazione dei dispositivi di contrasto previsti dalla normativa anti-ibridi, al ricorrere degli ulteriori requisiti soggettivi ed oggettivi. La seconda situazione riconducibile alla fattispecie di disallineamento in esame riguarda invece un’operazione di prestito titoli (c.d. securities lending), in cui il trasferimento dello strumento finanziario è strutturato in modo da lasciare il soggetto prestatore sostanzialmente esposto a tutti i rischi e benefici tipicamente connessi alla titolarità del sottostante trasferito: nello specifico, si ipotizza che il beneficiario del prestito abbia l’obbligo di retrocedere al prestatore le remunerazioni percepite da tale strumento finanziario (c.d. manufactured payment). Similmente a quanto osservato con riferimento al caso del “pronti contro termine”, qualora l’inquadramento fiscale di tale operazione fosse fondato su approcci contrastanti, valorizzanti la sostanza economica nello Stato del soggetto prestatore e gli aspetti formali nello Stato del soggetto prestatario, si verrebbe a configurare un’ipotesi di antinomica individuazione del soggetto titolare dello strumento finanziario trasferito che potrebbe originare l’effetto di un indebito vantaggio fiscale da “trasferimento ibrido” tra le parti contraenti. Tale beneficio fiscale potrebbe sostanziarsi non solo in un effetto fiscale di deduzione senza corrispondente inclusione (D/NI), ma anche in un’artificiosa “duplicazione” dei crediti d’imposta relativi alla ritenuta alla fonte operata sulla remunerazione dello strumento finanziario (90). Invero, si ipotizzi che lo strumento finanziario oggetto di trasferimento sia un titolo obbligazionario, il cui rendimento – sotto forma di interesse – venga corrisposto al soggetto prestatario al netto della ritenuta domestica, per poi essere retrocesso nello stesso ammontare al soggetto prestatore sotto forma di manufactured interest payment. Nell’ipotesi in cui entrambi gli Stati coinvolti trattassero contemporaneamente i soggetti ivi residenti quali titolari dello strumento obbligazionario e, dunque, come beneficiari della cedola netta corrisposta, questi potrebbero contestualmente riconoscere il diritto ad un credito d’imposta per le medesime ritenute subite, altrimenti non spettante (o non spettante nello stesso ammontare) in assenza di disallineamenti (91). In tal caso, la risposta

(90) D. Liburdi e L. Nobile, supra nota n. 24, 4446. (91) Si confronti l’esempio 2.2 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17.


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prevista dalla normativa domestica anti-ibridi prevede, al ricorrere degli ulteriori presupposti soggettivi ed oggettivi illustrati in premessa, il riconoscimento di tale credito in capo al soggetto prestatario in misura corrispondente alla differenza positiva tra il provento cui detto credito si ricollega e l’onere finanziario relativo alle suddette operazioni (92). A tal proposito, occorre sottolineare come il Considerando 23 dell’ATAD 2 raccomandi altresì l’utilizzo della normativa generale antiabuso domestica al fine di impedire al pagatore di utilizzare l’eccedenza di credito per ottenere un vantaggio fiscale anche mediante l’applicazione di una norma generale antiabuso “coerente con l’articolo 6 della direttiva (UE) 2016/1164”; di conseguenza, con riferimento ai fenomeni volti a creare un’artificiosa “duplicazione” dei crediti di imposta per ritenute estere, le singole giurisdizioni coinvolte sono tenute a ricorrere anche all’utilizzo delle misure di contrasto interne a carattere generale. Come si è anticipato pocanzi, il beneficio fiscale perseguito dalle operazioni riconducibili al fenomeno dei “trasferimenti ibridi” potrebbe altresì sostanziarsi in una D/NI, in particolare qualora il trasferimento abbia ad oggetto non già uno strumento obbligazionario, bensì un titolo azionario: invero, a fronte di un manufactured dividend tipicamente deducibile nello Stato del soggetto beneficiario del prestito, non vi sarebbe l’assoggettamento a tassazione del corrispondente componente positivo di reddito, considerato che entrambe le giurisdizioni coinvolte riconoscono i soggetti ivi residenti quali titolari del titolo azionario e, in quanto tali, legittimati a beneficiare dell’esenzione su tali categorie reddituali (93). Sorprendentemente, tuttavia, così come indicato dall’OCSE nei report del BEPS Action 2, anche qualora il rendimento del titolo azionario fosse

(92) Si confronti l’art. 8, comma 5, del D.lgs. n. 142 del 29 novembre 2018. Così come descritto nell’ambito dell’esempio 2.2 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17, qualora nello scenario sopra delineato il soggetto prestatario abbia diritto ad una cedola lorda pari a 100, assoggettata a sua volta a ritenuta alla fonte (a titolo di acconto) nella misura del 10%, e che la retrocessione del manufactured interest payment abbia dato luogo ad un componente negativo di reddito deducibile pari a 90, in assenza di una normativa di contrasto anti-ibridi tale soggetto avrebbe beneficiato di un credito di imposta pari a 10 che, a fronte di una base imponibile di 10 e – ipotizzando un’aliquota del 30% – un’imposta lorda di 3, avrebbe determinato un complessivo effetto positivo di 7; in tale contesto, l’applicazione del dispositivo di contrasto previsto dalla normativa anti-ibridi domestica ha dunque come effetto quello di rideterminare il credito di imposta in capo al soggetto prestatario in misura pari a 3, in modo che l’effetto complessivo dell’operazione sia sostanzialmente nullo. (93) Si confronti l’esempio 1.32 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17.


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integralmente incluso nella determinazione della base imponibile del soggetto prestatario, annullando di fatto la possibilità di conseguimento di un vantaggio fiscale, si renderebbe comunque necessaria l’attivazione dei dispositivi di contrasto previsti dalla normativa anti-ibridi al ricorrere degli ulteriori requisiti soggettivi ed oggettivi (94); evidentemente, però, una siffatta applicazione della disciplina anti-ibridi andrebbe ad originare un ingiustificato fenomeno di duplicazione di imposta, considerato che a fronte del medesimo flusso reddituale si verrebbero alternativamente a creare una situazione di imposizione senza corrispondente deduzione ovvero, in ipotesi di applicazione della c.d. risposta “secondaria”, di doppia imposizione. In base a quanto espresso dall’OCSE, l’attivazione dei dispositivi di contrasto della disciplina anti-ibridi nella fattispecie esaminata sarebbe giustificata dalla particolare limitazione del suo perimetro d’applicazione: invero, le valutazioni da svolgere in ossequio alla normativa anti-hybrids dovrebbero avere ad oggetto non già il negozio giuridico nel suo complesso, bensì la singola operazione rispetto alla quale si originano i componenti reddituali che generano l’effetto fiscale di D/NI; nel caso di specie, il perimetro di interesse della normativa sarebbe dunque limitato ai soli componenti reddituali derivanti dal manufactured dividend, ovverosia dall’operazione che cagiona – se singolarmente considerata – un effetto di D/NI, a nulla rilevando il fatto che nel complesso l’operazione di lending securities abbia prodotto un risultato fiscale sostanzialmente nullo. A sostegno di tale tesi viene addotto che tale situazione risulta di fatto equivalente a quella in cui si sarebbe trovato il soggetto prestatario nell’ipotesi in cui avesse emesso uno “strumento finanziario ibrido” (scatenante un effetto fiscale di D/NI) ed avesse investito i fondi ricevuti da tale emissione in una qualunque attività generatrice di reddito imponibile, di fatto annullando ex post il vantaggio fiscale derivante dal disallineamento fiscale (95): siccome tale ultima circostanza non avrebbe evidentemente assunto rilievo ai fini dell’applicazione della disciplina di contrasto al disallineamento ibrido, allo stesso modo non dovrebbe acquisire rilevanza il fatto che il vantaggio fiscale generato dal manufactured dividend sia stato annullato ex ante per effetto della tassazione del dividendo ad esso collegato in capo al soggetto prestatario.

(94) Si confronti l’esempio 1.33 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17. (95) Si confrontino le considerazioni svolte al paragrafo 11 di cui all’esempio 1.33 di cui al OECD (2015), supra nota n. 17.


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Il ragionamento delineato nelle analisi dell’OCSE e dianzi riportato appare non solo eccessivamente penalizzante, ma al contempo potenzialmente foriero di incoerenze logiche e sistematiche. In primo luogo, la definizione di “trasferimento ibrido”, facendo riferimento al rendimento dello strumento finanziario trasferito, non pare escludere dallo spettro di applicazione della norma il dividendo percepito dal soggetto prestatario, limitandone l’analisi al solo manufactured payment, ma sembra per converso voler far riferimento ad entrambi i flussi reddituali scaturenti dall’operazione di prestito titoli. Conseguentemente, il parallelismo proposto con il disallineamento da “strumento finanziario ibrido”, succeduto da un investimento in attività totalmente estranee alla suddetta fattispecie ibrida, non appare molto convincente. Inoltre, bisogna ricordare che il carattere ibrido dell’operazione di prestito titoli deriva dal fatto che entrambe le giurisdizioni coinvolte individuano contestualmente i soggetti ivi residenti quali titolari della remunerazione sottostante all’asset trasferito, riconoscendo dunque agli stessi il beneficio dell’esenzione tipicamente spettante al titolare di tali strumenti finanziari. Or dunque, se ipotizzassimo che la medesima operazione di lending securities fosse stata realizzata tra soggetti residenti in Stati che valorizzano allo stesso modo l’operazione, sulla base della sua sostanza economica, facendo venire meno l’elemento nodale del “disallineamento” che connota l’intera disciplina anti-ibridi, si otterrebbe verosimilmente il seguente risultato: in primis, si avrebbe nello Stato del soggetto prestatario il disconoscimento di quest’ultimo come titolare effettivo del titolo azionario e, dunque, del beneficio dell’esenzione sui dividendi percepiti, con la conseguente integrale tassazione di tali componenti reddituali; in secondo luogo, il manufactured dividend risulterebbe deducibile per il soggetto prestatario e al contempo non imponibile (per mezzo dell’esenzione) per il soggetto prestatore, in quanto titolare effettivo dello strumento finanziario sottostante. Evidentemente, dunque, l’effetto indotto dall’antinomica qualificazione della medesima fattispecie tra i due Stati non si discosta dallo scenario che si sarebbe perpetrato in assenza di disallineamento. Ebbene, come si è avuto modo di sottolineare in sede di analisi dei disallineamenti scaturenti da “strumenti finanziari ibridi”, nell’ambito delle stesse raccomandazioni fornite dall’OCSE (96) viene precisato che l’indagine richiesta dalla disciplina anti-ibridi

(96) Si confronti quanto evidenziato in sede di analisi della disciplina di contrasto ai disal-


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debba altresì prevedere lo svolgimento di un’analisi comparata di quello che sarebbe stato l’eventuale trattamento fiscale nell’ipotesi in cui non si fosse verificata alcuna asimmetria nella caratterizzazione fiscale della medesima fattispecie ibrida, disattivando le regole anti-hybrids laddove il medesimo trattamento fiscale sarebbe stato accordato anche in assenza della suddetta antinomia; di conseguenza, per ragioni logiche e di coerenza sistematica, e al fine di evitare un’indebita penalizzazione per i soggetti coinvolti, appare più che opportuno considerare, ai fini dell’applicazione della disciplina anti-ibridi nella fattispecie in esame, un’indagine rivolta al risultato fiscale complessivo dell’operazione di trasferimento di strumenti finanziari, non limitando lo spettro di analisi ai soli effetti fiscali prodotti dal manufactured payment. Tuttavia, considerato il ruolo centrale di cui sono investite le raccomandazioni dell’OCSE ai fini dell’esegesi della normativa interna di contrasto ai disallineamenti ibridi, si ritiene necessario vengano forniti precisi chiarimenti sulle modalità di applicazione della disciplina interna nell’ambito della fattispecie di “trasferimento ibrido” esaminata. 6. Considerazioni conclusive. – La disciplina di contrasto ai disallineamenti da ibridi introdotta dal decreto di attuazione della ATAD 2 muove nella meritevole intenzione di operare, in un mondo frastagliato di sistemi fiscali divergenti, un intervento coordinato ed efficace contro tali pratiche di arbitraggio fiscale internazionale. Si tratta di una disciplina avente carattere innovativo e sicuramente apprezzabile per gli obiettivi che si pone, ma che, allo stesso tempo, presenta diversi elementi di complessità che necessitano un esame approfondito. In questa direzione opera il richiamo effettuato dal legislatore nazionale nella relazione illustrativa al decreto e dalla ATAD 2 nel Considerando 28 alle relazioni del BEPS Action 2, quando ne attribuisce rilevanza centrale ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione delle disposizioni interne anti-ibridi. Tale richiamo, sebbene animato da un ragguardevole intento di chiarificazione e semplificazione, non sembra sempre cogliere nel segno: invero, come si è avuto modo di sottolineare nel presente contributo, le raccomandazioni fornite dall’OCSE nell’ambito dell’Azione 2 del progetto BEPS e la disciplina anti-hybrid domestica, sebbene presentino profili largamente convergenti,

lineamenti da “strumenti finanziari ibridi” con riferimento all’esempio 1.3 di cui OECD (2015), supra nota n. 17.


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nascondono al contempo sfumature di potenziale incompatibilitĂ che necessitano di essere attentamente vagliate e meritano precisi chiarimenti da parte degli organi competenti.

Matteo Aicardi





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