Rivista Diritto Tributario 4/2019

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Vol. XXIX - Agosto

Rivista di

Diritto Tributario

Fondatori: Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi

4

Rivista bimestrale

www.rivistadirittotributario.it

Vol. XXIX - Agosto 2019

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Direzione scientifica Loredana Carpentieri - Angelo Contrino - Guglielmo Maisto - Franco Paparella Gaetano Ragucci - Roberto Schiavolin

2019

In evidenza: • Sull’inquadramento sistematico e sulla natura giuridica degli accordi preventivi per le

imprese con attività internazionale e sulla loro estensibilità all’IVA Antonio Perrone • Il divieto di ingiustificato arricchimento e le nuove prospettive del rimborso tributario

Rossella Miceli • Considerazioni sul sezionamento fiscale del patrimonio netto della scissa a margine della

più recente prassi interpretativa erariale e del principio di neutralità Marco di Siena • La fedeltà (del contribuente) più importante dell’offesa (al gettito tributario)? (nota a Corte

cost., n. 95/2019) Alex Ingrassia • La compatibilità europea di regimi differenziati applicabili a dividendi distribuiti a OICVM

transfrontalieri (nota a Corte Giustizia C-480/16 del 2018) Alessia Fidelangeli • Lo stato della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul regime ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Rivista di Diritto Tributario

Componenti onorari: Francesco D’Ayala Valva - Andrea Fedele - Piera Filippi Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo

tributario delle “perdite finali” delle stabili organizzazioni estere: da Marks & Spencer a Bevola (nota a Corte Giustizia, C‑650/16 del 2019) Arno Crazzolara

Pacini



Indici DOTTRINA

Arno Crazzolara

Lo stato della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul re‑ gime tributario delle “perdite finali” delle stabili organizzazioni estere: da Marks & Spencer a Bevola (nota a Corte Giustizia, C‑650/16 del 2019)........................... V, 68 Marco Di Siena

Considerazioni sul sezionamento fiscale del patrimonio netto della scissa a mar‑ gine della più recente prassi interpretativa erariale e del principio di neutralità...... I, 483 Alessia Fidelangeli

La compatibilità europea di regimi differenziati applicabili a dividendi distribuiti a OICVM transfrontalieri (nota a Corte Giustizia C-480/16 del 2018)................... IV, 81 Alex Ingrassia

La fedeltà (del contribuente) più importante dell’offesa (al gettito tributario)? (nota a Corte cost., n. 95/2019).................................................................................. III, 27 Rossella Miceli

Il divieto di ingiustificato arricchimento e le nuove prospettive del rimborso tri‑ butario ......................................................................................................................... I, 421 Francesco Pedrotti

Riflessioni sull’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 36 ter, comma 2, del DPR 29 settembre 1973, n. 600................................................................................. I, 459 Antonio Perrone

Sull’inquadramento sistematico e sulla natura giuridica degli accordi preventivi per le imprese con attività internazionale e sulla loro estensibilità all’IVA ............ I, 387 Roberto Scalia

Spunti ricostruttivi sul rilievo sistematico delle note di variazione IVA alla luce di una recente pronuncia della Corte di Cassazione (nota a Cass., n. 12469/2019) ... II, 152 Rubrica di diritto penale tributario

a cura di Ivo Caraccioli............................................................................................... III, 23 Rubrica di diritto europeo

a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 67 Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................ V, 55


II

indici

Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.

INDICE ANALITICO

QUESTIONI GENERALI UNIONE EUROPEA Rinvio pregiudiziale – Articolo 49 TFUE – Imposta sulle società – Libertà di sta‑ bilimento – Società residente – Utile imponibile – Sgravio fiscale – Deduzione del‑ le perdite subite da stabili organizzazioni residenti – Autorizzazione – Deduzione delle perdite subite da stabili organizzazioni non residenti – Esclusione – Eccezione – Regime opzionale di consolidato fiscale internazionale (Corte Giustizia, Grande Sezione, 12 giugno 2018, n. C‑650/16, con nota di Arno Crazzolara)........................ V, 55 Tassazione dei dividendi versati agli organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) transfrontalieri – Libera circolazione dei capita‑ li – Restrizioni – Giustificazioni – Articolo 65 TFUE – Comparabilità – Ragioni imperative di interesse generale – Coerenza del regime fiscale – Proporzionalità – Osta (Corte Giustizia, Sez. V, 21 giugno 2018, causa C-480/16, con nota di Alessia Fidelangeli).................................................................................................... IV, 67

REATI TRIBUTARI Dichiarazione fraudolenta - Dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti – Assenza di soglie di punibilità – Violazione del principio di uguaglianza – infondatezza (Corte costituzionale, 5 febbraio 2019 - 18 aprile 2019, n. 95, con nota di Alex Ingrassia)........................ III, 23

IMPOSTE INDIRETTE IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO Note di variazione – Contratti di durata – Inadempimento del cliente – Mancato pagamento di servizi prestati – Risoluzione del contratto – Rettifica ex art. 26,


indici

III

comma 9 d.P.R. 633/72 – Applicazione ex tunc (Cassazione, sez. V, 21 febbraio 2019 - 10 maggio 2019, n. 12469, con nota di Roberto Scalia)............................... II, 145

INDICE CRONOLOGICO Corte di Giustizia, Grande Sezione 12 giugno 2018, n. C‑650/16...................................................................................... V, 55 Corte di Giustizia UE, Sez. V 21 giugno 2018, causa C-480/16............................................................................... IV, 67 *** Corte Cost. 5 febbraio 2019 - 18 aprile 2019, n. 95,..................................................................... III, 23 *** Cass, sez. V 21 febbraio 2019 - 10 maggio 2019, n. 12469.......................................................... II, 145

Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Al‑ fonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giando‑ menico Comporti - Roberto Cordeiro Guerra - Adriano Di Pietro - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Franco Gallo - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pi‑ stolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Giuseppe Tinelli - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio



Dottrina

Sull’inquadramento sistematico e sulla natura giuridica degli accordi preventivi per le imprese con attività internazionale e sulla loro estensibilità all’IVA Sommario: 1. Gli accordi preventivi nel confronto con il ruling internazionale. – 2. Il

problema della estensibilità degli effetti dell’accordo all’IVA. Le questioni “direttamente” collegate all’oggetto di accordo e quelle “indirettamente” collegate allo stesso. Il tema della stabile organizzazione ai fini IVA. – 3. La struttura ibrida degli accordi preventivi. – 4. L’inquadramento sistematico e la natura giuridica degli accordi preventivi nell’ottica della dottrina dominante. – 5. La questione della natura giuridica degli accordi nell’ambito del dibattito fra natura dichiarativa o dispositiva dell’accertamento tributario. – 6. Una possibile prospettazione alternativa dell’inquadramento sistematico degli accordi preventivi: l’accostamento alle Mutual Agreement Procedure (MAP). – 7. Il differente ruolo dell’Amministrazione finanziaria e del contribuente. La natura giuridica degli accordi preventivi come atti unilaterali convergenti a contenuto dispositivo. – 8. La non estensibilità degli accordi preventivi alla materia concernente la configurazione di una stabile organizzazione ai fini IVA.

L’articolo intende affrontare tre questioni specifiche che sorgono con riguardo all’isti‑ tuto degli accordi preventivi per le imprese con attività internazionale. La prima è quella concernente la natura giuridica di tali accordi, che, secondo la dottrina maggioritaria, sa‑ rebbe dichiarativa e non negoziale. La seconda riguarda il rapporto esistente fra il nuovo istituto e gli interpelli. Analisi che viene effettuata anche mettendo in risalto i profili di innovazione che gli «accordi preventivi» presentano rispetto al previgente ruling interna‑ zionale. La terza concerne la possibilità di estendere gli effetti degli accordi anche all’IVA, con particolare riferimento al problema della stabile organizzazione. La soluzione proposta consiste nell’operare un accostamento fra l’istituto degli accordi preventivi e le c.d. Mutual Agreement Procedure (MAP) e valutare alla luce dello stesso le tre questioni oggetto di interesse. This essay will address three specific issues concerning the new institute about previous agreements for international businesses. The first issue focus on the internal structure, which, according to the most part of scholars, is not configurable as a private agreement, but as a joint exercise of tax assessment power. The second concern the relationship be-


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tween the new institute and the traditional domestic rulings. The third asks if it is possible to extend agreement effects also to VAT, particularly to the permanent establishment. The way chosen to address these issues involves a juxtaposition between the new institute and the Mutual Agreement Procedure (MAP), with the aim to find possible common points.

1. Gli accordi preventivi nel confronto con il ruling internazionale. – Il tema dell’inquadramento sistematico e della natura giuridica degli accordi pre‑ ventivi per le imprese con attività internazionale – istituto disciplinato dall’art. 31-ter del DPR n. 600/73 (ed introdotto nel nostro ordinamento con il D. Lgs. n. 147 del 14 settembre 2015 (c.d. «decreto internazionalizzazione») – richiama quello dei rapporti fra autorità e consenso nel diritto tributario (1); questione che ha particolarmente impegnato, negli anni, gli studiosi e che è stata decli‑ nata in più versanti con riguardo ad istituti quali l’accertamento con adesione, la conciliazione giudiziale, gli accordi in fase di riscossione, ecc., ma anche con riferimento agli interpelli. Proprio l’istituto dell’interpello è quello che ha suscitato maggiore attrazione nello studio dei c.d. accordi preventivi (2), tanto

(1) La letteratura sul tema dell’autorità e consenso nel diritto tributario è particolarmente vasta. Ci limitiamo in questa sede, e senza alcuna pretesa di esaustività, ad indicare i seguenti volumi: S. La Rosa (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2007; S. La Rosa (a cura di), Autorità e consenso nel diritto tributario, Milano, 2008; L. Del Federico - S. Civitarese Matteucci (a cura di) Azione amministrativa ed azione impositiva tra autorità e consenso. Strumenti e tecniche di tutela dell’amministrato e del contribuente, Bologna, 2010; M.T. Moscatelli, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007; M. Versiglioni, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001. Riconnette specificamente al tema dell’autorità e del consenso la disciplina degli interpelli e quella del c.d. ruling internazionale (che, come si vedrà nel testo, è stato poi sostituito ed integrato dagli accordi preventivi ex art. 31-ter del DPR n. 600/73), L. Del Federico, Autorità e consenso nella disciplina degli interpelli fiscali, in Profili autoritativi e consensuali cit., 155 ss. (2) Osserva, a riguardo, G. Zizzo, Accordi preventivi e prospettive evolutive della cooperazione tra fisco e imprese, in Corr. Trib., 1/2019, 66, che la fase della collaborazione fra Fisco e contribuente nell’attività di accertamento è stata aperta dagli interpelli «a partire dall’interpello “speciale” in materia di pratiche elusive di cui all’art. 21 della Legge n. 413/1991, per continuare con l’interpello “disapplicativo” di cui all’art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973 e quello “ordinario” di cui all’art. 11 della Legge n. 212/2000, sino all’opportuno riordino attuato con il D.Lgs. n. 156/2015», aggiungendo che «ad una sua ulteriore messa a fuoco hanno poi contribuito, in particolare, i ruling internazionali, ora accordi preventivi, gli interpelli per i nuovi investimenti di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 147/2015 e la cooperative compliance di cui all’art. 3 ss. del D.Lgs. n. 128/2015». Sul punto cfr., altresì, A. FAZIO, L’interpello tributario nella prospettiva della responsabilità sociale d’impresa, in Dir. prat. trib., 2/2019,


Dottrina

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nell’attuale disciplina, quanto in quella previgente del c.d. ruling per le imprese con attività internazionale (3). Relativamente a quest’ultimo istituto, è opportuno rammentare che, all’in‑ terno del nostro ordinamento, era già prevista, dall’art. 8 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269 (conv. con modif. dalla legge 24 novembre 2003, n. 326), la pos‑ sibilità di stipulare accordi fra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria su determinate questioni concernenti per lo più elementi qualificatori e valuta‑ tivi in tema di operazioni cross-border (con particolare riferimento al transfer pricing). Tale norma, sebbene nella rubrica non utilizzasse espressamente il termine “accordi” (come fa oggi l’art. 31-ter), operava, però, al comma 2, un esplicito riferimento all’accordo «tra il competente ufficio dell’Agenzia delle entrate e il contribuente» e disciplinava il vincolo che da esso nasceva per il periodo d’imposta nel corso del quale l’accordo era stipulato e per i due perio‑ di d’imposta successivi. Il nuovo istituto degli accordi preventivi, regolato dal richiamato art. 31-ter del DPR n. 600/73, detta però una nuova disciplina che sostituisce ed integra quella del c.d. ruling internazionale e, secondo quanto espressamente previsto dal comma 7, ogni riferimento, ovunque presente, alla previgente disciplina contenuta nel richiamato articolo 8, deve oggi intendersi “effettuato” al nuovo istituto. Dunque gli accordi preventivi sostituiscono ed integrano ad ogni effetto il previgente istituto del ruling internazionale. Ciò impone – sebbene non sia scopo specifico del presente scritto l’analisi della disciplina e della procedura degli accordi preventivi (analisi, già svolta

542 ss., il quale osserva che «sono diverse le ragioni per concludere nel senso che gli accordi preventivi vadano identificati quale “genus”, seppur particolare, dei tradizionali interpelli: si pone la medesima esigenza di tutela dell’affidamento del contribuente; l’Amministrazione finanziaria “condivide” una soluzione interpretativa con il contribuente dotata di un sufficiente grado di stabilità futura; il fine ultimo è quello di conferire certezza all’attuazione dei rapporti obbligatori d’imposta». Riconnette gli accordi preventivi alla tematica degli interpelli anche M. Grandinetti, Gli accordi preventivi per le imprese con attività internazionale, in Rass. Trib., 3/2017, 600 ss. L’istituto degli interpelli, sotto il profilo monografico, è stato ampiamente trattato da F. Pistolesi, Gli interpelli tributari, Milano, 2007. (3) Il tema dei rapporti fra il ruling internazionale e gli interpelli è stato specificamente affrontato da F. Pistolesi, Gli interpelli, cit. 111 ss., il quale ha rilevato che, sebbene entrambi presentassero una «funzione essenziale», consistente nel «conferire certezza ai rapporti impositivi» e, sebbene vi potessero essere dei temi comuni che avrebbero potuto lasciar propendere per una “sovrapposizione” fra i due istituti, lo scopo degli stessi rimaneva sostanzialmente diverso. L’A., però (ivi, p. 113), non escludeva che su una vicenda che poteva formare oggetto di ruling internazionale si potesse attivare il procedimento di interpello ordinario.


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da altri commentatori, ai quali rimandiamo (4)) – quantomeno una disamina degli aspetti innovativi e modificativi dell’attuale disciplina rispetto alla pre‑ cedente (5). In primo luogo, il ruling internazionale non era alternativo all’interpel‑ lo, non operava cioè alcuna preclusione a chiedere l’interpello anche sulle materie assoggettate a ruling (6). Oggi, invece, l’art. 11, comma 1, lett. a), dello Statuto prevede che l’interpello ordinario (sia esso qualificatorio o puro) non può essere richiesto ove sia possibile accedere alla procedura dell’ac‑ cordo preventivo. Dunque, sulle materie previste dall’art. 31-ter non è possi‑ bile richiedere un parere all’amministrazione, ma esse, possono soltanto (ed eventualmente, poiché ovviamente la richiesta di accordo preventivo non è obbligatoria) formare oggetto di accordo. Tale aspetto sarà di seguito appro‑ fondito, ma già adesso possiamo dire che esso è certamente sintomatico di una precisa scelta di campo del nostro legislatore, il quale ha voluto evitare che sulle materie che formano oggetto di accordo preventivo sia la sola Ammini‑ strazione finanziaria ad esprimere un parere, comunque non vincolante per il contribuente, ma vuol far sì, invece, che nelle suddette materie: i) si instauri un effettivo contraddittorio (che scaturisce dalla diversa e più coinvolgente procedura degli accordi preventivi rispetto agli interpelli); ii) vi sia un accordo che vincola entrambe le parti. Ciò induce, se non altro, a ritenere che l’aspetto della compliance sia maggiormente accentuato nell’istituto degli accordi pre‑ ventivi che in quello degli interpelli. Il secondo profilo di innovazione rispetto alla disciplina del ruling inter‑ nazionale è l’ampliamento del campo di operatività degli accordi, i quali si estendono oggi a due fattispecie non contenute nella disciplina del vecchio ruling: i) quella dell’attribuzione di utili e perdite ad una stabile organizzazio‑ ne, sia in relazione a soggetti residenti nel territorio dello Stato che abbiano

(4) Si vedano gli autori già citati alla nota 2, nonché D. Conte, Imposizione fiscale e nuovi accordi per le imprese con attività internazionale, in Riv. dir. trib., 2016, 681. (5) Sul punto si veda M. Grandinetti, Gli accordi preventivi, cit., loco cit. (6) Osservava, però, F. Pistolesi, op. e loco ult. cit., che, sebbene non vi fosse una preclusione normativa, non vi era compatibilità fra l’interpello speciale, l’interpello ordinario di cui agli artt. 167 e 168 del DPR n. 917/86 (occorre ricordare che il contributo dell’A. è anteriore al riordino della disciplina degli interpelli, sostanzialmente confluita oggi nell’art. 11 della legge n. 212/2000) ed il ruling internazionale, sostenendo che qualora fosse stata presentata una domanda per l’accesso al ruling internazionale in ordine ad una questione che avrebbe dovuto formare oggetto di interpello (ordinario, speciale o di disapplicazione ai sensi dell’art. 37-bis), l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto dichiararne l’inammissibilità.


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stabile organizzazione all’estero, sia in relazione ai non residenti con stabile organizzazione in Italia; ii) quella della valutazione dei valori in ingresso e in uscita in caso di trasferimento della residenza ai sensi degli artt. 166 e 166-bis T.U.I.R. Terzo profilo innovativo degli accordi preventivi è il c.d. roll-back e cioè la possibilità che, ricorrendo determinate condizioni, l’accordo preventivo possa retroagire anche a periodi d’imposta antecedenti la stipula dello stesso «purché non anteriori al periodo d’imposta in corso alla data di presentazio‑ ne della relativa istanza da parte del contribuente» (così l’art. 31-ter, comma 2 (7)) (8). Infine, l’ultimo aspetto innovativo, ma probabilmente quello più significa‑ tivo, è la circostanza che la norma in tema di accordi preventivi (l’art. 31-ter), a differenza dell’art. 8 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269 (e cioè la norma che disciplinava il ruling internazionale), è inserita nel decreto riguardante l’ac‑ certamento delle imposte dirette (il DPR n. 600/73). Collocazione sistematica che, ovviamente, deve avere una precisa ragion d’essere, se non addirittura influire sulla stessa natura giuridica degli accordi. Riservandoci di approfondire successivamente tale ultimo aspetto, va det‑ to in questa sede che la specifica collocazione sistematica della norma ne ha non poco influenzato il campo di concreta operatività, poiché ci si è chiesti se gli accordi in questione, essendo per l’appunto regolati da una norma del decreto in tema di accertamento delle imposte sui redditi, possano estendersi

(7) Occorre osservare, con riferimento alla disposizione indicata nel testo, una certa distonia con la previsione contenuta al punto 4.1. del decreto direttoriale di attuazione della procedura (provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, n. 42295 del 21 marzo 2016), laddove è previsto che la stessa debba concludersi entro 180 giorni, rendendo così di fatto pressoché inutile l’effetto di roll-back. In realtà, come osservato in dottrina (cfr. G. Zizzo, Accordi preventivi, cit., loco cit., nota 8) «nel documento che raggruppa i dati statistici degli APA nell’Unione Europea alla fine del 2017, pubblicato dall’EU Joint Transfer Pricing Forum, risulta che in Italia queste procedure hanno avuto una durata media superiore ai quattro anni». È da ritenere, pertanto che se, da un canto, la previsione di sei mesi per la durata complessiva della procedura è eccessivamente ottimistica (soprattutto ove si tenga conto della complessità della stessa), dall’altro tale previsione temporale difficilmente sarà rispettata. L’utilità dell’effetto roll-back, dunque, non dovrebbe essere in discussione. (8) Il comma 3 dell’art. 31-ter prevede, poi, che, qualora le circostanze di fatto e di diritto a base dell’accordo ricorrano per uno o più dei periodi di imposta precedenti alla stipula (ma comunque non anteriori a quello in corso alla data di presentazione dell’istanza) è concessa al contribuente la facoltà di far valere retroattivamente l’accordo stesso, provvedendo, ove si renda a tal fine necessario rettificare il comportamento adottato, all’effettuazione del ravvedimento operoso senza l’applicazione delle relative sanzioni.


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anche a tributi indiretti e, in particolar modo, all’IVA. Problema, questo, con‑ siderato di rilevante importanza sotto il profilo dell’appeal dell’istituto. È sta‑ to sottolineato, infatti, che, ove si dovesse ritenere che gli accordi preventivi non riguardino l’IVA, non soltanto ne risulterebbe mortificata l’ampiezza sot‑ to il profilo delle materie oggetto di analisi, ma ne risulterebbe altresì ridotta una delle ragioni di attrazione, e cioè il limite, gravante sull’Amministrazione finanziaria, alla possibilità di verifica (9). Il comma 5 dell’art. 31-ter, infatti, prevede che, per i periodi d’imposta di validità dell’accordo, l’Amministra‑ zione finanziaria «esercita i poteri di cui agli articoli 32 e seguenti soltanto in relazione a questioni diverse da quelle oggetto dell’accordo medesimo». Pertanto l’attività di controllo è preclusa sulle questioni che formano oggetto dell’accordo e, qualora gli effetti dello stesso dovessero confinarsi esclusiva‑ mente alle imposte sui redditi, ne conseguirebbe che l’Amministrazione non potrebbe effettuare attività di controllo con riguardo ad una materia (oggetto di accordo) ai fini del reddito, ma potrebbe effettuarla ai fini IVA. Il che vani‑ ficherebbe, almeno parzialmente, l’utilità dell’accordo. Stante la rilevanza della questione, ci sembra necessario un minimo di approfondimento. 2. Il problema della estensibilità degli effetti dell’accordo all’IVA. Le questioni “direttamente” collegate all’oggetto di accordo e quelle “indirettamente” collegate allo stesso. Il tema della stabile organizzazione ai fini IVA. – Intanto va detto che il problema dell’estensibilità della portata applicativa degli accordi non sembra porsi con riguardo all’IRAP. Nella relazione illustra‑ tiva alla disciplina, è stato (anche) sottolineato che l’ambito di applicazione degli accordi preventivi può essere esteso all’IRAP (ma nulla è detto riguardo all’IVA). D’altro canto, la disciplina dell’IRAP prevede già all’art. 25, comma 1, un esplicito rinvio al DPR n. 600/1973 per le attività di controllo e accer‑ tamento del tributo. Dunque l’effetto giuridico della preclusione all’attività di controllo sulle materie oggetto di accordo, riguardando i poteri di cui agli artt. 32 e segg. dello stesso decreto, dovrebbe pacificamente estendersi anche all’IRAP. Quanto all’IVA, invece, occorre comprendere cosa si intende quando si ipotizza di “estendere” gli effetti dell’accordo anche a questo tributo. La pre‑ clusione all’attività di accertamento, secondo l’indicazione normativa, riguar‑

(9)

Cfr. M. Grandinetti, op. e loco cit.


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da le questioni oggetto di accordo (invero, la norma opera all’inverso, consen‑ tendo le attività di accertamento sulle questioni che non formano oggetto di accordo) e dunque ci sembra evidente che, se si vuole ipotizzare una “esten‑ sione” degli effetti dell’accordo a problematiche concernenti l’IVA, occorre distinguere quelle che siano collegabili direttamente alle questioni che posso‑ no formare oggetto dell’accordo da quelle per le quali, invece, il collegamento è solo indiretto. Ci sembra dunque, che, almeno in prima battuta, il problema stia tutto nel comprendere quanto possa essere intenso o labile il collegamento fra le questioni che formano oggetto di accordo e le connesse problematiche in tema di IVA. In altri termini, laddove si discuta della qualificazione di un componente reddituale che possa assumere rilevanza anche ai fini IVA, saremmo in pre‑ senza di un collegamento “diretto” fra la questione oggetto dell’accordo e la problematica concernente l’IVA. In questo caso, difficilmente si potrebbe sostenere che la qualificazione del componente reddituale rileva ai fini delle imposte dirette, ma non i fini IVA (10). Meno ovvia appare, invece, la conclu‑ sione laddove si discuta di questioni in cui il collegamento con la disciplina dell’IVA non è diretto. Il tipico esempio è quello della sussistenza dei requisiti per poter configurare una stabile organizzazione. Si tratta di una materia che forma specifico oggetto degli accordi, poiché l’art. 31-ter, comma 1, lett. c), riguarda proprio la valutazione preventiva della sussistenza o meno dei re‑

(10) Cfr., in tal senso, M. Grandinetti, op. cit., il quale rileva che, se in base all’accordo un determinato componente reddituale viene configurato come interesse, esente IVA, tale qualificazione dovrebbe estendersi, de jure, alla disciplina Iva. Analogamente, nel caso in cui l’accordo qualifichi il provento come royalty, che – se sussiste il profilo della territorialità – è rilevante ai fini IVA, la stessa qualificazione dovrebbe pacificamente valere per tale tributo. Va detto, peraltro, che il comma 1, lett. d), dell’art. 31-ter, prevede, quale questione che può formare oggetto di accordo, quella relativa all’applicazione ad un caso concreto di norme, anche di origine convenzionale, concernenti, non soltanto l’erogazione o la percezione di dividendi, interessi e royalties, ma anche di «altri componenti reddituali a o da soggetti non residenti». Pertanto, non sembrano identificabili a priori tutte le questioni concernenti la qualificazione di componenti reddituali che possano altresì rilevare direttamente ai fini IVA (si pensi, alla qualificazione di un componente, come corrispettivo, come costo, ecc.). Sul punto occorre ricordare che Assonime, con la circolare dell’1 aprile 2016, n. 10, ha chiarito che l’ambito applicativo della procedura di cui all’art. 31-ter del DPR n. 600/73 può estendersi, in via interpretativa, a tutte le fattispecie concernenti componenti del reddito d’impresa a carattere transnazionale.


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quisiti che configurano una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato (11). Certamente l’argomento necessiterebbe di maggiore approfondimento (non compatibile tuttavia con le finalità del presente scritto), ma ai fini della nostra analisi è sufficiente osservare che la possibilità di configurare una sta‑ bile organizzazione nel territorio dello Stato richiede una diversa valutazione a seconda che si faccia riferimento alle II. DD. o all’IVA. Valutazione che è diversa perché diversi sono gli elementi da considerare. Ai fini delle II. DD. il nostro ordinamento ha recepito taluni input provenienti dall’OCSE (ed in particolar modo dall’Action 7 BEPS) che hanno dequalificato l’aspetto della necessaria presenza “fisica” nel territorio dello Stato ai fini della configura‑ zione di una stabile organizzazione (sebbene non sia, invece, venuto meno quell’altro aspetto, probabilmente ancor più rilevante, che ricollega l’esisten‑ za della stabile organizzazione alle “funzioni” svolte dalla stessa). Oggi l’art. 162 (comma 2, lett. f-bis) TUIR utilizza l’equivoca formula della «significa‑ tiva e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenza fisica nel territorio stesso», ponendo non pochi problemi circa l’individuazione dei “parametri” e dei limi‑ ti quantitativi che devono sussistere affinché la «presenza economica» possa essere considerata «significativa» e «continuativa» (12). Non possiamo, d’al‑ tro canto, non ricordare che in ambito unionale esiste una proposta di direttiva [COM(2018) 147 final] sul tema della tassazione “a regime” delle imprese del comportato della digital economy (13) che smaterializza ancor di più la tradizionale fisicità (nel senso di una necessaria presenza fisica nel territo‑ rio di uno Stato) della stabile organizzazione, definendo i concetti di «servizi digitali» ed «interfaccia digitale» e sostanzialmente identificando una nuova nozione di stabile organizzazione che si basa sulla c.d. digital presence, o «presenza digitale significativa», ove l’“elemento umano” sembra evaporare,

(11) Cfr. A. Lovisolo, La stabile organizzazione, in V. Uckmar (a cura di), Diritto Tributario Internazionale, Padova, 2005, pag. 500 ss.; F. Papotti, Stabile organizzazione: dogmi, gregari e rivoluzionari, in Corr. Trib., 21 / 2018, 1676. Affronta specificamente il tema dell’estensibilità degli accordi preventivi alla stabile organizzazione ai fini IVA M. Grandinetti, op. e loco cit. (12) Sul tema si veda D. Avolio, La nuova definizione di stabile organizzazione, in Corr. trib., n. 4/2018, 265. (13) Sul punto A. Uricchio - W. Spinapolice, La corsa ad ostacoli della web taxation, in Rass. trib., n. 3/2018, 451 ss.


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atteso che per la configurazione della stabile organizzazione digitale è richie‑ sto un «intervento umano minimo». Se tale proposta di direttiva dovesse esse‑ re approvata, anche nel nostro ordinamento dovremo recepire, quanto meno ai fini della tassazione del reddito, un concetto di stabile organizzazione (quella “digitale” per l’appunto) che, ancor più di quello basato sulla significativa e continuativa presenza economica, prescinde dal collegamento territoriale con lo Stato della fonte. Se il requisito della “fisicità” (nel senso sopra definito) non rileva neces‑ sariamente per la configurazione di una stabile organizzazione ai fini delle II.DD., esso, invece, continua ad assumere importanza ai fini IVA, ove, anche sulla scorta del contributo dato dalla Corte di Giustizia, è comunque richie‑ sta una presenza permanente dei mezzi umani e tecnici necessari per fornire le operazioni che rilevano ai fini del tributo (14). D’altro canto l’art. 11 del Regolamento di esecuzione (UE) n. 282/2011, in attuazione dell’articolo 44 della Direttiva 2006/112/CE, prevede che ai fini IVA la stabile organizzazione designa qualsiasi organizzazione, diversa dalla sede dell’attività economica, «caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici atti a consentirle di ricevere e di utilizzare i servizi che le sono forniti per le esigenze proprie di detta organizzazione». Dunque il requisito della fisicità, della presenza nel territorio dello Stato e della presenza umana, continuano ad assumere rilievo per la qualificazione di una stabile organizzazione ai fini IVA. D’altro canto, se ai fini delle II. DD. il ruolo della stabile organizzazione è quello di consentire l’individuazione dello Stato (della fonte) ove il reddito debba essere tassato, ai fini IVA l’isti‑ tuto rileva più che altro allo scopo di «individuare il luogo di rilevanza terri‑ toriale delle operazioni e [...] determinare su chi grava l’obbligo di debenza dell’imposta» (15). È quindi diversa, non soltanto la consistenza, ma anche la funzione che l’istituto della stabile organizzazione svolge ai fini delle imposte dirette ed ai fini IVA. Ciò posto, atteso che l’art. 31-ter, non soltanto (come già detto) è collo‑ cato nel decreto relativo all’accertamento delle imposte sui redditi, ma opera altresì un espresso richiamo all’art. 162 TUIR (16) (e quindi al concetto, alla

(14) Cfr. F. Papotti, op. e loco cit. Sul punto cfr. altresì M. Grandinetti, op e loco cit. (15) Così F. Papotti, op. e loco cit. (16) L’art. 31-ter, comma 1, lett. c), prevede espressamente che può formare oggetto di accordo la « [c)] valutazione preventiva della sussistenza o meno dei requisiti che configurano una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato, tenuti presenti i criteri previsti


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funzione ed ai limiti della stabile organizzazione ai fini delle imposte dirette), dovrebbe ragionevolmente concludersi che la questione oggetto di accordo può essere esclusivamente quella relativa alla valutazione dei requisiti di sus‑ sistenza di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato ai fini delle imposte dirette, ma non anche ai fini IVA. È però anche vero che le materie (oggetto di accordo) espressamente elencate nell’art. 31-ter non costituiscono un numerus clausus, in quanto la norma prevede che l’accesso alla procedu‑ ra finalizzata alla stipula di accordi preventivi è consentito «con principale riferimento» agli ambiti espressamente indicati, non precludendo – pertanto – una possibile estensione anche ad ambiti diversi. Dunque, a rigore, non si potrebbe aprioristicamente escludere l’accesso alla procedura anche con rife‑ rimento a questioni che sono soltanto indirettamente collegate alle materie che formano oggetto di accordo. Sia chiaro che, quanto al problema della stabile organizzazione ai fini IVA, ipotizzare l’estensibilità dell’accordo non signifi‑ ca affatto ammettere che, laddove sia riconosciuta l’esistenza di una stabile organizzazione ai fini delle imposte dirette, essa opererà automaticamente an‑ che per l’IVA. Non si può, infatti, conferire – tramite accordo – una specifica qualificazione giuridica a qualcosa che quella qualificazione non possiede. Ipotizzare l’estensibilità dell’accordo significa, invece, ammettere che, in sede di contraddittorio con l’Ufficio, si possa anche “discutere” della sussistenza o meno di una stabile organizzazione ai fini IVA e quindi discutere se sussistano o meno i requisiti per la configurazione dell’istituto nel campo di quel tributo specifico. Parte della dottrina (17) ha ritenuto possibile l’estensibilità dell’ac‑ cordo anche al tema della stabile organizzazione ai fini IVA, giustificando tale estensione proprio nella logica di non mortificare l’appeal dell’istituto degli accordi preventivi. La conclusione, in termini di ragionevolezza, può essere condivisibile, ma riteniamo che una risposta più articolata possa essere data dopo aver analizza‑ to la questione dell’inquadramento sistematico e della natura giuridica degli accordi in questione.

dall’articolo 162 del testo unico delle imposte sui redditi approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, nonché dalle vigenti Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate all’Italia». (17) Cfr. M. Grandinetti, op e loco cit.


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3. La struttura ibrida degli accordi preventivi. – Il tema, come già detto, sembra inserirsi in quell’ampio dibattito dottrinario, esistente da molto tempo nella materia tributaria, che riguarda i rapporti fra autorità e consenso. L’attra‑ zione dell’istituto degli accordi preventivi a tale problematica, d’altro canto, appare evidente sol che si abbia riguardo alla relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo in tema di internazionalizzazione, ove si afferma che la collocazione dell’art. 31-ter all’interno del decreto in tema di accertamento delle imposte dirette (per l’esattezza nell’ambito del Titolo V) è coerente con la «natura degli accordi preventivi» che rappresentano «forme di esercizio consensuale e condiviso dei poteri di competenza dell’Agenzia delle entrate». Da ciò sembra che scaturiscano già due profili qualificatori. In primo luogo, gli accordi preventivi sono forme di esercizio dei poteri di “accertamento”, poiché non si vede cos’altro sarebbero i poteri di «competenza» dell’Agenzia se non, per l’appunto, poteri di accertamento. Viepiù, se si considera la collo‑ cazione sistematica della norma, ne risulta confermato che i poteri altro non sono se non quelli di cui al DPR n. 600/73, Titolo V. E d’altro canto occorre ricordare che il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, n. 42295 del 21 marzo 2016, di attuazione della procedura degli accordi preven‑ tivi, al punto 4.2., prevede espressamente che «nel corso del procedimento l’Ufficio potrà accedere presso le sedi di svolgimento dell’attività dell’impre‑ sa o della stabile organizzazione, nei tempi con questa concordati, allo scopo di prendere diretta cognizione di elementi utili ai fini istruttori» (18). Si tratta di un tipico potere di accesso dell’Agenzia che rientra a pieno titolo nei poteri di accertamento. In secondo luogo, gli accordi, sempre secondo la relazione illustrativa, sono forme di esercizio “consensuale” e “condiviso” di tali poteri. Già da queste prime indicazioni dovrebbe risultare pacifico che gli accordi si inseriscono a pieno titolo nel dibattito concernente i rapporti fra autorità e consenso nella materia tributaria (19). Ma tali indicazioni pongono altresì problematicamente la questione dell’accostamento fra gli accordi preventivi e gli “interpelli”, quanto meno nella misura in cui si ritenga che con l’interpello non si attuino veri e propri poteri di accertamento, ma si esplichi semmai una funzione chiarificatrice in

(18) Analoga disposizione, peraltro, era prevista in tema di ruling internazionale. (19) Sul punto, cfr. L. Del Federico; Autorità e consenso, cit., 155 ss., e bibliografia ivi citata, il quale osserva come la tematica dei rapporti fra autorità e consenso è stata estesa anche alla disciplina degli interpelli ed a quella del ruling internazionale.


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ordine a questioni controverse su casi concreti e specifici sollevati dai contri‑ buenti. Gli interpelli, in quest’ottica, sono sostanzialmente finalizzati a fornire certezza su questioni controverse e non all’esercizio di poteri di accertamen‑ to (20). Nel caso degli accordi preventivi, tuttavia, i due profili dell’esercizio dei poteri di accertamento e della funzione dirimente dell’incertezza su questioni specifiche e concrete (tipica degli interpelli) si intrecciano, in quanto, se da una canto, per le ragioni appena esposte, gli accordi comportano l’esercizio di poteri di accertamento, dall’altro sembra innegabile che gli stessi, esatta‑ mente come gli interpelli, hanno anche una funzione chiarificatrice in ordine a questioni controverse. Essi, poi, si mostrano altresì diversi rispetto ad altri istituti, ove pure viene in rilievo la tematica dell’accordo fra contribuente ed Amministrazione, quali l’accertamento con adesione o la conciliazione giudi‑ ziale (o anche la mediazione a seguito di reclamo), poiché in tali istituti, non soltanto è indubbio che i poteri di accertamento si siano concretizzati nell’e‑ missione di un atto di accertamento, che non esiste nel caso degli accordi pre‑ ventivi, ma ci pare altresì evidente che l’intervento del contribuente in quelle procedure ha anche una funzione difensiva, poiché egli tende a difendere la propria dichiarazione (che ha formato oggetto di accertamento) o, in assenza di dichiarazione, tende comunque a “difendere” la propria posizione rispetto all’atto di accertamento dell’Agenzia. Nel caso degli accordi, invece, in ra‑ gione della loro natura preventiva, il contribuente non difende alcunché (21),

(20) Sul punto sembra che la dottrina tributaria sia sostanzialmente concorde nel riconoscere che la funzione degli interpelli sia di carattere interpretativo e rivolta a salvaguardare la certezza del diritto. Cfr. F. Pistolesi, Gli interpelli, cit. 45 ss.; L. Del Frederico, Autorità e consenso, cit., 162 (ed ivi nota 17 per i riferimenti bibliografici); G. Marongiu, Rflessioni sul diritto di interpello, in Corr. trib., 2002, 1408 ss.; M. Logozzo, L’ignoranza della legge tributaria, Milano, 2002, 252; M. Miccinesi, L’interpello, in AA. VV., Lo statuto dei diritti del contribuente, a cura di G. Marongiu, Torino, 2004; A. Comelli, La disciplina dell’interpello: dall’art. 21 della L. 413/1991 allo Statuto dei diritti del contribuente, in Dir. prat. trib., 2001, I, 605 ss.; S. La Rosa, Principi di diritto tributario, IV ed., Torino, 2012, 289, il quale parla di «attività di indirizzo ed orientamento». Lo stesso S. La Rosa, Prime considerazioni sul diritto di interpello, oggi in Scritti scelti, Torino, 2011, Vol. II, 817, ebbe a parlare di attività di “certazione”, costitutiva di certezze legali sui fatti. (21) Osserva, a riguardo. G. Zizzo, Accordi preventivi, cit. che «la preventività, e quindi l’assenza di una posizione (in fatto o in diritto) espressa in dichiarazione da proteggere, consente [infatti] di liberare la partecipazione dell’impresa istante da ogni connotazione difensiva, e quindi assumerne la doverosità in funzione dell’obiettivo che la stessa ha fissato chiedendo di accedere alla procedura: la composizione di un quadro conoscitivo ritenuto adeguato da entrambe le parti del rapporto tributario alla definizione di un determinato presupposto


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ma – al più – collabora con l’Amministrazione nella definizione e qualifica‑ zione di determinate fattispecie. Il che indurrebbe a ritenere che gli accordi preventivi presentino una struttura assimilabile alle forme di contraddittorio endoprocedimentale, quanto meno nella misura in cui si ritiene che in esso il ruolo del contribuente sia più di collaborazione con l’Amministrazione nella determinazione della fattispecie, che non un ruolo prettamente difensivo (22). Ne vien fuori, a nostro modo di vedere, un ibridismo: sotto il profilo dell’inquadramento sistematico, per le ragioni appena esposte, sembrerebbe che gli accordi preventivi abbiano più aspetti in comune con le forme di con‑ traddittorio endoprocedimentale (restando – però – chiaro che, nel caso degli accordi, non vi è la formazione di alcun atto di accertamento) che non con gli interpelli (23); sotto il profilo funzionale, data la propensione a dirimere l’incertezza su questioni applicative o interpretative particolarmente comples‑ se (ed aventi per oggetto operazioni cross-border), essi, invece, potrebbero anche essere accostati agli interpelli (24). 4. L’inquadramento sistematico e la natura giuridica degli accordi preventivi nell’ottica della dottrina dominante. – La dottrina tributaria prevalen‑ te, anche sulla scorta delle indicazioni contenute nella relazione illustrativa al provvedimento di legge (25), è incline a classificare gli accordi preventivi fra le forme consensuali di imposizione tributaria. Da un canto si è osserva‑ to che l’interesse tutelato e la funzione esercitata dall’Amministrazione non sarebbero ontologicamente diversi dall’interesse e dalla funzione che vengo‑

impositivo e/o di una soluzione interpretativa». Da ciò l’A. lascia conseguire la considerazione che gli accordi preventivi siano «atti espressivi della funzione impositiva dell’Ufficio». (22) Sul tema sia consentito il richiamo ad A. Perrone, Dalla Corte costituzionale una possibile soluzione alla tormentata questione del contraddittorio endoprocedimentale tributario, in Dir. prat. trib., n. 3/2017, I, 921 ss. e bibliografia ivi citata. (23) Il tema delle differenze fra interpelli ed accordi, sebbene con riguardo alla disciplina del ruling internazionale è stato ampiamente approfondito da F. Pistolesi, Gli interpelli, cit., 111 ss. (24) Di natura “ibrida” dell’istituto degli accordi preventivi, sebbene in maniera diversa rispetto a quella prospettata nel testo, parla anche A. Fazio, op. e loco cit. il quale osserva che «il Legislatore ha voluto confermare, in linea con le previgenti disposizioni in tema di ruling internazionale, la natura “ibrida” degli accordi preventivi, nella misura in cui è stata utilizzata la locuzione “accordo” per individuare l’atto conclusivo della relativa procedura». (25) Che, come detto, qualifica gli accordi come «forme di esercizio consensuale e condiviso dei poteri di competenza dell’Agenzia delle entrate».


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no in gioco nelle forme di esercizio unilaterale dell’attività autoritativa (26); dall’altro è stato osservato che gli accordi preventivi sposterebbero la fase accertativa e di controllo ad un momento anteriore alla presentazione del‑ la dichiarazione (27). Si è parlato, in quest’ottica, di forme “consensuali” di esercizio della funzione accertativa in cui la partecipazione del contribuente ed il suo consenso avrebbero l’obiettivo di rendere maggiormente efficien‑ te e certa la determinazione del presupposto impositivo, e/o una determinata soluzione interpretativa, rispetto a quanto non avviene con il classico mecca‑ nismo di dichiarazione sottoposta a controllo unilaterale da parte dell’ammi‑ nistrazione (28). La dottrina maggioritaria, dunque, tende a svalutare l’aspetto “negoziale” (indubbiamente insito nel termine “accordo”) e, per altro verso, la funzione “dispositiva” degli accordi, qualificandoli invece come atti aven‑ ti una finalità meramente dichiarativa, e quindi sostanzialmente applicativa delle disposizioni normative che regolano le materie oggetto di accordo (29). Non è mancato, invero, chi – seppur con gradazioni abbastanza diverse – ne ha di contro esaltato l’aspetto negoziale. Ciò, in realtà, è accaduto so‑

(26) Osserva, a riguardo, M. Basilavecchia, Corso di diritto tributario, Torino, 2017, 350, che «la determinazione concordata [cioè] non è prevista per raggiungere risultati diversi da quelli perseguibili con gli schemi classici e con l’azione autoritativa unilaterale». (27) Di «determinazione consensuale e preventiva del tributo» parla D. Conte, Imposizione fiscale, cit., 681, la quale ritiene altresì che la scelta di collocare l’art. 31-ter fra le disposizioni in materia di accertamento sarebbe espressiva di una tendenza a sostituire la classica forma di controllo ex post (considerato momento eventuale e patologico) con «nuove forme di interlocuzione avanzata tese ad esplicitare (ex ante) la pretesa erariale attraverso modelli consensuali e partecipativi» (ivi, 680, e nota 8, altresì per il riferimento alla stessa D. Conte, Il gene mutante del ravvedimento operoso ed i suoi effetti sul nuovo modello di attuazione del prelievo, in Riv. dir. trib., n. 5, 2015, 458 ss.). (28) In tal senso G. Zizzo, op. e loco cit., osserva che «consenso e condivisione attengono al concorso di entrambe le parti alla composizione di un quadro conoscitivo ritenuto adeguato e alla convergenza di entrambe sulla ricostruzione di un determinato presupposto impositivo e/o di una determinata soluzione interpretativa». Il profilo dell’efficienza è messo in risalto da M. Basilavecchia, op. e loco cit., il quale osserva che l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa possono essere perseguite meglio attraverso un consenso. (29) In tal senso G. Zizzo, op e loco ult. cit.; G. Melis, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2016, 407, il quale osserva che l’accordo «non va inteso come avente natura ed efficacia negoziale, bensì meramente dichiarativa, in quanto frutto della corretta identificazione dei valori di trasferimento, delle norme operanti e dei relativi effetti, in ossequio alle vigenti disposizioni normative»; M. Grandinetti, Gli accordi preventivi, cit., il quale sostiene che la natura interpretativa-dichiarativa degli accordi preventivi possa essere desunta da diversi profili della relativa disciplina (fattispecie che formano oggetto di accordo; dipendenza della stabilità dell’accordo dal non mutamento delle condizioni di fatto e di diritto; possibilità di


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prattutto con riferimento alla disciplina del ruling internazionale che, come detto, prevedeva anch’esso uno specifico accordo fra Amministrazione e con‑ tribuente. Proprio l’enfatizzazione del profilo di manifestazione della volontà, ritenuto tipico dell’accordo, aveva indotto parte della dottrina, da un canto, ad attribuire peso decisivo all’aspetto negoziale del ruling, rilevando che «[pro‑ prio] l’intesa negoziale è il connotato qualificante del nuovo istituto, che si distingue, dunque, dalle forme anteriori di ruling caratterizzate da un responso unilaterale della Pubblica Amministrazione» (30), e dall’altro a studiare quali dei profili civilistici del contratto fossero applicabili al ruling internazionale. Invero, come acutamente rilevato in dottrina, il panorama delle ricostru‑ zioni sistematiche di quest’ultimo istituto era abbastanza variegato e ricondu‑ cibile quanto meno a tre diverse impostazioni (31). La prima dequalificava il consenso a mera «conformità di opinioni inter‑ pretative fra Fisco e contribuente» in nulla assimilabili a manifestazioni di volontà, che – in quanto tali – avrebbero comportato un potere di disponibilità (negoziale), che si è ritenuto non ravvisabile in capo all’Amministrazione (32). La ricerca del consenso, in questa prospettiva, pur prevista dalla norma, non assumeva rilievo nel procedimento e nella decisione dell’Amministrazione. Il procedimento, dunque, si sarebbe sviluppato all’interno dell’Amministrazione

non realizzare l’operazione che ha formato oggetto di accordo anche dopo la stipula dello stesso, ecc.). Sul punto A. Fazio, op. e loco cit., osserva che «nel caso degli accordi preventivi […] alla sopradetta determinazione unilaterale si sostituisce l’“accordo”, il quale, tuttavia, non ha natura negoziale, ma natura dichiarativa perché rappresenta il punto di arrivo di una ricostruzione di elementi fattuali da cui dipende l’applicazione delle disposizioni vigenti in materie che presentano profili di transnazionalità» e conclude che «pertanto, i tradizionali interpelli potrebbero essere collocati nell’ambito dei modelli di definizione “autoritativa” del tributo, mentre, nel caso degli accordi preventivi non si è in errore affermando che tale istituto possa essere ricondotto nell’alveo dei modelli di definizione consensuale del tributo». Sul punto si veda altresì D. Conte, imposizione fiscale, cit., loco ult. cit. (30) Così G. Gaffuri, Il ruling internazionale, in Rass. Trib., 2/2004, 488 ss. Aggiunge l’A. che «Il nucleo pattizio assume, perciò, una notevole pregnanza, poiché diversifica in radice il nuovo istituto dall’attività consultiva della Pubblica Amministrazione finanziaria svolta, con variegata efficacia precettiva, nelle ipotesi contemplate dalla legge; e determina la sorte del ruling internazionale, per gli aspetti non diversamente disciplinati». (31) Cfr. L. Del Federico, Autorità e consenso nella disciplina degli interpelli fiscali, in Profili autoritativi, cit., 162 e 164 ss. (32) Osserva, a riguardo, L. Del Federico, Autorità e consenso, cit., 165, che «una prima tesi si basa su una concezione debole, ed in definitiva, meramente descrittiva, del consenso, inteso come conformità di opinioni interpretative fra Fisco e contribuente (giammai come conformità di volontà, in quanto l’Amministrazione non può disporre)».


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e si sarebbe chiuso con la decisione della stessa alla quale il contribuente (che, invece, ha piena facoltà di disporre) avrebbe prestato il proprio consenso (33). La seconda impostazione, di contro, attribuiva maggior rilievo al consen‑ so, senza però giungere a prospettare soluzioni negoziali, poiché ribadiva che, in ogni caso, gli effetti della fattispecie non scaturivano dalla volontà delle parti, ma erano pur sempre predeterminati dalla legge. Il consenso, pertanto, veniva visto come il punto di incontro delle rispettive dichiarazioni del Fisco e del contribuente a seguito di un progressivo ravvicinamento delle rispettive posizioni interpretative e qualificatorie, senza che in ciò potessero ravvisarsi concessioni reciproche o atti di disposizione (34).

(33) Aderiva a questa tesi L. Del Federico, Autorità e consenso, cit., 166. In tal senso si veda anche F. Pistolesi, Gli interpelli, cit.,107-108, il quale osservava, in primo luogo, che la circostanza che il ruling prevedesse un accordo «non autorizza […] ad affermare che l’Agenzia delle Entrate possa perfezionare questa intesa facendo leva su valutazioni discrezionali e di opportunità. Lo impediscono il principio di legalità ed il canone dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, che non vi è motivo di ritenere contraddetti a traditi dall’istituto retto dall’art. 8 cit.», ed in secondo luogo che l’accordo non è da intendersi come atto di disposizione del rapporto impositivo, ma l’intesa sulle questioni controverse è compiuta congiuntamente da Fisco e contribuente ed essa «non riveste natura ed efficacia negoziale, ma meramente dichiarativa». I due autori divergevano, però, sulla possibilità di applicare alla materia del ruling internazionale la legge n. 241/1990. Sul punto osservava L. Del Federico (Autorità cit., 169-170) che il ruling internazionale è certamente un «accordo pubblico (sia pure con funzione di mero accertamento)» e pertanto riteneva praticabile l’integrazione analogica con l’art. 11 della legge n. 241/90. A ciò non si sarebbe opposta la previsione di cui all’art. 13, comma 2, della stessa legge (che rende inapplicabili alla materia tributaria le disposizioni del capo III, in cui si trova, per l’appunto, l’art. 11), in quanto l’esclusione riguarda l’applicazione diretta «ma non può certo precludere l’analogia». Peraltro, osservava l’A., l’accordo è istituto di diritto sostanziale, per sua natura non interessato dalle norme sul procedimento tributario. Di contro, osservava F. Pistolesi (Gli interpelli, cit., 107-108) che le norme concernenti gli «accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento», di cui all’art. 11 della legge n. 241/1990 (come modificato dagli artt. 7 e 21 della legge n. 15/2005) non si applicano al settore tributario proprio per effetto del richiamato art. 13, comma 2, l. 241/1990. (34) È questa la posizione di M.T. Moscatelli, Moduli consensuali e istituti negoziali, cit., 146, 211, ove l’Autrice specifica che «nel modulo consensuale alla volontà non è dato predisporre un autonomo regolamento di interessi» e che «all’esito della procedura collaborativa ed a seguito dello scambio di reciproche successive dichiarazioni, l’amministrazione ed il contribuente addivengono, da determinazioni qualitative e quantitative del presupposto distinte tra loro, ad un progressivo avvicinamento delle rispettive posizioni» precisando, però, che questo ravvicinamento non è frutto di reciproche concessioni «né, più in generale di atti dispositivi, quanto piuttosto di una graduale soluzione dei profili di incertezza alla luce del contenuto delle dichiarazioni delle parti». Osserva tuttavia L. Del Federico, Autorità e consenso, cit., 166, che la circostanza che venga mantenuta ferma la matrice legale dell’istituto del ruling impedisce di configurare il consenso (in particolare quello dell’Amministrazione)


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Infine, la terza impostazione era quella che ha attribuito un decisivo ri‑ lievo alla matrice consensualistica dell’accordo, ravvisando nello stesso una funzione dispositiva di tipo negoziale in luogo di quella interpretativa e di‑ chiarativa (35). Se questo era il panorama delle interpretazioni dottrinarie nella vigenza del ruling internazionale, sembra che esso possa oggi, almeno parzialmente, ribaltarsi sul nuovo istituto degli accordi preventivi. Di fatti, a fronte della già analizzata prospettazione (invero maggioritaria) che svaluta il profilo nego‑ ziale degli accordi per esaltarne, di contro, la natura dichiarativa, si colloca un diverso indirizzo che enfatizza la circostanza che il termine “accordo” sia stato inserito questa volta nella rubrica della norma (dell’art. 31-ter del DPR n. 600/73) e tale circostanza paleserebbe l’intento del nostro legislatore di at‑ tribuire una natura più spiccatamente transattiva al nuovo istituto (36). Prima di formulare nostre osservazioni sulla questione concernente l’in‑ quadramento sistematico e la natura giuridica degli accordi preventivi, ci sembra opportuno evidenziare come la tesi della dottrina dominante, concer‑ nente la funzione sostanzialmente impositiva – o meglio “consensualmente impositiva” – dell’istituto impone quantomeno una riflessione che tenga conto

come forma di autoregolamentazione dei propri interessi che, però, «costituisce il nucleo della teoria generale del consenso». Per cui, osserva l’A., «inteso in tal modo il consenso non riesce a caratterizzare in modo qualificante l’istituto dell’interpello, alla cui disciplina risulta altresì estranea quella dialettica collaborativa che dovrebbe favorire il “progressivo avvicinamento delle rispettive posizioni”». (35) Hanno sostenuto tale soluzione, seppur con argomentazioni diversamente articolate, G. Gaffuri, op. e loco cit.; F. Crovato, Gli accordi preventivi nella determinazione del reddito imponibile, Padova, 2005, 204; P. Adonnino, Considerazioni in tema di ruling internazionale, in Riv. dir. trib., 2004, IV, 69 ss. il quale ha parlato di un atto bilaterale a possibile contenuto transattivo limitato «concluso dopo una fase di controllo ed estraneo a manifestazioni autoritative dell’Amministrazione»; L. Tosi, Il ruling: tra natura negoziale e principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Dialoghi dir. trib., 2004, 495 ss., il quale riteneva di poter configurare nel ruling internazionale una «negoziazione sull’an e sul quantum dell’obbligazione tributaria», parlando di una vera e propria «trattativa alla stregua non solo di un criterio di legalità, ma, verosimilmente, anche di un criterio di opportunità», non mancando di rilevare, però, che il ruling non poteva derogare al criterio di eguaglianza sostanziale dell’imposizione e che l’Amministrazione è pur sempre vincolata al criterio dell’imparzialità; M. Versiglioni, Interpello, in AA.VV., Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, vol. IV, Milano, 2006, 3177 ss. , il quale, nella vigenza del ruling internazionale, ha sostenuto la possibilità di ravvisare un accordo anche nell’interpello speciale ed in quello ordinario, richiamando a riguardo la figura civilistica del negozio di accertamento. Rilevava perplessità in ordine a tale soluzione L. Del Federico, autorità e consenso, cit., 166-167. (36) In tal senso cfr. la circolare Assonime n. 10 dell’1 aprile 2016.


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della differente prospettazione, che autorevole dottrina ebbe a formulare anni addietro sul tema della natura giuridica degli accordi, sebbene nel diverso am‑ bito dell’accertamento con adesione e della conciliazione giudiziale. 5. La questione della natura giuridica degli accordi nell’ambito del dibattito fra natura dichiarativa o dispositiva dell’accertamento tributario. – L’affermata natura dichiarativa degli accordi preventivi dovrebbe essere ri‑ conciliata, quantomeno concettualmente, con la circostanza che tali accordi, come detto più volte, comportano l’esercizio di poteri di accertamento da parte dell’Amministrazione. Non serve qui ripetere che la norma fa esplicito riferi‑ mento ai poteri «di competenza» dell’Agenzia, che essa è collocata all’interno del decreto in tema di accertamento delle imposte sui redditi e che la procedu‑ ra applicativa comporta espressamente la possibilità di attuare accessi presso la sede del contribuente, per rendersi conto che, nel momento in cui si ricono‑ sce che gli accordi preventivi hanno mera funzione dichiarativa, tale funzione dovrà altresì essere riconnessa all’attività di accertamento in quanto tale. Se gli accordi preventivi comportano l’esercizio di poteri di accertamento, ma al contempo essi hanno mera natura dichiarativa, ciò equivale a riconoscere che anche l’accertamento tributario ha tale natura. Orbene, l’autorevole dottrina alla quale abbiam fatto riferimento ha, di contro, sostenuto che non appare condivisibile la tesi della «[l’]attribuzione all’accertamento tributario (e, ancora più agli accordi eventualmente interve‑ nuti con il contribuente) di una efficacia meramente ricognitiva del presuppo‑ sto di fatto del tributo e dei relativi effetti giuridici; o, comunque, di una valen‑ za semplicemente attuativa del contenuto delle norme sostanziali» (37) (che invece sembra essere esattamente l’efficacia che la dottrina oggi dominante attribuisce agli accordi preventivi). In tale prospettiva tanto i provvedimenti amministrativi quanto gli accordi sono stati considerati «atti di per se stessi dispositivi e dalla portata innovativa e non certo volti al mero superamento di incertezze sui fatti e/o sui relativi effetti giuridici». È pur vero che la dottri‑ na che stiamo analizzando formulò tali osservazioni con riguardo agli istituti dell’accertamento con adesione e della conciliazione giudiziale che, come det‑ to, non sono perfettamente sovrapponibili agli accordi preventivi ex art. 31-

(37) Così S. La Rosa, Gli accordi nella disciplina dell’attività impositiva: tra vincolatezza, discrezionalità e facoltà di scelta, oggi in Scritti scelti, cit., 741 ss. (ed ivi 760).


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ter. Ma quella dottrina intese criticare la tesi (38) che faceva discendere dagli istituti dell’accertamento con adesione e della conciliazione la possibilità di esercitare in forme consensuali la funzione impositiva. Insomma ciò che si criticò era quell’apertura che vedeva negli istituti in questione delle forme di accordo che agevolavano l’Amministrazione finanziaria nell’identificazione degli esatti termini del presupposto di fatto del tributo, consentendo alla stes‑ sa, tramite gli apporti conoscitivi del contribuente, di raggiungere, in maniera più rapida ed efficace di quanto non potesse avvenire attraverso «i normali itinerari autoritativi», gli stessi effetti ricognitivi e preclusivi che caratteriz‑ zano il provvedimento finale dell’Amministrazione (39). Il punto focale della critica, dunque, era rivolto proprio alla possibilità di ammettere (non soltanto con riguardo all’accertamento con adesione o alla conciliazione giudiziale, ma) in generale che i poteri di accertamento dell’Amministrazione potessero esplicarsi in atti con mera funzione dichiarativa, ritenendosi, di contro, che i poteri di accertamento determinino, sempre e comunque, l’adozione di atti a contenuto dispositivo ed innovativo e non meramente ricognitivo o di mera attuazione della normativa. Il che sembra mettere in dubbio la stessa possibili‑ tà che vi siano forme di esercizio consensuale della funzione di accertamento, quantomeno nel senso di un apporto comune (del contribuente e dell’Ammi‑ nistrazione) di aspetti chiarificatori su questioni complesse e controverse che avrebbero lo scopo di dare un’attuazione concreta a norme sostanziali astratte. D’altro canto va ricordato che la dottrina che aveva ravvisato nell’accerta‑ mento con adesione e nella conciliazione forme consensuali di esercizio di una funzione di accertamento, volte a dirimere l’incertezza su questioni com‑ plesse, intendeva limitare l’applicazione degli istituti in questione alle situa‑ zioni di obiettiva incertezza nella definizione (sotto un profilo qualificatorio o valutativo) del presupposto di fatto del tributo. Si tratta, mutatis mutandis,

(38) Proposta da M. Versiglioni, Accordo e disposizione cit.; M. Stipo, Ancora sulla natura giuridica dell’accertamento con adesione del contribuente (ex D. Lgs. 19 giugno 1997, 2018, nella prospettiva del nuovo cittadino e della nuova P.A. nell’ordinamento democratico, in Rass. trib., 2000, 1741 ss.; M.T. Moscatelli, moduli consensuali, cit., 164 ss. (39) Osservava, a riguardo, M. Moscatelli, op. e loco ult. cit., che gli accordi tributari si risolvono nella «coesistenza di coincidenti dichiarazioni dell’amministrazione e del contribuente relative alla determinazione qualitativa e quantitativa del presupposto d’imposta» e che la funzione del contribuente «consiste nel portare a conoscenza dell’amministrazione la struttura del presupposto d’imposta» e che, d’altro canto, la dichiarazione dell’Amministrazione consiste anch’essa nel «“fotografare” il presupposto d’imposta». Per la valutazione critica di tale impostazione si veda S. La Rosa, Gli accordi, cit., 760.


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di situazioni e condizioni di incertezza ragguagliabili a quelle per dirimere le quali è stato previsto l’istituto degli accordi preventivi (quanto meno nell’in‑ terpretazione che ne è stata data nella relazione illustrativa al decreto e dalla stessa Agenzia delle entrate (40)). Dunque la critica rivolta alla possibilità di configurare un esercizio consensuale della funzione accertativa, attribuendo all’accordo effetti dichiarativi nelle ipotesi di accertamento con adesione e conciliazione giudiziale, ci sembra possa estendersi anche a quell’esercizio consensuale della funzione impositiva che oggi la dottrina dominante ritiene di poter ravvisare negli accordi preventivi (nella misura in cui si riconosce che in essi si esplichi attività di accertamento). E ci sembra che quella critica proponga degli argomenti che meritano attenta valutazione. Essa muoveva dal richiamo alle ineccepibili considerazioni del Maestro Capaccioli, per osservare, fondandosi sulla diversità dei ruoli del giudice e dell’amministrazione, come soltanto dal giudicato potesse conseguire un effetto di «accertamento in diritto»; tale effetto, invece, non è configurabi‑ le nell’atto di accertamento che ha dunque (e sempre) effetti dispositivi, che non contrastano con il principio dell’indisponibilità del tributo, quantomeno laddove si ritenga che l’indisponibilità debba essere ricondotta all’interesse pubblico che «non è suscettibile di ponderazione e comparazione con gli in‑ teressi privati che ne risultano sacrificati» (41). Seguendo tale impostazione l’autorevole dottrina in commento sostenne essere «del tutto errata» la tesi che attribuiva all’accertamento tributario «e, ancor più, agli accordi eventual‑ mente intervenuti con il contribuente» una efficacia meramente ricognitiva del presupposto di fatto del tributo e dei relativi effetti giuridici «o, comunque, di una valenza semplicemente attuativa delle norme sostanziali tributarie» (42) Ci sembra che non si possa non tener conto di tali osservazioni e riflessioni nel momento in cui si sostiene (come fa oggi la dottrina dominante) che gli ac‑ cordi preventivi hanno una mera finalità dichiarativa, e quindi sostanzialmen‑

(40) Osserva, a riguardo, D. Conte, Imposizione fiscale, cit., 679-680, nel richiamare la circolare 28 aprile 2016, n. 16 (ivi nota 3) e la relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo in tema di internazionalizzazione (ivi nota 6) che una delle rationes dell’art. 31-ter è quella di «potenziare le misure già esistenti con ulteriori interventi attrattivi per gli investitori esteri, volti a creare un contesto di maggiore certezza e semplificazione». (41) Così S. La Rosa, Gli accordi, cit., 763, il quale, ad ulteriore chiarificazione del concetto, aggiunge che «indisponibile, in altri termini, è l’interesse perequativo (che sorregge e giustifica l’accertamento tributario) nel suo rapporto con gli interessi del contribuente». Interessi, questi ultimi, rispetto ai quali l’Amministrazione deve essere «cieca e sorda». (42) Così S. La Rosa, Gli accordi, cit., 760.


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te applicativa delle disposizioni normative che regolano le materie oggetto di accordo. E ciò soprattutto ove si riconosca (come riteniamo sia inevitabile fare) che negli accordi preventivi si manifestano forme di esercizio del po‑ tere di accertamento dell’Amministrazione finanziaria. Insomma, se si tiene conto delle osservazioni critiche autorevolmente sostenute da quella dottrina e tali osservazioni si condividono, sembrerebbe che anche con riferimento alla tematica degli accordi preventivi, nella misura in cui essi comportano l’esercizio di poteri di accertamento, non si possa uscire da quella prospettiva necessariamente alternativa che vede nelle forme di accordo o manifestazio‑ ni c.d. “unilateraliste” in cui vi è una convergenza di fatto «tra due distinti comportamenti entrambi (diversamente) “dispositivi”» o, di contro, impo‑ stazioni totalmente “negoziali” (43). In questa prospettiva tertium non datur: non sembra possibile, cioè, configurare forme di esercizio consensuale della funzione di accertamento che diano luogo ad atti con contenuto bilaterale e consensuale, ma non negoziale (44). Mutatis mutandis, se si condivide tale impostazione, anche nell’ambito degli accordi preventivi, stante l’esercizio negli stessi di poteri di accertamento, il problema della loro natura giuridica e del loro inquadramento sistematico non dovrebbe sfuggire all’alternativa fra la possibilità di considerarli o accordi totalmente negoziali in cui la fonte degli effetti giuridici è attribuita all’incontro delle volontà dell’Amministrazione e del contribuente (45) o, di contro, atti unilaterali convergenti a contenuto dispositivo. Se si rimane all’interno di quest’alternativa, ci sembra preferibile la solu‑ zione che vede negli accordi preventivi atti unilaterali a contenuto dispositivo, piuttosto che atti di carattere negoziale. Non ci sembra che possa deporre nel senso della negozialità dell’istituto la circostanza che nella rubrica dell’art. 31-ter si faccia espresso riferimento all’accordo, in quanto – come già detto – anche nella disciplina del ruling internazionale vi era un espresso riferimen‑

(43) Così S. La Rosa, Gli accordi, cit., 749 e 766. (44) Osserva La Rosa, Gli accordi, cit., 748, che la possibilità di ravvisare nelle forme di accordo atti con contenuto bilaterale, consensuale, ma non negoziale, non è compatibile con l’impostazione secondo la quale «l’esercizio delle funzioni pubbliche, in quanto produttivo di effetti regolativi degli interessi, può essere integrato o surrogato solo da atti che abbiano anch’essi una propria valenza dispositiva degli interessi che debbano essere regolati. Prospettare, invece, un atto surrogatorio avente natura di mero atto giuridico bilaterale equivale praticamente a negare ogni rilevanza normativa sia al consenso che alla funzione pubblica al cui interno esso si inserirebbe». (45) Come ebbe a sostenere, per il ruling internazionale, G. Gaffuri, op. e loco ult. cit.


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to in tal senso. Né ci sembra indicativa la circostanza che le disposizioni di attuazione prevedano, al punto 2.9., la possibilità di un preventivo «incontro» fra l’impresa con attività internazionale e i rappresentanti dell’Ufficio (cd. pre-filing consultation), poiché, stando al dato letterale di tale disposizione, l’incontro non dovrebbe avere una sorta di funzione preparatoria all’accordo (e cioè un sorta di trattativa precontrattuale) ma dovrebbe essere finalizzato esclusivamente ad ottenere «chiarimenti e/o indicazioni in merito alla proce‑ dura». Ci sembrano invece indicative tutte le circostanze già sopra richiamate, che lasciano intendere come nella struttura degli accordi preventivi si eserciti, di fatto, un’attività di accertamento e vi sia anche l’impiego di tipici poteri di verifica dell’Amministrazione finanziaria. E ci sembra altresì indicativa la previsione contenuta nel comma 5, dell’art. 31-ter, a mente del quale «per i periodi d’imposta di validità dell’accordo, l’Amministrazione finanziaria esercita i poteri di cui agli articoli 32 e seguenti soltanto in relazione a questio‑ ni diverse da quelle oggetto dell’accordo medesimo». Proprio la circostanza che l’Amministrazione non possa esercitare, sulle materie che hanno formato oggetto del ruling, attività di accertamento ci sembra indicativa (se valuta‑ ta congiuntamente alla collocazione sistematica della norma dell’art. 31-ter) del fatto che quell’attività è già stata, di fatto, esercitata in sede di stesura dell’accordo preventivo. Se dunque di attività di accertamento si tratta, e se si condivide che quest’attività si sostanzia necessariamente in atti dispositivi, dovrebbe quantomeno potersi riconoscere la possibilità che anche negli ac‑ cordi preventivi vi è la convergenza fra due distinti comportamenti (entrambi) dispositivi dell’Amministrazione e del contribuente. 6. Una possibile prospettazione alternativa dell’inquadramento sistematico degli accordi preventivi: l’accostamento alle Mutual Agreement Procedure (MAP). – La soluzione appena prospettata, tuttavia, è stata concepita tenendo conto del modo in cui la dottrina ha tradizionalmente ricostruito il ruling internazionale prima, e gli accordi preventivi oggi. Tali istituti sono stati configurati come forme di intese (con contenuto negoziale, o con effi‑ cacia meramente dichiarativa, ecc.) aventi per oggetto la concreta definizio‑ ne dell’imponibile e/o l’applicazione dell’imposta ad una serie di operazioni cross-border che coinvolgono profili qualificatori (di componenti reddituali o di istituti quali la stabile organizzazione) o estimativi (dei corretti prezzi di tra‑ sferimento, delle entry tax o exit tax, ecc.) di particolare complessità. Da ciò è scaturito l’accostamento, quantomeno sotto il profilo specifico di talune delle materie trattate, con l’istituto dell’interpello, almeno quello che oggi definia‑


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mo interpello ordinario (sia esso puro o qualificatorio). La differenza (non di poco conto) è che nell’interpello vi è un parere reso dall’Amministrazione su questioni specifiche e controverse che vincola soltanto quest’ultima (in quanto il contribuente è libero di aderire o meno alla risposta dell’Amministrazione); negli accordi preventivi, invece, è richiesto un consenso fra Amministrazione e contribuente sui profili qualificatori ed estimativi e, una volta che l’intesa sia raggiunta, essa – salvo il mutamento delle questioni in fatto e/o in diritto – vincola entrambe le parti. Il rapporto intersoggettivo, tuttavia, tanto negli accordi, quanto nell’interpello, è sempre stato ricostruito come un rapporto fra Amministrazione da un lato e contribuente dall’altro e, di conseguenza, l’oggetto dell’accordo (e dell’interpello) è stato ravvisato nelle modalità di definizione dell’imponibile e/o di applicazione dell’imposta con riferimento ad una fattispecie concreta e specifica (prospettata dallo stesso contribuen‑ te), effetto che nell’interpello scaturisce dal parere reso dall’Amministrazione (qualora ad esso si conformi il contribuente) e nell’accordo scaturisce, invece, dal consenso. Riteniamo, però, che sia possibile una differente prospettazione che pro‑ babilmente consente di inquadrare diversamente la struttura degli accordi pre‑ ventivi e quindi influire sull’inquadramento sistematico e sulla natura degli stessi. A ben riflettere negli accordi preventivi non soltanto si mira alla concreta soluzione di questioni qualificatorie ed estimative con lo scopo di definire una fattispecie e, di conseguenza, il corretto imponibile scaturente dalla stessa, ma si mira altresì (o forse più che altro) a risolvere un problema diverso: stabilire quanta (e quale) parte dell’imponibile debba essere tassata nel nostro ordina‑ mento e quanta (e quale) parte dello stesso debba essere tassato in altro ordi‑ namento. Fondamentalmente l’oggetto degli accordi preventivi consiste nella ripartizione dell’imponibile fra più Stati, con l’obiettivo di evitare una doppia imposizione, e ciò comporta il diffuso riferimento a istituti della fiscalità c.d. “negoziata”. Ciò risulterà più evidente qualora si analizzino le fattispecie specifiche previste dall’art. 31-ter. Il comma primo, lett. a), prima parte, individua la materia dell’accordo nella preventiva definizione in contraddittorio dei metodi di calcolo del valore normale delle operazioni di cui al comma 7, dell’articolo 110 del TUIR. Si tratta dei c.d. prezzi di trasferimento applicati nelle operazioni cross-border fra imprese collegate e cioè (stando al dato letterale della norma del cit. com‑ ma 7) «operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che di‑


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rettamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa». È noto poi che con il D.L. n. 50/2017 (conv. con modif. dalla legge n. 96/2017) è stato mutato il contenuto della norma in questione che oggi opera un espresso riferimento (non più al valore normale, ma) al c.d. arm’s lenght principle. Pertanto, oggi, i prezzi di trasferimento fra imprese collegate debbono essere determinati fa‑ cendo riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra imprese c.d. stand alone «operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili». La tematica del transfer pircing nelle operazioni transfrontaliere dei gruppi è particolarmente complessa e non è possibile af‑ frontarla ex professo in questa sede. È però sufficiente notare che le guideline dell’OCSE (recentemente modificate nel 2017 a seguito del progetto cd. BEPS) individuano precisi metodi che valgono a determinare tanto il prezzo, quanto – laddove non sia possibile determinare il prezzo – l’utile della transa‑ zione c.d. «collegata», facendo riferimento a specifici fattori di comparabilità (cd. comparables) che permettono un raffronto con la transazione «indipen‑ dente» (e cioè quella attuata da imprese stand alone). L’obiettivo è sostan‑ zialmente quello di comprendere come imprese indipendenti, in condizioni di libera concorrenza, avrebbero fissato il prezzo della transazione (o delle transazioni) o come, alternativamente, avrebbero ripartito l’utile della tran‑ sazione (o delle transazioni) ed estendere poi questa valutazione alle imprese collegate. Proprio in quest’ultimo caso, le guideline dell’OCSE riportano una serie di criteri (profit split method, transactional net margin method, ecc.) utili a capire come debba essere ripartito l’utile delle transazioni poste in essere da più imprese collegate. Orbene, ci sembra chiaro che nelle ipotesi in cui la fattispecie oggetto di accordo riguardi questi temi, essa di fatto si risolve in un’intesa che mira a stabilire quale parte dell’utile dell’impresa con attività in‑ ternazionale debba essere tassata in Italia e quale all’estero. E per raggiungere quest’intesa dovranno essere utilizzati una serie di parametri, criteri e metodi che, al più, possono ridurre, ma non azzerare l’inevitabile grado di incertezza che vi è in queste operazioni. Insomma, come è stato correttamente osservato, la fiscalità dei gruppi soltanto in parte può essere assimilata alla fiscalità delle imprese singole, poiché le logiche dei gruppi non sono quelle delle imprese stand alone (46). Ne consegue che nel raggiungere l’accordo su questi temi è

(46) Cfr. S. Cipollina, I redditi “nomadi” delle società multinazionali nell’economia globalizzata, in Riv. dir. fin. sc. fin. 2014, Fasc. 1, 35, la quale critica l’efficacia del criterio


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inevitabile che l’Amministrazione utilizzi un grado di discrezionalità elevata che consiste nello stabilire se un criterio è più idoneo di un altro, se deter‑ minati elementi sono più idonei di altri, se taluni comparables esterni sono più idonei di altri, ecc. Un tipo di discrezionalità che è naturale nella fiscalità “negoziata” e che però ci sembra poco compatibile con l’affermata natura dichiarativa dell’accordo. In questi casi può pur sostenersi che l’accordo mira a dare attuazione alla previsione normativa, ma deve essere chiaro che ciò avviene con un elevato, quanto ineluttabile, grado di discrezionalità da parte dell’Amministrazione. Non troppo diversa è la condizione che si verifica con riferimento alla seconda parte del primo comma, lett. a), a mente del quale l’accordo riguarda la preventiva definizione in contraddittorio dei metodi di calcolo dei valori di uscita o di ingresso in caso di trasferimento della resi‑ denza, rispettivamente, ai sensi degli articoli 166 e 166-bis TUIR. Il comma 4 di entrambi gli articoli (e quindi tanto per le exit tax, quanto per le entry tax) prevede che il c.d. «valore di mercato» (che serve, a sua volta, a quantificare le plusvalenze, gli attivi trasferiti alla – o dalla – stabile organizzazione, le attività e le passività facenti parte del patrimonio del soggetto che ha trasferito la propria residenza fiscale nel territorio dello Stato, ecc.) è determinato con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra sogget‑ ti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili (e quindi, ancora una volta, sulla base del principio dell’arm’s lenght). Proseguendo nell’analisi delle materie oggetto di accordo va detto che il comma primo, lett. b), lo individua nella applicazione ad un caso concreto di norme, anche di origine convenzionale, concernenti l’attribuzione di utili e perdite alla stabile organizzazione in un altro Stato di un’impresa o un ente re‑ sidente ovvero alla stabile organizzazione in Italia di un soggetto non residen‑ te. Anche in questo caso appare evidente che l’oggetto dell’accordo riguarda fondamentalmente la ripartizione dell’utile (o della perdita) fra l’ordinamento domestico ed un altro ordinamento. Si tratta, infatti, di stabilire come debba essere determinato il reddito attribuibile alla stabile organizzazione in Italia

dell’arm’s lenght, osservando che attraverso lo stesso si tende a dare un prezzo a ciò che prezzo non ha, poiché «non si possono … rapportare i costi applicati tra parti correlate a quelli applicati fra parti indipendenti, perché l’assetto delle multinazionali viene disegnato proprio per risparmiare i costi delle operazioni fra parti indipendenti».


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di un’impresa non residente o, viceversa, come debba essere determinato il reddito di una stabile organizzazione estera di impresa residente in Italia. Analoga è la fattispecie di cui al comma 1, lett. c), che riguarda la va‑ lutazione preventiva della sussistenza o meno dei requisiti che configurano una stabile organizzazione in Italia. Anche in questo caso, infatti, l’obiettivo dell’accordo è quello di stabilire se, tramite la stabile organizzazione, l’im‑ presa con attività internazionale produca o mento redditi tassabili in Italia. Peraltro, la norma puntualizza che la valutazione dovrà essere fatta tenendo presenti i criteri previsti dall’articolo 162 TUIR e quindi anche quello della già citata «significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato» che, per l’evanescenza della formulazione, comporta ancora una vol‑ ta un’operazione qualificatoria con un alto grado di discrezionalità da parte dell’Amministrazione. L’analisi delle fattispecie specifiche previste dall’art. 31-ter dimostra, per‑ tanto, che in buona parte dei casi [con esclusione forse della sola previsione contenuta nella lett. d) del primo comma, che riguarda la qualificazione di determinati proventi come dividendi, interessi, royalties, o altri componenti reddituali] l’accordo mira a stabilire come debba essere ripartito, fra l’ordi‑ namento domestico e quello estero, il reddito (o la perdita) dell’impresa con attività internazionale e ciò fondamentalmente allo scopo di evitare doppie imposizioni o, comunque, mira a stabilire quante e quali imposte debbano essere pagate in Italia (come nel caso delle entry ed exit tax). Queste considerazioni ci convincono che, sotto il profilo dell’oggetto, gli accordi preventivi, mutatis mutandis, più che agli interpelli, sono assimilabi‑ li agli accordi attuati fra Stati a seguito delle procedure amichevoli previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni (le c.d. Mutual Agreement Procedure; MAP) (47). Non è un caso, d’altro canto, che il com‑ ma 2 dell’art. 31-ter espressamente preveda l’effetto c.d. di roll-back qualora gli accordi preventivi «conseguano ad altri accordi conclusi con le autorità competenti di Stati esteri a seguito delle procedure amichevoli previste dalle

(47) Su tali procedure, senza pretesa di esaustività, si veda C. Garbarino - P. Occhiuto, Lo strumento multilaterale per la modifica dei trattati contro le doppie imposizioni, in Fiscalità & Commercio Internazionale, 2/2018, 44 ss. (articolo che affronta in particolare il tema delle MAP all’interno del MLI); A. Iannaccone, Doppia imposizione internazionale: approvata la Direttiva sui meccanismi di risoluzione delle controversie, in Corr. trib., 4/2018; P. Valente, Procedure amichevoli, procedure arbitrali e rapporti fisco contribuente, in Il Fisco, 5/2017, 451 ss.


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convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni». In questo caso gli accordi preventivi estendono la loro efficacia vincolante per le parti anche ai periodi d’imposta precedenti alla stipula degli stessi, che non siano comunque anteriori al periodo d’imposta in corso alla data di presentazione dell’istan‑ za da parte del contribuente. La circostanza che gli effetti degli accordi ex art. 31-ter possano addirittura retroagire, se questo consegue ad altro accordo concluso a seguito di MAP, ci sembra confermi che la struttura dei primi è in qualche modo ontologicamente assimilabile a quella degli accordi che se‑ guono alle procedure amichevoli. Questa soluzione, peraltro, consentirebbe di dare adeguata giustificazione a talune previsioni normative che caratterizzano la disciplina degli accordi ex art. 31-ter. Intanto, il reciproco consenso è previsto (ed è necessario) proprio perché tali accordi non sono assimilabili agli interpelli, ove non è richiesto alcun con‑ senso, ma hanno una struttura ontologicamente diversa che è maggiormen‑ te accostabile a quella delle richiamate procedure amichevoli, ove, invece, il consenso è elemento identitario. In secondo luogo, se l’art. 11, comma 1, lett. a) dello Statuto non consente l’accesso all’interpello ordinario, sia esso puro o qualificatorio, laddove siano «comunque attivabili le procedure di cui all’ar‑ ticolo 31-ter», e quindi sulla materie che formano oggetto di accordi preven‑ tivi, è perché l’oggetto di questi ultimi è ontologicamente diverso da quello dell’interpello. Non si tratta, dunque, esclusivamente di attività chiarificatoria (necessitata da condizioni di obbiettiva incertezza sulla corretta interpretazio‑ ne di disposizioni tributarie o sulla corretta qualificazione di fattispecie alla luce delle disposizioni tributarie applicabili alle medesime) in cui è richiesto un consenso, ma si tratta piuttosto di stabilire come debba essere ripartito l’utile fra l’ordinamento italiano e un ordinamento estero in casi specifici e determinati. È proprio il diverso oggetto e la diversa struttura degli accordi – che li rende assimilabili ad altre procedure – che non consente la possibilità di chiedere l’interpello ordinario sulle relative materie. Infine, se l’art. 31-ter è inserito nel DPR n. 600/73 è perché gli accordi prevedono che l’Amministra‑ zione finanziaria eserciti un’attività (che, però, ci sembra, a questo punto, più unilaterale che non consensuale) di delimitazione della fattispecie imponibile, e quindi un’attività lato sensu accertativa, nel senso di identificare corretta‑ mente quale parte dell’imponibile debba essere tassato nel nostro territorio o quante e quali imposte debbano essere pagate nello stesso. 7. Il differente ruolo dell’Amministrazione finanziaria e del contribuente. La natura giuridica degli accordi preventivi come atti unilaterali conver-


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genti a contenuto dispositivo. – Se si condivide tale impostazione, ne con‑ segue che nella struttura degli accordi preventivi i ruoli del contribuente e dell’Amministrazione finanziaria sono differenti. Il contribuente ha un ruolo di attivazione della procedura, che è speculare a quello che può assolvere nelle MAP, ove però poi l’iter può anche proseguire senza l’intervento dello stesso, in quanto la trattativa segue fra gli Stati e ciò, indubbiamente, accentua il ca‑ rattere più strettamente negoziale di quelle procedure. Negli accordi preventi‑ vi, invece, non v’è l’intervento dell’autorità competente di un altro Stato, ma la procedura prosegue fra il contribuente e l’Amministrazione italiana. Ciò, da un canto, induce ad escludere che possa permanere il carattere negoziale che è possibile riscontrare nelle MAP, ma dall’altro induce a ritenere che il ruolo dell’Amministrazione non possa essere equiparabile a quello del con‑ tribuente. Nelle MAP, infatti, intervengono le autorità amministrative di due Stati che giocano in posizione di parità; negli accordi preventivi, invece, non è pensabile che la posizione del contribuente (impresa con attività internazio‑ nale) e quella dell’Amministrazione siano paritetiche. Sembra evidente che un ruolo di primaria importanza lo riveste l’Amministrazione. Di fatti, è proprio a quest’ultima che, in definitiva, spetta di stabilire come concretamente debba essere ripartito l’imponibile nella fattispecie concreta sottoposta a valutazione o quante e quali imposte debbano essere pagate in Italia. L’Amministrazione, indubbiamente, potrà servirsi delle informazioni tratte dal contribuente, ma il ruolo di delimitazione della fattispecie rimane esclusivamente a suo carico. Ciò, volendo, spiega perché gli accordi preventivi siano inseriti all’inter‑ no del decreto concernente l’accertamento. Tale collocazione sistematica non ci sembra giustificata dal fatto che si tratta di forme consensuali di esercizio dell’attività accertativa, quanto dalla circostanza che: i) gli accordi preventivi hanno una struttura assimilabile a quella delle MAP; ii) a differenza di que‑ ste ultime procedure, però, non vi è un rapporto tra Stati, ma un rapporto fra contribuente e Amministrazione finanziaria italiana, ed è quest’ultima, quindi, che nell’esercizio dei suoi poteri di accertamento individua quanta (e quale) parte dell’imponibile (conseguente all’operazione concreta e specifica oggetto di valutazione) debba essere tassato in Italia. Pertanto, se gli accordi preven‑ tivi sono inseriti nel decreto concernente l’accertamento è perché essi com‑ portano che l’Amministrazione finanziaria – su istanza del contribuente ed avvalendosi anche degli apporti informativi dati da quest’ultimo – attui i suoi poteri di accertamento per stabilire come debba essere risolta la questione del riparto dell’imponibile o del pagamento delle imposte (in Italia o all’estero).


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Ci sembra, in definitiva, che l’inquadramento sistematico più aderente alla struttura degli accordi preventivi sia, non quello che attribuisce agli stessi una natura interpretativo-dichiarativa, ma quello che vi attribuisce una natura dispositiva con carattere innovativo. Si tratta, cioè, di due comportamenti di‑ spositivi convergenti: uno è quello dell’Amministrazione che definisce come, nella fattispecie concreta sottoposta alla sua valutazione e sulla base dell’ap‑ plicazione delle norme interne o convenzionali, debba essere ripartito l’impo‑ nibile fra lo Stato italiano e lo Stato estero; l’altro è quello del contribuente che aderisce alla prospettazione fatta dall’Amministrazione. Né ci sembra che ciò ponga problemi in ordine alla questione della indi‑ sponibilità del tributo. Difatti, se quest’ultima viene ricondotta, come autore‑ volmente sostenuto in dottrina, all’interesse pubblico tutelato dalla funzione tributaria (48), ci sembra evidente che la valutazione della sussistenza di tale interesse è già stata effettuata dal legislatore nel porre la norma in tema di accordi preventivi, e l’Amministrazione finanziaria, nello stabilire come deb‑ ba essere ripartito l’imponibile ai fini della tassazione, altro non fa se non perseguire esclusivamente quell’interesse, non operando in tal senso alcuna ponderazione fra esso e quello del privato (49). Sembra aderente a tale linea argomentativa l’osservazione secondo la quale, laddove si discorra di “dispo‑ nibilità”, occorre distinguere la disponibilità del credito tributario dalla dispo‑ nibilità dei poteri da parte degli uffici (50). Per questi ultimi un problema di disponibilità, a rigore, non dovrebbe neanche porsi poiché le funzioni pub‑ bliche, e gli interessi sottostanti che la norma tutela nel regolamentarle, non

(48) Cfr. S. La Rosa, Gli accordi, cit., 763, il quale riconduce l’indisponibilità all’interesse pubblico perequativo «che sorregge e giustifica l’interesse tributario». (49) Cfr. S. La Rosa, Gli accordi, cit., 763, ove l’A. rileva, con riguardo agli istituti dell’accertamento con adesione e della conciliazione, che il vero problema è quello di riconciliare l’affermata natura dispositiva dei relativi comportamenti (attuati dall’Amministrazione e dal contribuente) con il principio della indisponibilità del tributo (che ovviamente riguarda il solo profilo del comportamento dispositivo dell’Amministrazione). Sotto tale aspetto l’A. rileva che la «dispositività di per se stessa denota e presuppone l’esistenza di una possibilità di scelta tra comportamenti operativi anche molto diversi» i quali «naturalmente discendono da valutazioni specifiche dell’interesse pubblico da perseguire, al tempo stesso riflettendosi in livelli diversi di sacrificio degli interessi privati del contribuente e di soddisfacimento dell’interesse pubblico che deve essere perseguito». La conseguenza che ne trae l’A. è che l’indisponibilità del tributo non si configura «nell’ontologica preesistenza dell’oggetto dell’atto» ma nella circostanza che «in questo campo, l’interesse pubblico da perseguire non è suscettibile di ponderazione e comparazione con gli interessi privati che ne risultano sacrificati». (50) Cfr. G. Fransoni, Discorso introno al diritto tributario, Pisa, 2017, 134-135.


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sono comunque disponibili, e tale oggettiva indisponibilità permane anche a fronte di un grado elevato di discrezionalità, qual è quella che – come si è vi‑ sto dianzi – si manifesta nel caso degli accordi preventivi. La circostanza che l’Amministrazione sia chiamata ad effettuare – come ad esempio nel caso di accodi concernenti i prezzi di trasferimento – quella valutazione di compara‑ bilità con fattori esterni, incerti e mutevoli, che è indispensabile per stabilire l’aderenza all’arm’s lenght principle, le conferisce indubbiamente un ampio margine di discrezionalità valutativa, ma ciò non toglie che la stessa dovrà pur sempre essere utilizzata per il miglior (ed esclusivo) perseguimento dell’in‑ teresse pubblico previsto dalla norma (corretta individuazione della porzione di utile che verrà tassato in Italia o delle imposte che ivi dovranno essere pa‑ gate). Laddove, invece, il criterio dell’indisponibilità sia riferito non al potere di cui sono dotati gli uffici, ma al credito tributario in sé, ci sembra corretta l’affermazione secondo la quale l’Amministrazione, di fatto, non dispone del credito tributario, ma si limita esclusivamente ad applicare le norme che ne disciplinano la disponibilità. La questione, dunque, si sposta sul versante delle legittimità (o meno) della norma di disposizione del credito (51). In ultima analisi, riteniamo che i tratti caratterizzanti l’istituto degli accor‑ di preventivi siano due: i) un’assimilabilità, in termini generali, agli accordi attuati fra Stati a seguito delle procedure amichevoli previste dalle convenzio‑ ni internazionali contro le doppie imposizioni; ii) la natura sostanzialmente dispositiva degli accordi, risultando essi dal convergere di due comportamenti egualmente dispositivi (quello dell’Amministrazione e quello del contribuen‑ te). A nostro modo di vedere, pertanto, anche inquadrando sistematicamente gli accordi come intese assimilabili a quelle delle procedure amichevoli ne risulta confermata la natura dispositiva.

(51) Osserva, a riguardo, G. Fransoni, Discorso, cit., 135, che per quanto concerne i crediti tributari «né l’ente esponenziale della collettività, né gli uffici preposti alla loro amministrazione sono effettivamente titolari dei crediti medesimi in quanto essi svolgono un’attività meramente strumentale all’attuazione dell’interesse pubblico all’attuazione delle norme tributarie e, quindi, all’acquisizione delle risorse economiche per il funzionamento delle spese pubbliche», aggiungendo che «se si tiene presente questo aspetto è evidente che l’assenza di titolarità nel senso anzidetto implica che gli uffici possono disporre dei crediti tributari solo nei limiti in cui ciò sia loro consentito dalle norme che presiedono all’esercizio delle funzioni agli stessi attribuite». Ne consegue, secondo l’A., che «il problema della (in)disponibilità dei crediti tributari si risolve [..] in quello della legittimità della norma attributiva di simili facoltà dispositive agli uffici».


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8. La non estensibilità degli accordi preventivi alla materia concernente la configurazione di una stabile organizzazione ai fini IVA. – Proviamo adesso a valutare le refluenze che questa diversa prospettazione può avere sul tema dell’estensibilità all’IVA degli effetti dell’accordo, con particolare riferimento alla questione della configurazione dei requisiti per la sussistenza di una stabi‑ le organizzazione (ai fini IVA) nel territorio dello Stato. Come detto, in dottrina è stato sostenuto che l’accordo preventivo può anche riguardare la stabile organizzazione ai fini IVA, nel senso (almeno, a nostro avviso) che in sede di trattativa dovrebbe essere possibile anche di‑ scutere della sussistenza della stessa. Tale conclusione è stata argomentata sulla base di un’analisi comparata con il c.d. interpello sui nuovi investimenti previsto dall’art. 2 del decreto internazionalizzazione (52) (lo stesso decreto che ha inserito l’art. 31-ter nel corpo del DPR n. 600/73). Il ragionamento è il seguente. Il decreto attuativo dell’art. 2 ha previsto che l’interpello sui nuovi investimenti non è ammissibile per quelle materie che possono formare ogget‑ to di accordo preventivo ai sensi dell’art. 31-ter. Tale inammissibilità, tuttavia, non opera nelle ipotesi in cui si tratti di configurare una stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Pertanto in queste ipotesi è possibile tanto chiedere l’interpello (di cui all’art. 2), quanto accedere alla procedura degli accordi preventivi. L’Amministrazione finanziaria ha poi chiarito che l’interpello sui nuovi investimenti rileva anche ai fini IVA. Da ciò la dottrina in commento ha ricavato la convinzione che non si abbia una sovrapposizione dei due istituti, nel senso che è possibile attivarli entrambi, ma che la procedura dell’interpel‑ lo possa essere attivata solo se non si è già formulata l’istanza per accedere agli accordi preventivi. Ne deriva la conclusione che anche in sede di accordo preventivo potrebbe formare oggetto di definizione la questione relativa alla configurazione di una stabile organizzazione ai fini IVA (53). Riteniamo, tuttavia, che tale soluzione desti qualche dubbio. Infatti, pro‑ prio la circostanza che la norma del decreto di attuazione (seppur seconda‑

(52) Tale disposizione prevede che «Le imprese che intendono effettuare investimenti nel territorio dello Stato di ammontare non inferiore a venti milioni di euro e che abbiano ricadute occupazionali significative in relazione all’attività in cui avviene l’investimento e durature possono presentare all’Agenzia delle entrate un’istanza di interpello in merito al trattamento fiscale del loro piano di investimento e delle eventuali operazioni straordinarie che si ipotizzano per la sua realizzazione, ivi inclusa, ove necessaria, la valutazione circa l’esistenza o meno di un’azienda». (53) Cfr. M. Grandinetti, op. e loco cit.


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ria (54)) abbia mantenuto la possibilità di attivare l’interpello sui nuovi inve‑ stimenti (congiuntamente alla possibilità di accedere agli accordi preventivi) nelle ipotesi in cui si tratti di configurare una stabile organizzazione, unita‑ mente alla circostanza che l’interpello sugli investimenti, secondo quanto affermato dall’Amministrazione finanziaria, può riguardare l’IVA, dovrebbe indurre a ritenere che quella dell’interpello (sugli investimenti) sia la sede specifica nell’ambito della quale ottenere un parere da parte dell’Ammini‑ strazione sul tema della configurabilità di una stabile organizzazione ai fini IVA. In altri termini, la norma secondaria, preclude la possibilità di attivare l’interpello sugli investimenti con riguardo alle materie che possono forma‑ re oggetto di accordi preventivi, ma tale preclusione non opera (e quindi è possibile richiedere l’interpello) laddove si verta in materia di configurazione di stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Perché proprio in questo caso la norma non fa operare la preclusione? La risposta più plausibile a tale domanda è che, considerato che l’interpello sugli investimenti può estendersi all’IVA, solo in quella sede sia possibile porre un quesito in tema di configu‑ razione della stabile organizzazione ai fini ai fini IVA. Pertanto, atteso che solo in sede di interpello sui nuovi investimenti è possibile ottenere una risposta vincolante in ordine alla configurazione di una stabile organizzazione ai fini IVA, l’istanza non è preclusa anche laddove sia stata attivata la procedura di accesso agli accordi preventivi (laddove, invece, in presenza di tale ultimo accesso sono normalmente precluse tutte le altre procedure di interpello sui nuovi investimenti). La conclusione, a questo punto, dovrebbe essere che, in sede di accordi preventivi non è possibile convenire la configurazione di una stabile organizzazione anche ai fini IVA, poiché tale materia è rimessa esclu‑ sivamente all’istituto dell’interpello sui nuovi investimenti che, proprio in questa specifica ipotesi, è attuabile anche in presenza di istanza per gli accordi preventivi. D’altro canto tale soluzione ci sembra aderente con l’inquadramento si‑ stematico e la natura giuridica degli accordi preventivi che abbiamo cercato di prospettare. Se la ratio di questi ultimi è quella di stabilire come debba es‑

(54) Invero, già la circostanza che l’interpello di cui all’art. 2 del decreto internazionalizzazione non possa essere richiesto per le materie che formano oggetto di accordi preventivi sia stata prevista in sede di decreto di attuazione dovrebbe destare non poche perplessità, trattandosi di una questione di delimitazione dell’ambito di applicazione della fattispecie, che avrebbe dovuto essere disciplinata dalla norma primaria e non certo dal decreto di attuazione.


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sere ripartito l’imponibile con riguardo a questioni specifiche e concrete con‑ cernenti operazioni transfrontaliere che riguardano o un gruppo, o comunque un’impresa con attività internazionale che opera in Italia, è inevitabile che il campo di applicazione degli accordi preventivi debba restringersi alle imposte sui redditi (ed all’IRAP), quantomeno laddove non si tratti di questioni diret‑ tamente collegate con quella che forma oggetto di accordo. In altri termini, come già dianzi anticipato, laddove la valutazione attuata in sede di accordi abbia una refluenza diretta su tematiche concernenti l’IVA (come quelle prospettate al § 2), si potrà sostenere che la qualificazione va‑ levole ai fini delle imposte sui redditi si estende anche all’IVA. E così, se un componente positivo di reddito è qualificato come royalty, e sussiste altresì il requisito della territorialità, la qualificazione attuata in sede di accordo opere‑ rà anche ai fini IVA. Ma nel caso della stabile organizzazione il collegamento non è diretto, poiché – come detto – i requisiti e le finalità dell’istituto sono diversi ai fini delle II. DD. ed ai fini IVA. Pertanto, non soltanto la valutazione operata, in sede di accordi, in ordine alla sussistenza dei requisiti per confi‑ gurare una stabile organizzazione non opererà automaticamente ai fini IVA (com’è ovvio), ma riteniamo che in sede di accordi non sia possibile neanche discutere dell’esistenza o meno di una stabile organizzazione ai fini IVA. Né ci sembra che tale conclusione influisca, in generale, sull’appeal dell’istitu‑ to. Quest’ultimo, infatti, va collegato alla ratio ed all’oggetto degli accordi preventivi. Se si condivide, che essi mirano più che altro a stabilire come debba essere ripartito l’imponibile fra l’ordinamento domestico e l’ordina‑ mento straniero (sulle questioni concrete e specifiche previste dalla norma), allo scopo di evitare doppie imposizioni, o quante e quali imposte (dirette) dovranno essere pagate in Italia, la questione della configurabilità ai fini IVA di una stabile organizzazione non dovrebbe rientrare fra quelle questioni di interesse che possono spingere il contribuente a formulare l’istanza per l’ac‑ cesso all’istituto.

Antonio Perrone



Il divieto di ingiustificato arricchimento e le nuove prospettive del rimborso tributario* Sommario: 1. Premessa sistematica e considerazioni generali. – 2. La disciplina nazionale del rimborso dei tributi secondo le determinazioni rag‑ giunte negli anni ’90. – 3. I modelli generali di riferimento per la tutela de‑ gli spostamenti patrimoniali senza causa. – 3.1. La scelta dell’ordinamento nazionale nel codice civile. Il doppio binario. La centralità dell’indebito og‑ gettivo e la residualità dell’ingiustificato arricchimento. – 4. Le evoluzioni nella disciplina del rimborso dei tributi. Il recepimento nazionale del divieto di ingiustificato arricchimento. – 4.1. L’impostazione europea in materia di rimborso dei tributi. – 4.2. Le evoluzioni normative nazionali. Il recepimento espresso dell’eccezione di ingiustificato arricchimento in funzione di limite alla ripetizione dell’indebito tributario nella disciplina di alcuni tributi. – 4.3. Le questioni giuridiche conseguenti. La complessità della prova della rivalsa e della traslazione giuridica. – 4.4. Il divieto di ingiustificato arricchimento da limite del diritto al rimborso a principio generale a tutela degli spostamenti patrimoniali senza causa. – 4.5. La necessità di tutelare l’effettivo inciso e la legittimazione del diritto al rimborso. – 4.6. La diretta applicabilità del divieto di ingiustificato arricchimento ai tributi armonizzati ed ai tributi incompatibili. Le conseguenze in ambito IVA. I contrasti giurisprudenziali nel diritto interno. – 5. Conclusioni. Il recepimento dell’eccezione di ingiustificato arricchimento nelle azioni di restituzione di alcuni tributi e il (conseguente) passaggio verso un modello di tutela integrato dal divieto di arricchirsi ingiustificatamente. – 5.1. Riflessioni per una generalizzazione della disciplina.

* Il presente lavoro è frutto di un importante confronto con numerosi autorevoli professori che intendo tutti ringraziare. Un particolare grazie lo rivolgo al Prof. Francesco Moschetti per l’accurata ed esperta analisi che ha rivolto al contributo e per i preziosi consigli che hanno illuminato alcuni passaggi della ricerca.


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Negli ultimi decenni nella materia del rimborso dei tributi si è realizzata una impor‑ tante evoluzione, che incide sui principi generali della materia. Nella regolamentazione di alcuni tributi il modello generale di ripetizione dell’indebito è stato integrato dal divieto di arricchirsi ingiustificatamente. Si tratta di un modello attualmente adottato in numerosi Paesi europei e recepito dall’Unione europea. L’ammissione di tale modello deve però an‑ cora realizzare alcuni importanti passaggi che a livello nazionale non si riescono ancora ad effettuare, soprattutto in seno alla giurisprudenza di legittimità. Il recepimento del divieto di arricchirsi ingiustificatamente definisce un quadro normativo maggiormente adatto alle dinamiche impositive ed economiche attuali. In the last years on the matter of tax refund an important evolution has been realized which regards the general principles of tax law. Into the regulation of some taxes, the principle of restitution of undue payment has been integrated with the general prohibition of unjustified enrichment. It is a standard currently adopted in the most European countries. The statement of the law about the unjustified enrichment has still to make some important steps, which in Italy are difficult to do, especially by the national Courts. The implementation of the prohibition of unjustified enrichment defines a regulatory framework more adequate to the current economics and fiscal relationships.

1. Premessa sistematica e considerazioni generali. – Il presente studio affronta il tema del rimborso dei tributi da indebito versamento (1) ed è fi‑

(1) L’indebito versamento è la fattispecie più importante che sostiene l’attivazione del procedimento di rimborso dei tributi e si definisce in tutte le ipotesi di versamento, da parte del contribuente, di somme a titolo di tributo che non sono dovute ovvero che non sono sostenute da un valido titolo (giuridico) giustificativo. Il tema del diritto alla restituzione derivante da indebito tributario è stato affrontato, nel tempo e secondo diverse prospettive, da autorevole dottrina tributaria che ha contribuito con le proprie riflessioni al raggiungimento degli attuali assetti della materia, come si verificherà nel corso della trattazione. In tale percorso, ex pluribus, E. Allorio, Diritto processuale tributario, Torino, 1962, 123; E. Potito, La ripetizione dell’indebito in materia finanziaria, Napoli, 1970, passim; Id., Azione di accertamento e ripetizione dell’indebito in materia tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1974, I, 125; F. Tesauro, Il rimborso d’imposta, Torino, 1975, passim; Id., Rimborso delle imposte, in Nov.mo Dig. it., Appendice, vol. VI, Torino, 1986, 824; E. De Mita, Le iscrizioni a ruolo delle imposte sui redditi, Milano, 1979, passim; M. Ingrosso, Il credito d’imposta, Milano, 1984, 37; G. Tabet, Contributo allo studio del rimborso d’imposta, Roma, 1985, passim; Id., Rimborso dei tributi, in Enc. giur. Treccani, vol. XXVII, Roma, 1991, 1; Id., Le azioni di rimborso nella nuova disciplina del processo tributario, in Riv. dir. trib., 1993, I, 763; C. Bafile, Sui procedimenti (amministrativi e giurisdizionali) di rimborso delle imposte, in Rass. trib., 1990, I, 1; M.C. Fregni, Rimborso dei tributi, in Digesto, sez. comm., vol. XII, Torino, 1996, 498; M. Basilavecchia, Situazioni creditorie del contribuente e attuazione del tributo. Dalla detrazione al rimborso, Pescara, 2000, passim; Id., Funzione impositiva e forme di tutela. Lezioni sul


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nalizzato a mettere in luce come, in tale ambito, negli ultimi decenni, si sia realizzata una importante evoluzione, che incide sui principi generali e sulla disciplina di riferimento della materia. È noto come il rimborso da indebito versamento costituisca, da sempre, un tema fondamentale della materia tributaria, come dimostrano i dibattiti della dottrina e della giurisprudenza che, negli ultimi cinquant’anni, si sono alimen‑ tati sui diversi aspetti collegati alla disciplina (2). Tali dibattiti hanno condotto alla definizione di alcuni punti fermi che sono stati fissati negli anni ‘90 del secolo scorso con un’importante pronuncia della Corte di Cassazione e nella normativa generale sul processo tributario introdotta nel 1992 (3). Alla disciplina del rimborso dei tributi, secondo tale percorso, è stata ri‑ conosciuta la funzione esclusiva di regolare la ripetizione degli spostamenti patrimoniali non dovuti, definendo un modello di tutela che si fonda essenzial‑ mente sul paradigma dell’indebito oggettivo ex art. 2033 c.c. Come anticipato, tale assetto si ritiene, oggi, in alcuni aspetti modificato in seguito ad importanti fattori. Anticipando parte delle conclusioni cui si giungerà nel corso della presen‑ te trattazione, si pone in luce come l’evoluzione comunitaria, ma anche la ne‑ cessità (nazionale) di tutelare determinate situazioni in cui l’impianto dell’art. 2033 c.c. è risultato in concreto insufficiente, hanno condotto ad integrare la tutela dell’indebito versamento con il divieto di ingiustificato arricchimento (anche divieto di arricchirsi senza causa o a spese altrui). Il tema in esame presenta due importanti prospettive. La prima, quella maggiormente evidente, è legata al recepimento di una eccezione di ingiustificato arricchimento nell’impianto delle cause di restitu‑ zione di determinati tributi.

processo tributario, Torino, 2013, passim; Id., Rimborso d’imposta, in Treccani, enciclopedia giuridica on line; S. La Rosa, Differenze e interferenze tra diritto a restituzione, diritto di detrazione e credito da dichiarazione, in Scritti scelti, II, Torino 2011, 559; F. Paparella, Il rimborso dei tributi, in Il diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, Torino, 2012, 865. (2) Cfr. A. Fantozzi, Diritto tributario, Torino, I ed., 1991, 402. (3) Si tratta, in particolare, della disciplina contenuta nel D.Lgs. 31.12.1992, n. 546 e delle determinazioni raggiunte nella pronuncia della Suprema Corte (SS.UU.) del 9.6.1989, n. 2786, con nota di L. Carpentieri, Punti fermi e contrasti giurisprudenziali sul rimborso ILOR per i redditi di lavoro autonomo: considerazioni su alcune recenti sentenze della Cassazione, in Rass. trib., 1989, 1020. Su tali temi si tornerà nel paragrafo successivo.


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Si tratta di imposte indirette sugli affari economici che si applicano ai beni destinati alla circolazione; tali imposte si caratterizzano per una disciplina che, nella maggior parte dei casi, consente la possibilità di effettuare la rivalsa del tributo (4). Tale riflessione riguarda quindi le accise, i diritti di confine, i tributi dovuti in sede doganale nonché (come si dimostrerà nella trattazione) le imposte armonizzate, le imposte incompatibili e l’IVA. La seconda prospettiva valuta, invece, la possibilità di agire direttamente in ragione dell’ingiustificato impoverimento subito (e nei confronti dell’ingiu‑ stificato arricchito) e presuppone un ulteriore passaggio argomentativo. Il recepimento dell’eccezione di ingiustificato arricchimento nell’assetto delle azioni di ripetizione dell’indebito versamento costituisce un elemento pregno di valore giuridico che sancisce una integrazione sostanziale dei tradi‑ zionali interessi sottesi alla disciplina della restituzione dei tributi. In questo senso il suddetto recepimento conduce ad importanti conclusio‑ ni giuridiche che saranno poste in luce al termine del contributo. Al fine di affrontare i temi in esame, risulta necessario effettuare i seguenti passaggi argomentativi. La trattazione si avvierà con una breve sintesi delle determinazioni rag‑ giunte negli anni ‘90 in merito alla disciplina del rimborso dei tributi; tale disciplina sarà poi valutata alla luce dei principi generali sul tema, al fine di sottolineare – in relazione ai modelli giuridici condivisi – le scelte concreta‑ mente effettuate dall’ordinamento nazionale. L’analisi di quest’ultimo aspetto conduce ad effettuare alcune riflessioni sugli artt. 2033 e 2041 del codice civile e sui loro reciproci rapporti. Il secondo punto di analisi attiene alle posizioni comunitarie sul tema del rimborso dei tributi. I tributi coinvolti dalle evoluzioni analizzate nel presente contributo sono anche quelli armonizzati e quelli incompatibili, in merito ai quali i principi comunitari costituiscono una fonte giuridica primaria nell’ambito della di‑ sciplina di riferimento (5). In questo senso, la giurisprudenza della Corte di

(4) Sulle modalità attraverso le quali viene operato lo spostamento in avanti dell’onere impositivo del tributo, in via generale, L. Salvini, Rivalsa nel diritto tributario, in Digesto, disc. priv., sez. comm., vol. XIII, Torino, 1996, 30. (5) Sui principi generali del diritto quale fonte dell’ordinamento europeo, sulla loro rilevanza nella materia tributaria ed in merito alle diverse modalità di formazione di tali principi, L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva europea, Milano, 2010, 9.


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Giustizia definisce attualmente un elemento fondamentale per lo studio del rimborso di tali tributi in quanto ha elaborato nel tempo dei principi generali che, oltre a concretizzare delle scelte condivise tra gli Stati, costituiscono la base normativa di obblighi giuridici, che gli Stati devono rispettare nella at‑ tuazione del diritto comunitario. Il tema del recepimento del divieto di ingiustificato arricchimento nell’am‑ bito delle azioni di restituzione dei tributi, con tutte le implicazioni che ne se‑ guono, costituisce una questione anche di diritto nazionale in quanto la previ‑ sione dell’eccezione di ingiustificato arricchimento è avvenuta con disposizio‑ ni di diritto interno, che in alcune ipotesi hanno recepito le posizioni europee. La ricostruzione del quadro normativo e delle sue evoluzioni conduce quindi all’esame del diritto positivo attuale, dei cambiamenti che si sono regi‑ strati, delle questioni interpretative, dei passi che si impongono per una coe‑ renza generale del sistema giuridico. 2. La disciplina nazionale del rimborso dei tributi secondo le determinazioni raggiunte negli anni ’90. – La disciplina del rimborso da indebito tributario ha da sempre rivestito un ruolo centrale nella materia. La messa a punto di una adeguata regolamentazione del rimborso rispon‑ de infatti ad esigenze centrali nell’equilibrio del rapporto tributario, in quanto combina principi di natura sostanziale, procedimentale e processuale (6). La disciplina in esame deve infatti rispondere ai valori costituzionali della materia tributaria, contenuti negli artt. 23 e 53 della Costituzione (7). Tali principi (che sanciscono nella loro combinazione che tutti i soggetti siano chiamati a contribuire alle spese pubbliche sulla base di un fatto giuri‑ dico contenuto in una legge ed espressivo di capacità contributiva) risulte‑ rebbero inattuati, se non fossero stabiliti adeguati strumenti di reintegrazione patrimoniale per tutte le ipotesi di versamenti a titolo di tributi (8). I suddetti principi devono poi essere declinati nella complessa ed articola‑ ta fase di attuazione del tributo, ove dominano (con i necessari adattamenti) i

(6) In questi termini, A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2008, 430. (7) Cfr. F. Tesauro, Il rimborso dell’imposta, cit., 9. (8) L’art. 23 e l’art. 53 della Costituzione definiscono rispettivamente un principio di giustizia formale ed un principio di giustizia sostanziale in relazione alla prestazione tributaria. In particolare, l’art. 53 qualifica il contenuto della prestazione tributaria, espressione dei principi generali di giustizia e razionalità fiscale. Cfr. F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, 12.


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principi amministrativi del procedimento (9), e nel processo tributario che si caratterizza per una peculiare struttura e natura (10). La combinazione e il contemperamento di tali valori hanno condotto – al termine del secolo scorso ed a seguito di importanti dibattiti sul tema – a rag‑ giungere alcuni importanti punti fermi, che hanno definito una sistemazione della materia. A tale proposito sono stati focalizzati due principi fondamentali: • la disciplina del rimborso dei tributi trova una base teorica e un paradigma normativo di riferimento nell’art. 2033 c.c., che contiene il noto principio di ripetizione dell’indebito; • la tutela del diritto alla restituzione deve rispondere alla specificità della disciplina procedimentale e processuale tributaria. L’art. 2033 c.c. è stato, così, acquisito quale fondamento della tutela del diritto alla restituzione; in questo modo si è ammessa la protezione di ogni versamento di tributo effettuato in assenza di un titolo giustificativo e si è san‑ cito che i termini dell’azione decorrono dal versamento indebito (11). In relazione, invece, ai termini e alla disciplina delle azioni per la tutela a fronte dell’indebito versamento, il sistema tributario ha affermato la propria specificità rispetto ai principi civilistici.

(9) Il dibattito sull’applicazione dei principi dell’attività amministrativa alla materia tributaria è risalente nel tempo e, comunque, sempre attuale. Cfr. G.A. Micheli, Studi sul procedimento amministrativo tributario, in Quaderni di riv. dir. fin., 1971, 259; A. Fedele, A proposito di una recente raccolta di saggi sul procedimento amministrativo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1971, I, 433; A Perrone, Discrezionalità e norma interna nell’imposizione tributaria, Milano, 1969, 177. Dopo l’approvazione della L. 7.8.1990, n. 241, cfr. L. Salvini, La partecipazione del privato all’accertamento (nelle imposte sui redditi e nell’IVA), Padova, 1990, 18; S. Muleo, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino, 2000, 254; P. Selicato, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, 12; M. Basilavecchia, La nullità degli atti impositivi: considerazioni sul principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2006, I, 256. (10) Cfr. G. Tabet, Le azioni di rimborso nella nuova disciplina del processo tributario, in Riv. dir. trib., 1993, I, 763. (11) Il fondamento della disciplina del rimborso dei versamenti tributari non dovuti è, infatti, l’art. 2033 c.c., principio generale di diritto comune, operante in tutte le branche dell’ordinamento giuridico che utilizzano l’istituto dell’obbligazione. In base a tale principio é ripetibile ogni pagamento effettuato in assenza di causa solvendi, indipendentemente dal rapporto che ne sta alla base, il quale può essere di natura privatistica o pubblicistica. Cfr. F. Tesauro, Il rimborso dell’imposta, cit., 9; G. Tabet, Contributo allo studio del rimborso d’imposta, cit., 10; M.C. Fregni, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1998, 25.


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In particolare, dopo anni di dibattiti in cui si è sostenuta la possibilità di un’azione di ripetizione dell’indebito tributario dinanzi al giudice ordinario da esercitare nel termine di prescrizione di 10 anni (12), è emerso un differente orientamento che ha escluso tale possibilità. Questa soluzione ha ricevuto an‑ che il consenso della Suprema Corte, la quale ha affermato: - che l’indebito versamento di tributi è assoggettato alla puntuale disciplina del contenzioso tributario; - che non vi è spazio per un’azione generale di indebito oggettivo dinanzi al giudice ordinario; - che la tutela a fronte dell’indebito tributario deve essere esercitata attra‑ verso la presentazione di un’istanza di rimborso entro termini di decaden‑ za ben definiti, che decorrono dal versamento del tributo. Su tali principi la giurisprudenza di legittimità non ha più modificato il suo orientamento che si è quindi consolidato in modo granitico, ad eccezione delle aperture che analizzeremo nel corso del presente contributo. La posizione in esame deve essere valutata alla luce dei principi generali in materia di tutela degli spostamenti patrimoniali in assenza di causa, al fine di chiarire gli originari paradigmi di riferimento e di comprendere le più re‑ centi evoluzioni. 3. I modelli generali di riferimento per la tutela degli spostamenti patrimoniali senza causa. – L’impostazione adottata dalla materia tributaria in

(12) Il problema di fondo che si è posto, storicamente, è stato quello di comprendere se, accanto alla tutela dinanzi alle Commissioni tributarie, fosse configurabile un’azione di ripetizione dell’indebito di fronte al giudice ordinario, entro il termine generale di prescrizione; la soluzione di tale questione incideva su altre importanti problematiche, quali l’efficacia preclusiva degli atti tributari, la natura del processo dinanzi alle Commissioni tributarie, i rapporti fra il processo tributario e quello civile. Nei primi tempi si è ammessa la possibilità di tale azione, in quanto la prima formulazione dell’art. 16 del D.P.R. 26.8.1972, n. 636 lasciava qualche spazio ad un’interpretazione in questo senso. Sul punto E. Potito, Azione di accertamento e ripetizione dell’indebito in materia tributaria, in Riv. dir. fin., 1974, 125; F. Tesauro, Il rimborso dell’imposta, cit., 253; S. La Rosa, Riforma del contenzioso e riforma dell’ordinamento tributario, in Il nuovo contenzioso tributario - Problemi e prospettive, Catania, 1978, 88. In un secondo tempo, a partire dalla modifica dell’art. 16 ad opera dell’art. 7 del D.P.R. 3.11.1981, n. 739, è risultato chiaro che all’istanza di rimborso fosse attribuito il ruolo di presupposto processuale per l’esercizio dell’azione di ripetizione dinanzi alle Commissioni tributarie e che non vi fosse spazio per alcun altro rimedio giurisdizionale. Cfr. A. Fantozzi, Diritto tributario, Torino, I ed., 1991, 402; F. Paparella, Il rimborso dei tributi, cit., 865.


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tema di rimborso (negli anni ’90) risponde ad una precisa scelta giuridica, coerente con la disciplina nazionale di diritto comune, le cui radici si com‑ prendono alla luce dell’esame dei modelli generali di riferimento storicamente messi a punto per la tutela degli spostamenti patrimoniali effettuati in assenza di causa. Tale analisi risulta fondamentale per comprendere le soluzioni adottate nell’ordinamento interno, sia a livello generale (ovvero all’interno del codice civile) sia (più specificatamente) nella materia tributaria. La tutela a fronte dell’indebito oggettivo, secondo le impostazioni storiche tradizionali da noi desunte dal diritto romano e dagli studi di diritto compara‑ to, può essere definita o in via autonoma o all’interno dell’area dell’ingiusti‑ ficato arricchimento. Da ciò consegue che negli Stati europei il principio di ripetizione presen‑ ti un differente contenuto, che deriva principalmente dai diversi confini che (all’interno di ogni Stato) sono stati tracciati nella disciplina positiva fra il principio di ripetizione dell’indebito e il divieto di ingiustificato arricchimen‑ to (13). In via generale l’azione di ripetizione dell’indebito è un rimedio di natura esclusivamente restitutoria che mira a reintegrare una prestazione effettuata in assenza di causa; l’area delle azioni dell’ingiustificato arricchimento, invece, si caratterizza per il ripristino di una giustizia di tipo restitutorio/equitativo, volta a correggere tutti gli incrementi patrimoniali ingiusti fra due soggetti. I due rimedi giuridici si accomunano per il fatto di porsi su un piano dif‑ ferente sia rispetto al contratto (in quanto non presuppongono alcuna pattui‑ zione), sia rispetto all’illecito aquiliano (in quanto si collocano nell’area dei fatti leciti).

(13) Sul rapporto tra il principio di ripetizione dell’indebito e il divieto di ingiustificato arricchimento nel sistema anglosassone, cfr. P. Birks, Unjust Enrichment, Oxford, 2003, passim; AA. VV., Unjustified Enrichment. Key Issues in Comparative Perspective, Cambridge, 2002, passim. In diritto comparato affrontano il tema secondo l’impostazione acquisita nel testo B. Kupisch, Ripetizione dell’indebito e azione generale di arricchimento. Riflessioni in tema di armonizzazione delle legislazioni, in Europa e dir. priv., 2003, 857; A. Moscati, L’azione di arricchimento nelle codificazioni moderne, in L’arricchimento senza causa, a cura di V. Mannino, Torino, 2005, 102; M. Giorgianni, L’arricchimento senza causa nel diritto italiano e tedesco: una regola e due sistemi a confronto, in Riv. dir. comm. e dir. gen. obbl., 2005, 501; A. Albanese, Il rapporto tra restituzioni e arricchimento ingiustificato dall’esperienza italiana a quella europea, in Cont. e impr. Europa, 2006, 922.


Dottrina

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Negli Stati europei la regolazione del principio di ripetizione dell’indebito e del divieto di ingiustificato arricchimento ha condotto alla definizione di tre modelli di disciplina: il modello unitario, il doppio sistema, la clausola generale contenente il divieto di ingiustificato arricchimento (quest’ultima si rinviene nei paesi di tradizione anglosassone). Il modello unitario nasce da un percorso giuridico ben preciso ed è quello adottato in Germania (14) e poi seguito in quasi tutti gli Stati europei di civil law, con la sola eccezione della Francia e dell’Italia. Negli Stati moderni di tradizione romanistica, il riconoscimento di un’a‑ zione di ingiustificato arricchimento è risultato molto sofferto, a causa di for‑ ti timori relativi all’introduzione di un rimedio sostenuto essenzialmente da principi di giustizia equitativa. Per tali ragioni si è preferito inglobare i presupposti della azione a tutela dell’ingiustificato arricchimento all’interno dell’area della ripetizione dell’in‑ debito, utilizzando un modello di protezione giuridica che si era affermato nella tradizione romanistica dell’età post-giustinianea. Si è così codificata una fattispecie generale che valuta, come presupposto, l’arricchimento a spese altrui in assenza di fondamento giuridico (15). Dalla applicazione di questo principio nasce un diritto alla restituzione in misura pari al (correlato) arricchimento senza causa di un soggetto ed impoverimento di un altro; l’azione a tutela di tale diritto non presenta il carattere della sussi‑ diarietà rispetto ai rimedi risarcitori. Differentemente, invece, il doppio sistema è quello che distingue le azioni di ripetizione dell’indebito da quelle di ingiustificato arricchimento, attribuen‑ do a queste azioni una diversa funzione: la ripetizione dell’indebito quella di restituzione della prestazione indebita (funzione restitutoria) e l’ingiustificato arricchimento quella di riequilibrare situazioni ingiuste (funzione equitativa ovvero di riequilibrio patrimoniale) (16). In tale ambito, come vedremo, si ascrive il sistema nazionale, accolto nel nostro codice civile, e quello francese.

(14) Come regolato dal BCB (Burgerliches Gesetzbuch) entrato in vigore 1.1.1900, Libro II, titolo 26, § 812. (15) Diffusamente, sull’argomento, M. Giorgianni, L’arricchimento senza causa nel diritto italiano e tedesco: una regola e due sistemi a confronto, cit., 511. (16) Tale sistema discende dall’assetto romanistico del III - II secolo A.C., ove la condictio indebiti affiancava l’actio de in rem verso. La condictio indebiti era una azione restitutoria pura, che non attuava alcuna mediazione fra gli interessi delle due parti in causa, in quanto volta, in via esclusiva, a tutelare chi aveva effettuato una prestazione in assenza di causa.


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Dagli assetti individuati si distingue il sistema anglosassone nell’ambito del quale, da tempo, su base casistica, si è proceduto alla costruzione, all’in‑ terno del diritto delle obbligazioni, di un autonomo settore definito “restitution of unjustified enrichment”. Secondo le ricostruzioni del diritto comparato, che si basano sostanzial‑ mente sull’analisi dei diversi precedenti giurisprudenziali, emerge come la restitution of unjustified enrichment si articola in una serie di azioni che hanno quale base comune il principio secondo il quale ogni vantaggio ingiustificato conseguito a spese di altri deve essere corretto (17). Nel sistema anglosassone l’ingiustificato arricchimento è la nozione che qualifica i rimedi restitutori: la correlazione fra lo svantaggio subito dall’at‑ tore e l’arricchimento conseguito dal convenuto in assenza di una valida giu‑ stificazione giuridica è il principio unificante le varie fattispecie, al verificarsi delle quali l’ordinamento risponde con una tutela restitutoria. Nell’area dell’ingiustificato arricchimento si definiscono varie tipologie di azioni, tra cui anche quella a tutela dell’indebito oggettivo (che in tale si‑ stema è, per l’appunto, qualificato come una delle fattispecie di ingiustificato arricchimento). Alla luce di tale esame, si rileva pertanto come la maggior parte degli Stati europei, seppur appartenenti a modelli giuridici differenti, abbia due impor‑ tanti punti di convergenza, quali: la generalizzazione del divieto di ingiusti‑ ficato arricchimento (che comprende anche la fattispecie dell’indebito ogget‑ tivo) e l’utilizzo di una tutela di tipo restitutorio a protezione delle situazioni giuridiche nascenti nell’area in esame. 3.1. La scelta dell’ordinamento nazionale nel codice civile. Il doppio sistema. La centralità dell’indebito oggettivo e la residualità dell’ingiustificato

Cfr. K. Zweigert - H. Kotz, Introduzione al diritto comparato, Tomo II, Gli istituti, Milano, 1995, 246. In tale azione era assente qualsiasi collegamento con l’equitas. L’actio de in rem verso, diversamente, era finalizzata a riequilibrare situazioni ingiuste, mediando gli interessi delle due parti. Cfr. G. MacCormack, The early history of the “actio de in rem verso”, in Studi in onore di A. Biscardi, Milano, 1982, 319. (17) Per una ricostruzione analitica di tutti i rimedi restitutori (writs), riconducili al law of restitution of enjust enrichment, diffusamente, K. Zweigert - H. Kotz, Introduzione al diritto comparato, cit., 266; F. Giglio, Esiste una “law of enjust enrichment” nel diritto inglese?, in Contr. e impr. Eu., Padova, 2000, 149.


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arricchimento. – Nell’ordinamento giuridico italiano si è adottata l’imposta‑ zione fondata sul doppio sistema. In ossequio a tale impostazione ogni spostamento patrimoniale deve es‑ sere giustificato, deve cioè fondarsi su una causa; qualora ciò non accada, il codice civile appronta due rimedi che – pur presentando una struttura e dei meccanismi differenti – costituiscono entrambi applicazione del principio ge‑ nerale di necessaria causalità delle attribuzioni patrimoniali. Si tratta di due istituti rispondenti ad esigenze di giustizia commutativa e annoverati tra le fonti dell’obbligazione diverse dal contratto e dal fatto il‑ lecito: il pagamento dell’indebito e l’arricchimento senza causa (disciplinati, rispettivamente, negli artt. 2033-2040 e 2041-2042 c.c.) (18). Tra di essi il più risalente nel tempo è l’istituto dell’indebito oggettivo, il quale è presente nel sistema a partire dal codice del 1865. L’arricchimento senza giusta causa, invece, ha fatto ingresso nel nostro ordinamento nel codice del 1942, con la finalità di assolvere ad un’esigenza di giustizia commutativa. Tale esigenza era particolarmente sentita in quanto il sistema del codice del 1865 (contenente le uniche previsioni dell’azione di ripetizione di indebito e della gestione di affari altrui) era risultato inadeguato a garantire una tutela sufficiente nei confronti dei soggetti che avessero subito un’ingiustificata decurtazione del proprio patrimonio per cause differenti da una prestazione indebita. La disciplina dell’indebito oggettivo, contenuta nell’art. 2033 c.c., opera ogni qual volta si configuri una prestazione non dovuta del solvens (colui che effettua la prestazione non dovuta) verso l’accipiens (colui che riceve la pre‑ stazione non dovuta); la non debenza della prestazione è data dall’assenza di un legittimo titolo giustificativo (19). La ripetizione del pagamento è l’azione volta a reagire al fatto oggettivo della attribuzione patrimoniale non dovuta; si tratta di un’azione di carattere

(18) Su tale aspetto e sulle conseguenze di questa impostazione, V. Carbone, Del pagamento dell’indebito, in Commentario del Codice civile, diretto da E. Gabrielli, vol. artt. 2028-2042 c.c., Milano, 2015, 44. (19) Per una compiuta analisi dell’istituto dell’indebito nella sua collocazione codicistica e, specificamente, sulla disciplina, C. Scuto, Natura giuridica e fondamento della ripetizione dell’indebito nel diritto civile italiano, in Riv. dir. civ., 1917, 1; G. Andreoli, La ripetizione dell’indebito, Padova, 1940, passim; E. Moscati, Il pagamento dell’indebito, Milano, 1973, passim; U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, Milano, 1974, passim; F. Galgano, Trattato di diritto civile, vol. II, Lavis (TN), 2009, 1110.


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personale, diretta alla restituzione e sottoposta all’ordinario termine di pre‑ scrizione (20). La legittimazione attiva ad agire per la ripetizione dell’indebito spetta a colui che ha effettuato il pagamento, mentre quella passiva è riconosciuta a colui che lo ha ricevuto (21). In tale ambito la prova richiesta per esperire un’azione di indebito oggettivo consiste esclusivamente nella (duplice) di‑ mostrazione della effettuazione di una prestazione e dell’assenza della causa debendi della prestazione stessa. La disciplina dell’indebito si fonda sulla necessità esclusiva di proteggere il solvens, riconoscendo a quest’ultimo, come già evidenziato, un rimedio per‑ sonale, diretto ed immediato per la ripetizione della prestazione. Differentemente, al di fuori dell’area del pagamento dell’indebito, l’in‑ giustificato arricchimento, a norma dell’art. 2041 c.c., si realizza per il conte‑ stuale-correlato impoverimento di un soggetto ed arricchimento di un altro, in assenza di una giusta causa. In tale ambito risulta necessario che il fatto gene‑ ratore dello spostamento patrimoniale (ingiustificato) sia unico e sussista uno stretto nesso di causalità e di immediatezza tra l’arricchimento ingiustificato (da un lato) e il depauperamento ingiustificato (dall’altro lato) (22). La realizzazione di un ingiustificato arricchimento è fonte di un obbligo di indennizzo da parte del soggetto che ha goduto dell’incremento patrimoniale a favore del soggetto che, invece, ha subito il correlato impoverimento. L’azione in esame mira ad un riequilibrio patrimoniale tra i due sogget‑ ti coinvolti ed ha l’obiettivo di sanare l’arricchimento/impoverimento senza causa; si pone quindi contestualmente a tutela dell’impoverito e dell’arricchi‑ to. Quella di ingiustificato arricchimento è un’azione caratterizzata da gene‑ ralità, sussidiarietà e residualità.

(20) Cfr. P. Rescigno, Ripetizione dell’indebito, in Noviss. Dig. it., XV, Torino, 1968, 1224-1237; V. Carbone, Del pagamento dell’indebito, cit., 87. (21) Cfr. V. Carbone, Del pagamento dell’indebito, cit., 87. (22) Sui contenuti dell’azione generale di ingiustificato arricchimento e sulla sua funzione nel sistema giuridico, G. Andreoli, L’ingiustificato arricchimento, Torino, 1940, passim; P. Trimarchi, L’arricchimento senza giusta causa, Milano, 1962, passim; E. Moscati, Arricchimento (azione di) nel diritto civile, in Digesto civ., vol. I, Torino, 1987, 453; P. Gallo, Quasi contratti, in Digesto civ., vol. XVI, Torino, 1997, 54; Id., Dell’arricchimento senza causa, in Commentario del Codice civile, diretto da E. Gabrielli, vol. artt. 2028-2042 c.c., cit., 219; F. Astone, L’arricchimento senza causa, Milano, 1999, passim; V. Mannino, L’arricchimento senza giusta causa, Torino, 2015, passim.


Dottrina

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L’azione in esame è infatti esperibile in presenza di fatti atipici e poten‑ zialmente illimitati. Secondo la disciplina del codice civile, però, l’azione di ingiustificato ar‑ ricchimento non può essere esercitata se sussistono i presupposti per esperire altri rimedi (ovvero laddove il depauperato potrà esercitare una diversa azione al fine di ottenere la reintegrazione patrimoniale); in tal modo si sancisce la sussidiarietà della suddetta tutela rispetto ai rimedi risarcitori e restitutori (23). Secondo altra prospettiva, complementare con quest’ultima, l’azione in esame riveste una funzione anche residuale e di chiusura dell’ordinamento giuridico, in quanto copre un’area di situazioni meritevoli di tutela che non sono comprese nell’ambito dell’indebito ovvero dell’illecito. Attraverso l’azione ex art. 2041 c.c. vengono, infatti, corrette le conse‑ guenze economiche di un comportamento secondo diritto, cioè non vietato dall’ordinamento, ma che ha determinato conseguenze ingiuste. La ratio di tale disciplina è comunemente riconosciuta nell’equità, in quanto è finalizzata a ristabilire un assetto giuridico equo, attraverso il contemperamento di due interessi ovvero quello dell’impoverito e quello dell’arricchito. Dalla analisi del quadro normativo discendono alcune considerazioni cir‑ ca i rapporti tra il rimedio di cui all’art. 2033 c.c. e l’azione prevista dall’art. 2041 c.c., relative ai presupposti, ai soggetti coinvolti, al tipo di tutela che viene approntata dall’ordinamento giuridico. Le due azioni presentano affinità di obiettivi ma si differenziano profon‑ damente in relazione ai suddetti elementi (presupposti, soggetti coinvolti, tu‑ tela), definendo un rapporto che conferisce un ruolo centrale alla ripetizione dell’indebito e residuale all’azione di ingiustificato arricchimento. Indiscutibile, pertanto, è la maggiore protezione che il nostro codice civile riconosce all’indebito oggettivo rispetto all’ingiustificato arricchimento, di‑ mostrata sia dal tipo di tutela riconosciuta (restitutoria versus indennitaria), sia dalla sussidiarietà dell’azione di arricchimento rispetto al rimedio restitutorio. L’impostazione adottata dall’ordinamento interno non è esente da critiche. La dottrina ha, infatti, posto in luce come esista un comune denominatore tra le due patologie (indebito oggettivo ed arricchimento senza causa) che sono riconducibili ad uno stesso principio generale, il divieto di arricchirsi

(23) In questi termini, F. Galgano, Trattato di diritto civile, vol. II., Lavis (TN), 2009, 1110; P. Gallo, Dell’arricchimento senza causa, cit., 251.


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ingiustificatamente a spese altrui, il quale potrebbe costituire il fondamento di un unico rimedio nazionale per gli spostamenti patrimoniali senza causa (24). In tal senso appare sempre più avvertita, nel diritto vivente, l’esigenza di una tutela maggiormente rispondente ad un sistema globalizzato (che ha adottato soluzioni differenti) ed all’ordinamento giuridico europeo che, come si verificherà, ha recepito l’impostazione unitaria. Quest’ultima, infatti, po‑ trebbe apparire più adeguata ad assicurare una tutela effettiva secondo uno standard giuridico nel quale le regole economiche hanno assunto un ruolo centrale (25). In altre parole un modello di tutela unitario riesce a garantire una giustizia più effettiva nell’ambito dei rapporti connotati da affari economici sottostanti, in quanto, valutando la posizione di entrambe le parti, ristabilisce un equili‑ brio patrimoniale tra i soggetti coinvolti evitando una pluralità di azioni ed eventuali inefficienze giudiziarie. 4. Le evoluzioni nella disciplina del rimborso dei tributi. Il recepimento nazionale del divieto di ingiustificato arricchimento. – Sulla base dell’analisi effettuata sui modelli giuridici generali si comprende come la materia tributa‑ ria abbia assunto, alla fine del secolo scorso, una impostazione coerente con il diritto comune, da un lato, e con le proprie caratteristiche specifiche, dall’altro lato. In considerazione della centralità dell’azione di ripetizione dell’indebito nel sistema del codice civile, nella materia tributaria si è costruita la discipli‑ na della tutela dei versamenti non dovuti sulla base del paradigma generale dell’indebito oggettivo. In ossequio a tale paradigma: - ogni versamento non assistito da una causa costituisce una prestazio‑ ne indebita dal momento della effettuazione; - legittimato alla richiesta di restituzione è esclusivamente chi ha effet‑ tuato l’indebito versamento (solvens), il quale è tenuto a fornire la (duplice) prova dell’effettuazione del versamento e dell’assenza di causa giustificativa; - i termini per l’azione di restituzione decorrono dal versamento inde‑ bito;

(24) (25)

Cfr. A. Albanese, Il pagamento dell’indebito, Padova, 2004, 10. In questi termini, C. Carbone, Del pagamento indebito, cit., 49.


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- la tutela della suddetta situazione giuridica è inquadrata nel paradig‑ ma dell’indebito oggettivo (art. 2033 c.c.) e nessuno spazio può quindi trovare il divieto di arricchirsi senza causa a spese altrui (art. 2041 c.c.), in consi‑ derazione dei caratteri di residualità e sussidiarietà della tutela ex art. 2041 c.c. Nella materia tributaria non è quindi ammessa un’azione di ingiustificato arricchimento per la tutela di spostamenti patrimoniali senza causa. Come rilevato al paragrafo 2, le specificità della materia tributaria hanno invece condotto alla procedimentalizzazione dell’azione di restituzione che si è, in tal modo, resa del tutto autonoma rispetto all’azione generale di ripetizio‑ ne dell’indebito davanti al giudice civile. La tutela dell’indebito tributario, infatti, si è dovuta inserire nelle maglie della fase di attuazione del tributo, definendo una specifica disciplina che ha previsto termini di decadenza per la presentazione dell’istanza di rimborso ed una tutela giurisdizionale condizionata ad una preventiva fase procedimentale dinanzi alla Amministrazione finanziaria (26). Nonostante tale specificità, non si è mai dubitato che il paradigma generale alla base dell’azione di restituzione fosse la disciplina civilistica dell’indebito oggettivo, la quale ha costituito il punto fermo per la definizione di diverse questioni che, nel corso degli anni, si sono poste nella materia dell’indebito tributario (27).

(26) Cfr. A. Fantozzi, Diritto tributario, cit., 432. (27) Le questioni che si sono poste negli anni si sono concentrate soprattutto sul tema del decorso dei termini per l’esercizio dell’azione. In via generale si è sempre ammesso che il termine per l’azione dovesse decorrere dal versamento indebito anche nei casi in cui ciò rendeva la tutela impossibile o poco effettiva. Cfr. Cass. 13.2.2018, n. 3775; Cass. 23.6.2017, n. 15698. Il principio è stato ribadito nel caso di richieste di restituzione di tributi previsti in norme dichiarate incostituzionali (cfr. la nota storica pronuncia Corte a SS.UU. del 9.6.1989, n. 2786), o in direttive (direttamente applicabili) non correttamente recepite (cfr. Cass. 24.2.2004, n. 18276; Cass. 14.6.2000, n. 11568; Cass. 21.1.2000, n. 3422) o nel caso in cui l’incompatibilità del tributo fosse emersa da una pronuncia interpretativa della Corte di Giustizia (cfr. Cass. SS.UU. 12.4.1996, n. 3458). Il medesimo principio è stato confermato per i casi di overruling dell’Amministrazione finanziaria (cfr. Cass. 6.9.2013, n. 20526). Cfr. F. Amatucci, L’overruling interpretativo ministeriale non incide sul dies a quo per il rimborso dell’IVA, in Rass. trib., 2012, 803; G.M. Cipolla, Diritto e processo nelle azioni di indebito comunitario: quando la Corte di Cassazione inventa l’overruling per rimettere in terminis i contribuenti, in Riv. giur. ital., 2012, 502; A. Marcheselli, Niente overruling per le sentenze della Corte di giustizia. La questione dei termini di rimborso, in Corr. trib., 2014, 2343; M.C. Fregni, Tributi dichiarati incompatibili con il diritto comunitario e decorrenza dei termini di decadenza per la presentazione dell’istanza di rimborso: il problema del dies a quo, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2015, 23; A. Bodrito, Le SS.UU. della Suprema Corte si pronunciano sul termine di decadenza dei


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Come rilevato in premessa, attualmente, alcuni fattori evidenziano che in determinati tributi la disciplina dei versamenti non dovuti ha recepito il cano‑ ne generale del divieto di arricchimento ingiustificato, definendo (ad avviso di chi scrive) una generale integrazione dei tradizionali modelli di riferimento. Tale evoluzione è stata sostenuta dalla giurisprudenza nata in sede europea sul tema del rimborso dei tributi ma anche dalla presa di coscienza di alcuni limiti, già avvertiti in sede civilistica, collegati al modello di tutela nazionale fondato sulla protezione dell’indebito oggettivo. Quest’ultimo rimedio è oggi percepito come inadeguato per dare protezione a determinate fattispecie che si realizzano nella materia fiscale, legate, in particolare, alle necessità di tutela che nascono in tutti i tributi applicati nella fase di circolazione dei beni e dei servizi e che prevedono una facoltà o un obbligo di rivalsa (28). Come anticipato in premessa il tema evidenzia due passaggi argomentati‑ vi molto importanti. Il primo passaggio è definito dal recepimento dell’eccezione di ingiu‑ stificato arricchimento, che assolve nell’impianto dell’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo la funzione di fatto impeditivo del diritto al rimborso. Si tratta di una circostanza della quale non si può che prendere atto nell’am‑ bito della disciplina del rimborso di alcuni tributi, come si dimostrerà nei pa‑ ragrafi che seguono. Il secondo passaggio è meno evidente e si sostanzia nella valorizzazione del suddetto recepimento alla luce dei principi giuridici e dei modelli di azione analizzati. 4.1. L’impostazione europea in materia di rimborso dei tributi. – Uno dei fattori più importanti che ha determinato un’evoluzione dalla disciplina tra‑ dizionale del rimborso tributario si riscontra nelle posizioni espresse in sede europea dalla Corte di Giustizia con riferimento a quest’ultimo tema. Come noto, è stato necessario mettere a punto, in sede interpretativa, una disciplina del rimborso dei tributi, in quanto espressione della diretta applica‑ bilità del diritto europeo.

rimborsi per imposta dichiarata in contrasto con il diritto UE, in Riv. giur. trib., 2015, 23; C. Califano, Il diritto al rimborso del tributo in contrasto con il diritto europeo non tutela l’affidamento del contribuente che si attiva oltre al termine decadenziale, in Rass. dir. civ., 2016, 282. (28) Sulle diverse fattispecie L. Salvini, Rivalsa nel diritto tributario, cit., 30.


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Il diritto alla restituzione dei tributi incompatibili con il sistema comuni‑ tario e dei tributi armonizzati nasce, infatti, direttamente dalle disposizioni europee e contribuisce alla realizzazione degli scopi comunitari. La disciplina del rimborso dei tributi contrastanti con l’ordinamento eu‑ ropeo – anche disciplina dell’indebito comunitario rilevante in materia tri‑ butaria (29) – è stata così elaborata dalla Corte di Giustizia nell’arco di un cinquantennio, attraverso importanti pronunce rese soprattutto in via interpre‑ tativa (30). Elemento fondamentale di tali pronunce è stato quello dell’accoglimento dell’eccezione di ingiustificato arricchimento nell’ambito delle azioni per la tutela del diritto alla restituzione a fronte dell’indebito versamento di tributi. In un ordinamento volto alla salvaguardia degli equilibri di mercato, il modello restitutorio puro non funziona efficacemente se non associato alla valutazione degli effetti che la restituzione produce nel complesso dei rapporti economici sottostanti all’imposta (31). A tale considerazione si aggiunga, inoltre, la circostanza, come verificato al paragrafo n. 3, che i principali Stati europei (sia di tradizione giuridica anglosassone che romanistica) che hanno definito l’impostazione giuridica

(29) Sul punto, specificamente, R. Miceli, Indebito comunitario e sistema tributario interno. Contributo allo studio del rimborso di imposta secondo il principio di effettività, Milano, 2009, passim. (30) Sul tema del rimborso dei tributi contrastanti con l’ordinamento europeo, cfr. M.C. Fregni, Tributi dichiarati incompatibili con il diritto comunitario e decorrenza dei termini di decadenza per la presentazione dell’istanza di rimborso: il problema del dies a quo, cit., 23; F. Amatucci, I vincoli posti dalla giurisprudenza comunitaria nei confronti della disciplina nazionale del rimborso d’imposta, in Riv. dir. trib., 2000, I, 291; L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, cit., 175; F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, 112; R. Miceli, Indebito comunitario e sistema tributario interno, cit., passim. Come evidenziato nel testo, per la ricostruzione del tema sono state determinanti le pronunce della Corte di Giustizia sulla questione. Cfr., ex pluribus, Corte di Giustizia 14.1.1997, C-192/95 e C-218/95, causa Comateb; Corte di Giustizia 15.9.1998, C-231/1996, causa Edis; Corte di Giustizia 15.9.1998, C-260/96, causa Spac; Corte di Giustizia 10.9.2002, C-216/99 e C-222/99, causa Prisco. (31) Sul divieto di ingiustificato arricchimento, quale principio generale dell’ordinamento europeo, L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, cit., 9; R. Miceli, Indebito comunitario e sistema tributario interno, cit., 74; Id., Nuove prospettive nazionali in materia di rimborso IVA, in Riv. trim. di dir. trib., 2012, 763; Id., La decorrenza dei termini per l’esercizio dell’azione di rimborso in caso di sopravvenuta (autorevole) interpretazione di una disposizione. In attesa di una svolta epocale, in Riv. trim. di dir. trib., 2014, 251.


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dell’Unione (Germania e Inghilterra) prevedono un sistema unitario di tutela restitutoria basato sul divieto di arricchirsi a spese altrui, che protegge al suo interno anche l’indebito oggettivo (32). La Corte di Giustizia ha così sottolineato, sin dalle prime pronunce sul tema, come la restituzione dei tributi non doveva avere luogo se determinava un ingiustificato arricchimento del contribuente. In particolare, la sentenza Just del 1980 (33) ha evidenziato chiaramente tale impostazione e la successiva evoluzione giurisprudenziale la ha confer‑ mata (34). Il recepimento di tale impostazione comporta la tutela del diritto alla re‑ stituzione da indebito versamento nell’ambito di un assetto che valuta la posi‑ zione sia del solvens (quale impoverito), che dell’accipiens (quale arricchito) e dove l’indebito versamento si qualifica come una causa di ingiustificato ar‑ ricchimento. Appare quindi chiaro come la giurisprudenza in esame abbia introdotto un principio molto importante per le azioni di restituzione. In tale ambito, infatti, gli Stati sono tenuti alla restituzione dei versamenti indebiti a meno che tale restituzione non determini un arricchimento senza causa del solvens. In tale assetto sono emerse pertanto alcune differenze rispetto al sistema nazionale, differenze che non potevano essere ignorate in considerazione della natura interpretativa dei principi della Corte di Giustizia. 4.2. Le evoluzioni normative nazionali. Il recepimento espresso dell’eccezione di ingiustificato arricchimento in funzione di limite alla ripetizione dell’indebito tributario nella disciplina di alcuni tributi. – La necessità di re‑ cepire le posizioni della giurisprudenza europea sul tema del rimborso ma anche di definire una maggiore cautela nelle azioni di restituzione di tributi

(32) È noto, infatti, che la formazione dei principi generali in ambito comunitario avvenga anche sulla base di una sintesi di principi previsti in altri ordinamenti giuridici, in ossequio alla necessità (comunitaria) di adottare e recepire quelli (principi) che meglio rispondano alle finalità europee. In questo senso, il divieto di ingiustificato arricchimento, quale principio unitario, risulta essere una sintesi tra i sistemi di tradizione anglosassone e i sistemi di quasi tutti i Paesi di tradizione romanistica, come la Germania. (33) Cfr. Corte di Giustizia 27.2.1980, C- 68/79, causa Just. (34) In particolare, cfr. Corte di Giustizia 25.7.1988, C-331/85, C-376/85 e C-378/85, causa Bianco e Girard; Corte di Giustizia 9.11.1983, C-199/82, causa San Giorgio; Corte di Giustizia 14.1.1997, C-192/95 e C-218/95, causa Comateb; Corte di Giustizia 17.11.1998, C-228/96, causa Aprile; Corte di Giustizia 9.2.1999, C- 343/96, causa Dilexport; Corte di Giustizia 24.9.2002, C-255/00, causa Grundig italiana.


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che si caratterizzano per un possibile fisiologico trasferimento dell’onere im‑ positivo (attraverso la rivalsa o la traslazione economica dell’imposta assolta, come si verificherà) ha condotto nell’ordinamento interno alla approvazione di due importanti provvedimenti normativi che hanno fatto storia per il dibat‑ tito suscitato a livello nazionale ed europeo. In tale assetto si è recepita l’impostazione europea introducendo nell’or‑ dinamento nazionale l’eccezione di ingiustificato arricchimento nell’ambito delle azioni di rimborso tributario. La prima disposizione è l’art. 19 del D.L. 30.9.1982, n. 688 (convertito in legge dalla L. 27.11.1982, 873). Tale norma ha previso per tutte le ipotesi di corresponsione indebita di diritti doganali all’importazione, imposte di fabbri‑ cazione, imposte di consumo o imposte erariali, che il diritto al rimborso delle somme pagate poteva essere riconosciuto a condizione che l’onere non fosse stato trasferito su altri soggetti. È una disposizione generale, non limitata alle controversie sulla restituzio‑ ne di tributi incompatibili con il diritto comunitario. Le tumultuose vicende che caratterizzarono l’applicazione della suddetta norma (35) hanno condotto in un momento successivo alla approvazione di altra disposizione normativa contenuta nell’art. 29 della L. 29.12.1990, n. 428, che ha diversificato il regime dell’azione di ripetizione dell’indebito a seconda che i tributi (di cui il soggetto chiedeva la restituzione) avessero o meno rile‑ vanza per l’ordinamento comunitario.

(35) L’iniziale previsione dell’art. 19, comma 1, del D.L. 30.9.1982, n. 688 stabiliva testualmente che il solvens doveva provare, in via documentale, che l’onere non era stato trasferito su altri soggetti. La limitazione dei mezzi probatori rendeva molto complessa questa dimostrazione e la Corte di Giustizia ha evidenziato, sin da subito, la contrarietà di tale previsione con l’ordinamento europeo. Cfr. Corte di Giustizia 9.11.1983, C-199/82, causa San Giorgio; Corte di Giustizia 24.3.1988, C-104/86, causa Commissione contro Italia. A seguito di tale pronuncia il legislatore nazionale ha provveduto ad approvare un’altra disposizione relativa soltanto alle restituzioni di tributi per contrasto con l’ordinamento europeo (l’art. 29 della L. 29.12.1990, n. 428). Il medesimo art. 19 è stato poi oggetto di due importanti interventi da parte della Corte Costituzionale. Con la prima pronuncia (Corte Cost. 21.4.2000, n. 114) sono state soppresse le limitazioni probatorie e con la seconda (Corte Cost. 9.7.2002, n. 332) la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’inversione dell’onere della prova in capo al solvens. Su tali questioni, M. Allena, Gli effetti giuridici della traslazione delle imposte, Milano, 2005, 142; A. Comelli, Sul diritto al rimborso di imposte indebitamente corrisposte senza obbligo di prova documentale, in Rass. trib., 2002, 1546.


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È stato così previsto, in via generale, che i diritti doganali all’importazione e le imposte di fabbricazione e di consumo, riscossi in applicazione di dispo‑ sizioni nazionali incompatibili con norme comunitarie, dovevano essere rim‑ borsati a meno che il relativo onere non fosse stato trasferito su altri soggetti. In attuazione di tale normativa, l’ingiustificato arricchimento assumeva la natura di fatto impeditivo del diritto al rimborso, divenendo un’eccezione processuale in senso proprio, l’onere della cui prova incombe in via generale su chi la solleva. Costituiva, quindi, onere dell’Amministrazione finanziaria dimostrare che il solvens avesse traslato l’imposta su un altro soggetto. Anche tale norma è andata incontro a diverse censure, finalizzate a rendere a livello operativo il proprio contenuto conforme ai principi europei di effettività delle disposizioni processuali (36). Nonostante le complesse vicende che hanno caratterizzato l’applicazione delle suddette disposizioni, queste ultime costituiscono ormai diritto vivente nell’ordinamento interno e consentono di registrare un passaggio importante. Nell’ambito delle azioni di rimborso è stata recepita l’eccezione di ingiu‑ stificato arricchimento, definendo un modello di tutela a fronte dell’indebito oggettivo integrato dal divieto di arricchirsi a spese altrui. Il passaggio in esame è sancito dalla stessa Corte Costituzionale (in una pronuncia relativa alla disciplina in oggetto, nel complesso percorso che ne ha caratterizzato la definizione a livello probatorio), la quale ammette che “anche in materia tributaria vale il principio della ripetibilità dell’indebito, ma il diritto alla ripetizione può essere legittimamente limitato o escluso dal

(36) In merito all’applicazione di tale disposizione, l’Amministrazione finanziaria e la giurisprudenza nazionale si sono radicate su posizioni interpretative che hanno agevolato la prova del trasferimento dell’onere impositivo al fine di negare i rimborsi ai contribuenti. In particolare, si è registrato l’utilizzo frequente di presunzioni per dimostrare l’avvenuto trasferimento dell’imposta, che giungevano al risultato di invertire l’onere della prova. Sui diversi filoni giurisprudenziali domestici, che hanno favorito la nascita di tali presunzioni, si rinvia a C. Attardi, Presunzione di traslazione del tributo: in tema di responsabilità di uno Stato membro per inadempimento agli obblighi comunitari, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2004, II, 65; V. Mercurio, La ripetizione dei tributi riscossi in violazione del diritto comunitario tra ”diritto vivente” e principio di effettività, in Riv. dir. trib., 2004, III, 85; N. Pennella, Il caso italiano della presunzione di traslazione dei tributi sui consumi, in Rass. trib., 2003, 1126. Tali posizioni interpretative sono state censurate dalla Corte di Giustizia (cfr. Corte di giustizia 9.12.2003, C-129/00, causa Commissione contro Italia).


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legislatore, al fine di evitare un ingiustificato arricchimento del solvens, allorché il peso economico dell’imposta sia stato trasferito su altri soggetti” (37). L’impostazione in esame ha ricevuto una conferma anche dalla stessa Cor‑ te di Cassazione in numerose pronunce (38). In relazione, quindi, ai tributi indiretti qualificabili nelle suddette aree, risulta oggi essere recepito un modello di tutela dai contenuti parzialmente differenti rispetto a quello tradizionale. 4.3. Le questioni giuridiche conseguenti. La complessità della prova della rivalsa e della traslazione giuridica. – L’ammissione di un’eccezione di in‑ giustificato arricchimento nella disciplina della restituzione dei suddetti tributi indiretti ha sollevato alcune questioni giuridiche relative ad aspetti che non sono stati regolati adeguatamente in sede normativa e che devono, conseguen‑ temente, essere affrontati in sede interpretativa. La dimostrazione che la restituzione del tributo costituisce un fatto idoneo a realizzare un ingiustificato arricchimento, come anticipato al paragrafo pre‑ cedente, assume la natura di fatto impeditivo del diritto al rimborso, divenen‑ do un’eccezione processuale in senso proprio, il cui relativo onere incombe in via generale su chi la solleva. Ad esito del lungo percorso normativo e giurisprudenziale su questi ultimi temi, è stato chiarito che l’onere di provare l’ingiustificato arricchimento in‑ combe, in via generale, sulla Amministrazione finanziaria nel momento in cui riceve una richiesta di rimborso nell’ambito delle imposte indicate. Definito un corretto riparto dell’onere della prova, i problemi relativi al contenuto della prova medesima sono stati al centro del dibattito giuridico, conducendo ad importanti pronunce della Corte di Giustizia e della Corte co‑ stituzionale (39), che hanno ribadito un certo rigore nella dimostrazione in esame, in coerenza con i principi generali in materia di effettività e di giusto processo. In realtà nella valutazione di tale prova si celano questioni importanti che impattano su temi tradizionali della materia tributaria. Le imposte coinvolte dalla disciplina in esame si caratterizzano per re‑ golamentazioni di diverso tipo in ordine alla facoltà di traslare l’onere impo‑

(37) (38) 13054. (39)

In questo senso Corte Costituzionale 9.7.2002, n. 332. Cfr. Cass. 17.5.2007, n. 11124; Cass. 24.5.2005, n. 10939; Cass. 14.7.2004, n. Cfr. paragrafo precedente e, in particolare, le note nn. 35 e ss.


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sitivo che prevedono: in alcuni casi l’assenza di una regolamentazione dello spostamento in avanti dell’onere impositivo, in altri casi la previsione di un diritto o di un obbligo di rivalsa, in altri ancora la regolamentazione autorita‑ tiva dei prezzi. In tale assetto normativo l’eccezione di ingiustificato arricchimento si è quindi concretizzata nella possibilità di provare la rivalsa giuridica dell’impo‑ sta ovvero la sua traslazione; queste ultime costituiscono fenomeni ontologi‑ camente differenti ma accomunati dalla circostanza di definire entrambi, nella dinamica procedimentale e processuale, fatti impeditivi del diritto al rimbor‑ so, in quanto provano che il contribuente (che ha richiesto il rimborso) ha trasferito l’onere dell’imposta su altro soggetto. In merito alla rivalsa ed alla traslazione si incontrano importanti problemi giuridici, relativi (in primo luogo) alla loro rilevanza tributaria ed (in secondo luogo) alle complessità relative alla prova. Per quel che concerne la rivalsa giuridica, è noto come nell’ordinamento interno (e, in particolare, con il coinvolgimento di soggetti terzi nella fase di attuazione dei tributi e con l’istituzione di imposte caratterizzate da peculiari meccanismi impositivi) siano state previste ipotesi in cui l’imposta è assolta da un soggetto al quale è riconosciuto un obbligo, un diritto o una facoltà di rivalsa verso altro soggetto. In questi casi il legislatore ha sancito uno sposta‑ mento dell’onere del tributo, prevedendo il meccanismo giuridico della rival‑ sa (40). La rivalsa è un diritto di credito corrispondente all’ammontare del tribu‑ to, il cui esercizio consente al soggetto, titolare dell’obbligo di pagamento del tributo stesso, di recuperare giuridicamente ed economicamente la somma versata all’Erario. Attualmente non è pacifico se la rivalsa abbia un rilievo nel rapporto tri‑ butario e si tende a sostenere la natura privatistica (e non pubblicistica) del rapporto tra il soggetto attivo e quello passivo della rivalsa (41), le cui relative

(40) In via generale, sul tema, L. Salvini, Rivalsa nel diritto tributario, in Digesto, disc. priv., sez. comm., vol. XIII, Torino, 1996, 30. (41) Si evidenzia come in via generale non sia stato mai posto in discussione il rilievo giuridico della rivalsa (quale diritto di credito, il cui esercizio può essere obbligatorio o facoltativo a seconda della disciplina di ogni tributo). Si dibatte, invece, sulla natura tributaria o meno della rivalsa stessa e le conclusioni, su tale questione, si ripercuotono sulla qualificazione tributaria (o meno) del rapporto fra il soggetto attivo e il soggetto passivo della rivalsa. Sulla natura tributaria della rivalsa, F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva, Padova,


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controversie sono peraltro oggetto della giurisdizione ordinaria e non tributa‑ ria (42). Per quel che concerne il tema della prova, la rivalsa, in quanto istituto giuridico disciplinato dall’ordinamento, è effettuata in modo palese. Ne risulta che, anche nei casi in cui è facoltativa, se il soggetto decide di esercitarla, tale esercizio sarà esplicito. La prova della rivalsa si acquisisce, pertanto, con l’analisi dei documenti contabili che recano il prezzo di vendita e l’ammontare del tributo trasferito all’acquirente. Molto più complesso è il tema della traslazione economica (anche trasla‑ zione progressiva o in avanti). Quest’ultima costituisce un fatto economico che si colloca sul piano degli effetti dei tributi sul mercato e identifica un fenomeno mediante il quale il peso dei tributi è trasferito da chi ufficialmente li deve (contribuente di diritto) ad altri soggetti che si trovano in una relazione economica con i contribuenti (contribuenti di fatto). In linea generale, quindi, la traslazione non ha un rilievo tributario in quanto non è un fenomeno rego‑ lato ma un possibile effetto fisiologico delle imposte sul consumo (43), la cui

1973, 205; G. Falsitta, Spunti in tema di capacità contributiva e di accollo convenzionale d’imposta, in Giur. it., 1986, 1465, Id., Manuale di diritto tributario (parte generale), Padova, 2008, 286; R. Schiavolin, Il collegamento soggettivo, in AA.VV., La capacità contributiva, a cura di F. Moschetti, Padova, 1993, 80. Sulla natura tributaria della rivalsa nell’IVA, L. Salvini, Rivalsa, detrazione e capacità contributiva nell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., 1993, I, 1295. Sulla natura tributaria della rivalsa nelle accise, M. Cerrato, Spunti intorno alla struttura e ai soggetti passivi delle accise, cit., 235, il quale rileva che la previsione dell’obbligo o del diritto di rivalsa attribuiscono alle accise la natura di imposte sui consumi, in quanto sono finalizzati al trasferimento dell’onere impositivo. (42) Si vedano in tal senso le riflessioni effettuate sulla materia della rivalsa tra sostituto e sostituito d’imposta. Cfr., ex pluribus, G. Tabet, Ancora sulla giurisdizione in tema di lite di rivalsa tra sostituto e sostituito, in Riv. giur. trib., 2010, 772; S.M. Messina, Tornano davanti al giudice ordinario le liti fra sostituto e sostituito, in Corr. trib., 2009, 3346. (43) Nell’ordinamento tributario e soprattutto all’interno delle sentenze della Corte Costituzionale si fa spesso riferimento alla traslazione in questi termini, quale fenomeno economico che dipende da fattori diversi, legati al mercato e alle scelte dell’operatore economico. La traslazione è anche riconosciuta all’interno delle imposte dirette. In particolare, con riferimento all’IRAP, cfr. Corte Cost. 21.5.2001, n. 156 (n. 6.2) ove si evidenzia che come succede per qualsiasi costo gravante sulla produzione l’onere economico dell’imposta potrà essere trasferito sul prezzo dei beni o dei servizi prodotti secondo le leggi di mercato o essere recuperato attraverso opportune scelte organizzative.


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realizzazione dipende essenzialmente dallo stato del mercato nel momento in cui si svolge l’operazione economica (44). In altre parole, ogni operatore economico tenderà a trasferire sui consu‑ matori gli oneri fiscali sopportati nella fase di produzione o di commercializ‑ zazione, al fine di ottenere un guadagno compatibile rispetto ai costi sostenuti, ma non è detto che riesca effettivamente in questo intento (45). Non è escluso, tuttavia, che in determinate ipotesi ed in relazione alla struttura di alcuni tributi, la stessa traslazione possa assumere un rilievo giuri‑ dico nella materia tributaria (46). La prova della traslazione è complessa da ottenere e molto tecnica. In considerazione delle precisazioni effettuate nel corso delle diverse pro‑ nunce che hanno riguardato il tema, si ritiene che tale prova potrà essere ot‑ tenuta solo a seguito di un’analisi del settore economico coinvolto (47) e di un esame della documentazione contabile del contribuente, che valuti tutti gli elementi che hanno contribuito alla determinazione del prezzo, al fine di rile‑

(44) Così F. Forte, Manuale di scienza delle finanze, Milano, 2007, 353. In questi termini, da sempre, la traslazione è analizzata dalla scienza delle finanze all’interno degli effetti delle imposte, al fine di comprendere come un tributo possa poi, effettivamente, incidere su altri soggetti: lo scopo della teoria della traslazione è, infatti, quello di individuare i soggetti realmente incisi da ogni tributo. Sul punto, diffusamente, si rinvia alle opere generali di L. Einaudi, Studi sugli effetti delle imposte, Torino, 1902, passim; A. Da Empoli, Teoria dell’incidenza delle imposte, Reggio Calabria, 1926, passim; M. Pantaleoni, Teoria della traslazione dei tributi – Definizione dinamica ed ubiquità della traslazione, Milano, 1958, passim; A. Graziani, Teoria economica. Prezzi e distribuzione, Napoli, 1976, passim; B. Bises, voce Traslazione delle imposte, in Digesto, disc. priv, sez. comm., vol. XVI, Torino, 1999, 48; A.E. Granelli, Capacità contributiva e traslazione d’imposta, in Giur. it., 1986, I, 953; F.C. Rosati, Traslazione delle imposte dirette e politica fiscale, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1988, I, 64. (45) In realtà la realizzazione della traslazione sui consumatori dipende da numerosi fattori specifici, quali: il tipo di imposta introdotta, il regime di mercato in cui opera l’attività del contribuente di diritto, l’elasticità della domanda e dell’offerta dei beni oggetto dell’attività, la presenza di discrezionalità nella determinazione dei prezzi dei prodotti, la fase economica in corso e, nel mercato in concorrenza, l’andamento della curva dei costi. Cfr. M. Leccisotti, Istituzioni di scienza delle finanze (di M. Leccisotti – A. Pedone), Torino, 2007, 164; F. Forte, Manuale di scienza delle finanze, cit., 369. (46) Sul punto F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, cit., 204, il quale evidenzia che la traslazione, nel momento in cui definisce un fenomeno presupposto e comunque previamente accettato dal legislatore, qualifica una fattispecie giuridica che può avere un rilievo fiscale in quanto contribuisce alla individuazione del soggetto passivo che concorre alle spese pubbliche ex art. 53 Cost. (47) Cfr. M. Allena, Gli effetti giuridici della traslazione delle imposte, cit., 19; L. Di Via, Indebito comunitario, ripercussione dell’onere tributario e forme di mercato, cit., 352.


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vare in che misura il tributo (assolto dal contribuente) abbia partecipato a tale determinazione. Trattasi di una prova tecnica molto complessa, che necessita di conoscenze approfondite sulla teoria di formazione dei prezzi. La medesima operazione deve essere effettuata in relazione ai prezzi im‑ posti in via amministrativa. Anche in questo caso sarà necessario uno studio sui procedimenti amministrativi che hanno determinato la formulazione del singolo prezzo, al fine di verificare se ed in che misura si sia voluto operare un trasferimento del tributo (48). In sede procedimentale, quindi, il mezzo istruttorio che meglio si presta ad una dimostrazione della traslazione è quello della ispezione contabile, a se‑ guito di un accesso presso il contribuente o di un invito rivolto a quest’ultimo a fornire la documentazione contabile (49). In sede processuale, lo strumento più idoneo per la verifica dei fatti sarà quello della consulenza tecnica che, come noto, è un mezzo di integrazione istruttoria che può essere ordinato anche dal giudice d’ufficio. In ogni caso la prova della traslazione rimane ancorata ad un alto grado di opinabilità e di probabilismo: la parte di tributo che ha inciso sulla determina‑ zione del prezzo risulterà da una serie di valutazioni non generalizzabili, ma calibrate su ogni caso concreto (50). Le difficoltà oggettive nella dimostrazione della traslazione sono, infatti, alla base delle ricostruzioni che tendono a negare una rilevanza giuridica alla traslazione stessa (51), circoscrivendo la proponibilità della eccezione di in‑ giustificato arricchimento alle sole ipotesi di rivalsa giuridica.

(48) Diversamente, M. Cerrato, Spunti intorno alla struttura e ai soggetti passivi delle accise, cit., 230, sottolinea come la determinazione autoritativa del prezzo di vendita è finalizzata a trasferire sul consumatore finale l’intero ammontare del tributo. Nei casi di determinazione autoritativa dei prezzi si è, infatti, di fronte ad imposte sul consumo. (49) Cfr. in questo senso Cass. 16.5.2007, n. 11224. (50) La giurisprudenza di legittimità tende ad escludere l’automatismo tra prova della traslazione e dimostrazione dell’ingiustificato arricchimento del solvens, richiedendo al giudice anche una ulteriore valutazione sulla situazione economica complessiva del contribuente che non deve aver subito una riduzione generale delle vendite per l’aumento del costo del prodotto. Cfr. Cass. 1.10.2015, n. 19619. (51) In particolare, si rinvia alle interessanti riflessioni di M. Allena, Gli effetti giuridici della traslazione d’imposta, cit., 176, il quale rileva come sia difficile scomporre il prezzo di un bene immesso al consumo e scinderne le diverse componenti. L’Autore, in particolare, evidenzia che il prezzo non è nella volontà di chi compra e di chi vende, in quanto soggetto alle regole della domanda e dell’offerta e, quindi, governato dalle regole di mercato. Il prezzo non può essere inteso come una sommatoria di addendi singolarmente identificabili, in quanto non


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4.4. Il divieto di ingiustificato arricchimento da limite del diritto al rimborso a principio generale a tutela degli spostamenti patrimoniali senza causa. – L’ammissione di un’eccezione di ingiustificato arricchimento all’interno della disciplina del rimborso di determinati tributi indiretti definisce un pas‑ saggio giuridico molto significativo. L’eccezione di ingiustificato arricchimento, come verificato, è un fatto impeditivo al riconoscimento del diritto alla ripetizione della prestazione in capo al solvens che, nella logica dell’azione di rimborso, definisce un limite giuridico al riconoscimento del diritto alla restituzione. Si ritiene tuttavia che la funzione di tale eccezione non si circoscriva a questa valutazione. L’eccezione di ingiustificato arricchimento deve essere infatti analizzata ed interpretata all’interno dell’azione di rimborso ed alla luce dei valori gene‑ rali che regolano la disciplina dei versamenti senza causa. Si comprende, in tal modo, come il suddetto limite sia espressivo di valori ben precisi, che trascendono dall’azione in esame e segnano inequivocabil‑ mente un importante passaggio nella disciplina della tutela del diritto al rim‑ borso (52). In altre parole, la previsione di un’eccezione di ingiustificato arricchimen‑ to all’interno delle azioni di restituzione dei tributi definisce chiaramente il passaggio da una azione restitutoria pura (basata sul modello dell’art. 2033 c.c.) ad una azione che (secondo i modelli generali) si pone nell’area più am‑ pia del divieto di arricchirsi ingiustificatamente a spese altrui. Fondamentale in questa ricostruzione è la circostanza che nell’azione di indebito oggettivo (sulla base del modello di cui all’art. 2033 c.c.) non può essere prevista una eccezione di ingiustificato arricchimento in considerazione del fatto che è un’azione esclusivamente a tutela del solvens, basata sul pre‑ supposto della effettuazione di una prestazione in assenza di causa.

sono controllabili le variabili che influiscono sulla sua formazione. (52) Si tratta di un ragionamento affine a quello che da sempre ha connotato in capo ad attenta dottrina l’interpretazione delle agevolazioni o delle esenzioni tributarie. Tali norme non devono essere sempre considerate eccezionali e qualificate come limiti al potere impositivo, ben potendo essere espressione di principi o esigenze generali. In tali casi assumono un ruolo centrale nell’impianto disciplinare del tributo e possono costituire la base di interpretazioni analogiche o estensive. Cfr. F. Moschetti, Le esenzioni fiscali come “norme limite suscettibili di interpretazione analogica”, in Giur. it., 1976, I, 153; G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Milano, 2012, 215.


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Secondo la disciplina introdotta dall’art. 2033 c.c., infatti, la circostanza che la ripetizione della prestazione causi un ingiustificato arricchimento non ha alcun rilievo, in quanto i presupposti per la ripetizione della prestazione si sono realizzati in toto e la necessità di tutela è sorta. L’ammissione dell’eccezione di ingiustificato arricchimento, invece, po‑ tenzia l’area dei valori tutelati dall’azione di restituzione che si definiscono nella protezione dei versamenti senza causa nell’area del divieto di ingiustifi‑ cato arricchimento. Il recepimento di tale divieto nelle azioni di rimborso qualifica inequi‑ vocabilmente un modello di tutela rinnovato/integrato in alcuni aspetti, che sottende ulteriori (e necessari) passaggi giuridici. Quello più importante attiene alla necessità di tutela di un altro soggetto, che deve essere garantita dall’ordinamento tributario stesso. Nei casi in cui sia accolta l’eccezione di traslazione o di rivalsa e si neghi un diritto al rimborso al solvens, si rende necessario tutelare altro soggetto che risulta conseguentemente essere inciso (di diritto o di fatto) dalla prestazione tributaria effettuata senza causa. In tali ipotesi il sistema tributario deve garantire una tutela effettiva, in quanto espressione anche in tale caso della legalità del concorso alle spese pubbliche in ragione dei principi contenuti negli artt. 23 e 53 della Costitu‑ zione (53). 4.5. La necessità di tutelare l’effettivo inciso e la legittimazione del diritto al rimborso. – L’ammissione di un’eccezione di ingiustificato arricchimento, quale causa impeditiva del diritto al rimborso, definisce un assetto nel quale la restituzione può essere legittimamente negata nell’ipotesi in cui si dimostri (secondo i principi più volte definiti) che la restituzione causerebbe un arric‑ chimento senza causa. In tal senso emerge come, al fine di fare giustizia nel caso concreto, rista‑ bilendo l’equilibrio patrimoniale, in tutti i casi in cui l’eccezione della Am‑ ministrazione finanziaria sia accolta (e non si proceda al riconoscimento del

(53) Sul punto F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva, cit., 205, il quale sottolinea la necessità che in determinate ipotesi la rivalsa o la traslazione abbiano un rilievo giuridico, in quanto se ciò non avvenisse si priverebbe di tutela il vero contribuente ovvero colui che ha sopportato l’effettivo onere del tributo. Si comprende quindi la necessità di riconoscere una tutela al destinatario della rivalsa o della traslazione al fine di non eludere il principio di capacità contributiva.


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diritto al rimborso) altro soggetto dovrebbe avere legittimazione a chiedere la restituzione di quanto assolto senza un valido titolo giuridico. Come rilevato, questa possibilità dovrebbe essere una logica conseguenza dell’accoglimento di un modello di tutela del diritto al rimborso integrato dal divieto di arricchirsi ingiustificatamente. Legittimato ad agire dovrebbe essere la controparte contrattuale del solvens, che nel sistema delle imposte coinvolte in tale assetto normativo sarà un consumatore ovvero un soggetto estraneo alla disciplina tributaria delle imposte medesime. Sulla proponibilità di tale azione e sulla disciplina di riferimento si è ali‑ mentato un importante dibattito nazionale, sul quale si sono sostenute due diverse posizioni. Secondo l’impostazione tradizionale, nel sistema giuridico attuale, il con‑ sumatore può agire soltanto verso il proprio fornitore per chiedere ed ottenere la restituzione di quanto indebitamente assolto, proponendo un’azione di ri‑ petizione entro il termine di prescrizione decennale dinanzi alla giurisdizione ordinaria (54). Nella fattispecie in esame, infatti, si ritiene si riscontri una lite tra privati, che non abbia sostanzialmente una natura tributaria. La suddetta soluzione appare incoerente e compromette del tutto una ef‑ fettiva attuazione della giustizia nel caso concreto. Il consumatore (soggetto passivo della rivalsa) può agire esclusivamente verso il fornitore (soggetto attivo della rivalsa), il quale ha versato il tributo all’Erario. Il fornitore, tuttavia, secondo il paradigma dell’azione di indebito oggettivo, dovrebbe comunque restituire la somma e poi effettuare un’autono‑ ma azione tributaria di ripetizione dell’indebito dinanzi all’Erario; tale azione,

(54) Secondo numerosa giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. 6.8.2014, n. 17627; Cass. 19.3.2013, n. 9657; Cass. SS.UU., 25.9.2009, n. 11987; Cass. 19.3.2009, n. 6589; Cass. 16.6.2008, n. 16612) il rapporto tributario tra il soggetto passivo delle imposte e il consumatore ha natura privatistica e il prezzo pagato non è un tributo ma un corrispettivo contrattuale. Ne consegue che nessuna richiesta può essere avanzata dal consumatore alla Amministrazione finanziaria, che è del tutto estranea al rapporto contrattuale tra il consumatore e il suo fornitore. Si ritiene, pertanto, che il rapporto tributario in materia di accise ricorra esclusivamente tra il fornitore e lo Stato ed a tale rapporto è del tutto estraneo il consumatore. Cfr., sulla questione, V. Mercurio, Sulla legittimazione del consumatore finale al rimborso dell’accisa sull’energia elettrica indebitamente versata dal proprio fornitore, in Rivista di diritto tributario online, 6.8.2018.


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essendo sottoposta ad un termine di decadenza (che decorre dal versamento indebito), potrebbe non essere più esperibile. Allo stesso modo, secondo tale impostazione, non può essere configurabi‑ le un’azione diretta del consumatore verso l’Erario: la circostanza che il con‑ sumatore non abbia effettuato direttamente il versamento all’Erario definisce un difetto di legittimazione in relazione all’azione (tradizionale) di ripetizione dell’indebito oggettivo che, come noto, impone che legittimato all’azione sia soltanto chi ha effettuato il versamento indebito. Inoltre, secondo la ricostru‑ zione prima riferita, il consumatore non avrebbe corrisposto un tributo ma semplicemente un corrispettivo contrattuale; conseguentemente non avrebbe i presupposti giuridici per adire il giudice tributario. Secondo una differente impostazione, invece, la medesima Suprema Corte ha ammesso la legittimazione del consumatore ad agire direttamente verso l’Erario per richiedere la restituzione dell’indebita corresponsione. Tale impostazione si è fondata su due argomenti: la formulazione del te‑ sto normativo in materia di accise (che rimane sul punto molto generica) e la presa d’atto della totale inadeguatezza del sistema di tutela (prima descritto) in materia di restituzione dell’indebito versamento (55). Sulla base di quanto fino ad ora argomentato, si ritiene necessario sup‑ portare in via generale quest’ultima ricostruzione in quanto coerente con i modelli accolti a livello normativo. Il recepimento del divieto di arricchirsi senza causa a spese altrui – nell’ambito del paradigma generale delle azioni di restituzione relative ai tri‑ buti in esame – deve comportare alcuni corollari necessari, quali: - la possibilità per il soggetto passivo della rivalsa di agire direttamente verso l’Erario per la restituzione della somma indebitamente corrisposta al suo

(55) Secondo alcune pronunce della Suprema Corte si riscontrano due elementi che definiscono una legittimazione del consumatore ad una azione di restituzione verso l’Erario. In prima battuta la norma che regola il rimborso in materia di accise è generale e dispone che l’accisa è rimborsata quando risulta indebitamente pagata. Sembrerebbe, quindi, che siano legittimati alla azione tutti coloro che dimostrino di avere indebitamente assolto all’imposta (cfr. Cass. 6.12.2013, n. 27315; Cass., SS.UU., 19.3.2009, n. 6589; Cass. 12.9.2008, n. 23518). In seconda battuta si evidenzia come non riconoscendo legittimazione al consumatore, quest’ultimo non godrebbe di una possibilità di tutela effettiva. Si precisa che alcune delle fattispecie analizzate dalla Suprema Corte hanno ad oggetto la restituzione dell’imposta per il riconoscimento di una agevolazione. Cfr., sulla questione, V. Mercurio, Sulla legittimazione del consumatore finale al rimborso dell’accisa sull’energia elettrica indebitamente versata dal proprio fornitore, cit.


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fornitore, anche se non è il contribuente di diritto (ovvero colui che ha versato il tributo all’Erario). Tale soggetto è infatti l’effettivo inciso dalla prestazione tributaria indebita che deve poter agire verso chi si è arricchito senza causa in un modello generale di restituzione dell’indebito che si colloca nel quadro più ampio del divieto di arricchirsi senza causa a spese altrui. In tale assetto non si può dubitare che la restituzione attenga ad un tributo indebitamente corri‑ sposto o comunque ad una somma che assume una rilevanza tributaria (e non ad un corrispettivo contrattuale), dal momento che si è precluso al solvens di ottenere la restituzione della medesima somma a suo tempo versata a titolo di tributo; - la possibilità in capo al fornitore (o soggetto attivo della rivalsa), nel caso in cui fosse destinatario di una azione di ripetizione dell’indebito da parte del soggetto passivo della rivalsa (consumatore), di poter agire per la ri‑ petizione dell’indebito entro un termine di decadenza che decorre dal mo‑ mento in cui si è verificato il suo ingiustificato impoverimento in seguito all’azione di restituzione da parte del consumatore; - l’utilizzo in quest’ultimo caso – quale termine generale per l’effettuazione di tale ultima azione – di quello previsto dall’art. 21, comma 2 del D.Lgs. 31.12.1992, n. 546, secondo il quale “la domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero se posteriore dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”. Orbene, tale norma consente di agire entro due anni dalla verificazione di un presupposto alla restituzione diverso dal versamento indebito, ammettendo l’ingresso (nel nostro sistema) di cause sopravvenute di diritto al rimborso, per le quali i termini per l’azione devono decorrere da un momento differente (e successivo) rispetto al versamento dei tributi. Il presupposto della restituzione è, in tale caso, l’ingiustificato arricchi‑ mento dell’Erario ed (ingiustificato) impoverimento del fornitore che si rea‑ lizza nel momento in cui il fornitore ha dovuto restituire la somma al consu‑ matore. Si ritiene che questo sia l’assetto che attualmente debba operare nell’am‑ bito di tutti i tributi in relazione ai quali la norma nazionale ha recepito il divieto di ingiustificato arricchimento nelle azioni a tutela degli spostamenti patrimoniali in assenza di causa. 4.6. La diretta applicabilità del divieto di ingiustificato arricchimento ai tributi armonizzati ed ai tributi incompatibili. Le conseguenze in ambito IVA. I contrasti giurisprudenziali nel diritto interno. – I principi generali in materia


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di restituzione dei tributi, come anticipato al paragrafo 3.2, nei termini in cui sono stati elaborati dalla Corte di Giustizia, sono riferibili a tutte le imposte armonizzate ed a tutte le controversie che si basano sulla restituzione dei tri‑ buti per incompatibilità europea (tributi incompatibili). Al di fuori, quindi, delle ipotesi analizzate nei paragrafi precedenti, in cui l’eccezione di ingiustificato arricchimento è stata espressamente regolata in una normativa interna, esiste altra importante area giuridica in cui la disciplina medesima si applica in via diretta, in quanto elaborata dalla Corte di Giustizia per le suddette materie. In tale ambito emerge, in particolare, che i principi in esame siano ri‑ feribili all’intera disciplina dell’IVA, come è stato espressamente sancito in numerose pronunce della Corte di Giustizia (56). Nonostante tali importanti precedenti interpretativi, a livello nazionale, in ambito IVA, l’eccezione di ingiustificato arricchimento non viene ammessa dalla giurisprudenza di legittimità nel corso delle cause di restituzione; in tale giurisprudenza, infatti, si utilizza il modello puro di restituzione dell’indebi‑ to oggettivo, definendo un importante disallineamento rispetto alla disciplina europea (57). A tale ultima circostanza si aggiunga anche che il tema della tutela rivolta ai contribuenti nelle cause di restituzione presenta i medesimi problemi che sono stati già analizzati nel paragrafo precedente (con riferimento alle accise) in relazione al coordinamento tra la tutela rivolta al soggetto attivo della rival‑ sa e quella rivolta al soggetto passivo della rivalsa medesima. Su tali questioni, con riferimento all’IVA, ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Giustizia. In relazione all’IVA si ammette una tutela dell’indebito oggettivo differen‑ te a seconda del soggetto che agisce per la restituzione. In altre parole, il soggetto che ha versato l’imposta all’Erario può agire per la ripetizione dell’indebito secondo la procedura ordinaria di rimborso dei tributi, mentre il cessionario/committente (soggetto IVA) o il consumatore finale possono agire verso il cedente/prestatore con un’azione di ripetizione

(56) Cfr. Corte di Giustizia 16.3.2013, C-191/12, causa Alakor; Corte di Giustizia 6.9.2011, C398/09, causa Lady e kid. (57) L’eccezione di ingiustificato arricchimento, quale fatto impeditivo del diritto al rimborso, rileva non per tutti i tributi, ma soltanto per quelli stabiliti dall’art. 19 del D.L. 30.9.1982, n. 688 e dall’art. 29 della L. 29.12.1009, n. 428, in quanto non è un principio generale del sistema tributario. Con riferimento all’IVA, cfr. Cass. 16.3.2007, n. 6193.


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dell’indebito da esperire nel termine di prescrizione decennale dinanzi al giu‑ dice ordinario (58). I due procedimenti di tutela (dinanzi alle Commissioni tributarie per il cedente/prestatore e dinanzi al giudice civile per il cessionario/committente) sono stati analizzati dalla Corte di Giustizia e ritenuti in linea con i parametri comunitari. Per quel che concerne il procedimento (nazionale) di tutela dell’indebito tributario, si è ammessa nel tempo, con diverse pronunce, la compatibilità con i principi europei della disciplina che prevede la presentazione di un’istanza di rimborso entro termini di decadenza all’Amministrazione finanziaria ed un successivo (ed eventuale) ricorso dinanzi alle Commissioni tributarie, avverso il diniego espresso o tacito all’istanza stessa (59). In altra pronuncia la Corte di Giustizia ha invece statuito a favore della compatibilità comunitaria del sistema di tutela nazionale, affermando che la normativa comunitaria non osta ad una disciplina nazionale che consente al cedente/prestatore di richiedere la restituzione dell’IVA direttamente all’Era‑ rio e al cessionario/committente di esercitare un’azione civilistica di ripetizio‑ ne dell’indebito dinanzi al giudice ordinario.

(58) La giurisprudenza di legittimità è da tempo unanime nel ritenere che in materia di IVA le controversie fra il soggetto attivo e il soggetto passivo dell’operazione commerciale, in merito alla restituzione dell’IVA addebitata in via di rivalsa, non attengano al rapporto tributario e non siano liti sull’imposta. Si tratterebbe, infatti, di liti tra privati che devono essere incardinate dinanzi al giudice ordinario. Sulla questione, Cass., SS.UU., 20.11.2017, n. 27437; Cass., SS.UU., 31.05.2017, n. 13721; Cass., SS.UU., 4.4.2016, n. 6451; Cass., SS.UU., 28.6.2011, n. 2064; Cass., SS.UU., 24.5.2007, n. 12063; Cass., SS.UU., 8.3.2006, n. 4896; Cass., SS.UU., 4.5.2005, n. 9191; Cass., SS.UU., 24.4.2003, n. 6632; Cass., SS.UU., 14.5.2001, n. 208. Il tema è stato anche analizzato dalla dottrina, la quale da sempre ha messo in luce i limiti della tutela dinanzi al giudice ordinario nelle liti sulla rivalsa IVA. Cfr., A.E. Granelli, La rivalsa IVA alla ricerca di una parte e di un giudice, in Boll. trib., 1975, 904; Id., Situazioni fiscali plurisoggettive e contenzioso tributario, in Boll. trib., 1979, 259. (59) In base al principio di equivalenza, l’ordinamento comunitario si è espresso a favore del riconoscimento alle Commissioni tributarie della giurisdizione sulle controversie relative alla restituzione di tributi contrastanti con norme europee, escludendo la configurabilità di un’azione generale di ripetizione dell’indebito dinanzi al giudice civile. È stato posto in evidenza, infatti, come il sistema comunitario non osti all’assoggettamento del diritto alla restituzione dei tributi a procedimenti differenti, ed anche più onerosi, rispetto a quelli utilizzabili per le azioni di ripetizione dell’indebito tra privati, a patto che detti procedimenti siano ugualmente applicabili tanto alle azioni fondate sul diritto interno, quanto a quelle derivanti dal diritto comunitario. Cfr. Corte di Giustizia 15.9.1998, C-260/96, causa Spac; Corte di Giustizia 9.2.1999, C-343/96, causa Dilexport.


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La Corte medesima ha, tuttavia, precisato che se il rimborso fosse divenu‑ to impossibile o eccessivamente difficile si sarebbero dovuti prevedere stru‑ menti idonei a consentire il recupero dell’IVA indebitamente versata (60). Come è stato dimostrato in altra importante vicenda giudiziaria, la com‑ binazione dei due sistemi di tutela rende, in concreto, impossibile una tutela stessa per il cedente/prestatore IVA (61). Questo risultato è l’effetto di un evidente disallineamento dei termini tra le due azioni, in quanto il cessionario/committente ha dieci anni per esercitare l’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo dinanzi al giudice ordinario nei confronti del cedente/prestatore, mentre quest’ultimo ha soltanto due anni, che decorrono dal versamento del tributo, per presentare un’istanza di rimbor‑ so all’Amministrazione finanziaria. Il cedente/prestatore, inoltre, non potrebbe (in ogni caso) agire tempesti‑ vamente entro due anni dal versamento dell’IVA, in quanto il suo interesse ad agire sorge soltanto nel momento in cui restituisce la somma al cessionario/ committente (che è legittimato ad un’azione di ripetizione che si prescrive in dieci anni). Prima di tale momento, infatti, il cedente/prestatore non ha alcun interesse concreto a chiedere il rimborso di quanto versato, considerato che il tributo è stato da lui addebitato a titolo di rivalsa (al cessionario/committente) e versato all’Erario. Per ottemperare alla necessità di giustizia nel caso concreto, in ossequio alle richieste europee, la giurisprudenza nazionale è intervenuta sul suddetto sistema di tutela. La Corte di Cassazione ha pertanto sancito che, in nome del principio di effettività del diritto comunitario, il termine di decadenza per l’esercizio dell’azione di rimborso da parte del cedente/prestatore può essere disapplicato e quest’ultimo può conseguentemente essere rimesso in termini ed ottenere la restituzione del tributo. La soluzione in esame viene circoscritta dalla Corte di Cassazione solo alle ipotesi in cui il cedente/prestatore abbia dovuto restituire il tributo al ces‑ sionario/committente in esecuzione di un provvedimento coattivo. La solu‑ zione stessa, pertanto, non opera nel caso in cui la restituzione sia avvenuta

(60) (61)

Così Corte di Giustizia 15.3.2007, C-35/05, causa Reemtsma Cigarettenfabriken. Cfr. Corte di Giustizia 15.12.2011, C-427/10, causa Banca popolare Antonveneta.


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spontaneamente da parte del cedente/prestatore o su istanza del cessionario/ committente (62). Si tratta di una soluzione, ad avviso di chi scrive, corretta nelle conclusio‑ ni ma erronea nel percorso giuridico e nelle limitazioni che sono state previste. La soluzione giuridica di tale fattispecie passa, anche in questo caso, dalla presa d’atto del recepimento del divieto di ingiustificato arricchimento nell’a‑ rea di tutela degli spostamenti patrimoniali senza causa, che in ambito IVA dovrebbe partire dalla ammissione della eccezione di ingiustificato arricchi‑ mento all’interno delle cause di indebito oggettivo esperite dal cessionario/ prestatore. A tale ammissione dovrebbe poi fare seguito, come già analizzato, la pos‑ sibilità di un’azione autonoma a tutela del soggetto inciso dal versamento sen‑ za causa. Alla luce di tali valutazioni dovrebbe pertanto essere ammessa: - la possibilità per il soggetto passivo della rivalsa (operatore economico o consumatore finale) di agire direttamente verso l’Erario per la restituzione della somma assolta senza causa; - la possibilità in capo al soggetto attivo della rivalsa, nel caso in cui fosse destinatario di una azione di ripetizione dell’indebito da parte del soggetto passivo della rivalsa, di poter agire per la restituzione entro un termine che decorre dal momento in cui ha dovuto restituire la somma; - l’utilizzo, quale termine generale per l’effettuazione di tale ultima azione, del termine previsto dall’art. 21, comma 2, del D.lgs. 30.12.1992, n. 546 nei termini in cui è stato definito nel paragrafo precedente. In relazione a questi ultimi due punti (che sono quelli specificamente af‑ frontati dalla recente giurisprudenza di legittimità) il termine biennale per l’esercizio dell’azione (ex art. 21, comma 2, del D.Lgs. 31.12.1992, n. 546) deve decorrere dal momento in cui il cedente/prestatore ha dovuto restituire la somma. La suddetta disciplina, conseguentemente, dovrebbe operare sia in caso di restituzione dell’imposta non dovuta a seguito di istanza della controparte, sia in quella in cui la restituzione avviene in ossequio ad un provvedimento giurisdizionale o amministrativo. La Corte di legittimità, nella questione in esame, si è limitata a fornire una risposta al caso concreto ed ha evitato, come invece avrebbe dovuto fare,

(62)

Cfr., in tal senso, Cass. 24.3.2017, n. 7722; Cass. 26.1.2016, n. 1426.


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di risolvere una questione generale che si pone ordinariamente nelle cause di restituzione nell’IVA. Nell’ambito della disciplina IVA l’ammissione di un sistema di tutela in‑ tegrato con il divieto di ingiustificato arricchimento risponde senza dubbio al canone generale di effettività al quale, come noto, tutte le azioni a tutela dei diritti europei devono essere improntate. 5. Conclusioni. Il recepimento dell’eccezione di ingiustificato arricchimento nelle azioni di restituzione di alcuni tributi e il (conseguente) passaggio verso un modello di tutela integrato dal divieto di arricchirsi ingiustificatamente. – L’esame condotto nel presente lavoro ha consentito di porre in luce una importante evoluzione che si è registrata nell’ordinamento interno negli ultimi anni in tema di rimborso dei tributi. Si tratta di una evoluzione che è passata sottotraccia, in quanto le norma‑ tive che la hanno introdotta sono state valutate soprattutto per il regime pre‑ visto in tema di prove nelle cause di rimborso, in merito al quale vi è stato un importante dibattito in seno alla giurisprudenza nazionale ed europea nonché alla dottrina. Le medesime normative sono state, quindi, in questa sede, analizzate sotto differente punto di osservazione al fine di valorizzare, insieme ad altri impor‑ tanti elementi più recenti, le modifiche sostanziali che hanno apportato nel nostro ordinamento giuridico. Nell’ambito di alcuni tributi – le imposte doganali, le imposte di fabbrica‑ zione, produzione e consumo, l’IVA, le altre imposte armonizzate e le imposte incompatibili (di cui si deve chiedere la restituzione) – è stata introdotta nella disciplina delle azioni di restituzione l’eccezione di ingiustificato arricchi‑ mento quale fatto impeditivo del diritto al rimborso. Tale modifica è espressione di un passaggio giuridico molto significativo in base al quale si è transitati da una tutela basata sul modello puro di resti‑ tuzione dell’indebito oggettivo ex art. 2033 c.c. ad una tutela integrata dal divieto di arricchirsi ingiustificatamente a spese altrui. In nome di questo passaggio la tutela dei versamenti senza causa dovrebbe adattarsi ad una nuova logica giuridica e prendere atto di importanti evoluzio‑ ni. L’indebito oggettivo viene oggi protetto nell’ambito di una disciplina ge‑ nerale che valuta anche l’effetto della restituzione sulla posizione giuridica del solvens, prevedendo la possibilità che la restituzione stessa sia negata laddove realizzi un ingiustificato arricchimento in capo al solvens stesso.


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La prova dell’ingiustificato arricchimento è a carico dell’Erario e consiste in linea generale nella dimostrazione dell’avvenuto spostamento dell’onere impositivo su un soggetto terzo, attraverso meccanismi di rivalsa palese o di traslazione economica. Il raggiungimento di tale ultima dimostrazione (e quindi la negazione del rimborso al solvens) dovrebbe conseguentemente legittimare altro soggetto a richiedere la restituzione della somma, previa dimostrazione di essere l’effet‑ tivo destinatario dell’onere di un tributo indebitamente corrisposto all’Erario. La somma oggetto di restituzione, secondo la presente ricostruzione, conserva la natura di tributo (o comunque conserva una rilevanza tributaria), essendo stato dimostrato (nel corso della controversia) che quest’ultimo am‑ montare ha costituito l’oggetto di una rivalsa o di una traslazione dal contri‑ buente di diritto verso quello di fatto. I principi sottesi a tale nuova disciplina dovrebbero, pertanto, consentire al soggetto inciso dall’onere tributario di chiedere la restituzione di quanto in‑ debitamente assolto a titolo di tributo, sia con un’azione diretta verso l’Erario di restituzione della prestazione indebitamente assolta, sia attraverso un’azio‑ ne di ripetizione dell’indebito verso la propria controparte contrattuale (che poi agirà verso l’Erario). La prima strada, la cui percorribilità è fortemente controversa in ambito nazionale, risulta sicuramente preferibile in quanto più diretta ed efficiente per il sistema giuridico; la seconda strada rimane comunque possibile a condizio‑ ne che il soggetto attivo della rivalsa (la controparte contrattuale) possa poi agire verso l’Erario entro un termine di decadenza che decorre dal momento in cui ha dovuto restituire la somma al soggetto passivo della rivalsa. Il recepimento dell’assetto in esame non modifica le coordinate generali della disciplina dell’indebito tributario, ma la integra con il divieto di ingiusti‑ ficato arricchimento, definendo un quadro giuridico maggiormente adatto alle dinamiche impositive ed economiche attuali. Si ritiene che la disciplina esistente in materia di azioni di restituzione risulti adeguata a supportare tale ampliamento dell’area di tutela. In tutte le ipotesi in cui risulta necessario rimediare ad uno spostamento patrimoniale ingiustificato, che diviene tale in una fase successiva rispetto al momento del versamento, risulta fondamentale la previsione dell’art. 21, com‑ ma 2, del D.Lgs. n. 546/1992. Tale norma, come analizzato, consente di agire entro due anni dalla verificazione di un presupposto alla restituzione diverso dal versamento indebito, ammettendo l’ingresso (nel nostro sistema) di cause sopravvenute di diritto al rimborso, per le quali i termini per l’azione debbono


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decorrere da un momento differente (e successivo) rispetto al versamento dei tributi. Il presupposto della restituzione potrebbe pertanto essere costituito dal (sopravvenuto) ingiustificato arricchimento dell’Erario ed impoverimento del soggetto agente. Il recepimento di tale impostazione è attualmente in divenire, in un quadro generale dove ancora devono essere effettuati alcuni passaggi importanti. Su tali aspetti, come dimostrato, vi sono timide aperture della giurisprudenza di legittimità che si devono trasformare in decise prese d’atto in coerenza con la disciplina attualmente vigente. 5.1. Riflessioni per una generalizzazione della disciplina. – Dall’analisi effettuata nel presente contributo emerge come in relazione ai tributi diversi da quelli considerati il principio di ripetizione dell’indebito oggettivo rimanga il paradigma generale per la tutela dei versamenti senza causa (63). La tutela basata esclusivamente sul principio di ripetizione dell’indebito risulta attualmente oggetto di censure nell’ambito del diritto comune ove si auspica al passaggio al modello integrato dal divieto di arricchirsi ingiustifi‑ catamente a spese altrui; si ritiene che anche nella materia tributaria potrebbe essere considerato un passaggio di questo tipo. Si tratta di una valutazione supportata da diverse ragioni, che sono emerse nel corso della trattazione. Il modello generale basato sul divieto di arricchirsi ingiustificatamente a spese altrui è giuridicamente più efficace, come dimostra la circostanza che sia adottato dalla maggior parte dei Paesi europei. Il recepimento di tale modello, inoltre, allineerebbe perfettamente la di‑ sciplina del rimborso nazionale ai canoni del diritto europeo, rispetto ai quali oggi si definisce un sistema di principi globalizzato e condiviso da tutti gli Stati membri. Il paradigma di tutela basato sul divieto di arricchirsi ingiustificatamente a spese altrui, inoltre, non limita in nulla la disciplina attuale dell’indebito oggettivo, ma ne colma alcuni limiti e ne amplifica le potenzialità, rendendo la tutela degli indebiti versamenti più adeguata al dinamismo delle relazioni economiche attuali ed alla moderna conformazione dei rapporti tributari.

(63) Sul punto si vedano le osservazioni di L. Salvini, Traslazione e rimborso delle imposte sul reddito, in Rass. trib., 2015, 1158, la quale evidenzia come pare che in materia di imposte sul reddito non sia stata regolata la fattispecie della traslazione dell’onere impositivo. Si realizza, pertanto, in questo modo un doppio regime di ripetizione dell’indebito.


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Il recepimento di tale modello, come verificato nell’attuale campo in cui opera, risulta molto utile nell’ambito di tutte le fattispecie di rapporti tributari che (di diritto o di fatto) ampliano l’ordinaria relazione contribuente-fisco, coinvolgendo soggetti terzi nei rapporti impositivi. A tale proposito si pensi alle diverse fattispecie di sostituzione o di responsabilità di imposta. In tali contesti il modello di protezione fondato in via esclusiva sull’indebito og‑ gettivo è carente e non funziona, alimentando azioni e situazioni altamente censurabili sul piano dei canoni generali dell’effettività europea e del giusto processo nazionale. La complessità delle controversie per la restituzione delle ritenute errone‑ amente versate dal sostituto d’imposta all’Erario nelle fattispecie di sostitu‑ zione (di imposta) è a tutti nota. In tale ambito si continua a ritenere necessario che il sostituito agisca verso il sostituto dinanzi al giudice ordinario per la ripetizione di quanto erroneamente versato, trattandosi, anche in questo caso, di un rapporto privatistico estraneo al rapporto tributario (64). Si pongono, pertanto, nella sostituzione e nella responsabilità d’imposta, questioni affini a quelle già analizzate; l’esperienza maturata in questi ultimi anni potrebbe pertanto essere un valido ausilio anche per le suddette questioni. In ultima analisi una generalizzazione del divieto di arricchirsi ingiusti‑ ficatamente a spese altrui sarebbe un contributo alla certezza del diritto, dal momento che eviterebbe al livello nazionale il consolidamento di un doppio regime di ripetizione dell’indebito tributario. Si ritiene, pertanto, che la disciplina del rimborso dei tributi potrebbe va‑ lutare un graduale accoglimento del divieto di ingiustificato arricchimento, nei termini analizzati nel presente studio, non solo per allinearsi all’ordina‑ mento europeo, ma soprattutto per garantire una tutela più effettiva a tutti i contribuenti nazionali.

Rossella Miceli

(64) In tal senso un consolidato orientamento della Corte di Cassazione. Cfr. Cass. SS.UU., 15.11.2017, n. 21523; Cass., SS.UU., 6.6.2013, n. 14307; Cass. SS.UU., 8.4.2010, n. 8312; Cass., SS.UU., 26.6.2009, n. 15032, ove si ammette che le controversie tra sostituto e sostituito relative al legittimo e corretto uso del diritto di rivalsa delle ritenute rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario trattandosi di un diritto esercitato dal sostituto verso il sostituito nell’ambito di un rapporto di tipo privatistico, cui resta estraneo l’esercizio del potere impositivo proprio del rapporto tributario.


Riflessioni sull’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 36 ter comma 2 del DPR 29 settembre 1973, n. 600 Sommario: 1. Premessa. – 2. L’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 36 ter comma 2 del DPR n. 600/1973. – 2.1. Interpretazione letterale e in base alla ratio. – 2.2. Interpretazione sistematica. – 2.2.1. I principi di legalità dell’azione amministrativa, di proporzionalità e di buona amministrazione. – 2.2.2. La (non) applicabilità dell’art. 21-octies della L. n. 241/1990. – 2.3. Interpretazione adeguatrice in forza del principio di riserva di legge ex art. 23 Cost. – 2.3.1. Principio di riserva di legge e vincolatezza dell’azione dell’amministrazione finanziaria nelle fasi attuative del tributo in cui è collocabile l’art. 36 ter del DPR n. 600/1973. – 2.3.2. Ipotesi ricostruttiva in merito alla collocazione sistematica dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 e sua indifferenza rispetto alla tematica qui trattata. – 3. Effetti sulla validità del ruolo e/o sull’utilizzabilità delle prove acquisite durante l’attività istruttoria nel caso di attivazione di controllo formale per fattispecie diverse da quelle previste dal comma 2 dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973. L’articolo in questione sostiene la tesi secondo cui l’ambito di applicazione dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 è da ritenersi tassativo cosicché l’amministrazione finanziaria non è legittimata ad applicare la norma in parola in relazione a fattispecie diverse da quelle espressamente previste dal legislatore. This article argues that the scope of art. 36 ter of Presidential Decree n. 600/1973 must be considered absolute therefore the tax authorities are not entitled to apply the named provision to cases different from the ones expressly provided by the legislator.

1. Premessa. – Nel presente lavoro si vuole analizzare l’ambito oggetti‑ vo di applicazione dell’art. 36 ter del DPR 29 settembre 1973, n. 600 al fine, essenzialmente, di stabilire la legittimità o meno del comportamento dell’am‑ ministrazione finanziaria, talvolta riscontrato nella prassi operativa, volto ad attivare il procedimento di controllo formale in presenza di fattispecie diverse


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da quelle espressamente contemplate dal comma 2 della norma in commen‑ to, le quali fattispecie richiederebbero l’adozione di un’attività istruttoria più complessa di quella prevista per i controlli formali (1). L’analisi cui si è fatto cenno poc’anzi mira, inoltre, a stabilire la legittimità degli eventuali ruolo e cartella di pagamento emessi a seguito di violazioni del contribuente riguardanti le predette fattispecie, nonché l’utilizzabilità o meno delle prove acquisite dall’amministrazione finanziaria, in sede istrutto‑ ria, aventi ad oggetto le fattispecie medesime. 2. L’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 36 ter comma 2 del DPR n. 600/1973. 2.1. Interpretazione letterale e in base alla ratio. – Dalla lettura dell’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973 si evince come l’amministrazione fi‑ nanziaria sia legittimata a rettificare la base imponibile e/o l’imposta determi‑ nate dal contribuente nel caso in cui quest’ultimo abbia indicato nel modello dichiarativo ritenute di acconto, oneri deducibili, oneri detraibili e crediti di imposta in tutto o in parte non spettanti, sicché, in base ad un’interpretazione squisitamente letterale della norma, l’ambito oggettivo della medesima non sarebbe estensibile ad ipotesi diverse da quelle tassativamente previste dalla legge (2). E, con specifico riferimento a dette ipotesi tassative, non è del tutto chiaro se il sindacato ex art. 36 ter del DPR n. 600/1973 possa aver luogo solo per questioni di fatto (errori materiali e/o di calcolo), essenzialmente rinvenibi‑ li dal mero confronto tra i dati oggettivi desumibili dalla dichiarazione e la documentazione giustificativa richiesta al contribuente, oppure possa essere esteso a questioni di carattere interpretativo, le quali, in caso contrario, potreb‑

(1) Un esempio, al riguardo, è rappresentato dalla richiesta fatta dall’Agenzia delle Entrate ad un contribuente, nell’ambito di un controllo formale ex art. 36 ter del DPR n. 600/1973, attivato al fine di verificare la documentazione a supporto della detrazione di un credito per imposte pagate all’estero (art. 165 Tuir), di fornire ulteriore documentazione volta a dimostrare la sussistenza della residenza fiscale in Italia del contribuente medesimo, nonché la spettanza a quest’ultimo dell’agevolazione sul reddito di lavoro dipendente prestato all’estero di cui all’art. 51, comma 8 bis, del Tuir. (2) Cfr. Cass. 17 marzo 2000, n. 3119. La sentenza in parola è stata pronunciata con riferimento al contenuto dell’art. 36 bis, comma 2, del DPR n. 600/1973, introdotto dall’art. 2 del DPR 24 dicembre 1976, n. 920, poi trasfuso, ad opera dell’art. 13 del D. Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, nell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973. Nello stesso senso si veda anche la Circ. Ag. Entr. 16 luglio 2011, n. 68/E.


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bero essere contestate solo con la procedura accertativa ordinaria di cui agli art. 37 e ss. del decreto da ultimo nominato (3). La rettifica della dichiarazione in base all’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 non sarebbe quindi attuabile in caso di violazioni concernenti l’individuazione dei presupposti (soggettivo, oggettivo e territoriale) di applicazione del tribu‑ to (4), ovvero la determinazione della relativa base imponibile (imponibilità

(3) È stata in particolare considerata fuori dall’ambito applicativo dell’art. 36 bis, comma 2, del DPR n. 600/1973, introdotto dall’art. 2 del DPR n. 920/1976, la questione attinente l’interpretazione in merito al presupposto di applicabilità di un onere detraibile di un ente commerciale soggetto Irpeg (cfr. Comm. trib. centr. 1° febbraio 1994, n. 397), nonché fuori dall’ambito applicativo dell’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973, dopo la modifica attuata dall’art. 13 del D.Lgs. n. 241/1997, le questioni attinenti la spettanza o meno di un credito di imposta Irpeg per maggiore occupazione (cfr. Comm. trib. reg. Lombardia del 29 novembre 2006, n. 86), lo scomputo per cassa o per competenza di ritenute a titolo di acconto (cfr. Comm. trib. reg. Piemonte n. 78 del 2010) e la deducibilità o meno di contributi a casse previdenziali (cfr. Cass. 15 giugno 2007, n. 14019). In dottrina è stato invece sostenuto come l’art. 36 bis, comma 2, del DPR n. 600/1973, introdotto dall’art. 2 del DPR n. 920/1976, poi riversato nell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973, fosse applicabile sia nel caso di errori materiali o di calcolo sia in ordine a complesse questioni di diritto (così G.M. Cipolla, Le nuove disposizioni sulla liquidazione e riscossione delle imposte sui redditi, dell’Iva dei contributi e dei premi dovuti agli enti previdenziali, sul controllo formale delle dichiarazioni, sulla soppressione dei servizi di cassa, e sui versamenti unitari per tributi determinati dagli enti impositori diversi dallo Stato, in AA.VV., Commento agli interventi di riforma tributaria. I decreti legislativi di attuazione delle deleghe contenute nell’art. 3 della legge 26.12.1996, n. 662, a cura di M. Miccinesi, Padova, 1999, 44; R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario. Principi generali e approfondimenti specialistici, Milano, II ed., 1999, 267). Altra dottrina ha, invece, ritenuto che l’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 sia applicabile, oltre a questioni di fatto, solo a “pacifiche” questioni di diritto, restando inteso che la distinzione tra applicazione “pacifica” e “controversa” di norme di diritto debba essere valutata caso per caso (cfr. A. Marcheselli, Accertamenti tributari e difesa del contribuente. Poteri e diritti nelle procedure fiscali, Milano, 2010, 49 e nota 22). Non utilizzabile ai nostri fini sembra, invece, la tesi espressa dalla Consulta in merito all’inapplicabilità dell’art. 36 bis del DPR n. 600/1973, nella versione modificata dall’art. 1 del DPR 27 settembre 1979, n. 506, in caso di violazioni commesse dal contribuente implicanti una “valutazione giuridica” da parte dell’amministrazione finanziaria, la quale necessita di un’apposita attività istruttoria culminante in un atto di accertamento motivato (cfr. C. Cost. Ord. 24 marzo 1988, n. 430). L’inconferenza, in relazione al caso di specie, della tesi espressa dal giudice delle leggi è attribuibile al fatto che, come si vedrà infra, il controllo formale ex art. 36 ter del DPR n. 600/1973 è caratterizzato da un’attività istruttoria culminante in una comunicazione motivata al contribuente contenente gli esiti di tale controllo. (4) Cfr. Comm. trib. prov. Reggio Emilia, sez. III, 6 febbraio 2013, n. 36. In dottrina si veda P. Coppola, La liquidazione dell’imposta dovuta e il controllo formale delle dichiarazioni (artt. 36-bis e 36 ter del D.P.R. n. 600/1973), in Rass. trib., 1997, 1491.


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di proventi, deducibilità di costi, applicabilità di norme di esenzione o di age‑ volazione (5)). Tuttavia, ad alimentare dubbi circa l’applicabilità o meno della norma in oggetto a violazioni in punto di determinazione della base imponibile del tri‑ buto concorre il disposto del comma 4 della norma medesima, secondo cui “L’esito del controllo formale è comunicato al contribuente (…) con l’indicazione dei motivi che hanno dato luogo alla rettifica degli imponibili, delle imposte (…)” (enfasi aggiunta). Ciò nonostante sembra di poter sostenere che il riferimento operato dalla norma alla rettifica degli “imponibili” risieda semplicemente nella circostanza che, con specifico riguardo all’Irpef, la rettifica di cui si discorre può riguar‑ dare, tra l’altro, gli oneri deducibili dal reddito complessivo, i quali, ove di‑ sconosciuti, comporterebbero, appunto, l’accertamento di una maggiore base imponibile prima ancora della liquidazione di una maggiore imposta. Questo non sembra però sufficiente ad attribuire al legislatore la volontà di includere nel campo applicativo della norma in commento anche la violazione delle norme di determinazione della base imponibile, previste dal Tuir o da leggi speciali, attinenti le singole categorie reddituali, le quali, come è evidente, non figurano nell’elencazione di fattispecie oggetto di controllo formale di cui al comma 2 dell’art. 36 ter. Tutto ciò premesso, la tassatività delle fattispecie accertabili ai sensi della disposizione da ultimo nominata sembra trovare conferma nell’analisi della ratio della norma nella quale la predetta disposizione è collocata. Poiché tale ratio è riconducibile, in un’ottica di maggiore efficienza e quindi di buon andamento dell’attività della pubblica amministrazione (6), all’intento di rendere più spedita la contestazione di violazioni particolarmente attendibili in quanto riscontrabili dal mero confronto tra il dato dichiarativo e la relativa documentazione a supporto e più celere il recupero del tributo eva‑ so (7), è lecito ritenere plausibile la volontà del legislatore – palesata dall’in-

(5) Cfr. Cass. n. 3119/2000. Nello stesso senso si veda, sempre con riguardo alla versione dell’art. 36 bis, comma 2, del DPR n. 600/1973 in vigore prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 241/1997, R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario. Principi generali e approfondimenti specialistici, cit., 267. (6) Per la riconduzione del concetto di “efficienza” al principio, di cui all’art. 97 Cost., di “buon andamento” della Pubblica amministrazione si veda F. Gallo, L’istruttoria nel sistema tributario, in Rass. trib., 2009, 28-29. (7) Cfr. S. La Rosa, Principi di diritto tributario, II ed., Torino, 2006, 363.


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cipit del comma 2 dell’art. 36 ter secondo cui “Senza pregiudizio dell’azione accertatrice a norma degli articoli 37 e seguenti, gli uffici possono (…)” – di includere nell’ambito applicativo della norma in commento solo le violazioni, non particolarmente complesse sul piano fattuale e giuridico, la cui istruttoria non richieda particolari impieghi di tempo e di personale, riservando, invece, la contestazione delle violazioni più complesse ed impegnative, quali quelle relative alle norme sui presupposti applicativi del tributo e alle norme sulla determinazione della base imponibile dei singoli cespiti reddituali, alla pro‑ cedura accertativa ordinaria di cui agli artt. 37 e ss. del DPR n. 600/1973 (8). Si nota incidentalmente come la ratio della norma in commento, testé de‑ lineata, sembra manifesti – nella prospettiva che qui interessa, ossia il tenta‑ tivo di evidenziare un discrimine tra controlli formali e controlli sostanziali – una certa analogia con l’essenza del controllo parziale di cui all’art. 41 bis del DPR n. 600/1973 in termini di alta attendibilità, nel senso di puntualità ed evidenza probatoria, del materiale istruttorio posto a base della rettifica (9).

In senso analogo si veda, in giurisprudenza, Cass. n. 3119/2000 e, in dottrina, P. Coppola, La liquidazione dell’imposta dovuta e il controllo formale delle dichiarazioni (artt. 36-bis e 36 ter del D.P.R. n. 600/1973), cit., 1486, e, relativamente al contenuto dell’art. 36 bis, comma 2, del DPR n. 600/1973, introdotto dall’art. 2 del DPR 24 dicembre 1976, n. 920, poi trasfuso, ad opera dell’art. 13 del D. Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, nell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973, G. Marongiu, Le iscrizioni a ruolo non precedute da accertamento e le pesanti, pratiche conseguenze, nota a Cass. 1° marzo 1991, n. 2174, Dir. prat. trib., 1993, 57-58. (8) La sostanza di tale ragionamento sembra rinvenibile anche in M. Beghin, Diritto tributario, Padova, 2013, 191. (9) Cfr. P. Rossi, L’atto di accertamento, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, Torino, 2012, 746. Con specifico riguardo ai controlli parziali si veda, più in dettaglio, M. Basilavecchia, Razionalizzato il concorso di atti impositivi, in Dir. prat. trib., 2011, 713, il quale ha affermato che “l’essenza del parziale è individuata nella sostanziale coincidenza tra contenuto dell’atto di accertamento ed elementi forniti dalla segnalazione sulla quale il parziale si fonda. In buona sostanza, vi è una fonte di conoscenza esterna all’ufficio, che segnala elementi rilevanti sotto il profilo reddituale; tali elementi hanno un grado di compiutezza elevato, possono determinare un automatismo argomentativo, che li trasforma «in base ad una verifica elementare», nel contenuto stesso dell’atto di accertamento”. Sulla stessa linea si veda anche G. Cassese, Condizioni di ammissibilità dell’accertamento parziale, nota adesiva a Comm. Trib. Prov. Avellino, 20 settembre 2001, n. 26, Riv. dir. trib., II, 2003, 793 e F. Pistolesi, Evoluzione ed abusi nell’impiego dell’accertamento parziale, in AA.VV., La concentrazione della riscossione nell’accertamento, Atti del Convegno di Sanremo, 3-4 giugno 2011, Fondazione A. Uckmar, 2011, 338-339. In giurisprudenza si veda, inoltre, Cass. 21 dicembre 2007, n. 27035 e Cass. 13 febbraio 2009, n. 3566. Più in generale, in relazione alle caratteristiche dei controlli parziali si rinvia, inter alia, anche a M. Basilavecchia, L’accertamento parziale. Contributo allo studio della pluralità degli atti di accertamento nelle imposte sui redditi, Milano, 1988, 166, F. Pistolesi, Evoluzione


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Questa caratteristica comune dei controlli formali e parziali differenzia i me‑ desimi da quelli sostanziali, i quali ben possono essere attivati anche in pre‑ senza di prove di carattere presuntivo (10). Posto quanto sopra, le conclusioni testé raggiunte in ordine alla tassatività delle fattispecie oggetto di controllo formale di cui all’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973, basate sull’analisi del dato letterale e della finalità della norma, richiedono, tuttavia, di essere confermate alla luce dell’analisi di ulte‑ riori argomenti interpretativi della norma medesima. 2.2. Interpretazione sistematica. – L’interpretazione del contenuto dell’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973 fornita nel paragrafo precedente, in base alla quale l’elenco delle fattispecie oggetto di controllo formale deve intendersi tassativo, è confermata anche dall’interpretazione sistematica della norma poc’anzi citata. Interpretazione sistematica nel seguito condotta facen‑ do, in specie, ricorso ad un principio di origine domestica, ossia il principio di legalità dell’azione amministrativa, nonché a principi di matrice europea, costituiti dal principio di proporzionalità e di buona amministrazione, acco‑ munati dal fatto di trovare ingresso nel nostro ordinamento tramite l’art. 1 del‑ la L. 7 agosto 1990, n. 241, secondo cui “L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla

ed abusi nell’impiego dell’accertamento parziale, cit., 333, P. Russo, G. Fransoni, L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario, Seconda edizione rivista ed ampliata, Milano, 2016, 204-205. (10) P. Rossi, L’atto di accertamento, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, cit., 746.


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presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario” (11)- (12). 2.2.1. I principi di legalità dell’azione amministrativa, di proporzionalità e di buona amministrazione. – Venendo, in primo luogo, al principio di legalità dell’azione amministrativa, si nota come, in forza del principio di le‑

(11) È bene precisare che l’applicabilità o meno della L. n. 241/1990 è stata ed è tuttora oggetto di un vivace dibattito dottrinale del quale, nel seguito, ci limitiamo, per economia di trattazione, a delineare i tratti essenziali. Parte della dottrina ha sostenuto l’operatività della L. n. 241/1990 in ambito tributario, ad esclusione del capo III di tale provvedimento concernente la “Partecipazione al procedimento amministrativo”, invocando, tra l’altro, la nuova concezione del principio di buon andamento dell’azione amministrativa, di cui all’art. 97 Cost., improntato non più su un formalismo legalitario, bensì su obiettivi di risultato ed efficienza nella gestione dei rapporti tra privati e pubblica amministrazione (in tal senso L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea: contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010, 231). Altra dottrina ha, invece, negato l’applicabilità della L. n. 241/1990 al procedimento tributario invocando, tra l’altro, la natura vincolata della funzione impositiva traducentesi in un procedimento il quale, a differenza di quello amministrativo tout court, non è, salvo ipotesi marginali, discrezionale e non è finalizzato alla ponderazione di interessi (in tal senso L. Perrone, La disciplina del procedimento tributario nello Statuto del contribuente, in Rass. trib., 2011, 567-568). Ciò posto, attesa la specificità del tema trattato nel presente lavoro, non pare il caso, in questa sede, di assumere una posizione netta e motivata circa il predetto dibattito dottrinale. In questa sede ci si limita semplicemente a sostenere – generalizzando il pensiero di quella dottrina, la quale, in merito all’art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241/1990, riguardante la non annullabilità dei provvedimenti amministrativi adottati in violazione di norme procedimentali, ha postulato un’applicazione della norma da ultimo nominata, al versante tributario, da valutare caso per caso (si veda più in dettaglio la successiva nota 19) – un’applicazione limitata della L. n. 241/1990 al procedimento tributario da valutare di volta in volta. Considerato quanto sopra, le considerazioni svolte nel testo si limitano, dunque, ad assumere come applicabile l’art. 1 della L. 7 agosto 1990, n. 241 all’ambito tributario. (12) La dottrina ha precisato come il principio di legalità dell’azione amministrativa trovi la sua fonte, oltre che negli artt. 23 e 97 Cost., anche nell’art. 1 della L. n. 241/1990 (cfr. L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea: contributo allo studio della prospettiva italiana, cit., 234 e, tra la dottrina amministrativistica, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2007, 42). Con specifico riferimento ai principi europei menzionati nel testo, la dottrina ha sostenuto – oltre che alla loro applicazione nell’ordinamento tributario anche in settori, come quello delle imposte sul reddito, diversi da quelli di derivazione europea (cfr. L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea: contributo allo studio della prospettiva italiana, cit., passim., 103, 107, 232 nota 1) – come la violazione dei medesimi costituisca violazione del diritto domestico (cfr. L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea: contributo allo studio della prospettiva italiana, cit., 263 nota 1).


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galità sostanziale dal quale esso discende, il potere conferito dal legislatore all’autorità amministrativa non possa essere “assolutamente indeterminato” in tal guisa evitando la “totale libertà” di azione dell’autorità stessa; a tale fine è quindi “indispensabile” che il legislatore determini il suddetto potere “nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa” (13). Su queste basi la pubblica amministrazione è tenuta quindi ad esercitare solo i poteri indicati dalla legge e solo nei modi da essa prescritti (14). Anche sul fronte squisitamente tributaristico la dottrina non ha mancato di osservare l’importanza del rispetto delle regole nell’intervento amministrativo nell’attuazione del tributo cosicché, ove le modalità di esercizio dell’attività amministrativa siano dettagliatamente disciplinate dalla legge, la violazione di tali modalità vizierebbe l’atto in cui detta attività si esprime (15). Sulla scorta di quanto precede pare si possa sostenere come, attesa la det‑ tagliata elencazione di fattispecie operata dall’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973, l’attività di controllo formale debba, nel rispetto del principio di legalità dell’azione amministrativa, considerarsi rivolta solo a dette fattispe‑ cie, pena l’esercizio del potere amministrativo al di fuori della rigorosa linea tracciata dal legislatore. Per quanto concerne, invece, il principio di proporzionalità – racchiuso nell’art. 5 del TUE e progressivamente esteso all’area dell’interpretazione e dell’applicazione della disciplina dell’azione amministrativa (16) – si nota

(13) Cfr. Corte Cost. 7 aprile 2011, n. 115. (14) In tal senso si veda S. Cassese, Il diritto amministrativo e i suoi principi, in AA.VV., Istituzioni di diritto amministrativo, V ed., a cura di S. Cassese, Milano, 2015, 1 ss. (15) Così G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario, Padova, 2003, 199. In senso essenzialmente conforme sembra esprimersi anche R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario. Principi generali e approfondimenti specialistici, cit., 287. (16) Così L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea: contributo allo studio della prospettiva italiana, cit., 24. Sottolinea la vis espansiva del principio di proporzionalità all’interno degli Stati membri al punto di influenzare i giudici nazionali, non solo nell’applicazione del diritto UE, ma anche del diritto interno, A. Mondini, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’Iva europea, Pisa, 2012, 19. In relazione al principio di proporzionalità si vedano, limitandosi alla dottrina domestica, inter alia, anche i contributi di P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2017, 283, ss., G. Moschetti, Il principio di proporzionalità come “giusta misura” del potere nel diritto tributario. Premesse generali, Milano, 2017, G. Vanz, I principi della proporzionalità e della ragionevolezza nelle attività conoscitive e di controllo dell’amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 2017, 1912, ss.


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come il medesimo inibisca alla pubblica amministrazione il potere di imporre obblighi ai soggetti privati in misura superiore al raggiungimento degli scopi che essa si prefigge, imponendo, quindi, in estrema sintesi, la congruità del “mezzo” al “fine” (17). Pertanto, se il “fine” dell’azione amministrativa è un controllo formale ai sensi dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973, il “mezzo” rappresentato dalla richiesta di informazioni e/o documentazione attinenti fattispecie diverse da quelle previste dal comma 2 della norma in parola – ri‑ guardanti, ad esempio, i presupposti applicativi del tributo, oppure la deter‑ minazione della base imponibile dei singoli cespiti reddituali – si porrebbe in contrasto con il predetto principio di proporzionalità. La violazione di tale principio risulterebbe, nel caso di specie, ancora più evidente laddove si seguisse quella tesi dottrinale secondo cui la proporziona‑ lità rappresenta il criterio (oggettivo) di determinazione del dovere (sogget‑ tivo) di buona fede (18) e questo per l’essenziale ragione per cui, essendo il principio di buona fede previsto dall’art. 10, comma 1, della L. 27 luglio 2000, n. 212, esso è attuativo, per effetto dell’art. 1 del provvedimento da ultimo nominato, del generale principio di buon andamento della pubblica ammini‑ strazione contemplato dall’art. 97 Cost. Quanto, infine, al principio di buona amministrazione di cui all’art. 41 del‑ la Carta dei diritti fondamentali UE, si osserva come all’interno del medesimo sia possibile distinguere tra principi relativi al rapporto tra amministrazionecittadino e quelli inerenti la decisione amministrativa (19). All’interno della prima di tali categorie è annoverabile, tra gli altri, il principio di certezza del diritto, il quale risulterebbe violato, e con esso anche il principio di buona am‑ ministrazione, se l’organo accertatore attivasse un controllo formale riguardo a fattispecie diverse da quelle specificamente previste dall’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973. 2.2.2. La (non) applicabilità dell’art. 21-octies della L. n. 241/1990. – Si vuole ora dimostrare come il caso qui prospettato – consistente in una possi‑ bile violazione, da parte dell’amministrazione finanziaria, della norma proce‑ durale contenuta nell’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973 – non ricada nell’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della L.

(17) Cfr. A. Marcheselli, Il “giusto procedimento” tributario. Principi e discipline, Padova, 2012, 91. (18) Ibidem. (19) Così R. Miceli, L’attività istruttoria tributaria, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, cit., 648.


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n. 241/1990, in base al quale “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (…)” (20). La ratio della norma in parola è rinvenibile dalla lettura della Relazio‑ ne parlamentare, la quale ha precisato che “alla base di tale previsione vi è la convinzione secondo cui la illegittimità “formale” assume rilievo, ai fini dell’annullamento, solo quando essa riverbera i propri effetti, diretti o indiret‑ ti, sul contenuto del provvedimento. Le ipotesi alle quali ci si riferisce sono, soprattutto, quelle di atti vincolati in cui l’adozione del provvedimento sia doverosa (oltre che vincolata) per l’amministrazione ed in relazione ai quali i

(20) Coerentemente a quanto già rilevato con riguardo all’intero provvedimento, anche l’applicazione alla materia tributaria dell’art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241/1990 non è affatto pacifica. Contraria a detta applicazione è quella dottrina secondo cui “L’applicazione di una disposizione del genere in ambito tributario sarebbe estremamente dirompente in quanto condurrebbe ad un mancato annullamento di ogni atto irrituale, formalmente invalido o caratterizzato da illegittimità istruttorie, ma che presenti una corretta ricostruzione dell’imponibile o dell’imposta” (così L. Perrone, La disciplina del procedimento tributario nello Statuto del contribuente, cit., 574). Altrettanto contrario alla suddetta applicazione A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 355, il quale sostiene che, ove il legislatore avesse inteso sancire tale applicazione, egli avrebbe dovuto operare uno specifico intervento normativo sulle specifiche disposizioni tributarie volte a prevedere l’invalidità degli atti emanati per l’attuazione dei tributi se privi di requisiti formali. Favorevoli, invece, all’applicazione alla materia tributaria dell’art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241/1990: F. Tesauro, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. trib., 2005, 1448, L. Del Federico, I rapporti tra lo Statuto e la legge generale sull’azione amministrativa, in Rass. trib., 2011, 1410 ss. Posto quanto sopra, sembra di poter aderire a quella tesi – espressa da R. Miceli, L’attività istruttoria tributaria, cit., 666-667 – in forza della quale l’applicabilità in ambito tributario dell’art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241/1990 deve essere valutata caso per caso, ritenendo tendenzialmente applicabile la norma in questione solo quando la violazione di norme procedimentali o sulla forma non ha determinato pregiudizi effettivi al contribuente. Anche altra dottrina postula un’applicazione limitata alla materia tributaria della norma in parola e, in particolare, solo nel caso di atti tributari a carattere “vincolato”, “meccanico” o “automatico”, in quanto privi di attività valutativa (cfr. S. Zagà, La regola di depotenziamento dei vizi formali e procedimentali degli atti amministrativi vincolati ed il vizio di motivazione della cartella di pagamento, nota a Cass. 31 gennaio 2013, in Dir. prat. trib., 2013, 479), oppure solo previa valutazione di opportunità fondata su opzioni di carattere metagiuridico o di politica del diritto (cfr. F. Farri, Sull’applicabilità dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990 agli atti tributari, in Riv. dir. trib., 2012, 93 ss.).


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vizi procedurali o formali riscontrati non abbiano avuto alcuna influenza sulla correttezza sostanziale del provvedimento” (21). Ciò posto, la summenzionata inapplicabilità, al caso di specie, dell’art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241/1990 poggia sulle seguenti considerazioni. Una prima considerazione a supporto di tale affermazione – come ve‑ dremo, tuttavia, non del tutto convincente – potrebbe fondarsi sul fatto che, nell’eventualità in cui l’amministrazione adotti un provvedimento impositivo – ossia iscrizione a ruolo e relativa cartella di pagamento a seguito del control‑ lo formale di cui all’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 – per violazioni diverse da quelle riguardanti le fattispecie elencate nel comma 2 della norma da ulti‑ mo richiamata, detto provvedimento, pur potendo contenere una corretta (ri) determinazione dell’imponibile e dell’imposta, produrrebbe tuttavia, in capo al contribuente, effetti sostanziali, di altro genere, peggiorativi rispetto a quelli che si sarebbero prodotti adottando la procedura ordinaria di accertamento. Ci si riferisce, in particolare, alla circostanza per cui, mentre a seguito del‑ la procedura ex art. 36 ter del DPR n. 600/1973 l’iscrizione a ruolo delle mag‑ giori imposte e interessi (art. 14 del DPR 29 settembre 1973, n. 602) e delle sanzioni amministrative (art. 24 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472) avviene a titolo definitivo, a seguito della procedura accertativa ordinaria l’iscrizione a ruolo delle maggiori imposte e interessi (art. 15 del DPR 29 settembre 1973, n. 602) e delle sanzioni amministrative (art. 24 del D.Lgs. n. 472/1997) avviene a titolo provvisorio. Pertanto, l’adozione della procedura di controllo formale ex art. 36 ter del DPR n. 600/1973 per violazioni diverse da quelle concernenti le fattispecie elencate nel comma 2 del decreto testé citato non sembra rivesti‑ re i requisiti delle violazioni di carattere “meramente formale”, non incidenti

(21) Il passo della Relazione parlamentare indicato nel testo è stato riportato da L. Del Federico, I rapporti tra lo Statuto e la legge generale sull’azione amministrativa, cit., 1413 ss. La logica sottostante la norma in questione, tesa al depotenziamento dei vizi formali e procedurali dei provvedimenti amministrativi, è quella dell’”amministrazione di risultato”, in base alla quale il provvedimento viziato dal punto di vista formale o procedimentale può essere annullato solo quando il giudice accerti che l’interesse sostanziale è stato comunque perseguito e che la rinnovazione dell’atto, depurato dei suddetti vizi, condurrebbe ad un atto finale di identico contenuto sostanziale (cfr. S. Zagà, La regola di depotenziamento dei vizi formali e procedimentali degli atti amministrativi vincolati ed il vizio di motivazione della cartella di pagamento, cit., 475). Sull’”amministrazione di risultato” si veda ancora, tra i tributaristi, L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea: contributo allo studio della prospettiva italiana, cit., 239 e F. Randazzo, In tema di applicabilità dell’art. 21 octies, comma 2, legge n. 241 del 1990, agli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 2018, 264.


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sugli interessi del contribuente, che la dottrina ha ritenuto essenzialmente co‑ stituire l’archetipo ricadente nell’ambito applicativo dell’art. 21-octies, com‑ ma 2, della L. n. 241/1990 (22). Va però osservato come una siffatta argomentazione non possa considerar‑ si del tutto risolutiva e ciò in quanto l’effetto sostanziale peggiorativo, in capo al contribuente, descritto nel capoverso precedente sarebbe “compensato” dal fatto che, mentre le violazioni contestate mediante la procedura di controllo formale ex art. 36 ter del DPR n. 600/1973 sono punite, ai sensi dell’art. 13, comma 2, del D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, con una sanzione ammini‑ strativa edittale del 30% della maggiore imposta liquidata, le violazioni conte‑ state mediante la procedura accertativa ordinaria sono punite, ai sensi dell’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 471/1997, con una sanzione amministrativa edittale dal 90% al 180% della maggiore imposta accertata. Ciò posto, l’esclusione della violazione della norma procedurale di cui si discorre dal campo applicativo dell’art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241/1990 deve essere supportata, pertanto, da altre argomentazioni. In base alla prima di esse la predetta esclusione deriva dal fatto che quella commessa dall’amministrazione finanziaria si concreta non solo in una vio‑ lazione di norme “sul” procedimento, ossia di norme regolative dell’iter pro‑ cedimentale, bensì in una vera e propria violazione “di” procedimento dalla quale deriva giocoforza un diverso “contenuto dispositivo” del provvedimen‑ to amministrativo adottato. Infatti, ove l’amministrazione finanziaria contesti al contribuente, mediante la procedura del controllo formale, comportamenti illegittimi non concernenti le fattispecie di cui all’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973, essa commette un errore riguardante il tipo di procedura amministrativa da adottarsi in relazione alla natura di tali comportamenti con la conseguenza che il ruolo e la cartella di pagamento emessi non possono che avere un “contenuto dispositivo” differente da quello che avrebbero avuto se la procedura adottata fosse stata quella corretta. In altri termini, poiché l’atto impositivo contiene una pretesa più onerosa di quella che esso avrebbe contenuto in presenza di una procedura rispettosa dei dettami dell’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973, la violazione po‑ sta in essere dall’amministrazione finanziaria non può essere relegata tra quel‑

(22) Cfr. L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea: contributo allo studio della prospettiva italiana, cit., 238-239.


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le di carattere “meramente formale”, ma tra quelle incidenti sulla “correttezza sostanziale” del provvedimento. La seconda di esse si fonda sulla circostanza che il depotenziamento dei vizi formali e procedurali dei provvedimenti amministrativi, operata dall’art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241/1990, dovrebbe riguardare solo il caso in cui questi ultimi abbiano diritto ad ottenere utilità giuridicamente apprezzabili dall’azione della pubblica amministrazione (in tal caso i privati fanno vale‑ re interessi legittimi c.d. pretensivi), mentre non dovrebbe, ragionevolmente, riguardare i provvedimenti impositivi, tendenzialmente destinati a limitare la sfera giuridica del soggetto destinatario, il quale, pertanto, ha interesse a rimuoverli laddove essi non soddisfino, per forma o contenuto, le previsio‑ ni di legge (in quest’altro caso i privati fanno valere interessi legittimi c.d. oppositivi) (23). 2.3. Interpretazione adeguatrice in forza del principio di riserva di legge ex art. 23 Cost. – Facendo ricorso all’interpretazione di tipo sistematico dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973, svolta nel precedente paragrafo 2.2.1., già si è appurato, come, in virtù del principio di legalità dell’azione ammini‑ strativa contenuto nell’art. 1 della L. n. 241/1990, l’attività di controllo for‑ male debba essere rivolta solo alle fattispecie elencate nell’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973. Nel seguito si intende dimostrare che, anche ricorrendo all’interpretazio‑ ne adeguatrice dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973, la suddetta attività di controllo formale debba essere limitata, in virtù del più generale principio di riserva di legge sancito dall’art. 23 Cost., inteso quale fonte del carattere vin‑ colato della potestà di imposizione (24), alle fattispecie elencate nell’art. 36 ter, comma 2, del decreto testé richiamato. A quest’ultima conclusione si è giunti muovendo da considerazioni di ca‑ rattere generale, traenti spunto dai principali contributi dottrinali sull’argo‑ mento, aventi ad oggetto, in primo luogo, la questione circa la fase attuativa del tributo – rectius: fase istruttoria, fase di accertamento o fase di riscossio‑

(23) In tal senso F. Randazzo, In tema di applicabilità dell’art. 21 octies, comma 2, legge n. 241 del 1990, agli atti impositivi, cit., 264-265 e in senso conforme parrebbe anche L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea: contributo allo studio della prospettiva italiana, cit., 239. (24) Cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2005, 317.


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ne (25) – alla quale si considera appartenere l’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 e, in secondo luogo, la questione attinente la misura in cui l’azione dell’ammi‑ nistrazione finanziaria sia, in ognuna delle predette fasi, vincolata alla legge, ovvero soggetta a margini di discrezionalità (26). Alle predette considerazioni farà seguito un successivo paragrafo nel quale sarà avanzata una possibile tesi alternativa concernente la collocazione sistematica della norma da ultimo nominata e le relative conseguenze sulla vincolatezza o discrezionalità dell’a‑ zione dell’amministrazione finanziaria in sede di applicazione della norma in parola. 2.3.1. Principio di riserva di legge e vincolatezza dell’azione dell’amministrazione finanziaria nelle fasi attuative del tributo in cui è collocabile l’art. 36 ter del DPR n. 600/1973. – Le considerazioni svolte in questo paragrafo in‑ tendono dimostrare che, indipendentemente dalla fase attuativa del tributo in cui si ritenga collocabile l’art. 36 ter del DPR n. 600/1973, il comportamento dell’amministrazione finanziaria, in ordine alla scelta delle fattispecie in pre‑ senza delle quali attivare il controllo formale, deve considerarsi strettamente vincolato alla legge e non soggetto a margini di discrezionalità. Fatta questa premessa, si osserva come dal dibattito dottrinale concernente il posizionamento dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 nell’ambito delle fasi di attuazione del tributo emergano, essenzialmente, due tesi tra loro contrap‑ poste. Parte della dottrina ritiene che quella recata dalla norma in parola sia una disciplina speciale di accertamento derogatoria rispetto alla procedura accer‑ tativa ordinaria di cui agli artt. 37 e ss. del decreto da ultimo citato (27). La specialità di tale disciplina – attinente la tipologia dell’istruttoria, il provve‑

(25) La tripartizione dei momenti attuativi del tributo rappresentata nel testo prende le mosse da quel pensiero dottrinale secondo cui i momenti di autorità esplicabili dall’amministrazione finanziaria, nell’ambito delle attività amministrative tributarie, sono funzionalmente ed essenzialmente ripartibili come segue: nell’attività volta all’acquisizione di conoscenze sui fatti fiscalmente rilevanti (a nostro avviso riassumibile nell’attività “istruttoria”. In questi termini si veda anche F. Gallo, L’istruttoria nel sistema tributario, cit., 25), nell’attività di accertamento tributario tesa alla determinazione autoritativa di imponibili e/o di imposte dovute e nell’attività di riscossione dei tributi (sul punto si veda S. La Rosa, I procedimenti tributari: fasi, efficacia e tutela, Riv. dir. trib., 2008, passim., 812-815). (26) In dottrina è stato sostenuto come, in linea di principio, l’azione dell’amministrazione finanziaria sia tendenzialmente vincolata alla legge in quanto essa è tenuta ad osservare il complesso di norme che disciplinano i propri poteri (così F. Paparella, Le situazioni giuridiche soggettive e le loro vicende, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, cit., 481). (27) Cfr. S. La Rosa, Principi di diritto tributario, cit., 363.


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dimento con cui la pretesa impositiva è contestata e i relativi motivazione ed esecutività, nonché la tipologia di definizione amministrativa della suddet‑ ta pretesa e giustificata dal particolare trattamento riservato dal legislatore a queste fattispecie di illecito tributario (28) – non è tuttavia idonea a mutare la natura dell’attività di controllo ad essa sottesa, la quale rimane attribuibile all’area dell’accertamento con la conseguenza che a detta attività siano appli‑ cabili, ove non espressamente derogate, le regole generali sugli accertamenti in rettifica (29). Altra parte della dottrina sostiene, invece, che l’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 racchiuda una disciplina appartenente alla fase di riscossione del tributo e ciò in quanto essa si sostanzia nella liquidazione di imposte da parte dell’amministrazione finanziaria subito iscritte a ruolo a titolo definitivo me‑ diante cartella di pagamento (30). Questa tesi troverebbe una sorta di supporto letterale nell’art. 14, comma 1, del DPR n. 602/1973 secondo cui sono iscritte a titolo definitivo nei ruoli “a) le imposte e le ritenute alla fonte liquidate ai sensi degli articoli 36 bis e 36 ter del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600”. I fautori di questa tesi hanno altresì osservato che, sebbene in base alla norma di cui si discorre l’imposta liquidata dal contribuente in dichiarazione possa essere rettificata in fatto e/o in diritto, detta rettifica non attiene una diversa rappresentazione qualitativa o quantitativa del presupposto complessivamen‑ te considerato e quindi l’attività svolta in specie dall’amministrazione finan‑ ziaria non può essere collocata nella fase di accertamento bensì in quella di riscossione (31)- (32).

(28) In questi termini P. Russo, G. Fransoni, L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario, Seconda edizione rivista ed ampliata, cit., 175. (29) Ibidem. (30) In tal senso si veda A. Fantozzi, Gli schemi teorici di attuazione del prelievo, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, cit., 405-406. (31) Cfr. R. Esposito, La riscossione, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, cit., 844. Include la comunicazione di cui all’art. 36 ter, comma 4, del DPR n. 600/173 nella fase di riscossione anche M. Basilavecchia, Corso di diritto tributario, Torino, 2017, 391-392. (32) Sembrerebbe di poter enucleare, in dottrina, una terza tesi, meno articolata delle due illustrate nel testo, la quale parrebbe ricondurre l’attività di controllo formale di cui all’art. 36 ter del DPR n. 600/1973, più in generale, alla fase istruttoria del procedimento tributario (cfr. A. Marcheselli, Il “giusto procedimento” tributario. Principi e discipline, cit., 163 e P. Coppola, La liquidazione dell’imposta dovuta e il controllo formale delle dichiarazioni (artt. 36-bis e 36 ter del D.P.R. n. 600/1973), cit., 1503).


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Una volta descritte, in breve, le diverse tesi dottrinali in merito alla collo‑ cazione dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 nell’ambito delle fasi di attuazio‑ ne del tributo mette conto ora stabilire, sempre in maniera sintetica, il grado di vincolatezza e/o discrezionalità cui è soggetta, nelle suddette fasi, l’azione dell’amministrazione finanziaria. Con riguardo alla fase di accertamento la dottrina ha avuto modo di pre‑ cisare che l’attività ivi svolta dall’amministrazione finanziaria, tesa alla de‑ terminazione quali-quantitativa del presupposto di imposta, debba intendersi rigorosamente vincolata alla legge (33); una siffatta tesi, espressa in termi‑ ni generali, è avvalorata, nel caso specifico, dalla circostanza per cui quella dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973, in quanto disciplina speciale eccezionale rispetto alla procedura accertativa ordinaria di cui agli artt. 37 e ss. del decreto da ultimo nominato, è applicabile solo ai casi espressamente previsti dalla legge (34). Anche con riferimento alla fase di riscossione, nella quale l’azione dell’amministrazione gode, generalmente, di maggiori margini di discrezio‑ nalità (35), non sono comunque mancati spunti dottrinali volti a rimarcare come la medesima soggiaccia al principio di riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. (36) con particolare riguardo all’attività dell’amministrazione finan‑ ziaria esercitata in forza di quelle disposizioni procedimentali, quali l’art. 36 ter del DPR n. 600/1973, suscettibili di comportare un aggravio dell’onere contributivo (37). Va, infine, osservato come la dottrina abbia avuto modo di sottolineare l’operatività del principio di riserva di legge anche nell’ambito della fase istruttoria (38) evidenziando, tuttavia, come le violazioni di legge commesse

(33) Cfr. A. Fantozzi, Gli schemi teorici di attuazione del prelievo, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, cit., 403. (34) Cfr. S. La Rosa, Principi di diritto tributario, cit., 363. (35) Si pensi, a mero titolo esemplificativo, ai casi di sospensione e dilazione amministrativa della riscossione di cui, rispettivamente, all’art. 39 e all’art. 19 del DPR n. 602/1973 (cfr. A. Fantozzi, Il Diritto tributario, Terza edizione, Torino, 2003, 254). (36) In questi termini G. Falsitta, Funzione vincolata di riscossione dell’imposta e intransigibilità del tributo, in AA.VV., La riscossione dei tributi, a cura di A. Comelli e C. Glendi, Padova, 2010, 10. (37) Sul punto si veda R. Esposito, La riscossione, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, cit., 794, nota 36 e in particolare la relativa citazione di N. D’amati, Istituzioni di diritto tributario, Bari, 2005, 10. (38) Cfr. F. Moschetti, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, in Dir. prat. trib., 1983, 1918, R. Schiavolin, Poteri istruttori dell’amministrazione finanziaria,


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dall’amministrazione finanziaria in tale fase conducano all’invalidità o all’in‑ fondatezza della pretesa impositiva solo nel caso in cui esse siano connotate dal requisito della gravità (39). Tale gravità, non riconosciuta nel caso di violazione di norme riguardan‑ ti l’organizzazione interna dell’azione amministrativa (40), è stata invece ri‑ scontrata, ad esempio, nel caso di violazione di norme corrispondenti ad un interesse giuridicamente rilevante del contribuente fatto generalmente coin‑ cidere con quelle violazioni istruttorie volte a pregiudicare interessi privati, diversi dalla corretta determinazione dell’imposta, quali l’inviolabilità del domicilio, l’integrità della corrispondenza, il segreto professionale e più in generale il diritto alla riservatezza (41). Oltre a ciò pare di poter sostenere che integrino il predetto requisito della gravità anche eventuali violazioni – tra cui potrebbe essere annoverata quel‑ la riguardante l’attivazione del controllo formale in ipotesi diverse da quelle contemplate dall’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973 – derivanti dall’e‑ sercizio discrezionale dell’azione amministrativa laddove detta discrezionali‑ tà non sia consentita e cioè quando il potere istruttorio, in quanto idoneo ad incidere, anche indirettamente, sulla sfera patrimoniale del contribuente, deve essere esercitato “nei casi, nei modi e nelle forme dalla legge tassativamente stabiliti” (42). 2.3.2. Ipotesi ricostruttiva in merito alla collocazione sistematica dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 e sua indifferenza rispetto alla tematica qui trattata. – Una possibile ipotesi ricostruttiva è quella secondo cui l’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 racchiuda uno dei procedimenti tesi a realizzare la specifica

in Riv. dir. trib., 1994, 914. Favorevoli alla tutela delle situazioni giuridiche sostanziali dei contribuenti anche nella fase istruttoria sono anche L. Ferlazzo Natoli, La tutela dell’interesse legittimo nella fase procedimentale dell’accertamento tributario, in Riv. dir. trib., 1999, 774, A. Marcheselli, Il “giusto procedimento” tributario. Principi e discipline, cit., 172. (39) Cfr. A. Marcheselli, Il “giusto procedimento” tributario. Principi e discipline, cit., 497. (40) Ibidem. (41) Cfr. R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario. Principi generali e approfondimenti specialistici, cit., 309. (42) Così I. Manzoni, Potere di accertamento e tutela del contribuente nelle imposte dirette e nell’Iva, Milano, 1993, 233. Su questa linea si colloca anche dottrina più recente la quale sembra riconoscere piena discrezionalità solo all’attività dell’amministrazione finanziaria – riconducibile, ad esempio, alla scelta di opportunità circa i soggetti da controllare e le modalità di controllo – non predeterminata e non predefinita dalla legge (cfr. F. Gallo, L’istruttoria nel sistema tributario, cit., 31).


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attribuzione, riservata agli uffici dell’Agenzia delle Entrate ad opera dell’art. 31, comma 2, del DPR n. 600/1973, costituita dal controllo delle dichiarazioni dei redditi presentate dai contribuenti. Il controllo delle dichiarazioni dei redditi può avvenire in base a distinti procedimenti – dotati di caratteristiche loro proprie quanto al genere di attività in essi esercitabili da parte dell’amministrazione finanziaria e più in partico‑ lare ai poteri istruttori attivabili, alla tipologia di atto con cui è manifestata la pretesa impositiva e alla modalità di riscossione di siffatta pretesa – rap‑ presentati da: il controllo liquidatorio ex art. 36 bis del DPR n. 600/1973, il controllo formale ex art. 36 ter del DPR n. 600/1973, il controllo sostanziale di cui agli artt. da 37 a 41 del DPR n. 600/1973, nonché il controllo parziale di cui all’art. 41 bis del DPR n. 600/1973. Pertanto, in questa prospettiva, la vincolatezza o la discrezionalità dell’a‑ zione dell’amministrazione finanziaria andrebbe verificata, ai fini che qui occupano, avendo semmai riguardo, non genericamente alla collocazione dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 nell’ambito delle fasi di attuazione dei tributi reddituali, bensì alle diverse attività – istruttoria, di accertamento o di riscossione – svolte dall’amministrazione finanziaria medesima nell’ambito o per effetto del procedimento di controllo formale di cui alla norma da ultimo nominata (43). Vale, tuttavia, la pena di osservare come anche il ragionamento effettuato nel capoverso precedente mostri evidenti limiti non appena si consideri che la scelta compiuta dall’amministrazione finanziaria in ordine alle fattispecie in presenza delle quali eseguire il controllo formale ex art. 36 ter del DPR n. 600/1973 non attenga propriamente né l’attività istruttoria (commi 2 e 3), inte‑

(43) Intravede all’interno dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 “una serie di operazioni concatenate proprie di un procedimento amministrativo” e quindi, sembra di capire, la sequenza di attività indicata nel testo R. Rinaldi, Profili ricostruttivi della liquidazione di imposta, Trieste, 2000, 228 e 230 (nello stesso senso Cass. 5 ottobre 2016, n. 19861). Più in dettaglio, il potere di richiedere documenti e informazioni, sancito dal comma 2 dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973, unitamente ai poteri di cui al successivo comma 3, si ritiene costituiscano espressione di un’attività istruttoria prodromica alla possibile comunicazione della pretesa impositiva prevista dal comma 4 della norma medesima a sua volta prodromica di una possibile attività di riscossione posta in essere tramite l’art. 14 del DPR n. 602/1973. Pare possibile sostenere che la sequenza di attività poc’anzi descritta replichi, concettualmente, a livello di procedimento di controllo formale, la tripartizione funzionale “dei momenti di autorità” già teorizzata con riferimento alle attività amministrative tributarie nel loro complesso (cfr. S. La Rosa, I procedimenti tributari: fasi, efficacia e tutela, cit., passim., 812-815).


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sa come acquisizione di elementi fiscalmente rilevanti ai fini del controllo for‑ male, né l’attività di accertamento (comma 4), qui essenzialmente intesa come comunicazione al contribuente della pretesa impositiva (44), né l’attività di riscossione (art. 14 del DPR n. 602/1973), intesa come attività di recupero della predetta pretesa impositiva, in cui pare compendiabile, secondo la rico‑ struzione operata nel presente paragrafo, il procedimento di controllo formale. Al contrario, la scelta dell’amministrazione finanziaria concerne le fatti‑ specie oggetto di controllo formale e quindi, più esattamente, l’ambito ogget‑ tivo di applicazione dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 previsto dal comma 2 della norma medesima. Da ciò discende che la vincolatezza o la discrezionali‑ tà dell’azione dell’amministrazione finanziaria merita di essere verificata con specifico riguardo alla norma da ultimo nominata, la quale, oltre a racchiudere disposizioni procedurali di carattere istruttorio, contempla, come si è visto, il presupposto di applicazione della disciplina in commento. Da quanto precede pare dunque potersi ricavare che il comportamento dell’amministrazione finanziaria, volto all’applicazione di una norma, come quella in parola, la quale, sebbene di natura procedurale, riveste effetti sostan‑ ziali per il contribuente, in quanto idonea ad incidere indirettamente sulla sfe‑ ra privata patrimoniale di questi, non possa che essere strettamente vincolato alla legge in ossequio al principio di cui all’art. 23 Cost.. 3. Effetti sulla validità del ruolo e/o sull’utilizzabilità delle prove acquisite durante l’attività istruttoria nel caso di attivazione di controllo formale per fattispecie diverse da quelle previste dal comma 2 dell’art. 36 ter. – Con‑ siderato quanto sopra, vale ora la pena stabilire quali siano gli effetti, sulla validità del ruolo e/o sull’utilizzabilità delle prove acquisite in sede istruttoria, conseguenti all’attivazione del procedimento di controllo formale in presen‑ za di fattispecie diverse da quelle espressamente contemplate dal comma 2 dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973. Si tratterebbe, più in specie, di stabilire se la predetta attivazione conduca all’annullabilità dell’eventuale provvedimento amministrativo (45) – ruolo e cartella di pagamento – emesso a conclusione del procedimento di controllo

Cfr. R. Rinaldi, Profili ricostruttivi della liquidazione di imposta, cit., 230. Sull’invalidità, in termini generali, degli atti tributari si rinvia, inter alia, ad A. Fantozzi, Violazioni del contraddittorio e invalidità degli atti tributari, in Riv. dir. trib., 2011, 137 ss., E. Marello, I fondamenti sistematici del sistema duale nullità-annullabilità, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2014, 328 ss. (44) (45)


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formale, oppure alla (semplice) inutilizzabilità del materiale probatorio, irri‑ tualmente acquisito, nell’ambito del predetto procedimento (46). A tale proposito sembra poter sostenere che l’attivazione del procedimen‑ to di controllo formale in presenza di fattispecie diverse da quelle espressa‑ mente contemplate dal comma 2 dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 conduca all’annullabilità del predetto provvedimento amministrativo. A sostegno di ciò milita la circostanza secondo cui quella commessa dall’amministrazione finanziaria rappresenta in specie, come anticipato nel precedente paragrafo 2.2.2., non già una violazione di norme “sul” procedi‑ mento (si pensi, a titolo esemplificativo, alle norme procedurali collocate nella fase istruttoria), bensì una vera e propria violazione “di” procedimento.

(46) A tale proposito sono state sostenute diverse tesi, tra loro divergenti, tutte enunciate con specifico riferimento alle violazioni commesse dall’amministrazione finanziaria nella fase istruttoria (per una chiara e sintetica descrizione di tali tesi si veda L. Del Federico, I rapporti tra lo Statuto e la legge generale sull’azione amministrativa, cit., 1418, nota 59 anche per la giurisprudenza ivi citata). Quest’ultima precisazione si rende necessaria giacché, come si rammenterà tra breve nel testo, l’effettuazione del controllo formale in presenza di fattispecie diverse da quelle previste dal comma 2 dell’art. 36 ter del DPR n. 600/1973 non costituisce, tecnicamente, una violazione di norme procedurali istruttorie. Detto questo, la prima di esse ritiene che dette violazioni conducano all’invalidità del provvedimento amministrativo sulla base della teoria amministrativistica dell’”invalidità derivata” (cfr. F. Moschetti, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, cit., 1918, D. Stevanato, Vizi dell’istruttoria e illegittimità dell’avviso di accertamento, nota a Comm. II grado Treviso 14 aprile 1989, n. 472 e Comm. II grado Venezia 30 maggio 1988, n. 264, in Rass. trib., 1990, 88). La tesi in oggetto è stata oggetto di critiche fondate sulla considerazione che, in materia tributaria, essa possa essere utilizzata solo in presenza di nessi procedimentali in senso tecnico. A titolo esemplificativo, la mancanza di autorizzazione è atta a viziare l’atto di accesso e, quindi, i rilievi effettuati a seguito dell’accesso, ma non idonea ad inficiare direttamente la validità del successivo atto di accertamento (cfr. R. Miceli, L’attività istruttoria tributaria, cit., 664). L’autrice da ultimo nominata cita altra dottrina secondo la quale lo “schema procedimentale” è utilizzabile solo al fine di spiegare i rapporti tra ciascun atto istruttorio e i relativi rilievi (cfr. L. Salvini, La partecipazione del privato all’accertamento nelle imposte sui redditi e nell’Iva, Padova, 1990, 327). La seconda delle predette tesi sostiene, invece, che dette violazioni comportino, sulla base della categoria penalistica della c.d. inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite desumibile dall’art. 191 del codice di procedura penale, l’infondatezza dell’avviso di accertamento, ove esso non sia supportato da altri elementi ritualmente acquisiti (sul punto si veda, inter alia, R. Miceli, L’attività istruttoria tributaria, cit., 664 e M. Beghin, Diritto tributario, III ed., Padova, 2017, 244). La terza tesi afferma, infine, che, in presenza delle violazioni in parola, le prove acquisite siano utilizzabili, a meno di limiti derivanti da specifiche preclusioni o da violazione di diritti costituzionalmente garantiti.


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Oltre a ciò, si osserva quanto segue. Dall’alternatività, normativamente prevista, tra controlli parziali ex art. 41 bis del DPR n. 600/1973 e controlli formali ex art. 36 ter del medesimo decre‑ to, autorevole dottrina ha fatto discendere un principio più generale volto a so‑ stenere un analogo rapporto di alternatività tra controlli sostanziali e controlli formali – nel senso che in presenza delle fattispecie previste dall’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973 non è attivabile un procedimento di controllo sostanziale – e ciò al fine di affermare una tipizzazione dei moduli attuativi del tributo, nell’ambito delle imposte reddituali e nell’Iva, funzione peraltro non tanto del tipo di rettifica svolto, quanto dal tipo di attività istruttoria posta in essere (47). Prendendo spunto dalla predetta, condivisibile, tesi dottrinale, pare dun‑ que di poter affermare che, se, in ossequio al predetto criterio di alternatività, l’amministrazione finanziaria non è legittimata ad operare le rettifiche di cui all’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973 svolgendo l’attività istruttoria tipica dei controlli sostanziali, la stessa amministrazione finanziaria non sia, coerentemente, legittimata ad effettuare rettifiche avulse dall’elenco di cui alla norma da ultimo nominata ponendo in essere un’attività istruttoria tipica dei controlli formali. Pertanto, per quanto appena detto, ove l’amministrazione finanziaria con‑ testi al contribuente, mediante il procedimento di controllo formale, compor‑ tamenti illegittimi non concernenti le fattispecie di cui all’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973, essa incorre in una violazione attinente la tipologia di attività di controllo da adottarsi in relazione a tali comportamenti con la conseguenza che – in virtù dell’interpretazione da riservare, come motivato nelle pagine precedenti, all’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973 – il provvedimento amministrativo emesso è annullabile e l’inutilizzabilità delle prove acquisite costituisce, nello specifico contesto del procedimento di controllo formale, un logico effetto di tale an‑ nullabilità. Vale la pena di notare, per inciso, come, in giurisprudenza, già si sia veri‑ ficato l’annullamento di un provvedimento impositivo emesso in assenza dei relativi presupposti di legge; ci si riferisce al caso di declaratoria di illegitti‑

(47) Cfr. G. Fransoni, Considerazioni su accertamenti “generali”, accertamenti parziali, controlli formali e liquidazioni della dichiarazione alla luce della legge n. 311/2004, in Riv. dir. trib., 2005, 606-607.


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mità di un avviso di accertamento parziale fondato su argomentazioni presun‑ tive contenute nel processo verbale di constatazione formato dalla Guardia di Finanza (48)- (49). Resta inteso che, nell’eventualità in cui il provvedimento amministrativo abbia ad oggetto anche comportamenti illegittimi del contribuente rientranti nell’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973, detto provvedimento sarà annullabile solo parzialmente e cioè li‑ mitatamente alle contestazioni effettuate in violazione della norma da ultimo richiamata. Posto quanto sopra, si tratta ora di capire se, in ipotesi di annullamento totale o parziale del predetto provvedimento, magari ad opera dello stesso ente impositore ricorrendo all’istituto dell’autotutela, l’amministrazione finanzia‑ ria sia successivamente legittimata, ove ancora nei termini di cui all’art. 43 del DPR n. 600/1973, ad attivare, nei confronti del medesimo contribuente e relativamente alle fattispecie prima erroneamente contestate nell’ambito del procedimento ex art. 36 ter del DPR n. 600/1973, il procedimento di controllo sostanziale di cui agli artt. 37 e ss. del DPR n. 600/1973. A far propendere per la soluzione positiva concorre sia il medesimo art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973, nel quale il legislatore, prima di elencare le fattispecie cui si applica il procedimento di controllo formale, ha inserito l’incipit “Senza pregiudizio dell’azione accertatrice a norma degli articoli 37 e seguenti”, sia l’art. 37, comma 1, primo periodo, del DPR n. 600/1973, lad‑ dove è previsto che gli uffici controllino le dichiarazioni dei contribuenti, ov‑ vero individuino i soggetti che ne hanno omesso la presentazione, tra l’altro, “sulla scorta dei dati e delle notizie acquisite ai sensi dei precedenti articoli” (quindi anche l’art. 36 ter). Dalla locuzione da ultimo richiamata, unitamente a quella, contenuta nel‑ la norma medesima, secondo cui gli uffici controllano le dichiarazioni e le

(48) Cfr. Comm. trib. prov. Avellino 20 settembre 2001, n. 26, cit. Merita rammentare, in proposito, che, come osservato al precedente paragrafo 2.1., la caratteristica degli accertamenti parziali sia essenzialmente quella di fondarsi su prove dirette dotate di forte attendibilità e non, a differenza degli accertamenti ordinari, su prove presuntive. (49) Contra, in dottrina, F. Pistolesi, Evoluzione ed abusi nell’impiego dell’accertamento parziale, cit., 333, secondo cui “l‘eventuale errore compiuto dall‘Agenzia delle Entrate nell‘adottare l‘accertamento parziale in luogo di quello generale non ne cagiona la nullità, ma comporta la necessità di considerarlo alla stessa stregua di un accertamento generale, sì che potrà essere integrato solo ove ricorra la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi”.


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relative omissioni sulla base “delle informazioni di cui siano comunque in possesso”, pare, inoltre, potersi desumere che il materiale probatorio acqui‑ sito durante l’attività istruttoria, relativamente alle fattispecie erroneamente contestate ricorrendo al procedimento ex art. 36 ter del DPR n. 600/1973, sia direttamente utilizzabile nell’ambito dell’eventuale successivo procedimento di controllo sostanziale senza che, in altri termini, l’amministrazione finanzia‑ ria sia obbligata a formulare una “nuova” richiesta di documentazione ai sensi dell’art. 32, comma 1, n. 2), del DPR n. 600/1973. A quest’ultimo proposito va aggiunto che, se da un lato pare possibile sostenere che il contribuente sia legittimato a non rispondere, senza incorrere in sanzioni, alle richieste di dati e/o informazioni formulate dall’amministra‑ zione finanziaria, durante il procedimento di controllo formale, in violazione dell’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973, dall’altro lato pare ragione‑ vole credere che, ove il contribuente fornisca spontaneamente, ossia senza la minaccia di sanzioni in specie non irrogabili, tali dati e/o informazioni, allora l’amministrazione finanziaria sia altrettanto legittimata ad utilizzare questi ultimi, in una pura ottica di economicità dell’azione amministrativa, a sua di‑ screzione e quindi anche nell’ambito di un eventuale successivo procedimento di controllo sostanziale (50). In conclusione, esulando parzialmente dallo specifico contesto del presen‑ te lavoro, si ritiene opportuno determinare se le fattispecie previste dall’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973 debbano tassativamente essere og‑ getto del procedimento di controllo formale, ovvero possano essere oggetto, alternativamente, tanto del procedimento da ultimo nominato quanto di quello sostanziale di cui agli artt. 37 e ss. del sunnominato decreto. In proposito, mentre alcuna dottrina, sebbene paventando il rischio di ir‑ razionali disparità di trattamento, è favorevole alla seconda delle soluzioni poc’anzi tratteggiate (51), altra dottrina, pur ritenendo tale soluzione teorica‑ mente percorribile, esprime, sul punto, la perplessità derivante dal fatto che l’art. 41 bis del DPR n. 600/1973 esclude la possibilità di attivare il procedi‑ mento di controllo parziale in relazione alle fattispecie di cui all’art. 36 bis e 36 ter del DPR n. 600/1973 (52).

(50) In questi termini, si vedano, più in generale, I. Manzoni, Potere di accertamento e tutela del contribuente nelle imposte dirette e nell’Iva, cit., 235 e R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario. Principi generali e approfondimenti specialistici, cit., 287 e 288. (51) Cfr. S. La Rosa, Principi di diritto tributario, cit., 364. (52) Cfr. A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., 299.


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Detto questo, condivisibile è quel pensiero dottrinale secondo cui i due procedimenti di cui si discorre, trovandosi in rapporto di reciproca specialità, hanno ambiti applicazione rigorosamente separati cosicché, anche nell’even‑ tualità in cui le fattispecie di cui all’art. 36 ter, comma 2, del DPR n. 600/1973 fossero accertate ricorrendo al procedimento di controllo sostanziale, opere‑ rebbero comunque le stesse regole valevoli nel procedimento di controllo for‑ male (disciplina del contraddittorio, misura delle sanzioni, non definibilità in sede di accertamento con adesione, ecc.) (53).

Francesco Pedrotti

(53) In tal senso si veda P. Russo, G. Fransoni, L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario, cit., 176 e G. Fransoni, Considerazioni su accertamenti “generali”, accertamenti parziali, controlli formali e liquidazioni della dichiarazione alla luce della legge n. 311/2004, cit., 603-604.


Considerazioni sul sezionamento fiscale del patrimonio netto della scissa a margine della più recente prassi interpretativa erariale e del principio di neutralità Sommario: 1. Premessa. – 2. Il sezionamento proporzionale del patrimonio netto

della scissa (e l’alimentazione simmetrica di quello della beneficiaria) nella più recente interpretazione erariale e la sua giustificazione di ordine sistematico. – 3. Una soluzione fiscale dalle origini civilistiche: una breve cronistoria e le tematiche tributarie che vengono in rilievo. – 4. Spigolature critiche circa la specifica ricostruzione interpretativa dell’Agenzia delle Entrate. – 5. La neutralità come possibile ratio sottesa all’interpretazione erariale. – 6. Conclusioni.

In passato la scissione è stata spesso considerata dall’Agenzia delle Entrate come un possibile strumento per conseguire un illegittimo risparmio d’imposta. Più di recente l’inter‑ pretazione delle Autorità fiscali italiane è mutata ed esistono plurimi interpelli maggiormente aperti circa l’approccio generale a questa specifica operazione straordinaria. Tuttavia, anche in questo nuovo corso, l’interpretazione permane selettiva in ordine a taluni profili come, per esempio, l’identificazione delle singole componenti del patrimonio netto che devono essere ridotte in caso di scissione. Infatti, secondo l’attuale interpretazione ufficiale dell’Agenzia delle Entrate, tutte le singole componenti del patrimonio netto debbono essere ridotte da un punto di vista fiscale anche se, in una prospettiva societaria e contabile, ciò non avviene. Sif‑ fatta carenza di flessibilità fiscale non sembra totalmente ragionevole e probabilmente la ratio citata dalle Autorità tributarie (vale a dire la neutralità impositiva della scissione) non risulta perfettamente coerente con le effettive conseguenze fiscali di questo concetto. In the past the demerger was often considered by the Revenue Agency as a possible tool aimed at achieving an undue tax saving. More recently the interpretation of the Italian tax Authorities has changed and there are several rulings more open in relation to the general approach of this specific transaction. However, even in this new course, the interpretation remains strict with regard to some aspects as, for example, the identification of the single items of the net equity which must be reduced in case of demerger. Indeed, according the current official interpretation of the Revenue Agency, all the components of the net equity must be reduced from a fiscal point of view even if, in a corporate and accounting perspective, this does not happen. Such lacking fiscal flexibility does not seem totally reasonable


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and probably the rationale mentioned by the Tax Authorities (i.e. the fiscal neutrality of the demerger) is not perfectly in line with the effective tax consequences of this concept.

1. Premessa. – La scissione rappresenta, da sempre, un argomento delicato sotto il profilo ermeneutico e, in particolare modo, per l’interpretazione ufficia‑ le, vale a dire quella dell’Amministrazione finanziaria destinata a confrontarsi con un’operazione che – sotto taluni profili – nasce con una sorta di stigma (1). La scissione (2), infatti, è l’unica operazione straordinaria che, all’atto dell’in‑ troduzione della relativa disciplina nell’ordinamento fosse qualificata - seppure in una sua specifica configurazione (vale a dire in ipotesi di non proporzionalità) - come elusiva direttamente a livello legislativo (3). Non si è lontani dal vero, quindi, se si afferma che nei confronti della scissione sussiste storicamente un atteggiamento di cautela interpretativa da parte dell’Amministrazione finanzia‑ ria. È come se la frammentazione del patrimonio della scissa consustanziale alla scissione e la flessibilità di realizzazione di tale operazione (una flessibilità che – basti pensare alla cosiddetta scissione asimmetrica (4) – può giungere a modificare in modo radicale gli originari assetti partecipativi in capo alla scis‑ sa) rappresentassero, in qualche modo, elementi da osservare con circospezione (se non con sospetto). Di qui, ragionevolmente, una lunga sequenza di passate interpretazioni molto attente e selettive da parte dell’Agenzia delle Entrate e ciò, in particolare modo, nell’ipotesi di combinazione della scissione con un’al‑

(1) Un profilo sin da subito posto in luce dalla dottrina più attenta alle dinamiche delle operazioni straordinarie come dimostrato dalle considerazioni di G. Zizzo, Le riorganizzazioni societarie nelle imposte sui redditi, Milano, 1996, 213 per il quale “(…) la scissione determina la divisione del patrimonio della società scissa tra questa società e la società beneficiaria (o le società beneficiarie). (…) Da questa circostanza nascono una serie di problemi (…) sconosciuti alle fusioni e – a fortiori – alle trasformazioni”. (2) Con peculiare riguardo alla operazione di scissione, e pluribus, cfr. R. Lupi, Scissione (dir. trib.), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1996; G. Ragucci, La scissione di società nell’imposizione diretta, Milano, 1997; Aa.Vv. La particolarità delle scissioni, in R. Lupi - D. Stevanato (a cura di),La fiscalità delle operazioni straordinarie, Milano, 2002, 493 ss. (3) In tal senso cfr. art. 123-bis, comma 16, del TUIR (successivamente abrogato dal D.Lgs. 358/97). (4) Sulla nozione di scissione asimmetrica, senza pretesa di esaustività, cfr. G. Scognamiglio, Le scissioni, in Trattato delle società per azioni (a cura di G.E Colombo - G.B. Portale), Torino, volume, 7** 2, Torino, 2004; F. Laurini, Brevi note sui profili operativi della scissione asimmetrica, in Riv. not., 2007, 1133 e ss.; F. Magliulo, La scissione delle società, Milano, 2012.


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tra operazione (sovente di natura realizzativa) (5). Più di recente, tuttavia, la prassi interpretativa erariale parrebbe avere smussato molte delle asperità che per lungo tempo ne hanno contraddistinto l’analisi in tema di scissione. In tal senso depongono gli approcci meno rigidi rispetto alle ipotesi di operazione non proporzionale o asimmetrica così come un orientamento palesemente meno fermo a fronte della scissione di patrimoni di natura immobiliare (6). Tuttavia, in quella che parrebbe una nouvelle vague tesa a valorizzare (anche in un’ottica impositiva) la flessibilità tipica della scissione, emergono (ed anche in maniera abbastanza palese) taluni momenti di rigidità ermeneutica. Ad onore del vero, non è dato comprendere se si tratti di sussulti estemporanei che costituiscono l’esito di un rigore antiabuso un po’ old style ovvero se si sia in presenza di elaborazioni adeguatamente meditate; ciò che certo è che fra le righe di talune delle più recenti pronunzie dell’Agenzia delle Entrate emergono delle afferma‑ zioni dal contenuto concettuale anelastico ed è a queste considerazioni che sono dedicate le brevi riflessioni qui di seguito tracciate che mirano ad investigarne la coerenza rispetto ai relativi presupposti. 2. Il sezionamento proporzionale del patrimonio netto della scissa (e l’alimentazione simmetrica di quello della beneficiaria) nella più recente interpretazione erariale e la sua giustificazione di ordine sistematico. – Una delle tema‑ tiche che, in maniera quasi incidentale, è stata affrontata dalla prassi interpreta‑ tiva erariale è rappresentata dalle indicazioni circa le modalità con cui (in caso di scissione di elementi patrimoniali dal valore algebrico contabile complessiva‑ mente positivo) si dovrebbe operare la riduzione del patrimonio netto della so‑ cietà scissa (e, di conseguenza, alimentare il netto contabile della entità benefi‑ ciaria). L’argomento, seppure in maniera tangenziale, è stato affrontato (alme‑ no) in tre occasioni dall’Agenzia delle Entrate. Ad esempio, nella risoluzione n. 97/E del 2017 si precisa (quasi in fase conclusiva dell’iter argomentativo) che “(…) si ritiene di dover precisare per completezza che, ai fini fiscali, la composizione del patrimonio netto (che residua dopo la ricostituzione delle eventuali riserve in sospensione d’imposta) destinato alla società beneficiaria dovrà rispecchiare, percentualmente, la natura di capitale e/o di riserve di utili esisten-

(5) A mero titolo esemplificativo si vedano le risoluzioni nn. 33/E del 23 marzo 2001; 166/E del 3 novembre 2000; 53/E del 21 febbraio 2002. (6) In proposito si rinvia alla risposta n. 139 del 2018 ed alla n. 2 del 2019 entrambe liberamente consultabili sul sito www.agenziaentrate.it.


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ti nella società interpellante, precedentemente all’operazione di scissione; in altri termini, dal punto di vista fiscale, il patrimonio netto (residuo) attribuito alla società beneficiaria dovrà considerarsi formato nel rispetto della natura (capitale o utile) delle poste di patrimonio netto presenti nella società scindenda e nelle medesime proporzioni (senza considerare, nella proporzione, le riserve in sospensione d’imposta già ricostituite dalla società beneficiaria)”. Del pari, nella risposta n. 139 del 2018 si afferma “(…) preliminarmente che, ai fini fiscali, la composizione del patrimonio netto (che residua dopo la ricostituzione delle riserve in sospensione d’imposta) destinato alla società beneficiaria dovrà rispecchiare, percentualmente, la natura di capitale e/o di riserve di utili esistenti nelle scisse antecedentemente l’operazione di scissione; in altri termini, dal punto di vista fiscale, il patrimonio netto (residuo) attribuito alla società beneficiaria dovrà considerarsi formato nel rispetto della natura (capitale o utile) delle poste di patrimonio netto presenti nelle società scisse e nelle medesime proporzioni (senza considerare nella proporzione le riserve in sospensione d’imposta già ricostituite dalla società beneficiaria)”. Ed un principio sostan‑ zialmente analogo e complementare è stato da ultimo ribadito (anche in questo caso nel contesto di un iter argomentativo più complesso) nella risposta n. 2 del 2019 (7) ove si precisa che “Per quanto riguarda la posizione della scissa, in generale, va rilevato che anche la scissa (pur ordinariamente libera di scegliere, sotto il profilo civilistico, le voci ideali di netto che possono essere utilizzate per alimentare il patrimonio della beneficiaria), coerentemente con quanto previsto per la beneficiaria, è tenuta a ridurre, ai fini fiscali, il proprio patrimonio netto in misura proporzionale alla ripartizione capitale/riserve di capitale e riserve di utili presenti ante scissione, al fine di garantire una simmetria e una continuità della qualificazione delle poste di patrimonio netto trasferite alla beneficiaria con la scissione che rappresentano espressioni del principio di neutralità fiscale. Pertanto, per effetto della rappresentata scissione, anche il patrimonio netto della BETA (id est della scissa – n.d.r. -) dovrà essere ridotto, sotto il profilo fiscale, in misura proporzionale tenendo conto del rapporto capitale/ riserve di capitale e riserve di utili presenti ante scissione (dando atto di tale ripartizione nel “Prospetto del capitale e delle riserve” presente nella dichiara-

(7) Per un cui commento, anche in relazione alle tematiche dei movimenti patrimoniali delle società partecipanti all’operazione di scissione, si rinvia a A. Garcea, La stratificazione fiscale del patrimonio netto nella scissione a favore dell’unico socio, in Il Fisco n. 15/2019, 1407 e ss.


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zione dei redditi del periodo d’imposta in cui l’operazione di scissione ha avuto efficacia)”. In ultima analisi, secondo un orientamento che appare ormai conso‑ lidato nella ricostruzione ermeneutica dell’Agenzia delle Entrate, la selezione delle poste di netto contabile da cui la scissa può attingere per alimentare il pa‑ trimonio della beneficiaria sarebbe vincolata (almeno) da un punto di vista tri‑ butario: la scissa sarebbe di fatto tenuta a ridurre proporzionalmente tutte le poste del proprio netto le quali, come tali, si rifletteranno nel patrimonio della beneficiaria (indipendentemente dalla qualificazione che le stesse assumeranno in capo a quest’ultima in termini contabili). Vi sarebbe quindi – al netto delle riserve in sospensione d’imposta caratterizzate nel microsistema di cui all’art. 173 del TUIR da una disciplina autonoma – un implicito obbligo fiscale di su‑ bentro proporzionale della beneficiaria nella composizione del patrimonio netto della scissa nella sua interezza. Ciò significa, volendo esemplificare che nell’i‑ potesi in cui: i) la scissa sia titolare di un patrimonio netto contabile di 100 rap‑ presentato per 90 da capitale sociale e per 10 da riserve di utili disponibili (non in sospensione d’imposta); e ii) venga deliberata la scissione di elementi patri‑ moniali dal valore contabile complessivo di 10, allora, la società scindenda non potrà imputare integralmente il decremento patrimoniale alla riserva di utili di‑ sponibile ma dovrà necessariamente ridurre il proprio capitale sociale di 9 e la riserva di utili di 1. Così come, in modo speculare, l’incremento di netto conta‑ bile della beneficiaria sarà rappresentato al 90% da poste da apporto e per il 10% da riserve di utili. Un siffatto principio (che pure mostra una propria ragionevo‑ lezza applicativa) viene tuttavia giustificato anche in una prospettiva di sistema evocando il principio della neutralità fiscale della scissione in quanto tipica operazione sui soggetti (8). Va dato atto all’Agenzia delle Entrate della consapevo‑ lezza dei limiti delle proprie affermazioni tant’è che l’efficacia delle stesse è stata limitata al solo campo della fiscalità lasciando piena libertà di gestione del netto alle società partecipanti all’operazione da un punto di vista civilistico (e a

(8) In ambito fiscale sulla tradizionale summa divisio fra la categoria delle operazioni sui beni e quella delle operazioni sui soggetti si rinvia alle considerazioni di a. Fantozzi - R. Lupi , in G.E Colombo - G.B. Portale (a cura di), Trattato delle società per azioni, Torino, volume 9**. Più recentemente, ex multis, cfr. A. Fedele, Riorganizzazione delle attività produttive e imposizione tributaria, in Riv. dir. trib., 2000, I, 485 ss.; G. Zizzo, Operazioni societarie straordinarie (diritto tributario), in Encicl. dir. - Annali, Milano, 2007, vol. I, 875 e ss.; F. Paparella, Le operazioni straordinarie nell’ordinamento tributario, in Aa.Vv. (a cura di E. Della Valle - V. Ficari - G. Marini), Il regime fiscale delle operazioni straordinarie, Torino, 2009.


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maggiore ragione contabile). V’è da dire, tuttavia, che questo self-restraint – se ha una sua indubbia ragionevolezza (il diritto vivente delle società commerciali non pone alcun limite alla selezione delle poste di netto della scissa destinate ad alimentare il patrimonio della beneficiaria (9)) – è foriero di indubbie complica‑ zioni di ordine pratico e comunque suscita perplessità; e ciò non tanto per il principio di specularità qualitativa (vale a dire di simmetria qualitativa) fra il decremento di netto della scissa e l’incremento patrimoniale della beneficiaria (una circostanza che appare, invero, del tutto sistematica) né per l’affermazione tale per cui l’incremento patrimoniale della beneficiaria è destinato a mantenere la natura fiscale del patrimonio della scissa quand’anche sia riqualificato in capo alla beneficiaria (ad esempio come capitale sociale pur essendo stato alimentato da riserve di utili) quanto, piuttosto, per l’obbligo (di sola matrice fiscale) di sezionamento integrale di tutto il patrimonio netto contabile della società scissa e sulla presunta ratio giustificativa individuata al riguardo dall’Agenzia delle Entrate. Come posto in luce dalla stessa prassi erariale richiamata, infatti, l’af‑ fermato obbligo di decremento rigorosamente proporzionale del patrimonio del‑ la scissa con conseguente simmetrica alimentazione del patrimonio della bene‑ ficiaria: i) non esplica effetti da un punto di vista societario e contabile; e ii) per l’effetto può condurre ad una eterogenea composizione del netto contabile (tan‑ to della scissa quanto della beneficiaria) a seconda che si abbia riguardo all’as‑ setto bilancistico ed a quello fiscale. Il che, con tutta evidenza, rappresenta una conseguenza abbastanza artificiosa di cui, oggettivamente, non si ravvisa l’esi‑ genza nella prassi. Preso atto, tuttavia, che questo è lo stato dell’arte dell’inter‑ pretazione erariale è doveroso chiedersi se la soluzione prefigurata abbia una effettiva ragione d’essere ed è altresì corretto domandarsi se la ratio evocata dall’Agenzia delle Entrate (id est il rispetto del principio di neutralità fiscale ti‑ pico della categoria fiscale delle operazioni sui soggetti a cui la scissione è

(9) Sulla assoluta libertà di alimentazione del netto della beneficiaria con qualsiasi posta di netto disponibile della entità scissa la più recente dottrina giuscommerciale non sembra oggettivamente nutrire dubbi come dimostrato, inter alia, dalle considerazioni di F. Magliulo, La scissione delle società, cit., 194; U. Belviso La fattispecie della scissione, in Giur. Comm., 1993, I, 526; G.B. Portale, La scissione nel diritto societario italiano: casi e questioni, in Riv. soc., 2000, 488.


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senz’altro riconducibile) sia effettivamente in grado di giustificare la conclusio‑ ne del ragionamento (come postulato nei richiamati precedenti di prassi). 3. Una soluzione fiscale dalle origini civilistiche: una breve cronistoria e le tematiche tributarie che vengono in rilievo. – Prima di cercare di fornire un sintetico riscontro a tali quesiti va detto che la soluzione sancita dalla prassi era‑ riale non presenta i tratti dell’assoluta novità, anzi – come avviene sovente – essa rinvia anche alla materia extrafiscale e dà conto delle strettissime relazioni che il diritto tributario intesse con il diritto commerciale e con il diritto (cosiddetto) contabile. È in tale prospettiva, pertanto, che occorre rammentare come in oc‑ casione dell’introduzione nell’ordinamento societario italiano dell’istituto della scissione ad opera D.Lgs. 22/91, una dottrina assai autorevole (10) - in un primo commento alla novella – esprimesse l’opinione che la composizione del net‑ to della beneficiaria doveva riprodurre proporzionalmente del patrimonio della scissa; di talché il decremento patrimoniale di quest’ultima doveva interessare tutte le singole poste di netto le quali, come tali, si sarebbero riproposte nella composizione del patrimonio della beneficiaria. In breve, esattamente ciò che, ai fini strettamente impositivi, l’Agenzia delle Entrate afferma nella propria richia‑ mata prassi. V’è da dire, tuttavia, che siffatta posizione interpretativa rimase so‑ stanzialmente isolata e sin da subito si affermò nel diritto commerciale vivente il principio tale per cui, in ossequio al principio di autonomia privata, non vi fosse alcun vincolo di alimentazione proporzionale coatta del netto della beneficiaria, ben potendosi prelevare le poste patrimoniali impiegate per tale finalità da qual‑ siasi componente del netto della scissa (11). Il che, con tutta evidenza, rispon‑ deva anche ad una palese logica di semplificazione atteso che, altrimenti, una qualsiasi scissione (anche di minima entità economica) avrebbe dovuto sempre comportare un sezionamento trasversale di tutto il patrimonio netto contabile della società scindenda; il che apparve sin da subito una complicazione priva di utilità pragmatica ed antitetica al principio di autonomia privata (risolvendosi di

(10) Cfr. P. Ferro -Luzzi, La nozione di scissione, in Giur. comm., 1991, I, 1065 ss. (11) Per l’affermazione, sin da subito, di una libertà di selezione nel senso delineato nel testo, ex multis, cfr. F. D’Alessandro, La scissione delle società, in Riv. not., 1990, 886 e ss.; M. Maugeri, L’introduzione della scissione di società nell’ordinamento italiano: prime note sull’attuazione della VI direttiva CEE, in Giur. comm., 1991, 745; più di recente cfr. L.G. Picone, Commento all’art. 2506-bis, in Commentario alla riforma delle società, (diretto da P.G. Marchetti - L.A. Bianchi - F. Ghezzi - M. Notari) sub artt. 2498-2506 quater c.c., Milano, 2006, 1107.


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fatto in una coartazione della volontà dei soci della scissa costretti a ridurre verticalmente tutto il patrimonio della scissa ivi incluso il capitale sociale in ogni occasione scissoria). Premesso, quindi, che il principio di sezionamento propor‑ zionale del patrimonio netto della scissa è rapidamente divenuto recessivo nel proprio ambito genetico di matrice civilistica, esso ha invece finito per trovare il proprio campo elettivo nel contesto della riflessione tributaria tanto da divenire, come rappresentato, il criterio guida nell’elaborazione interpretativa erariale in materia. Ed è allora doveroso interrogarsi sulla ragione per cui ciò sia accaduto e se effettivamente – come lascia intendere quasi incidentalmente ma in modo fermo l’Agenzia delle Entrate – tale soluzione risponda ad un’intrinseca logica impositiva (in grado, con tutta evidenza, di prescindere dalle considerazioni di matrice civilistica e contabile). 4. Spigolature critiche circa la specifica ricostruzione interpretativa dell’Agenzia delle Entrate. – In realtà, v’è motivo di ritenere che l’adozione del criterio del puro sezionamento proporzionale del netto della scissa, prima ancora che a ragioni di ordine normativo (come si dirà abbastanza evanescenti), rispon‑ da principalmente ad un timore profondo dell’Agenzia dell’Entrate (talmente profondo da indurla a cagionare una notevole complicazione determinando una pressoché certa composizione alternativa del netto contabile e di quello fiscale delle società partecipanti ad una scissione visto che nella prassi è rarissimo che si dia corso ad un decremento proporzionale di tutte le poste del netto contabile della scissa): vale a dire il timore che l’attribuzione di una piena discrezionalità in tema di decremento del patrimonio della scissa con conseguente alimentazio‑ ne libera del netto della beneficiaria possa prestarsi a manovre di natura elusiva in senso lato. In altri termini, è ragionevole ritenere che il timore che ha indotto all’affermazione del criterio della pura proporzionalità (id est del sezionamento integrale e, per così dire, verticale del patrimonio netto della scissa) sia quello tale per cui i contribuenti, miscelando poste di capitale e poste di utili, possano conseguire un qualche imponderabile vantaggio tributario. È tuttavia lecito du‑ bitare che questo rischio venga a realizzarsi con estrema probabilità. E ciò per più ragioni. In prima istanza perché – pur restando strutturalmente differenti (in quanto solo la distribuzione di poste di capitale determina la riduzione del costo fiscale di carico della partecipazione in capo al socio) – è indubbio come, a de‑ correre dall’entrata in vigore del D.Lgs. 344/2003 (la cosiddetta riforma IRES) e la conseguente abolizione del credito d’imposta sui dividendi, la differenza (almeno per il soggetto titolare di reddito d’impresa) fra la percezione di poste di utili e quella di poste di capitale sia abbastanza limitata (a tratti inesistente)


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in termini di effettivo impatto economico. La percezione di poste di capitale in eccedenza rispetto al costo fiscale della partecipazione, infatti, è generalmente assoggettata ad un regime di imposizione limitato (in quanto, di norma, si tratta di un provento assoggettato al regime di participation exemption) così come lo è (di norma) la percezione di un dividendo rappresentato da utili in larga parte esclusi da imposizione ai sensi dell’art. 89 del TUIR. Le possibilità di arbitraggio impositivo (che, con tutta evidenza, sembrano destinate a concretizzarsi solo nel momento della distribuzione delle poste in favore dei soci), perciò, appaiono abbastanza contenute. Peraltro, la specifica interpretazione formulata dall’Agenzia delle Entrate risulta anche in controtendenza rispetto allo spirito che ha animato taluni revirements ermeneutici ugualmente in materia di scis‑ sione. Solo pochi anni fa, infatti – dopo avere per lungo tempo sostenuto la tesi contraria – l’Agenzia delle Entrate ha legittimato la soluzione del sezionamento da parte del socio del costo originario della partecipazione nella scissa in base al criterio del valore economico e non più contabile delle partecipazioni derivanti dall’operazione (12). Una interpretazione che sembrava andare verso un’impo‑ stazione meno anelastica e meno ancorata al dato contabile rispetto al passato e che, quindi, appariva preludere ad una gestione complessiva dell’istituto della scissione ispirata al criterio della flessibilità e della tendenziale coincidenza fra la dinamica civilistica e sostanziale dell’operazione, da un lato, e quella più pro‑ priamente fiscale, dall’altro lato. Rispetto a tale nuovo corso (peraltro confer‑ mato anche dalle reiterate aperture della più recente prassi erariale in materia di scissione di patrimoni immobiliari) le affermazioni in punto di necessaria proporzionalità del decremento del netto della scissa appaiono oggettivamente in controtendenza e, quindi, occorre interrogarsi se vi sia altro (in termini di ratio) oltre al metagiuridico timore che una discrezionalità eccessiva possa occultare forme di arbitraggio patologico (13). In altri termini, nell’attuale milieu interpre‑ tativo che presiede alla disciplina fiscale della scissione una limitazione come quella in esame ha una propria logica intrinseca? È logico dubitarne per plurime ragioni. In prima istanza perché – e tale profilo non deve passare sotto silenzio – tale ipotetica proporzionalità coatta risulta affermata dall’Agenzia delle Entrate in maniera totalmente metanormativa. Ad un’analisi attenta, infatti, nell’attuale

(12) In tal senso si veda la risoluzione n. 52/E del 2015. (13) Un fil rouge ben noto alla disciplina tributaria della scissione se solo si pone mente alla menzionata circostanza che, all’atto della introduzione dello specifico istituto nel TUIR, la configurazione non proporzionale dell’operazione era presunta iuris et de iure come elusiva.


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configurazione dell’art. 173 del TUIR non è ravvisabile alcun elemento di ordi‑ ne lessicale (invero neanche in una prospettiva indiziaria) che deponga nel sen‑ so prefigurato dalla prassi interpretativa erariale (14). Anzi, se proprio occorre

(14) Non può essere considerato tale (vale a dire un indizio nel senso ipotizzato) il rinvio per relationem operato dall’art. 173, comma 9, del TUIR alle previsioni di cui ai commi 5 e 6 dell’art. 172 del medesimo testo normativo. L’art. 172, comma 6, del TUIR – infatti – stabilisce che “all’aumento di capitale, all’avanzo da annullamento o da concambio che eccedono la ricostituzione e l’attribuzione delle riserve di cui al comma 5 si applica il regime fiscale del capitale e delle riserve della società incorporata o fusa, diverse da quelle già attribuite o ricostituite ai sensi del comma 5 che hanno proporzionalmente concorso alla sua formazione. Si considerano non concorrenti alla formazione dell’avanzo da annullamento il capitale e le riserve di capitale fino a concorrenza del valore della partecipazione annullata”. Dal combinato disposto dei due periodi discende che, in caso di fusione con concambio, le riserve di utile e di capitale preesistenti si considerano trasferite presso l’incorporante, sulla parte dell’aumento di capitale e dell’avanzo da concambio che eccede quanto necessario per la ricostituzione delle eventuali riserve in sospensione di imposta, nella stessa proporzione in cui figuravano presso l’incorporata. In caso di fusione per incorporazione con annullamento, invece, ai sensi dell’ultimo periodo dell’art. 172, comma 6, del TUIR, si prevede che l’avanzo di annullamento non possa costituire espressione delle riserve di capitale dell’incorporata fino a concorrenza del costo della partecipazione annullata. In termini più chiari, si presume ex lege che l’annullamento del patrimonio netto della incorporata abbia interessato in primo luogo le riserve di capitale, fino a concorrenza del costo della partecipazione, e si assume, correlativamente, che l’avanzo da annullamento sia prioritariamente formato dalle riserve di utili dell’incorporata. Ebbene è logico ritenere che, in caso di scissione, queste regole non possano essere considerate l’indizio di un obbligo di proporzionalità coattiva nel senso prefigurato dalla prassi interpretativa erariale; e ciò per una ragione assai semplice. È pur vero, infatti, che il menzionato comma 6 dell’art. 172 del TUIR (richiamato dal comma 9 del successivo art. 173) sancisce che l’incremento del netto contabile dell’incorporante debba considerarsi formato da riserve di utile e di capitale nella stessa proporzione in cui figuravano presso la società incorporata. Tale regola, tuttavia, è sancita in relazione all’operazione di fusione nel cui contesto la società fusa e/o incorporata non sopravvive contabilmente perché tutto il suo patrimonio è destinato ad essere assorbito da un soggetto terzo. Al contrario, in caso di scissione, l’operazione può essere anche parziale con conseguente sopravvivenza (anche contabile) della scissa e libera selezione delle poste di netto da cui attingere per alimentare il patrimonio della beneficiaria. Se così è, allora, non può trascurarsi come il citato art. 172, comma 6, del TUIR si limiti a prevedere che “all’aumento di capitale, all’avanzo da annullamento o da concambio che eccedono la ricostituzione e l’attribuzione delle riserve di cui al comma 5 si applica il regime fiscale del capitale e delle riserve della società incorporata o fusa, diverse da quelle già attribuite o ricostituite ai sensi del comma 5 che hanno proporzionalmente concorso alla sua formazione”. Il che fa oggettivamente la differenza in quanto nel contesto di una scissione potrebbero ben non concorrere (ed anzi, di norma, non concorrono) ad alimentare il patrimonio della beneficiaria tutte le componenti del patrimonio della scissa. Di qui l’esigenza di non fare dire al comma 6 più di quanto esso effettivamente non sia in grado di esplicitare. Tale disposizione, infatti (prescindendo da ogni implicazione con riguardo alle riserve in sospensione di imposta) si limita a precisare che l’incremento del netto della beneficiaria deve riflettere la natura delle poste di netto della scissa da cui si attinge per alimentare il patrimonio della beneficiaria medesima. Sin qui nulla quaestio.


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essere netti, è necessario dire che (ad eccezione della dinamica propria delle riserve in sospensione d’imposta) le modalità di decremento del netto contabile della scissa e di alimentazione del patrimonio della beneficiaria sono del tutto estranee all’ordito normativo fiscale. Ciò significa che l’interpretazione cui ci si riferisce in questa sede finisce per sovrapporsi in maniera autoritativa all’au‑ tonomia privata delle parti finendo per imporre una configurazione fiscale del patrimonio netto (alternativa a quella civilistico – contabile) senza che, tuttavia, la normativa tributaria faccia mai cenno alla specifica tematica; il che – a tacere d’altro – non appare totalmente condivisibile perché, di fatto, si traccia una re‑ gola di esclusiva matrice fiscale laddove la disposizione tributaria di riferimento nulla dice in proposito e, soprattutto, allorquando il diritto societario depone, come evidenziato, in senso antitetico. V’è anche, poi, un tema di proporzionalità di detta interpretazione. Come detto infatti – oltre che metanormativo – il criterio della segmentazione proporzionale coattiva sembra rispondere in ma‑ niera eccessiva al citato timore di possibili arbitraggi elusivi; degli arbitraggi potenzialmente patologici i cui reali confini, tuttavia, risultano difficili da indi‑ viduare. Quale sia, infatti, il rischio di ordine fiscale che in tal modo si intende prevenire risulta abbastanza indefinito. È come se si fosse in costanza di un timore dai connotati evanescenti circa i rischi insiti nella discrezionalità lasciata al contribuente e che porta, come reazione, a valorizzare la rigidità alla stregua di elemento di certezza (il che, in definitiva, era la medesima ragione tale per cui nella prassi interpretativa erariale il sezionamento del costo della partecipazione in capo al socio della scissa è rimasto lungamente ancorato al solo dato contabile, oggettivamente sprovvisto di qualsiasi margine di discrezionalità valutativa, pur nella consapevolezza che tale criterio ben poteva condurre a risultati distanti dagli economics effettivi sottesi all’operazione) (15). Tutto ciò significa, quindi,

La norma, tuttavia, non impone affatto che per la formazione fiscale del netto della beneficiaria debbano essere impiegate tutte le poste del patrimonio della scissa tant’è che si limita a sancire che al netto della beneficiaria si applichi il regime fiscale del capitale e delle riserve (della scissa) che hanno proporzionalmente concorso alla sua formazione; il che, anche in termini lessicali sta a significare che non v’è alcun obbligo normativo di utilizzo (per la formazione del netto della beneficiaria) di tutte le componenti del patrimonio della scissa. (15) E ciò anche a volere prescindere dalla circostanza che non è affatto detto che la rigidità sia tale da escludere manovre di natura elusiva. Infatti - come dimostrato (anche) dall’esperienza empirica in materia di sezionamento del costo della partecipazione in capo al socio – talvolta è proprio una disciplina anelastica che può prestarsi a condotte patologiche. È abbastanza intuitivo, infatti, che anche l’obbligo di sezionamento proporzionale del netto della scissa (così come avveniva per il sezionamento percentuale del costo della partecipazione prima


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che l’interpretazione proposta dall’Agenzia delle Entrate (proprio perché mira a contrastare rischi - invero non agevolmente prefigurabili – in astratto connessi ad un eccesso di discrezionalità che, invece, è senz’altro ammessa dal diritto comune e dovrebbe rappresentare l’unico riferimento rilevante considerato che, come detto, non è ravvisabile alcuna indicazione antitetica di ordine impositi‑ vo) finisce de plano per rivelare un deficit di proporzionalità. Tale posizione si risolve cioè in una misura ermeneutica eccessiva rispetto all’obiettivo che si intenderebbe perseguire e, soprattutto, che non è dato sapere se sia realmente in grado di fare conseguire. 5. La neutralità come possibile ratio sottesa all’interpretazione erariale. – E tutto ciò conduce, da ultimo, ad esaminare quella che l’Agenzia delle En‑ trate individua quale ratio giustificativa sottesa alla propria interpretazione: la neutralità fiscale tipica della scissione. Se bene s’intende, quindi, l’anelasticità propria del sezionamento proporzionale (a fini impositivi) di tutte le componen‑ ti del patrimonio netto della scissa costituirebbe un corollario necessario della neutralità fiscale. V’è da dire che la citata prassi erariale non argomenta siffatta affermazione limitandosi ad introdurla in modo abbastanza apodittico nel proprio iter argomentativo e, tuttavia, non v’è dubbio come la stessa emerga in manie‑ ra abbastanza netta dello sviluppo delle richiamate pronunzie. È, allora, logico chiedersi se questa sorta di corrispondenza immediata tracciata fra neutralità e anelasticità (tale è l’effetto del sezionamento coattivo dell’intero netto della scis‑ sa in caso di scissione parziale destinato ad alimentare il patrimonio di una o più beneficiarie) abbia un reale e solido fondamento (sebbene inespresso da un punto di vista normativo). V’è ragione di perplessità anche su questo specifico profilo. Il criterio di neutralità che indubbiamente presiede alla disciplina della scissione nel suo complesso quale tipica operazione sui soggetti, infatti, esplica la propria vis applicativa lungo più direttrici; nessuna di esse, tuttavia, sembra interessare (quand’anche in maniera episodica) la tematica in esame. È sì vero che la neutra‑

della modifica interpretativa dettata dalla menzionata risoluzione 52/E del 2015) potrebbe bene essere impiegato per programmare strumentalmente gli effetti impositivi futuri connessi alla distribuzione delle poste di netto alla luce della situazione individuale del socio percettore. Un potenziale obiettivo manipolatorio, quindi, non sembra come tale né favorito né disincentivato da una disciplina rigida o flessibile atteso che il nucleo essenziale del fenomeno dell’elusione è dato dall’aggiramento della sententia della norma nel formale rispetto della littera della stessa; un’eventualità rispetto alla quale la rigidità e la flessibilità della disposizione elusa appaiono come qualificazioni esogene e, quindi, a stretto rigore abbastanza irrilevanti.


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lità costituisce una sorta di fil rouge sotteso all’art. 173 del TUIR e rileva sia nella prospettiva della scissa (escludendo che per effetto dell’operazione emergano in capo alla stessa plusvalori o minusvalori imponibili (16)), sia in quella della beneficiaria (che è destinata ad acquisire gli elementi patrimoniali oggetto di scis‑ sione secondo l’ultimo valore fiscale ad essi riconosciuto presso la scissa (17)), che infine nell’ottica del socio della società scindenda (per il quale l’effetto permutativo in senso lato delle partecipazioni detenute in ragione della scissione non genera materia imponibile fatti salvi i casi di conguaglio pecuniario (18)). Ed è altresì innegabile che, in qualche modo, anche la disciplina delle riserve in sospensione d’imposta (19) e quella delle cosiddette posizioni soggettive della scissa (20) – postulando una diretta correlazione con il patrimonio netto tesa ad evitare salti d’imposta o comunque ad assicurare una continuità organizzativa e fiscale – possono essere considerati come un riflesso del principio della neutralità (inteso come principio che, in termini generali, esclude che l’operazione determi‑ ni immediate conseguenze impositive) (21). Pur essendo, quindi, il principio di neutralità un concetto immanente all’istituto della scissione ma al tempo stesso sprovvisto di un proprio imprinting normativo (nel senso che non è ravvisabi‑ le una definizione legislativa di tale nozione di talché è astrattamente possibile declinarla secondo differenti prospettive), v’è da dire che la correlazione con il fenomeno della segmentazione (pur solo per finalità fiscali) del patrimonio net‑ to della scissa non appare immediatissima. In cosa, infatti, sarebbe più o meno neutrale da un punto di vista fiscale il sezionamento proporzionale o meno di

(16) Cfr. art. 173, comma 1, del TUIR. (17) Cfr. art. 173, comma 2, del TUIR. (18) Cfr. art. 173, comma 3, del TUIR. (19) Cfr. art. 173, comma 9, del TUIR. (20) Cfr. art. 173, comma 4, del TUIR. (21) In particolare, preme qui osservare come – al di là delle apparenze – il criterio del sezionamento coattivo del patrimonio netto della scissa di cui trattasi in questa sede non sia riconducibile in alcun modo alla nozione di posizione soggettiva cui fa cenno l’art. 173, comma 4, del TUIR. Infatti, come è stato evidenziato in dottrina possono intendersi come posizioni soggettive tutte quelle situazioni (quand’anche allo stato meramente potenziale) in grado di incidere post scissione sulla determinazione dell’imponibile (e più in generale sulla posizione fiscale) delle società partecipanti all’operazione. Le posizioni soggettive, tuttavia, si caratterizzano per un tratto comune e cioè quello di essere sprovviste di una propria espressione contabile in capo alla scissa anteriormente all’operazione; il che, con tutta evidenza, rende le poste del patrimonio netto (della scissa) non riducibili alla nozione di posizione soggettiva la quale presuppone una sostanza extracontabile che risulta ex se estranea alla grandezza patrimonio. Ancora più dei singoli elementi patrimoniali, infatti, il netto ha un suo preciso ed ineludibile assetto contabile che rende ultronea l’evocazione della nozione di posizione soggettiva elaborata nel senso suindicato.


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tutte le componenti del patrimonio netto della scissa in caso di scissione (par‑ ziale) non appare autoesplicativo. Se il nucleo essenziale della neutralità fiscale è ravvisabile nell’inidoneità a generare imponibile fiscale ovvero nella capacità di impedire cosiddetti salti d’imposta, è di tutta evidenza come rispetto a tali situazioni le modalità di decremento patrimoniale della società scissa appaiono sostanzialmente ininfluenti. Né a conclusioni differenti sembra lecito addivenire ove si interpreti la neutralità fiscale della scissione quale diretta conseguenza della natura (meramente) riorganizzativa della stessa secondo il diritto societario (con la conseguenza che, essendo un atto dell’organizzazione e di mera modifica del contratto di società originario, la scissione sarebbe naturalmente inidonea a cagionare effetti impositivi). Proprio la circostanza che nella disciplina di diritto comune sia senz’altro ammessa la possibilità di ridurre il patrimonio netto della scissa decrementando solo talune delle poste del netto contabile della stessa e non anche altre dà la prova (negativa) del fatto che non è di certo questa accezio‑ ne di neutralità di lontana ascendenza giuscommerciale a potere giustificare la soluzione anelastica prefigurata dall’Agenzia delle Entrate. Cosa resta, dunque, della pure evocativa citazione del principio di neutralità quale ratio giustificativa dell’interpretazione erariale da cui hanno tratto spunto le presenti considerazio‑ ni? Invero abbastanza poco. A costo di errare sembra più una formula efficace per dare corpo e giustificare in via formale la soluzione prescelta piuttosto che l’esito di una analisi dei contenuti del principio di neutralità. 6. Conclusioni. – L’operazione di scissione si connota per un’estrema flessibilità che ne fa un istituto rispetto al quale v’è sempre stata molta cautela interpretativa da parte dell’Amministrazione finanziaria. Di recente, sollecita‑ ta anche dall’eterogeneità delle fattispecie concrete rappresentate in numerose istanze di interpello, l’Agenzia delle Entrate ha adottato posizioni più aperte e che tendono ad escludere che la flessibilità implichi necessariamente una forma di discrezionalità patologica. Sulla tematica del sezionamento coattivo integrale (per soli fini impositivi) del patrimonio netto della scissa in caso di operazione di natura parziale, tuttavia, va registrato un irrigidimento. E si tratta di un irrigidimento che, forse, meriterebbe una maggiore riflessione ed argomentazioni di ordine tecnico più approfondite e strutturate. Né la formulazione letterale delle previsioni normative né l’evocato principio di neutralità fiscale, infatti, appaio‑ no adeguati giustificativi per una soluzione interpretativa che, ad onore del vero, non appare prima facie come del tutto coerente e proporzionale.

Marco Di Siena


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Corte di Cassazione, sez. V, 21 febbraio 2019 - 10 maggio 2019, n. 12469 - Pres. Virgilio, Est. Perrino IVA – Note di variazione – Contratti di durata – Inadempimento del cliente – Mancato pagamento di servizi prestati – Risoluzione del contratto – Rettifica ex art. 26, comma 9 d.P.R. 633/72 – Applicazione ex tunc Nel caso di contratti di durata, a fronte della risoluzione per inadempimento da parte del cliente di un contratto di abbonamento a servizi telefonici, il prestatore, in base all’art. 26, comma 9, d.P.R. 633/72 (introdotta dalla l. n. 208 del 2015, art. 1, comma 126) ha la facoltà di variare in diminuzione la base imponibile dell’iva in relazione alle prestazioni eseguite e non remunerate antecedentemente alla risoluzione. (1)

(Omissis) Svolgimento del processo. – (Omissis) l’Agenzia delle entrate, in relazione all’anno d’imposta 2005, ha contestato l’impiego, da parte della contribuente, del meccanismo della rettifica previsto dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 26, in esito all’inadempimento da parte di clienti che si erano abbonati a servizi di telefonia mo‑ bile prestati da Vodafone, dell’obbligo di pagare i canoni di abbonamento. In particolare, la contribuente si era avvalsa della clausola risolutiva espressa prevista in contratto e, nei casi nei quali i crediti vantati erano d’importo superiore a 1500,00 Euro, aveva altresì chiesto e ottenuto l’emissione di decreti ingiuntivi nei confronti degli inadempienti. Per l’Ufficio, tuttavia, per un verso l’operatività della risoluzione non era idonea a estenderne gli effetti alle prestazioni già eseguite e, per l’altro, il ricorso al procedimento monitorio era insufficiente, in mancanza di prova d’infruttuosità dello svolgimento di procedure esecutive. La società ha impugnato i relativi avvisi di accertamento e di contestazione, otte‑ nendone l’annullamento dalla Commissione tributaria provinciale di Torino. La Commissione tributaria regionale del Piemonte ha respinto l’appello dell’A‑ genzia: ha considerato, in primo luogo, che nei contratti a esecuzione periodica o con‑ tinuata come quello in esame la retroattività della risoluzione si estende al momento dell’inadempimento, indipendentemente dal fatto che le prestazioni siano già state eseguite; laddove, quanto alle considerazioni relative alle procedure per il recupero di quanto dovuto, ha stigmatizzato che l’Agenzia si sia attenuta a rilevazioni meramen‑


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te statistiche, o comunque all’esame di un numero limitato di pratiche, tralasciando anche di considerare che in alcuni casi l’irreperibilità dei debitori non consentiva di attivare alcuna procedura. Contro questa sentenza propone ricorso l’Agenzia delle entrate, che affida a cin‑ que motivi, cui la contribuente replica con controricorso, che illustra con memoria. Motivi della decisione. – (Omissis) 2. - Coi restanti tre motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente, perché con‑ nessi, l’Agenzia denuncia: - la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 1, 3, 6, 21 e 26, e art. 1458 c.c., commi 1 e 2, giacché, sostiene, contrariamente a quanto affermato in sentenza, se è resa e comunque fatturata una prestazione di servizi derivante da un contratto di somministrazione, anche se il committente inadempiente diviene obbliga‑ to, per effetto dell’intervenuta risoluzione, a corrispondere al prestatore l’equivalente pecuniario, l’imposta derivante dalla fatturazione resta comunque dovuta (primo mo‑ tivo); - la violazione e falsa applicazione della sesta Dir., artt. 2 e 22, e del principio di neutralità dell’iva perché, rimarca, l’iva sulle prestazioni di servizi telefonici resta neutrale anche in regime di sistematica fatturazione anticipata, a meno che non si di‑ mostri che il relativo peso non vada a ricadere sull’utente consumatore finale, anche in considerazione della possibilità riconosciuta al prestatore di ottenere lo storno dell’iva qualora l’inadempimento sia definitivo, in virtù dell’esito infruttuoso delle procedure esecutive (secondo motivo); - la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., là dove il giudice d’ap‑ pello, quanto agli inadempimenti dei crediti d’importo superiore a 775 Euro, ha stig‑ matizzato che l’Ufficio si è basato soltanto su rilevazioni statistiche (meglio, a cam‑ pione) di un numero limitato di pratiche (quinto motivo). 2.1. - Va chiarito, in fatto, che, contrariamente a quanto prospettato dall’Agenzia nel corso della discussione, è accertato che Vodafone ha esercitato il diritto a essa rico‑ nosciuto dalla clausola risolutiva espressa, sia a fronte degli inadempimenti d’importo inferiore alla soglia indicata in narrativa, sia a quelli d’importo superiore; per questi secondi, oltre a valersi della clausola risolutiva espressa, la contribuente ha promosso i procedimenti monitori. Si legge difatti in sentenza, sul punto, a proposito di tali crediti, come già ripor‑ tato, che “... l’esito dei decreti ingiuntivi non costituisce presupposto all’emissione delle note di variazione in diminuzione dell’iva atteso che il ricorso alla risoluzione esclude la possibilità di richiedere poi l’adempimento ...”. 3. - Si tratta quindi di verificare la sussistenza dei presupposti di operatività del meccanismo di variazione previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26, e delle modalità di applicazione di esso, alla luce del principio di neutralità, al cospetto della risolu‑ zione di un contratto, come quello di abbonamento del quale si discute, a esecuzione continuata o periodica.


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4. - Il meccanismo di rettifica è posto a presidio della neutralità dell’iva. Esso mira ad aumentare la precisione delle detrazioni, così da assicurare la neu‑ tralità dell’imposta, in modo che le operazioni eseguite allo stadio anteriore continu‑ ino a originare il diritto di detrazione soltanto nei limiti in cui esse servano a fornire prestazioni soggette a iva. La base imponibile dell’iva è difatti costituita dal corrispettivo realmente rice‑ vuto, sicché l’amministrazione tributaria non può riscuotere a tale titolo un importo superiore a quello percepito dal soggetto passivo. Di qui scaturisce la sesta Dir., art. 11, parte C, par. 1, che disciplina la riduzione della base imponibile, applicabile all’epoca dei fatti, che dispone quanto segue: “In caso di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o di riduzione di prezzo dopo che l’operazione è stata effettuata, la base imponibile viene debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri. Tuttavia, in caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare a questa norma”. Di queste ipotesi, quella ancorata all’omesso pagamento totale o parziale del prezzo “... contrariamente alla risoluzione o all’annullamento del contratto, non pone nuovamente le parti nella situazione iniziale” ed è per conseguenza l’unica suscettibile di deroga: “tale facoltà di deroga, strettamente limitata ai casi di non pagamento totale o parziale, si fonda sull’assunto che, in presenza di determinate circostanze e in considerazione della situazione giuridica esistente nello Stato membro interessato, il non pagamento del corrispettivo può essere difficile da accertare o essere solamente provvisorio” (Corte giust. 23 novembre 2017, causa C-246/16, Di Maura, punti 16-17). 4.1. - Il legislatore italiano ha esercitato la facoltà di deroga, di modo che, nel testo applicabile all’epoca dei fatti, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26, comma 2, del dispone che: “Se un’operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione di cui agli artt. 23 e 24, viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o per mancato pagamento in tutto o in parte a causa ((...)) di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose o in conseguenza dell’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente, il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell’art. 19, l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell’art. 25. Il cessionario o committente, che abbia già registrato l’operazione ai sensi di quest’ultimo articolo, deve in tal caso registrare la variazione a norma dell’art. 23 o art. 24, salvo il suo diritto alla restituzione dell’importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa”. 5. - Sono quindi due gli ordini dei presupposti di operatività della rettifica in base alla normativa unionale:


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- uno, inderogabile, perché ancorato alla caducazione, originaria o sopravvenuta, dell’operazione; - l’altro, derogabile, in quanto volto a incidere sugli effetti dell’operazione, che resta ferma, in quanto “effettuata”, al cospetto dell’inadempimento, totale o parziale, dell’obbligo di pagarne il prezzo. I due ordini di presupposti sono autonomi (Corte giust. 12 ottobre 2017, causa C-404/16, Lombard Ingatlan Lizing Zrt., punto 40); e ciascuno di essi è costruito per operare in maniera autosufficiente, perché sorretto da autonoma ratio. 5.1. - Nel caso in esame, si è visto, Vodafone li invoca entrambi in relazione agli inadempimenti superiori alla soglia sopra specificata; fa leva soltanto sul meccanismo della risoluzione per gli altri. 6. - In linea di principio, risoluzione e annullamento del contratto determinano la caducazione dell’operazione perché recidono il vincolo contrattuale. La caducazione opera diversamente per l’annullamento e per la risoluzione: “... i termini annullamento, recesso e risoluzione, contenuti nella Dir. Iva, art. 90, par. 1, corrispondente al richiamato art. 11, parte C, par. 1-, si riferiscono a situazioni nelle quali, a seguito di un annullamento con effetto retroattivo o di una risoluzione, che produce effetti solo futuri, l’obbligo di un debitore di saldare il suo debito è completamente estinto o bloccato ad un livello definitivamente determinato, con le conseguenze che ne discendono per il creditore” (Corte giust. in causa C-404/16, cit., punto 30). Il punto è che la vocazione della risoluzione a operare soltanto per il futuro subi‑ sce inevitabili limitazioni, sia in generale, sia con riguardo ai contratti a esecuzione continuata o periodica. Dispone difatti l’art. 1458 c.c., comma 1, che “la risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti, salvo il caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, rispetto ai quali l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite”. 6.1. - Il creditore dev’essere difatti arbitro di chiedere la risoluzione dal momento dell’inadempimento della controparte (e, nel caso di pattuizione di clausola risolutiva espressa, di ottenerla di diritto qualora una determinata obbligazione non sia adem‑ piuta secondo le modalità stabilite): e ciò perché la scelta per la risoluzione implica sì la rinuncia allo scambio delle future prestazioni, ma certamente non la rinuncia al lucro che il contratto induceva a sperare. Quindi, pronunciata la risoluzione, in linea di principio per ciascuno dei contraenti si verifica, a prescindere dall’imputabilità dell’inadempimento, rilevante ad altri fini, una totale restitutio in integrum (tra varie, Cass. 20 febbraio 2015, n. 3455), unico argine alla quale è costituito dall’avvenuta esecuzione delle prestazioni. 7. - Nella fattispecie in esame, in cui si discute di un contratto di abbonamento a servizi di telefonia, nei confronti del prestatore, ossia di Vodafone, il momento impo‑ sitivo della prestazione, ai fini dell’obbligo di assolvere l’iva, si verifica antecedente‑ mente al pagamento.


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7.1. - In generale la prestazione di servizi si deve considerare effettuata quando sia stata eseguita (Cass., sez. un., 21 aprile 2016, n. 8059; conf., tra varie, ord. 7 dicembre 2017, n. 29371 e 15 ottobre 2018, n. 25653) e non già al momento del pagamento del corrispettivo. Ciò perché il fatto generatore di norma coincide con l’esigibilità, ma ne rimane ontologicamente distinto, giacché esso in realtà s’identifica col materiale espletamento dell’operazione. E’ questo a determinare l’insorgenza del presupposto impositivo, come si legge anche nella giurisprudenza unionale: “conformemente a tale Dir., art. 63, - ossia della Dir. n. 112 del 2006-, il fatto generatore dell’imposta si verifica, e l’imposta diviene esigibile, nel momento in cui viene effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi” (Corte giust. 31 maggio 2018, cause C-660 e 661/16, KollroB e Wirti, punto 38). 7.2. - Ve n’è conferma giustappunto nel D.P.R. n. 633 del 1972, il quale prevede, si è visto, che l’omessa riscossione del corrispettivo non comporta la caducazione dell’obbligazione tributaria, della quale il presupposto impositivo si sia già verifi‑ cato e se ne rinviene copertura costituzionale negli artt. 3 e 53 Cost., in particolare nell’esigenza di non trattare differentemente situazioni uguali, in dipendenza di eventi correlati a scelte (quelle concernenti la fatturazione o il pagamento del corrispettivo) casuali e soggettive. 7.3. - Nel caso in esame, tuttavia, come segnalato dall’Agenzia, quando l’ope‑ ratore mette a disposizione la linea telefonica, non sono predeterminabili né l’entità degli impieghi della linea, né la durata di essi; ma i servizi telefonici sono liquidati in base al consumo. Si attaglia quindi alla fattispecie l’ipotesi prevista dalla sesta Dir., art. 10, par. 2, (corrispondente alla Dir. n. 112 del 2006, art. 64), secondo cui “Le cessioni di beni diverse da quelle di cui all’art. 5, paragrafo 4, lett. b), e le prestazioni di servizi che comportano successivi versamenti di acconti o pagamenti, si considerano effettuate all’atto della scadenza dei periodi cui si riferiscono tali acconti o pagamenti”: fatto generatore ed esigibilità si verificano alla scadenza del periodo cui si riferiscono i pa‑ gamenti (secondo le precisazioni di Corte giust. 29 novembre 2018, causa C-548/17, punto 31, e 3 settembre 2015, causa C-463/14, Asparuhovo Lake Investment Company OOD, punto 50) e, qualora sia previsto un corrispettivo forfetario, sono irrilevanti la quantità e la natura di servizi effettivamente forniti durante il periodo al quale si rife‑ risce il corrispettivo convenuto (Corte giust. in causa C-463/14, cit.). 7.4. - Il punto è che nel caso in esame v’è fatturazione anticipata rispetto ai pa‑ gamenti: la contribuente fa leva sul regime delle somministrazioni di public utilities effettuate da imprese in regime di abbonamento a clienti non soggetti iva, che “... prevede prestazioni continuative con rilevazioni del ‘consumo effettivo’ a consuntivo e liquidazione del corrispettivo in base a cadenze periodiche”. E allora, la fatturazione anticipata comporta l’anticipazione a quel momento dell’imponibilità dell’operazione, poiché il contenuto economico dell’operazione si è


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già realizzato, dando vita al presupposto per la sua imponibilità: lo stabilisce il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 4, secondo cui “Se anteriormente al verificarsi degli eventi indicati nei precedenti commi o indipendentemente da essi sia emessa fattura ..., l’operazione si considera effettuata, limitatamente all’importo fatturato o pagato, alla data della fattura o a quella del pagamento ...”. Sufficiente è, in tal caso, che siano già noti alle parti tutti gli elementi qualificanti del fatto generatore d’imposta (Cass. 22 maggio 2015, n. 10606; Cass. n. 25653/18, cit., nonché Corte giust. in cause C-660 e 661/16, cit.). Il che si evince dalle stesse affermazioni della contribuente. 7.5. - Indifferente è poi il fatto che per effetto della risoluzione si maturi per il contraente adempiente il credito restitutorio per equivalente. Utile è al riguardo il chiarimento (reso dalla Corte di giustizia in causa C-295/17, MEO) in base al quale l’importo predeterminato dovuto a titolo d’indennità in caso di risoluzione anticipata da parte del cliente di un operatore economico, o per un motivo al cliente imputabile, che corrisponda a quello che tale operatore avrebbe percepito in assenza della risolu‑ zione, deve essere considerato come la remunerazione di una prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso e soggetta in quanto tale a iva. 7.6.- In definitiva, le prestazioni compiute da Vodafone antecedentemente alla risoluzione sono da ritenere imponibili anche se non ancora remunerate; il che rende coerente la disciplina dell’iva con quella dei limiti alla retroattività posti dall’art. 1458 c.c., che sottrae alla retroattività appunto le prestazioni già eseguite. Il meccanismo di rettifica parrebbe quindi destinato a non poter trovare applica‑ zione, perché si riferirebbe a operazioni non già caducate per effetto della risoluzione, ma destinate a restar ferme. 8. - In questo contesto, tuttavia, la L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 126, ha novellato il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26, introducendovi, tra l’altro, il 9 comma, in virtù del quale “Nel caso di risoluzione contrattuale, relativa a contratti a esecuzione continuata o periodica, conseguente a inadempimento, la facoltà di cui al comma 2, non si estende a quelle cessioni e a quelle prestazioni per cui sia il cedente o prestatore che il cessionario o committente abbiano correttamente adempiuto alle proprie obbligazioni”. Il che comporta che in un caso, come quello in esame, in cui soltanto una delle due parti, ossia il prestatore, abbia eseguito la propria prestazione (o comunque si siano determinati i presupposti per l’imponibilità di essa) è possibile, a fronte dell’i‑ nadempimento dell’altra, esercitare la facoltà di rettifica, mediante registrazione della variazione. È, questa, l›unica opzione idonea a dare senso alla norma: la diversa soluzione prospettata dall’avvocatura dello Stato in udienza, secondo cui la disposizione si li‑ miterebbe a disciplinare il caso del reciproco adempimento, senza alcun effetto per l’ipotesi dell’inadempimento di una parte sola, renderebbe la novella del tutto inutile, perché ovvia, come ha correttamente osservato la società. Sicché va scelta l’opzione


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interpretativa che evidenzi la natura precettiva della disposizione, anziché quella che ne sottolinei la superfluità. 8.1. - La disposizione si autoqualifica come interpretativa, come si legge nella successiva L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 127. 8.2. - Sterile è sul punto la verifica dell’effettività di tale natura. La qualificazione di una disposizione di legge come norma di interpretazione autentica - di là dal carattere effettivamente interpretativo della previsione - espri‑ me difatti l’intento del legislatore d’imporre un determinato significato a precedenti disposizioni di pari grado, così da far regolare dalla nuova norma fattispecie sorte anteriormente alla sua entrata in vigore. Sicché va escluso, ancora in applicazione del canone ermeneutico che impone all’interprete di attribuire un senso a tutti gli enun‑ ciati del precetto legislativo, che la disposizione possa essere intesa come diretta ad imporre una determinata disciplina solo per il futuro (da ultimo, Cass., sez. un., ord. 28 dicembre 2016, n. 27074), poiché il giudice, chiamato ad applicarla, finirebbe per non farlo, valicando il confine oltre il quale l’operazione ermeneutica deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (Cass., sez. un. pen., ord. 19 aprile 2012, Ercolano). 8.3. - Quel che occorre è, invece, verificare la non irragionevolezza della scelta di retroattività operata dal legislatore. Nel caso in esame, la scelta, in quanto concernente non già l’art. 1458 c.c., ma il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26, è ragionevole, in base al diritto unionale. Essa difatti ripristina la simmetria tra le parti, garantendo la neutralità dell’iva, il peso della quale altrimenti finirebbe col gravare sul prestatore soggetto passivo, in caso di risoluzione di un contratto di abbonamento per l’inadempimento del consuma‑ tore finale, del quale non sia stata provata la definitività. 8.4. - E ciò perché, si è visto, Vodafone ha reso la propria prestazione, insuscet‑ tibile di restituzione, nei confronti del consumatore finale, sul quale non è riuscita a rivalersi dell’iva, a causa del suo inadempimento. Di contro, l’iva deve gravare unicamente sul consumatore finale ed essere perfet‑ tamente neutrale nei confronti dei soggetti passivi che intervengono nel processo di produzione e di distribuzione che precede la fase d’imposizione finale, indipendente‑ mente dal numero di operazioni avvenute. Sicché, ha sottolineato la giurisprudenza unionale, non è consentito al soggetto passivo “... di ridurre la propria base imponibile allorché quest’ultimo ha effettivamente percepito la totalità dei pagamenti come contropartita della prestazione che ha fornito ovvero allorché, senza che il contratto sia stato risolto o annullato, l’altra parte contrattuale non è più debitrice, nei confronti del soggetto passivo, del prezzo convenuto” (Corte giust. 2 luglio 2015, causa C207/14, NLB Leasing d.o.o., punto 38). 9. - Le considerazioni che precedono rendono irrilevante la questione concer‑ nente il mancato pagamento del corrispettivo, in relazione al quale col quinto motivo


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di ricorso l’Agenzia lamenta la violazione del riparto dei carichi probatori quanto al requisito della certezza di definitività. 10. - In definitiva, il ricorso va respinto, con l’applicazione del seguente principio di diritto: “In tema di iva, a fronte della risoluzione per inadempimento da parte del consumatore finale di un contratto di abbonamento a servizi telefonici, il prestatore, in base alla norma sopravvenuta introdotta dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 126, ha la facoltà di variare in diminuzione la base imponibile dell’iva in relazione alle prestazioni eseguite, o comunque non imponbili, e non remunerate antecedentemente alla risoluzione”. Ne risulta assorbita la richiesta di proposizione della questione pregiudiziale avanzata in controricorso. (Omissis)

(1) Spunti ricostruttivi sul rilievo sistematico delle note di variazione IVA alla luce di una recente pronuncia della Corte di Cassazione. Sommario: 1. Il caso in esame e la vicenda processuale. – 2. Cenni sulla disciplina

delle note di variazione IVA nella Dir. 2006/112/Ce e sul suo recepimento nel diritto interno. – 3. Il meccanismo delle rettifiche come espressione del principio di neutralità. – 4. Il sistema tracciato dai parr. 1 e 2 dell’art. 90 della Dir. 2006/112/Ce quale presupposto della rettifica. – 5. Risoluzione dei contratti di durata e variazioni ai sensi della dispo‑ sizione «di carattere interpretativo» contenuta nell’art. 26, comma 9, dpr 633/726. – 6. Neutralità e simmetria tra le parti e prova della definitività dell’inadempimento

L’articolo riguarda un caso risolto di recente dalla Corte di Cassazione sul tema delle note di credito e, segnatamente, l’ambito dell’art. 26 DPR 633/72, come modificato nel 2015, con riferimento alle prestazioni continuate o periodiche. L’autore, muovendo dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, analizza il ragionamento della Corte di Cassazio‑ ne che interpreta la novella del 2015 affermando che questa modifica normativa sia “non irragionevole”, dal momento che mira a ristabilire la “simmetria” tra le due parti di una operazione. Ad una attenta analisi, l’incertezza (o, meglio, la probabilità che sfiora la cer‑ tezza) circa il mancato pagamento, è un argomento che condiziona i principi fondamentali dell’IVA e, in particolar modo, il principio di neutralità del tributo e contribuisce a mettere in luce il tema della “prova”, valorizzato sin dall’adozione dell’art. 26 DPR 633/72. The article deals with a recent judgment delivered by the Corte di Cassazione about credit notes and, namely, the scope of Article 26 Presidential Decree n. 633 of 1977 (“PD 633/72”), as amended in 2015, with respect to continuous or periodic supplies. The author, stemming from the European Court of Justice case-law, pays attention to the Corte di Cassazione reasoning where it interprets the rule introduced in late 2015 holding that it is “not unreasonable” as it aims at re-establishing “the symmetry” between the two parties of the transaction. At a closer scrutiny, the uncertainty (better, the probability that is close to


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certainty) about the non-payment, is a matter that affects the basic principles of VAT and, namely, the principle of neutrality and puts in the spotlight the matter of “proof”, stressed since the inception of Article 26 PD 633/72.

1. Il caso in esame e la vicenda processuale. – Nella sentenza n. 12469/2019 la Corte di Cassazione si pronuncia sul tema delle note di varia‑ zione IVA nell’ipotesi di risoluzione del contratto per morosità del cliente. Il caso preso in esame dalla Suprema Corte riguarda, in particolare, la fat‑ tispecie dell’esercizio del diritto alla risoluzione del contratto (in virtù di una clausola risolutiva espressa) da parte di una compagnia telefonica, in ragione del mancato pagamento dei canoni relativi ai servizi di telefonia mobile ero‑ gati (e fatturati) ai clienti e rispetto ai quali costoro si siano resi inadempienti. Data la diversa rilevanza economica delle pretese vantate nei confronti dei singoli clienti, la compagnia telefonica aveva avviato i procedimenti monito‑ ri (1) solo per i crediti eccedenti una data soglia. In tutti gli altri casi – laddove, cioè, si fosse manifestata ex ante una sproporzione fra costo da sostenere per ottenere la soddisfazione del credito e (solo potenziale) beneficio del procedi‑ mento – la compagnia telefonica si era limitata a invocare la clausola risoluti‑ va espressa, senza agire in giudizio. In relazione a tutte queste prestazioni di servizio (erogate e fatturate, ma) rispetto alle quali il cliente si era reso inadempiente, la compagnia telefonica aveva emesso note di variazione in diminuzione di cui all’art. 26, comma 2, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (per brevità “d.P.R. n. 633/72”). L’Agenzia delle Entrate aveva contestato la legittimità del ricorso alla procedura prevista dall’art. 26, comma 2, d.P.R. n. 633/72 riprendendo a tas‑ sazione l’IVA indebitamente detratta, sostenendo che: (i) la risoluzione del contratto non è «idonea ad estendere gli effetti alle prestazioni già eseguite» e (ii) il ricorso al procedimento monitorio è «insufficiente, in mancanza di prova d’infruttuosità dello svolgimento di procedure esecutive». Il contribuente aveva impugnato gli avvisi di accertamento, ottenendo ra‑ gione sia in prime che in seconde cure, poiché: (i) per un verso «nei contratti a esecuzione periodica o continuata … la retroattività della risoluzione si estende al momento dell’inadempimento indipendentemente dal fatto che le prestazioni siano già state eseguite» e, (ii) per altro verso, «l’Agenzia si [è]

(1)

Ricorso per l’emissione di decreto ingiuntivo ex art. 633 c.p.c.


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attenuta a rilevazioni meramente statistiche … tralasciando … di considerare che in alcuni casi l’irreperibilità dei debitori non consentiva di attivare alcuna procedura» (2). L’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per Cassazione contestan‑ do, fra gli altri, la violazione e falsa applicazione: (i) dell’art. 26 d.P.R. n. 633/72, in combinato disposto con gli artt. 1, 3, 6 e 21 stesso d.P.R. n. e art. 1458, commi 1 e 2 c.c.; (ii) degli artt. 2 e 22 della Dir. 77/388/CE e; (iii) dell’art. 2697 c.c. La decisione della Corte di Cassazione – che si articola sull’analisi con‑ giunta dei primi due motivi (3), ritenendo assorbita la terza doglianza (4) – offre alcuni spunti di riflessione in merito alla rilevanza sostanziale delle note di variazione nel sistema dell’IVA, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE (“CGUE”) in materia. 2. Cenni sulla disciplina delle note di variazione IVA nella Dir. 2006/112/ CE e sul suo recepimento nel diritto interno. – L’analisi della controversia in esame impone di prestare la dovuta attenzione ai profili di diritto intertem‑ porale, considerato che la Corte accoglie il controricorso del contribuente, fondato su una norma di interpretazione autentica, introdotta dopo la proposi‑ zione del ricorso per cassazione (5). Dando per acquisita la conoscenza del sistema delle note di variazione in diminuzione di cui all’art. 26, comma 2, d.P.R. n. 633/72 (6), prima di proce‑ dere all’analisi della pronuncia sembra perciò utile svolgere una premessa in merito all’evoluzione storica della norma. L’art. 26 del d.P.R. n. 633/72 è stato, infatti, interessato da numerosi in‑ terventi normativi (7) e, per quanto d’interesse ai fini della presente nota, la

(2) Questa la sintesi della pronuncia (Commissione tributaria regionale del Piemonte, sentenza 4 aprile 2012, n. 29/36/12) gravata con ricorso per Cassazione. (3) Cfr. Cass., sez. V, sentenza 10 maggio 2019, n. 12469, punti da 3. a 8.4. (4) Cass., sez. V, sentenza 10 maggio 2019, n. 12469, punto 9. (5) Il periodo d’imposta in contestazione è il 2005. La pronuncia resa in seconde cure (nell’aprile 2012) viene impugnata dall’Agenzia delle Entrate nello stesso anno, depositando il ricorso per Cassazione. (6) Esposto brevemente, infra, nel par. 4 di questo contributo. (7) Già all’indomani della sua adozione, mercé l’introduzione dell’inciso «all’emissione della fattura» disposta dall’art. 1 del d.P.R. 23 dicembre 1974, n. 687 che introdusse anche i commi 4 (poi riformulato dall’art. 12, d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 793) e 5.


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portata applicativa del comma 2 è stata estesa, nel 1996 (8), includendovi le ipotesi di «mancato pagamento in tutto o in parte» a causa dell’avvio di pro‑ cedure concorsuali o procedure esecutive rimaste infruttuose (9). Successivamente, nel 2015 (10), è stato introdotto il “nuovo” comma 9 che dispone che «nel caso di risoluzione contrattuale, relativa a contratti ad esecuzione continuata o periodica, conseguente a inadempimento, la facoltà di cui al comma 2 non si estende a quelle cessioni e a quelle prestazioni per cui sia il cedente o prestatore che il cessionario o committente abbiano correttamente adempiuto alle proprie obbligazioni». Sebbene la modifica del comma 2 abbia avuto vita breve (11), il nuovo comma 9 non è stato, in alcun modo, interessato da ulteriori interventi novel‑ latori. Come si vedrà infra, nel paragrafo 5, tale circostanza ha un impatto rile‑ vante, ai fini della decisione della controversia devoluta alla cognizione della Corte di Cassazione in quanto l’art. 1, comma 127, l. 28 dicembre 2015, n. 208 ha qualificato il comma 9 come norma «di carattere interpretativo» disponen‑ do, come conseguenza, che «si applic[hi] anche alle operazioni effettuate an-

(8) Ci si riferisce alla integrazione del comma 2 dell’art. 26, disposta dall’art. 2, comma 1, d.l. 31 dicembre 1996, n. 669 (conv. con modif. in Legge 28 febbraio 1997, n. 30) che gene‑ rò, immediatamente, dubbi sulla sua reale portata e coerenza con l’impianto complessivo della disposizione (come rilevano G. Verna, Preliminari rinforzati e variazioni IVA da insolvenze ovvero gli sconfinamenti del legislatore tributario, in Boll. trib., 1997, 518 e P. Centore, Note di variazione per mancato pagamento del corrispettivo, in Corr. trib., 1997, 1313). Successiva‑ mente l’art. 13-bis d.l. 28 marzo 1997, n. 79 (conv. con modif. in l. 28 maggio 1997, n. 140) ha modificato l’art. 26, comma 2 espungendo il riferimento all’«avvio» delle procedure concorsua‑ li e di procedure esecutive (modifica recata con il probabile intento di arginare manovre elusive, come osserva A. Contrino, Accordi di ristrutturazione, note di variazione IVA e decorrenza delle novità fiscali, in Corr. trib., 2012, 2777). Sul tema cfr. M. Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, Torino, 2011, 258-260. (9) Solo successivamente ne è stata ampliata ulteriormente la portata al fine di tenere contro delle ipotesi degli accordi di ristrutturazione dei debiti omologato ex art. 182-bis r.d. 267/42 ovvero e dei piani attestati ai sensi dell’art. 67, comma 3, lett. d) r.d. 267/42. Cfr. art. 31, comma 1, d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175, commentato da L. Torzi, Le note di variazione IVA nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti e dei piani attestati di risanamento (art. 31), in S. Muleo (a cura di), Commento al decreto sulle semplificazioni: (D.Lgs. n. 175/2014), Torino, 2015, 155 ss. (10) Cfr. art. 1, comma 126, l. n. 208/15. (11) Così come altre novità, cancellate dalla l. 11 dicembre 2016, n. 232 che dispose l’a‑ brogazione del comma 4 nonché dei commi 6 e 10 (cfr. l’art. 1, comma 567, lett. d), l. 232/16) e, coerentemente, dei successivi commi dell’art. 26 nella parte in cui facevano rinvio ai commi 4, 6 e 10.


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teriormente» al 31 dicembre 2016 e, quindi, anche al caso risolto dalla Corte nella sentenza in annotazione. 3. Il meccanismo delle rettifiche come espressione del principio di neutralità. – La decisione della Corte si basa sulla premessa che «il meccanismo della rettifica è posto a presidio della neutralità dell’IVA», e che tale principio trovi espressione nella norma che dispone che la base imponibile ai fini IVA sia costituita dal «corrispettivo …ricevuto» (12). L’incipit dal quale muove la Corte di Cassazione si adagia sui princi‑ pi enunciati dalla Corte di Giustizia sin dalle pronunce rese nei casi Elida Gibbs (13) e Goldsmiths (Jewellers) (14) e ribaditi in un case law sostanzial‑ mente univoco (15), che giunge sino ai nostri giorni (16), nel quale la Corte di Giustizia afferma che l’interprete, nel definire «il ruolo e gli obblighi dei soggetti passivi nel meccanismo introdotto per la riscossione dell’IVA» (17), deve rispettare il «principio di base del sistema dell’IVA», che comporta che «l’IVA che deve essere riscossa … non deve essere superiore al corrispettivo effettivamente pagato dal consumatore finale» (18).

(12) Cass., sez. V, sentenza 10 maggio 2019, n. 12469, punto 9. (13) Cfr. Corte Giustizia, sentenza 24 ottobre 1996, causa C-317/94, Elida Gibbs in Racc., 1996, I, 05339. In dottrina, cfr. A. van Doesum, H. van Kesten, G.-J. van Norden, Fundamentals of EU VAT Law, Alphen aan den Rijn, 2016, 237. (14) Corte Giustizia, sentenza 3 luglio 1997, causa C-330/95, Goldsmiths (Jewellers). (15) Cfr., in particolare, Corte Giustizia, sentenza 26 gennaio 2012, causa C‑588/10, Kraft Foods Polska; Corte Giustizia, sentenza 18 marzo 2013, causa 300/12, Ibero Tours; Corte Giustizia, sentenza 15 maggio 2014, causa C-337/13 Almos; Corte Giustizia, sentenza 3 set‑ tembre 2014, causa C-589/12, GMAK; Corte Giustizia, sentenza 2 luglio 2015, causa C-209/14, NLB Leasing; Corte Giustizia, sentenza 12 ottobre 2017, causa C-404/16, Lombard Ingatlan; Corte Giustizia, sentenza 23 novembre 2017, causa C-246/16, Enzo Di Maura; Corte Giustizia, sentenza 6 dicembre 2018, causa C-672/17 Tratave e Corte Giustizia, sentenza 20 dicembre 2017, causa C-462-16, Boehringer disponibili su http://curia.europa.eu. (16) Cfr. Corte Giustizia, sentenza 8 maggio 2019, causa C-127/18, A-PACK CZ pronun‑ ciata in data successiva alla pronuncia della sentenza della Corte di Cassazione in commento. (17) Corte Giustizia, sentenza 24 ottobre 1996, causa C-317/94, Elida Gibbs, cit., parr. 21 e 31. L’influsso del case-law della Corte di Giustizia è evidente anche nella parte in cui si richiede che la base imponibile sia coerente con il corrispettivo realmente percepito dal sog‑ getto passivo (cfr. par. 27, nonché Corte Giustizia, sentenza 3 settembre 2014, causa C-589/12, GMAK, cit., par. 42). (18) Corte Giustizia, sentenza 24 ottobre 1996, causa C-317/94, Elida Gibbs, cit., par. 19 e 31 (trascurando di svolgere considerazioni sul peculiare approccio adottato in questa pronun‑ cia volto a valorizzare il carattere del tributo come imposta sui consumi, sul quale cfr., in luogo di molti, J. English, VAT/GST and Direct Taxes: Different Purposes, in (M. Lang et al), VAT/


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La disciplina delle variazioni, come sembra riconoscere la Corte di Cassa‑ zione, si inserisce armonicamente in questo contesto, consentendo al soggetto passivo di adeguare (in aumento o in diminuzione) la base imponibile di una operazione già effettuata e fatturata al corrispettivo realmente percepito (19), giungendo ad «applicare ai beni ed ai servizi un’imposta generale sui consumi esattamente proporzionale al prezzo» (20). Il tema in esame viene ripreso nuovamente dalla Corte nella parte della pronuncia in cui valuta la «non irragionevolezza» del disposto di cui all’art. 26, comma 9, d.P.R. n. 633/72, e che sollecita altre riflessioni (svolte, infra, nel par. 5). Sebbene tale meccanismo sia posto a presidio della neutralità dell’im‑ posta (21), la disciplina disegnata dalla Dir. 2006/112/CE, è composta da un intreccio di regole e deroghe che si atteggia diversamente a seconda della fattispecie che abbia determinato la modifica della base imponibile (e, quindi, dell’imposta), e dato luogo alla rettifica.

GST and Direct Taxes: Different Purposes in Value Added Tax and Direct Taxation: Similari‑ ties and Differences, Alphen aan den Rijn, 2009, par. 1) e, in senso sostanzialmente conforme, Corte Giustizia, sentenza 26 gennaio 2012, causa C‑588/10, Kraft Foods Polska, cit., par. 27; Corte Giustizia, sentenza 15 maggio 2014, causa C-337/13 Almos, cit., par. 22; Corte Giustizia, sentenza 3 settembre 2014, causa C-589/12, GMAK, cit., par. 37; Corte Giustizia, sentenza 2 luglio 2015, causa C-209/14, NLB Leasing, cit., par. 35; Corte Giustizia, sentenza 12 ottobre 2017, causa C-404/16, Lombard Ingatlan, cit., par. 26; Corte Giustizia, sentenza 23 novem‑ bre 2017, causa C-246/16, Enzo Di Maura, cit., parr. 13 e 23; Corte Giustizia, sentenza 20 dicembre 2017, causa C-462-16, Boehringer, cit., par. 35; Corte Giustizia, sentenza 8 maggio 2019, causa C-127/18, A-PACK CZ, cit., par. 17 e Corte Giustizia, sentenza 6 dicembre 2018, causa C-672/17 Tratave, par. 29. Commentando l’orientamento espresso nella pronuncia Corte Giustizia, sentenza 3 luglio 1997, causa C‑330/95, Goldsmiths (Jewellers), M. Basilavecchia, Le note di variazione, in AA. VV., L’imposta sul valore aggiunto, in F. Tesauro (diretta da), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Torino, 2001, 645 sostiene che la disciplina contenuta nella Direttiva IVA mirasse ad «attenuare … la rigidità dell’irrilevanza dell’effettivo esercizio della rivalsa». (19) Cfr. Corte Giustizia, sentenza 3 luglio 1997, causa C-330/95, Goldsmiths (Jewellers), cit., parr. 15-16. Sulla nozione di “corrispettivo” cfr. anche Corte Giustizia, sentenza 18 marzo 2013, causa 300/12, Ibero Tours, par. 26. (20) Cfr. Corte Giustizia, sentenza 26 gennaio 2012, causa C-588/10, Kraft Foods Polska, cit., par. 20 e Corte Giustizia, sentenza 18 marzo 2013, causa 300/12, Ibero Tours, par. 32. (21) Come riconoscono, fra gli altri, G. Zizzo, Questioni in tema di inadempimento del cessionario o committente e variazioni iva, in Boll. trib., 1998, 1769 e B. Denora, Procedure concorsuali infruttuose e note di variazione in diminuzione ai fini IVA: la tutela del creditore a fronte dell’inadempimento del debitore, in Riv. dir. trib., 2013, I, 653 sottolineando, peraltro, che la norma non abbia, quindi, «natura derogatoria, di semplificazione o agevolazione».


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4. Il sistema tracciato dai parr. 1 e 2 dell’art. 90 della Dir. 2006/112/ CE quale presupposto della rettifica. – Il mancato pagamento del canone da parte del debitore, seguito dall’attivazione della clausola risolutiva espressa determina la concorrenza delle due fattispecie (i.e., regola ex par. 1 e deroga ex par. 2) dell’art. 90 Dir. 2006/112, facendo sorgere il quesito se debba darsi applicazione all’una o all’altra disposizione (22). Il par. 1 dell’art. 90 cit. dispone che «[i]n caso di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o di riduzione di prezzo dopo che l’operazione è stata effettuata, la base imponibile viene debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri» prevedendo, tuttavia, al par. 2 che «in caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare a questa norma». Afferma la Corte di Cassazione, nella pronuncia in commento, che «gli ordini di presupposti di operatività della rettifica, in base alla normativa unionale» (23) sono differenti, riferendosi, segnatamente, alle fattispecie con‑ template al par. 1 dell’art. 90 Dir. 2001/112 di «annullamento, recesso, risoluzione» che prevedono un obbligo «inderogabile» di provvedere alla variazione «perché ancorata alla caducazione, originaria o sopravvenuta, dell’operazione», laddove l’altra fattispecie (il «mancato pagamento in tutto o in parte») è «derogabile» (da parte degli Stati membri) «in quanto volta ad incidere sugli effetti dell’operazione, che resta ferma … al cospetto dell’inadempimento, totale o parziale, dell’obbligo di pagarne il prezzo» (24).

(22) La dottrina riconosce che «il secondo caso potrebbe non coincidere con il primo … in quanto non necessariamente il mancato pagamento conduce all’estinzione del contratto e al venir meno dell’operazione» (M. Basilavecchia, op. cit., 640). (23) La norma, come osserva, fra gli altri, A. Comelli, Il rimborso dell’IVA versata e non dovuta, in Corr. trib., 2000, 3283, si applica al ricorrere di una delle fattispecie espressamente menzionate. (24) Osserva la Corte (Corte Giustizia, sentenza 2 luglio 2015, causa C-209/14, NLB Leasing, cit., par. 36) che mentre nelle ipotesi di «annullamento o risoluzione dei contratti … le parti si ritrovano nella situazione in cui erano prima di concludere il contratto e il soggetto passivo non dispone più del suo credito» nel caso del non pagamento «la controparte contrattuale non soddisfa o soddisfa parzialmente, un credito di cui è purtuttavia debitrice in forza di tale contratto» (a prescindere dalla circostanza che, in virtù del peculiare modulo contrattuale, l’acquirente abbia perduto la proprietà del bene, cfr. Corte Giustizia, sentenza 15 maggio 2014, causa C-337/13 Almos, cit., par. 25). Sulla diversa portata della disciplina recata dall’art. 90 Dir. 2006/112/CE rispetto a quella confluita nell’art. 26, comma 2 d.P.R. n. 633/72 cfr., fra gli altri, A. Comelli, IVA comunitaria e IVA nazionale. Contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, 835-836.


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La S.C. ritiene che i due ordini di presupposti (25) siano «autonomi» es‑ sendo «ciascuno di essi … costruito per operare in maniera autosufficiente, perché sorretto da autonoma ratio» richiamando, in proposito, la sentenza nella causa Lombard Ingatlan. Sebbene il rinvio alla pronuncia Lombard Ingatlan sia, senz’altro, perti‑ nente (26), non sembra condivisibile l’affermazione che i “due ordini di pre‑ supposti” siano «costruiti per operare in maniera autosufficiente». L’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia – e posto a base anche della pronuncia resa nel caso Lombard Ingatlan – sembra essere, infatti, di segno contrario, fondandosi, piuttosto, sulla lettura sistematica del par. 2 dell’art. 90 Dir. 2006/112/CE, che riposa sui medesimi presupposti e postulati accolti nel par. 1 del medesimo art. 90 (27). Infatti, sostenere che «il non pagamento interviene senza che vi sia stata risoluzione o annullamento» (28) si traduce in un rinvio mobile alle nozioni (di risoluzione, recesso e annullamento) contenute nel par. 1 dell’art. 90 (29). Dette nozioni – come spiega la Corte di Giustizia – influiscono sulla costru‑ zione del significato dell’espressione “non pagamento” ai sensi dell’art. 90, par. 2 evidenziando – all’opposto di quanto ritiene la Corte di Cassazione –

(25) Cass., sez. V, sentenza 10 maggio 2019, n. 12469, punto 5. Nel senso che nel comma 2 si trovino accomunate due distinti ordini di fattispecie, cfr. G. Tabet, Sull’applicabilità della procedura di variazione in diminuzione ex art. 26, comma 2, del D.P.R. 633 del 1972 nei confronti dei clienti morosi, in Rass. trib., 1999, 80; Id., Riflessioni in tema di note di variazione Ive per fatture insolute, in Rass. trib., 2015, 786; A. Carinci, Le variazioni IVA: profili formali e sostanziali, in Riv. dir. trib., I, 2000, 736-737; M. Basilavecchia, op. cit, 643 e V. Ficari, Le diverse dimensioni della corrispettività, onerosità, gratuità e liberalità nel diritto tributario dell’impresa, in V. Ficari, V. Mastroiacovo (a cura di), Corrispettività, onerosità e gratuità: Profili tributari, Torino, 2014, 39. (26) Posto che nella pronuncia Corte Giustizia, sentenza 12 ottobre 2017, causa C-404/16, Lombard Ingatlan, cit., vengono consacrati principi già enunciati nella pronuncia Corte Giu‑ stizia, sentenza 15 maggio 2014, causa C-337/13 Almos, cit., e utili alla soluzione del caso in esame. (27) In dottrina, G. Fransoni, Il momento impositivo nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2019, 101 afferma che la “prima fattispecie” assuma «un ruolo sistematicamente più importante» della seconda. (28) Cfr Corte Giustizia, sentenza 23 novembre 2017, causa C-246/16, Enzo Di Maura, cit., par. 16 e, in senso conforme, Corte Giustizia, sentenza 12 ottobre 2017, causa C-404/16, Lombard Ingatlan, cit., par. 29. (29) Che devono essere «interpretate e applicate in maniera uniforme», come sottolinea la Corte di Giustizia nella pronuncia Corte Giustizia, sentenza 12 ottobre 2017, causa C-404/16, Lombard Ingatlan, cit., par. 21.


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che quest’ultima disposizione si basi e sia dipendente dalla regola posta nel par. 1 (30). La prospettazione offerta dalla Corte di Giustizia si edifica sulla soli‑ da analisi teorico-generale del sistema tracciato dall’art. 90, parr. 1 e 2 Dir. 2006/112/CE offerta dall’A.G. La Pergola (nelle sue Conclusioni rese nella causa Goldsmiths (Jewellers) (31)), laddove afferma che il potere di derogare consente «di porre norme che si sostituiscono … ad altre [e] Il legislatore che può derogare stabilisce … fin dove non si applica la regola o il principio di cui egli è abilitato a circoscrivere l’ambito. Il potere di derogare reca, dunque, con sé la facoltà discrezionale di graduare il disposto e gli effetti delle norme che risultano dal suo esercizio» (32). Da questa argomentazione discende, naturalmente, il quesito su quale fos‑ se il rapporto fra «la norma comunitaria … derogabile … con il suo contenuto precettivo, rispetto alla norma che ad essa deroga» (33), e la risposta che l’A.G. La Pergola offre è che «la debita riduzione della base imponibile … si riannoda con le altre [norme] che … sono poste in direttiva per perseguire la medesima finalità». La deroga rappresenta, infatti, eccezione a un principio generale che è quello consacrato nell’art. 73 Dir. 2006/112 (art. 11, parte A, n. 1 Dir. 388/77), che la base imponibile è rappresentata «da tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni» (34). Appare evidente, dalla lineare esposizione offerta dall’A.G. La Pergola, che la gradazione della disposizione derogante (par. 2 art. 90) debba tener

(30) Nel par. 40 della sentenza della Corte Giustizia, sentenza 12 ottobre 2017, causa C-404/16, Lombard Ingatlan, cit., (richiamato dalla Corte di Cassazione nella sentenza in an‑ notazione) la Corte afferma che «un atto di risoluzione con il quale una parte di un contratto di leasing finanziario … ha posto definitivamente fine a tale contratto implica la riduzione definitiva del credito … [u]n simile atto non potrebbe essere qualificato come «non pagamento» ai sensi dell’art. 90, paragrafo 2». (31) Conclusioni, 27 febbraio 1997, causa C-330/95, Goldsmith (Jewellers), par. 15. (32) La pregevole disamina svolta dall’A. G. La Pergola trova fondamento in autorevole dottrina internazional-tributaria dell’epoca e, segnatamente, nelle opere di P. Farmer, R. Lyal, EC Tax law, Oxford, 1994, 128 e B. J. M. Terra, J. Kajius, A guide to the European VAT Directives, Amsterdam, 1993, Commento Art. 11, 95, citate al par. 15, nota 6. (33) Conclusioni, 27 febbraio 1997, causa C-330/95, Goldsmith (Jewellers), par. 16. (34) Come osserva G. Fransoni, op. cit, 72 «il congegno di cui all’art. 90 … non avrà modo di operare se non nel caso e limitatamente alle ipotesi in cui si modifichi la base imponibile dell’operazione (ossia il corrispettivo)» in senso conforme a G. Tabet, Sull’applicabilità della procedura, cit., 80.


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conto del contenuto precettivo della norma derogata (par. 1 art. 90) e che tale coordinamento si traduca nella, pur ovvia, lettura sistematica – o, se si vuole, «nel contesto» (35) – della norma derogante stessa. L’argomento sistematico condiziona profondamente l’indagine sulla no‑ zione di “pagamento” che – nel ragionamento della Corte – rappresenta la modalità naturale di estinzione dell’obbligazione posta a carico del debito‑ re (36), e che, in sua assenza (id est, nel caso di non pagamento, totale o par‑ ziale), comporta la facoltà, per il creditore, di attivare l’insieme di diritti e prerogative volti a soddisfare il proprio credito (e ottenere il ristoro dei danni eventualmente subiti). Detto altrimenti, la Corte interpreta la nozione di pagamento alla luce del (diritto di) credito in cui ha fonte la relativa obbligazione (37), imponendo – in ultima istanza – una indagine intorno ai diritti e alle prerogative che dall’ob‑ bligazione scaturiscono e che dell’obbligazione condizionano le sorti (38).

(35) Conclusioni, 27 febbraio 1997, causa C-330/95 Goldsmith (Jewellers), par. 17. Nello stesso senso, cfr. Corte Giustizia, sentenza 20 dicembre 2017, causa C-462-16, Boehringer, cit., par. 44. La Corte (come sarà esposto infra nel par. 5) adotta il medesimo approccio nella inter‑ pretazione della nozione di «operazione totalmente o parzialmente non pagata» di cui all’art. 185, Dir. 2006/112/CE. Cfr. Corte Giustizia, sentenza 22 febbraio 2018, causa C-396/16, T2, par. 41. (36) Laddove il comma 2 dell’art. 26 «si riferisce esclusivamente a patologie del rapporto contrattuale sottostante» come osserva, fra gli altri, N. Mazzitelli, Ammissibile l’emissione di note di variazione nelle sole ipotesi di errore materiale, in Rass. trib., 2000, 643 e, in senso conforme, A. Comelli, Il rimborso, cit., 3284. (37) Il comma 2 dell’art. 26 d.P.R. n. 633/72 «deve essere riferit[o] ai casi di nullità, annullamento, revoca e rescissione sia totale che parziale dell’atto che integra l’operazione medesima», come osserva A. Carinci, op. cit., 726. L’interpretazione offerta nel testo, che conduce alla ricostruzione della nozione di corrispettivo in funzione dell’atto (nel quale ha fonte l’obbligazione) emerge anche nella lettura del sinallagma contrattuale che impone, per un verso, di considerare il valore che le parti attribuiscano ad una data operazione (quello sogget‑ tivo e non anche un valore di carattere oggettivo come sottolinea la Corte Giustizia, sentenza 20 gennaio 2005, causa C-412/03, Hotel Scandic Gåsabäck, par. 24) e nel rispetto della volontà delle parti (cfr. J. Kollmann, Taxable Supplies and their Consideration in European VAT – With Selected Examples of the Digital Economy, Amsterdam, 2019, 80-81 e dottrina ivi citata) e, per altro verso, di ricollegare il corrispettivo alla prestazione che sia stata resa in esecuzione dell’obbligazione (cfr., sul punto, Corte Giustizia, sentenza 22 giugno 1009, causa C-333/91, Sofitam, par. 13). Sul tema cfr., anche, E. Kokolia, A. Katrinaki, EU VAT Treatment of Vouchers: Urgent Need for a Solution, in Intl. VAT Monitor, 2015, 292 e J. Sanders, The VAT Impact of Discounts to Parties outside the Traditional Distribution Chain, in Intl VAT Monitor, 2016, 254 e ss. (38) Ed è in questa prospettiva che assume rilievo l’argomentazione della possibilità di azionare l’eventuale tutela (anche giurisdizionale) della pretesa creditoria, che la Corte di Giu‑


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5. Risoluzione dei contratti di durata e variazioni ai sensi della disposizione «di carattere interpretativo» contenuta nell’art. 26, comma 9, d.P.R. n. 633/72. – La Corte parte dall’affermazione che la risoluzione determini «la caducazione dell’operazione perché … recid[e] il vincolo contrattuale» (39), ma che, nel caso di risoluzione di contratti a prestazioni continuate o perio‑ diche, «le prestazioni compiute antecedentemente alla risoluzione sono da ritenere imponibili anche se non ancora remunerate, il che rende coerente la disciplina iva con quella» contenuta nell’art. 1458 c.c., che stabilisce l’irretro‑ attività della risoluzione del contratto per «i contratti a esecuzione continuata o periodica, rispetto ai quali l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite» (40).

stizia pone a base del ragionamento intorno alla gradazione della deroga prevista nell’art. 90, par. 2 e consacrata nella norma nazionale. Infatti, in carenza di caducazione del negozio il creditore può soddisfare la propria pretesa in via giurisdizionale (cfr. Corte Giustizia, sentenza 23 novembre 2017, causa C-246/16, Enzo Di Maura, cit., par. 16; Corte Giustizia, sentenza 12 ottobre 2017, causa C-404/16, Lombard Ingatlan, cit., par. 29 e Corte Giustizia, sentenza 15 maggio 2014, causa C-337/13 Almos, cit., par. 25). Non ci sembra vi sia alcuna incoerenza fra questa argomentazione e quella (sostenuta da S. Pettinato, Del mancato pagamento nell’Iva ovvero le variazioni per procedure concorsuali e per esecuzioni infruttuose, in Boll. trib., 2000, 262) che la nozione di “operazione” sia «astratta e per molti versi indipendente dalla sostanza civilistica del negozio cui accede» dal momento che il rinvio alla disciplina processuale della tutela del credito implica una indagine intorno al diritto (del quale si aziona la tutela in giudizio) che, a sua volta, dipende dalla disciplina “civilistica” del negozio. (39) Cass., sez. V, sentenza 10 maggio 2019, n. 12469, punto 6. Che la risoluzione, così come nullità, annullamento, revoca e rescissione dell’atto determini la caducazione degli effetti dell’atto e che tale circostanza rappresenti il comune denominatore di tutte queste fattispecie è conclusione accolta da larga parte della dottrina. Seppur con varietà di espressioni, evidenzian‑ do: (i) la caducazione «del titolo negoziale» (G. Tabet, Sull’applicabilità della procedura, cit., 79) o delle «situazioni effettuali conseguenti ad atti giuridici» (A. Carinci, op. cit., 726); (ii) l’emersione di un diritto (quello ad emettere la nota di variazione) «che sorge quando il rapporto contrattuale ... venga … meno» (F. Tesauro, Credito d’imposta e rimborso da indebito nella disciplina dell’IVA, in Boll. trib., 1979, 1467); (iii) che negli eventi indicati «gli esiti del contratto siano stati parzialmente o totalmente rimossi» (P. Filippi, Valore Aggiunto (Imposta sul), in Enc. dir., XLVI, Varese, 1993, 169) o che detti eventi «attengono al venir meno nella sua interezza del fatto imponibile» (M. Basilavecchia, op. cit, 643) ovvero, ancora, «il negozio relativamente al quale è vi sia fattura è invalido o inefficace» (M. Ingrosso, Il credito d’imposta, Milano, 1984, 195) e (iv) che «ad una data apparenza formale, costituita dalla fattura, non si accompagni una corrispondente realtà sostanziale, per essere stato lo scambio annullato, rescisso, risolto» (G. A. Micheli, Corso di diritto tributario - ottava edizione aggiornata e corretta, Torino, 1989, 648) ovvero che «le vicende dei rapporti sostanziali sottostanti a tali adempimenti possono … mutare» (S. M. Messina, Ancora in tema di rapporto fra la disciplina delle variazioni Iva e la ripetizione dell’indebito, in Riv. dir. fin. sc. fin., II, 1994, 20). (40) Cass., sez. V, sentenza 10 maggio 2019, n. 12469, punti 8 e 6. della pronuncia.


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Poste queste premesse, conclude la Corte, il meccanismo della rettifica (collegato alla risoluzione del contratto) non potrebbe trovare applicazione «perché si riferirebbe a operazioni non già caducate … ma destinate a restar ferme» (41). La base normativa dell’opzione sulla emissione delle note di variazione non può, quindi, rintracciarsi nella disciplina generale, ma deve essere reperi‑ ta, più correttamente, nella fattispecie disciplinata dalla norma interpretativa contenuta nell’art. 26, comma 9, D.P.R. 633/72, che dispone che, nel caso di risoluzione contrattuale relativa a contratti ad esecuzione continuata o perio‑ dica, conseguente ad inadempimento, la facoltà di emettere nota di variazione «non si estende a quelle [operazioni imponibili] per cui sia il cedente o il prestatore che il cessionario o committente abbiano correttamente adempiuto alle proprie obbligazioni» (42). La Corte – rigettando l’opposta tesi avanzata dall’Avvocatura Generale – ha ritenuto, infatti, che la norma sia volta a disciplinare la fattispecie della mera esecuzione di una sola delle due prestazioni, consentendo al creditore di emettere nota di variazione (43).

L’argomentazione della Corte si basa sulla premessa che il momento impositivo, nel caso de quo, coincida con l’emissione della fattura (punto 7.4. della pronuncia) non avendo pregio la circostanza che, in capo al cedente/prestatore, maturi un diritto al credito restitutorio “per equi‑ valente” posto che, osserva la Corte, l’eventuale prestazione indennitaria (rispetto al corrispet‑ tivo che, altrimenti, avrebbe percepito il cedente/prestatore) debba essere considerata «come la remunerazione di una prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso e soggetta in quanto tale a iva» (Cass., sez. V, sentenza 10 maggio 2019, n. 12469, punto 7.5) come già sostenuto, in dottrina, da G. Tabet, Sull’applicabilità della procedura, cit., 81-82 il quale osserva che tale pagamento comporta la «ricomposizione dell’equilibrio tra la coppia delle utilità da ciascuna parte ricevute e prestate». Cfr., anche, Id., Riflessioni in tema cit. e A. Carinci, op. cit., 729. (41) Cfr. Cass., sez. V, sentenza 10 maggio 2019, n. 12469, punto 7.6. Nella dottrina in‑ terna, cfr., fra gli altri, G. Zizzo, op. cit, 1770. (42) Utile richiamare Corte Giustizia, sentenza 12 ottobre 2017, causa C-404/16, Lombard Ingatlan, cit., par. 23 che chiarisce come le l’elencazione contenuta nel par. 1 dell’art. 90 sia destinata a ricomprendere sia fattispecie con effetti retroattivi (ex tunc) che quelle che prevedano solo per il futuro (ex nunc). (43) In senso conforme, commentando la novella che portato la introduzione del comma 9 nel corpo dell’art. 26, cfr. G. Fransoni, op. cit., 102 il quale ritiene che «anche i pagamenti parziali effettuati nell’ambito dei contratto di durata risultano privi, retroattivamente, della relativa causa di attribuzione ove il contratto si risolva per inadempimento salvo il caso in cui, essendo entrambe le “coppie di prestazioni” adempiute, la predetta retroattività non operi.». In epoca anteriore, G. Tabet, Sull’applicabilità della procedura, cit., 82-83, affrontando il tema della risoluzione dei contratti ad esecuzione continuata o periodica, osservava che «il limite alla retroattività della risoluzione opera solo se l’equilibrio sinallagmatico delle prestazioni e


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6. Neutralità e simmetria tra le parti e prova della definitività dell’inadempimento . – Sullo sfondo dell’argomentazione della Corte in merito alla «non irragionevolezza» della scelta compiuta dal Legislatore italiano con l’a‑ dozione del comma 9 dell’art. 26 d.P.R. n. 633/1972 si stagliano due questioni di non scarso momento, che conviene segnalare in chiusura della presente nota. Trascurando il profilo della reale natura interpretativa della disposizio‑ ne (44), la Corte si sofferma sulla «non irragionevolezza» della stessa osser‑ vando che la scelta del legislatore trovi conforto nel rispetto del principio di neutralità, e nella esistenza (o, sarebbe meglio dire, nella persistenza) dell’ob‑ bligazione a carico del debitore, anche in esito alla risoluzione del contratto. Sebbene l’argomentazione della Corte sia alquanto sintetica, è interessan‑ te osservare che, ad avviso dalla Corte, il rispetto del principio di neutralità è assicurato dalla circostanza che la retroattività della norma interpretativa (45) «ripristina la simmetria tra le parti» (46). La ricostituzione della simmetria fra le, opposte e complementari, posi‑ zioni (del cedente e del cessionario) nei confronti del Fisco (47) è, quindi, un

controprestazioni si è già realizzato» mentre nel caso di adempimento da parte di uno solo dei due contraenti «è pacifico che il contratto ha avuto solo unilateralmente esecuzione continuata, la regola della retroattività della risoluzione opera integralmente». (44) Della quale, ad avviso della Corte, non può dubitarsi poiché, altrimenti, il giudice chiamato ad applicare la norma interpretativa (che si applica – secondo l’unica interpretazione che «evidenzi la natura precettiva, anziché quella che ne sottolinei la superfluità» – anche per il passato) solo per il futuro «finirebbe per non farlo». L’art. 1, comma 127, secondo periodo, l. n. 208/2015 stabilisce, infatti, che le disposizioni introdotte nel corpo dell’art. 26, d.P.R. n. 633/72 dal comma 126 della stessa legge «in quanto volte a chiarire l’applicazione delle disposizioni contenute in tale ultimo articolo e quindi di carattere interpretativo, si applicano anche alle operazioni effettuate anteriormente alla data di cui al periodo precedente». (45) Che, cioè, interessa anche le prestazioni eseguite, da una delle due parti, prima della emissione della nota di variazione. (46) Cfr. Cass., sez. V, sent. 10 maggio 2019, n. 12469, punto 8.3. (47) Dato che, sul piano strutturale, la disciplina delle variazioni si articola su coppie di situazioni creditorie e debitorie (cfr., fra gli altri, M. Giorgi, Il soggetto obbligato ad emettere fattura e l’imposta sul valore aggiunto erroneamente in essa indicata, in Rass. trib., 1998, 467) che fanno capo ai medesimi soggetti (Cfr. P. Filippi, L’imposta sul valore aggiunto, in A. Ama‑ tucci (diretto da), Trattato di diritto tributario – II Volume, Padova, 1994, 244-245; R. Perrone Capano, L’imposta sul valore aggiunto. Disciplina legislativa ed effetti. Spunti ricostruttivi, Napoli, 1977, 526-5287; F. Tesauro, op. cit., in Boll. trib., 1979, 1467 e R. Lupi, Imposta sul Valore Aggiunto (IVA), in Enc. giur. Treccani, Roma, 2006, 11) in relazione alla stessa opera‑ zione. Come osserva, infatti, la Corte giustizia, sentenza 22 febbraio 2018, causa C-396/16, T2, par. 35 «mentre l’articolo 90 … disciplina il diritto di un fornitore di ridurre la base imponibile


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principio al quale l’interprete deve ispirarsi (48) osservando, al contempo, che la verifica (o, meglio, la ricerca della prova) della “definitività” dell’inadempimento potrebbe, all’opposto, rappresentare un vulnus al principio di neutralità. La Corte di Giustizia, nell’illustrare gli obiettivi cui mira l’art. 90, chiari‑ sce che l’incertezza relativa alla soddisfazione del credito (49), rappresenta un connotato proprio della nozione di non adempimento (50), e implica la ricerca di quegli indici che possano essere ritenuti sufficienti a legittimare la sola «probabilità ragionevole che il debito non sia saldato» (51).

… l’articolo 185 … disciplina la rettifica delle deduzioni inizialmente operate dall’altra parte della stessa operazione. Pertanto, tali due articoli rappresentano le due facce di una stessa operazione economica e dovrebbero essere interpretate in modo coerente». Il coordinamento fra queste posizioni di debito/credito su diverse coppie di creditori e debitori viene descritto da S. La Rosa, L’erronea applicazione dell’IVA, tra le norme e il dogma della condictio indebiti, in Riv. dir. trib., II, 1999, 194-202 e oggi in Id., Scritti scelti – Vol. II L’interpretazione delle leggi tributarie e l’elusione fiscale, Torino, 2011, 355 da cui si cita) come «meccanismo del “doppio debito” e della “doppia detrazione” (in posizioni invertite)». Sul nesso fra gli artt. 90 e 185 Dir. 2006/112/CE, cfr., fra gli altri, P. Centore, Le note di variazione a seguito di procedure concorsuali rimaste infruttuose, in Corr. trib., 2010, 2352-2353 il quale evidenzia la diversa portata delle due disposizioni. (48) Essendo destinata a perdersi, secondo M. Basilavecchia, In tema di recupero dell’Iva non dovuta; presupposti, condizioni, modalità, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2004, II, 54-55 nel solo caso di scenari fraudolenti. Contra, limitando la possibilità di emissione della nota di variazione al solo caso di assenza di danno per l’erario, cfr. M. Logozzo, Iva e fatturazione per operazioni inesistenti, in Studi in onore di Enrico De Mita, II, Napoli, 2012, 556-557 e A. Vicini Ronchetti, Indetraibilità dell’Iva in caso di operazioni oggettivamente inesistenti ed obbligo di versamento dell’Iva applicata sulle operazioni attive: un regime non coerente con i principi dell’Imposta sul Valore Aggiunto, in Riv. dir. trib., 2014, II, 435. (49) Incertezza circa la non soddisfazione del credito e carattere non definitivo (i.e. cer‑ tezza della definitività) rappresentano due distinte fattispecie, come chiarisce, sottolineando che «il mancato pagamento è caratterizzato da una incert[ezza] implicita nella sua natura non definitiva» (cfr. Corte Giustizia, sentenza 12 ottobre 2017, causa C-404/16, Lombard Ingatlan, cit., par. 30, sviluppando la tesi, ampiamente argomentata nello stesso anno, in altra controver‑ sia, da parte dell’A.G. Kokott, Conclusioni, 8 giugno 2017, causa C-246/16 Enzo Di Maura, par. 35 ove ha osservato che «[a] differenza dei casi di annullamento, recesso, risoluzione e riduzione del prezzo …. Il mancato pagamento … è semplicemente più incerto») e come emerge, da ultimo, nella pronuncia resa dalla Corte Giustizia, sentenza 8 maggio 2019, causa C-127/18, A-PACK CZ, cit., par. 23 e 24. (50) Come insegna la Corte di Giustizia (cfr. Corte Giustizia, sentenza 23 novembre 2017, causa C-246/16, Enzo Di Maura, cit., par. 17), nel delineare la portata dell’art. 90, par. 2 Dir. 2006/112/CE, gli Stati membri possono derogare all’obbligo di accordare la variazione (nel caso di non pagamento totale o parziale) laddove può essere difficile da accertare il non paga‑ mento del corrispettivo o detto “non pagamento” essere solamente provvisorio. (51) Come si esprime la Corte Giustizia, sentenza 23 novembre 2017, causa C-246/16, Enzo Di Maura, cit., par. 27 superando l’orientamento più rigoroso espresso nella pronuncia


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La certezza (o la probabilità che sfiora la certezza (52)) dell’inadempi‑ mento del debitore non rappresenta, quindi, un presupposto indefettibile al fine di poter operare una variazione ex art. 90, par. 2 Dir. 2006/112, e tale interpretazione si presenta come l’unica che assicuri il rispetto del principio della proporzionalità (53). Ove si muova, pertanto, dalla corretta premessa che la disposizione che disciplina le rettifiche nel caso di “non adempimento” sia retta dal presupposto che sussista una ragionevole probabilità che il debito non sarà saldato (54), la questione si sposta, naturalmente, sul piano della prova e della sua onerosi‑ tà (55). Alla luce di queste argomentazioni, si può affermare che dalle argomen‑ tazioni (pur solo accennate nella parte motiva della sentenza) emerge la con‑ sapevolezza della Corte di Cassazione del rilievo che i profili probatori (56)

Corte Giustizia, sentenza 15 maggio 2014, causa C-337/13, Almos, par. 40. (52) Come si esprime dell’A.G. Kokott, Conclusioni, 8 giugno 2017, causa C-246/16 Enzo Di Maura, cit., par. 67. (53) Ancora una volta è utile richiamare le Conclusioni dell’A.G. La Pergola, causa C-330/95, Goldsmith (Jewellers) (secondo il quale: «la deroga [contenuta nell’art. 90, par. 2 Dir. 2006/112; n.d.a.] deve essere giustificata»; cfr. parr. 17 e 18) alle quali si è conformata la CGUE (fra gli altri, nella pronuncia resa nella causa Corte Giustizia, sentenza 26 gennaio 2012, causa C-588/10, Kraft Foods Polska, cit., parr. 27 e 28) sostenendo che «gli Stati membri … devono incidere nella misura minore possibile sulle finalità e sui principi della direttiva IVA e non possono, pertanto, … mettere in discussione la neutralità dell’IVA, che costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA istituito dalla normativa dell’Unione in materia». Sul tema, con esplicito riferimento alle pronunce in esame, si cfr. fra gli altri, A. van Doesum, Taxable Amount, in M. Lang et al (edited by), ECJ – Recent Developments in Value Added Tax, Wien, 2014, 191 e L. Strianese, Debita riduzione dell’imponibile tra potere interno, principio di neutralità dell’Iva e principio di proporzionalità, in Riv. dir. trib., IV, 2012, 56 ss. (54) Abbandonando la premessa che la «variazione non possa attuarsi semplicemente in ragione di una valutazione prospettica ovvero probabilistica circa l’irrealizzabilità del credito» (A. Carinci, op. cit., 737 e, in senso conforme, fra gli altri, G. Zizzo, op. cit., 1766). (55) In questo senso si veda P. Santin, Variazioni IVA da mancato pagamento e procedure concorsuali: il regime interno al vaglio della compatibilità europeo, in Giur. comm., 2018, II, 807. (56) Relativi alla probabilità che il credito relativo alle operazioni imponibili non sia soddisfatto. Il che non comporta, ineluttabilmente, che si addivenga ad una equazione perfetta fra posizioni debitorie e creditorie vantate dall’Erario nei confronti delle due parti del negozio, come emerge nella decisione della Corte Giustizia, sentenza 8 maggio 2019, causa C-127/18, A-PACK CZ, cit., par. 23, riconoscendo la variazione senza limiti laddove il cessionario si sia estinto (e, pertanto, ove manchi la certezza che l’Erario potrà far valere nei confronti del cessio‑ nario un credito di entità pari al “debito” che la nota di variazione fa sorgere nei confronti del cedente). B. Denora, op. cit., 655 (cui adde R. F. van Brederode, System of General Sales


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sono destinati ad avere nel contesto della disciplina delle variazioni IVA, con‑ fermando, al contempo, l’importanza che l’argomento ebbe sin dalla sua pri‑ ma gestazione nelle aule parlamentari. Nel confronto tra la disciplina interna e quella europea, su questo specifico profilo, non si può tacere la circostanza che il tema dell’onere della prova fu affrontato, in sede di conversione del D. L. 669/96, in un confronto a distan‑ za tra i Professori Gianni Marongiu (all’epoca, Sottosegretario alle Finanze) e Furio Bosello (Senatore dell’opposizione) (57), e che in esito al dibattito parlamentare fu adottata una disposizione con portata più stringente rispetto a quella europea (58). La presenza di «limiti alla prova» nella disciplina interna rappresenta, quindi, il risultato di una scelta originaria del legislatore interno che sta, tut‑ tavia, cedendo il passo a interpretazioni della disciplina interna più rispettosi della ratio della Dir. 2006/112/CE e dei principi del diritto europeo.

Roberto Scalia

Taxation. Theory, Policy and Practice, Alphen aan den Rijn, 2009, 133) evidenzia che il rischio del trasferimento dell’insolvenza in capo all’Erario, sul piano sistematico, appare pienamente conforme a quanto previsto della Dir. 2006/112. (57) Il primo – commentando l’emendamento 2.150 proposto dalle Commissioni Riunite V e VI, su impulso del Prof. Bosello – invitò la Commissione «al ritiro dell’emendamento 2.150, perché simile all’emendamento 2.500, che però è meglio formulato» (cfr. il Resoconto stenografico della seduta n. 125 del 4 febbraio 1997). Il secondo, con l’intento di chiarire quali differenze sussistessero fra i due emendamenti (e al fine di «rispondere indirettamente» al Prof. Marongiu) osservò che l’emendamento da lui suggerito non poneva «limiti alla prova» a dispet‑ to di quello proposto dal Relatore Bonavita e favorito dal Prof. Marongiu. Come lo stesso Prof. Bosello non manca di osservare, questa differenza – «di maggiore momento» ma di «[n]on … particolare gravità» – rappresenta un profilo sul quale egli volle «intervenire semplicemente perché ritenev[a] opportuno che [l]’Aula fosse informata, anche sotto un profilo storico, su come si è sviluppata la vicenda relativa a questi due emendamenti e … potesse pronunciarsi a favore dell’uno o dell’altro con cognizione di causa». (58) L’emendamento 2.500 (che assorbì il citato emendamento 2.150), confluì, quindi, nella lett. c-bis del comma 1 dell’art. 2, d.l. 31 dicembre 1996, n. 669 (conv. con modif. dalla l. 28 febbraio 1997, n. 30), modificando il comma 2 dell’art. 26, d.P.R. n. 633/72.



Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli

Corte costituzionale, 5 febbraio 2019 - 18 aprile 2019, n. 95, Pres. Lattanzi, Rel. Modugno

Reati tributari – Dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti – Assenza di soglie di punibilità – Violazione del principio di uguaglianza – infondatezza Non è fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti per operazioni inesistenti nella parte in cui non prevede che la condotta ivi descritta sia punita quando congiuntamente: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro trentamila; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, è superiore a euro un milione cinquecentomila, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, è superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a euro trentamila. (1)

(Omissis) Considerato in diritto. 2.- La questione non è fondata. Lo scrutinio cui è chiamata questa Corte ha, quale unico parametro, l’art. 3 Cost., che si assume violato a motivo dell’asserita manifesta irragionevolezza della scelta legislativa di non prevedere, per il delitto in esame, soglie di punibilità omologhe a quelle prefigurate in rapporto al finitimo delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici: soglie la cui introduzione avrebbe ovviamente l’effetto di restringere il perimetro applicativo della fattispecie criminosa, rendendo penalmente irrilevanti i fatti che non attingano ai livelli quantitativi stabiliti. (Omissis). 3.- Nel caso in esame, di là dai profili di omogeneità effettivamente esistenti, resta, peraltro, il fatto che, tramite la norma censurata, il legislatore ha inteso “isolare”, nell’ambito dell’ampia gamma dei mezzi fraudolenti utilizzabili a supporto di una dichiarazione mendace, uno specifico artificio, al quale viene annesso, sulla base dell’esperienza, uno spiccato coefficiente di “insidiosità” per gli interessi dell’erario.


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La disposizione denunciata punisce, infatti, chi, “al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi” (l’aggettivo “annuali”, che originariamente qualificava in funzione limitativa il sostantivo “dichiarazioni”, è stato soppresso dall’art. 2, comma 1, del D. Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della L. 11 marzo 2014, n. 23). In base alla norma definitoria di cui all’art. 1, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 74 del 2000, per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono “le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”. Il fenomeno avuto di mira è, dunque, quello della falsa fatturazione intesa a comprovare operazioni in tutto o in parte non eseguite - in assoluto, o dai soggetti ai quali esse vengono riferite ovvero con corrispettivi o IVA “gonfiati”, in funzione di una indebita deduzione di costi o detrazione di imposta da parte del contribuente. L’intento del legislatore di contrastare con rigore il fenomeno si è manifestato non soltanto nella mancata previsione di soglie di punibilità per il delitto che qui interessa - che colpisce l’utilizzatore delle fatture - ma anche nella configurazione di uno speculare delitto in capo all’emittente, egualmente privo di soglie (art. 8 del D. Lgs. n. 74 del 2000): delitto che si pone come una eccezionale deviazione rispetto alla fondamentale linea ispiratrice della riforma penale tributaria del 2000, rappresentata dall’abbandono dello schema del cosiddetto “reato prodromico” all’evasione d’imposta (caratteristico del sistema precedente). L’emissione di documentazione per operazioni inesistenti viene, infatti, punita ex se, indipendentemente dalla concreta utilizzazione del documento falso da parte di terzi a scopo di evasione fiscale. Si è, dunque, di fronte a una precisa strategia, espressiva dell’ampia discrezionalità del legislatore in materia di politica criminale (con riguardo al delitto di cui all’art. 8 del D.Lgs. n. 74 del 2000, sentenza n. 49 del 2002): strategia che, dopo la riforma del 2000, è stata ulteriormente ribadita e rafforzata. Il comma 3 dell’art. 2 del D.Lgs. n. 74 del 2000 prevedeva infatti, originariamente, una pena decisamente più mite (la reclusione da sei mesi a due anni) quando l’ammontare degli elementi passivi fittizi esposti in dichiarazione sulla base delle false fatture fosse inferiore a Euro 154.937,07. Tale circostanza attenuante speciale (o ipotesi autonoma attenuata, secondo altra qualificazione) è stata, tuttavia, soppressa - al pari di quella speculare di cui al comma 3 dell’art. 8 del D.Lgs. n. 74 del 2000 - dall’art. 2, comma 36-vicies semel, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), aggiunto dalla legge di conversione 14 settembre 2011, n. 148, nel quadro di un intervento di innalzamento del livello di “attenzione penalistica” in campo tributario.


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4.- Tale strategia legislativa non può essere, d’altro canto, considerata manifestamente irragionevole o arbitraria, tenuto conto del particolare ruolo che la fattura e i documenti ad essa equiparati sul piano probatorio dalla normativa fiscale assolvono nel quadro dell’adempimento degli obblighi del contribuente, nonché della capacità di sviamento dell’attività accertativa degli uffici finanziari che l’artificio in questione possiede. (Omissis). 5.- In quest’ottica, non può, dunque, considerarsi arbitraria la scelta legislativa di riservare alla specifica fattispecie considerata un trattamento distinto e più severo - sul piano non della reazione punitiva, ma delle soglie di punibilità - di quello prefigurato in rapporto alla generalità degli altri artifici di supporto di una dichiarazione mendace (anche di tipo documentale): artifici dei quali si occupa l’art. 3 del D.Lgs. n. 74 del 2000 - costituente norma incriminatrice sussidiaria, come attesta la clausola di riserva con cui essa esordisce (“fuori dei casi previsti dall’articolo 2”) - e che comprendono, attualmente, il compimento di “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” e l’impiego “di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria”. Escludendo che nell’ipotesi in esame la reazione punitiva resti collegata alla “consistenza quantitativa” dell’evasione, il legislatore ha inteso, in particolare, far emergere lo speciale disvalore “di azione” che, nel suo apprezzamento - in sé non manifestamente irragionevole - la specifica fattispecie presenta. L’affermazione del giudice a quo - stando alla quale le condotte descritte dall’art. 3 potrebbero “rappresentare, per la loro particolare insidiosità, un pericolo in concreto sicuramente eguale (se non più elevato) per il bene giuridico”, rispetto a quelle punite dall’art. 2 - appare in sé apodittica, non essendo accompagnata dal riferimento ad alcuna ipotesi che valga a dimostrare l’assunto. Non sarebbe utile, in ogni caso, richiamare la fattispecie dell’utilizzazione (anche in funzione di gonfiamento dei costi) di “documenti falsi” diversi dalla fattura (e privi di analogo valore probatorio), ora contemplata dall’art. 3. È agevole, in effetti, osservare che anche il sistema dei reati di falso, delineato dal codice penale, prevede tradizionalmente trattamenti differenziati in ragione della natura del documento su cui cade la condotta. E così, la falsità in testamento olografo, cambiale o altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore (art. 491 del codice penale) è punita più severamente della generica falsità in (qualsiasi altra) scrittura privata (art. 485 cod. pen.): fattispecie, quest’ultima, attualmente addirittura depenalizzata (art. 4, comma 4, lettera a, del D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, recante “Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della L. 28 aprile 2014, n. 67“). La validità della conclusione non risulta inficiata dall’esistenza dei contrasti interpretativi, cui fa cenno la parte privata, relativi al trattamento da riservare all’uso di fatture materialmente false, ossia di fatture formate da soggetto diverso da colui che


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Parte terza

appare come emittente, ovvero alterate dopo l’emissione (ipotesi che non si deduce, peraltro, ricorrere nel giudizio principale). Secondo la giurisprudenza di legittimità più recente, tale condotta ricadrebbe nella sfera applicativa dell’art. 2, e non in quella, residuale, dell’art. 3 del D.Lgs. n. 74 del 2000. In base a tale soluzione interpretativa le due figure criminose si distinguono, infatti, non per la natura - ideologica o materiale - del falso, ma per le caratteristiche del documento impiegato: quello che qualifica l’ipotesi criminosa di cui all’art. 2 è la particolare efficacia probatoria, in base alle norme tributarie, della documentazione di cui il contribuente si avvale (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 10 novembre 2011-19 dicembre 2011, n. 46785; in senso analogo, altresì, da ultimo, Corte di cassazione, sezione terza penale, 25 ottobre 2018-11 febbraio 2019, n. 6360; sezione feriale, sentenza 31 agosto 201717 ottobre 2017, n. 47603). Conclusione che non contraddice, comunque sia, la ratio giustificatrice del trattamento differenziato dianzi posta in evidenza. Considerazioni analoghe, mutatis mutandis, possono formularsi con riguardo all’ulteriore rilievo, svolto tanto dal giudice a quo, quanto dalla parte privata, relativo alla sovrapposizione tra il concetto di “operazioni inesistenti” - sintagma presente nell’art. 2 e definito, come si è visto, dall’art. 1, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 74 del 2000 - e il concetto di “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” impiegato nell’attuale formulazione dell’art. 3 e definito della lettera g-bis) del citato art. 1 (aggiunta dall’art. 1, comma 1, lettera d, del D.Lgs. n. 158 del 2015). A mente di quest’ultima, le operazioni “simulate oggettivamente” sono quelle “apparenti … poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte”: con il che esse sembrano, in effetti, sovrapporsi alle “operazioni oggettivamente inesistenti”, in quanto “non realmente effettuate in tutto in parte”, cui fa riferimento la lettera a) del comma 1 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 74 del 2000. Le operazioni “simulate soggettivamente” - che ai sensi della lettera g-bis) sono “le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti” - si sovrappongono alle “operazioni soggettivamente inesistenti”, e cioè riferite “a soggetti diversi da quelli effettivi” (lettera a) del comma 1 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 74 del 2000). Al riguardo, la Corte di cassazione ha già avuto modo, peraltro, di qualificare come “totalmente infondata” la tesi in forza della quale l’inserimento della nuova lettera g-bis) nell’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 74 del 2000 avrebbe comportato l’attrazione nell’ambito del delitto di cui all’art. 3 di ipotesi in precedenza ricomprese nella sfera applicativa del delitto di cui all’art. 2. Ciò che discrimina le due fattispecie non è la natura dell’operazione, ma il modo in cui è documentata: si applica, cioè, l’art. 2 tutte le volte in cui alla realizzazione dell’operazione si accompagni l’emissione e l’utilizzazione di fatture o documenti analoghi (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 11 aprile 2017-1 agosto 2017, n. 38185). In tal modo, il ragionamento dianzi svolto trova nuova conferma: lo scarto di rilevanza tra le operazioni simulate documentate mediante fatture o documenti equipollenti e le operazioni simulate documentate in modo diverso trova spiegazione


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nella particolare capacità probatoria delle fatture e documenti analoghi e, di riflesso, nella maggiore capacità decettiva delle falsità commesse tramite tali documenti. Meno ancora, da ultimo, giova far riferimento a fattispecie riconducibili alla generica nozione di “altri mezzi fraudolenti” - a titolo di esempio, la tenuta di una “contabilità nera”, accompagnata da un sistema informatico di travisamento dei dati nel caso di controllo fiscale, o la creazione di “società di comodo”, sulle quali “travasare” i redditi del contribuente - ma che non hanno, in sé, alcuna “assonanza” con l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti. Vale, infatti, in tal caso, il rilievo che si è a fronte di fattispecie eterogenee e, dunque, non utilmente comparabili al fine di farne discendere una violazione del principio di eguaglianza: la valutazione di uguale o maggiore pericolosità per l’erario delle condotte in questione, formulata dal giudice a quo, esprimerebbe una sua convinzione personale, che non potrebbe surrogarsi a quella del legislatore. 6.- Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione va dichiarata, dunque, non fondata. (Omissis)

(1) La fedeltà (del contribuente) più importante dell’offesa (al gettito tributario)? Sommario: 1. Ambientamento: i profili di illegittimità costituzionale dell’art. 2 d.lgs.

74/2000 individuati dal Tribunale di Palermo. – 2. La dichiarazione di infondatezza: la centralità del disvalore di condotta e le peculiarità del falso in fatture o documenti equiparati. – 3. Una decisione che non persuade: la scelta di politica criminale. – 4. La corretta individuazione del disvalore di condotta e l’irragionevolezza della dichiarazione fraudolenta mediante f.o.i e d.o.i.: tra dato empirico e descrizione del tipo. – 5. Il punto di non ritorno: i rapporti tra disvalore d’evento e di condotta, tra bene finale e bene strumentale. – 6. Conclusioni: la necessità di un modello unitario di frode fiscale.

La nota a sentenza analizza criticamente la decisione n. 95/2019 con cui la Corte Costituzionale ha ritenuto legittima l’assenza di una soglia di punibilità in relazione al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. L’Autore, in particolare, focalizza l’attenzione sulla necessità di rimettere al centro dell’analisi dogmatica l’evasione di imposta e di non sopravvalutare la capacità decettiva del ricorso a fatture per operazioni inesistenti, che comportino l’indicazione in dichiarazione di costi fittizi. The following note critically analyses Constitutional Court decision no. 95/2019, with which the constitutional judge has deemed the absence of punishability thresholds in the crime of submission of a fraudulent income or VAT return through the use of invoices or other documents relating to non-existent transactions to be constitutionally legitimate. The Author particularly focuses on the need for tax evasion to be put centre stage of dogmatic analysis again and for deceptive capacity of the use of invoices relating to non-existent


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transactions, which results in the indication of fictitious costs in the income or in the VAT return, not to be overestimated.

1. Ambientamento: i profili di illegittimità costituzionale dell’art. 2 d.lgs. 74/2000 individuati dal Tribunale di Palermo. – Con la decisione che si annota, la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione incidentale di legittimità, sollevata dal Tribunale di Palermo (1), in relazione al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante fatture (f.o.i.) o altri documenti per operazioni inesistenti (d.o.i.) di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000 (2). Oggetto del giudizio della Consulta era la ragionevolezza della predetta incriminazione, nella parte in cui non prevedeva le medesime soglie di punibilità, tipizzate nell’altra declinazione della frode fiscale, ovvero la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000 (3).

(1) Tribunale di Palermo, ord. 13.7.2017, Giud. dott.ssa Annalisa Tesoriere (M.O.T. dott. Simone Alecci), Gazzetta Ufficiale n. 43 del 25.10.2017, pubblicata in Riv. dott. comm., 2/2018, 338, con nota di L. Troyer - A. Ingrassia, Il Tribunale di Palermo solleva questione di legittimità costituzionale del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazione inesistenti nella parte in cui non prevede una soglia di punibilità, 341. (2) Sulla previsione in parola, solo per limitarsi alle opere manualistiche e trattatistiche più recenti, si vedano, tra gli altri, A. Aceto, La dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, in A. Scarcella (a cura di), La disciplina penale in materia d’imposte dirette e I.V.A., Torino, 2019, 29 ss.; E. M. Ambrosetti, I reati tributari, in E. M. Ambrosetti, E, Mezzetti, M. Ronco, Diritto penale dell’impresa, IV ed., Bologna, 2016, 497 ss.; A. Lanzi, P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, Assago, 2017, 294 ss.; A. Martini, Reati in materia di finanza e tributi, in C.F. Grosso, T. Padovani, A. Pagliaro (diretto da), Trattato di diritto penale, Milano, 2010, 279; E. Musco, F. Ardito, Diritto penale tributario, III ed., Bologna, 2016, 111 ss.; G. Ruta, La dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, in R. Bricchetti, P. Veneziani (a cura di), I reati tributari, in F. Palazzo, C.E. Paliero (diretto da), Trattato teorico-pratico di diritto penale, Torino, 2017, 183 ss.; G.L. Soana, I reati tributari, IV ed., Milano, 2018, 97 ss. (3) In ordine alla fattispecie di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000, solo per limitarsi alle opere manualistiche e trattatistiche più recenti, si vedano, tra gli altri, E. M. Ambrosetti, I reati tributari, in E. M. Ambrosetti, E, Mezzetti, M. Ronco, op. cit., 505 ss.; F. Cingari, La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, in R. Bricchetti, P. Veneziani (a cura di), op. cit, 203 ss.; A. Lanzi, P. Aldrovandi, op. cit. , 294 ss.; A. Martini, op. cit., 338; P. Molino, La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, in A. Scarcella (a cura di), op. cit., 101; E. Musco, F. Ardito, op. cit, 159 ss.; A. Perini, La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, in A. Giarda, A. Perini, G. Varraso (a cura di), La nuova giustizia penale tributaria, Padova, 2016, 213 ss.; G.L. Soana op. cit, 161 ss.


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Come noto, il d.lgs. 74/2000 prevede due distinte tipologie di dichiarazioni fraudolente: l’una, l’art. 2, caratterizzata dal ricorso a fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, con cui il contribuente giustifica gli elementi passivi fittizi indicati in dichiarazione, reato punibile indipendentemente dal verificarsi di un’evasione d’imposta (4), in quanto illecito privo di soglie di punibilità; l’altra, l’art. 3, applicabile fuori dai casi della disposizione che la precede, che incrimina, superato un determinato quantum di imposta evasa, segnato dalle soglie di punibilità (5), chi porta in detrazione ritenute inesistenti o occulta parte del proprio reddito imponibile o dell’IVA dovuta attraverso il ricorso a operazioni simulate, documenti falsi o altri mezzi fraudolenti, idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria. In questa prospettiva il percorso motivazionale che il Tribunale di Palermo aveva posto alla base della propria ordinanza ricalcava le cadenze classiche del giudizio di ragionevolezza triadico (6): si confrontano la fattispecie di

(4) Sul punto la giurisprudenza è assolutamente granitica: per tutte Cass. pen., Sez. Un., 28 ottobre 2010 (19 gennaio 2011 dep.), n. 1235, in questa Rivista, 2011, II, 77 ss.; per un affresco delle decisioni della Suprema Corte si rinvia a G.L. Soana, op. cit., 102-103; aderisce a tale impostazione anche la dottrina, fin dai primi commenti alla riforma del 2000, per tutti V. Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario nel d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, Milano, 2000, 47 e G. Pezzuto, I profili sostanziali della riforma, in S. Capolupo, G. Pezzuto, La riforma del sistema penale tributario, Milano, 2000, 35. (5) L’art. 3 d.lgs. 74/2000 richiede per la sua integrazione il superamento di due soglie di punibilità, così declinate: “a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro trentamila; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, è superiore a euro un milione cinquecentomila, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, è superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a euro trentamila”. (6) Sul giudizio triadico di ragionevolezza, quale controllo di coerenza logico-sistematica della disciplina legale, la bibliografia è sterminata. In relazione alla sua applicazione in materia penale, senza alcuna pretesa di completezza si vedano, tra gli altri, F. Consulich, Materia penale e controllo costituzionale ‘ragionevole’: il caso dell’abuso paesaggistico, in Giur. cost., 2016, 579 ss.; A. De Lia, Il principio di uguaglianza e il diritto penale sostanziale: una sintetica analisi del rapporto, in Federalismi, 6 dicembre 2017, 1 ss.; G. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale. Uno studio sulla giurisprudenza costituzionale, Milano, 2012, passim; G. Insolera, Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in G. Insolera, N. Mazzacuva, M. Pavarini, M. Zanotti (a cura di), Introduzione al sistema penale, IV ed., Torino, 2012, 384 ss.; G. Leo, Politiche sanzionatorie e sindacato di ragionevolezza, in Dir. pen. cont., 22 dicembre 2017, 1 ss.; V. Manes, Attualità e prospettive del giudizio di ragionevolezza in materia penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 739 ss.; Id., I recenti tracciati


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cui si ipotizza l’incostituzionalità (art. 2) e il tertium comparationis (art. 3) per farne emergere i punti di contatto e, soprattutto, di differenza, al fine di verificare, in seconda battuta, se questi ultimi legittimino la presenza di una difformità di trattamento (nel caso di specie la presenza di soglie di punibilità nell’art. 3 e non già nell’art. 2). Secondo il Giudice i punti che accomunano i due delitti sarebbero stati molteplici: (i) medesimo è il bene giuridico tutelato (gettito tributario); (ii) le nozioni di operazioni inesistenti (art. 2) e di operazioni simulate (art. 3), tipizzate nei due reati, sono pienamente sovrapponibili; (iii) entrambe le modalità di aggressione al bene giuridico si risolvono nella presentazione di una dichiarazione fiscale mendace, sorretta da documenti falsi; (iv) la cornice edittale dei due delitti è identica. Il giudice a quo individuava un unico profilo discretivo tra i due delitti, sulla scia delle indicazioni della giurisprudenza di legittimità (7), ovvero il ricorso, nell’art. 2, a fatture o altri documenti di pari valore probatorio sul piano tributario, atti a sorreggere il mendacio dichiarativo; argomentava il rimettente, richiamando la giurisprudenza della Suprema Corte, che «sarebbe soltanto l’efficacia probatoria (declinata sulla falsariga delle norme tributarie) del documento utilizzato per la dichiarazione fraudolenta l’elemento specializzante volto a qualificare la fattispecie incriminatrice descritta dall’art. 2 e al contempo, a tenerla distinta dall’art. 3» (8). Il punto, secondo il Tribunale di Palermo, sarebbe stato che, per legittimare, a fronte della medesima pena, la presenza in una sola delle fattispecie delle soglie di punibilità, sarebbe stato necessario dimostrare che l’uso di f.o.i. o di d.o.i. (unico elemento utile a distinguere le incriminazioni) renda l’accertamento dell’imposta evasa sempre significativamente più arduo

della giurisprudenza costituzionale in materia di offensività e ragionevolezza, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2012, 99 ss.; D. Pulitanò, Ragionevolezza e diritto penale, Napoli, 2012, passim; N. Recchia, Le declinazioni della ragionevolezza penale nelle recenti decisioni della Corte costituzionale, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2/2015, 55 ss. In ordine al superamento di tale impostazione in materia penale nella più recente giurisprudenza di costituzionalità, si vedano, tra gli altri, E. Cottu, Giudizio di ragionevolezza e vaglio di proporzionalità della pena: verso un superamento del modello triadico?, in Dir. pen. proc., 2017, 473 ss.; V. Manes, Proporzione senza geometrie, in Giur. cost., 2016, 2105 ss.; F. Viganò, Un’importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2-2017, 61 ss. (7) Da ultimo e per tutte, tra le decisioni nel senso di cui al testo, Cass. pen., Sez. III, 11 aprile 2017, n. 38185 in Leggi d’Italia. (8) Tribunale di Palermo, ord. 13.7.2017, cit., 339.


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di quanto avvenga in presenza di ricorso a documenti falsi diversi o, più in generale, a operazioni simulate o ad altri mezzi fraudolenti. Si legge nell’ordinanza di rimessione: «la sola ricorrenza in seno alla struttura dell’art. 2 dell’elemento cartolare costituito dalla fattura o da un documento analogo in base alle norme tributarie e, dunque, la mera efficacia probatoria riconnessa ad essi dalla legislazione extrapenale, non sembra rappresentare una valida giustificazione per differenziare in modo così vistoso e palese il trattamento sanzionatorio riservato ai soggetti responsabili delle condotte descritte dalla fattispecie di cui all’art. 2 (del tutto sprovvista di aree di non punibilità), previsto per coloro che si rendano responsabili di condotte connotate da eguale valenza decettiva (atteso che – giova ribadirlo – non può affatto escludersi, anche alla luce delle regole di comune esperienza, che il compimento di operazioni simulate e l’avvalimento di mezzi fraudolenti siano idonei ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria con il medesimo – se non maggiore – grado di insidiosità connesso all’utilizzo di fatture emesse per operazioni inesistenti)» (9). 2. La dichiarazione di infondatezza: la centralità del disvalore di condotta e le peculiarità del falso in fatture o documenti equiparati. – Come anticipato, il Giudice delle Leggi ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale, giudicando non arbitraria la differente tipizzazione degli artt. 2 e 3 d.lgs. 74/2000 (i.e. l’assenza nell’art. 2 delle soglie di punibilità di cui all’art. 3), pur a fronte della medesima risposta sanzionatoria prevista per i due illeciti. La ragione fondamentale che sorregge il rigetto della questione è esplicitata dalla Corte fin dall’inizio del proprio ordito motivazionale: «di là dai profili di omogeneità effettivamente esistenti [tra gli artt. 2 e 3 d.lgs. 74/2000], resta, peraltro, il fatto che, tramite la norma censurata, il legislatore ha inteso “isolare”, nell’ambito dell’ampia gamma dei mezzi fraudolenti utilizzabili a supporto di una dichiarazione mendace, uno specifico artificio, al quale viene annesso, sulla base dell’esperienza, uno spiccato coefficiente di “insidiosità” per gli interessi dell’erario» (10). Posta la pietra su cui si erigono le ragioni alla base della decisione di infondatezza, la Corte prende l’abbrivio sostenendo che l’assenza di soglie

(9) Ivi, 340. (10) Alla lettera, la decisione annotata, § 3.


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di punibilità nell’art. 2 non costituisca un’opzione eccentrica, bensì una declinazione di una chiara scelta di politica criminale volta a punire con estremo rigore il ricorso a fatture o documenti analoghi per operazioni inesistenti. Tale scelta di campo, emerge dalle parole della Corte, lega con un fil rouge la novella del 2000 con i successivi interventi modificativi della stessa. Quanto al primo capo del filo, il Giudice delle Leggi sottolinea lo stringente legame che intercorre tra la dichiarazione fraudolenta mediante f.o.i. o d.o.i. e l’emissione di f.o.i. e d.o.i. (art. 8 D.lgs. 74/2000) (11), delitto ugualmente privo di soglie di punibilità e che costituisce «una eccezionale deviazione rispetto alla fondamentale linea ispiratrice della riforma penale tributaria del 2000, rappresentata dall’abbandono dello schema del cd. ‘reato prodromico’ all’evasione di imposta (caratterizzante il sistema precedente)» (12). Nella prospettiva della Corte, “l’eccezionale deviazione” non può che derivare dalle peculiarità del veicolo del falso (i.e. le fatture e i documenti equiparati). Percorrendo il fil rouge, chiarisce poi la sentenza come il rigore sanzionatorio, che geneticamente caratterizzava l’art. 2 d.lgs. 74/2000, è stato persino acuito – a dimostrazione di una scelta di criminalizzazione confermata e ulteriormente approfondita dal legislatore – con l’art. 2, comma 36-vicies semel, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, aggiunto dalla legge di conversione 14 settembre 2011, n. 148 (13), che ha abrogato, tanto all’art. 2 quanto all’art. 8 d.lgs. 74/2000, le ipotesi attenuate delle predette fattispecie, punite in misura decisamente più mite con la reclusione da sei mesi a due anni (14).

(11) In ordine alla fattispecie di cui all’art. 8 d.lgs. 74/2000, solo per limitarsi alle opere manualistiche e trattatistiche più recenti, si vedano, tra gli altri, E. M. Ambrosetti, I reati tributari, in E. M. Ambrosetti, E. Mezzetti, M. Ronco, op. cit., 528 ss.; F. D’Arcangelo, L’emissione di fatture per operazioni inesistenti ed i limiti al concorso di persone nel reato tra emittente ed utilizzatore, in R. Bricchetti, P. Veneziani (a cura di), op. cit, 261 ss.; A. Lanzi, P. Aldrovandi, op. cit., 381 ss.; A. Aceto, L’emissione di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti, in A. Scarcella (a cura di), op. cit., 211; E. Musco, F. Ardito, op. cit, 253 ss.; G.L. Soana op. cit, 267 ss. (12) In questi termini la decisione annotata § 3. (13) In relazione a tale intervento normativo si veda G. Andreazza, La “miniriforma” dei delitti tributari di cui al d.l. n. 138 del 2011, convertito nella l. n. 148 del 2011, in Cass. pen., 2011, 3695. (14) Una critica a tale inasprimento sanzionatorio è stata formulata con toni severi da G. Flora, Le recenti modifiche in materia penale tributaria: nuove sperimentazioni del “diritto penale del nemico”?, in Dir. pen. proc., 2012, 16, nonché dall’Ufficio del Massimario della Cassazione nella Relazione dell’Ufficio del Massimario III/13/2011 del 20 settembre 2011, 6.


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Inscritta la decisione legislativa di non vincolare la punibilità della dichiarazione fraudolenta mediante f.o.i. e d.o.i. al concreto verificarsi di una evasione d’imposta in un’opzione più ampia, ed escluso si tratti di una scelta eccentrica, la Consulta esplicita le ragioni per cui non si connoterebbe come arbitraria la predetta impostazione politico-criminale: per la Corte, «escludendo che nell’ipotesi in esame la reazione punitiva resti collegata alla “consistenza quantitativa” dell’evasione, il legislatore ha inteso, in particolare, far emergere lo speciale disvalore di “azione” che, nel suo apprezzamento – in sé non manifestamente irragionevole – la specifica fattispecie presenta» (15). In altre parole, la legittimazione della differenza di trattamento che segna i rapporti tra i delitti di dichiarazione fraudolenta risiederebbe «nella particolare capacità probatoria delle fatture e documenti analoghi e, di riflesso, nella maggiore capacità decettiva delle falsità commesse tramite tali documenti» (16). Individuata, dunque, la scelta di politica criminale e la ragione empirica che la sostiene, la Corte conclude il proprio percorso motivazionale confrontandosi con l’ipotesi formulata dal giudice a quo, che mirava a revocare in dubbio proprio l’idea che l’utilizzo di f.o.i. renda per gli accertatori più complesso individuare l’an e il quantum dell’imposta evasa rispetto a quanto occorra ove il contribuente infedele tenga le condotte tipizzate nell’art. 3, ovvero ricorra a documenti falsi o ad altri mezzi fraudolenti. Sul punto, dopo aver criticato l’ordinanza di rimessione per non aver individuato nemmeno un caso concreto per corroborare la propria tesi (17), la sentenza distingue nettamente le due tipologie di condotta, argomentando in modo distinto per ciascuna di esse. Quanto al raffronto tra le f.o.i. o d.o.i. e i documenti falsi di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000, il Giudice evidenzia come anche il sistema codicistico dei delitti contro la pubblica fede punisca più severamente le falsità realizzate in alcuni documenti o, addirittura, punisca la falsità solo qualora interessi un novero ristretto di oggetti materiali: si pensi paradigmaticamente alla falsità in testamento olografo, cambiale o altro titoli di credito (art. 491 c.p.)

(15) In questi termini la decisione annotata, § 5. (16) Ibidem. (17) Ibidem.


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sanzionato in modo difforme dal falso in scrittura privata (art. 485 c.p.), oggi depenalizzato (18) e in precedenza punito meno severamente (19). La bipartizione tra documenti dotati di particolare capacità dimostrativa (fatture e documenti equiparati) e documenti che manchino di tale attitudine non solo non apparirebbe, dunque, un unicum nel sistema penale, ma costituirebbe una giustificazione autoevidente della disparità di trattamento: in altre parole, se il disvalore di azione cresce all’aumentare della capacità decettiva del mezzo utilizzato per occultare la falsità dichiarativa, ne deriva, secondo la Corte, la legittimità di uno speculare incremento della meritevolezza di pena. Infine, in poche battute la decisione risolve i dubbi sollevati dal giudice a quo derivanti dal confronto in punto di capacità decettiva tra le f.o.i. e gli altri mezzi fraudolenti di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000 con un sostanziale non liquet: secondo la Corte non sarebbero paragonabili per la loro eterogeneità le due modalità di aggressione, per cui ogni comparazione in punto di disvalore di condotta finirebbe per rappresentare niente più che «una convinzione personale, che non potrebbe surrogarsi a quella del legislatore» (20). Ebbene, la decisione della Corte Costituzionale, seppur significativamente segnata dalla incompleta individuazione dei profili di incostituzionalità compiuta dal rimettente, non persuade e merita di essere criticata sotto tre distinti profili, ovvero in punto di: (i) individuazione della linea di politica criminale; (ii) identificazione del disvalore di condotta e del ricorso alla fattura o al documento equiparato come limes (ir)ragionevole tra le declinazioni della dichiarazione fraudolenta; (iii) (s)bilanciamento tra disvalore di condotta e disvalore d’evento nei delitti dichiarativi. 3. Una decisione che non persuade: la scelta di politica criminale. – L’emersione di una opzione di politica criminale di particolare rigore nella punizione dei delitti fiscali, caratterizzati da una condotta di creazione o

(18) La depenalizzazione è intervenuta con l’art. 4, co. IV, lett. a), d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7; per un’analisi si veda G.L. Gatta, Depenalizzazione e nuovi illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie civili: una riforma storica, in Dir. pen. cont., 25 gennaio 2016. (19) Prima dell’abolitio criminis, l’art. 485 c.p. era punito con la reclusione da sei mesi a tre anni, mentre i falsi in testamento olografo, cambiale o altri titoli di credito erano (e sono tuttora) puniti con la reclusione da uno a sei anni di reclusione se commessi dal pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni o da otto mesi a quattro anni di reclusione se commessi dal privato o dal pubblico ufficiale al di fuori delle sue funzioni. (20) In questi termini la decisione annotata, § 5.


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utilizzazione di fatture o documenti dotati di analogo valore probatorio sul piano tributario, è un dato – almeno in parte – inconfutabile: il primo fondamentale riscontro di tale opzione si rinviene già nella legge delega 205/1999 che all’art. 9, co. II, lett. b), escludeva la possibilità per l’esecutivo di fare ricorso alle soglie di punibilità nella formulazione delle fattispecie incriminatrici destinate a punire tali forme di aggressione (21). La successiva abrogazione delle ipotesi attenuate di cui agli artt. 2 e 8 d.lgs. 74/2000, intervenuta nel 2011 (22), così come l’abbandono dell’idea di introdurre quantomeno una soglia di punibilità a 1.000 euro, emersa in sede di bozze di decreto delegato di revisione del sistema penale-tributario nel 2015 e poi obliterata nel d.lgs. 158/2015 (23), costituiscono senz’altro conferme di una posizione univoca del legislatore. Tuttavia, tale assunto merita una precisazione e non è, in ogni caso, privo di criticità. La precisazione deriva dalla lettura sistematica del d.lgs. 74/2000 attualmente vigente: emerge, infatti, guardando complessivamente ai delitti dichiarativi, che il rigore punitivo non è collegato sic et simpliciter al ricorso a fatture o a documenti analoghi falsi per occultare la speculare mendacità della dichiarazione dei redditi o dell’IVA, quanto piuttosto al binomio fattura falsa – elementi passivi fittizi. Infatti, il secondo termine della relazione, che caratterizza il tipo di falsità che connota il documento rilevante ex art. 2, e che si riverbera nella falsità della dichiarazione, implicando necessariamente un mendacio in punto di elementi passivi, assume assoluta centralità nelle scelte legislative. A dimostrazione di tale conclusione, si consideri, a contrario, che ove la fattura sia falsa, in quanto riporti l’imponibile dell’operazione e la relativa IVA non già in misura maggiore di quella reale, ma, al contrario, in misura minore, consentendo così l’evasione non al ricevente ma all’emittente, tale condotta, per definizione legislativa, può importare esclusivamente una contestazione per il delitto di dichiarazione infedele. Segnatamente, l’art. 3, co. III, d.lgs.

(21) Per tutti, V. Napoleoni, op. cit., 24 e 45 e A. Perini, Verso la riforma del diritto penale tributario: osservazioni sulla legge di delegazione, in Riv. trim. dir. pen. eco., 1999, 691. (22) Supra, § 2. (23) Sul punto si consenta l’inelegante rinvio ad A. Ingrassia, Ragione fiscale vs “illecito penale personale”. Il sistema penale-tributario dopo il d.lgs. 158/2015, Santarcangelo di Romagna, 2016, 57.


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74/2000 per come modificato dall’art. 3, d.lgs. 158/2015, chiarisce che non costituisce mezzo fraudolento “la sola indicazione nelle fatture di elementi attivi inferiori a quelli reali”. Dunque, il centro del disvalore risiede non solo e non tanto nella falsità della fattura o del documento analogo, quanto nell’indicazione in documenti dotati di particolare capacità probatoria di costi relativi ad operazioni – in tutto o in parte, oggettivamente o soggettivamente – inesistenti. In questa prospettiva il legame tra l’art. 2 e l’art. 8 d.lgs. 74/2000 sembra illuminarsi: il fenomeno criminale che i predetti delitti mirano a sradicare, prevedendo cornici edittali particolarmente severe, è quello dell’accordo tra contribuenti per consentire ad uno di essi l’evasione attraverso un incremento fittizio dei costi. L’opzione di politica criminale così ridisegnata non è immune da criticità nella premessa fattuale che muove il legislatore: resta del tutto indimostrato, infatti, anzi si può fondatamente dubitare, che il fenomeno in parola sia – sempre e comunque – più dannoso per il gettito erariale e risulti – sempre e comunque – di più difficile accertamento per gli organi di controllo rispetto a tipi criminali puniti meno severamente (e solo in caso di superamento di determinate soglie di punibilità), quali, a mero titolo esemplificativo, la sottofatturazione, l’esterovestizione o la stabile organizzazione occulta. Tuttavia, tale conclusione non sembrerebbe di per sé condurre a un giudizio inequivoco di arbitrarietà della scelta legislativa di “isolare” – per usare le parole della Corte – il tipo criminale in parola: basti pensare al fenomeno delle frodi carosello (24), per offrire un sufficiente puntello per argomentare nel senso di una discrezionalità legislativa esercitata – in una logica ampia di meritevolezza e bisogno di pena (25) – in modo non manifestamente irragionevole. Nondimeno, di là e oltre la logica che può aver motivato il legislatore, ciò che appare irragionevole sono piuttosto le modalità con cui è stata segnata la distanza tra la dichiarazione fraudolenta mediante f.o.i. e d.o.i. e le altre fattispecie dichiarative. In altre parole, ciò che si vuol dire, è che una maggior punizione per chi ricorre a f.o.i e d.o.i. per occultare il mendacio

(24) Per una trattazione monografica nella prospettiva penalistica del tema si veda A. Mereu, La repressione penale delle frodi IVA: indagine ricostruttive e prospettive di riforma, Assago, 2011, passim. (25) Sulla distinzione dei due concetti resta fondamentale M. Romano, “Meritevolezza di pena”, “bisogno di pena” e teoria del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 39 ss.


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dichiarativo incidente sugli elementi passivi potrebbe non essere in astratto necessariamente arbitraria, ma lo sia per come si è incarnata in concreto nel d.lgs. 74/2000. 4. La corretta individuazione del disvalore di condotta e l’irragionevolezza della dichiarazione fraudolenta mediante f.o.i e d.o.i.: tra dato empirico e descrizione del tipo. – Per comprendere la fondatezza dei rilievi di irragionevolezza, sviluppati – in parte – dal Tribunale di Palermo, è necessario ripercorrere criticamente gli argomenti svolti dalla Corte. Si è detto (26) che la decisione annotata ha quale pietra fondativa la particolare capacità dimostrativa della fattura e dei documenti ad essa equiparati, cui farebbe da contraltare necessitato un particolare disvalore di condotta, giustificativo del rigore sanzionatorio dell’art. 2, indipendentemente dal verificarsi di un’evasione d’imposta. Ebbene, si è pure visto (27) che non può essere il semplice peso probatorio dei documenti fiscali a giustificare la disparità di trattamento tra i delitti dichiarativi e, in specie, la mancanza di soglie di punibilità nell’art. 2: se così fosse, non si spiegherebbe (e la norma sarebbe perciò solo irragionevole) perché la particolare fedeltà che si deve al contenuto della fattura e dei documenti ad essa equiparati non esplichi alcun effetto sanzionatorio ove la falsità degli stessi si risolva nell’indicazione di un minor valore imponibile o una minore IVA, condotta eventualmente tipica solo in relazione alla meno grave delle fattispecie dichiarative, quella infedele di cui all’art. 4 d.lgs. 74/2000. È necessario sul punto compiere un passo indietro, per comprendere meglio i rilievi che seguiranno.

(26) Supra, § 2. (27) Supra, § 3.


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È sostanzialmente pacifico in dottrina (28) e in giurisprudenza (29) che i delitti dichiarativi tutelino il gettito tributario, bene giuridico finale (30) che tutte le previsioni contenute negli artt. da 2 a 5 mirano a proteggere; tuttavia, i delitti dichiarativi richiedono differenti graduazioni d’offesa per la loro consumazione: infatti, mentre l’art. 2 si risolve in un delitto di pericolo concreto per il bene finale, giacché non è necessario che vi sia in concreto evasione d’imposta per integrare il reato, tutti gli altri delitti dichiarativi, prevedendo una soglia di punibilità, richiedono la lesione del bene finale (31) (seppur in misura differente) (32).

(28) Per una panoramica della questione si vedano, tra gli altri: M. Caputo, In limine. Natura e funzioni politico-criminali delle soglie di punibilità nei reati tributari, in R. Borsari (a cura di), Profili critici del diritto penale tributario, Padova, 2013, 27 ss.; D. Falcinelli, Le soglie di punibilità tra fatto e definizione normo-culturale, Torino, 2007, passim; P. Veneziani, Le soglie di punibilità nei reati tributari, in M. Bertolino - L. Eusebi - G. Forti (a cura di), Studi in onore di Mario Romano, III, Napoli, 2011, 2141 ss. (29) L’individuazione del gettito tributario quale bene giuridico tutelato dalle fattispecie dichiarative è strettamente connessa alla declinazione, ormai consolidata in giurisprudenza, della qualificazione delle soglie di punibilità quali elementi costitutivi della fattispecie: solo per citare gli arresti più recenti: Corte Cost., 8 aprile 2014, n. 80, in Cass. pen., 2014, 2408, con nota di E. Aprile, La Corte costituzionale ridefinisce i presupposti per la configurabilità del reato di omesso versamento dell’IVA; Cass. pen., Sez. III, 1 giugno 2016, n. 30148, in Leggi d’Italia. (30) Secondo la bipartizione qui ripresa da A. Fiorella, Reato in generale (voce), in Enc. Dir., XXXVIII, Milano, 1987, 791, è utile distinguere, per comprendere l’offensività del fatto di reato, tra bene giuridico finale e bene giuridico strumentale. Ebbene – per usare le parole dell’Autorevole dottrina qui richiamata – «un bene è finale solo quando la sua tutela si giustifica in sè», mentre è strumentale «quando ciò non può dirsi, in quanto logica vuole che esso è tutelato solo in vista di un’altra entità». (31) Sempre nella prospettiva dell’individuazione della soglia di punibilità quale elemento costitutivo delle fattispecie incriminatrici e, segnatamente, quale evento (cfr. note 28 e 29) (32) Come noto le soglie di punibilità sono tipizzate in modo distinto nelle tre diverse fattispecie dichiarative. Brevemente: gli artt. 3, 4 e 5 prevedono tutti una soglia quantitativa che mira a selezionare un importo al di sotto del quale l’evasione resta penalmente irrilevante, rispettivamente fissato a 30.000, 150.000 e 50.000 euro; vi è poi, solamente negli artt. 3 e 4, una soglia di punibilità qualitativa con correttivo quantitativo, che individua la misura percentuale dei minori elementi attivi effettivi e dei maggiori elementi passivi fittizi/inesistenti indicati in dichiarazione in relazione all’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati dal contribuente oltre la quale l’evasione assume significato criminale, elementi che, in ogni caso, non possono eccedere un quantum predefinito con funzione di correttivo; nell’art. 4 la soglia percentuale è pari al 10% e il correttivo è posto a 2 milioni di euro; nell’art. 3 la soglia percentuale è pari al 5% e sono previsti due distinti correttivi, l’uno riferito alla sottrazione di elementi attivi posto a 1,5 milioni di euro, l’altro all’ammontare delle ritenute fittizie posto a 30.000 euro. Si noti che l’assenza del secondo correttivo quantitativo riferito alle ritenute fittizie nella dichiarazione infedele ha aperto la questione in dottrina se nella fattispecie in parola sia tipica l’evasione


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Il quantum dell’imposta evasa costituisce il disvalore d’evento (33) della fattispecie, disvalore non richiesto (34) esclusivamente nella dichiarazione fraudolenta mediante f.o.i. e d.o.i.. Parallelamente al bene finale, il disvalore delle fattispecie dichiarative è segnato dall’offesa al bene giuridico strumentale (35) che esse proteggono, variamente individuato nella ‘trasparenza fiscale del contribuente’ (36) o nella ‘funzione di accertamento dell’Erario’ (37). Al di là delle diverse nomenclature, nella sostanza, al bene strumentale si ricollega il disvalore di condotta (38): al crescere delle difficoltà di accertamento dell’an e del quantum dell’imposta

realizzata attraverso una riduzione dell’imposta dovuta attraverso il ricorso in dichiarazione a crediti o ritenute inesistenti (per un approfondimento, si conceda il rinvio ad A. Ingrassia, op. cit., 90). Una prima importante affermazione giurisprudenziale dell’irrilevanza penale di tale condotta si rinviene in Corte Cost., 21 febbraio 2018, ord. n. 35, motivata proprio dalla differente disciplina della soglia qualitativa con correttivo quantitativo negli artt. 3 e 4. (33) Secondo la fondamentale ricostruzione contenuta in C.E. Paliero, Oggettivismo e soggettivismo nel diritto penale italiano. Lezioni del corso di diritto penale progredito, (a cura di C. Perini, F. Consulich), Milano, 2006, la norma penale, intesa come norma di valutazione «qualifica in ogni caso in termini di disvalore ciò che incrimina, dal momento che la sanzione ha una funzione stigmatizzante del tipo di comportamento incriminato. Il grado di disvalore complessivo del singolo reato è sintetizzato e desumibile dalla misura (tipo e qualità) della pena, nel cui dosaggio il legislatore ha di fatto riassunto il disvalore riconducibile alle diverse componenti del reato» (53). In tale prospettiva possono distinguersi quattro nuclei di disvalore: (i) disvalore d’evento; (ii) disvalore di condotta; (iii) disvalore di intenzione; (iv) disvalore di personalità. Mentre i primi tre disvalori sono orientati al fatto, il quarto è orientato sull’autore. Per ciò che qui interessa, il disvalore di evento «rinvia all’evento inteso non come mero evento naturalistico del reato, ma anche, in senso lato, come offesa al bene giuridico» (54). (34) È discusso in dottrina (lo rileva C.E. Paliero, op. cit., 57) se i reati di pericolo concreto presentino un disvalore d’evento (ovviamente meno significativo di quello proprio dei reati di danno) o ne siano sprovvisti. Ai nostri fini, l’opzione per l’una o l’altra impostazione non sposta l’esito del percorso argomentativo, né le sue cadenze. (35) Sulla nozione di bene strumentale, oltre alla definizione di Fiorella richiamata alla nota 30, si veda F. Palazzo, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 470 per cui essi rappresentano «l’insieme delle condizioni la cui esistenza e salvaguardia consente la migliore protezione degli interessi sostanziali o finali». (36) Ricorrono a tale concetto, tra gli altri, A. Aceto, op. cit., 32; A. Mangione, La dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti, in E. Musco (a cura di), Diritto penale tributario, Milano, 2002, 15. (37) In questi termini A. Lanzi, P. Aldrovandi, op. cit., 25-26. (38) Il disvalore di condotta o di azione (quest’ultima espressione utilizzata dalla Corte Costituzionale) si sostanzia sul giudizio di riprovevolezza che l’ordinamento compie in relazione ad una determinata azione od omissione tipizzata. Per le diverse declinazioni di tale disvalore si veda C.E. Paliero, op. cit., 67 ss.


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evasa, dipendente della capacità decettiva dello strumento utilizzato per occultare la mendacità della dichiarazione dei redditi o dell’IVA, aumenta il disvalore di condotta della fattispecie e, specularmente, cresce la sanzione proporzionata al fatto (39). Infine, può essere identificato un disvalore d’intenzione (40), legato all’orientamento finalistico della condotta, che tuttavia accomuna tutti i delitti dichiarativi, stante la natura dolosa delle fattispecie e l’identico scopo tipizzato di evadere le imposte sul reddito o sul valore aggiunto, che deve muovere l’autore (41). Dunque, in presenza di un identico disvalore di intenzione (42), la differenza nelle cornici edittali tra i delitti dichiarativi dovrebbe trovare la propria ragione nella diversa intensità dei disvalori di condotta e d’evento. Poste le coordinate appena enucleate, può meglio chiarirsi e approfondirsi il rapporto tra i delitti di dichiarazione fraudolenta. Ebbene, nella prospettiva del Tribunale di Palermo, posta la medesima risposta sanzionatoria che

(39) Tale percorso argomentativo è compiuto da A. Lanzi, P. Aldrovandi, op. cit., 2526. Per una medesima impostazione si veda D. Terracina, Riflessi penali dell’evasione fiscale. Ricchezza nascosta e regime del dichiarato, Roma, 2012, 116 ss. (40) Come chiarito da C.E. Paliero, op. cit., 58, «il disvalore di intenzione esprime il rapporto intercorrente fra il soggetto agente ed il fatto di reato in concreto realizzato (orientamento al fatto)» e «sottolinea la rilevanza che l’atteggiamento interiore (psicologico o cognitivo) del soggetto ha nei confronti del fatto». (41) Si noti che, come esattamente rilevato in dottrina (P. Veneziani, Commento sub art. 3, in I. Caraccioli, A. Giarda, A. Lanzi (a cura di), Diritto e procedura penale tributaria. Commentario al decreto legislativo10 marzo 2000 n. 74, Padova, 2000, 191), la stessa formula, “al fine di evadere le imposte”, assume significato diverso qualora la fattispecie preveda soglie di punibilità ed esse siano intese quale evento del reato (e non già mera condizione di punibilità). In tale prospettiva, infatti, la formulazione, che parrebbe quella propria del cd. dolo specifico, deve essere letta in termini di dolo intenzionale, giacché il dolo specifico richiede l’orientamento ad un risultato che non deve (necessariamente) realizzarsi ai fini dell’integrazione dell’illecito penale e non può, conseguentemente, avere quale oggetto l’evento tipizzato nella fattispecie. Tuttavia, ciò non implica un differente disvalore di intenzione a seconda che il sintagma assuma la funzione di dolo specifico o intenzionale (infra, nota 42). (42) Indipendentemente dal fatto che il sintagma “al fine di evadere le imposte” richieda un dolo specifico o un dolo intenzionale per l’integrazione dell’illecito, il disvalore di intenzione resta identico: come chiarito in dottrina, G. Cocco, La bancarotta preferenziale, Napoli, 1987, 231, «una differenza di natura psicologica tra dolo intenzionale e dolo specifico non esiste: in entrambi i casi ciò che viene in considerazione è un fine perseguito dall’agente. (…) La distinzione fra dolo intenzionale e dolo specifico proviene esclusivamente dalla legge e solo in essa trova fondamento: il dolo è intenzionale quando l’evento tipico deve essere lo scopo dell’azione; il dolo è specifico quando il fatto incriminato deve essere compiuto per un fine particolare, la cui realizzazione non è necessaria all’esistenza del reato».


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accomuna i due delitti dichiarativi e l’assenza di disvalore d’evento nella fattispecie di cui all’art. 2, questa, per non essere irragionevole, dovrebbe presentare un surplus di disvalore di condotta rispetto all’art. 3, cosa che, secondo la comune esperienza (43), non si verificherebbe. Tale conclusione, negata dalla Corte costituzionale, merita di essere – pur con qualche precisazione e approfondimento – condivisa. È chiaro che la strada scelta dal giudice a quo, che potremmo definire via empirica, appare molto stretta, trattandosi di sindacare il giudizio di fatto compiuto dal legislatore nella tipizzazione della fattispecie, profilo su cui la Corte costituzionale esercita un certo self restraint (44); tuttavia, tale percorso appare fruttuoso, di là dalle critiche contenute nella decisione annotata, che non paiono cogliere pienamente nel segno. In prima battuta e in generale si rimprovera al rimettente di non aver individuato nemmeno un caso concreto in cui una condotta riconducibile all’art. 2 presenti un minor disvalore di condotta di una sussumibile nell’alveo dell’art. 3. Ebbene, un tale esempio non pare difficile da individuare: si pensi, alla facilità con cui è possibile per gli accertatori scoprire la falsità materiale di una fattura, consistente in una modifica in aumento, fatta dal ricevente, sull’importo riportato nel documento da altri emesso, semplicemente confrontandolo con l’originale detenuto nella contabilità dell’emittente; di contro, estremamente complessa è l’individuazione dell’an e del quantum dell’imposta evasa, nel caso, ad esempio, dell’impresa di costruzioni che in tutti i propri documenti (fatture, scritture contabili, preliminari e atti definitivi di vendita), riporti valori di alienazione degli immobili minori di quelli effettivi, ricevendo la differenza tra l’importo dichiarato e quello convenuto con l’acquirente attraverso mezzi di pagamento non tracciabili.

(43) È interessante notare come a tale conclusione pervenga in sede scientifica (A. Aceto, op. cit., 30, nota 4) anche un Consigliere della III sezione penale della Corte di Cassazione (competente per i reati tributari), che afferma in modo netto: «la prassi giudiziaria insegna che, in realtà, l’accertamento del reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici può essere ben più complesso di quello di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74/2000, a maggior ragione dopo l’inserimento, tra gli altri artifici, del compimento delle operazioni simulate». (44) Fondamentali su tale argomento D. Pulitanò, Giudizi di fatto nel controllo di costituzionalità di norme penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 1004 ss.; Id., Il diritto penale tra vincoli di realtà e sapere scientifico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 795 ss.


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Ugualmente non condivisibile è l’affermazione della Corte per cui non sarebbe possibile utilizzare quale tertium comparationis l’art. 3 in relazione alla condotta di “altri mezzi fraudolenti”. Infatti, una volta chiarito che il disvalore di condotta nella sua essenza di offesa al medesimo bene giuridico strumentale accomuna tutte le fattispecie dichiarative, varia in funzione delle difficoltà di accertamento dell’imposta evasa per i verificatori e dipende dalla capacità decettiva dello strumento utilizzato per occultare il falso dichiarativo, non si vede quale ragione osti al confronto tra le due tipologie di condotte, peraltro – e il dato è fondamentale – parificate dal legislatore quoad poenam. Anche guardando a tale confronto, non è difficile scorgere ipotesi concrete in cui il disvalore di condotta proprio di una dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici soverchi quello dell’altra incriminazione di frode fiscale: si paragoni la falsificazione materiale di fatture di cui si è detto, con il ricorso a triangolazioni, cd. scatole cinesi, trust interposti fittiziamente e, in generale, allo ‘strumentario più evoluto’ per evadere le imposte dirette e l’IVA, che emerge dalla prassi giurisprudenziale (45). Al di là della via empirica, forse più lineari sarebbero state altre due strade, percorribili per affermare l’irragionevolezza dell’assenza di soglie di punibilità (e dunque di disvalore di evento) nella previsione incriminatrice di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000. La prima, che si muove nel perimetro della premessa posta dal Tribunale di Palermo, ovvero che un surplus di disvalore di condotta possa pareggiare un minus di disvalore d’evento, potrebbe essere definita via tipologica. Infatti, indipendentemente dagli esempi empirici, è dalla stessa formulazione delle fattispecie che emerge il maggior disvalore di condotta che caratterizza la dichiarazione mediante altri artifici: solo in relazione all’art. 3 è richiesto dall’incriminazione che le condotte fraudolente, che precedono cronologicamente e sostengono il falso dichiarativo, presentino una duplice idoneità decettiva. Segnatamente, dopo la riscrittura dell’art. 3 d.lgs. 74/2000, avvenuta con l’art. 3 d.lgs. 158/2015, è richiesto per l’integrazione della fattispecie che le condotte presentino una specifica carica offensiva: esse devono essere al contempo idonee “ad ostacolare l’accertamento dell’illecito” (requisito

(45) Per un’ampia casistica si vedano G. Soana, op. cit., 176 ss e A. Perini, Reati tributari (Voce), in Dig. disc. pen., IX agg., Assago, 2016, 575 ss.


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già richiesto prima della novella) e ad “indurre in errore l’amministrazione finanziaria” (elemento di assoluta novità). In altro scritto (46) si era provato, in assenza di indicazioni giurisprudenziali, a tracciare i confini selettivi dell’area di enforcement penale dei due requisiti: a tale esito interpretativo sia permesso richiamarsi. In sintesi: (i) il criterio tradizionale dell’ostacolo all’accertamento dell’illecito va riferito alla difficoltà per i verificatori di ricostruire l’esatta consistenza economicotributaria dell’operazione realmente effettuata o meno dal contribuente e, conseguentemente, la sua incidenza sulla capacità contributiva dello stesso (identificazione del quantum di evasione); (ii) quanto all’induzione in errore dell’amministrazione, il disvalore si annida nella riconoscibilità del carattere fraudolento o simulato dell’operazione realizzata e della falsità del documento annotato o detenuto nella contabilità ai fini di prova. In altre parole, ricorre il requisito quando non sia di immediata riconoscibilità il profilo di fraudolenza, simulazione o falsità della condotta (individuazione dell’an di evasione). Ebbene, la particolare insidiosità delle modalità di aggressione, descritte nella dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e appena analizzate, non è, invece, richiesta in relazione nell’art. 2 d.lgs. 74/2000, cioè non è necessario – se non ricorrendo ad un’esegesi ortopedica piuttosto ardita (47) – che le f.o.i. o i d.o.i. siano idonee ad indurre in errore i verificatori e ad ostacolare l’accertamento dell’illecito. Dunque, ad un’analisi più attenta, nonostante i due delitti siano puniti nella medesima misura, l’art. 3 d.lgs. 74/2000 presenta una condotta che, alla prova empirica come al dato testuale, appare più insidiosa di quella di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000; per di più, l’art. 2 può essere integrato anche in assenza di imposta evasa. In questa prospettiva emerge nitidamente la fondatezza della questione posta dal Tribunale di Palermo. 5. Il punto di non ritorno: i rapporti tra disvalore d’evento e di condotta, tra bene finale e bene strumentale. – A ben vedere, però, la manifesta irragionevolezza dell’assenza di soglie di punibilità nella fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante f.o.i. o d.o.i. appare indiscutibile ove meglio si inquadri il rapporto tra disvalori d’evento e di condotta, così come tra

(46) A. Ingrassia, op. cit., 76 ss. (47) Cioè ritenendo impliciti tali connotati della condotta anche nell’art. 2 d.lgs. 74/2000, come suggerito da A. Aceto, op. cit., 30.


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lesione del bene strumentale e del bene finale, nell’economia delle fattispecie dichiarative. Si è visto (48) come la premessa del Tribunale di Palermo, che ha segnato il perimetro del giudizio di costituzionalità, è che un surplus di disvalore di condotta possa bilanciare un minor disvalore d’evento, giustificando così che il legislatore punisca identicamente le due dichiarazioni fraudolente, pur richiedendo solo una di esse una evasione di imposta (oltre una certa soglia) per la sua integrazione. Ebbene, proprio tale premessa non persuade. Come esattamente notato in dottrina (49), l’offesa al bene finale assume per definizione un peso, in termini di disvalore penale, decisamente più significativo di quella al bene strumentale, ad essa logicamente ancillare e sussidiaria (50). Parificare quoad poenam un delitto privo di evento di danno al bene finale ad uno che ponga solo in pericolo l’identico bene finale ha due corollari del tutto irragionevoli: (i) parificare la sanzione tra un delitto tentato ed uno consumato; (ii) anteporre il bene strumentale al bene finale, così da concludere che sia dotata di maggior disvalore una fattispecie di pericolo (per quanto concreto) rispetto ad una di danno, nonostante entrambe siano poste a presidio dei medesimi beni giuridici finale e strumentale. Entrambi tali corollari sono stati stigmatizzati in un fondamentale precedente della Consulta (51) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale,

(48) Supra, § 1. (49) Se, in effetti, nulla vieta al legislatore di valorizzare la tutela del bene strumentale, nella misura in cui «comporta un riflesso sul piano della definizione delle modalità della condotta criminosa, potendo di conseguenza ben indicare l’offesa al bene strumentale null’altro che un disvalore di condotta» (A. Fiorella, op. cit., 791, che richiama l’impostazione di R. Maurach, H. Zipf, Strafrecht, Allgemeiner Teil, VI ed., Heidelberg, 1983, 257), deve essere sempre chiaro che sul disvalore d’evento e di condotta si gioca una partita ideologica sugli scopi e il fine del diritto penale. Segnatamente, sottolinea F. Palazzo, Il fatto di reato, Torino, 2004, 44, «l’opzione ideologica per il disvalore d’azione significherebbe dunque concepire il reato non già come aggressione agli interessi sociali, ma come semplice fatto di disobbedienza, discostamento della volontà individuale dalla volontà “superiore” della legge (…); al contrario, l’opzione ideologica per il disvalore di evento significa concepire il diritto penale in una chiave oggettivistica come apparato preventivo-repressivo teleologicamente rivolto ad assicurare il “bene sociale”». (50) Per la valorizzazione di tale conclusione in chiave penale-tributaria si veda C.F. Grosso, Quale diritto penale tributario per gli anni novanta, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 1016 e, più di recente, in particolare, A. Lanzi, P. Aldrovandi, op. cit., 293. (51) Il riferimento è a Corte cost., 24 maggio 1979, n. 26, in Giur. cost., 1981, 369.


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per violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., dell’art. 186 c.p. mil. pace, nella parte in cui prevedeva la medesima pena (l’ergastolo) per i delitti di omicidio preterintenzionale o doloso, consumato o tentato. Il Giudice delle Leggi ha rinvenuto la ratio della scelta legislativa di equiparazione punitiva nella plurioffensività del delitto e, in particolare, nell’attribuzione di un maggior disvalore all’insubordinazione che all’offesa alla persona, tale da parificare quod poenam la messa in pericolo della vita altrui e il cagionamento della morte. La Corte costituzionale ha potuto così sottolineare che «nel bilanciare i due tipi di beni, lesi dal delitto in questione, il legislatore ha operato uno stravolgimento dell’ordine dei valori messi in gioco: anteponendo la disciplina militare in tempo di pace, intesa nel senso riduttivo di obbedienza e di rispetto dell’inferiore verso il superiore, a quel bene supremo dell’ordinamento costituzionale e penale, premessa naturale di qualsiasi altra situazione soggettiva giuridicamente protetta, che è il diritto alla vita». Mutatis mutandis, pare di essere in presenza della medesima irragionevolezza, dato che il legislatore antepone la trasparenza fiscale al bene finale che l’ordinamento penale dovrebbe presidiare, ovvero la tutela del gettito tributario. Dunque, la via più lineare per affermare l’irragionevolezza della dichiarazione fraudolenta mediante f.o.i. o d.o.i. per la mancata previsione delle soglie di punibilità di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000 appare quella più radicale, che nega in radice, sulla scorta di ragioni dogmatiche e logiche, accolte in un fondamentale precedente della Consulta, la possibilità di parificare quoad poenam un delitto di pericolo concreto ad uno di danno al medesimo bene giuridico, sulla base di una diversa offesa all’identico bene strumentale. 6. Conclusioni: la necessità di un modello unitario di frode fiscale. – All’esito del percorso di critica della decisione annotata, possono trarsi due conclusioni. De jure condito, i rapporti tra le due declinazioni della dichiarazione fraudolenta e, in particolare, la ragionevolezza dell’assenza di soglie di punibilità nell’art. 2 d.lgs. 74/2000, restano un nervo scoperto dell’attuale sistema penale-tributario, che meriterebbe una nuova valutazione da parte della Corte Costituzionale. Si è visto, infatti, che il Tribunale di Palermo, in un’ordinanza cui deve riconoscersi il merito di avere posto sotto la lente del Giudice delle leggi una questione estremamente delicata, ha tuttavia scelto la via più impervia per


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addivenire ad un giudizio di violazione dell’art. 3 Cost., per di più non fornendo esempi concreti per corroborare la propria – condivisibile – conclusione. Una nuova ordinanza di rimessione, che non solo arricchisca il confronto in punto di disvalore di condotta tra le fattispecie con il richiamo a modalità di evasione puntuali, ma che lo sposti sul piano della descrizione del tipo e, soprattutto, che radicalmente si appunti sull’impossibilità di parificare quoad poenam un’offesa di danno ad una di pericolo ove il bene giuridico (finale e strumentale) tutelato dalle norme in comparazione sia identico, potrebbe avere ben altro esito. De jure condendo, come si era altrove sostenuto (52), la soluzione più appagante appare quella di un modello unitario di frode fiscale, con un revirement dell’opzione politico-criminale: rinuncia ad isolare la dichiarazione fraudolenta mediante f.o.i. e d.o.i. e, soprattutto, abbandono dell’anticipazione dell’incriminazione al pericolo concreto al gettito tributario. In questa prospettiva, la via legislativa più breve passerebbe dall’abrogazione tout court dell’art. 2 d.lgs. 74/2000, con un effetto di ulteriore espansione dei confini di enforcement penalistico del successivo art. 3 e, segnatamente, degli spazi di incriminazione della condotta di ricorso a documenti falsi; ovviamente, tale risultato richiede l’eliminazione della clausola di salvezza posta in apertura del predetto art. 3 (“fuori dai casi previsti dall’articolo 2”) (53). Guardando ai profili di successione di leggi penali nel tempo, vi sarebbe una continuità d’incriminazione delle condotte di dichiarazione fraudolenta mediante f.o.i. e d.o.i. anche dopo l’abrogazione dell’art. 2, salvo ovviamente per i fatti che non abbiano importato un’evasione d’imposta superiore alle soglie di punibilità o che non presentino la duplice idoneità decettiva richiesta dalla fattispecie di cui all’art. 3. Per tale via, proprio quelle condotte di cui si potrebbe predicare l’irragionevole incriminazione, uscirebbero dal perimetro del sistema penale tributario, avendo cagionato un’offesa al gettito tributario insufficiente a giustificare il ricorso allo ius terribile.

Alex Ingrassia

(52) Si perdoni il rinvio a A. Ingrassia, op. cit., 185. (53) Per coerenza sistematica, ovviamente, anche la clausola di salvezza di cui all’art. 4 d.lgs. 74/2000 dovrebbe essere modificata, eliminando il richiamo all’art. 2.


Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte di Giustizia UE, Sez. V, 21 giugno 2018, causa C-480/16, Pres. J.L. da Cruz Vilaça; Rel. E. Levits

Tassazione dei dividendi versati agli organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) transfrontalieri – Libera circolazione dei capitali – Restrizioni – Giustificazioni – Articolo 65 TFUE – Comparabilità – Ragioni imperative di interesse generale – Coerenza del regime fiscale – Proporzionalità – Osta È contrario alla libera circolazione dei capitali di cui all’articolo 63 TFUE un regime differenziato che prevede che i dividendi distribuiti da una società residente in uno Stato membro a un organismo d’investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) non residente siano soggetti a una ritenuta alla fonte, mentre quelli distribuiti a un OICVM residente nel medesimo Stato membro siano esenti da una siffatta ritenuta, a condizione però che tale organismo operi una distribuzione minima ai suoi detentori di quote, o calcoli tecnicamente una distribuzione minima, e prelevi un’imposta su tale distribuzione minima reale o fittizia a carico dei suoi detentori di quote. Tale regime non può ritenersi giustificato alla luce né dell’articolo 65 TFUE, che ammette le distinzioni che non risultino in discriminazioni arbitrarie tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza, né delle ragioni imperative di interesse generale in quanto eccede quanto necessario al fine di garantire la coerenza del regime fiscale. (1)

(Omissis) 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 56 e 63 TFUE. 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito delle controversie tra, da un lato, la Fidelity Funds, la Fidelity Investment Funds e la Fidelity Institutional Funds e, dall’altro, lo Skatteministeriet (Ministero delle Imposte, Danimarca) in merito a do‑ mande di rimborso di ritenute alla fonte operate sui dividendi che sono stati loro ver‑ sati da società residenti in Danimarca tra il 2000 e il 2009. Contesto normativo Diritto dell’Unione


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3 La direttiva 85/611/CEE del Consiglio, del 20 dicembre 1985, concernente il co‑ ordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative in materia di taluni organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (o.i.c.v.m.) (GU 1985, L 375, pag. 3), era intesa a prevedere, conformemente al suo quarto considerando, per gli organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) situati negli Stati membri, norme minime comuni per quanto riguarda la loro autorizzazione, il loro con‑ trollo, la loro struttura, la loro attività e le informazioni che sono tenuti a pubblicare. La direttiva 85/611 è stata ripetutamente modificata prima di essere abrogata, con effetto al 1o luglio 2011, dalla direttiva 2009/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 luglio 2009, concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamen‑ tari e amministrative in materia di taluni organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) (GU 2009, L 302, pag. 32), che ha proceduto alla sua rifusione. Diritto danese 4 L’articolo 1, punto 5 a, della lov om indkomstbeskatning af aktieselskaber m.v. (legge relativa all’imposta sulle società) prevede che gli OICVM fiscalmente residenti in Danimarca siano ivi assoggettati a imposta, mentre l’articolo 1, punto 6, di tale legge concerne l’assoggettamento a imposta dei fondi rientranti nelle disposizioni dell’articolo 16 C della lov om påligningen af indkomstskat til staten (legge sulla determinazione dell’imposta statale sui redditi; in prosieguo: la «ligningslov»), e che sono residenti in Danimarca. 5 L’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), della legge relativa all’imposta sulle società dispone che gli OICVM e gli altri fondi di investimento che non hanno la residenza fiscale in Danimarca sono soggetti a imposta sui dividendi distribuiti loro da società residenti in Danimarca e tale obbligo tributario limitato ha ad oggetto unicamente i redditi aventi la loro fonte in Danimarca. 6 Ai sensi dell’articolo 65, paragrafo 1, della kildeskatteloven (legge sulla ritenuta alla fonte), ogni decisione di distribuzione di dividendi da parte di una società residen‑ te in Danimarca deve prevedere che sarà applicata una ritenuta alla fonte pari ad una determinata percentuale del totale distribuito, salvo disposizioni contrarie. L’aliquota della ritenuta alla fonte era fissata al 25% per il 2000 raggiungendo il 28% per il pe‑ riodo dal 2001 al 2009. 7 Conformemente alla normativa danese, l’aliquota della ritenuta alla fonte è ri‑ condotta al 15% quando le autorità dello Stato di residenza dell’OICVM interessato sono tenute a scambiare informazioni con le autorità danesi in applicazione di una convenzione diretta a prevenire le doppie imposizioni, di un’altra convenzione inter‑ nazionale o di un accordo amministrativo sull’assistenza in materia fiscale. Per i con‑ tribuenti residenti nell’Unione europea, l’assoggettamento finale a imposta non deve, in pratica, eccedere il 15%, conformemente a tale disposizione. L’assoggettamento a imposta può, inoltre, essere ulteriormente ridotto in base alle convenzioni fiscali concluse tra il Regno di Danimarca e lo Stato di residenza dell’OICVM interessato.


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8 La legge sulla ritenuta alla fonte è applicabile agli OICVM con sede in Danimar‑ ca, che sono quindi, a priori, soggetti a tale normativa sull’assoggettamento a imposta dei dividendi. Tuttavia, dalle disposizioni dell’articolo 65, paragrafo 8, di tale legge risulta che il ministro delle Imposte può adottare norme secondo le quali le distribuzioni di dividendi a fondi che rientrano nelle disposizioni dell’articolo 16 C della ligningslov (in prosieguo: i «fondi rientranti nell’articolo 16 C») siano esenti dalla ritenuta. 9 In occasione dell’adozione del decreto sull’imposta alla fonte, il ministro delle Imposte ha fatto uso di tale facoltà per esentare totalmente i fondi rientranti nell’arti‑ colo 16 C da ritenuta alla fonte. Infatti, ai termini dell’articolo 38 del decreto sull’im‑ posta alla fonte, qualsiasi OICVM può farsi rilasciare un certificato di esenzione e beneficiare dell’esenzione dall’assoggettamento a imposta alla fonte sui dividendi, a condizione, da un lato, di essere un organismo rientrante nell’articolo 1, punto 6, della legge relativa all’imposta sulle società, e quindi di essere residente in Danimar‑ ca, e, dall’altro, di beneficiare dello status di fondo rientrante nell’articolo 16 C. Un OICVM residente in Danimarca che non soddisfa le condizioni dell’articolo 16 C della ligningslov non è esentato dalla ritenuta alla fonte sui dividendi. 10 L’articolo 16 C della ligningslov definisce cosa si debba intendere per fondo rientrante nell’articolo 16 C. 11 Così, conformemente alla normativa in vigore fino al 1o giugno 2005, affinché un OICVM possa essere qualificato come fondo rientrante nell’articolo 16 C, era ne‑ cessario che operasse una distribuzione minima. La distribuzione minima costituisce la base per l’assoggettamento a imposta dei redditi del fondo interessato in capo ai suoi detentori di quote. 12 Le regole per la determinazione della distribuzione minima sono precisate all’articolo 16 C, paragrafi da 2 a 6, della ligningslov. In conformità al paragrafo 2 di tale articolo, la distribuzione minima è costituita dalla somma delle entrate e de‑ gli importi netti incassati nel corso dell’esercizio, somma dalla quale sono dedotte le perdite e le spese. L’articolo 16 C, paragrafo 3, della ligningslov prevede che sia inclusa in tale calcolo tutta una serie di entrate elencate in tale articolo, segnatamente gli interessi, i dividendi da azioni, i proventi su crediti e contratti finanziari nonché le plusvalenze su cessioni di azioni. In conformità all’articolo 16 C, paragrafi 4 e 5, della ligningslov, i fondi rientranti nell’articolo 16 C possono dedurre le perdite fiscalmente ammissibili nonché le spese di gestione. 13 A seguito dell’adozione della legge n. 407, del 1o giugno 2005, e a partire da tale data, non è più richiesto che sia effettivamente operata una distribuzione minima ai detentori di quote per poter beneficiare dello status di fondo rientrante nell’articolo 16 C. Il beneficio di tale status è tuttavia sempre soggetto alla condizione che l’OICVM interessato proceda al calcolo di una distribuzione minima, soggetta a imposta in capo ai suoi detentori di quote, tramite una ritenuta alla fonte prelevata dal tale organismo. Procedimenti principali e questione pregiudiziale


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14 I ricorrenti nel procedimento principale sono OICVM, ai sensi della diret‑ tiva 85/611, con sede, rispettivamente, nel Regno Unito e in Lussemburgo. I loro investimenti in società con sede in Danimarca sono investimenti di portafoglio e non superano il 10% del capitale. I prodotti proposti dai ricorrenti nel procedimento prin‑ cipale sono accessibili a clienti residenti in Danimarca, ma non sono commercializzati attivamente in tale Stato membro. Parimenti, i ricorrenti nel procedimento principale non hanno chiesto alle autorità fiscali danesi di poter beneficiare dello status fiscale dei fondi rientranti nell’articolo 16 C, né hanno adattato i loro statuti alla normativa applicabile a siffatti fondi fino all’esercizio fiscale 2005. 15 I ricorrenti nel procedimento principale hanno adito il giudice nazionale pre‑ sentando domande di rimborso di ritenute alla fonte operate su distribuzioni di divi‑ dendi di società con sede in Danimarca di cui hanno beneficiato tra il 2000 e il 2009, sostenendo che gli OICVM residenti in Danimarca, a differenza degli OICVM non residenti in tale Stato membro, possono beneficiare di un’esenzione dalla ritenuta alla fonte. La normativa tributaria nazionale, infatti, porrebbe due condizioni all’esen‑ zione, ossia che l’OICVM interessato sia residente in Danimarca e che determini e dichiari i propri redditi secondo la normativa tributaria danese. Gli OICVM non resi‑ denti non possono, per loro natura, soddisfare la prima di tali condizioni, ed è per loro impossibile, se non particolarmente difficile, soddisfare la seconda condizione, tanto più che non hanno alcun incentivo a farlo, poiché, a causa della prima condizione, essi non possono comunque beneficiare dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte. 16 Di conseguenza, i ricorrenti nel procedimento principale ritengono quindi di aver diritto al rimborso delle imposte prelevate alla fonte, anche se non soddisfano la seconda condizione relativa all’obbligo di determinare e di dichiarare una distribuzio‑ ne minima conformemente alla normativa danese. 17 Il Ministero delle Imposte ammette certamente che il regime danese ha per ef‑ fetto che, in taluni casi, OICVM con sede in Danimarca e OICVM con sede in un altro Stato membro sono oggetto di un trattamento fiscale differente per quanto riguarda i dividendi percepiti da società con sede in Danimarca. Tuttavia, esso è del parere che tale restrizione sia giustificata, da un lato, dalla necessità di preservare la coerenza del regime fiscale e, dall’altro, dalla necessità di assicurare una ripartizione equilibrata della potestà impositiva tra Stati membri. 18 In tali circostanze, le parti nelle controversie principali concordano sul fatto che tale differenza di trattamento fiscale costituisce una restrizione alla libera cir‑ colazione, ma i ricorrenti nel procedimento principale sostengono che una siffatta restrizione non può essere giustificata dai motivi dedotti dal Ministero delle Imposte e che, comunque, la normativa danese eccede quanto necessario per garantire l’assog‑ gettamento a imposta in Danimarca. 19 In tali circostanze, l’Østre Landsret (Corte regionale dell’Est, Danimarca) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la questione pregiu‑ diziale seguente: «Se un regime fiscale, come quello di cui trattasi nei procedimenti


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principali, in forza del quale gli OICVM esteri disciplinati dalla direttiva 85/611 (…) sono soggetti a ritenuta alla fonte sui dividendi provenienti da società danesi sia con‑ trario all’articolo 56 CE (divenuto l’articolo 63 TFUE) sulla libera circolazione dei capitali o all’articolo 49 CE (divenuto l’articolo 56 TFUE) sulla libera prestazione dei servizi, laddove gli OICVM danesi equivalenti possono ottenere un’esenzione dalla ritenuta alla fonte, o perché operano effettivamente una distribuzione minima di dividendi ai propri detentori di quote a fronte della quale si applica la ritenuta alla fonte, oppure perché è calcolata tecnicamente una distribuzione minima sulla quale è applicata la ritenuta alla fonte in relazione ai detentori di quote degli organismi». Sulla domanda di riapertura della fase orale del procedimento 20 A seguito della presentazione delle conclusioni dell’avvocato generale, i ricor‑ renti nel procedimento principale, con atto depositato presso la cancelleria della Corte il 18 gennaio 2018, hanno chiesto che fosse disposta la riapertura della fase orale del procedimento, ai sensi dell’articolo 83 del regolamento di procedura della Corte. 21 A sostegno della domanda, i ricorrenti nel procedimento principale sostengono, in sostanza, che le conclusioni dell’avvocato generale riposano su in malinteso riguardo all’am‑ piezza e alla natura dei requisiti posti all’articolo 16 C della ligningslov. Inoltre, il riferimen‑ to, fatto dall’avvocato generale, alla circostanza che taluni OICVM non residenti nel Regno di Danimarca avrebbero praticato distribuzioni minime sarebbe errato in fatto e le circostan‑ ze relative a siffatti OICVM non sarebbero state oggetto di discussione dinanzi alla Corte. 22 A tal proposito, occorre ricordare che, ai sensi dell’articolo 252, secondo comma, TFUE, l’avvocato generale presenta pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena indipendenza, conclusioni motivate sulle cause che, conformemente allo Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, richiedono il suo intervento. La Corte non è vincolata né a tali conclusioni né alle motivazioni attraverso le quali l’avvocato generale giunge a formularle (sentenza del 22 giugno 2017, Federatie Nederlandse Vakvereni‑ ging e a., C‑126/16, EU:C:2017:489, punto 31 nonché giurisprudenza ivi citata). 23 Si deve parimenti ricordare, in tale contesto, che lo Statuto della Corte di giu‑ stizia dell’Unione europea e il regolamento di procedura della stessa non prevedono la facoltà per le parti interessate di depositare osservazioni in risposta alle conclusio‑ ni presentate dall’avvocato generale (sentenza del 25 ottobre 2017, Polbud – Wyko‑ nawstwo, C‑106/16, EU:C:2017:804, punto 23 e giurisprudenza ivi citata). Di con‑ seguenza, il disaccordo di un interessato con le conclusioni dell’avvocato generale, qualunque siano le questioni da esso ivi esaminate, non può costituire, di per sé, un motivo che giustifichi la riapertura della fase orale (sentenze del 25 ottobre 2017, Polbud – Wykonawstwo, C‑106/16, EU:C:2017:804, punto 24, nonché del 29 no‑ vembre 2017, King, C‑214/16, EU:C:2017:914, punto 27 e giurisprudenza ivi citata). 24 Con gli argomenti relativi all’ampiezza e alla natura dei requisiti posti all’arti‑ colo 16 C della ligningslov, i ricorrenti nel procedimento principale intendono rispon‑ dere alle conclusioni dell’avvocato generale rimettendo in discussione la descrizione della normativa in vigore in Danimarca a seguito della modifica avvenuta nel 2005,


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come derivante dalla domanda di pronuncia pregiudiziale, dal fascicolo di cui dispone la Corte e dalle informazioni fornite in udienza. Orbene, dalla giurisprudenza citata al punto precedente risulta che il deposito di siffatte osservazioni non è previsto dalle norme che disciplinano il procedimento dinanzi alla Corte. 25 Tuttavia, ai sensi dell’articolo 83 del regolamento di procedura, la Corte, sen‑ tito l’avvocato generale, può disporre in qualsiasi momento la riapertura della fase orale del procedimento, in particolare se essa non si ritiene sufficientemente edotta o quando, dopo la chiusura di tale fase, una parte ha prodotto un fatto nuovo, tale da influenzare in modo determinante la decisione della Corte, oppure quando la causa dev’essere decisa in base a un argomento che non è stato oggetto di discussione tra le parti o gli interessati menzionati dall’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea. 26 Nel presente caso, la Corte, sentito l’avvocato generale, ritiene di disporre di tutti gli elementi necessari per rispondere alla questione posta dal giudice del rinvio e che tutti gli argomenti necessari per dirimere la controversia di cui trattasi, in parti‑ colare, la possibilità, per un organismo non residente in Danimarca, di calcolare una distribuzione minima conformemente alla normativa danese e di ottenere la qualifica di fondo rientrante nell’articolo 16 C, siano stati discussi dinanzi alla Corte. 27 Alla luce delle precedenti considerazioni, non occorre disporre la riapertura della fase orale del procedimento. Sulla questione pregiudiziale 28 Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 56 e 63 TFUE debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa di uno Stato membro, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in forza della quale i dividendi distribuiti da una società residente in tale Stato membro a un OICVM non residente sono soggetti a una ritenuta alla fonte, mentre i dividendi distribuiti a un OICVM residente in tale stesso Stato membro sono esenti da una siffatta ritenuta, a condizione che tale organismo operi una distribuzione minima ai suoi detentori di quote, o calcoli tecnicamente una distribuzione minima, e prelevi un’imposta su tale distribuzione minima reale o fittizia a carico dei suoi detentori di quote. 29 Come deriva dalla descrizione della normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale effettuata dal giudice del rinvio, al fine di poter beneficiare di un’esenzione dalla ritenuta alla fonte, un OICVM deve, da un lato, essere residente in Danimarca e, dall’altro, beneficiare dello status di fondo rientrante nell’articolo 16 C. 30 Al fine di ottenere tale status, un OICVM deve soddisfare le condizioni previ‑ ste all’articolo 16 C della ligningslov e, in particolare, conformemente alla normativa in vigore prima del 1o giugno 2005, impegnarsi a operare una distribuzione minima e applicare su tale distribuzione una ritenuta alla fonte a carico dei suoi detentori di quote. Dopo tale data, non è più richiesto che si proceda effettivamente a una distri‑ buzione minima ai detentori di quote, ma, per beneficiare di detto status, l’OICVM interessato deve procedere al calcolo di una distribuzione minima che è assoggettata


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a imposta in capo ai suoi detentori di quote, per mezzo di una ritenuta alla fonte ap‑ plicata da tale organismo. Gli OICVM residenti in Danimarca che non hanno ottenuto lo status di fondi rientranti nell’articolo 16 C sono soggetti alla ritenuta alla fonte sui dividendi distribuiti da società residenti in tale Stato membro. 31 Dal fascicolo risulta, senza che ciò sia stato contestato dinanzi alla Corte, che, durante il periodo di cui trattasi nel procedimento principale, solo gli OICVM residen‑ ti in Danimarca potevano beneficiare di un’esenzione dalla ritenuta alla fonte. Dalle spiegazioni del governo danese e delle parti nel procedimento principale deriva che, sebbene un OICVM non residente in Danimarca possa in linea di principio soddisfare le condizioni previste all’articolo 16 C della ligningslov, esso non può beneficiare dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte sui dividendi distribuiti da società residenti, a motivo della sua qualità di organismo non residente in tale Stato membro. Sulla libertà di cui trattasi 32 Poiché la questione pregiudiziale è stata posta in relazione sia all’articolo 56 TFUE sia all’articolo 63 TFUE, occorre determinare, in via preliminare se, e in tal caso in che misura, una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedi‑ mento principale possa compromettere l’esercizio della libera prestazione dei servizi e della libera circolazione dei capitali. 33 A tal riguardo, da giurisprudenza consolidata risulta che dev’essere preso in considerazione l’oggetto della normativa in questione (sentenze del 13 novembre 2012, Test Claimants in the FII Group Litigation, C‑35/11, EU:C:2012:707, punto 90 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 5 febbraio 2014, Hervis Sport- és Divatkere‑ skedelmi, C‑385/12, EU:C:2014:47, punto 21 e giurisprudenza ivi citata). 34 Le controversie principali riguardano la domanda di rimborso delle ritenute alla fonte operate sui dividendi versati ai ricorrenti nel procedimento principale da società con sede in Danimarca tra il 2000 e il 2009 e la compatibilità con il diritto dell’Unione di una normativa nazionale che riserva la possibilità di beneficiare dell’e‑ senzione da una siffatta ritenuta alla fonte ai soli OICVM residenti in Danimarca che soddisfano le condizioni poste all’articolo 16 C della ligningslov. 35 La normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale ha quindi ad oggetto il trattamento fiscale di dividendi percepiti dagli OICVM. 36 Di conseguenza, si deve ritenere che la situazione di cui al procedimento prin‑ cipale rientri nella libera circolazione dei capitali. 37 Inoltre, ammesso che la normativa di cui trattasi nel procedimento principale ab‑ bia l’effetto di vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività di un OICVM con sede in uno Stato membro diverso dal Regno di Danimarca, ove fornisce legittimamente servizi analoghi, siffatti effetti sarebbero l’inevitabile conseguenza del trattamento fisca‑ le di cui sono oggetto i dividendi versati a tale OICVM non residente in Danimarca e non giustificano un esame autonomo alla luce della libera prestazione dei servizi (v., in tal senso, sentenza del 17 settembre 2009, Glaxo Wellcome, C‑182/08, EU:C:2009:559, punto 51 e giurisprudenza ivi citata). Infatti, tale libertà appare in questo caso secondaria


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rispetto alla libera circolazione dei capitali e può esservi ricollegata [sentenza del 26 maggio 2016, NN (L) International, C‑48/15, EU:C:2016:356, punto 41]. 38 Peraltro, dalle indicazioni del giudice del rinvio risulta che gli investimenti dei ricorrenti nel procedimento principale in Danimarca sono investimenti di portafoglio e non hanno mai superato il 10% del capitale di una società con sede in Danimarca ed è pacifico che la libertà di stabilimento non è oggetto della questione pregiudiziale. 39 Occorre, pertanto, rispondere alla questione pregiudiziale alla luce dell’arti‑ colo 63 TFUE. Sulla sussistenza di una restrizione alla libera circolazione dei capitali 40 Da una costante giurisprudenza risulta che le misure vietate dall’articolo 63, paragrafo 1, TFUE, in quanto restrizioni dei movimenti di capitali, comprendono quelle che sono idonee a dissuadere i non residenti dal fare investimenti in uno Stato membro o a dissuadere i residenti di detto Stato membro dal farne in altri Stati (sen‑ tenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC e a., da C‑338/11 a C‑347/11, EU:C:2012:286, punto 15 nonché giurisprudenza ivi citata). 41 Nel presente caso, in forza della normativa di cui trattasi nel procedimento principale, gli OICVM residenti in Danimarca e quelli residenti in un altro Stato mem‑ bro sono soggetti, per quanto riguarda i dividendi che sono loro distribuiti da società residenti in Danimarca, a un trattamento differenziato. 42 Infatti, i dividendi distribuiti dalle società residenti in Danimarca agli OICVM non residenti sono soggetti a una ritenuta alla fonte. Per contro, gli OICVM residenti in Danimarca possono beneficiare dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte per tali di‑ videndi, a condizione di soddisfare le condizioni dell’articolo 16 C della ligningslov. 43 Prelevando una ritenuta alla fonte sui dividendi versati agli OICVM non resi‑ denti e riservando ai soli OICVM residenti la possibilità di ottenere l’esenzione da una siffatta ritenuta alla fonte, la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento princi‑ pale opera un trattamento svantaggioso dei dividendi versati agli OICVM non residenti. 44 Siffatto trattamento svantaggioso è idoneo a dissuadere, da un lato, gli OICVM non residenti dall’effettuare investimenti in società con sede in Danimarca e, dall’al‑ tro, gli investitori residenti in Danimarca dall’acquistare quote in siffatti organismi (sentenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC e a., da C‑338/11 a C‑347/11, EU:C:2012:286, punto 17). 45 Pertanto, la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale in‑ tegra una restrizione alla libera circolazione dei capitali, vietata, in linea di principio, dall’articolo 63 TFUE. Sull’esistenza di una giustificazione 46 A norma dell’articolo 65, paragrafo 1, lettera a), TFUE, l’articolo 63 TFUE non pregiudica tuttavia il diritto degli Stati membri di applicare le pertinenti disposi‑ zioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale.


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47 Tale disposizione, costituendo una deroga al principio fondamentale della li‑ bera circolazione dei capitali, deve essere oggetto di interpretazione restrittiva. Per‑ tanto, essa non può essere interpretata nel senso che qualsiasi legislazione tributaria che operi una distinzione tra i contribuenti in base al luogo in cui essi risiedono o allo Stato membro in cui investono i loro capitali sia automaticamente compatibile con il Trattato FUE. Infatti, la deroga prevista all’articolo 65, paragrafo 1, lettera a), TFUE subisce essa stessa una limitazione per effetto dell’articolo 65, paragrafo 3, TFUE, il quale stabilisce che le disposizioni nazionali di cui al precedente paragrafo 1 «non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti di cui all’articolo 63 [TFUE]» (sentenza del 10 aprile 2014, Emerging Markets Series of DFA Investment Trust Company, C‑190/12, EU:C:2014:249, punti 55 e 56 e giurisprudenza ivi citata). 48 Le differenze di trattamento autorizzate dall’articolo 65, paragrafo 1, lettera a), TFUE devono pertanto essere mantenute distinte dalle discriminazioni vietate dall’ar‑ ticolo 65, paragrafo 3, TFUE. Orbene, dalla giurisprudenza della Corte risulta che, perché una normativa tributaria nazionale quale quella controversa nel procedimento principale possa essere considerata compatibile con le disposizioni del Trattato rela‑ tive alla libera circolazione dei capitali, è necessario che la differenza di trattamento riguardi situazioni che non sono oggettivamente comparabili o sia giustificata da ra‑ gioni imperative di interesse generale (sentenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC e a., da C‑338/11 a C‑347/11, EU:C:2012:286, punto 23 nonché giurisprudenza ivi citata). 49 Occorre, di conseguenza, esaminare se il fatto di riservare agli OICVM re‑ sidenti in Danimarca la possibilità di ottenere un’esenzione dalla ritenuta alla fonte sia giustificato da una differenza di situazione oggettiva tra gli OICVM residenti in Danimarca e gli OICVM non residenti. 50 A tale riguardo, dalla giurisprudenza della Corte deriva, da un lato, che la comparabilità o meno di una situazione transfrontaliera con una situazione interna dev’essere esaminata tenendo conto dell’obiettivo perseguito dalle disposizioni na‑ zionali in questione nonché dell’oggetto e del contenuto di queste ultime (sentenza del 2 giugno 2016, Pensioenfonds Metaal en Techniek, C‑252/14, EU:C:2016:402, punto 48 e giurisprudenza ivi citata). 51 Dall’altro lato, solo i criteri distintivi pertinenti fissati dalla normativa di cui trattasi devono essere presi in considerazione al fine di valutare se la differenza di trattamento risultante da siffatta normativa rispecchi una differenza di situazione og‑ gettiva (sentenze del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC e a., da C‑338/11 a C‑347/11, EU:C:2012:286, punto 28, nonché del 2 giugno 2016, Pensio‑ enfonds Metaal en Techniek, C‑252/14, EU:C:2016:402, punto 49). 52 Come risulta dalle osservazioni del governo danese, la normativa di cui trattasi nel procedimento principale ha l’obiettivo, da un lato, di assicurare l’uguaglianza tra l’onere fiscale gravante sui singoli che investono in società con sede in Danimarca


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tramite un OICVM e quello gravante sui singoli che investono direttamente in so‑ cietà con sede in Danimarca. Tale normativa eviterebbe così una doppia imposizione economica che si verificherebbe se i dividendi fossero assoggettati a imposta in capo all’OICVM interessato e in capo ai detentori di quote dello stesso. Dall’altro lato, detta normativa mirerebbe ad assicurare che i dividendi distribuiti da società con sede in Danimarca non sfuggano alla potestà impositiva del Regno di Danimarca a motivo della loro esenzione in capo agli OICVM e siano effettivamente soggetti una volta alla sua potestà impositiva. 53 Per quanto riguarda il primo obiettivo invocato dal governo danese, dalla giu‑ risprudenza della Corte deriva che, rispetto ai provvedimenti adottati da uno Stato membro al fine di prevenire o di attenuare l’imposizione a catena oppure la doppia imposizione economica dei redditi distribuiti da una società residente, le società be‑ neficiarie residenti non si trovano necessariamente in una situazione comparabile a quella delle società beneficiarie residenti di un altro Stato membro (sentenza del 25 ottobre 2012, Commissione/Belgio, C‑387/11, EU:C:2012:670, punto 48 e giurispru‑ denza ivi citata). 54 Tuttavia, a partire dal momento in cui uno Stato membro, in modo unilaterale o mediante convenzioni, assoggetta all’imposta sul reddito non soltanto le società residenti, ma anche quelle non residenti, per i redditi che esse ricevono da una società residente, la situazione di tali società non residenti si avvicina a quella delle società re‑ sidenti (v., in tal senso, sentenza del 25 ottobre 2012, Commissione/Belgio, C‑387/11, EU:C:2012:670, punto 49 e giurisprudenza ivi citata). 55 Infatti, è solo l’esercizio da parte di questo stesso Stato della propria competenza tributaria che genera, indipendentemente da qualsiasi assoggettamento a imposta in un altro Stato membro, un rischio d’imposizione a catena o di doppia imposizione econo‑ mica. In un caso siffatto, affinché le società beneficiarie non residenti non si trovino di fronte ad una limitazione della libera circolazione dei capitali, vietata, in linea di principio, dall’articolo 63 TFUE, lo Stato di residenza della società distributrice deve vigilare affinché, in relazione alla procedura prevista dal suo diritto nazionale allo scopo di prevenire o di attenuare l’imposizione a catena o la doppia imposizione economica, le società non residenti siano assoggettate ad un trattamento equivalente a quello di cui beneficiano le società residenti (v., in tal senso, sentenza del 25 ottobre 2012, Commis‑ sione/Belgio, C‑387/11, EU:C:2012:670, punto 50 e giurisprudenza ivi citata). 56 Poiché il Regno di Danimarca ha scelto di esercitare la propria competenza tributaria sui redditi percepiti dagli OICVM non residenti, questi si trovano di conse‑ guenza in una situazione comparabile a quella degli OICVM residenti in Danimarca per quanto riguarda il rischio di doppia imposizione economica dei dividendi versati dalle società residenti in Danimarca (sentenze del 20 ottobre 2011, Commissione/ Germania, C‑284/09, EU:C:2011:670, punto 58, nonché del 10 maggio 2012, Santan‑ der Asset Management SGIIC e a., C‑338/11 a C‑347/11, EU:C:2012:286, punto 42).


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57 Il secondo obiettivo evidenziato dal governo danese consiste, in sostanza, nell’intento di non rinunciare completamente all’assoggettamento a imposta dei di‑ videndi distribuiti dalle società residenti in Danimarca, ma di trasferire il livello della loro imposizione ai detentori di quote degli OICVM. Tale obiettivo è attuato preve‑ dendo che, al fine di beneficiare dello status di fondo rientrante nell’articolo 16 C, e di conseguenza dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte, un OICVM residente in Da‑ nimarca deve prelevare una ritenuta alla fonte a carico dei suoi detentori di quote sulla distribuzione minima che è stata loro effettivamente versata oppure, dopo le modifiche intervenute nel 2005, sulla distribuzione minima calcolata conformemente alle disposizioni dell’articolo 16 C della ligningslov. 58 Il Regno di Danimarca non può, per contro, assoggettare un OICVM non re‑ sidente a un siffatto obbligo di operare, sui dividendi che detto OICVM distribuisce, una ritenuta alla fonte, a beneficio di tale Stato membro. Un siffatto OICVM rientra nella potestà impositiva del Regno di Danimarca unicamente a motivo dei dividendi percepiti e la cui fonte si trova in tale Stato membro e non, in linea di principio, per quanto riguarda i dividendi distribuiti da tale organismo. 59 Tuttavia, tenuto conto dell’obiettivo, dell’oggetto e del contenuto della norma‑ tiva di cui trattasi nel procedimento principale, tale distinzione, che riflette peraltro la differenza tra un organismo residente in Danimarca e un organismo non residente, non dovrebbe essere ritenuta decisiva. 60 Infatti, se l’obiettivo della normativa di cui trattasi nel procedimento principa‑ le è di spostare il livello d’imposizione dal veicolo d’investimento verso l’azionista di tale veicolo, sono in linea di principio le condizioni materiali della potestà impositiva sui redditi degli azionisti che devono essere ritenute decisive, e non già la tecnica impositiva utilizzata. 61 Orbene, un OICVM non residente può avere detentori di quote con residenza fiscale in Danimarca e sui cui redditi tale Stato membro può esercitare la propria po‑ testà impositiva. Da questo punto di vista, un OICVM non residente si trova in una situazione oggettivamente comparabile a un OICVM residente in Danimarca. 62 Certamente, il Regno di Danimarca non può assoggettare a imposta i detentori di quote non residenti sui dividendi distribuiti da OICVM non residenti. Tuttavia, una siffatta impossibilità è coerente con la logica dello spostamento del livello d’imposi‑ zione dal veicolo all’azionista. 63 In tali circostanze, occorre constatare che il fatto di riservare ai soli OICVM residenti la possibilità di ottenere un’esenzione dalla ritenuta alla fonte non è giustifi‑ cato da una differenza di situazione oggettiva tra tali OICVM e quelli residenti in uno Stato membro diverso dal Regno di Danimarca. 64 Orbene, una siffatta restrizione può essere ammessa soltanto se è giustifica‑ ta da motivi imperativi di interesse generale, è idonea a garantire il conseguimento dell’obiettivo da essa perseguito e non eccede quanto è necessario per raggiungerlo (sentenza del 24 novembre 2016, SECIL, C‑464/14, EU:C:2016:896, punto 56).


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65 I governi che hanno presentato osservazioni alla Corte ritengono che la restrizio‑ ne alla libera circolazione dei capitali di cui al procedimento principale sia giustificata dalla necessità di preservare la coerenza del regime fiscale danese. I governi danese e dei Paesi Bassi ritengono, inoltre, che tale restrizione sia giustificata dalla necessità di assicurare la ripartizione equilibrata della potestà impositiva tra gli Stati membri. 66 Occorre esaminare, in primo luogo, se il fatto che uno Stato membro riservi la possibilità di ottenere un’esenzione dalla ritenuta alla fonte sui dividendi distribuiti da società residenti ai soli OICVM residenti possa essere giustificato dalla necessità di assicurare il mantenimento della ripartizione equilibrata della potestà impositiva tra gli Stati membri. 67 I governi danese e dei Paesi Bassi sostengono a tale proposito che obbligare il Regno di Danimarca ad accordare un’esenzione dalla ritenuta alla fonte sui dividen‑ di distribuiti agli OICVM non residenti, senza che esso possa prelevare un’imposta all’atto della distribuzione dei dividendi ai detentori di quote, equivarrebbe a costrin‑ gere lo Stato fonte di tali dividendi a non esercitare la propria competenza tributaria sui redditi prodotti sul suo territorio. 68 Percepire l’imposta sui dividendi ed escludere gli OICVM non residenti dal beneficio dell’esenzione di cui al procedimento principale consentirebbe di assicurare una ripartizione equilibrata della potestà impositiva e non eccederebbe quanto neces‑ sario, dato che il Regno di Danimarca non percepisce più di una volta l’imposta sui dividendi distribuiti agli OICVM non residenti e il trasferimento dell’assoggettamen‑ to a imposta verso la distribuzione da parte di tali organismi non è possibile. 69 A tale riguardo, va ricordato che il mantenimento della ripartizione della potestà impositiva tra gli Stati membri può certamente costituire una ragione imperativa d’inte‑ resse generale che consente di giustificare una restrizione all’esercizio di una libertà di circolazione all’interno dell’Unione europea (sentenza del 12 dicembre 2013, Imfeld e Garcet, C‑303/12, EU:C:2013:822, punto 68 nonché giurisprudenza ivi citata). 70 Una siffatta giustificazione può essere ammessa qualora, in particolare, il regime di cui trattasi sia inteso a prevenire comportamenti atti a porre a rischio il diritto di uno Stato membro di esercitare la propria potestà impositiva in relazione alle attività svolte sul suo territorio (sentenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC e a., da C‑338/11 a C‑347/11, EU:C:2012:286, punto 47 nonché giurisprudenza ivi citata). 71 Tuttavia, la Corte ha già dichiarato che, allorché uno Stato membro ha scel‑ to, come nella situazione di cui al procedimento principale, di non assoggettare ad imposta gli OICVM residenti beneficiari di dividendi d’origine nazionale, non può invocare la necessità di garantire una ripartizione equilibrata della potestà impositiva tra gli Stati membri per giustificare l’assoggettamento ad imposta degli OICVM non residenti beneficiari di tali redditi (sentenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC e a., da C‑338/11 a C‑347/11, EU:C:2012:286, punto 48 nonché giurisprudenza ivi citata).


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72 Peraltro, i dividendi distribuiti dalle società residenti in Danimarca agli OICVM non residenti sono già stati assoggettati a imposta nel Regno di Danimarca a titolo di utili della società distributrice. 73 La circostanza che l’assoggettamento a imposta dei dividendi sia trasferito in capo agli azionisti degli OICVM residenti non può giustificare la restrizione di cui al procedimento principale. 74 Infatti, da un lato, com’è stato rilevato al punto 61 della presente sentenza, il Regno di Danimarca dispone della potestà impositiva sui detentori di quote residenti degli OICVM non residenti. 75 Dall’altro lato, il fatto che uno Stato membro applichi la ritenuta alla fonte sui dividendi distribuiti agli OICVM non residenti, a motivo dell’impossibilità di tratte‑ nere l’imposta su tutte le distribuzioni effettuate da tali organismi, equivale non già a prevenire comportamenti idonei a compromettere il diritto di tale Stato membro di esercitare la propria competenza tributaria in relazione alle attività realizzate sul suo territorio, ma, al contrario, a compensare l’assenza della potestà impositiva derivante dalla ripartizione equilibrata della potestà impositiva tra gli Stati membri. 76 La necessità di preservare una siffatta ripartizione non può, pertanto, essere invocata al fine di giustificare la restrizione alla libera circolazione dei capitali di cui al procedimento principale. 77 In secondo luogo, occorre verificare se, come sostengono i governi che hanno depositato osservazioni dinanzi alla Corte, la restrizione derivante dall’applicazione della normativa tributaria di cui al procedimento principale possa essere giustificata dalla necessità di preservare la coerenza del regime fiscale danese. 78 Secondo tali governi, infatti, sussisterebbe un nesso diretto tra l’esenzione dalla ritenuta alla fonte per quanto riguarda i dividendi versati agli OICVM residenti e l’obbligo di tali OICVM di prelevare una ritenuta alla fonte sui dividendi che essi distribuiscono ai loro detentori di quote. 79 A tale riguardo, occorre ricordare che la Corte ha già dichiarato che la necessi‑ tà di preservare la coerenza di un regime fiscale può giustificare una normativa idonea a restringere le libertà fondamentali (sentenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC e a., da C‑338/11 a C‑347/11, EU:C:2012:286, punto 50 nonché giurisprudenza ivi citata). 80 Tuttavia, affinché un argomento fondato su una siffatta giustificazione possa essere accolto, secondo giurisprudenza costante occorre che sia dimostrata l’esistenza di un nesso diretto tra l’agevolazione fiscale di cui trattasi e la compensazione della stessa con un determinato prelievo fiscale, dovendosi determinare il carattere diretto del suddetto nesso alla luce della finalità della normativa in questione (sentenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC e a., da C‑338/11 a C‑347/11, EU:C:2012:286, punto 51 nonché giurisprudenza ivi citata). 81 A tale riguardo, com’è stato rilevato ai punti da 29 a 31 della presente senten‑ za, un OICVM può beneficiare di un’esenzione dalla ritenuta alla fonte sui dividendi


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distribuiti da una società residente in Danimarca a condizione, cumulativamente, di essere esso stesso residente in Danimarca e di operare una distribuzione minima o il calcolo di una distribuzione minima, sulle quali è riscossa una ritenuta alla fonte. 82 Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 72 delle sue conclusioni, la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale subordina l’esenzione degli OICVM residenti in Danimarca dalla ritenuta alla fonte alla condizione che essi operino una distribuzione minima, reale o fittizia, a vantaggio dei loro detentori di quote, i quali sono debitori di una ritenuta, prelevata a loro nome, da detti organismi. Il vantaggio così concesso agli OICVM residenti in Danimarca, sotto forma di un’e‑ senzione dalla ritenuta alla fonte, viene, in linea di principio, compensato dall’assog‑ gettamento a imposta dei dividendi, ridistribuiti da tali organismi, in capo ai detentori di quote di questi ultimi. 83 Occorre ancora verificare se il fatto di riservare ai soli OICVM residenti in Danimarca la possibilità di beneficiare dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte non ecceda quanto necessario al fine di garantire la coerenza del regime fiscale di cui al procedimento principale. 84 Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 80 delle sue conclusioni, la coerenza interna del regime fiscale di cui al procedimento principale potrebbe essere mantenuta se gli OICVM residenti in uno Stato membro diverso dal Regno di Danimar‑ ca che soddisfano le condizioni dell’articolo 16 C della ligningslov potessero beneficia‑ re dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte, a condizione che le autorità fiscali danesi si accertino, con la piena collaborazione di tali organismi, che questi ultimi versino un’im‑ posta equivalente a quella che i fondi rientranti nell’articolo 16 C residenti in Danimarca devono trattenere, come ritenuta, sulla distribuzione minima calcolata in conformità a tale disposizione. Permettere a siffatti OICVM di beneficiare di detta esenzione, in tali circostanze, costituirebbe una misura meno restrittiva del regime attuale. 85 Inoltre, il rifiuto di accordare agli OICVM residenti in uno Stato membro di‑ verso dal Regno di Danimarca che soddisfano le condizioni dell’articolo 16 C della ligningslov il beneficio dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte conduce a un’imposi‑ zione a catena dei dividendi versati ai loro detentori di quote residenti in Danimarca, circostanza che contrasta proprio con l’obiettivo perseguito dalla normativa nazionale. 86 Di conseguenza, occorre constatare che la restrizione derivante dall’applica‑ zione della normativa tributaria di cui trattasi nel procedimento principale non può essere giustificata dalla necessità di preservare la coerenza del regime fiscale. 87 Alla luce delle precedenti considerazioni, si deve rispondere alla questione posta dichiarando che l’articolo 63 TFUE dev’essere interpretato nel senso che osta a una normativa di uno Stato membro, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in forza della quale i dividendi distribuiti da una società residente in tale Stato membro a un OICVM non residente sono soggetti a una ritenuta alla fonte, mentre i dividendi distribuiti a un OICVM residente nel medesimo Stato membro sono esenti da una siffatta ritenuta, a condizione che tale organismo operi una distri‑


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buzione minima ai suoi detentori di quote, o calcoli tecnicamente una distribuzione minima, e prelevi un’imposta su tale distribuzione minima reale o fittizia a carico dei suoi detentori di quote. Sulle spese 88 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costitu‑ isce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara: L’articolo 63 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa di uno Stato membro, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in forza della quale i dividendi distribuiti da una società residente in tale Stato membro a un organismo d’investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) non residente sono soggetti a ritenuta alla fonte, mentre i dividendi distribuiti a un OICVM residente nel medesimo Stato membro sono esenti da una siffatta ritenuta, a condizione che tale organismo operi una distribuzione minima ai suoi detentori di quote, o calcoli tecni‑ camente una distribuzione minima, e prelevi un’imposta su tale distribuzione minima reale o fittizia a carico dei suoi detentori di quote. (Omissis)

(1) La compatibilità europea di regimi differenziati applicabili a dividendi distribuiti a OICVM transfrontalieri. Sommario: 1. Fatti all’origine della controversia: il regime differenziato danese e la libera circolazione dei capitali. – 2. Il regime differenziato danese come restrizione alla libera circolazione dei capitali. – 3. La restrizione del regime differenziato danese potrebbe essere giustificata dall’ordinamento europeo. – 3.1. Alla luce dei criteri specifici previsti dal Trattato per giustificare la restrizione alla libera circolazione dei capitali. – 3.1.1. I criteri che richiedono la comparabilità tra OICVM residenti e non residenti alla luce degli obiettivi del regime danese. – 3.1.1.1. Quello di evitare la doppia imposizione. – 3.1.1.2. Quello di trasferire l’esercizio della competenza tributaria a livello dei detentori di quote. – 3.1.2. L’importanza della sentenza che si annota. – 3.1.2.1. Il requisito della distribuzione minima e la differenza rispetto a Santander. – 3.1.2.2. I criteri per comparare residenti e non residenti ai fini della discriminazione vengono utilizzati anche per la giustificazione. – 3.2. Alla luce dei criteri generali elaborati in via interpretativa dalla giurisprudenza della Corte per giustificare le restrizioni alle libertà economiche. – 3.2.1. La necessità di preservare la coerenza del regime fiscale. – 4. Conclusioni. La Corte di giustizia ha ritenuto contrario alla libera circolazione dei capitali un regime diffe‑ renziato quale quello danese in materia di dividendi distribuiti a OICVM non residenti o residenti. Nel primo caso è prevista l’applicazione di una ritenuta, nel secondo caso i dividendi sono invece esenti a condizione che l’OICVM operi o calcoli una distribuzione minima e prelevi un’impo‑ sta su tale distribuzione a carico dei detentori di quote. Per via dell’esistenza di tale obbligo, ai


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detentori di quote residenti di OICVM residenti e non residenti dovrebbe applicarsi lo stesso regime. Di conseguenza l’applicazione della ritenuta agli OICVM non residenti, senza tenere in considerazione la diversa situazione dei detentori di quote, comporta una restrizione della libera circolazione dei capitali non giustificata né alla luce dei Trattati, né alla luce delle ragioni impera‑ tive elaborate in via interpretativa dalla Corte. The Court of Justice considered contrary to the free movement of capitals a regime such as the Danish one. The latter provides for the application of a withholding tax only to the dividends distributed to non resident UCITS. On the contrary, the dividends distributed to resident UCITS are exempted if the UCITS makes or calculates a minimum distribution and a tax is retained to the distribution in relation to the undertakings’ members. Because of the existence of such requirement, the same regime should be applied to resident undertakings’ members. Accordingly, the fact that the withholding tax is applied to non residents UCITS without taking into account the different situation of the undertakings’ members, amounts to a restriction of the free movement of capitals which is not justified neither by the Treaties, nor by the overriding reasons of general interest recognized by the case-law of the CJEU.

1. Fatti all’origine della controversia, il regime differenziato danese e la libera circolazione dei capitali. – La questione pregiudiziale sottoposta alla Corte ha origine da un ricorso proposto da fondi di investimento con sede nel Regno Unito e in Lussemburgo e concerne la compatibilità rispetto all’ordina‑ mento europeo del regime differenziato danese che prevede l’applicazione di una ritenuta alla fonte ai soli OICVM (fondi di investimento comune in valori mobiliari) non residenti e non a quelli residenti per i quali è invece prevista un’esenzione a condizione che questi effettuino una distribuzione minima o procedano al calcolo di una distribuzione minima soggetta a imposta a carico dei detentori di quote (1). Il giudice danese solleva la questione pregiudiziale

(1) Più specificamente, il ricorso aveva ad oggetto domande di rimborso di ritenute operate tra il 2000 e il 2009. Ai sensi dell’articolo 65 della legge sulla ritenuta alla fonte danese, a ogni di‑ stribuzione di dividendi da parte di una società danese deve essere applicata una ritenuta alla fonte; l’aliquota alla quale praticare la ritenuta doveva essere pari al 25% nel 2000 e al 28% tra il 2001 e il 2009. Qualora tra la pubblica amministrazione dello Stato interessato e la pubblica amministrazio‑ ne danese esista una convenzione diretta a prevenire le doppie imposizioni oppure sull’assistenza in materia fiscale, l’aliquota è ridotta al 15%. L’aliquota può anche essere ulteriormente ridotta sulla base di una convenzione tra lo Stato interessato e la Danimarca. Tuttavia, ai sensi dell’articolo 38 del decreto ministeriale danese, ogni OICVM può farsi rilasciare un certificato di esenzione qualora dimostri di essere un organismo disciplinato dall’articolo 1, paragrafo 1, punto 6 della legge danese sulle società (requisito che corrisponde all’avere la residenza in Danimarca) e possa beneficiare dello status di cui all’articolo 16 C dello stesso decreto ministeriale. Tale norma, fino al


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rispetto sia alla libera circolazione dei capitali, sia alla libera prestazione dei servizi (2). Gli OICVM sono fondi che, pur conformi ai requisiti minimi previsti dalla direttiva 85/611/CEE (3), applicabile ai fatti oggetto della controversia, sono per molti aspetti disciplinati da norme nazionali, le quali devono essere com‑ patibili con l’ordinamento europeo e in particolare con le libertà economiche che caratterizzano il mercato. L’esercizio di queste ultime, come è noto, può essere limitato proprio da regimi fiscali quale quello adottato dalla Danimar‑ ca (4). Nel giudicare della libertà applicabile a tale regime differenziato da‑

2005, prevedeva che l’OICVM distribuisse un importo minimo determinato. A partire dalla legge n. 407 del 1° gennaio 2005, il requisito della distribuzione minima è stato sostituito da quello del calcolo di una distribuzione minima soggetta a imposta in capo ai suoi detentori di quote tramite ritenuta alla fonte prelevata dal fondo. La ratio della previsione relativa alla distribuzione minima era quello di rendere più semplice agli OICVM esteri beneficiare dello status di cui all’articolo 16C, non costringendo i fondi ad adeguarsi alla politica di distribuzione danese. (2) Secondo il governo danese, il fatto di dover soddisfare il requisito della residenza in Danimarca, necessario per poter beneficiare dell’esenzione, determinerebbe una violazione della libera circolazione di capitali. Inoltre il requisito della distribuzione minima sarebbe con‑ trario alla libera prestazione dei servizi, poiché imporre agli OICVM non residenti di effettuare una distribuzione minima per poter beneficiare dell’esenzione, quando ricevono dividendi da una società danese, significherebbe costringerli ad adeguarsi alla normativa dello Stato dei detentori di quote, quando questi sono costituiti in conformità alla normativa del loro stato di residenza. Per quanto riguarda il requisito della distribuzione minima, gli OICVM sostengono di non aver alcun interesse a soddisfarla poiché non potrebbero in ogni caso beneficiarne in quanto non residenti. (3) Occorre specificare che si è mantenuto il riferimento alla direttiva 85/611/CE, ripetuta‑ mente modificata prima di essere abrogata, con effetto al 1o luglio 2011, dalla direttiva 2009/65/ CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 luglio 2009, che ha proceduto alla sua rifu‑ sione, poiché questa era la direttiva applicabile e rilevante in merito alle domande di rimborso di ritenute operate sui dividendi versati da società danesi a OICVM fra il 2000 e il 2009. (4) Poiché la sentenza concerne l’applicazione della ritenuta ai soli redditi in uscita e, più specificamente in questo caso, quelli destinati a OICVM non residenti dalle società in cui hanno investito, la sentenza si inserisce nell’ampio filone giurisprudenziale che concerne la tassazione dei dividendi in uscita in situazioni transnazionali alla luce delle libertà previste dal Trattato. Se‑ condo la dottrina, una delle principali problematicità della giurisprudenza della Corte in materia di imposte sui redditi è dovuta al fatto che la Corte tenti di eliminare le discriminazioni sia dal punto di vista dell’origine, sia della destinazione dell’attività economica, nel caso di specie dei dividen‑ di. Per questa ragione, si è soliti classificare le sentenze della Corte di Giustizia sulla base della distinzione tra casi host-State e casi origin-State a secondo che i soggetti subiscano trattamento discriminatorio in un altro Stato membro, ove esercitano le libertà previste dal Trattato oppure che lo subiscano nel loro Stato di origine quando esercitano libertà verso altri Stati membri. Per quanto riguarda, più in generale, la giurisprudenza relativa alla tassazione dei dividendi in situazioni transnazionali, al di là della direttiva 2011/96/UE (cd direttiva madre figlia) vedi


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nese, la Corte segue un percorso argomentativo parzialmente diverso dalla giurisprudenza precedente (5). In quei casi la Corte aveva sostenuto la valu‑ tazione alla luce della libera circolazione dei capitali a partire dal significato da attribuirsi all’espressione movimento di capitali. Qui, invece, definisce la scelta della libertà applicabile sulla base del rilievo primario o secondario delle libertà potenzialmente applicabili nel caso di specie: non si definisce la nozione di movimento di capitali oppure quella di prestazione dei servizi, og‑ getto della seconda delle libertà potenzialmente applicabili al caso di specie, ma si concentra sugli effetti del regime in relazione a entrambe, escludendo quella la cui violazione risulti solo secondaria. Come anticipato, gli OICVM sono per molti aspetti disciplinati da fonti europee (6). Queste prevedono norme minime comuni per quanto riguarda

M.J. Graetz, A.C. Warren, Dividend taxation in Europe: when the ECJ makes tax policy, in Common Market Law Review, 2007, 1577 ss.; Lieven Denys, The ECJ case law on cross-border dividends revisited, in European Taxation, 2007, 221 ss.; C. Setti, Difference in treatment and comparability under EU law: a path through the direct tax case law of the Court of Justice of the EU, in Dir. prat. trib. internazionale, n. 3/2014, 813 ss. Per quanto riguarda le sentenze più importanti vedi sentenza del 19 gennaio 2006, causa C-265/04, Margaretha Bounaich contro Skatteverket, EU:C:2006:51; sentenza del 14 dicembre 2006, causa C-170/05, Denkavit Internationaal BV and Denkavit France SARL contro Mini‑ stre de l’Économie, des Finances et de l’Industrie, EU:C:2006:783; sentenza del 8 novembre 2007, causa C-379/05, Amurta SGPS contro Inspecteur van de Belastingdienst/Amsterdam, EU:C:2007:655; sentenza del 18 giugno 2009, causa C-303/07, Aberdeen Property Fininvest Alpha Oy, EU:C:2009:377; sentenza del 22 dicembre 2008, causa C-282/07, Stato belga – SPF Finances contro Truck Center SA, EU:C:2008:762; sentenza del 28 gennaio 1986, causa C-270/83, Commissione delle Comunità Europee contro Repubblica Francese, EU:C:1986:37; sentenza del 12 dicembre 2006, causa C-374/04, Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation e Commissioners of Inland Revenue, EU:C:2006:773; sentenza del 26 giugno 2008, causa C-284/06, Finanzamt Hamburg-Am Tierpark contro Burda GmbH, EU:C:2008:365; sen‑ tenza del 14 novembre 2006, causa C-513/04, Mark Kerckhaert e Bernadette Morres contro Belgische Staat, EU:C:2006:713; sentenza del 16 luglio 2009, causa C-128/08, Jacques Damse‑ aux contro Stato belga, EU:C:2009:471; sentenza del 20 maggio 2008, causa C-194/06, Staats‑ secretaris van Financiën e Orange European Smallcap Fund NV, EU:C:2008:289; sentenza del 7 settembre 2004, causa C-319/02, Petri Manninen, EU:C:2004:484; sentenza del 12 dicembre 2006, causa C-446/04, Test Claimants in the FII Group Litigation contro Commissioners of Inland Revenue, EU:C:2006:774; sentenza del 10 febbraio 2011, causa C-436/08 e 437/08, Haribo Lakritzen Hans Riegel BetriebsgmbH, EU:C:2011:61. (5) Sentenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management, cause riunite da C-338/11 a C-347/11, EU:C:2012:286 e sentenza del 26 maggio 2016, NN (L) International, causa C-48/15, EU:C:2016:356. (6) La direttiva 85/611/CEE, applicabile al momento dei fatti, definiva gli OICVM orga‑ nismi il cui oggetto esclusivo è l’investimento collettivo in valori mobiliari dei capitali raccolti


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l’autorizzazione, il controllo, la struttura, le attività e le informazioni che tali organismi sono tenuti a pubblicare al fine di favorire la creazione di un mer‑ cato europeo dei capitali (7), lasciando ai singoli Stati la scelta del regime fiscale. Sebbene quest’ultima sia rimessa alla sovranità nazionale, secondo giurisprudenza consolidata della Corte, ciò non toglie tuttavia che gli Stati membri sono tenuti ad esercitare le competenze loro attribuite nel rispetto del diritto comunitario (8) e, in particolare, nel rispetto delle libertà previste dal Trattato. Di fronte al rinvio pregiudiziale danese, che pone la questione della compatibilità della prevista ritenuta rispetto sia alla libera circolazione dei capitali sia alla libera circolazione dei servizi (9), la Corte ritiene che il regime fiscale determini in primo luogo una restrizione rispetto al trattamento fiscale dei redditi di tali organismi e, solo in secondo luogo, riguardi le condizioni di accesso al mercato; di conseguenza, il giudizio dovrà essere svolto alla luce della libera circolazione dei capitali. Dunque, la Corte afferma che la libertà applicabile sia quella di cui all’articolo 63 TFUE in quanto, sebbene la norma danese violi anche la libera circolazione dei servizi, tale violazione sarebbe soltanto secondaria rispetto alla libera circolazione dei capitali.

presso il pubblico, il cui funzionamento è soggetto al principio della ripartizione dei rischi e le cui quote sono, su richiesta dei portatori, riacquistate o rimborsate, direttamente o indiretta‑ mente, a carico del patrimonio dei suddetti organismi (Art. 1 comma 2 Direttiva 85/611/CEE del Consiglio del 20 dicembre 1985 che concerne il coordinamento delle disposizioni legisla‑ tive, regolamentari ed amministrative in materia di taluni organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari). Gli OICVM vengono solitamente ascritti alla più generale categoria dei fondi comuni d’investimento e cioè quei fondi che si caratterizzano per la costituzione di un patrimonio autonomo tramite emissione di quote al fine di investire tale patrimonio secondo una politica di investimento predeterminata. Il fondo viene gestito a monte, nell’interesse dei partecipanti e in autonomia dai medesimi (Art. 1 comma 1, lett. j), TUF (d.lgs. n 58/1998, modificato dal d.l. n. 78/2010, conv. con modif. in l. n. 122/2010). Ai fondi, che condividono la funzione economica, si affianca la società di gestione (G. Corasaniti, Le attività finanziarie nel diritto tributario, 2012, EGA, 515 ss.). (7) Questo obiettivo viene reso esplicito dal considerando n. 4 della direttiva. (8) Sentenza del 14 febbraio 1995, Finanzamt Köln-Altstadt contro Roland Schumacker, causa C-279/93, EU:C:1995:31, punto 21. (9) Infatti, da un lato, il requisito della residenza fiscale in Danimarca violerebbe la libera circolazione di capitali, in quanto istituisce un trattamento differenziato degli OICVM a seconda del loro Stato di residenza. Al contrario, la condizione relativa alla distribuzione mi‑ nima sarebbe contraria alla libera prestazione dei servizi in quanto costringerebbe gli OICVM, che solitamente vengono costituiti conformemente alla normativa dello Stato di residenza dell’OICVM stesso, a costituirsi secondo la legislazione dello Stato di residenza dei detentori di quote. Imporre a uno Stato membro tale condizione limiterebbe il diritto degli OICVM di prestare liberamente servizi nel territorio dell’Unione.


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La natura della libera circolazione di capitali quale libertà di confine, la cui limitazione comporta talvolta anche una limitazione della libera circola‑ zione dei servizi e della libertà di stabilimento, aveva già portato la Corte a pronunciarsi in varie occasioni riguardo i criteri da utilizzarsi in tale scel‑ ta (10). Sebbene la soluzione sia conforme ai precedenti giurisprudenziali, la Corte argomenta in modo diverso rispetto a Glaxo Wellcome (11), il pre‑

(10) La distinzione tra libera circolazione dei capitali, libertà di stabilimento e libera cir‑ colazione dei servizi risulta particolarmente rilevante, al di là del caso di specie, se si pensa al fatto che soltanto la libera circolazione dei capitali si applica anche ai paesi terzi. La giurispru‑ denza della Corte, che si sviluppa attraverso le decisioni sentenza del 3 ottobre 2006, Fidium Fi‑ nanz, causa C452/04, EU:C:2006:631; sentenza del 10 maggio 2017, Lasertec Gesellschaft für Stanzformen mbH e Finanzamt Emmendingen, causa C-492/04, EU:C:2007:273;sentenza del 24 maggio 2007, Winfried L. Holböck e Finanzamt Salzburg-Land, C-157/05, EU:C:2007:297; sentenza del 12 settembre 2006, Cadbury Schweppes plc, Cadbury Schweppes Overseas Ltd contro Commissioners of Inland Revenue, causa C-196/04, EU:C:2006:544; sentenza del 13 marzo 2007, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation contro Commissioners of Inland Revenue, causa C-524/04, EU:C:2007:161; sentenza del 18 dicembre 2007, Skatteverket e A., causa C101/05, EU:C:2007:804; sentenza del 6 dicembre 2007, Columbus Container Services BVBA & Co. E Finanzamt Bielefeld-Innenstadt, C-298/05, EU:C:2007:754 è spesso poco chia‑ ra. L’attenzione della Corte ai criteri utilizzati per scegliere la libertà applicabile si giustifica proprio in vista del fatto che quest’ultima voglia evitare che la libera prestazione dei servizi e la libertà d stabilimento vengano applicate anche ai paesi terzi per mezzo dell’applicazione della libera circolazione dei capitali. Terra B. J. M. e Wattel P. J. (B.J.M. Terra e P.J. Wattel, European Tax Law, Wolters Kluwer, 2012, 79), vedono una certa coerenza nella giurisprudenza della Corte relativa alla scelta tra libera circolazione dei capitali e libertà di stabilimento. In particolare, secondo gli autori, la Corte distinguerebbe: a) la legislazione specificamente rivolta a interessi maggioritari nelle società, o almeno a situazioni di influenza ben definite nella gestione della società (ad esempio thin cap legislation, legislazione sulle società estere controllate, legislazione sui prezzi di trasferimento etc.); b) legislazione che si occupa specificamente partecipazioni nel portafogli, il cui oggetto e scopo rivela che, se anche vi fosse una situazione di sicura influenza, questo sarebbe solo casuale; c) legislazione generica, che si rivolge a tutti gli azionisti a prescindere dall’entità della partecipazione e che, quindi, è destinata ad avere un’incidenza su ogni tipo di interesse, che sia di controllo o di portafogli (ad esempio le ritenute alla fonte sui dividendi). In via di principio, le misure di cui alla lettera a) sono esaminate alla luce della libertà di stabilimento, le misure nazionali di cui alla lettera b) sono invece esaminate alla luce della li‑ bera circolazione dei capitali. Per quanto riguarda invece le misure di cui alla lettera c), queste vengono esaminate alla luce dell’una o dell’altra libertà, a seconda dei fatti oggetto del caso di specie. Sul tema vedi anche Den Boer S., Freedom of establishment versus free movement of capital: ongoing confusion at the ECJ and in the National Courts?, in European Taxation, 2010, 250. (11) Sentenza del 17 settembre 2009, Glaxo Wellcome GmbH & Co. KG v Finanzamt München II, causa C-182/08, EU:C:2009:559, ECLI:EU:C:2006:131, punto 49.


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cedente richiamato dalla Corte a suffragio dell’applicazione della libera cir‑ colazione dei capitali. In quest’utilma sentenza la Corte aveva innanzitutto definito il significato da attribuirsi all’espressione movimento di capitali per decidere dell’applicabilità o meno dell’articolo 63 TFUE; nella sentenza che si annota arriva alla scelta della libera circolazione dei capitali per esclusione, dopo aver appurato la rilevanza secondaria della libera prestazione di servizi. Probabilmente tale scelta argomentativa può ricondursi, da un lato, alla dif‑ ficoltà di definire in positivo cosa si intenda per movimento di capitali (12) (tanto che nel precedente giurisprudenziale appena menzionato la Corte aveva fatto riferimento alla nomenclatura allegata alla direttiva 88/361/CEE (13)), dall’altro, alla natura di libertà di confine della libera circolazione dei capitali che implica che operazioni che possono rientrare nella definizione di movimenti di capitali possano essere oggetto di giudizio anche alla luce di altre libertà (14). Sembra dunque che la Corte abbia abbandonato il tentativo di definire che cosa si intenda per movimento di capitali per concentrarsi sugli effetti di un determinato regime e, prestando particolare attenzione all’entità della violazione, abbia escluso l’applicabilità di quella delle due libertà che sia ritenuta secondaria. Questa scelta sembra coerente con il crescente numero di sentenze della Corte in materia fiscale decise alla luce della libera circola‑ zione dei capitali, libertà nei confronti della quale la Corte aveva dimostrato un’iniziale diffidenza (15). Se un regime quale quello danese è suscettibile di limitare la libera cir‑ colazione dei capitali e, in via secondaria, la libera circolazione dei servizi, è altrettanto vero che limitazioni alla libera circolazione dei capitali possono avere conseguenze anche sulla libertà di stabilimento, tanto che la stessa for‑

(12) L’assenza di una definizione di libera circolazione dei capitali era stata sottolineata anche dalla Corte. Vedi sentenza del 23 febbraio 2006, Eredi di M.E.A. van Hilten-van der Heijden e Inspecteur van de Belastingdienst/Particulieren/Ondernemingen buitenland te Heer‑ len, causa C-513/03, punto 39. (13) La direttiva del Consiglio 24 giugno 1988, 88/361/CEE, è volta all’attuazione dell’articolo 67 del Trattato (articolo abrogato dal Trattato di Amsterdam) (GU L 178, p. 5). (14) Occorre specificare che, malgrado la Corte richiami Glaxo Welcome in relazione alla scelta tra libera circolazione dei capitali e libera prestazione dei servizi, quest’ultima riguarda‑ va, più specificamente, una causa in cui si doveva scegliere tra libera circolazione dei capitali e libertà di stabilimento. (15) P. Marchessou, B. Trescher, Droit fiscal international et europeen, Bruylant – Fi‑ nances Publiques – Public Finance, 2018, 153 ss.


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mulazione dell’articolo 63 TFUE, nel Trattato di Maastricht (16), sottolineava la prossimità e l’interdipendenza tra queste due ultime libertà. Tuttavia, non essendo la libertà di stabilimento oggetto del rinvio pregiudiziale, la Corte non indaga se, al pari di ciò che accade rispetto alla libera circolazione dei servizi, il regime danese limiti anche tale libertà e, in caso di risposta affermativa, se tale limitazione sia o meno secondaria rispetto a quella della libera circolazio‑ ne dei capitali. La Corte esclude esplicitamente l’esame alla luce dell’articolo 49 TFUE (17) in quanto la libertà di stabilimento non è oggetto della questione pregiudiziale (18). In tal modo, la Corte sembra suggerirci che, in caso di dubbio sulla libertà applicabile, la scelta andrà compiuta avendo riguardo soltanto alle libertà oggetto delle questioni pregiudiziali (19).

(16) La complementarietà della libertà di circolazione dei capitali rispetto alla libertà di stabilimento, che rende talvolta problematica la scelta tra l’una e l’altra problematica, è sottoli‑ neata non soltanto dalla dottrina ma anche dal Trattato laddove, all’articolo 65 TFUE, afferma che le disposizioni di cui al capo relativo alla libera circolazioni dei capitali non debbono co‑ munque pregiudicare le restrizioni alla libertà di stabilimento considerate compatibili coi Trat‑ tati. Lo stesso articolo 49 TFUE, che prevede il divieto di restrizioni alla libertà di stabilimento, dispone che debbano essere fatte salve le norme di cui al capo relativo ai capitali. In tal senso vedi B. Trescher, P. Marchessou, Droit fiscal international et européen, cit. B.J.M. Terra, P.J. Wattel, European Tax Law, cit., 77. (17) L’articolo 49 TFUE prevede la libertà di stabilimento. (18) Sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, Fidelity Investment Funds, Fidelity Institutional Funds contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2018:480, punto 38. (19) Ai fini della scelta tra libera circolazione dei capitali e libertà di stabilimento, di particolare interesse risultano le sentenze Cadbury Schweppes (sentenza del 12 settembre 2006, Cadbury Schweppes plc e Cadbury Schweppes Overseas Ltd contro Commissioners of Inland Revenue, causa C-196/04 EU:C:2006:544) e Test Claimants (sentenza del 12 dicembre 2006, Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation e Commissioners of Inland Reve‑ nue, causa C-374/04, EU:C:2006:773) che vengono richiamate anche nel caso che si annota (sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, Fidelity Investment Funds, Fidelity Institutio‑ nal Funds contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2018:480, punto 33). Queste ulti‑ me affrontavano la questione della scelta tra libertà di stabilimento e libera circolazione dei capitali, questione che, malgrado il rinvio pregiudiziale non faccia riferimento alla libertà di stabilimento, viene affrontata dall’avvocato generale anche nel caso di specie. Secondo la giu‑ risprudenza pregressa della Corte, la libertà di stabilimento andrebbe applicata relativamente alle norme nazionali destinate ad applicarsi solo alle partecipazioni che consentano di avere una sicura influenza sulle decisioni delle società e di determinarne le attività. Qualora, invece, le partecipazioni siano state acquisite al solo scopo di realizzare un investimento finanziario, si applicherà la libera circolazione dei capitali (sentenza del 13 novembre 2012, Test Claimants in the FII Group Litigation contro Commissioners of Inland Revenue, The Commissioners for Her Majesty’s Revenue & Customs, causa C-35/11, punti 91 e 92). In Fidelity Funds l’avvocato generale, riprendendo quanto già affermato proprio in Cadbury Schweppes e Test Claimants , sottolinea che le partecipazioni effettuate al solo scopo di effettuare un investimento, senza


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2. Il regime differenziato danese come restrizione alla libera circolazione dei capitali. – La libera circolazione dei capitali potrebbe essere quin‑ di essere oggetto di restrizioni per effetto di un regime fiscale come quello danese che prevede la ritenuta per gli OICVM non residenti e l’esenzione per quelli residenti. Come più volte affermato dalla Corte, l’esistenza di una restrizione dipende dagli effetti dissuasivi dell’investimento del regime fiscale differenziato; effetti dissuasivi riguardo i quali la Corte aveva già avuto modo di pronunciarsi nel precedente giurisprudenziale Santander (20). In tale sen‑ tenza la Corte aveva affermato che l’applicazione di una ritenuta alla fonte soltanto per gli OICVM non residenti sarebbe idonea a dissuadere gli OICVM non residenti dall’effettuare investimenti in società con sede in Danimarca e a dissuadere gli investitori residenti dall’acquistare quote in organismi non residenti in Danimarca (21).

intenzione di influire sulla gestione e sul controllo dell’impresa, debbono essere esaminate alla luce della libera circolazione dei capitali. Poiché le partecipazioni non hanno mai ecceduto il 10% del capitale sociale delle società danesi, non si può affermare che queste ultime consentano di influire sulla gestione e sul controllo dell’impresa (conclusioni dell’avvocato generale del 20 dicembre 2017, Fidelity Funds e.a. contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2018:480, punto 22). Sembra quindi che l’avvocato generale faccia riferimento ad un criterio meramente quantitativo per determinare se vi sia influenza sulla gestione e sul controllo della società A sottolineare l’importanza, seppur non l’unicità, del dato quantitativo dell’ampiezza della par‑ tecipazione nella scelta della libertà applicabile, vedi sentenza del 17 settembre 2009, Glaxo Wellcome GmbH & Co. KG v Finanzamt München II, causa C-182/08, punto 49). La Corte ri‑ prende il dato della partecipazione inferiore al 10% per argomentare riguardo la non applicabili‑ tà della libera prestazione di servizi al caso di specie nella sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds e.a. contro Skatteministeriet, causa C-480/16, anche la sentenza del 19 luglio 2012, causa C-31/11, Marianne Scheunemann contro Finanzamt Bremerhaven, EU:C:2012:481, punti 24, 25 e 28 in cui si dice che per stabilire a quale libertà sia da ricondurre la normativa nazionale in discussione nel procedimento principale, occorre verificare se la partecipazione considerata nella menzionata legislazione sia sufficiente per consentire al suo detentore di esercitare una sicura influenza sulle decisioni di una società e di determinarne le attività. Nel caso di specie […] la possibilità di usufruire delle agevolazioni tributarie di cui trattasi è subordinata alla condizione di detenere una partecipazione diretta superiore al 25% nel capitale della società. Tale tetto di partecipazione consente al detentore di quote in una società di capitali d’influire sulla gestione e sul controllo della stessa e ha previsto delle condizioni dirette a garantire che tale detentore non intervenga unicamente con l’esclusiva intenzione di realizzare un investimento finanziario). (20) Sentenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC e a., cause da C-338/11 a 347/11, EU:C:2012:286, punto 15 e sentenza del 26 maggio 2016, NN (L) Interna‑ tional, causa C-48/15, EU:C:2012:286. (21) Il fatto che, nel caso di specie, si applicasse una convenzione contro la doppia impo‑ sizione che prevedeva una riduzione dell’aliquota sui dividendi distribuiti non vale a modificare


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Pertanto, anche il regime differenziato danese, che applica la ritenuta sol‑ tanto ai dividendi distribuiti a OICVM non residenti, potrebbe dissuadere da investire capitali in altri Stati membri e, per questo, qualificarsi come restri‑ zione, piuttosto che come discriminazione, della libera circolazione dei capi‑ tali. Le libertà previste dal Trattato constano, infatti, di due aspetti: un diritto di circolazione transnazionale o di accesso al mercato, incluso il diritto di lasciare lo Stato di partenza senza incontrare ostacoli, e un diritto di parità nel mercato, cioè il divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità. Le misure restrittive delle libertà sono quelle che ostacolano l’accesso al mercato. Si distinguono dalle misure discriminatorie in quanto vengono applicate senza distinzioni, a prescindere dal fatto che esista una situazione comparabile sul piano nazionale (22). Ciò non di meno, sia le misure restrittive, sia le misure discriminatorie sono incompatibili con le libertà previste dal Trattato. Nella sentenza che si annota la Corte rinviene proprio negli effetti potenzialmente dissuasivi rispetto all’accesso al mercato l’esistenza di una restrizione. 3. La restrizione del regime differenziato danese potrebbe essere giustificata dall’ordinamento europeo. 3.1. Alla luce dei criteri specifici previsti dal Trattato per giustificare la restrizione alla libera circolazione dei capitali. – Un regime di ritenuta, quale quello oggetto della sentenza che si annota, restrittivo della libera circola‑ zione dei capitali, potrebbe comunque essere applicato qualora rientri in una delle giustificazioni previste dall’ordinamento europeo. Trattandosi di una re‑ strizione alla libera circolazione dei capitali, si tratta di quelle espressamente previste dall’articolo 65 TFUE, nonché delle cause imperative di interesse generale elaborate in via interpretativa dalla Corte. La loro efficacia rispetto al regime oggetto del caso di specie può richiedere, come nella sentenza che si annota, un percorso interpretativo non lineare che non contribuisce alla certez‑ za del diritto ma che, al contempo, rende conto dell’importanza che assumono le cause di giustificazione nella giurisprudenza della Corte. Per quanto riguarda la giustificazione esplicita di cui all’articolo 65 TFUE, l’applicazione della ritenuta nei confronti dei soli OICVM non residenti po‑ trebbe essere giustificata dall’ordinamento europeo solo se la differenziazione

tale risultato, dato che la circostanza non ha rilievo in termini di sistema. (22) B.J.M. Terra, P.J. Wattel, European Tax Law, cit., 53.


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tra OICVM residenti e non residenti, pur astrattamente riconducibile alla giu‑ stificazione di cui al primo paragrafo dell’articolo 65 TFUE, non fosse attuata in maniera arbitraria, come richiesto dal paragrafo 3 dell’articolo 65 TFUE, cioè solo se la posizione di OICVM residenti e non residenti non fossero com‑ parabili. Nel caso di specie, quindi, l’incertezza deriva dalla difficile integrazione dei paragrafi 1 e 3 dell’articolo 65 TFUE. Tale disposizione prevede che gli Stati membri possano operare distinzioni non discriminatorie tra contribuen‑ ti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza (paragrafo 1). Tuttavia, secondo la Corte, è necessario che la differenza di trattamento riguardi situazioni che non sono oggettivamente comparabili. Comparabilità che sembra essere richiesta (23) – ma sul punto l’argomentazione della Corte rimane poco chiara – dalla condizione di cui al paragrafo 3, che prevede che le discriminazioni non debbano essere applicate in modo arbitrario. La Corte, dopo aver fatto discendere dalla lettura com‑ binata dei paragrafi 1 e 3 dell’art. 65 TFUE il fatto che non ogni distinzione basata sul luogo della residenza debba essere considerata in linea con il Trat‑ tato, fa dipendere tale compatibilità dalla circostanza che le situazioni non siano oggettivamente comparabili, oppure che la restrizione sia giustificata da ragioni imperative di interesse generale (24). In particolare, per quanto riguar‑ da la comparabilità, quest’ultima andrà valutata tenendo conto dell’obiettivo perseguito dalle disposizioni nazionali in questione, nonché dell’oggetto e del contenuto di queste ultime (25). Il riferimento a obiettivo, oggetto e contenuto delle norme per valutare la comparabilità tra situazione di residenti e non residenti è coerente con la giurisprudenza pregressa della Corte, così come è coerente il fatto che la Corte dedichi particolare attenzione all’individuazione degli obiettivi. Dalla giurisprudenza emerge che la comparabilità vada valuta‑ ta soprattutto alla luce dell’interpretazione teleologica della norma. Sia la sen‑ tenza, sia le conclusioni dell’avvocato si occupano diffusamente dell’indivi‑ duazione degli obiettivi alla luce dei requisiti cui è subordinata la concessione

(23) Sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, Fidelity Investment Funds, Fidelity Institutional Funds contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2018:480, punto 48. (24) Sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, Fidelity Investment Funds, Fidelity Institutional Funds contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2018:480, punto 48. (25) Sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, Fidelity Investment Funds, Fidelity Institutional Funds contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2018:480, punto 50.


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del regime di esenzione per gli OICVM residenti: la residenza in Danimarca e la distribuzione minima (26). 3.1.1. I criteri che richiedono la comparabilità tra OICVM residenti e non residenti alla luce degli obiettivi del regime danese. 3.1.1.1. Quello di evitare la doppia imposizione. – In primo luogo, l’obiet‑ tivo del regime di esenzione per gli OICVM residenti si rinviene nella volontà di evitare la doppia imposizione che si realizzerebbe qualora i dividendi fos‑ sero sottoposti ad imposizione a livello sia dell’OICVM, sia dei detentori di quote. Doppia imposizione che determinerebbe una differenza di trattamento tra coloro che investono direttamente in una società residente in Danimar‑ ca, tassati solo a livello dei detentori di quote, e coloro che vi investono per mezzo di un OICVM, tassati a livello sia dell’OICVM, sia dei detentori di quote (27). La Corte, in coerenza con la giurisprudenza consolidata, ritiene che la situazione dei soggetti residenti e non residenti, rispetto a una norma‑ tiva volta a evitare l’imposizione a catena oppure la doppia imposizione, non sia necessariamente analoga (28). Tuttavia, potrebbe diventarlo qualora uno Stato membro adotti una normativa volta a evitare quella doppia imposizione generata proprio dalla tassazione di soggetti non residenti da parte dello Stato stesso. In altre parole, ciò che emerge dalla sentenza è che, in una situazione transnazionale, quando la doppia imposizione in capo a soggetti non residenti ha origine dalla scelta impositiva operata unilateralmente da uno Stato mem‑ bro (spostare l’imposizione a livello dei detentori di quote), quest’ultimo deve anche vigilare affinché le società non residenti siano assoggettate a un tratta‑ mento equivalente a quello di cui beneficiano le società residenti rispetto al

(26) L’avvocato generale, nelle sue conclusioni alla sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, Fidelity Investment Funds, Fidelity Institutional Funds contro Skatteministeriet, causa C-480/16, punto 44, specifica ulteriormente che, nel valutare la comparabilità tra OICVM resi‑ denti e non residenti, non si dovrà fare riferimento a un criterio formale quale lo status giuridico dei suddetti; per questa ragione, contrariamente a quanto sostenuto dal Fidelity Funds, la mera qualifica di OICVM ai sensi della direttiva 85/611 non è sufficiente a garantire la comparabilità tra OICVM residenti e non residenti. (27) Punto 52 della sentenza Fidelity Funds che insiste sulla differenza di trattamento e punto 33 delle conclusioni dell’avvocato generale che insiste sulla doppia imposizione. (28) Sentenza del 25 ottobre 2012, Commissione contro Belgio, causa C-387/11, EU:C:2012:670, punto 49; sentenza del 18 giugno 2009, Aberdeen Property Fininvest Alpha, causa C-303/07, EU:C:2009:377, punto 42, sentenza del 20 ottobre 2011, Commissione contro Germania, causa C-284/09, EU:C:2011:670, punto 55; sentenza del 25 ottobre 2012, Commis‑ sione contro Belgio, causa C-387/11, EU:C:2012:670, punto 48.


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regime nazionale volto a evitare la doppia imposizione (29). Di conseguenza, la diversa posizione di soggetti residenti e non residenti non varrà ad escludere la comparabilità. 3.1.1.2. Quello di trasferire l’esercizio della competenza tributaria a livello dei detentori di quote. – Il secondo obiettivo del regime oggetto del giudizio (30) è quello di spostare l’imposizione dagli OICVM ai detentori di quote e si realizza nel momento in cui l’OICVM deve prelevare una ritenuta alla fonte sui dividendi distribuiti ai detentori di quote o deve calcolare una distribuzione minima secondo le regole previste dall’articolo 16C della nor‑ mativa danese. Secondo la Corte, la possibilità o meno per la Danimarca di assoggettare gli OICVM che distribuiscono dividendi all’obbligo di effettuare la ritenuta non vale a escludere la comparabilità tra le due situazioni. Tale possibilità è questione che inerisce alla tecnica impositiva utilizzata e non alle condizioni materiali della potestà impositiva sui redditi degli detento‑ ri di quote (31). Di fronte a una normativa il cui obiettivo è quello di spostare l’imposizione a livello dei detentori di quote, la comparabilità andrà esaminata dalla prospettiva dell’esercizio materiale della potestà impositiva sugli azioni‑ sti e non rispetto alla tecnica impositiva utilizzata. Adottando come punto di vista proprio quello relativo all’esercizio materiale della potestà impositiva, la situazione di un OICVM che distribuisce dividendi a detentori di quote non

(29) Sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, Fidelity Investment Funds, Fidelity Institutional Funds contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2018:480, punto 55. (30) Ciò che non emerge dal testo della sentenza ma che costituisce oggetto di rifles‑ sione nelle conclusioni dell’avvocato generale, è la questione dell’autonomia o connessione tra la condizione relativa alla residenza in Danimarca e quella della distribuzione minima. In particolare ciò su cui si interroga l’avvocato generale è se il criterio della residenza debba es‑ sere considerato criterio principale cui quello della distribuzione minima si affianca in quanto criterio secondario. Infatti, se si considera il criterio della distribuzione secondario rispetto a quello della residenza, l’esame della comparabilità deve essere effettuato soltanto a livello di tali organismi poiché è unicamente sul loro luogo di residenza che si basa la normativa. Se‑ condo l’avvocato generale, sebbene il requisito della distribuzione minima si applichi soltanto agli OICVM residenti in Danimarca e, dunque, sia in qualche modo subordinato al primo, la logica sottesa alla normativa danese è che l’esenzione venga accordata agli OICVM soltanto in presenza di tale distribuzione poiché soltanto in tale ipotesi si potrà prelevare l’imposta in capo ai detentori di quote e la ratio perseguita dalla norma è di spostare il livello di imposizione in capo a questi ultimi. Il fatto che la concessione dell’esenzione sia così legata alla situazione dei detentori di quote implica che la condizione di questi ultimi debba essere presa in considerazio‑ ne nell’esaminare la comparabilità. (31) Sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, Fidelity Investment Funds, Fidelity Institutional Funds contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2018:480, punto 55.


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residenti è del tutto comparabile rispetto a quella di un OICVM che distribui‑ sce dividendi a detentori di quote residenti, tenuto conto che un OICVM non residente può avere detentori di quote con residenza fiscale in Danimarca sui quali quest’ultima può esercitare la sua potestà impositiva. Nemmeno il fatto che la Danimarca non possa sottoporre a imposizione i detentori di quote non residenti di OICVM non residenti contribuisce a rendere non comparabili le situazioni cui si applica il regime in esame. Tale circostanza, infatti, rimane coerente con l’obiettivo di spostare la tassazione a livello dei detentori di quo‑ te ed è a sua volta frutto della libera scelta impositiva della Danimarca (32). 3.1.2. L’importanza della sentenza che si annota. 3.1.2.1. Il requisito della distribuzione minima e la differenza rispetto a Santander. – Nella sentenza che si annota il giudizio di comparabilità sulla base dell’obiettivo dello spostamento dell’imposizione sui detentori di quote non può che essere diverso da quello compiuto nella sentenza Santander, il precedente giurisprudenziale più rilevante in materia. In Santander, l’assenza del requisito della distribuzione minima o del calcolo di una distribuzione minima soggetta a imposta in capo ai detentori di quote implicava che la situa‑

(32) L’avvocato generale compie un’analisi molto più articolata rispetto a quella della Corte riguardo la comparabilità delle situazioni dei detentori di quote. Sostiene infatti che l’ana‑ lisi della situazione fiscale dei detentori di quote possa essere intrapresa sotto tre diversi profili. L’avvocato generale esamina, in primo luogo, la comparabilità delle situazioni di detentori di quote residenti che investono in OICVM residenti e non residenti; in secondo luogo, la com‑ parabilità tra la situazione di un detentore di quote non residente in un OICVM non residente e un detentore di quote residente in un OICVM residente; infine, occorre prendere in conside‑ razione i detentori di quote a seconda che investano in un OICVM non residente oppure in un fondo di cui all’articolo 16C. Sembra quindi che, nelle conclusioni dell’avvocato generale, ci si concentri sulla situazione dei detentori di quote piuttosto che su quella degli OICVM, mentre nell’argomentazione della Corte la situazione di questi ultimi viene presa in considerazione al solo scopo di comprendere se le situazioni degli OICVM siano comparabili, concentrandosi sulla comparabilità tra OICVM residenti e non residenti che abbiano detentori di quote residen‑ ti. Diverse sembrano anche essere le ragioni che portano la Corte a sostenere che la normativa danese non possa essere mantenuta a meno che non sia giustificata da ragioni imperative di inte‑ resse generale. Mentre l’avvocato generale afferma che la ragione debba rinvenirsi nel fatto che la stessa normativa si applichi a situazioni oggettivamente diverse (conclusioni dell’avvocato generale alla sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, Fidelity Investment Funds, Fidelity Institutional Funds contro Skatteministeriet, causa C-480/16, ECLI:EU:C:2017:1015, punto 59), la Corte sostiene che sia l’assenza di una differenza di situazioni a rendere ingiustificato il fatto che solo gli OICVM residenti possano ottenere l’esenzione (sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, Fidelity Investment Funds, Fidelity Institutional Funds contro Skatteministe‑ riet, causa C-480/16, EU:C:2018:480, punto 63).


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zione dei detentori di quote venisse considerata irrilevante ai fini della com‑ parabilità; in Fidelity Funds (33) il rilievo attribuito a tale condizione porta la Corte a tenere conto della situazione dei detentori di quote nel contesto della valutazione di comparabilità. Più specificamente, nella sentenza Santander il giudice del rinvio formula il rinvio pregiudiziale chiedendo esplicitamente alla Corte se, nell’esaminare la compatibilità col diritto europeo alla luce degli articoli 63 e 65 TFUE di una normativa che prevede un regime di esenzione per i dividendi distribuiti a OICVM residenti e l’applicazione di una ritenu‑ ta per i dividendi distribuiti a OICVM stranieri, si debba tener conto della situazione dei detentori di quote. In tal caso, la Corte ribadisce che soltanto i criteri distintivi pertinenti fissati dalla normativa di cui trattasi devono esse‑ re presi in considerazione nell’accertare la comparabilità: di conseguenza, se uno Stato membro sceglie di esercitare la propria potestà impositiva sui divi‑ dendi versati da società residenti in funzione del solo luogo di residenza degli OICVM beneficiari, la situazione fiscale dei titolari di quote di detti organismi non sarà rilevante ai fini dell’accertamento del carattere discriminatorio del‑ la normativa (34). In particolare, non essendo la concessione dell’esenzione agli OICVM subordinata alla corrispondente tassazione in capo ai detentori di quote, la situazione di questi ultimi non è rilevante ai fini della comparabilità. In altre parole, in Santander, la Corte elabora quello che si potrebbe definire il parametro del criterio distintivo ai fini della determinazione della comparabi‑ lità. Secondo tale criterio, il fatto che l’imposizione sia effettivamente soppor‑ tata dai detentori di quote non è sufficiente a far sì che la situazione di questi ultimi rilevi nel giudizio di comparabilità: è ulteriormente necessario che a questi ultimi si faccia riferimento nella norma (35). Il regime oggetto della sentenza che si annota si distingue da quello og‑ getto della sentenza Santander proprio in quanto prevede un obbligo di distri‑ buzione minima in capo ai detentori di quote. Tale obbligo di distribuzione minima diviene uno dei criteri distintivi fissati dalla normativa che si prende in considerazione e, per questa ragione, può essere preso in considerazione ai fini della comparabilità. Il fatto che nella sentenza Fidelity Funds la situazione

(33) Sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, Fidelity Investment Funds, Fidelity Institutional Funds contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2018:480. (34) Sentenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC SA, cause riuni‑ te da C‑338/11 a C‑347/11, EU:C:2012:286, punto 28. (35) Sentenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC SA, cause riuni‑ te da C‑338/11 a C‑347/11, EU:C:2012:286, punto 28.


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dei detentori di quote sia diventata rilevante nel giudizio di comparabilità non deve essere letto come un disallineamento oppure un overruling rispetto alla giurisprudenza pregressa. Deve piuttosto valere come una conferma che, per individuare i soggetti a livello dei quali effettuare l’esame di comparabilità, i requisiti utilizzati dalla norma oggetto del rinvio abbiano un’importanza fon‑ damentale. Infatti, la situazione dei detentori di quote di OICVM non rileva in quanto tale. Questa rileva solo qualora emerga dai requisiti della normativa (nel caso di specie la distribuzione minima), che ci guidano nell’individua‑ zione degli obiettivi della stessa, che i suddetti requisiti sono determinanti per perseguire tale obiettivo; nel caso di specie questo coinciderebbe con lo spostamento dell’imposizione a livello dei detentori di quote. 3.1.2.2. I criteri per comparare residenti e non residenti ai fini della discriminazione vengono utilizzati anche per la giustificazione. – Di conseguenza, il regime differenziato danese continuerebbe ad essere considerato una restrizione perché non troverebbe giustificazione nel menzionato articolo 65 TFUE. Costi‑ tuirebbe infatti una misura considerata arbitraria (vietata ai sensi del paragrafo 3 dell’articolo 65 TFUE) in quanto discriminerebbe le posizioni degli OICVM non residenti, giudicati invece comparabili a quelli residenti. Un giudizio que‑ sto, ottenuto facendo riferimento agli stessi parametri interpretativi utilizzati per giudicare le misure nazionali che discriminano sulla base della residenza. Para‑ metri che sono tipici della rule of reason e che, grazie alla Corte, conoscono qui un’applicazione più ampia, anche se si fondano entrambi sulla comparabilità delle posizioni, che in questo caso è stata riconosciuta tra OICVM residenti e non residenti. La rule of reason (36) è un test che fu originariamente sviluppato

(36) La rule of reason è stata introdotta dalla Corte con la sentenza 20 febbraio 1979, ReweZentral AG contro Bundesmonopolverwaltung für Branntwein, causa C-120/78, EU:C:1979:42, meglio nota come sentenza Cassis de Dijon, in virtù del fatto che l’articolo 34 TFUE avesse una formulazione particolarmente restrittiva , per questa ragione la Corte provvide a individuare ulteriori restrizioni compatibili con l’ordinamento in quanto giustificate dall’interesse pubblico. La prima formulazione della rule of reason, relativa alla libera circolazione delle merci, preve‑ deva che, per asserire l’esistenza di una discriminazione incompatibile coi Trattati, dovessero soddisfarsi otto condizioni (B.J.M. Terra, P.J. Wattel, European Tax Law, cit., 59; B. Knobbe-Keuk, Restrictions of fundamental freedoms enshrined in the EC Treaty by discriminatory tax provisions, in EC Tax Review, 74). In seguito la Corte elaborò una semplificazione, riducendo i passaggi del test a quattro (sentenza del 30 novembre 1995, Reinhard Gebhard contro Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Milano, causa C-55/94, EU:C:1995:411, punto 37) di modo che la stessa formulazione potesse essere utilizzata per ognuna delle quattro libertà, in maggior coerenza con il principio di certezza del diritto. Le quattro condizioni che la norma deve


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dalla giurisprudenza della Corte per mitigare l’effetto diretto della libera circo‑

rispettare sono: (i) deve essere applicata in modo non discriminatorio; (ii) deve essere giustificata da motivi imperativi di interesse generale; (iii) deve essere idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito;(iv) non deve andare oltre quanto necessario per il raggiungimento dello scopo. La giurisprudenza successiva tende a ridurre a tre i passaggi necessari per soddisfare il suddetto test di compatibilità: (i) lo Stato membro distingue la situazione transnazionale dalla comparabile situazione domestica; (ii) la distinzione è giustificata da una ragione imperativa di interesse generale; (iii) la misura non va oltre quanto necessario per il perseguimento dello scopo. Talvolta si riscontra, nella giurisprudenza unionale, una sovrapposizione tra il primo e il secondo passaggio del test: la non comparabilità tra la situazione domestica e quella transna‑ zionale non viene verificata in quanto presupposto per l’esistenza di una discriminazione ma come causa di giustificazione (per quanto riguarda la tendenza della Corte ad applicare il con‑ cetto di comparabilità in un contesto tendenzialmente più ampio della sola discriminazione vedi M. Marzano, “Comparabilità” comunitaria e dividendi distribuiti a organismi di investimento collettivo del risparmio non residenti, in Rass. Trib. 3/2013, 716. In particolare, sembra che la Corte tenda ad anteporre esigenze legate alla soluzione del caso di specie e a esigenze di giusti‑ zia sostanziale piuttosto che un metodo rigoroso di accertamento dell’esistenza di una restrizio‑ ne o discriminazione).Tale sovrapposizione suggerisce che ogni misura restrittiva delle libertà previste dal Trattato debba essere considerata proibita salvo che non esista una causa di giusti‑ ficazione (B.J.M. Terra, P.J. Wattel, European Tax Law, cit.,, 64, L. De Broe, N. Bammens, Truck Center, Belgian withholding tax on interest payments to non-resident companies does not violate EC law: a critical look at the ECJ’s judgement in Truck Center, in EC Tax Review 2009/3, 132 ss.). Sovrapposizione che sembra avvenire, almeno parzialmente, anche nel caso di specie dal momento che l’affermazione della Corte, secondo la quale perché una normativa tributaria nazionale quale quella controversa nel procedimento principale possa essere considerata compatibile con le disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei capitali è necessario che la differenza di trattamento riguardi situazioni che non sono oggettivamente comparabili o sia giustificata da ragioni imperative di interesse generale , potrebbe essere fuorviante (sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, Fidelity Investment Funds, Fidelity Institutional Funds contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2018:480, punto 48). In tal senso si esprime anche l’avvocato generale quando afferma che devono essere esaminate in maniera più dettagliata sia la comparabilità delle situazioni di cui al procedimento principale sia la giustificazione della restrizione ai movimenti di capitali che la normativa danese comporta (conclusioni dell’avvocato generale del 20 dicembre 2017, Fidelity Funds e.a. contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2017:1015, punto 30) e la restrizione alla libera circolazione dei capitali potrebbe tuttavia essere ammessa nel diritto dell’Unione se, in conformità all’articolo 58, paragrafo 1, lettera a), CE, [ora articolo 65 para. 1] la differenza di trattamento sulla quale essa è basata riguarda situazioni che non sono oggettivamente paragonabili o se è giustificata da motivi imperativi di interesse generale (conclusioni dell’avvocato generale del 20 dicembre 2017, Fidelity Funds e.a. contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2017:1015, punto 29). Per quanto riguarda, più in generale, la comparabilità in sentenze aventi ad oggetto il trat‑ tamento dei dividendi, vd. C. Setti, Difference in treatment and comparability under EU law: a path through the direct tax case law of the Court of Justice of the EU, in Dir. prat. trib. inter‑ nazionale, n. 3/2014, 825 ss.; M. Lang, Recent case law of the ECJ in direct taxation: trends tensions and contradictions, in EC Tax review, 2009, 98; F. Bulgarelli, Il principio di libera


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lazione dei beni al di fuori delle restrizioni esplicitamente permesse dall’articolo 36 TFUE. Con la sentenza che si annota sia il concetto di comparabilità, ripreso dal test della rule of reason, sia i criteri per verificare la comparabilità divengo‑ no elementi costitutivi e criteri interpretativi della giustificazione di cui all’arti‑ colo 65 TFUE. Nella sentenza in commento il concetto di comparabilità non è presupposto per affermare l’esistenza di una misura discriminatoria: è piuttosto lo strumento atto a verificare che una giustificazione esplicitamente prevista dal Trattato sia applicata in modo non arbitrario. In altri termini, l’analisi di compa‑ rabilità non è uno dei presupposti per appurare se vi sia stata la violazione di una delle libertà previste dal Trattato, bensì per decidere se la deroga esplicitamente prevista dal Trattato sia stata applicata o meno in modo discriminatorio. Poiché il concetto di discriminazione presuppone il concetto di comparabilità tra le si‑ tuazioni oggetto di diverso trattamento, sia la discriminazione che costituisce una violazione delle libertà previste dal Trattato, sia la deroghe previste dal Trat‑ tato che devono essere applicate in modo non discriminatorio, presuppongono due situazioni tali da poter essere comparate. Il fatto che la Corte faccia uso di un concetto (comparabilità), che costituisce il presupposto teorico della nozione di discriminazione nel contesto della rule of reason, per giustificare la deroga, porta a ritenere che l’articolo 65 TFUE sia espressione di un più generale prin‑ cipio di non discriminazione che è sotteso a tutto il Trattato. 3.2. Alla luce dei criteri generali elaborati in via interpretativa dalla giurisprudenza della Corte per giustificare le restrizioni alle libertà economiche. – Una volta appurata l’esistenza di una restrizione e la comparabilità tra la situa‑ zione dei soggetti residenti e non residenti, comparabilità che rende ingiustifica‑ ta l’esistenza di una restrizione, la Corte indaga se la differenza di trattamento possa comunque essere giustificata da una ragione imperativa di interesse gene‑ rale, cioè da una delle giustificazioni elaborate dalla giurisprudenza della Corte. In altri termini, una volta constatata l’inapplicabilità della giustificazione espressamente prevista per la libera circolazione dei capitali, alla Corte non ri‑ mane che riferirsi a cause di giustificazione ulteriori, e specificamente a quelle che la Corte utilizza per compiere una valutazione sistematica delle scelte nazionali al loro interno oppure tra ordinamenti nazionali. Infatti, le libertà previste dal Trattato non sono libertà assolute. Si tratta piuttosto di libertà cui

circolazione dei capitali e la comparabilità delle situazioni di residenti e non residenti e di non residenti di Stati membri diversi tra loro: il caso D, in Rass. Trib., 2005, 2038.


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è possibile apporre dei limiti rispondenti all’esigenza di preservare la coesione del sistema tributario quali la prevenzione dell’evasione e dell’elusione, la ripartizione equilibrata del potere impositivo e l’effettività dei controlli fisca‑ li (37); queste sono giustificazioni oggettive diverse rispetto a quelle esplici‑ tamente previste dal Trattato. Le giustificazioni addotte dal governo danese nel caso di specie sono la necessità di assicurare la ripartizione equilibrata del potere impositivo e di preservare la coerenza fiscale. Queste ultime ri‑ spondono all’esigenza di compiere una valutazione sistematica delle scelte nazionali che vada oltre la valutazione delle singole disposizioni ma guardi a queste all’interno del sistema nazionale oppure all’interazione tra diverse scelte nazionali. La ripartizione equilibrata del potere impositivo (38) non vie‑ ne riconosciuta però dalla Corte che ritiene che la deroga non sia ammessa se la misura restrittiva è conseguenza di una scelta volontaria dello Stato, nel caso di specie quella di spostare l’esercizio della potestà impositiva a livello dei detentori di quote. In tal caso, infatti, la norma non sarebbe volta tanto a

(37) M.R. Sidoti, European Freedom of movement and income taxation: the use of the rule of reason in the assessment of the compatibility of the grounds for justification of tax discrimnation, in International Tax Law Review 1/2018, 109 ss.; Knobbe-Keuk, Restrictions on fundamental freedoms enshrined in EC Treaty by discriminatory tax provisions, in EC Tax Review 3/1994, 74-85; B.J.M. Terra - P-J. Wattel, European Tax Law, cit., 58 e 482; P. Marchessou, B. Trescher, Droit fiscal international et europeen, cit., 148-153. (38) Per comprendere come mai la ripartizione equilibrata del potere impositivo pos‑ sa legittimare una limitazione o restrizione delle libertà, bisogna ricordare ancora una volta che la materia delle imposte dirette non è armonizzata a livello europeo: in assenza di cri‑ teri comuni atti a disciplinare la ripartizione territoriale della potestà impositiva tra gli Stati membri, i metodi per eliminare la doppia imposizione ma al contempo garantire l’esercizio della potestà impositiva sulle attività che hanno luogo sul suo territorio sono rimessi alla di‑ screzionalità degli Stati membri stessi per mezzo di misure unilaterali oppure di convenzioni contro la doppia imposizione (sentenza del 29 novembre 2011, National Grid Indus BV, causa C-371/10, EU:C:2011:785; sentenza del 29 marzo 2007, Rewe Centralfinanz, causa C-347/04, EU:C:2007:194, punto 42; sentenza del 13 dicembre 2005, Marks & Spencer, causa C-446/03, EU:C:2005:763, punto 46; sentenza del 17 settembre 2009, Glaxo Wellcome, causa C-182/08, EU:C:2009:559, punti 82 e 21). Ciò che la Corte ha più volte precisato è che, malgrado gli Stati membri rimangano liberi di stipulare convenzioni contro la doppia imposizione per ripartire il potere impositivo, la Corte è competente a verificare che tale regime sia quello più appropriato per garantire il perseguimento dell’obiettivo (sentenza del 12 dicembre 2002, De Groot, cau‑ sa C-385/00, EU:C:2002:750, punti 93 e 94; sentenza del 19 gennaio 2006, Bouanich, causa C-265/04, EU:C:2006:51, punti 49 e 50; sentenza del 12 dicembre 2013, Imfeld and Garcet, causa C-303/12, EU:C:2013:822, punti 41 e 42; sentenza del 13 dicembre 2005, Marks & Spen‑ cer, causa C-446/03, EU:C:2005:763, punto 53; sentenza del 25 febbraio 2010, X Holding, cau‑ sa C-337/08, EU:C:2010:89, punto 34; sentenza del 22 giugno 2017, Bechtel, causa C-20/16, EU:C:2017:488, punto 60).


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ripartire equamente la potestà impositiva, quanto a compensare l’assenza di potestà impositiva determinata dal regime scelto dallo Stato stesso. 3.2.1. La necessità di preservare la coerenza del regime fiscale. – Secon‑ do la Corte, nel caso di specie, la coerenza del sistema fiscale (interno) giu‑ stifica che l’esenzione da ritenuta dei dividendi distribuiti sia applicata solo a OICVM residenti (39). La Corte riconosce che l’esenzione concessa agli OICVM compensi il prelievo in capo ai detentori di quote, determinando in tal modo l’esistenza di un nesso diretto tra i due. Secondo giurisprudenza conso‑ lidata della Corte, affinché tale causa di giustificazione possa essere accolta, è necessario dimostrare il nesso diretto tra l’agevolazione fiscale e il corrispon‑ dente prelievo alla luce delle finalità della normativa fiscale in questione (40).

(39) Giustificare una normativa sulla base della coerenza del regime fiscale significa considerare tale norma parte di un insieme coerente e sistematico che verrebbe a perdere tali caratteri qualora quest’ultima venisse eliminata. Significa che gli effetti della norma non ver‑ ranno valutati tenendo in considerazione soltanto quest’ultima nella sua singolarità, ma l’azione combinata e contemporanea della disposizioni che compongono il sistema. Dal momento che l’interesse del singolo e quello dello Stato sono contraddittori, in quanto il primo vuole vedere tutelato il suo diritto all’esercizio della libertà in questione mentre l’altro vuol perseguire un diverso obiettivo di politica fiscale, giustificare la norma in virtù della coerenza fiscale significa dare riconoscimento alla politica fiscale generale dello Stato. Per questa ragione, il ruolo della Corte, quando uno Stato adduce come giustificazione quella della coerenza del regime fiscale, è innanzitutto quello di esaminare la normativa fiscale nel suo complesso per comprendere se la misura sia effettivamente idonea a perseguire l’obiettivo di politica fiscale enunciato dallo Stato stesso. In secondo luogo, in applicazione del principio di proporzionalità, la Corte dovrà valu‑ tare che la misura non ecceda quanto necessario al perseguimento dello scopo stesso. Poiché ciò su cui si va a giudicare sono proprio le scelte di politica fiscale, scelte che sono rimesse alla sovranità degli Stati membri, in una materia quale quella delle imposte dirette che non è materia armonizzata, la Corte dovrà essere particolarmente cauta. Inoltre l’esito del giudizio riguardo l’esistenza di una causa di giustificazione cambierà a seconda del livello al quale lo si compie. Ad esempio, nella storica sentenza Bachmann, in cui la Corte ha per la prima volta riconosciuto la coerenza del sistema fiscale come ragione imperativa di interesse generale, la Corte ha affer‑ mato che la coerenza fiscale debba essere apprezzata guardando al complesso delle relazioni che intercorrono tra i due Stati membri, includendo in tale analisi anche le convenzioni bilate‑ rali contro la doppia imposizione stipulate tra gli stessi. Proprio il fatto che l’esito del giudizio sia suscettibile di variare a seconda degli elementi che si prendono in considerazione spiega la cautela della Corte nel giustificare normative nazionali in virtù di tale causa di giustificazione. (40) Sentenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC e a., cause riunite da C-338/11 a C-347/11, EU:C:2012:286, punti 50 e 51. In tal senso anche sentenza del 28 gen‑ naio 1992, Bachmann, causa C-204/90, EU:C:1992:35, punto 21; sentenza del 23 ottobre 2008, Krankenheim Ruhesitz am Wannsee-Seniorenheimstatt, causa C-157/07, EU:C:2008:588, punto 43; sentenza del 27 novembre 2008, Papillon, causa C-418/07, EU:C:2008:659, punto 44; sentenza del


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Proprio l’esistenza del requisito della distribuzione minima reale o fittizia contri‑ buisce a distinguere la sentenza che si annota dalla giurisprudenza pregressa. Men‑ tre, come sottolineato dall’avvocato generale (41), nelle sentenze Emerging Markets (42), Aberdeen (43) e Santander (44), la Corte aveva rigettato gli argomenti addotti dai governi polacco, finlandese e francese proprio perché l’esenzione dalla ritenuta non era subordinata alla condizione che i dividendi distribuiti dal fondo fossero ridistribuiti dal medesimo e che la loro tassazione in capo al titolare dei detentori di quote del fondo stesso consentisse di compensare l’esenzione dalla ritenuta alla fonte, la normativa danese si distingue, come nel caso dell’analisi di comparabilità, proprio in virtù del requisito della distribuzione minima. Distri‑ buzione minima che diviene quindi, da un lato, l’elemento sulla base del quale escludere la possibilità di invocare l’articolo 65 TFUE, dall’altro, l’elemento sulla base del quale ritenere il regime giustificato alla luce della coerenza fiscale. La Corte non si esprime, invece, sull’impossibilità di invocare la coerenza del regime fiscale quale causa di giustificazione per via della diversa entità delle basi imponibili, cioè sulla questione se il nesso diretto richiesto dalla giurispru‑ denza della Corte debba essere frutto di un nesso aritmetico o rivesta natura giuridica, questione affrontata invece dettagliatamente dall’avvocato generale. Secondo quest’ultimo la coerenza verrebbe garantita dal rapporto giuridico tra vantaggio e imposizione o meglio dalla logica interna che lega il vantaggio al prelievo fiscale e, per questa ragione, andrebbe indagato alla luce degli obiettivi della norma e non di un effetto compensativo reale e integrale (45). Qualificare il nesso diretto come correlazione rigorosa, come richiesto da certa giurispru‑ denza della Corte (46), avrebbe il solo scopo di escludere il fatto che le conven‑ zioni dirette a prevenire la doppia imposizione possano giustificare normative

18 giugno 2009, Aberdeen Property Fininvest Alpha, causa C-303/07, EU:C:2009:377, punto 72. (41) Conclusioni dell’avvocato generale del 20 dicembre 2017, Fidelity Funds e.a. contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2017:1015, punto 70. (42) Sentenza del 10 aprile 2014, Emerging Markets Series of DFA Investment Trust Company, causa C-190/12, EU:C:2014:249, punto 93. (43) Sentenza del 18 giugno 2009, Aberdeen Property Fininvest Alpha, causa C-303/07, EU:C:2009:377, punto 73. (44) Sentenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC e a., causa da C-338/11 a C-347/11, EU:C:2012:286, punto 52. (45) Conclusioni dell’avvocato generale del 20 dicembre 2017, Fidelity Funds e.a. contro Skatteministeriet, causa C-480/16, EU:C:2018:480, punto 75. (46) Sentenza dell’11 agosto 1995, Wielockx, causa C-80/94, EU:C:1995:271, punto 24, sentenza del 3 ottobre 2002, Danner, causa C-136/00, EU:C:2002:558, punto 41; sentenza del 21 novembre 2002, X e Y, causa C-436/00, EU:C:2002:704, punto 53; sentenza del 28 febbraio


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nazionali in virtù della coerenza del regime fiscale, poiché, in quel caso, i regimi fiscali coinvolti sarebbero più di uno. Ciò che sembra suggerire l’avvocato ge‑ nerale, e che il silenzio della Corte sembra avallare, è che, nel caso di specie, non essendo la coerenza del regime fiscale garantita per mezzo di una conven‑ zione contro la doppia imposizione, il nesso diretto non debba concretizzarsi in una coincidenza di tipo matematico ma in un nesso giuridico. Una volta appurato che il regime danese è idoneo a garantire la coerenza del regime fiscale, occorre verificare se ecceda o meno quanto necessario a tale scopo. In altra parole, sebbene né la Corte, né l’avvocato generale facciano uso di tale termine, occorre verificare se la misura oggetto del giudizio rispetti il principio di proporzionalità. Secondo la Corte la misura non sarebbe proporzio‑ nata in quanto si sarebbe potuto raggiungere il medesimo obiettivo per mezzo di una misura meno restrittiva. Sarebbe stato sufficiente subordinare la concessio‑ ne dell’esenzione al fatto che gli OICVM rientranti nella definizione di cui alla normativa danese potessero dimostrare che i loro detentori di quote avessero versato un’imposta almeno equivalente a quella che gli OICVM residenti in Danimarca debbono trattenere sulle distribuzioni di dividendi ai loro detentori di quote. In altri termini, una normativa che subordina la concessione di un’e‑ senzione fiscale al fatto che il soggetto beneficiario sia residente nello Stato membro che concede l’esenzione e operi una distribuzione minima è idonea a garantire la coerenza del regime fiscale. Tuttavia, tale regime risulta eccedere quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito in quanto esisterebbero misure meno gravose per pervenire al medesimo risultato. Dunque, la normativa danese, restrittiva della libera circolazione dei capi‑ tali di cui all’articolo 63 TFUE, non giustificata in virtù della deroga espressa di cui all’articolo 65 TFUE in quanto la situazione dei fondi residenti e non residenti sono comparabili, risulta una discriminazione arbitraria. Questa è giustificata in virtù della coerenza del regime fiscale, ragione imperativa di interesse generale riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte, ma non è co‑ munque compatibile con il diritto europeo in quanto non proporzionata. Pro‑ porzionalità che costituisce l’ultima condizione prevista dalla rule of reason, e cioè la successione logico argomentativa utilizzata dalla Corte per valutare della compatibilità di norme nazionali in materia di imposte dirette.

2008, Deutsche Shell, causa C-293/06, EU:C:2008:129, punto 39; sentenza del 22 gennaio 2009, STEKO Industriemontage, causa C-377/07, EU:C:2009:29, punto 53.


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4. Conclusioni. – In conclusione, nella sentenza Fidelity Funds, la Corte si esprime affermando la non compatibilità rispetto alla libera circolazione dei capitali di un regime differenziato quale quello danese che prevede l’applica‑ zione di una ritenuta ai dividendi distribuiti a OICVM non residenti mentre pre‑ vede un’esenzione per i dividendi distribuiti a OICVM residenti a condizione che questi operino o calcolino una distribuzione minima e prelevino un’impo‑ sta su tale distribuzione. La sentenza si inserisce in un filone giurisprudenziale che aveva avuto nella sentenza Santander il precedente più autorevole. Seb‑ bene con tale decisione la Corte avesse già affermato l’incompatibilità rispetto alla libera circolazione dei capitali di un regime differenziato per i dividendi distribuiti a OICVM residenti e non residenti, la previsione del requisito della distribuzione minima della normativa danese, assente in Santander, porta la Corte a compiere considerazioni ulteriori, in particolare, per quanto riguarda le giustificazioni alle restrizioni della libera circolazione dei capitali. In primo luogo, poiché il requisito della distribuzione minima suggerisce che lo scopo della normativa sia quello di spostare il livello dell’imposizione in capo ai suddetti detentori di quote, al contempo non rinunciando ad assoggettare a imposta i dividendi distribuiti da società residenti in Danimarca, i detentori di quote residenti di OICVM residenti e non residenti si trovano in una si‑ tuazione comparabile in quanto rientrano entrambi nella capacità impositiva del regno di Danimarca. Di conseguenza, il regime differenziato danese, che prevede l’esenzione per gli OICVM residenti ma una ritenuta per gli OICVM non residenti, senza ulteriormente distinguere questi ultimi sulla base del fatto che abbiano o meno detentori di quote residenti, darebbe luogo a una discri‑ minazione arbitraria e non potrebbe essere giustificato in virtù dell’articolo 65 TFUE. In secondo luogo, se in Santander la Corte aveva escluso la possibilità di invocare la coerenza del regime fiscale proprio in virtù dell’assenza della condizione che i dividendi fossero distribuiti dall’OICVM e fosse prelevata un’imposta a carico dei detentori di quote, nel caso di specie è proprio il requi‑ sito della distribuzione minima a far ritenere il regime giustificato. Tuttavia, di nuovo, la mancata equiparazione tra detentori di quote residenti di OICVM residenti e detentori di quote residenti di OICVM non residenti implica che il regime ecceda quanto necessario per garantire il perseguimento di tale scopo. Sembra quindi che la Corte specifichi ulteriormente quanto affermato in Santander. Non solo un regime differenziato sulla sola base della residenza non può essere giustificato alla luce dell’ordinamento europeo: anche qualora si introduca il requisito della distribuzione minima, il regime risulterà compati‑ bile con l’ordinamento europeo se equipara dal punto di vista del trattamento


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fiscale la situazione di detentori di quote residenti di OICVM non residen‑ ti e residenti, in quanto entrambi ricadono nella potestà impositiva danese. Occorre sottolineare che quanto affermato dalla Corte riguarda i dividendi distribuiti a OICVM, di conseguenza, i principi affermati in Fidelity Funds non possono applicarsi senza riserve a qualsiasi organismo di investimento collettivo. Ciò rileva rispetto alla disciplina italiana che non si riferisce agli OICVM ma agli OICR (47) che sono riconosciuti dalla legislazione quale categoria più ampia di quella degli OICVM. Dunque, le soluzioni adottate dalla giurisprudenza europea possono essere applicate al regime nazionale solo se ed in quanto si ritenga di poterle applicare in via interpretativa alla categoria più ampia rispetto a quella specifica degli OICVM come avveni‑ va per il regime danese oggetto della sentenza. Il regime italiano (48) pre‑ vede, da un lato, un’esenzione per i dividendi distribuiti a OICR residenti purché il fondo o il soggetto incaricato della gestione sia sottoposto a forme di vigilanza prudenziale. Dall’altro, prevede l’applicazione di una ritenuta alla fonte pari al 26% per quelli distribuiti a OICR non residenti. Tale regi‑ me sarebbe stato esposto a dubbi di compatibilità, già per effetto dei principi affermati nella sentenza Santander. Questa aveva ritenuto che un regime si‑

(47) Il Testo Unico dell’Intermediazione Finanziaria definisce all’art. 1 punto l) defini‑ sce gli “Oicr italiani”: i fondi comuni d’investimento, le Sicav e le Sicaf. Più genericamente gli OICR, Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio, sono organismi istituiti per la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio, il cui patrimonio è raccolto tra una pluralità di investitori mediante l’emissione e l’offerta di quote o azioni, gestito in monte nell’interesse degli investitori e in autonomia dai medesimi nonché investito in strumenti finanziari, crediti, inclusi quelli erogati, a favore di soggetti diversi da consumatori, a valere sul patrimonio dell’OICR, partecipazioni o altri beni mobili o immobili, in base a una politica di investimento predeterminata (Art. 1 c.1 lett. k) D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) (48) Il regime di tassazione nazionale dei fondi di investimento mobiliare si desume dal combinato disposto degli artt. 23 e 73 c. 5 quinquies TUIR e 27 D.P.R. 600/1973 ed è volto a garantire che i soggetti incisi dal tributo siano i detentori di quote, tale risultato viene perseguito spostando la tassazione del risultato maturato dalla gestione del fondo in capo al detentore al momento della percezione dei proventi. Coerentemente con tale obiettivo, la normativa na‑ zionale prevede che gli organismi di investimento collettivo istituiti in Italia debbano essere considerati residenti in tale Stato e, di conseguenza, considerati soggetti passivi IRES; tuttavia, i redditi di tali fondi sono esenti da IRES qualora l’organismo collettivo sia sottoposto a forme di vigilanza prudenziale. Alle distribuzioni di dividendi a organismi di investimento colletti‑ vo istituiti in Italia non si applica la ritenuta alla fonte di cui all’art. 27 del d.p.r. 600/1973. Gli organismi di investimento non residenti sono invece soggetti a ritenuta alla fonte del 26% (combinato disposto degli artt. 23 e 27 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600) in relazione a partecipazioni non relative a stabili organizzazioni.


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milare francese fosse restrittivo della libera circolazione dei capitali proprio con riferimento alla comparabilità delle posizioni degli OICVM residenti e non residenti. In tale decisione la Corte aveva già considerato incompatibi‑ le con l’ordinamento europeo un regime che prevedeva l’applicazione del‑ la ritenuta soltanto ai dividendi distribuiti a OICVM non residenti. Tale in‑ compatibilità si sarebbe fondata sul fatto che il regime nazionale, idoneo a dissuadere dall’investire in altri Stati, non potesse essere giustificato in ra‑ gione dell’articolo 65 TFUE. Il regime francese aveva come obiettivo quello di prevenire l’imposizione a catena dei dividendi; di conseguenza, alla luce di tale obiettivo, la situazione di OICVM residenti e non residenti sarebbe stata comparabile. Quindi, la differenziazione basata sul solo criterio della residenza, senza prevedere il requisito della distribuzione minima, avrebbe costituito una discriminazione arbitraria vietata dal paragrafo 3 dell’articolo 65 TFUE. Anche nel caso del regime italiano l’obiettivo dell’esenzione appli‑ cabile ai dividendi distribuiti a OICR residenti sembra essere quello di evitare l’imposizione a catena dei dividendi distribuiti da società residenti, a tal fine spostando l’imposizione a livello dei detentori di quote. Pertanto, anche il re‑ gime nazionale non sarebbe giustificato alla luce dell’articolo 65 TFUE (49). Inoltre l’assenza del requisito della distribuzione minima nel regime italiano, reso rilevante invece nella sentenza che si annota, non consentirebbe di in‑ vocare la coerenza del regime fiscale nazionale quale ragione imperativa di interesse generale. Infatti, solo la presenza di tale requisito nel regime danese, consentiva alla Corte, in Fidelity Funds, di considerare il regime giustificato alla luce di tale ragione imperativa di interesse generale. In ogni caso, anche

(49) Se, come sembra, la normativa nazionale adotta regimi differenziati solo sulla base del luogo di residenza dell’OICR, la valutazione di comparabilità, andrebbe effettuata tenendo unicamente conto del veicolo di investimento e non dei detentori di quote. Quindi sembrerebbe che, nel valutare della comparabilità richiesta dall’articolo 65 TFUE, non rileverebbe il fatto che un OICR non residente possa avere detentori di quote residenti in Italia che si trovano in una situazione comparabile a quella dei detentori di quote di un OICR residente in Italia. In‑ fatti, un esame di comparabilità più ampio, che tenga in considerazione anche la posizione dei quotisti è adottato in Fidelity Funds solo in virtù della particolarità del regime fiscale danese. Era questo a prevedere che gli OICR assicurassero una distribuzione minima dei dividendi che diventava un requisito del regime fiscale nazionale. Di conseguenza, nel regime italiano, che non prevede questo requisito la comparabilità tra OICR residenti e non residenti sarà affer‑ mata invece sulla base di quanto statuito in Santander. Anche il regime italiano sembra essere ispirato all’obiettivo di evitare l’imposizione a catena dei dividendi. Tuttavia, quest’ultimo si riferisce a una situazione in cui l’imposizione a catena stessa è frutto della scelta dello Stato di non assoggettare a imposta soltanto le società residenti ma anche quelle non residenti.


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qualora il regime italiano prevedesse il requisito della distribuzione minima, quest’ultimo, da solo, non verrebbe ritenuto sufficiente alla luce dell’interpre‑ tazione della Corte in virtù della valutazione di proporzionalità. Alla luce di tale principio, infatti, per giustificare la potenziale restrizione, sarebbe ulte‑ riormente necessario distinguere il regime rispetto alla posizione dei detentori di quote residenti e non residenti di OICR comunque non residenti. L’appli‑ cazione della ritenuta non sarebbe giustificata, in quanto non proporzionata, nell’ipotesi in cui l’OICR non residente avesse detentori di quote residenti. In conclusione, il regime italiano, che prevede la differenziazione tra OICR (compresi gli OICVM) residenti e non residenti, anche senza l’ulteriore re‑ quisito della distribuzione minima, conterrebbe in nuce, come è stato fatto opportunamente notare in sede di primo commento, le medesime violazioni della libera circolazione dei capitali che sono state oggetto di contestazione nella sentenza che si annota (50).

Alessia Fidelangeli

(50) V. D. Majorana, Ritenute sui dividendi distribuiti ai fondi esteri: dalla sentenza della Corte di Giustizia dubbi di compatibilità europea, in Rivista di Diritto Tributario, supple‑ mento online, 25 luglio 2018.


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto

Corte di Giustizia, Grande Sezione, 12 giugno 2018, n. C‑650/16 - Pres. Lenaerts, Rel. Bonichot Rinvio pregiudiziale – Articolo 49 TFUE – Imposta sulle società – Libertà di stabilimento – Società residente – Utile imponibile – Sgravio fiscale – Deduzione delle perdite subite da stabili organizzazioni residenti – Autorizzazione – Deduzione delle perdite subite da stabili organizzazioni non residenti – Esclusione – Eccezione – Regime opzionale di consolidato fiscale internazionale L’articolo 49 TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro che esclude la possibilità, per una società residente che non abbia optato per un regime di consolidato fiscale internazionale come quello di cui al procedimento principale, di dedurre dal proprio reddito imponibile le perdite subite da una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro laddove, da un lato, tale società ha esaurito tutte le possibilità di deduzione di tali perdite ad essa offerte dal diritto dello Stato membro in cui è situata la stabile organizzazione in parola e, dall’altro, essa ha cessato di percepire ricavi da quest’ultima, di modo che non esiste più alcuna possibilità che le perdite siano prese in considerazione nello Stato membro in questione, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare. (1)

(Omissis) 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 49 TFUE. 2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la A/S Be‑ vola e la Jens W. Trock ApS, società di diritto danese, da un lato, e lo Skatteministeriet (Ministero delle Finanze, Danimarca), dall’altro lato, in merito al rifiuto delle autorità danesi di autorizzare la Bevola a dedurre dal reddito imponibile le perdite subite dalla propria succursale finlandese. Diritto danese 3. L’articolo 8, paragrafo 2, della selskabsskatteloven (legge relativa all’imposta sulle società), come modificata dalla legge n. 426, del 6 giugno 2005 (in prosieguo: la «legge relativa all’imposta sulle società»), così dispone:


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«Il reddito imponibile non deve includere le entrate e le spese relative a stabili organizzazioni o a beni immobili situati in uno Stato estero, nelle isole Fær Øer o in Groenlandia, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 31 A. (…)». 4. L’articolo 31 di tale legge così recita: «1) Le società, le associazioni e gli altri enti facenti parte di un medesimo gruppo (…) devono essere soggetti a imposizione congiunta (consolidato fiscale nazionale). Per “società, associazioni e altri enti facenti parte di un medesimo gruppo” devono intendersi le società, le associazioni e gli altri enti che in un determinato momento dell’esercizio fiscale appartengono allo stesso gruppo (v. articolo 31 C). Per l’applica‑ zione dei paragrafi da 2 a 7, i beni immobili sono equiparati alle stabili organizzazioni. Per “società controllante ultima” si deve intendere la società controllante che non è a sua volta controllata (v. articolo 31 C). 2) Per le società soggette a consolidato nazionale dovrà essere elaborato un red‑ dito complessivo, consistente nella somma del reddito imponibile di ogni singola società soggetta all’imposizione congiunta, calcolato secondo le regole generali del‑ la normativa fiscale, con le eccezioni applicabili alle società soggette a consolidato nazionale. Una perdita subita da una stabile organizzazione può essere imputata al reddito di società diverse solo se le norme applicabili nel paese estero, alle isole Fær Øer o alla Groenlandia, in cui la società è stabilita, non consentono di prendere in considerazione la perdita nel calcolo del reddito della società nel paese estero, nelle isole Fær Øer o in Groenlandia, in cui la società è stabilita, o se il consolidato inter‑ nazionale è stato scelto in virtù dell’articolo 31 A. Il reddito complessivo è calcolato una volta imputate, per ciascuna società, le perdite riportabili agli esercizi precedenti. Se il reddito complessivo è positivo, l’utile deve essere distribuito proporzionalmente tra le società che l’hanno prodotto. Se il reddito complessivo di un esercizio fiscale è negativo, la perdita dev’essere ripartita proporzionalmente tra le società che l’hanno generata e riportata a nuovo nella relativa società perché siano imputate ai successivi esercizi fiscali. Le perdite di una società relative a periodi precedenti al consolidato fiscale possono essere imputate solo agli utili della medesima società. Nel riportare a nuovo le perdite, quelle più vecchie sono imputate per prime. Le perdite di una società relative a precedenti esercizi fiscali possono essere imputate agli utili di altre società solo se esse si sono verificate in un esercizio fiscale in cui le società interessate sono state tassate nell’ambito del consolidato fiscale e quest’ultimo non è stato successiva‑ mente interrotto. (…) 4) Nel consolidato fiscale nazionale, la società capogruppo ultima che prende parte al regime del consolidato fiscale dev’essere nominata quale società di gestione ai fini del consolidato fiscale. Se la società capogruppo ultima non è contribuente in Danimarca ma lo sono diverse società controllate, una di esse, purché partecipi al consolidato fiscale, dev’essere nominata quale società di gestione. (…) La società di gestione è responsabile del pagamento dell’imposta complessiva sul reddito. (…)


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5) Tutte le società che partecipano al consolidato fiscale dovranno calcolare il reddito imponibile per lo stesso periodo della società di gestione, a prescindere dall’e‑ sercizio contabile ai sensi del diritto societario (v. articolo 10, paragrafo 5). (…) 7) Nel calcolo del reddito imponibile, una società soggetta che partecipa al con‑ solidato fiscale può scegliere di non prendere in considerazione le perdite, incluse quelle riportate a nuovo da precedenti esercizi fiscali. Si può non tener conto di perdite corrispondenti al reddito imponibile di una stabile organizzazione o di una controllata stabiliti in Danimarca e che partecipano al consolidato fiscale se il reddito della stabile organizzazione o della controllata, a seconda dei casi, è incluso nella definizione di reddito estero. A tal fine, è necessario che l’esenzione concessa dal paese in questione in considerazione dell’imposta danese sia coerente con il metodo di esenzione previ‑ sto dall’articolo 33 della legge danese relativa alla determinazione dell’imposta nazio‑ nale sui redditi. L’importo non preso in considerazione deve invece essere riportato a nuovo negli esercizi fiscali successivi in conformità con le norme di cui all’articolo 15 della legge in materia di accertamento dell’imposta. Se l’importo che si è rinunciato a prendere in considerazione è inferiore alle perdite complessive, tale importo deve essere imputato proporzionalmente alle singole fonti di perdita». 5. L’articolo 31 A, paragrafo 1, della legge relativa all’imposta sulle società pre‑ vede quanto segue: «La società controllante ultima può decidere che l’imposizione congiunta delle società, associazioni e altri enti del medesimo gruppo che partecipano al consolidato fiscale in virtù dell’articolo 31 si applichi anche alle società, associazioni e altri enti stranieri dello stesso gruppo, in cui nessuno dei titolari di partecipazioni risponde personalmente delle obbligazioni sociali e che distribuiscono gli utili in proporzione al capitale conferito dai titolari di partecipazioni (consolidato fiscale internazionale). La decisione si estende anche a tutte le stabili organizzazioni e a tutti i beni immobili situati all’estero e appartenenti alle società, associazioni e altri enti danesi e stranieri che partecipano al consolidato fiscale. Le disposizioni dell’articolo 31 sul consolidato fiscale nazionale si applicano mutatis mutandis al consolidato fiscale internazionale, salve le disposizioni integrative e derogatorie di cui ai paragrafi da 2 a 14. (…)». 6. L’articolo 31 A, paragrafo 3, di detta legge così recita: «La scelta del consolidato fiscale internazionale è vincolante per la società con‑ trollante per un periodo di 10 anni, salvo quanto previsto al sesto e settimo periodo. (…) La società controllante ultima può decidere di interrompere il periodo di appli‑ cazione obbligatoria del regime, con conseguente reintegrazione integrale nel reddito imponibile (v. paragrafo 11)». Procedimento principale e questione pregiudiziale 7. La Bevola ha sede in Danimarca. Essa offre alcune gamme di prodotti desti‑ nati alla fabbricazione di autocarri e rimorchi impiegati nel commercio all’ingrosso. Essa è la società controllata nonché la subcontrollata di società danesi, a loro volta


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controllate dalla Jens W. Trock, società controllante del gruppo, parimenti con sede in Danimarca. 8. La succursale finlandese della Bevola ha chiuso nel 2009. Secondo tale società, le perdite subite dalla succursale, di importo netto pari a circa 2,8 milioni di corone danesi (DKK) (EUR 375 000 circa), non sono state e non possono essere dedotte in Finlandia a partire da tale chiusura. 9. Pertanto, la Bevola ha chiesto di poter dedurre tali perdite dal suo reddito im‑ ponibile in Danimarca per l’esercizio 2009. 10. L’amministrazione fiscale ha respinto tale domanda, sostenendo che l’articolo 8, paragrafo 2, della legge relativa all’imposta sulle società non permetteva di include‑ re nel reddito imponibile le entrate e le spese attribuibili a una stabile organizzazione o a un bene immobile situato in un paese straniero, a meno che la società non avesse optato per il regime del consolidato fiscale internazionale, in applicazione dell’artico‑ lo 31 A di tale legge. 11. Il diniego dell’amministrazione finanziaria è stato confermato da una deci‑ sione del Landsskatteretten (Commissione tributaria nazionale, Danimarca) del 20 gennaio 2014, e la Bevola e la Jens W. Trock hanno impugnato quest’ultima decisione dinanzi all’Østre Landsret (Corte regionale dell’Est, Danimarca). Esse fanno valere che la Bevola avrebbe avuto la possibilità di dedurre le perdite in questione se le stes‑ se fossero state subite da una succursale danese e che tale differenza di trattamento costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento, ai sensi dell’articolo 49 TFUE. Tale restrizione eccederebbe quanto è necessario per la salvaguardia della ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri, in un caso come quello della Bevola, in cui non esiste alcuna possibilità di prendere in considerazione le perdite della propria succursale finlandese. Esse ritengono che al caso della Bevola sia appli‑ cabile la soluzione elaborata dalla Corte nella sentenza del 13 dicembre 2005, Marks & Spencer (C‑446/03, ECLI:EU:C:2005:763), il cui la Corte ha dichiarato che è con‑ trario al diritto dell’Unione escludere che una controllante residente possa dedurre perdite subite da una controllata non residente, in una situazione in cui la controllata abbia esaurito le possibilità di presa in considerazione delle perdite nel paese in cui quest’ultima è stabilita. 12. Il giudice del rinvio s’interroga sulla rilevanza di tale precedente, in conside‑ razione, in particolare, della possibilità concessa dal diritto nazionale di optare per un regime di «consolidato fiscale internazionale», che consentirebbe la deduzione. 13. In tale contesto, l’Østre Landsret (Corte regionale dell’Est, Danimarca) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se l’articolo 49 TFUE osti a un regime di imposizione nazionale come quello di cui trattasi nel procedimento principale ai sensi del quale è possibile dedurre le per‑ dite delle succursali nazionali, mentre non è possibile dedurre quelle delle succursali situate in altri Stati membri, anche in circostanze analoghe a quelle di cui alla sentenza


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della Corte [del 13 dicembre 2005, Marks & Spencer (C‑446/03, EU:C:2005:763)], punti 55 e 56, a meno che il gruppo non abbia optato per il consolidato fiscale interna‑ zionale secondo le condizioni di cui al procedimento principale». Sulla questione pregiudiziale 14. Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 49 TFUE debba essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro che esclude la possibilità, per una società residente, di dedurre dal proprio reddito imponibile le perdite subite dalla sua stabile organizzazione situata in un altro Stato membro, persino qualora tali perdite non possano più essere prese in considera‑ zione in via definitiva in quest’ultimo Stato membro, a meno che la società residente non abbia optato per un regime di consolidato fiscale internazionale, come quello di cui trattasi nel procedimento principale. Osservazioni preliminari 15. La libertà di stabilimento, riconosciuta ai cittadini dell’Unione europea dall’articolo 49 TFUE, comprende, ai sensi dell’articolo 54 TFUE, per le società co‑ stituite a norma delle leggi di uno Stato membro e che abbiano la sede sociale, l’am‑ ministrazione centrale o la sede principale nell’Unione, il diritto di svolgere la loro at‑ tività in un altro Stato membro mediante una controllata, una succursale o un’agenzia. 16. Anche se, alla luce del loro tenore letterale, le disposizioni del diritto dell’U‑ nione in tema di libertà di stabilimento mirano ad assicurare il beneficio della disci‑ plina nazionale nello Stato membro ospitante, esse ostano parimenti a che lo Stato membro di provenienza ostacoli lo stabilimento in un altro Stato membro di un pro‑ prio cittadino o di una società costituita secondo la propria legislazione (sentenza del 23 novembre 2017, A, C‑292/16, EU:C:2017:888, punto 24). 17. Tali considerazioni trovano applicazione anche nel caso in cui una società stabilita in uno Stato membro operi in un altro Stato membro tramite una stabile orga‑ nizzazione (sentenza del 15 maggio 2008, Lidl Belgium, C‑414/06, EU:C:2008:278, punto 20). 18. Come già statuito dalla Corte, una disposizione che consenta di prendere in considerazione le perdite di una stabile organizzazione ai fini della determinazione del reddito imponibile della società da cui dipende costituisce un’agevolazione fiscale (v., in tal senso, sentenza del 15 maggio 2008, Lidl Belgium, C‑414/06, EU:C:2008:278, punto 23). 19. Il fatto che una tale agevolazione sia accordata qualora le perdite provengano da una stabile organizzazione situata nello Stato membro della società residente, ma non quando le perdite provengano da una stabile organizzazione situata in uno Stato membro diverso da quello di detta società residente, fa sì che la situazione fiscale di una società residente che detiene una stabile organizzazione in un altro Stato membro sia meno favorevole di quella di cui godrebbe tale società se la citata stabile orga‑ nizzazione fosse situata nello stesso suo Stato membro. A causa di tale differenza di trattamento fiscale, una società residente potrebbe essere dissuasa dal continuare ad


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esercitare le proprie attività mediante una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro (v., in tal senso, sentenza del 15 maggio 2008, Lidl Belgium, C‑414/06, EU:C:2008:278, punti 24 e 25). 20. Tuttavia, una differenza di trattamento derivante dalla normativa tributaria di uno Stato membro a detrimento delle società che esercitino la propria libertà di stabi‑ limento non costituisce una restrizione a tale libertà qualora essa riguardi situazioni che non siano oggettivamente comparabili, o sia giustificata da un motivo imperativo d’interesse generale e sia proporzionata a tale obiettivo (v., in tal senso, sentenza del 25 febbraio 2010, X Holding, C‑337/08, EU:C:2010:89, punto 20). Sulla disparità di trattamento 21. Ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, della legge relativa all’imposta sulle so‑ cietà, il reddito imponibile non include le entrate e le spese relative a stabili organizza‑ zioni o a beni immobili situati in uno Stato estero, nelle isole Fær Øer o in Groenlan‑ dia, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 31 A della legge stessa. In applicazione di tale articolo 31 A, la società controllante può optare per il regime del consolidato fi‑ scale internazionale, vale a dire decidere che l’insieme delle società, residenti o meno, del gruppo, comprese le loro stabili organizzazioni e i beni immobili, situati o meno fuori della Danimarca, siano imponibili in Danimarca. 22. In primo luogo, occorre esaminare se detto articolo 8, paragrafo 2, introduca una differenza di trattamento tra le società danesi che detengono stabili organizzazioni in Danimarca e quelle la cui stabile organizzazione si trova in un altro Stato membro. 23. A tal riguardo, si deve rilevare che l’articolo 8, paragrafo 2, esclude dal red‑ dito imponibile delle società danesi sia i ricavi che le spese imputabili alle loro stabili organizzazioni situate in un altro paese. Orbene, la rinuncia del Regno di Danimarca ad esercitare la propria competenza fiscale sulle stabili organizzazioni delle società danesi situate all’estero non è necessariamente svantaggiosa per queste ultime e può anche costituire un vantaggio fiscale, in particolare nel caso in cui i redditi derivanti dalla stabile organizzazione siano assoggettati ad un’aliquota inferiore che in Dani‑ marca. 24. Secondo il giudice del rinvio, tuttavia, si versa in una ipotesi differente qualo‑ ra, come nel caso della Bevola, avendo la stabile organizzazione non residente cessato la propria attività, le perdite subite non abbiano potuto essere dedotte e non possano più esserlo nello Stato membro in cui la stabile organizzazione è situata. Infatti, alla società danese viene così impedito, dalle disposizioni dell’articolo 8, paragrafo 2, della legge relativa all’imposta sulle società, di dedurre le perdite subite dalla stabile organizzazione non residente, mentre essa potrebbe effettuare tale deduzione qualora la sua stabile organizzazione avesse sede in Danimarca. In tale contesto, la società danese che possiede una stabile organizzazione in un altro Stato membro subisce una differenza di trattamento svantaggiosa rispetto a quella che possiede una stabile orga‑ nizzazione in Danimarca.


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25. In secondo luogo, occorre valutare se la constatazione di tale differenza di trattamento possa essere rimessa in discussione dalla possibilità, offerta, ai sensi dell’articolo 31 A della legge relativa all’imposta sulle società, alle società danesi con controllate, succursali o beni immobili in altri Stati membri, di optare per il regime del consolidato fiscale internazionale. 26. È vero che, nell’ambito di tale regime opzionale, una società danese può dedurre dal proprio reddito imponibile in Danimarca le perdite subite dalla propria stabile organizzazione situata in un altro Stato membro, al pari di quelle subite dalle proprie stabili organizzazioni situate in Danimarca. 27. Tuttavia, il beneficio del consolidato fiscale internazionale è subordinato a due condizioni che rappresentano forti vincoli. Da un lato, esso richiede che l’insieme dei redditi del gruppo, che provengano da società, stabili organizzazioni o beni immobili ubicati in Danimarca o in un altro paese, sia soggetto all’imposta sulle società in tale Stato membro. Dall’altro lato, in applicazione dell’articolo 31 A della legge relativa all’imposta sulle società, la scelta dell’opzione è, in linea di principio, di un minimo di dieci anni, condizione che non si applica nell’ambito del consolidato fiscale nazionale. 28. Da quanto precede risulta che la legge relativa all’imposta sulle società preve‑ de una differenza di trattamento tra le società danesi che posseggono stabili organiz‑ zazioni in Danimarca e quelle la cui stabile organizzazione si trova in un altro Stato membro. 29. Tale differenza di trattamento è idonea a scoraggiare l’esercizio da parte di una società danese della propria libertà di stabilimento mediante la costituzione di stabili organizzazioni in altri Stati membri. Occorre tuttavia verificare se essa riguardi situazioni che non sono oggettivamente comparabili, come è stato ricordato al punto 20 della presente sentenza. Sulla comparabilità delle situazioni 30. I governi danese, tedesco e austriaco sostengono che la succursale di una so‑ cietà stabilita in un altro Stato membro non si trova in una situazione oggettivamente paragonabile a quella della succursale danese di una società di questo tipo, dato che essa non è soggetta alla competenza fiscale del Regno di Danimarca. La Corte avreb‑ be dichiarato, nelle sentenze del 17 luglio 2014, Nordea Bank Danmark (C‑48/13, EU:C:2014:2087), e del 17 dicembre 2015, Timac Agro Deutschland (C‑388/14, EU:C:2015:829), che una stabile organizzazione situata in uno Stato membro diverso da quello in cui ha sede la società alla quale essa appartiene non si trova nella stes‑ sa situazione di una stabile organizzazione situata nello Stato membro in cui essa ha la sede solo se quest’ultimo Stato sottopone anche la stabile organizzazione non residente alla propria normativa tributaria e tassa, pertanto, i redditi di tale stabile organizzazione. 31. Pur condividendo tale lettura delle sentenze del 17 luglio 2014, Nordea Bank Danmark (C‑48/13, EU:C:2014:2087), e del 17 dicembre 2015, Timac Agro Deutschland (C‑388/14, EU:C:2015:829), la Commissione europea ritiene che le cita‑


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te pronunce siano in contrasto con la precedente giurisprudenza della Corte, che non dava rilievo al motivo della differenza di trattamento. Essa ritiene che tale motivo non debba essere preso in considerazione in sede di analisi della comparabilità della situazione transfrontaliera con la situazione interna. In caso contrario, due situazioni sarebbero considerate non comparabili per il solo fatto che lo Stato membro avrebbe deciso di trattarle in modo diverso. 32. A tale riguardo, occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza della Corte, la comparabilità di una situazione transfrontaliera con una situazione interna deve essere esaminata tenendo conto dell’obiettivo perseguito dalle disposizioni nazionali in questione (sentenze del 18 luglio 2007, Oy AA, C‑231/05, EU:C:2007:439, punto 38; del 25 febbraio 2010, X Holding, C‑337/08, EU:C:2010:89, punto 22, nonché del 12 giugno 2014, SCA Group Holding e a., da C‑39/13 a C‑41/13, EU:C:2014:1758, punto 28). 33. Contrariamente a quanto sostiene la Commissione, le sentenze del 17 luglio 2014, Nordea Bank Danmark (C‑48/13, EU:C:2014:2087), e del 17 dicembre 2015, Timac Agro Deutschland (C‑388/14, EU:C:2015:829), non segnano l’abbandono da parte della Corte di tale metodo di valutazione della comparabilità delle situazioni che è, peraltro, espressamente attuato in sentenze successive (sentenze del 21 dicembre 2016, Masco Denmark e Daxima, C‑593/14, EU:C:2016:984, punto 29; del 22 giugno 2017, Bechtel, C‑20/16, EU:C:2017:488, punto 53, nonché del 22 febbraio 2018, X e X, C‑398/16 e C‑399/16, EU:C:2018:110, punto 33). 34. Nelle sentenze del 17 luglio 2014, Nordea Bank Danmark (C‑48/13, EU:C:2014:2087), e del 17 dicembre 2015, Timac Agro Deutschland (C‑388/14, EU:C:2015:829), la Corte ha solamente considerato che non era necessario esaminare la finalità delle disposizioni nazionali di cui trattavasi allorché esse riservavano lo stesso trattamento fiscale alle stabili organizzazioni site all’estero e a quelle installate sul territorio nazionale. Infatti, allorché il legislatore di uno Stato membro tratta in modo identico questi due tipi di stabili organizzazioni ai fini della tassazione degli utili da esse realizzati, esso ammette che, tenuto conto delle modalità e delle condi‑ zioni di quest’ultima, non esiste, tra dette stabili organizzazioni, alcuna differenza di situazione oggettiva che possa giustificare una differenza di trattamento (v., in tal senso, sentenza del 28 gennaio 1986, Commissione/Francia, 270/83, EU:C:1986:37, punto 20). 35. Non si possono tuttavia interpretare le sentenze del 17 luglio 2014, Nordea Bank Danmark (C‑48/13, EU:C:2014:2087), e del 17 dicembre 2015, Timac Agro Deutschland (C‑388/14, EU:C:2015:829) nel senso che, quando la normativa fiscale nazionale tratta due situazioni in modo diverso, queste ultime non possano essere con‑ siderate comparabili. La Corte ha infatti statuito che l’applicazione di regimi tributari diversi ad una società residente, a seconda che essa disponga di una stabile organizza‑ zione residente o non residente, non può costituire un criterio valido per valutare l’o‑ biettiva comparabilità delle situazioni (v., in tal senso, sentenza del 22 gennaio 2009,


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STEKO Industriemontage, C‑377/07, EU:C:2009:29, punto 33). Del resto, ammettere che lo Stato membro possa sempre riservare un trattamento diverso per il solo fatto che la stabile organizzazione di una società residente si trova in un altro Stato membro svuoterebbe di contenuto l’articolo 49 TFUE (v., in tal senso, sentenza del 25 febbraio 2010, X Holding, C‑337/08, EU:C:2010:89, punto 23). Pertanto, occorre esaminare la comparabilità delle situazioni tenendo conto della finalità delle disposizioni nazionali di cui trattasi, conformemente alla giurisprudenza citata ai punti 32 e 33 della presente sentenza. 36. Nel caso di specie, l’articolo 8, paragrafo 2, della legge relativa all’imposta sulle società esclude dal reddito imponibile delle società danesi gli utili e le perdite attribuibili a una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro, a meno che la società in questione non abbia optato per il regime del consolidato fiscale in‑ ternazionale di cui all’articolo 31 A di tale legge. Tale normativa mira a prevenire la doppia imposizione degli utili e, simmetricamente, la doppia deduzione delle perdite delle società danesi che hanno tali stabili organizzazioni. È pertanto la situazione di tali società che deve essere paragonata a quella delle società danesi che hanno stabili organizzazioni in Danimarca. 37. A tal proposito, la Corte ha dichiarato che, con riferimento alle misure previste da uno Stato membro al fine di prevenire o di attenuare la doppia imposizione degli utili di una società residente, in linea di principio le società che hanno stabili organiz‑ zazioni situate in un altro Stato membro non si trovano in una situazione comparabile a quella delle società che hanno stabili organizzazioni residenti (v., in tal senso, sen‑ tenze del 17 luglio 2014, Nordea Bank Danmark, C‑48/13, EU:C:2014:2087, punto 24, e del 17 dicembre 2015, Timac Agro Deutschland, C‑388/14, EU:C:2015:829, punto 27). 38. Tuttavia, per quanto riguarda le perdite attribuibili a una stabile organizza‑ zione non residente che ha cessato ogni attività e le cui perdite non sono state e non possono più essere dedotte dal suo reddito imponibile nello Stato membro in cui eser‑ citava la propria attività, la situazione di una società residente che detiene una stabile organizzazione non residente non è diversa da quella di una società residente che ha una stabile organizzazione residente, alla luce dell’obiettivo di prevenzione della dop‑ pia deduzione delle perdite. 39. Occorre infine sottolineare che le disposizioni nazionali di cui trattasi, volte a prevenire la doppia imposizione degli utili e la doppia deduzione delle perdite di una stabile organizzazione non residente, tendono, più in generale, a garantire l’adegua‑ mento dell’imposizione di una società che ha una tale stabile organizzazione alla sua capacità contributiva. Orbene, la capacità contributiva di una società con una stabile organizzazione non residente che abbia subito perdite definitive è condizionata allo stesso modo di quella di una società di cui tale stabile organizzazione residente abbia subito perdite. Pertanto, le due situazioni sono parimenti comparabili a tale riguardo, come ha osservato l’avvocato generale al paragrafo 59 delle sue conclusioni.


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40. Risulta da quanto precede che la differenza di trattamento di cui al procedi‑ mento principale riguarda situazioni oggettivamente comparabili. Sulla giustificazione della restrizione 41. Il Regno di Danimarca sostiene che la differenza di trattamento può essere giustificata, in primo luogo, dal mantenimento di una ripartizione equilibrata del po‑ tere impositivo tra gli Stati membri. 42. A tal proposito, occorre ricordare che la preservazione della ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri può rendere necessaria l’applicazione, alle atti‑ vità economiche delle società residenti in uno di tali Stati, delle sole norme tributarie di quest’ultimo, per quanto riguarda sia i profitti che le perdite (sentenza del 25 feb‑ braio 2010, X Holding, C‑337/08, EU:C:2010:89, punto 28). 43. Nel caso di specie, se il Regno di Danimarca accordasse alle società residenti il diritto di dedurre le perdite provenienti dalle loro stabili organizzazioni situate in altri Stati membri, vuoi in Danimarca, vuoi nello Stato membro in cui è situata la sta‑ bile organizzazione, pur non avendo optato per il consolidato fiscale internazionale, una simile facoltà comprometterebbe significativamente la ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri, in quanto la base imponibile, a seconda della scelta compiuta dalla società, si troverebbe ad essere aumentata in uno Stato membro e diminuita nell’altro (v., in tal senso, sentenza del 25 febbraio 2010, X Holding, C‑337/08, EU:C:2010:89, punto 29 e giurisprudenza ivi citata). 44. Il governo danese giustifica, in secondo luogo, la differenza di trattamento di cui al procedimento principale con la necessità di garantire la coerenza del regime fiscale. 45. A tale riguardo, la Corte ha già riconosciuto che la necessità di preservare la coerenza di un regime fiscale può giustificare una restrizione all’esercizio delle libertà di circolazione garantite dal Trattato FUE. Tuttavia, affinché una simile giustificazio‑ ne possa essere accolta, occorre che sia dimostrata l’esistenza di un nesso diretto tra il vantaggio fiscale di cui trattasi e la compensazione di tale vantaggio con un deter‑ minato prelievo fiscale, e il carattere diretto di tale nesso dev’essere valutato alla luce dell’obiettivo della normativa in questione (sentenza del 30 giugno 2016, Max-Heinz Feilen, C‑123/15, EU:C:2016:496, punto 30 e giurisprudenza ivi citata). 46. Nel caso di specie, il vantaggio fiscale in parola consiste nella possibilità, per una società residente che ha una stabile organizzazione parimenti residente, di imputare al suo reddito imponibile le perdite della stabile organizzazione in parola. L’articolo 8, paragrafo 2, della legge relativa all’imposta sulle società esclude da tale vantaggio le società la cui stabile organizzazione si trova in un altro Stato membro, a meno che esse non abbiano optato per il regime di consolidato fiscale internazionale di cui all’articolo 31 A di tale legge. 47. Detto vantaggio fiscale ha quale diretta contropartita l’integrazione con il red‑ dito imponibile della società residente degli eventuali utili della stabile organizzazio‑ ne residente. Per contro, l’articolo 8, paragrafo 2, di tale legge esenta dall’imposta


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sulle società gli utili realizzati dalla stabile organizzazione situata in un altro Stato membro, a meno che la società che possiede tale stabile organizzazione non abbia optato per il regime di consolidato fiscale internazionale di cui all’articolo 31 A della legge in parola. 48. Pertanto, il testo stesso dell’articolo 8, paragrafo 2, della legge relativa all’im‑ posta sulle società stabilisce un nesso diretto tra il vantaggio fiscale di cui trattasi e la compensazione di tale vantaggio con un determinato prelievo fiscale. 49. Tale nesso diretto è necessario alla luce dell’obiettivo delle disposizioni na‑ zionali di cui al procedimento principale, volte, in particolare, come è stato esposto al punto 39 della presente sentenza, a garantire l’adeguamento dell’imposizione di una società con una stabile organizzazione non residente alla capacità contributiva della stessa. 50. Infatti, se si consentisse, a una società che dispone di una stabile organizzazio‑ ne in un altro Stato membro, di imputare ai propri ricavi le perdite di tale organizza‑ zione senza essere tassata per gli utili di quest’ultima, la capacità contributiva di detta società sarebbe sistematicamente sottovalutata. 51. La salvaguardia della coerenza del regime fiscale costituisce una giustificazio‑ ne convincente della differenza di trattamento di cui trattasi. 52. Peraltro, la prevenzione del rischio di un duplice uso delle perdite, anche se non espressamente invocata dal governo danese, è ugualmente tale da giustificare una restrizione alla libertà di stabilimento, quale quella di cui trattasi nella presente causa (v., in tal senso, sentenza del 3 febbraio 2015, Commissione/Regno Unito, C‑172/13, EU:C:2015:50, punto 24). 53. La normativa di cui al procedimento principale può quindi essere giustificata da motivi imperativi d’interesse generale volti alla ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri, alla coerenza del regime tributario danese, nonché alla necessità di prevenire i rischi di doppia deduzione delle perdite. 54. Nondimeno, occorre ancora verificare se detta normativa ecceda quanto ne‑ cessario per conseguire tali obiettivi. Sulla proporzionalità 55. Come è stato rilevato ai punti 26 e 27 della presente sentenza, una società con una stabile organizzazione non residente non può dedurre le perdite attribuibili a tale stabile organizzazione, a meno di ricorrere al regime del consolidato fiscale interna‑ zionale, nel rispetto delle condizioni stabilite per tale regime. 56. A tale riguardo, occorre sottolineare che, se una società residente fosse libe‑ ra di definire il perimetro di tale consolidato, essa avrebbe la facoltà di decidere, a propria discrezione, di includere soltanto le stabili organizzazioni non residenti che devono far fronte a perdite che sarebbero dedotte dal suo reddito imponibile in Dani‑ marca, lasciando nel contempo fuori di detto perimetro le stabili organizzazioni che realizzano utili e che rientrano, nel proprio Stato membro, in un’aliquota fiscale even‑ tualmente più favorevole che in Danimarca. Allo stesso modo, la facoltà che sarebbe


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concessa alla società residente, di modificare il perimetro del consolidato fiscale in‑ ternazionale da un anno all’altro, avrebbe quale conseguenza di permettere alla stessa di scegliere liberamente lo Stato membro in cui le perdite della stabile organizzazione non residente di cui trattasi debbano essere prese in considerazione (v., in tal senso, sentenza del 25 febbraio 2010, X Holding, C‑337/08, EU:C:2010:89, punti 31 e 32). Simili facoltà metterebbero a rischio sia la ripartizione equilibrata del potere impositi‑ vo tra Stati membri che la simmetria tra il diritto d’imposizione degli utili e la facoltà di deduzione delle perdite voluta dal regime tributario danese. 57. Tuttavia, senza che sia necessario pronunciarsi, in via generale, sulla propor‑ zionalità, rispetto agli obiettivi di cui ai punti da 41 a 53 della presente sentenza, delle condizioni del consolidato fiscale internazionale ricordate al punto 27 di quest’ultima, si deve ricordare che il giudice del rinvio s’interroga, in particolare, sulla necessità della differenza di trattamento di cui al procedimento principale nel caso specifico in cui le perdite della stabile organizzazione non residente siano definitive. 58. Orbene, quando non vi è più alcuna possibilità di dedurre le perdite della sta‑ bile organizzazione non residente nello Stato membro in cui essa è situata, il rischio di doppia deduzione delle perdite non esiste. 59. In un simile caso, una normativa come quella di cui al procedimento princi‑ pale eccede quanto è necessario per perseguire gli obiettivi di cui ai punti da 41 a 53 della presente sentenza. Infatti, l’adeguamento tra imposizione e capacità contributiva della società è maggiore se la società che ha una stabile organizzazione in un altro Sta‑ to membro è autorizzata, nel caso specifico, a dedurre dal proprio reddito imponibile le perdite definitive attribuibili alla stabile organizzazione. 60. Tuttavia, ai fini di non compromettere la coerenza del regime tributario dane‑ se, per preservare la quale la normativa in questione è stata appositamente adottata, la deduzione delle perdite può essere ammessa solamente a condizione che la società residente produca la prova del carattere definitivo delle perdite di cui domanda l’im‑ putazione ai propri ricavi (v., in tal senso, sentenze del 13 dicembre 2005, Marks & Spencer, C‑446/03, EU:C:2005:763, punto 56, nonché del 3 febbraio 2015, Commis‑ sione/Regno Unito, C‑172/13, EU:C:2015:50, punto 27). 61. A tale proposito, essa deve verificare che le perdite di cui trattasi soddisfino i requisiti indicati dalla Corte al punto 55 della sentenza del 13 dicembre 2005, Marks & Spencer (C‑446/03, EU:C:2005:763), cui a ragione fa riferimento il giudice del rinvio nella sua questione pregiudiziale. 62. In effetti, al punto 55 di tale sentenza la Corte ha dichiarato che la restrizione che la normativa di uno Stato membro impone alla libertà di stabilimento è spropor‑ zionata in una situazione in cui, da un lato, la controllata non residente abbia esaurito le possibilità di far fiscalmente valere le perdite esistenti nel proprio Stato di residenza a titolo dell’esercizio fiscale oggetto della domanda di sgravio nonché degli esercizi fiscali anteriori e, dall’altro lato, non sussistano possibilità affinché tali perdite possa‑ no essere fatte valere nel proprio Stato di residenza, a titolo degli esercizi futuri, sia


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dalla società stessa, sia da un terzo, segnatamente in caso di cessione di detta control‑ lata a quest’ultimo. 63. Il criterio del carattere definitivo delle perdite, ai sensi del punto 55 della sen‑ tenza del 13 dicembre 2005, Marks & Spencer (C‑446/03, EU:C:2005:763), è stato precisato al punto 36 della sentenza del 3 febbraio 2015, Commissione/Regno Unito (C‑172/13, EU:C:2015:50). Ne discende che la definitività delle perdite subite da una controllata non residente può essere accertata solamente qualora questa non percepi‑ sca più ricavi nello Stato membro di residenza. Fintantoché la controllata continui a percepire ricavi, ancorché minimi, sussiste la possibilità che le perdite subite possano essere poi compensate con utili futuri realizzati nello Stato membro di sua residenza. 64. Si evince da tale giurisprudenza, applicabile per analogia alle perdite di stabili organizzazioni non residenti, che le perdite attribuibili a una stabile organizzazione non residente acquistano carattere definitivo qualora, da un lato, la società che la de‑ tiene abbia esaurito tutte le possibilità di deduzione di tali perdite ad essa offerte dal diritto dello Stato membro in cui è situata la stabile organizzazione e, dall’altro, essa abbia cessato di percepire ricavi da quest’ultima, di modo che non esiste alcuna pos‑ sibilità che le perdite in questione siano prese in considerazione in tale Stato membro. 65. Spetta al giudice nazionale valutare se tali condizioni siano soddisfatte nel caso della succursale finlandese della Bevola. 66. Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 49 TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro che esclude la pos‑ sibilità, per una società residente che non abbia optato per un regime di consolidato fiscale internazionale come quello di cui al procedimento principale, di dedurre dal proprio reddito imponibile le perdite subite da una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro laddove, da un lato, tale società ha esaurito tutte le possibilità di deduzione di tali perdite ad essa offerte dal diritto dello Stato membro in cui è situata la stabile organizzazione in parola e, dall’altro, essa ha cessato di percepire ricavi da quest’ultima, di modo che non esiste più alcuna possibilità che le perdite siano prese in considerazione nello Stato membro in questione, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare. Sulle spese 47. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costi‑ tuisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. P.Q.M. la Corte (Grande Sezione) dichiara: l’articolo 49 TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro che esclude la pos‑ sibilità, per una società residente che non abbia optato per un regime di consolidato fiscale internazionale come quello di cui al procedimento principale, di dedurre dal


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proprio reddito imponibile le perdite subite da una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro laddove, da un lato, tale società ha esaurito tutte le possibilità di deduzione di tali perdite ad essa offerte dal diritto dello Stato membro in cui è situata la stabile organizzazione in parola e, dall’altro, essa ha cessato di percepire ricavi da quest’ultima, di modo che non esiste più alcuna possibilità che le perdite siano prese in considerazione nello Stato membro in questione, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare. (Omissis)

(1) Lo stato della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul regime tributario delle “perdite finali” delle stabili organizzazioni estere: da Marks & Spencer a Bevola. Sommario: 1. Introduzione. – 2. La sentenza Marks & Spencer. – 3. La sentenza Timac Agro. – 4. La sentenza Bevala. – 4.1. Le conclusioni dell’Avvocato Generale. – 4.2. La sentenza. – 5. Conclusioni.

Con la sentenza in commento, la Corte di giustizia dell’Unione europea (di seguito “CGUE”) si è pronunciata sulla compatibilità con il diritto dell’Unione europea (diritto di stabilimento) di norme nazionali che vietano la deduzione di perdite realizzate in altro Sta‑ to Membro da stabili organizzazioni estere di imprese residenti, nell’ipotesi in cui tali per‑ dite non possano essere più utilizzate in tale altro Stato Membro in ragione della cessazione dell’attività (ad esempio in caso di liquidazione). La CGUE conferma il principio di diritto elaborato nella sua precedente sentenza Marks & Spencer, a fronte di una giurisprudenza più recente (sentenze Nordea Bank e Timac Agro) che pareva aver modificato tale indirizzo. Il commento che segue ricostruisce il rilevante iter giurisprudenziale e colloca i principi di diritto elaborati dalla CGUE nel contesto della normativa italiana, per apprezzare la com‑ patibilità di quest’ultima con il diritto dell’Unione. With the commented decision, the Court of Justice of the European Union (hereinafter “CJEU”) ruled on the compatibility with European Union law (right of establishment) of domestic tax rules disallowing the deduction, in the Member State or residence, of the losses incurred by permanent establishments situated in other Member States, in the case those losses can no longer be used in the latter Member States by reason of the termination of the relevant business activities (for example in the event of liquidation). The CJEU confirms the principle developed in its previous Marks & Spencer decision, in spite of more recent judgments (Nordea Bank and Timac Agro), which seemed to have overturned the case law of the Court. This article illustrates the relevant development of the CJEU’s case law on the matter and analyzes the principles upheld by the Court against the background of the Italian legislation, in order to assess the compatibility of the latter with Union Union law.


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1. Introduzione. – Con la sentenza Marks & Spencer, risalente al 2005 (1), la Corte di Giustizia dell’Unione europea (di seguito “CGUE”) si è pronunciata sulla compatibilità con il diritto dell’Unione europea (ed, in particolare, con il diritto di stabilimento) di norme nazionali che vietano la deduzione, in capo a società controllanti residenti, di perdite realizzate in altro Stato Membro da società controllate nell’ipotesi in cui tali perdite non possa‑ no essere più utilizzate in detto altro Stato in ragione della cessazione dell’atti‑ vità (ad esempio liquidazione della società controllata) o di limitazioni norma‑ tive al loro utilizzo. La Corte ha quindi coniato l’espressione “perdite finali” (intese come perdite realizzate in uno Stato Membro da società controllate o stabili organizzazioni, residenti o situate in tale Stato, e non più ivi utilizzabili a seguito di cessazione dell’attività, né direttamente, né in compensazione di utili di altre società appartenenti allo stesso gruppo). Con tale sentenza la Cor‑ te affermava l’obbligo dello Stato Membro della società controllante di con‑ sentire la utilizzazione delle perdite finali delle società controllate residenti in altro Stato dell’Unione, così contemperando l’obiettivo della realizzazione del mercato interno e la sovranità fiscale dei singoli Stati Membri, principi entrambi tutelati dai trattati europei. A tale sentenza hanno fatto seguito altre pronunce della Corte ed, in par‑ ticolare, quelle relative alle cause Nordea Bank (2) e Timac Agro (3), entram‑ be relative alla ipotesi diversa, ma concettualmente analoga, delle perdite di stabili organizzazioni estere. Tali sentenze parevano segnare un revirement giurisprudenziale, negando in taluni casi l’obbligo, per lo Stato Membro del‑ la società controllante o della casa madre, di consentire la deducibilità delle perdite finali estere. A tale conclusione la Corte perveniva in ragione della mancanza di comparabilità oggettiva tra una stabile organizzazione estera, che gode dell’esenzione nello Stato della residenza dell’impresa di cui è parte, ed una stabile organizzazione “nazionale”. Nel primo caso, infatti, lo Stato di residenza dell’impresa, applicando il metodo dell’esenzione per eliminare la doppia imposizione giuridica internazionale, rinuncerebbe ad esercitare il potere impositivo sui redditi della stabile organizzazione estera (4). La sen‑

(1) CGUE, sentenza del 13 dicembre 2005, causa C-446/03 Marks & Spencer. (2) CGUE, sentenza del 17 luglio 2014, causa C-48/13, Nordea Bank Danmark. (3) CGUE, sentenza del 17 dicembre 2015, causa C-388/14, Timac Agro. (4) In particolare, il sistema di esenzione – di fonte domestica o di fonte convenziona‑ le – analizzato dalla Corte europea è quello che prevede sia l’esenzione dei redditi esteri, sia, simmetricamente, la non deducibilità delle perdite estere.


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tenza Bevola (5), oggetto del presente commento, pare riaffermare i principi statuiti con la sentenza Marks & Spencer ed, in particolare, la sussistenza – anche nel caso di stabili organizzazioni estere, esenti da imposizione nello stato di residenza dell’impresa di cui fanno parte – di un obbligo per lo Stato di residenza di ammettere la deduzione, dal reddito delle proprie imprese, delle perdite finali prodotte dalle stabili organizzazioni estere. La nozione di “perdite finali” ha tuttavia ancora contorni incerti quanto alle condizioni della sua applicazione. Il presente contributo intende ripercorrere l’evoluzione della giurispru‑ denza della Corte in materia e individuare le questioni interpretative ancora irrisolte, ponendo infine in luce lo stato della normativa italiana con riferimen‑ to alla sua compatibilità con i principi elaborati dalla CGUE. 2. La sentenza Marks & Spencer. – Nella sentenza Marks & Spencer (6) la Corte statuiva che, in relazione al diritto di una società madre residente di dedurre le perdite conseguite dalle proprie società figlie, una società figlia non residente nello Stato Membro della società madre è comparabile ad una società figlia ivi residente e che, di conseguenza, il divieto per la società madre di utilizzare le perdite prodotte dalla società figlia non residente rappresenta una discriminazione contraria, in astratto, al diritto di stabilimento, ove tale diniego si accompagni al diritto per la madre di dedurre le perdite delle società figlie residenti. Ad avviso della Corte, la discriminazione sarebbe giustifica‑ bile in virtù del principio della simmetria, (7) nonché in ragione del rischio di evasione fiscale, (8) del rischio del duplice uso delle perdite (9) e della tutela

(5) CGUE, Nordea Bank Danmark, cit. (6) CGUE, Marks & Spencer, cit. (7) Il caso speculare è dato dalle cosiddette Dual Consolidated Loss Rules di cui alla sen‑ tenza della CGUE del 6 settembre 2012 nella causa C-18/11 Philips Electronics UK Ltd in cui lo Stato vietava l’utilizzo di perdite che rientravano nell’ambito del proprio potere impositivo. Cfr. sentenza della CGUE del 4 luglio 2018 nella causa C-28/17: si rinvia a P. Arginelli, La Corte di Giustizia ammette le limitazioni all’utilizzo delle perdite delle stabili organizzazioni, nell’ambito del consolidato nazionale, volte a prevenire fenomeni di doppia deduzione internazionale, in Dir. Prat. Trib. Int. 2/2018, 562 ss. (8) CGUE, Marks & Spencer, cit., punto 49 (9) CGUE, Marks & Spencer, cit., punto 47


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della ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati Membri (10) (11). Tuttavia, nella sentenza Marks & Spencer, la Corte ha ritenuto tale discri‑ minazione non proporzionata nell’ipotesi di “perdite finali”, ossia di perdite non più deducibili o comunque utilizzabili nello Stato in cui è situata la socie‑ tà figlia non residente (la indeducibilità si riferisce alla cessazione delle attivi‑ tà d’impresa e quindi all’assenza di utili imponibili che potrebbero altrimenti consentire la deduzione delle perdite mentre la utilizzabilità si riferisce all’im‑ piego delle perdite finali nel contesto di regimi di consolidato fiscale nello Stato di residenza della società figlia). Pertanto, in tali fattispecie, in deroga ai principi di simmetria e territorialità, le perdite finali devono essere ammesse in deduzione nello Stato Membro di residenza della società controllante. La conclusione della Corte è dunque articolata su tre livelli: (i) analisi di comparabilità (e quindi esistenza di una discriminazione); (ii) utilizzo del principio di simmetria come causa di giustificazione; (iii) affermazione del principio di deducibilità delle sole perdite finali sulla base del principio di proporzionalità. Essi, nel loro insieme, esprimono il principio di diritto della deducibilità delle “perdite finali”. Tale principio è stato poi esteso nella sen‑ tenza Lidl Belgium (12) alle perdite prodotte da stabili organizzazioni estere. Lo stesso impianto argomentativo era stato utilizzato dalla Corte nella causa Krankenheim Wannsee (13) avente per oggetto un meccanismo di recupero a tassazione delle perdite pregresse (c.d. recapture delle perdite) (14). Dunque, alla fine del decennio scorso, il filone giurisprudenziale originato dalla sentenza Marks & Spencer, caratterizzato da un lato dal principio della

(10) CGUE, Marks & Spencer, cit., punto 45 (11) A commento della sentenza si vedano, ex multis, J. Kokott, Entwicklungslinien der Rechtsprechung des EuGH zu den direkten Steuern, in 100 Jahre Steuerrechtsprechung in Deutschland, 735 ss, 2018, Verlag Otto Schmidt, Colonia; J. Stark, Die Verteilungsgerechtigkeit als Prinzip des internationalen Steuerrechts, in Steuer und Wirtschaft, 2019, 71 ss.; P. Arginelli, The Discriminatory Taxation of Permanent Establishments by the Host State in the European Union: a Too Much Separate Entity Approach, Intertax, 2007, 97. (12) CGUE, sentenza del 15 maggio 2008,causa C-414/06, Lidl Belgium. (13) CGUE, sentenza del 23 ottobre 2008, causa C-157/07, Krankenheim Wannsee. (14) La norma tedesca contestata prevedeva la deduzione temporanea delle perdite del‑ la stabile organizzazione estera, che godeva dell’esenzione (convenzionale), ed il successivo recupero a tassazione di tali perdite quando questa stabile organizzazione realizzava utili. Nel caso di specie, la norma austriaca a sua volta non consentiva la compensazione di tali perdite precedenti con gli utili realizzati dalla stabile organizzazione successivamente, per cui le perdi‑ te diventavano irrecuperabili.


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simmetria e dall’altro lato dal principio delle “perdite finali”, sembrava co‑ stituire giurisprudenza consolidata. Rimaneva solamente aperta la questione della puntuale definizione della nozione di “perdite finali”: uno dei problemi fondamentali era costituito dalla circostanza che le sentenze della Corte ave‑ vano definito le “perdite finali” come componenti negative di reddito connota‑ te da una loro “irrecuperabilità assoluta” di impiego nello Stato di loro realiz‑ zo. Detta condizione (irrecuperabilità delle perdite nello Stato estero) poteva tuttavia essere ascrivibile alle scelte legislative operate da detto Stato, diverse dunque dalle ipotesi di cessazione dell’attività della società controllata o della stabile organizzazione, fattispecie queste ultime caratterizzate dalla oggetti‑ va impossibilità di contrapporre alle perdite (futuri) utili imponibili. Tali casi sarebbero, ad esempio, quelli di normative nazionali dello Stato di residenza della società controllata o di ubicazione della stabile organizzazione che vie‑ tino l’utilizzo di tali perdite finali nel contesto di regimi di consolidato fiscale nazionale o fusione con altre società residenti nel medesimo Stato Membro. In tal caso, lo Stato di residenza della società madre sarebbe stato obbligato a “importare” perdite irrecuperabili per effetto diretto di tali scelte legislative, in palese violazione dei principi di sovranità (tributaria) e di eguaglianza tra Stati che caratterizzano il diritto internazionale pubblico. Sul punto, il Bundesfinanzhof (di seguito anche “BFH”) (15) aveva proposto nella propria giu‑ risprudenza una distinzione tra perdite finali derivanti da circostanze di fatto, quali la cessazione dell’attività della società controllata o della stabile orga‑ nizzazione e l’inesistenza di utili di società appartenenti al medesimo gruppo, e perdite finali derivanti da restrizioni normative dello Stato di realizzazione delle perdite finali, quali ad esempio il divieto di un loro utilizzo nel contesto di regimi di consolidato fiscale nazionale (16).

(15) Sentenza del 9 giugno 2010, I R 100/09 e sentenza del 9 giugno 2010, I R 107/09 (16) Tale distinzione è stata criticata in dottrina. Cfr., ad esempio, M. Lang, Has the Case Law of the ECJ on Final Losses Reached the End of the Line, in European Taxation 2014, 530 ss.: “Whether actual circumstances rule out the possibility of using losses will ultimately depend on the legislation of the source state: In the event of a transfer or abandonment of a PE, the losses can only be final if the taxpayer who acquires the PE is not allowed under the tax laws of the source state to continue using the losses or when these laws do not allow him to offset these losses against later income from other sources or profits of another PE founded later.”


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3. La sentenza Timac Agro. – La Corte affrontava nuovamente la questio‑ ne relativa alle “perdite finali “ nelle sentenze Nordea (17) e Timac Agro (18), nelle quali, ad una attenta lettura, si può rinvenire un revirement del preceden‑ te orientamento giurisprudenziale. La causa oggetto della controversia concerneva due distinti periodi di im‑ posta, ai quali si applicavano due diverse discipline concernenti il trattamento fiscale delle perdite conseguite da stabili organizzazioni estere. Nel primo pe‑ riodo di imposta, le perdite della stabile organizzazione estera erano soggette ad un regime di temporanea deducibilità nello stato di residenza della casa madre, con obbligo di recupero a tassazione nel momento in cui la stabile or‑ ganizzazione avesse di nuovo prodotto utili. Nel secondo periodo di imposta detto meccanismo di recapture era stato abrogato e sostituito da un regime di esclusione, ab origine, di tali perdite dal concorso alla formazione della base imponibile tedesca. Mentre, con riferimento al primo periodo di imposta, la questione posta all’attenzione della Corte concerneva la legittimità del recapture, in relazione al secondo periodo di imposta alla Corte era sottoposto il tema della deduci‑ bilità di “perdite finali” derivanti dalla cessione di una stabile organizzazione situata in Austria, da parte di una società tedesca facente parte di un gruppo francese, ad una società austriaca facente parte dello stesso gruppo. In tale occasione, la Corte negava che il diritto dell’Unione europea imponesse alla Germania l’obbligo di garantire la deducibilità (in Germania) delle perdite finali realizzate in Austria dalla stabile organizzazione, anche ove queste non avessero potuto essere utilizzate in capo alla società estera acquirente, nell’i‑ potesi in cui la potestà impositiva sull’utile della stabile organizzazione fosse stato attribuito in via esclusiva allo Stato di stabilimento di quest’ultima in virtù di una disposizione convenzionale. Nel caso di specie, infatti, la con‑ venzione conclusa tra Austria e Germania per evitare le doppie imposizioni prevedeva il diritto esclusivo per lo Stato della stabile organizzazione di as‑ soggettare ad imposta gli utili ad essa attribuibili e la conseguente esenzione degli stessi utili nello Stato contraente di residenza della casa madre. A sostegno di tale conclusione, la Corte rilevava che, alla luce della fina‑ lità della norma in oggetto (ossia eliminare o attenuare la doppia tassazione), la stabile organizzazione estera non è comparabile ad una “stabile organizza‑

(17) CGUE, Nordea Bank Danmark, cit. (18) CGUE, Timac Agro, cit.


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zione nazionale” (definizione coniata dalla stessa Corte ai soli fini della com‑ parabilità), ove lo Stato della residenza dell’impresa non eserciti un potere impositivo nei confronti della stabile organizzazione estera (19). Tale era la situazione che, ad avviso della CGUE, si manifestava nel secondo periodo di imposta. Pertanto, data la mancanza di comparabilità e, quindi, l’inesistenza di una discriminazione contraria alla libertà di stabilimento, veniva meno la necessità dell’analisi delle cause di giustificazione e dell’analisi della propor‑ zionalità della norma in oggetto. Con questa impostazione, quindi, non si po‑ neva neanche il tema delle perdite finali, irrecuperabili nello Stato della stabile organizzazione. A diversa conclusione la Corte era pervenuta con riferimento al primo periodo di imposta, ravvisando nel meccanismo di recapture delle perdite un elemento sufficiente per ritenere realizzato il presupposto dell’e‑ sercizio del potere impositivo sui redditi esteri, (20) il quale determinava la comparabilità della stabile organizzazione estera e di quella nazionale (21). Questa soluzione appariva in linea con la tendenza sempre più marcata della Corte a declinare l’analisi di comparabilità in funzione dell’obiettivo della norma in esame (22). Il principale rischio di tale impostazione è che la stessa restringe la possibilità di operare un contemperamento tra l’esigenza del mercato interno a rimuovere gli ostacoli di natura fiscale alla sua realizzazione e gli obiettivi perseguiti dai legislatori nazionali nell’esercizio della propria sovranità fiscale. Infatti, la sede tipica per l’individuazione di un equilibrio tra queste contrapposte esigenze è quella dell’analisi della proporzionalità. (23)

(19) CGUE, sentenza Timac Agro, cit. punto 65 e punto 27. Detto principio era già stato statuito nella sentenza Nordea, al. punto 24. (20) CGUE, sentenza Timac Agro, cit. punto 28 (21) F. Schumacher, Das EUGH-Urteil Timac Agro – Was bleibt von der Rechtsfigur der finalen Verluste übrig? in ISTR, 2016, 473 e ss, ha ravvisato una mancanza di coerenza nel ragionamento della Corte che riconoscerebbe la comparabilità solo in presenza di una norma agevolativa che consente la deduzione temporanea delle perdite nell’ambito del metodo dell’e‑ senzione e quindi obbligherebbe uno Stato ad importare le perdite finali solo perché ha intro‑ dotto nel proprio ordinamento una norma agevolativa di deduzione temporanea delle perdite. (22) L’obiettivo della norma dovrebbe essere anche considerato nelle fasi successive, in quella dell’analisi delle cause di giustificazione e in quella della proporzionalità. Per questa ra‑ gione la Kokott aveva proposto nelle sue conclusioni del 13 marzo 2014 nella causa Nordea di abbandonare l’analisi della comparabilità in quanto superflua e di limitarsi all’accertamento di una discriminazione. L’AG J. Kokott ha ripetuto tale proposta nelle conclusioni del 10 gennaio 2019 nella causa C-607/17 e in quelle del 10 gennaio 2019 nella causa 608/17 (rispettivamente ai punti 46 e 38). (23) Nell’ambito della più ampia analisi delle cause di giustificazione.


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Entrambe le esigenze, quella della realizzazione del mercato interno (24) eu‑ ropeo e quella della protezione della sovranità fiscale dei singoli Stati Membri, sono tutelate dai trattati europei (25), essendo la sovranità fiscale (che assicura le risorse finanziarie allo Stato) il presupposto per il funzionamento dei singoli Stati Membri, che a sua volta costituisce il presupposto per il funzionamento dell’Unione europea (26). In questo contesto, è pacifico il principio secondo cui la doppia imposizione internazionale (o la doppia non imposizione inter‑ nazionale) di per sé non è considerata dalla Corte una violazione delle libertà fondamentali. Nella causa Timac Agro la Corte non aveva dichiarato espressamente di aver cambiato orientamento rispetto alla, e quindi di aver abbandonato i prin‑ cipi affermati nella, sentenza Marks & Spencer. Tuttavia, essa aveva ritenuto che il principio della simmetria potesse limitare le libertà fondamentali, facen‑ do venire meno la stessa discriminazione per difetto di comparabilità. Veniva, pertanto, meno l’esigenza di analizzare le cause di giustificazione e la loro proporzionalità. (27) La dottrina maggioritaria (28) era concorde nel ritenere che con le sen‑ tenze Nordea e Timac Agro la Corte avesse abbandonato la nozione di perdite

(24) L’Avvocato Generale Kokott, nelle conclusioni del 10 gennaio 2019 relative alla cau‑ sa C-607/17 e nelle conclusioni del 10 gennaio 2019 relative alla causa 608/17 (rispettivamente ai punti 76 e 69), sembra voler contrapporre la nozione di “mercato interno equo” (facendo riferimento alla discussione in materia di BEPS) all’esigenza della realizzazione del mercato interno europeo. (25) Cfr. W.Schön, Neutrality and Territoriality – Competing or Converging Concepts in European Tax Law? In Bulletin for International Taxation, April/May 2015, 271 ss, par. 2.3.3. (26) Che è anche uno dei principi inspiratori della recente direttiva ATAD volta a porre un argine alla concorrenza fiscale tra gli Stati. (27) Si confronti, viceversa, la sentenza Marks & Spencer, cit., punto 40: “Tuttavia, il fatto che esso non tassa i redditi delle controllate non residenti di una controllante registrata sul suo territorio non giustifica, di per sé, una limitazione dello sgravio di gruppo alle perdite subite dalle società residenti.” (28) Per i riferimenti dottrinali, si consenta il rinvio a A. Crazzolara, Un nuovo tassello nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE relativa all’utilizzabilità nello Stato di residenza delle perdite delle stabili organizzazioni estere: la sentenza Timac Agro, Diritto e pra‑ tica tributaria internazionale n. 4/2016, 1483 ss. Si veda, in particolare, A. Schnitger, EUGH in der Rs. Timac Agro zu finalen ausländischen Betriebsstättenverlusten – War es das bei der Freistellungsmethode?, in ISTR 2/2016, 72 ss. Di diverso avviso, R. Papotti, C. Setti, The ECJ Decision in Timac Agro (Case C-388/14): Another Properly Shaped Piece in the ECJ’ s Tax Loss Puzzle, in European Taxation, June 2016, 246 ss.


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finali (29) nei casi di applicazione del metodo dell’esenzione, così segnando una svolta importante nella propria giurisprudenza. Al contempo, era stata sollevata in dottrina l’ulteriore questione se la CGUE, pur avendo concluso per la non comparabilità delle fattispecie, non avesse in realtà valorizzato (sebbene non espressamente) la necessità di preve‑ nire fenomeni di elusione fiscale, essendo la causa relativa ad una operazione infragruppo (la cessione di una stabile organizzazione ad un’altra società del gruppo) per effetto della quale il contribuente avrebbe potuto decidere – in concreto – in quale Stato utilizzare le perdite prodotte dalla stabile organiz‑ zazione. In altri termini, ad avviso di alcuni autori, il profilo potenzialmente elusivo dell’operazione avrebbe indotto la Corte ad applicare restrittivamente i propri principi giurisprudenziali, senza tuttavia abbandonarli. (30) La sentenza della Corte aveva suscitato molte critiche (31), in quanto un’applicazione generalizzata e sistematica di questo principio avrebbe ri‑ stretto in maniera notevole l’ambito di applicazione delle libertà fondamentali

(29) Il BFH, nella sentenza del 22 febbraio 2017 (I R 2/15) aveva rinunciato a rinviare una questione relativa alle perdite finali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea applicando la dottrina dell’act clair facendo esplicito riferimento alla sentenza Timac Agro, pur criticando le posizioni ivi assunte, e abbandonando la propria posizione precedente. La sentenza riguardava una società tedesca che aveva ceduto la stabile organizzazione italiana che aveva generato per‑ dite nei periodi precedenti. Anche se la Convenzione prevede il metodo dell’esenzione queste perdite erano state dedotte nei precedenti periodi d’imposta in Germania in forza di una norma domestica. La cessione della stabile organizzazione comportava la recapture di tali perdite in forza di una norma domestica. La società aveva chiesto la disapplicazione della recapture con l’argomento che si trattava di perdite finali ai sensi del diritto europeo, cioè di perdite non più recuperabili in Italia, che in deroga al principio di simmetria avrebbero dovuto essere deducibili sulla base della libertà di stabilimento. Il BFH ha rigettato l’istanza affermando che la dottrina Marks & Spencer è stata abbandonata dalla CGUE con la sentenza Timac Agro Deutschland riconoscendo “al principio di simmetria la capacità di escludere fin dal principio l’esistenza di una limitazione della libertà di stabilimento” e che il cambiamento dell’orientamento giuri‑ sprudenziale sia talmente inequivocabile da non ritenere opportuno un ulteriore rinvio di que‑ stioni in tale materia alla Corte. Critico nei confronti della sentenza A. Cordenewer, CrossBorder Loss Compensation and EU Fundamental Freedoms: The ‘Final Losses’ Doctrine Is Still Alive!, EC Tax Review 2018/5, 230 ss (30) A. Albano, I Limiti alla circolazione cross-border delle perdite fiscali nei gruppi multinazionali: profili ricostruttivi), in Riv. Dir. Trib., parte quarta, 2016, 82 ss. Il BFH nella sentenza del 22 febbraio 2017 (I R 2/15) richiama nella sentenza questa opi‑ nione evidenziando però che questa circostanza non risulta dal testo della sentenza. (31) Per i riferimenti dottrinali, si rinvia a A. Crazzolara, Un nuovo tassello nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE relativa all’utilizzabilità nello Stato di residenza delle perdite delle stabili organizzazioni estere: la sentenza Timac Agro, in Diritto e pratica tributaria internazionale n. 4/2016, 1483 ss.


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(anche nei casi di exit tax) e depotenziato la forza armonizzatrice delle libertà fondamentali in tutti i casi nei quali sarebbe stato applicabile il principio di territorialità (32). Infatti, applicando tale principio alle fattispecie fiscali tran‑ sfrontaliere, in quasi tutte le ipotesi si arriverebbe a concludere nel senso della non comparabilità tra fattispecie transfrontaliere e fattispecie nazionali (33). A riprova di tale rischio, si rileva che, nelle cause Bechtel (34) e HornbachBaumarkt (35), successive alla sentenza Timac Agro, svariati governi interve‑ nuti nei procedimenti dinanzi la Corte avevano chiesto l’estensione dei principi Timac Agro a fattispecie diverse da quella delle perdite finali, con conseguente riconoscimento della mancanza di comparabilità, data l’assenza di un potere impositivo in capo allo Stato della casa madre o della società controllante sui redditi realizzati in altro Stato Membro dalla stabile organizzazione o dalla società controllata. Tali argomenti non erano tuttavia stati accolti dalla Corte. In particolare, nella sentenza Hornbach-Baumarkt, la Corte aveva riget‑ tato l’argomento del governo tedesco, sostenendo (36) che l’esercizio (o del mancato esercizio) della potestà impositiva fosse un elemento da prendere in considerazione nell’ambito dell’analisi delle cause di giustificazioni (37), piuttosto che in sede di analisi di comparabilità.

(32) Argomento ripreso nella sentenza Bevola al punto 35 (33) Di diverso avviso P. Wattel, Non-Discrimination à la Cour: The ECJ’s (Lack) Comparability Analysis in Direct Tax Cases, in European Taxation December 2015, p. 542 ss., il quale condivide il criterio di comparabilità di cui alla sentenza Timac Agro: “The author submits that only one comparability standard makes sense: to be (subject to tax) or not to be (subject to tax), that is the (relevant) question.” (34) CGUE, sentenza del 22 giugno 2017 nella causa C-20/16, Bechtel punto 54. (35) CGUE, sentenza del 31 maggio 2018 nella causa C-382/16, Hornbach-Baumarkt AG punti 38 e seguenti. (36) CGUE, Hornbach-Baumarkt, cit. punto 40 (37) Cfr. tuttavia nella sentenza Eqiom del 7.09.2017 nella causa C-6/16, punto 59 e nel‑ la sentenza Deister Holding del 20.12.2017 nella causa C-504/16, punto 93, la Corte sembra condividere, in fattispecie riguardanti la distribuzione di utili, la tesi dell’esercizio della potestà impositiva come presupposto per la comparabilità. Punto 93 della sentenza C-504/16: “La Corte, sebbene abbia affermato, in riferimento alle misure previste da uno Stato membro al fine di prevenire o attenuare l’imposizione a catena o la doppia imposizione di utili distribuiti da una società residente, che gli azionisti beneficiari residenti non si trovano necessariamente in una situazione comparabile a quella degli azionisti beneficiari residenti in un altro Stato membro, ha parimenti precisato che, laddove uno Stato membro eserciti la propria potestà tributaria non soltanto sul reddito degli azionisti residenti ma anche su quello degli azionisti non residenti, per i dividendi da essi percepiti da una società residente, la situazione di detti azionisti non residenti si avvicina a quella degli azionisti residenti (sentenza del 7 settembre 2017, Eqiom e Enka, C6/16, EU:C:2017:641, punto 59 e giurisprudenza citata).”


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4. La sentenza Bevola. – Nella sentenza Bevola, la Corte pare aver nuo‑ vamente mutato il proprio orientamento (38) giurisprudenziale. La causa Bevola riguardava una società di capitali danese (A/S Bevola), facente parte di un gruppo multinazionale e avente una stabile organizzazione finlandese che aveva cessato la sua attività. La società danese applicava un re‑ gime di consolidato fiscale nazionale. Le perdite generate in capo alla stabile organizzazione non potevano più essere utilizzate in Finlandia, in ragione del‑ la cessata attività. Le perdite non potevano neppure essere utilizzate in Dani‑ marca, in quanto la normativa interna danese prevedeva l’esenzione dei redditi delle stabili organizzazioni estere ed il corrispondente divieto di utilizzo delle perdite da queste prodotte. Infatti, il sistema danese dell’imposta sul reddito delle società era (ed è tuttora) strettamente orientato al principio della territo‑ rialità, nonostante l’ordinamento danese prevedesse l’istituto (opzionale) del consolidato fiscale mondiale. Di converso, la Convenzione per eliminare le doppie imposizioni applicabile alla fattispecie, ossia la Convenzione conclusa

(38) Cfr., a commento della sentenza, G.Odetto e S.Sanna, Perdite estere deducibili se la branch chiude, Eutekne Info, 13.06.2018; G.Albano/R.Spaziani, Per le stabili organizzazioni esteso il riporto delle perdite, in Quotidiano del Fisco, 13.06.2018; K.Schulz-Trieglaff, Die EUGH-Entscheidung v. 12.6.2018 „A/V Bevola, Jens W. Trock ApS“: Keine erneuerte Ände‑ rung der EuGH-Rechtssprechung nach „Timac Agro Deutschland GmbH“! In ISTR 20/2018, 777 ss; D. Eisendle, Anmerkung zu Schlussantr. V. 17.1.2018 C-650/16 Bevola, in ISR 4/2018, 126 ss; S. Müller, Anmerkung zu Urt. v. 12.6.2018- C-650/16 in ISR 8/2018, 281 ss; K. Schulz-Trieglaff, Klarstellung zur Berücksichtigung finaler Betriebsstättenverluste, in Stub 16/2918, 590 ss; K. Schlücke, Anmerkung, in Finanzrundschau 14/2018, 643-649; G. Kraft, Anmerkung, in ISTR 13/2018, 508 ss; W. Mitschke, Anmerkung aus Sicht der Verwaltung, in SteuerPrisma, 8/2018, 467-470; C. Kahlenberg, Anmerkung aus Beratersicht, in Steuer‑ Prisma, 8/2018, 470-472; N. Trossen, Anmerkung aus Richtersicht, in SteuerPrisma, 8/2018, 472; D. Heckerodt, „Finale“ ausländische Betriebsstättenverluste – back tot he roots, in IWB 13/2018, 521-528; H.Kahle, J.Braun e S.Burger, Ausgewählte Entwicklungen der Ertragsbesteuerung von Betriebsstätten, in Finanzrundschau 16/2018, 717 ss; M. Ribbrock, Kommando zurück in Sachen finale Betriebsstättenverluste? In Betriebs-Berater 30.2018, 1703; A. Cordenewer, Cross-Border Loss Compensation and EU Fundamental Freedoms: The ‘Final Losses’ Doctrine Is Still Alive!, EC Tax Review 2018/5, 230 ss; D. Heckerodt/S. Schulz, Berücksichtigung ausländischer Betriebsstättenverluste unter dem Aspekt des Finalitätsgrundsatzes, in DSTR 2018, 1457 ss; P. Brandis, „Zurück in die Zukunft“? – „Finale Verluste“ nach dem EuGH – Urteil „Bevola“, in DSTR 40/2018, 2051 ss; H. Vermeulen, Bevola: The Marks & Spencer Exception is still alive! In Kluwer International Tax Blog Sep. 12, 2018; D. Heckerodt, Finale Betriebsstättenverluste: Kein Mythos, sondern Realität!, in ISTR 5/2019, 171 ss; A. Kopec/P. Wellmann, Kein Finale für die finalen Verluste – Berücksichtigung von definitiven Betriebsstättenverlusten nach dem EUGH-Urteil Bevola, in ISR 2019, 1 ss.


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tra i paesi nordici (39), prevedeva il credito d’imposta quale metodo per eli‑ minare la doppia imposizione giuridica internazionale, consentendo quindi, in astratto, agli Stati contraenti di residenza di includere nel reddito complessivo assoggettato ad imposizione i redditi e le perdite delle stabili organizzazioni situate negli altri Stati contraenti. Nella trattazione orale la Commissione (40) aveva invocato la rilevanza della nozione di perdite finali e aveva, a supporto, ulteriormente richiamato il principio di capacità contributiva (41) (42).

(39) Convenzione per eliminare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio, conclusa il 23 settembre 1996 tra Danimarca, Isole Faroe, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia. (40) Come risulta dalla nota 21 (punto 37) delle conclusioni dell’Avvocato Generale. (41) Sul principio di capacità contributiva si veda, ex multis, F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, Cedam, 1973; F. Moschetti, voce: Capacità contributiva, in Enciclopedia giuridica (Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani), Roma, 1988; R. Cordeiro Guerra, Capacità contributiva e imposizione ultraterritoriale, in AA.VV. (a cura di R. Cordeiro Guerra), Diritto tributario internazionale. Istituzioni, Padova, 2016, 95 ss; K. Tipke, Die Steuerrechtsordnung, Colonia, 2000, 471 e ss.; H. Schaumburg, Das Leistungsfähigkeitsprinzip im internationalen Steuerrecht, in Festschrift für Klaus Tip‑ ke, Colonia, 1995, 125 e ss.; J. Lang, Steuergerechtigkeit und Globalisierung, in Festschrift für Harald Schaumburg, Colonia, 2009, 45 ss; K. Vogel, Über Besteuerungsrechte und über das Leistungsfähigkeitsprinzip im internationalen Steuerrecht, in Festschrift für Franz Klein, Colonia, 1994, 361 ss; P. Kirchhof, Die Leistungsfähigkeit des Steuerrechts – Steuerrecht und Verfassungsrecht, in Steuer und Wirtschaft, 2011, 365 e ss.; Heide Schaumburg/Harald Schaumburg, Steuerliche Leistungsfähigkeit und europäische Grundfreiheiten im internationalen Steuerrecht, in Steuer und Wirtschaft, 2005, 306 e ss.. (42) La Commissione aveva già avanzato il tema della capacità contributiva, in materia di perdite, nella causa C-172/13, tema non ripreso tuttavia dall’Avvocato Generale Kokott. Nelle sue conclusioni del 23 ottobre 2014, al punto 53, l’Avvocato Generale afferma: “Third, the abandonment of the Marks & Spencer exception also does not infringe the ability-to-pay principle, as the Commission claimed at the hearing. The present case concerns the notional treatment of different taxpayers as one and the same taxpayer. However, parent companies and subsidiaries are not jointly taxed, in principle, because they are separate legal entities each with its own ability to pay. At least, the subsidiary does not have access to the assets of the parent company. Accordingly, I consider that a group taxation system is not necessary a priori for reasons relating to the ability to pay.”. Nella versione italiana è stato usato – a mio avviso erroneamente – il termine fuorviante “principio dell’efficienza”. La prima sollecitazione nei confronti della Corte ad utilizzare il parametro della capacità contributiva con riferimento alla deducibilità delle perdite realizzate dalla casa madre e dalla stabile organizzazione si riscontra in P. Arginelli, The Discriminatory Taxation of Permanent Establishments by the Host State in the European Union: a Too Much Separate Entity Approach, Intertax, 2007, 77.


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4.1. Le conclusioni dell’Avvocato Generale. – Nelle sue conclusioni (43), l’avvocato generale Sanchez Bordona si era espresso a favore della conferma del principio delle “perdite finali”, ponendosi così in contrasto con le conclu‑ sioni di altri avvocati generali nelle cause A OY (44), Commissione europea c. Regno Unito (45), K (46) e Timac Agro (47) (48), circostanza non trascurabi‑ le posta la influenza delle conclusioni degli avvocati generali sulla stabilità e il consolidamento della giurisprudenza della Corte. Il ragionamento dell’Avvocato Generale nelle conclusioni relative alla causa Bevola è incentrato sul principio di capacità contributiva, elemento che caratterizzava anche la chiave di lettura che lo stesso Avvocato Generale for‑ nisce della sentenza Marks & Spencer. (49) Ad avviso dell’Avvocato Gene‑ rale, il principio della capacità contributiva sta alla base dell’eccezione delle perdite finali che contraddistingue la sentenza Marks & Spencer, in quanto la capacità contributiva della società controllante si riduce per effetto delle per‑ dite estere irrecuperabili e, quindi, tali perdite necessariamente devono essere prese in considerazione nello Stato di residenza della società controllante. Secondo l’Avvocato Generale va considerato inoltre che, nel caso di spe‑ cie, a differenza delle fattispecie oggetto delle sentenze Nordea Bank e Timac Agro, le perdite finali non si erano accumulate nel corso degli esercizi di or‑ dinaria operatività della stabile organizzazione (50), nel qual caso il rischio

(43) Conclusioni del 17 gennaio 2018, causa C-650/16 Bevola (44) Conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott del 19 luglio 2012, causa C-123/11 (45) Conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott del 23 ottobre 2014, causa C-172/13 (46) Conclusioni dell’Avvocato Generale Mengozzi del 21 marzo 2013, causa C-322/11 (47) Conclusioni dell’Avvocato Generale Wathelet del 3 settembre 2015, causa C-388/14 (48) L’Avvocato Generale Kokott nelle sue conclusioni del 10 gennaio 2019, relative alle cause C-607/17 e C-608/17, ha ridotto fortemente l’ambito di applicazione del principio delle perdite finali, pur rinunciando a chiedere alla Corte l’abbandono dello stesso. (49) Conclusioni del 17 gennaio 2018, causa C-650/16 Bevola, punto 38.. Sulla applicabi‑ lità del principio della capacità contributiva con riferimento al rapporto tra casa madre e stabile organizzazione, si veda P. Arginelli, The Discriminatory Taxation of Permanent Establishments by the Host State in the European Union: a Too Much Separate Entity Approach, Intertax, 2007, 97 ss. (50) E successivamente diventate “finali” per effetto del conferimento nella società estera. L’AG sembra ritenere questa circostanza significativa in quanto nelle cause Nordea Bank e Timac Agro si tratterebbe di perdite che avevano “per così dire, un carattere ricorrente, ossia, si producevano anno dopo anno, il che induceva a scegliere discrezionalmente i periodi più favorevoli” (punto 57) il che avrebbe favorito una sorta di cherry picking. Questo tema viene affrontato anche dall’AG Kokott nelle conclusioni del 10 gennaio 2019, relative alle cause C-607/17 e C-608/17, la quale ha ritenuto che “tali perdite accumulate (riportate a nuovo) che


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di abuso sarebbe stato maggiore (51), ma si erano realizzate nell’esercizio di liquidazione della stabile organizzazione (52). L’Avvocato Generale ha analizzato, inoltre, la rilevanza dell’esistenza, nell’ordinamento tributario della casa madre, di un’opzione per la tassazio‑ ne su base mondiale (consolidato fiscale mondiale) affrontando la questione se tale opzione sia sufficiente quale strumento per attribuire rilevanza, nello Stato della casa madre, alle perdite finali estere nel rispetto della libertà di stabilimento (53). L’Avvocato Generale ha riconosciuto che la struttura del sistema opzionale (di tassazione dei redditi esteri di “tutte” le società e le stabili organizzazioni estere del gruppo) soddisfa esigenze anti-elusive, impe‑ dendo che la società consolidante residente possa consolidare esclusivamente le società estere in perdita. Tuttavia, lo stesso Avvocato Generale ha espresso l’avviso che, nell’ipotesi di perdite realizzate in occasione della liquidazione o cessazione dell’attività, tale rischio sia da ritenersi minimo, (54) di guisa che la soluzione adottata dal legislatore danese si configura come “eccessivamente gravosa”, così violando il principio di proporzionalità. L’Avvocato Generale ha quindi affermato che la situazione della stabi‑ le organizzazione estera sia oggettivamente comparabile a quella della sta‑ bile organizzazione nazionale, con riferimento alle perdite finali, in quanto – condividendo la posizione espressa della Commissione – in entrambi i casi le perdite finali riducono (a prescindere dalla localizzazione della stabile or‑ ganizzazione) la capacità contributiva del contribuente (55). Per tali ragioni,

in un determinato esercizio rappresentano perdite non definitive (potendo essere oggetto di riporto o in quanto la normativa nazionale ne impediva la compensazione), non possono assumere, in un secondo momento, la natura di perdite definitive per il fatto che la liquidazione ne escluda un ulteriore riporto” (rispettivamente ai punti 58 e 51 delle conclusioni). (51) In termini di selezione arbitraria, da parte del contribuente, dello Stato nel quale uti‑ lizzare le perdite. (52) Cfr. punto 57. Si noti tuttavia che nella sentenza Marks & Spencer le perdite in esame erano perdite accumulatesi nel corso degli anni, come risulta dal punto 20 della sentenza stessa. Inoltre i rappresentanti di Bevola avrebbero dichiarato nel corso dell’udienza che si trattava di perdite accumulatesi negli anni. (53) L’opzione per la tassazione mondiale sembra essere stata introdotta nel sistema dane‑ se, per il resto orientato fortemente al principio della territorialità, proprio per tener conto del principio elaborato nella sentenza Marks & Spencer. (54) Conclusioni del 17 gennaio 2018, causa C-650/16, Bevola, punto 76, (55) L’avvocato generale, al punto 59, afferma: “la situazione di una SO residente e quella di una SO non residente, entrambe con perdite definitive, e precisamente per tale ragione, sono comparabili nell’ottica del rispetto del principio della capacità contributiva della società con-


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l’Avvocato Generale ha, infine, concluso sostenendo che la normativa danese in esame viola la libertà di stabilimento. Evidentemente l’Avvocato Generale ha fatto riferimento ad una capacità contributiva europea che però non è mai stata affermata dalla Corte, non è prevista dai trattati europei (56) e può essere diversa dalla nozione di capacità contributiva esistente nei singoli Stati Membri, dove la stessa si presenta con diverse connotazioni (57). Si potrebbe, infatti, sostenere che, in assenza di un principio di capacità contributiva armonizzato a livello europeo, anche il sistema danese, che recepisce il criterio della territorialità al fine di elimina‑ re fenomeni di doppia imposizione giuridica internazionale, sia conforme al principio di capacità contributiva vigente nell’ordinamento giuridico danese. In Germania, la cui normativa interna è incentrata sull’esenzione generaliz‑ zata dei redditi esteri, viene sostenuto da dottrina autorevole (58) che il prin‑ cipio della capacità contributiva non richiede, in ogni caso, l’adozione di un sistema di tassazione su base mondiale (c.d. worldwide taxation principle). A conclusione analoga – e cioè che entrambi i criteri di tassazione dei redditi esteri (credito ed esenzione) soddisfino il principio di capacità contributiva – pervengono le normative nazionali e la dottrina di numerosi altri Stati Mem‑ bri. Ciò è senz’altro vero per l’Italia che ha introdotto nel 2015 un regime di esenzione su base opzionale dei redditi delle stabili organizzazioni situate

trollante.”. (56) Cfr. G. Maisto, Progetto Costituzione Europea. Appunti di lavoro, in Riv. Dir. Trib., parte quarta, 2003, 124 ss, che aveva proposto di inserire espressamente nella futura Costitu‑ zione Europea il principio della capacità contributiva, essendo già esistente nelle costituzione di singoli Stati Membri. (57) Cfr. J. Englisch, Ability to pay, in C. Brokelind (a cura di), Principles of Law: Fun‑ ction, Status and Impact in EU Tax Law, IBFD, 2014, 453, il quale sottolinea che, anche se solo in 14 Stati Membri il principio della capacità contributiva sia riconosciuto espressamente come un principio di rango costituzionale, nella maggior parte degli Stati Membri vi è la tendenza a considerare detto principio come costituzionalmente rilevante. Ciò, ad avviso dell’Autore, corrobora la tesi sull’esistenza di un principio di capacità contributiva paneuropea. (58) H. Schaumburg, Internationales Steuerrecht, 4. Auflage, 2017, Verlag Dr. Otto Sch‑ midt, Köln, par. 6.586, secondo il quale, dato che i redditi esteri sono soggetti alle condizioni economiche, sociali e politiche del territorio in cui sono generati, è appropriato che si applichi‑ no esclusivamente i criteri ivi vigenti al fine dell’assoggettamento di tali redditi ad una tassa‑ zione secondo la capacità contributiva.


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all’estero (59). Anche il principio di territorialità (60) potrebbe dunque essere considerato una concretizzazione del principio di capacità contributiva per le ragioni che ne hanno auspicato l’introduzione nelle normative nazionali e cioè il radicamento territoriale meno intenso e limitato – per i redditi esteri – alla natura personale del tributo ma non al luogo di produzione del reddito (esso viene espresso nella teoria di scienza delle finanze dal principio della capital import neutrality) (61). La valutazione, viceversa, potrebbe mutare ove il parametro di riferi‑ mento adottato fosse quello di un principio di capacità contributiva (pan)

(59) Si veda, per analogia e con riferimento al regime recato dall’art. 24-bis del Tuir, quanto argomentato da L. Peverini, Sulla legittimità costituzionale dell’art. 24 bis Tuir e sulla possibilità di differenziare il concorso alle spese pubbliche da parte dei residenti in funzione del grado di collegamento con il territorio, in Riv. Dir. Trib., parte prima, 2018, 683 ss (60) In questa sede il principio di territorialità è inteso nell’accezione di limitazione del potere impositivo ai redditi che si considerano prodotti sul territorio dello Stato (“strict territo‑ riality principle”, cfr. P. Arginelli, The Discriminatory Taxation of Permanent Establishments by the Host State in the European Union: a Too Much Separate Entity Approach, Intertax, 2007, 90). In generale la sovranità territoriale è un elemento essenziale della sovranità statale. A tale fine si distingue comunemente tra “jurisdiction to prescribe” e “jurisdiction to enforce”. La seconda è strettamente limitata al territorio in quanto lo Stato non può in linea generale com‑ piere atti di sovranità in un territorio di un altro Stato, mentre la prima può anche estendersi a fattispecie estere purché dotate di un “genuine link” con il territorio dello Stato. Sul principio di territorialità si veda, inter alia, G. Maisto, Brevi riflessioni sulla evoluzione del concetto di “genuine link” ai fini della territorialità dell’imposizione tributaria tra diritto internazionale generale e diritto dell’Unione Europea, , in Riv. Dir. Trib., 2013, 889-917; G. Fransoni, L’efficacia della legge tributaria nel tempo e nello spazio, in Diritto tributario (a cura di A. Fantozzi), Torino, 2012, 299 ss; id., La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2004; C. Sacchetto, voce Territorialità (dir. Trib.), in Enc. Dir., 1992, Milano, 303 e ss.; R. Baggio, Il principio di territorialità e i limiti alla potestà tributaria, Milano, 2009; A. Manganelli, voce Territorialità dell’imposta, in Dig. disc. priv. – sez. comm., Torino, 1998, XV, 370 ss.; M. Lehner, Das Territorialitätsprinzip im Licht des Europarechts, in Festschrift für Franz Wassermeyer, 2005, 241 ss; K.Vogel, Der Grundsatz der Rücksicht im deutschen innerstaatlichen Recht und im Völkerrecht, in Festschrift für Ritter, Colonia, 1997, 771 e ss. (61) La nozione di capital import neutrality (così come quella ad essa contrapposta capital export neutrality) viene comunemente fatta risalire alle opere fondamentali di Musgrave del 1963 e del 1969. Cfr. P. B. Richman, Taxation of Foreign Investment Income: An Economic Analysis, Johns Hopkins Press, 1963; P. B. Musgrave, United States Taxation of Foreign Investment Income, Harvard University Press, 1969. Nel panorama tributario italiano, si veda, inter alia, V. Uckmar, G. Corasaniti, P. de’ Capitani di Vimercate e C. Corrado Oliva, Diritto Tributario Internazionale, Milano, 2012, 107.


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europeo (62) (63), sebbene in passato la Corte abbia considerato legittimo il fenomeno della doppia imposizione giuridica internazionale in quanto conse‑ guenza dell’esercizio in parallelo della potestà impositiva da parte dei singoli Stati (64). Il concetto di capacità contributiva complessiva, ossia (pan)europea, vie‑ ne comunemente ricondotto alla sentenza Schumacker (65) che concerneva la presa in carico della situazione personale e familiare del contribuente non residente ai fini delle imposte sui redditi (66). Nell’ambito di questo indiriz‑ zo giurisprudenziale (67), il principio di capacità contributiva viene espanso dalla Corte (68) al fine di evitare fenomeni di discriminazione derivanti dalla

(62) Che dovrebbe derivare dal principio generale dell’uguaglianza, nonché da quel‑ li della solidarietà sociale e della giustizia sociale (principi generalmente riconosciuti dagli Stati Membri dell’Unione europea). In questo senso J. Englisch, Ability to pay, cit.. Cfr. an‑ che I. Richelle, Cross-Border Loss Compensation: State and Critique of the Judicature, in I. Richelle, W. Schön e E. Traversa (a cura di), Allocating Taxing Powers within the European Union, Springer Verlag, Berlin, 2013, 103, secondo la quale, fermi restando i diversi significati che vengono attribuiti a tale principio nei diversi ordinamenti nazionali, in materia di perdite finali dovrebbe attribuirsi rilevanza alla nozione di capacità contributiva sensu strictu, quale parametro essenziale al fine di determinare il livello di tassazione di un contribuente in funzione della sua capacità di concorrere alla spesa pubblica. (63) Che la Corte ha esteso ai gruppi internazionali nella sentenza della CGUE del 4 luglio 2018 nella causa C-28/17 NN, punto 35, fatto criticato dall’Avvocato Generale Kokott nelle conclusioni nella causa 607/17. (64) J. Kokott, Das Steuerrecht der Europäischen Union, Monaco di Baviera, 2018, 112. (65) CGUE, sentenza del 14 febbraio 1995 nella causa C-279/93, Schumacker. (66) Punto 36 della sentenza Schumacker: “Lo stesso non può dirsi nel caso di specie, in cui il non residente non percepisce redditi significativi nello Stato in cui risiede e trae la parte essenziale delle sue risorse imponibili da un’attività svolta nello Stato dell’occupazione, per cui lo Stato di residenza non è in grado di concedergli le agevolazioni derivanti dalla presa in considerazione della sua situazione personale e familiare.” Cfr. CGUE, sentenza del 18 giugno 2015 nella causa C9/14, Kieback punti 22 ss. (67) Vedi, ad esempio, CGUE, sentenza del 19 novembre 2015 nella causa C-632/13, Hirvonen, punto 31; CGUE, sentenza del primo luglio 2004 nella causa C-169/03, Wallentin, punto 15; CGUE, sentenza del 18 luglio 2007 nella causa C-182/06, Lakebrink punto 34; Conclusioni dell’avvocato Generale P. LÉGER del 1° marzo 2005 nella causa C-152.03 Ritter Coulais, pun‑ to 82; Conclusioni dell’Avvocato Generale Mengozzi del 25 giugno 2008 nella causa C-527/06 Renneberg, punti 48 e 52 (68) Si rileva, inoltre, che la recente sentenza X (CGUE, sentenza del 9 febbraio 2017, causa C-283/15 X, punto 42) ha sancito una ulteriore espansione della dottrina Schumacker, sancendo il principio secondo cui gli Stati della fonte sono gravati dell’obbligo di tener conto della situazione familiare e personale dei contribuenti non residenti anche nei casi in cui questi non presentino le caratteristiche (in termini di radicamento reddituale) tipiche dei contribuenti ivi residenti.


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diversa declinazione del suddetto principio nei confronti dei residenti e dei non residenti (69). Tale approccio, è stato, di fatto, riproposto dall’Avvocato Generale nel diverso ambito della tassazione societaria. 4.2. La sentenza. – In linea generale, la Corte ha accolto le tesi dell’Avvo‑ cato Generale. In particolare, la Corte ha preliminarmente esaminato il tema relativo alla sussistenza di una discriminazione e nel fare questo ha operato un’analisi di comparabilità. (70) In merito, i governi intervenuti in udienza (71), richia‑

(69) J. Kokott, cit. p. 106, anche M. Lehner, Die Bedeutung der Grundrechts-Charta der Europäischen Union für das Internationale Steuerrecht der Mitgliedstaaten, in ISTR 2016, 265 ss. F. Vanistendael, Ability to pay in European Community Law, in EC TAX REVIEW 2014/3, 121 ss: „…. The ability to pay principle itself has not been used by the ECJ as a principle on its own to establish infringements against EU law”. (70) Prima di procedere all’analisi di comparabilità, la Corte, nell’ambito della valutazio‑ ne sull’esistenza di una disparità di trattamento, aveva esaminato la disciplina danese relativa al consolidato mondiale opzionale, constatando come lo stesso fosse subordinato a stringenti requisiti (in inglese: “strict conditions”; in italiano: “forti vincoli”; in tedesco: “schwere Bürde”). Queste restrizioni, costituite principalmente (i) dall’obbligo di includere nel perimetro di consolidamento tutte le società estere controllate e le stabili organizzazioni estere e (ii) dal requisito della durata decennale, renderebbero, secondo la Corte, il sistema opzionale inidoneo a consentire l’esclusione di una disparità di trattamento (punto 27). Cfr., in merito, il diverso iter argomentativo adottato nella sentenza Gielen, (sentenza del 18.03.2010, causa C-440/08, Gielen), punti 49 ss, secondo la quale, invece, una discriminazione non può essere eliminata concedendo al contribuente un’opzione: norma e opzione devono essere considerate separata‑ mente. (71) La Commissione, al contrario, riteneva che le sentenze Timac Agro e Nordea Bank contraddicessero la giurisprudenza precedente, la quale non aveva attribuito rilevanza – in se‑ de di analisi di comparabilità – all’esercizio del potere impositivo sui redditi delle stabili or‑ ganizzazioni e società estere. La Commissione, in proposito, argomentava che l’applicazione generalizzata dei principi di cui alle sentenze Timac Agro e Nordea Bank avrebbe condotto a concludere che due situazioni fossero non comparabili per il solo fatto che il rilevante Stato Membro avesse deciso di trattarle in modo diverso (punto 31). La Commissione riteneva dun‑ que che la nozione delle perdite finali, abbandonata nella sentenza Timac Agro, dovesse venire nuovamente valorizzata. In questo senso, la Commissione si è dimostrata coerente con le inizia‑ tive legislative promosse con la proposta di direttiva sulla tassazione comune (c.d. CCTB) che prevede un utilizzo transfrontaliero delle perdite (Proposta della Commissione di una direttiva “on a Common Corporate Tax Base” del 25 ottobre 2016 (Proposal for a Council Directive on a Common Corporate Tax Base, 2016/0337 (CNS)) in cui viene affermato (nel Explanatory Me‑ morandum): “Cross-border loss relief would still be an automatic outcome of consolidation”). La Corte ha tuttavia negato che la sentenza Timac Agro avesse sancito un cambiamento nell’orientamento giurisprudenziale nei confronti della nozione delle perdite finali, sostenendo che l’interpretazione delle sentenze Timac Agro e Nordea, secondo la quale l’analisi della com‑ parabilità dovrebbe basarsi sulla sussistenza di potere impositivo nei confronti della fattispecie


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mando le sentenze Timac Agro e Nordea Bank, avevano sostenuto il difetto di comparabilità tra stabili organizzazioni estere e stabili organizzazioni nazio‑ nali, in ragione del fatto che la Danimarca non esercitava un potere impositivo nei confronti della stabile organizzazione estera (72). Sul punto, la Corte ha riconosciuto, ai fini della deducibilità delle perdite finali (nel caso di cessazione dell’attività), l’esistenza di un’oggettiva com‑ parabilità tra la stabile organizzazione estera e la stabile organizzazione in‑ terna “alla luce dell’obiettivo di prevenzione della doppia deduzione delle perdite” (73). Inoltre, secondo la Corte, le norme, volte a prevenire la doppia imposizione degli utili e la doppia deduzione delle perdite di una stabile orga‑ nizzazione estera, avrebbero come fine ultimo l’assoggettamento ad imposta della società residente in ragione della sua capacità contributiva e dunque, an‑ che da questo punto di vista, la fattispecie della stabile organizzazione estera e quella della stabile organizzazione nazionale risulterebbero comparabili, in quanto in entrambi i casi la capacità contributiva dell’impresa residente ver‑ rebbe diminuita per effetto della mancata deduzione delle perdite (74). In questo modo però la Corte si è discostata, nella sostanza, da quanto statuito nella sentenza Timac Agro, con particolare riferimento alla seconda questione pregiudiziale posta all’attenzione della Corte in tale causa, ove la fattispecie oggetto di rinvio concerneva perdite diventate “finali”, cioè irre‑

transfrontaliera, non fosse corretta. In realtà, il punto 65 della sentenza Timac Agro pare incontrovertibile: Nel caso di specie si deve constatare che, dal momento che la Repubblica federale di Germania non esercita alcun potere impositivo sui risultati di una stabile organizzazione del genere, non essendo la deduzione delle sue perdite più autorizzata in Germania, la situazione di una stabile organizzazione situata in Austria non è comparabile a quella di una stabile organizzazione situata in Germania con riferimento alle misure previste dalla Repubblica federale di Germania al fine di prevenire o di attenuare la doppia imposizione degli utili di una società residente (v., in tal senso, sentenza Nordea Bank Danmark, C48/13, EU:C:2014:2087, punto 24 e giurisprudenza citata). In Bevola, la Corte ha invece affermato che il trattamento fiscale riservato alla fattispecie transfrontaliera non dovesse rilevare, poiché, altrimenti, l’articolo 49 del TFUE verrebbe svuo‑ tato di contenuto (CGUE, Bevola, cit. punto 35). Piuttosto, ad avviso della Corte, l’analisi di comparabilità dovrebbe essere orientata alla valorizzazione delle “finalità delle disposizioni nazionali” oggetto dell’analisi (CGUE, Bevola, cit., punto 35) (72) CGUE, Bevola, cit. punto 30 (73) CGUE, Bevola, cit. punto 38 (74) CGUE, Bevola, cit. punto 39


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cuperabili, per effetto della cessione della stabile organizzazione ad una altra società del gruppo (75). A sostegno dell’affermazione della Corte secondo cui la decisione in og‑ getto non confligge con la sentenza Timac Agro, in dottrina è stato sostenu‑ to (76) che la differenza fondamentale tra la sentenza Timac Agro e la sentenza Bevola consiste appunto nel fatto che nel caso della Germania (Timac Agro) fosse la Convenzione applicabile ad escludere il potere impositivo nei con‑ fronti delle stabili organizzazione estere, mentre nel caso della Danimarca la Convenzione applicabile non prevedrebbe alcuna limitazione al potere im‑ positivo nei confronti delle stabili organizzazioni estere, essendo viceversa il diritto interno danese a recare la norma di esenzione dei redditi delle stabili organizzazioni estere, in attuazione del principio di territorialità. La tesi, tutta‑ via, non convince, in quanto in entrambi i casi il potere impositivo dello Stato della residenza risulta escluso e non appare a tal fine rilevante che l’esclusione sia imposta da una norma convenzionale ovvero interna. Dunque, mentre nella sentenza Timac Agro il principio della simmetria era stato spostato dal piano delle cause di giustificazione al piano della comparabi‑ lità (basando la Corte la sua analisi sull’esercizio del potere impositivo), nella sentenza Bevola il principio della simmetria ritorna a rilevare esclusivamente sul piano delle cause di giustificazioni, rendendo possibile anche un’analisi sotto il profilo della ragionevolezza, cioè un’analisi della proporzionalità delle misure in esame alla luce delle cause di giustificazione. Dopo aver concluso l’analisi di comparabilità, la Corte ha poi adottato, nella successiva fase argomentativa, lo stesso schema sviluppato della senten‑ za Marks & Spencer. In particolare, ad avviso dei giudici del Lussemburgo, la normativa in esame, che impedisce l’utilizzo delle perdite estere nello Stato di residenza,

(75) Cfr. CGUE, Timac Agro, cit., punto 18. La seconda questione pregiudiziale sottoposta alla Corte nella suddetta causa prevedeva testualmente: “Se l’articolo 49 TFUE debba essere interpretato nel senso che osta ad una normativa, quale l’articolo 23, paragrafo 1, lettera a), della convenzione tedesco-austriaca in base a cui sono esclusi dalla base imponibile ai fini della tassazione tedesca redditi provenienti dall’Austria se detti redditi possono essere tassati in Austria, allorché le perdite subite in una stabile organizzazione austriaca di una società di capitali tedesca non possono quindi più essere prese in considerazione in Austria, poiché la stabile organizzazione è venduta ad una società di capitali austriaca, appartenente al medesimo gruppo societario della società di capitali tedesca”. Cfr. punti 70 ss delle conclusioni dell’AG Wathelet, che sosteneva che le perdite in esame non fossero “finali”. (76) K.Schulz-Trieglaff, ISTR 2018, 777 ss.


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costituisce una violazione della libertà di stabilimento, che però è giustificata dalla ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati Membri, dalla coerenza del regime tributario danese, nonché dalla necessità di prevenire i rischi di doppia deduzione delle perdite (77). La disciplina danese, tuttavia, non è proporzionata allorquando le perdite estere siano finali, in quanto, in tal caso, non sussisterebbe un rischio di un se‑ lezione discrezionale (ed elusiva) dello Stato nel quale utilizzare dette perdite (c.d. cherry picking). La restrizione non potrebbe quindi essere giustificata dal principio della ripartizione equilibrata del potere impositivo tra Stati Mem‑ bri (78), né dal rischio di doppia deduzione delle perdit (79), né, infine, da quello di compromettere la coerenza del sistema fiscale danese (80). Con riferimento al presupposto delle “perdite finali”, la Corte ha richiama‑ to la sentenza Marks & Spencer, secondo la quale si hanno perdite finali quan‑ do “non sussistano possibilità affinché tali perdite possano essere fatte valere nel proprio Stato di residenza, a titolo degli esercizi futuri, sia dalla società stessa, sia da un terzo, segnatamente in caso di cessione di detta controllata a quest’ultimo”, e si è limitata a statuire che tale presupposto (ossia quella della definitività delle perdite estere) non sussiste quando l’impresa continua a per‑ cepire ricavi (anche minimi) tramite la stabile organizzazione (81). 5. Conclusioni. – La sentenza Bevola ha riaffermato l’obbligo per lo Sta‑ to Membro di residenza di un’impresa di ammettere la deducibilità, in capo a detta impresa, delle “perdite finali” realizzate da una stabile organizzazione, o società controllata, in un diverso Stato Membro, qualora tale deduzione sia ordinariamente ammessa nel caso di fattispecie puramente interne. La senten‑ za in commento ha dunque riaffermato il principio di diritto originariamente elaborato nella sentenza Marks & Spencer. Gli esatti contorni di tale principio, tuttavia, restano ancora non precisa‑ mente delineati. In particolare, la Corte non ha chiarito la relazione, ai fini della qualificazione delle perdite come “finali”, tra i vincoli normativi all’u‑ tilizzo delle perdite imposti dal diritto dello Stato Membro della stabile orga‑

(77) CGUE, Bevola, cit., punto 53. (78) CGUE, Bevola, cit. punto 56 (79) CGUE, Bevola, cit. punto 58 (80) CGUE, Bevola, cit. punto 60 (81) Cfr. CGUE, sentenza del 21 febbraio 2013 nella causa C-123/11, A Oy; CGUE, Timac Agro, cit., punto 55.


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nizzazione e l’ipotesi in cui la stabile organizzazione abbia cessato di produrre ricavi, di guisa che non esista alcuna possibilità che le perdite in questione siano prese in considerazione in detto Stato Membro (82). Si segnala, in merito, che risultano ad oggi pendenti di fronte alla Corte due cause (svedesi) in materia di perdite finali: Mermira Holding (C-607/17) e Holmen AB (C-608/17) (83). Nelle sentenze che saranno pronunciate in que‑ ste due cause, si auspica che Corte chiarisca finalmente la nozione di “perdite finali”. Infine, la sentenza consente qualche breve annotazione in merito alla com‑ patibilità con il diritto dell’Unione della normativa italiana relativa alla tas‑ sazione dei redditi di società controllate estere e stabili organizzazioni situate all’estero. In particolare, il principio delle “perdite finali” potrebbe assumere rilevanza in relazione al regime del consolidato fiscale, a quello della branch exemption ed, infine, al regime delle società controllate estere (c.d. regime CFC). Il regime del consolidato nazionale (84) consente il trasferimento delle perdite dalle società consolidate alla società consolidante nell’ambito della tassazione di gruppo: ne sono escluse, in ogni caso, le perdite generate da società del gruppo non residenti. Il perimetro di consolidamento può esse‑ re determinato liberamente all’interno di un gruppo, purché sia soddisfatto il requisito del controllo e le società partecipanti al consolidato siano residenti in Italia, (85) ovvero, qualora non residenti, operino in Italia per il tramite di una stabile organizzazione ivi situata (86) (87). Al consolidato nazionale si

(82) In questo contesto appaiono rilevanti anche le questioni delle perdite riportate a nuo‑ vo, del trasferimento delle perdite a soggetti terzi, dell’utilizzabilità delle perdite in un momen‑ to successivo alla cessazione della stabile organizzazione. (83) Di cui sono state pubblicate in data 10 gennaio 2019 le conclusioni dell’AG Kokott, cit.. Inoltre davanti al Bundesfinanzhof è pendente una causa (I R 17/16) riguardante le perdite finali nell’ambito della chiusura di una stabile organizzazione italiana, che era stata sospesa in attesa della sentenza Bevola e che potrebbe portare ad un rinvio della questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La sentenza del giudice di merito FG Hessen del 4.9.2018 (4 K 385/17) è la prima sentenza emessa in materia di perdite finali e basata sulla sentenza Bevola. Anche questa causa è pendente davanti al Bundesfinanzhof (I R 32/18). (84) Disciplinato dagli articoli 117-129 del DPR 22 dicembre 1986, no. 917 (di seguito anche “Tuir”) (85) Art. 117, comma 1, Tuir (86) Art. 117, comma 2, Tuir (87) L’art. 117, comma 2-bis del Tuir (norma introdotta a seguito della sentenza GCUE, 12 giugno 2014, cause riunite C-39/13, C-40/13 e C-41/13, SCA Group Holding BV) prevede la


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affianca il consolidato mondiale, (88) il quale ammette – in effetti – l’utiliz‑ zabilità in Italia delle perdite conseguite da società residenti all’estero. Tale istituto, tuttavia, è caratterizzato da requisiti di accesso estremamente gravosi, quali il c.d. principio dell’“all in, all out”, ossia dell’obbligatoria inclusione nel perimetro del consolidamento fiscale italiano dei redditi di tutte le società controllate non residenti, l’obbligo di revisione dei bilanci delle società con‑ trollate non residenti (89), nonché la durata quinquennale dell’opzione, che ne riducono, di fatto, drasticamente la platea dei fruitori. Ed, infatti, autorevole dottrina aveva rilevato, già a ridosso della introduzione di tali regimi (90), una serie di criticità con riferimento alla loro compatibilità con il diritto euro‑ peo primario, soprattutto a motivo della possibile violazione del principio di proporzionalità (91). Tali conclusioni non possono che essere confermate alla luce dei recenti sviluppi nella giurisprudenza della CGUE in materia di “per‑ dite finali”, come succintamente analizzata nel presente contributo. In parti‑ colare, si ritiene che, ferma restando l’alterità dei due istituti (consolidato na‑ zionale e consolidato mondiale), il diritto di stabilimento imponga all’Italia di ammettere in deduzione dal reddito della capogruppo residente le perdite con‑ seguite da società controllate non residenti, e prive di stabili organizzazioni in Italia, qualora tali perdite si qualifichino come “perdite finali” ai sensi della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. A nulla varrebbe, inoltre, obiettare che il regime del consolidato fiscale nazionale è meramente opzionale e non obbligatorio, in quanto tale opzione non si estende in ogni caso alle partecipate estere prive di stabile organizzazione in Italia e, pertanto, è in re ipsa discriminatoria. La stessa Corte di giustizia ha già avuto occasione di precisare che un regime nazionale restrittivo della libertà di stabilimento rimane comunque incompatibile con il diritto dell’Unione, quand’anche la sua applicazione sia facoltativa (92).

possibilità di optare per il consolidato fiscale “orizzontale” tra società sorelle (residenti, ovvero con stabile organizzazione in Italia) controllate da un soggetto estero, purché quest’ultimo sia residente in Stati appartenenti all’Unione Europea, oppure in Stati aderenti all’Accordo sullo Spazio economico europeo. (88) Disciplinato dagli articoli 130-142 del DPR 22 dicembre 1986, no. 917 (89) Art. 132, comma 2, Tuir (90) Introduzione operata tramite il D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344 (91) G. Maisto, Profili internazionalistici dell’imposizione delle imprese nella delega per la riforma tributaria, in Riv. Dir. Trib., parte prima, 2003, in particolare 741-749. (92) CGUE, sentenza del 18 marzo 2010, causa C-440/08, Gielen, punti 49-55 e, in parti‑ colare, 53.


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

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L’istituto della branch exemption (93) è un regime opzionale che prevede l’esenzione degli utili di tutte le stabili organizzazioni estere della rilevante impresa residente. Il regime è caratterizzato dai principi di onnicomprensività (il regime deve essere applicato a tutte le stabili organizzazioni estere dell’im‑ presa residente che abbia esercitato l’opzione) e irreversibilità (il regime cessa soltanto nel caso in cui vengano meno tutte le stabili organizzazioni estere). In vigenza di tale regime, le perdite conseguite dalle stabili organizzazioni estere – anche quelle che rientrano nella sopra menzionata nozione di “perdite finali” –- non sono deducibili dall’impresa residente. Si tratta, dunque, di un regime alternativo a quello ordinario (c.d. wordwide taxation), a mente del quale i redditi e le perdite delle stabili organizzazioni estere concorrono alla forma‑ zione del reddito complessivo dell’impresa residente. Dato che l’indeducibili‑ tà delle perdite realizzate all’estero è la conseguenza dell’esercizio dell’opzio‑ ne e quindi di una libera scelta dell’impresa residente, che potrebbe dedurre le perdite delle stabili organizzazioni estere semplicemente non esercitando l’opzione per la branch exemption, di primo acchito si potrebbe concludere per l’assenza di profili di incompatibilità con il diritto europeo. Tuttavia, come sopra ricordato, la CGUE ha già precisato che un regime nazionale restritti‑ vo della libertà di stabilimento rimane comunque incompatibile con il diritto dell’Unione, anche nei casi in cui la sua applicazione sia facoltativa (94). Si deve, pertanto, ritenere che il regime in oggetto sia incompatibile con il diritto dell’Unione europea, alla luce della giurisprudenza analizzata nel presente contributo, in quanto lo stesso non consente in alcun modo al soggetto resi‑ dente di tenere conto delle “perdite finali” delle proprie stabili organizzazioni estere (95). Infine, con riferimento al regime delle società controllate estere (96), come di recente modificato dal D. Lgs. n. 142/2018 di recepimento della c.d.

(93) Disciplinato dall’art. 168-ter e introdotto nell’ordinamento italiano dal D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (c.d. Decreto Internazionalizzazione). Si veda, da ultimo, a commento dell’istituto, P. Piccone Ferrarotti, L’esenzione degli utili e delle perdite della stabile organizzazione estera di un’impresa residente (c.d. branch exemption), in Riv. Dir. Trib., parte quinta, 2018, 79 e ss. (94) CGUE, sentenza del 18 marzo 2010, causa C-440/08, Gielen, punti 49-55 e, in parti‑ colare, 53. (95) Oltre al fatto che tale regime impone dei requisiti di accesso estremamente stringenti. Cfr. sentenza Bevola, cit. punto 27. (96) Disciplinato dall’art. 167 del Tuir.


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Parte quinta

Direttiva ATAD (97), il reddito della CFC è assoggettato a tassazione separa‑ ta in capo al soggetto controllante residente (o stabile organizzazione “con‑ trollante” situata in Italia di un soggetto non residente) con l’aliquota media applicata sul reddito complessivo di tale soggetto (98). Il soggetto controllan‑ te residente può utilizzare le perdite eventualmente prodotte da quest’ultima soltanto in riduzione dei redditi, soggetti a tassazione separata, prodotti dalla medesima CFC e non, viceversa, dal proprio reddito complessivo (99). La norma riguarda un caso speculare rispetto a quello dell’esenzione delle stabili organizzazioni estere, oggetto della sentenza Bevola: mentre nel primo caso, lo Stato di residenza rinuncia ad assoggettare ad imposta i redditi esteri del contribuente, nel caso della disciplina CFC, lo Stato di residenza del soggetto controllante attrae ad imposizione i redditi dell’ente controllato estero, ordi‑ nariamente estranei al perimetro impositivo nazionale. In tale ultimo caso, pertanto, l’indeducibilità delle perdite della CFC non può neppure essere – prima facie – giustificata dal principio di simmetria. Appare, al più, invocabile il principio del divieto di abuso del diritto, sebbene, anche in tal caso, non pare possa giustificarsi il divieto generale di utilizzo delle perdite finali (100).

Arno Crazzolara

(97) Direttiva UE 2016/1164 del Consiglio del 12 luglio 2016. (98) Tale aliquota non può essere inferiore all’aliquota IRES ordinaria. (99) Come precisato dalla circolare n. 51/E del 6 ottobre 2010 e dalla risoluzione n. 345/E del 5 agosto 2008, (100) Sulla base del principio che il diritto europeo secondario è soggetto al dirit‑ to primario europeo.


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