Rivista Diritto Tributario 4/2017

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Rivista di

Diritto Tributario

www.rivistadirittotributario.it

Rivista bimestrale

Vol. XXIX - Agosto 2017

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Diretta da Mauro Beghin - Pietro Boria - Loredana Carpentieri (coordinamento di direzione) Gaspare Falsitta - Augusto Fantozzi - Andrea Fedele - Guglielmo Fransoni - Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo - Roberto Schiavolin - Giuseppe Zizzo

In evidenza: • Brevi note sulla nozione di abuso del diritto in materia fiscale

Franco Gallo • L’illegittimità costituzionale del tributo da spending review

Pietro Boria • La dimensione multilivello delle sanzioni tributarie e le diverse declinazioni del principio

di offensività-proporzione Francesco Montanari • Spunti ricostruttivi della nozione di beneficiario effettivo ai fini delle convenzioni bilaterali

per evitare le doppie imposizioni concluse dall’Italia Paolo Arginelli • Tassa automobilistica e fermo del veicolo (nota a Corte Cost., 47/2017)

Francesco Farri

Pacini


Indici DOTTRINA Paolo Arginelli

Spunti ricostruttivi della nozione di beneficiario effettivo ai fini delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni concluse dall’Italia............................... V, 29 Pietro Boria

L’illegittimità costituzionale del tributo da spending review (nota a Corte Cost., n. 7 del 2017)............................................................................................................... II, 196 Franco Gallo

Brevi note sulla nozione di abuso del diritto in materia fiscale................................ I, 429 Stefania Gianoncelli

Interposizione, simulazione soggettiva e reato di dichiarazione fraudolenta.......... I, 509 Francesco Farri

Tassa automobilistica e fermo del veicolo (nota a Corte Cost., n. 47 del 2017)....... II, 222 Francesco Montanari

La dimensione multilivello delle sanzioni tributarie e le diverse declinazioni del principio di offensività-proporzione.......................................................................... I, 471 Antonio Perrone

Sussidiarietà e fiscalità: un nuovo modo di concepire il concorso alle spese pubbliche?.......................................................................................................................... I, 437 Roberto Succio

Prime applicazioni sostanziali (e alcune considerazioni procedimentali) sull’abuso di diritto in materia doganale (nota a Comm. trib. prov. Alessandria, n. 407 del 2016)............................................................................................................................ II, 245 Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................ V, 29 I lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.

INDICE ANALITICO ABUSO DEL DIRITTO Dazi doganali – Importatore titolare di certificati AGRIM completamente utilizzati per importazione a dazio agevolato – Acquisto di prodotto estero e rivendita a altri importatori professionali al di fuori del territorio dello Stato


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indici

– Successiva importazione da parte di costoro a dazio agevolato con spendita dei propri certificati – Conclusiva cessione del prodotto al “primo” importatore senza ricarico – Sussistenza di valide ragioni economiche e difetto di vantaggio fiscale indebito – Legittimità dell’operazione (Comm. trib. prov. Alessandria, aprile 2016 - 19 dicembre 2016, sent. n. 407; con nota di Roberto Succio).......................................................................................................... II, 239 QUESTIONI DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE Art. 3 Cost. - Art. 38 Cost. – Art. 97 Cost. – Contabilità e bilancio dello Stato – Previdenza sociale – Parafiscalità – Obbligo contributivo – Natura dell’obbligo contributivo – Presupposto dell’obbligo contributivo – Enti di previdenza privatizzati – Spending review – Incremento delle entrate pubbliche – Indebito tributario – Rimborso di imposta (Corte Cost., 22 novembre 2016 - 11 gennaio 2017, sent. n. 7; con nota di Pietro Boria)........................... II, 179 TASSA AUTOMOBILISTICA Fermo “fiscale” del veicolo ex art. 86 d.P.R. n. 602/1973 – Esclusione dall’obbligo di pagamento della tassa automobilistica – Non sussiste (Corte Cost., 7 febbraio 2017 - 2 marzo 2017, sent. n. 47; con nota di Francesco Farri)................................................................................................................. II, 215

INDICE CRONOLOGICO Corte Costituzionale 22 novembre 2016 - 11 gennaio 2017, n. 7............................................................... II, 179 Corte Costituzionale 7 febbraio 2017 - 2 marzo 2017, n. 47....................................................................... II, 215 Commissione tributaria provinciale Alessandria aprile 2016 - 19 dicembre 2016, n. 407..................................................................... II, 239


indici

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Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio



Dottrina

Brevi note sulla nozione di abuso del diritto in materia fiscale*. Sommario: 1. Premessa. – 2. La giurisprudenza della Corte di Cassazione nella vigenza dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973. – 3. L’astrattezza e la residualità della nozione di abuso. L’Autore ripercorre le diverse fasi della più recente “storia” dell’abuso del diritto alias elusione fiscale illegittima. Si sofferma, in particolare, sul percorso interpretativo che ha portato la Corte di cassazione ad affermare che il previgente art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973, non è l’unica fonte normativa del divieto dell’abuso del diritto, ma è l’espressione dell’immanente principio di capacità contributiva. La nuova disciplina, vigente dal 1° ottobre 2015, costituisce senza dubbio un passo avanti sul piano interpretativo, ma non risolve del tutto i problemi definitori di un istituto che ha natura astratta e richiede pur sempre una verifica della compatibilità della nuova normativa con la clausola generale antiabuso di derivazione costituzionale. The author traces the different phases of the most recent “history” of the abuse of law alias illegal tax avoidance. He focuses, in particular, on the interpretative guidance that led the Italian Supreme Court to state that the former art. 37-bis of d.P.R. n. 600/1973 is not the only normative source of the prohibition of abuse of law, but is the expression of the immanent ability to pay principle. The new law, which is in force since 1 October 2015, is undoubtedly a step forward in terms of interpretation but it does not solve the defining problems of an institute that is abstract in nature and requires the compatibility of new provisions with the general anti-abuse clause deriving from constitutional law be verified.

1. Premessa. – Per evidenti ragioni di competenza, la mia introduzione avrà per oggetto solo l’abuso del diritto in materia fiscale. Mi guarderò bene, perciò, dal trattarne i profili privatistici, anche se, come tutti sappiamo, tale * È il testo della relazione introduttiva svolta dall’Autore al convegno su “L’abuso del diritto. Profili privatistici e profili fiscali”, tenutosi a Napoli il 15 giugno 2017 presso l’Università Parthenope.


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istituto ha una lunga storia che si è spesso intrecciata e, a volte, ha coinciso con quella di contigui istituti di diritto civile, come la frode alla legge, l’elusione, l’interposizione e il negozio indiretto. In Italia, fin dal periodo antecedente la seconda guerra mondiale esso è stato identificato con l’elusione fiscale illegittima dagli scienziati delle finanze come Griziotti e i rappresentanti della sua scuola pavese. Dal dopoguerra in poi la bibliografia è stata particolarmente ricca. Basti pensare ai numerosi scritti dei cultori di diritto tributario, me compreso, pubblicati prima e dopo il varo della legge n. 408 del 1990, che ha disciplinato per la prima volta l’elusione fiscale. Detta legge conteneva, nel suo art. 10, una prima clausola antielusione, diciamo così, di tenore generale seppur di applicazione parziale, che è poi confluita, con modifiche, nell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 ad opera del d.lgs n. 358 del 1997. Con decorrenza dal 1° ottobre 2015, quest’ultima disposizione è stata sostituita – in attuazione degli artt. 5, 6 e 8, comma 2, della legge delega 11 marzo 2014, n. 23 – dal d.lgs. 5 agosto 2015 n. 128 recante “Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti fra fisco e contribuente”. Il titolo I di tale decreto, nell’inserire nello Statuto dei diritti del contribuente l’art. 10-bis, consacra definitivamente in via legislativa l’identità dei due concetti o, se si preferisce, la uguale disciplina dei due istituti. In termini molto generali si può dire che, ora, l’abuso-elusione si identifica con quei comportamenti dei contribuenti che, pur risultando aderenti formalmente alle disposizioni dell’ordinamento fiscale, consentono di ottenere vantaggi non voluti dal legislatore o – per usare un’espressione di derivazione OCSE – “non previsti” o “inaspettati”. Siamo, insomma, al confine fra il diritto del contribuente a perseguire legittimamente le soluzioni operative più vantaggiose sotto il profilo fiscale in base alla libertà di iniziativa economica costituzionalmente garantita (art. 41 Cost.), e il dovere-potere dell’Amministrazione finanziaria di impedire ai contribuenti di ottenere vantaggi che vadano oltre il legittimo risparmio d’imposta, utilizzando scappatoie, apparentemente legittime, ma che nella sostanza sfruttano le pieghe e le zone grigie dell’ordinamento e gli aspetti non espressamente regolati dalla legge fiscale. Vantaggi tutti, in ultima analisi, che il legislatore non avrebbe concesso se i comportamenti adottati e le operazioni realizzate fossero stati espressamente regolati in via normativa in tutti i loro peculiari aspetti (le c.d. fattispecie di elusione). Indipendentemente da quello che è stato il punto di arrivo del legislatore italiano con il richiamato art. 10-bis, va, comunque, ricordato che l’istituto


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dell’abuso del diritto in campo fiscale è stato sempre di difficile individuazione in qualunque ordinamento. Se si fa una rapida indagine sui diversi significati in cui esso è stato inteso nelle legislazioni dei maggiori Paesi occidentali e nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, si ha la sorpresa di apprendere che l’abuso del diritto è stato identificato, oltrechè con l’elusione in senso stretto, e cioè con l’abuso dell’autonomia privata, a volte, con il semplice aggiramento (circonvention) e la frode alla legge fiscale; a volte, con la sola malafede contrattuale; a volte, con il comportamento contra bonos mores; a volte, con la simulazione e le costruzioni di puro artificio prive di economic purpose; a volte infine, con la condotta contraria ai principi della substance over form o del regulatory arbitrage. La Corte di Giustizia, in particolare, ha parlato recentemente ed alternativamente di aggiramento, frode, elusione, per indicare le modalità attraverso le quali si produce quello che per essa è in termini astratti abuso, e cioè un vantaggio fiscale che si rivela indebito perché perseguito callidamente in contrasto con l’obiettivo fissato dalle disposizioni comunitarie. Va anche ricordato che in Italia il dibattito sull’abuso del diritto-elusione nel campo fiscale si è acceso solo a partire dagli anni Ottanta, quando il fenomeno ha assunto proporzioni rilevanti e il governo dell’epoca ha optato per una specifica definizione legislativa dell’elusione fiscale, beninteso, dopo aver preso atto dell’impossibilità – certificata dalla Cassazione con numerose sentenze – di applicare, anche agli effetti fiscali, la disciplina civilistica del negozio in frode alla legge recata dall’art. 1344 cod. civ. (la quale reputa illecita la causa dei contratti che costituiscono «il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa»). È ben nota, infatti, la vecchia giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui la norma fiscale elusa non ha le caratteristiche dell’imperatività e, quindi, il suo aggiramento non può produrre l’illiceità e, quindi, la nullità della relativa attività negoziale. 2. La giurisprudenza della Corte di Cassazione nella vigenza dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973. – Dico subito che il problema che, prima dell’entrata in vigore del richiamato art. 10-bis affliggeva l’interprete, era in termini di teoria generale quello della validità o, meglio, del significato da dare all’assunzione dell’art. 53 Cost., da parte della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, quale fonte normativa della clausola antiabuso. Questo problema, in termini applicativi, si traduceva nell’ulteriore problema se il fatto che alcune operazioni siano dirette ad alterare ai soli fini di risparmio fiscale (e, quindi, senza ragioni economiche) la distribuzione dei carichi pubblici voluta


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dal legislatore ordinario fosse sufficiente, da solo, a renderle inopponibili al fisco, senza che fosse necessario dimostrare anche l’artificiosità e la fraudolenza in senso non naturalistico dell’attività negoziale. La Corte, in numerose sue sentenze anche a Sezioni Unite, ha dato una decisa risposta affermativa al primo problema nel senso della precettività dell’art. 53 Cost. ed ha superato di slancio anche il secondo, a costo di forzare non poco il tenore testuale dell’art. 53 Cost. e di depotenziare il principio di riserva di legge fissato dall’art. 23 Cost. (che rimette, appunto, la selezione degli indici di capacità contributiva al legislatore ordinario). Ha, infatti, affermato – con una buona dose di buon senso, ma in termini sicuramente apodittici – che la clausola generale antiabuso, di diretta derivazione costituzionale, è applicabile solo quando l’operazione, oltre ad essere priva di valide ragioni economiche, è anche frutto di un comportamento sleale e fraudolento connotante un “indebito vantaggio fiscale”. E ciò, tanto nel caso in cui essa operazione sia assoggettabile ad imposte armonizzate, quanto nel caso in cui non lo sia. Come la dottrina quasi unanime ha fatto subito notare nella vigenza dell’art. 37-bis del citato d.P.R. n. 600, il punto debole di tale argomentare è abbastanza evidente: desumere dall’art. 53 Cost. un principio generale antiabuso operativo e autosufficiente significa dare un efficacia diretta e precettiva a una norma – appunto, l’art. 53 Cost. – che tale efficacia non può avere perché, per sua natura, si limita a vietare una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad un adeguato tertium comparationis (e, quindi, un’alterazione dell’equo riparto), ma non ha alcun preciso contenuto regolativo e nemmeno pone generali direttive. Si tratta, in particolare, di una norma di rango superiore che, pur dando una copertura costituzionale al principio antiabuso, richiede tuttavia necessariamente una fase di attuazione costituzionale mediante normazione ordinaria che definisca la nozione di abuso del diritto in materia fiscale. Se si entra in questo ordine di idee, si capisce allora quanto fosse necessario un intervento del legislatore ordinario che, con riferimento ad ogni operazione e ad ogni tributo, desse una sicura base normativa, ex art. 23 Cost., alla conclusione raggiunta dalla Suprema Corte con riguardo, soprattutto, al carattere indebito del vantaggio fiscale. Si trattava di associare al divieto di alterazione dell’equo riparto una specifica regola attuativa e integrativa di esso, e cioè: generalizzare la formula usata dall’art. 37-bis, primo e secondo comma; eliminare l’elencazione tassativa delle operazioni “sospette di elusione” che era presente nel terzo comma; chiarire, nel contempo, in che cosa dovessero consistere le condizioni sia dell’uso distorto, fraudolento e sleale di strumenti


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giuridici, sia dell’assenza di valide ragioni economiche, sulle quali, come si è visto, la stessa Corte ha fondato il principio costituzionale antiabuso. Pur non potendo eliminare del tutto la fisiologica astrattezza del concetto di abuso, si sarebbe così agevolato l’interprete nell’individuazione della linea di confine tra il comportamento rispettoso del principio costituzionale dell’equo riparto (risolventesi in un legittimo risparmio d’imposta) e quello che da tale parametro esorbita a causa, appunto, della sua fraudolenza, tortuosità e dell’assenza di sostanza economica. 3. L’astrattezza e la residualità della nozione di abuso. – La legge delega n. 23 del 2014 ha avuto lo scopo di raggiungere questo obiettivo. Nel fissare i principi di delega si è, infatti, preoccupata di sostituire l’art. 37-bis, primo e secondo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 e, nel contempo, di tener ferma e, comunque, non contraddire la trama di fondo delineata dalla giurisprudenza della Suprema Corte e fondata, come si è visto, sulla “costituzionalizzazione” del principio antiabuso. Lascio ai colleghi che mi seguono di affrontare questi e altri specifici temi, civilistici e fiscali, indicati nel programma dei lavori. Non mi soffermerò, quindi, sulle due condizioni – la mancanza di sostanza economica e il perseguimento di un indebito vantaggio fiscale – richieste dall’art. 10-bis perché si integri l’ipotesi di abuso del diritto. Mi limito a svolgere in via introduttiva due considerazioni di carattere generale. 3.1. – La prima è la conseguenza, abbastanza ovvia, del ragionamento che ho svolto fin qui sul rapporto fra l’art. 53 Cost. e la specifica normativa dell’art. 10-bis. Come si è visto, questa normativa, da una parte, ha meglio delineato i confini di una clausola che ha un alto grado di flessibilità e astrattezza, dall’altra, tuttavia, non ha smentito la radice costituzionale del divieto sottolineata dalla giurisprudenza della Suprema Corte. Ha riconosciuto, in altri termini, la inidoneità dell’art. 53 Cost. ad identificare in modo autonomo e non arbitrario le condotte abusive, ma, nello stesso tempo, ha tenuto fermo l’effetto di spostare il criterio di valutazione della prescrittività legale di una disciplina necessariamente astratta al valore degli interessi, e cioè di spostare i criteri di decisione al di sopra della norma che definisce l’abuso. Come hanno sottolineato al riguardo, in diverse sedi, civilisti del calibro di Nicolò Lipari e Natalino Irti, ciò che rimane dell’ormai superata giurisprudenza di legittimità è l’affermazione, in termini di teoria generale, della necessità di risalire a livello interpretativo «dalla regola al principio, dal diritto ai valori» e, quindi,


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«a criteri – quelli costituzionali – che si celano e si calano nella norma medesima». Nella specie, le norme che definiscono la regola sono gli art 5 della legge delega e 10-bis dello Statuto; il valore-principio costituzionale da esse norme presupposto è il divieto di alterare l’equo riparto dei carichi pubblici attraverso un comportamento negoziale anomalo e fraudolento. Il fatto positivo di questa ricostruzione è che, con l’intermediazione delle nuove norme e il particolare accento posto dalla Suprema Corte sull’art. 53 Cost., il principio antiabuso viene a riposare non più esclusivamente su quello che la dottrina civilistica chiama l’incontrollabile soggettivismo della decisione del giudice, ma sulla oggettività di norme che, seppur difficilmente calcolabili nella loro astrattezza, fissano criteri e condizioni e devono essere pur sempre valutate alla luce dei valori espressi dagli artt. 53 e 3 Cost. 3.2. – La seconda considerazione riguarda i due elementi di fondo che caratterizzano la nuova normativa, e cioè l’astrattezza e, soprattutto, il carattere residuale della nozione di abuso. Quanto all’astrattezza, rilevo che con la più puntuale delimitazione dei requisiti di “assenza di sostanza economica” e di “indebito vantaggio” non si sono risolti tutti i problemi definitori dell’abuso del diritto. Si sono solo indicati alcuni criteri per risolverli. Nonostante l’avvento della nuova normativa, sarà infatti difficile per il futuro eliminare del tutto il conflitto fra l’esigenza di certezza e la (per sua natura) astratta nozione di abuso. A fronte della inevitabile circolarità delle formule normative usate, l’Amministrazione finanziaria e il giudice, benchè in presenza di una normativa innegabilmente più precisa, avranno pur sempre il difficile problema, oltre che di verificare la compatibilità di essa con la clausola sovraordinata antiabuso di derivazione costituzionale, anche di determinare concetti necessariamente astratti “a fattispecie aperta”, e cioè di individuare, caso per caso, i benefici contrastanti con la finalità della norma fiscale e di disapplicare il regime giuridico formalmente applicabile sostituendolo con quello eluso individuato dal giudice. La nuova clausola generale antiabuso prescinde, infatti, dalla identificazione delle singole operazioni potenzialmente abusive e dalle relative caratteristiche e – come dice lo stesso art. 10-bis, comma 2, lett. b) – è diretta, invece, a cogliere i risultati e la loro coerenza con la ratio della norma o con i principi dell’ordinamento tributario, nel rispetto dell’art. 53 Cost. Se certezza del diritto vuol dire regole lineari e perentorie, capaci di imprimere sicurezza alle umane relazioni, inattaccabilità degli effetti e, in ultima analisi, il pieno rispetto del principio fondamentale di legalità – in materia


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fiscale, di stretta legalità – è, perciò, difficile dire che questo obiettivo potrà essere agevolmente raggiunto con la normativa in esame. Dato l’oggetto della materia regolata, è fisiologico che essa non potrà sempre garantire con puntualità la prevedibilità degli interventi degli organi decisionali in sede applicativa, l’esito delle loro decisioni e l’univocità delle qualificazioni giuridiche, che sono poi l’essenza della certezza del diritto, almeno quella definita dal pensiero illuministico e giuspositivistico. In un clima in continuo mutamento come l’attuale, in cui pure in via teorica il diritto tende ad essere “incerto”, plurale nelle fonti, flessibile nelle strutture e opinabile negli esiti, diventa cruciale non solo considerare una disciplina così astratta, come quella dell’abuso del diritto, in controluce con l’art. 53 Cost., ma anche assicurare una soddisfacente omogeneità dei criteri di interpretazione e una maggiore controllabilità delle argomentazioni addotte dalle parti e dai giudici nelle motivazioni e nelle decisioni. Il che significa puntare sempre più sulla procedimentalizzazione della fase applicativa, valorizzando al massimo gli strumenti di compliance come la previsione di uno specifico avviso di accertamento riguardo alle contestazioni di abuso, l’instaurazione di un contraddittorio preventivo tra fisco e contribuente, una più precisa ripartizione dell’onere della prova, la fissazione di regole per l’interpello, la sospensione dell’effetto esecutivo dell’atto di accertamento e altro ancora. Tutti istituti su cui si intratterranno alcune delle relazioni che seguono. La residualità della nozione di abuso rappresenta, poi, l’aspetto più positivo della nuova normativa. Essa si desume dalla chiara disposizione del comma 12 dell’art. 10-bis, che dispone, appunto, che l’abuso è configurabile solo se «i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie», e cioè solo se il contribuente consegue tali vantaggi attraverso fattispecie non riconducibili all’evasione. Applicando questa norma, devono perciò essere esclusi dalla nozione di condotta abusiva e devono confluire in quella di evasione tutti quei comportamenti e quelle situazioni che conducono alla rappresentazione di risultati diversi da (o in contrasto con) quelli previsti dalla legge e, perciò, non solo (ovviamente) gli occultamenti di ricavi e proventi, le deduzioni di spese non inerenti o fittizie, ma anche quelle alterazioni dei fatti economici che, prima dell’entrata in vigore dell’art. 10-bis, la Cassazione avevo spesso assimilato all’abuso del diritto. Il riferimento è, soprattutto, alla dissimulazione, all’antieconomicità costruita sulla indeducibilità di costi (considerati) non congrui, all’interposizione e residenza fittizie, all’esterovestizione intesa come delocalizzazione di basi imponibili, alle stabili organizzazioni occulte e al transfer pricing nelle operazioni commerciali tra gruppi multinazionali.


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La preoccupazione dell’interprete deve essere, quindi, quella di tenere distinto l’abuso del diritto (penalmente irrilevante ai sensi del comma 13 dell’art. 10-bis) tanto dalla simulazione quanto dalla frode (invece, penalmente rilevante). La simulazione, infatti, identifica la fattispecie nella quale il contribuente fa apparire una realtà diversa da quella effettiva o sotto il profilo soggettivo (titolarità del reddito) o sotto il profilo oggettivo (esistenza del reddito), realizzando così un occultamento del reddito stesso (così l’art. 1, lett. g-bis del d.lgs. n. 74/2000, come modificato dal d.lgs. n. 158/2015). Analogamente, la frode è una situazione nella quale il reddito c’è, ma viene nascosto attraverso artifizi e raggiri. Tutti comportamenti, questi, che si risolvono in vere e proprie manipolazioni della realtà. L’abuso, invece, costituisce tutt’al più una manipolazione degli strumenti giuridici che vengono effettivamente utilizzati dal contribuente – e non, dunque, simulati – tradendone, però, la funzione per cui sono stati previsti dall’ordinamento. Esso va, quindi, definito per esclusione nel senso che inizia dove, integrandosi le ipotesi di cui all’art. 10-bis, finisce il legittimo risparmio d’imposta e termina dove sono prospettabili specifiche fattispecie di evasione. Se così è – e non potrebbe essere diversamente – si capisce che l’art. 10bis si presenta come una classica disposizione di chiusura, applicabile solo in quei limitati casi in cui si renda necessario porre rimedio a “smagliature” del sistema. A mio avviso, esso viene ad assumere nell’ordinamento fiscale una funzione non dissimile da quella che nella regolamentazione civilistica dell’autonomia negoziale viene svolta dall’art. 1344 c.c. con riguardo al negozio in frode alla legge. E di tale norma si è fatto sempre un uso limitato, in considerazione della capacità dell’ordinamento civilistico di reagire in via preventiva con gli strumenti ordinari ai comportamenti frodatori e simulatori delle parti nel rapporto contrattuale. Alla luce di tali considerazioni il comma 12 dell’art. 10-bis appare, dunque, come una più che opportuna disposizione “di confine” che porta ad applicare la disciplina dell’abuso solo quando non sia stato possibile contestare al contribuente alcuna violazione diretta della norma fiscale, che è come dire solo quando non è praticabile ogni altro strumento ordinario di censura dei comportamenti del contribuente stesso.

Franco Gallo


Dottrina

Sussidiarietà e fiscalità: un nuovo modo di concepire il concorso alle spese pubbliche? Sommario: 1. Il c.d. “privato sociale”, la sussidiarietà “bidirezionale” ed il problema della sua rilevanza fiscale. Delimitazione del campo di indagine. – 2. Il concetto di sussidiarietà e le sue declinazioni. In che misura essa può interessare il campo dei tributi. – 3. L’accezione “fiscale” della sussidiarietà: orizzontale e positiva. – 4. La questione centrale: è possibile individuare un criterio di legittimazione costituzionale che giustifichi un intervento fiscale a sostegno della sussidiarietà orizzontale? – 5. Le questioni problematiche ancora aperte. – 6. Riconoscere che la sussidiarietà orizzontale può rappresentare una forma alternativa di concorso alla spesa pubblica, non comporta una rimunerazione della prestazione dei cittadini attivi. Il problema della compatibilità con il concetto di spesa pubblica e con i vincoli di bilancio. – 7. Il problema della rilevanza fiscale della sussidiarietà orizzontale alla luce dei tradizionali principi costituzionali in tema d’imposizione tributaria. – 7.1. Segue: la sussidiarietà orizzontale e l’esatta dimensione del concetto di «capacità» che sta a fondamento dell’art. 53 Cost. L’ipotizzata dimensione fiscale della sussidiarietà orizzontale appare compatibile con tale concetto. – 7.2. Segue: la solidarietà senza sussidiarietà. Sussidiarietà e solidarietà: un approdo comune della dottrina giuridica e del magistero ecclesiale. – 8. Il problema pratico di “come” utilizzare le imposte. – 8.1. Segue: l’utilizzo delle agevolazioni fiscali sotto forma di deducibilità dall’imponibile delle somme destinate a sostenere le attività di sussidiarietà orizzontale. – 8.2. Segue: Oltre il 5 per mille. La teoria del cittadino “padrone dell’imposta”. – 9. Conclusioni: è ravvisabile un criterio di legittimazione costituzionale della dimensione fiscale della sussidiarietà orizzontale anche nel campo delle imposte. I rapporti fra il pubblico ed il privato si stanno progressivamente modificando. La coscienza del partecipare alla cosa pubblica si evolve ed assume nuove forme di manifestazione. Fra esse un ruolo centrale gioca la partecipazione dei cittadini cd “attivi” che, sia singolarmente che in forma associata, assumono volontariamente la cura di beni che hanno rilevanza collettiva, e quindi beni “comuni”, che spetterebbe al potere pubblico tutelare. È il tema della cd. “sussidiarietà orizzontale”. Scopo del presente scritto è quello di analizzarne i possibili rapporti con la fiscalità e, segnatamente, rispondere alla domanda se, ed in che misura, i tributi possano essere uno strumento incentivante della sussidiarietà orizzontale e se quest’ultima possa essere concepita come una nuova e moderna forma di concorso alle spese pubbliche. Analisi che, in questo contesto, viene condotta con particolare riferimento all’imposizione sul reddito e che individua una possibile soluzione applicativa nell’utilizzo delle agevolazioni fiscali, intese nel senso generalissimo di “spese fiscali”.


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Relations between public and private framework are progressively changing. Consciousness of taking part to public body is evolving in a new shape. In this framework a really important role is playing by the so called «active citizens» who, both individually and in an associate form, voluntarily take care of goods that have collective importance, and therefore “common” goods, which it is for the public authorities to protect. We’re talking about the so called «sussidiarietà orizzontale». The purpose of this paper is to analyze possible relationship between taxation and «sussidiarietà orizzontale». In particular we want answer the question of whether and to what extent taxes can be considered an incentive tool for «sussidiarietà orizzontale», and whether the latter can be regarded as a new and modern shape of participation in public expenditures. In this framework the analysis will focused on income taxes and a possible solution suggested is using tax expenditures as a tool.

1. Il c.d. “privato sociale”, la sussidiarietà “bidirezionale” ed il problema della sua rilevanza fiscale. Delimitazione del campo di indagine. – Nel commentare i risvolti fiscali della riforma costituzionale varata con la legge n. 3 del 18 ottobre 2001, con specifico riferimento all’art. 118, ult. comma, Cost., in dottrina è stata coniata l’efficace espressione di «privato sociale» (1), che identifica l’azione di cittadini c.d. «attivi» (2) che, sia singolarmente, che in forma associata, assumono volontariamente la cura e la tutela di beni (materiali ed immateriali) che non posseggono a titolo di proprietà privata, trattandosi di beni di rilevanza sociale, collettiva, e quindi beni cd. comuni, e che, in quanto tali, «sono portatori dei valori morali» che il potere pubblico deve garantire, o in prima persona o – come previsto dal citato art. 118, comma quarto – affidandoli all’iniziativa autonoma dei cittadini «attivi». Il cd. «privato sociale» non agisce in sostituzione dell’ente pubblico, ma fornisce un subsidium allo stesso. Lo Stato (espressione generica con cui si vuol, in tale sede, indicare, il potere pubblico nelle sue diverse articolazioni territoriali), cioè, non declina competenze proprie, ma riconosce competenze alternative (3), nel presupposto che determinate attività possono ugualmente, o addirittura meglio, essere svolte da cittadini, responsabili, che, per effetto del diretto contatto con il bene comune e della sua fruizione quotidiana, meglio ne individuano e ne comprendono le necessità e le modalità di cura e tutela.

(1) F. Gallo, L’applicazione del principio di sussidiarietà tra crisi del disegno federalista e tutela del bene comune, in Rass. Trib., 2/2014, 222. (2) L’espressione è usata da Gregorio Arena: G. Arena, Cittadini attivi (Un altro modo di guardare all’Italia), II ed., Bari, 2011, passim. (3) F. Gallo, op. e loco cit.


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La caratteristica essenziale del cd. «privato sociale» , quanto meno nei suoi risvolti fiscali, è che il subsidium è bidirezionale: va dal cittadino allo Stato, ma anche dallo Stato al cittadino. Di fatti, l’attuale stesura della norma costituzionale dà per presupposta la partecipazione attiva dei cittadini nella cura dei beni comuni (e dunque il subsidium del cittadino) e disciplina, invece, espressamente il ruolo dello Stato, che deve «favorire l’autonoma iniziativa» degli stessi (ed è questo il subsidium dello Stato). La «sussidiarietà» dell’ultimo comma dell’art. 118 Cost., dunque, è sussidiarietà del cittadino a favore dello Stato, ma è anche (e, forse, soprattutto) sussidiarietà dello Stato nei confronti del cittadino attivo. È proprio il senso bidirezionale della sussidiarietà coniata dall’art. 118, ult. comma, che pone il tema “fiscale” di come lo Stato possa favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini. In altri termini, occorre domandarsi se fra gli strumenti del favorire, v’è quello fiscale e, quindi, i tributi (4). Atteso poi, che il contesto nel quale ci muoviamo è pubblicistico e di rilevanza costituzionale, le superiori domande si declinano come segue: esiste un criterio di legittimazione, che possa trovare appiglio costituzionale, che consenta allo Stato l’utilizzo dello strumento fiscale per favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini attivi? Il riferimento all’appiglio costituzionale non deve suonare pretestuoso, ma è invece necessario. I tributi, infatti, sono fortemente intrisi di costituzionalità, ove solo si pensi che i capisaldi dell’imposizione ruotano tutti introno all’art. 53, e all’art. 23 Cost. Ci occuperemo a seguire di queste due norme, ma al momento le segnaliamo per dare atto che qualsiasi forma di utilizzo dello strumento fiscale (diretto o indiretto) non può non passare attraverso il filtro della Costituzione. La risposta alla domanda se il «favorire» di cui all’art. 118, ult. comma, possa essere declinato in senso fiscale, pertanto, non può prescindere dalla ricerca di un criterio di legittimazione che sia di fondamento, per l’appunto, costituzionale. Altro aspetto preliminare da chiarire, e su cui torneremo, è che il «favorire» tramite lo strumento fiscale, non è e non può essere un rimunerare. Non si tratta, cioè, di rimunerare la prestazione di partecipazione attiva dei cittadini, eventualmente ragguagliandola al valore economico della stessa. Il

(4) Per un ampio riferimento ai rapporti fra fiscalità e sussidiarietà si veda L. Antonini, Sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia, 2005, passim. Sul punto anche L. Carpentieri, L’illusione della progressività, Roma, 2013, 89 ss.


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tributo, infatti, non è controprestazione del servizio pubblico ricevuto, ma è strumento di finanziamento del servizio. Se è cosi, allora, il subsidium fiscale dello Stato non rimunera alcunché, ma, semmai, riconosce e legittima, sotto diversa forma, il concorso dei cittadini attivi alla spesa pubblica. Ecco perché il criterio di legittimazione costituzionale, cui si è fatto prima cenno, diventa imprescindibile. Tutto ciò è vero soprattutto per le imposte, notoriamente non collegate alla prestazione di un servizio pubblico divisibile, ma ad un servizio indivisibile. Nelle imposte, in altri termini, non vi è correlazione tra pagamento del tributo e servizio prestato, ma vi è solo concorso alla spesa pubblica tramite il pagamento dell’imposta. Ecco, allora, che è già possibile operare una netta delimitazione del campo d’indagine del presente lavoro. I rapporti fra fiscalità e sussidiarietà, infatti, si declinano diversamente, e differenti sono le indagini e le conclusioni, a seconda che si faccia riferimento alle imposte o alle tasse (5). Per queste ultime, le problematiche teoriche sul campo possono essere diverse, esistono già specifici provvedimenti normativi che prevedono la possibilità di utilizzare le tasse come strumento per favorire l’attività sussidiaria dei cittadini attivi (si pensi all’art. 24 del decreto cd. «Sblocca Italia» ed all’art. 190 del D. Lgs. n. 50/2016), e la stessa struttura «causale» di tali tributi (6) sembra prestarsi ad un utilizzo in tal senso. Ben più problematico, invece, è l’utilizzo delle imposte. È proprio per esse che si pone il problema di legittimazione costituzionale di cui si è detto dianzi; è la struttura «acausale» di questi tributi che rende particolarmente problematica la possibilità di utilizzarli come strumento idoneo a favorire la sussidiarietà; infine, è proprio per questi tributi che non v’è, a tutt’oggi, un appiglio normativo di carattere generale (ve ne sono, invece, di episodici e disarticolati). Dovendo, pertanto, operare una selezione degli argomenti, riteniamo opportuno, al momento, soffermarci sul rapporto fra sussidiarietà e fiscalità con

(5) I due concetti vengono qui utilizzati nella loro forma più generale, ove l’imposta rappresenta quel prelievo coercitivo di ricchezza che è volto al soddisfacimento di bisogni/ servizi pubblici indivisibili e la tassa è invece rivolta al soddisfacimento di servizi pubblici divisibili, prestati su domanda (6) Su questi temi si veda L. Del Federico, I tributi paracommutativi e la teoria di Antonio Berliri della tassa come onere nell’attuale dibattito su autorità e consenso, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2009, 69 ss.


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particolare riferimento alle imposte (7); campo d’indagine che, peraltro, ad oggi, non sembra sia stato particolarmente approfondito in dottrina. 2. Il concetto di sussidiarietà e le sue declinazioni. In che misura essa può interessare il campo dei tributi. – Non è compito del presente scritto approfondire il concetto di sussidiarietà (8), ma è intuitivo che, per studiarne le implicazioni fiscali è necessario, quantomeno, selezionarne gli aspetti essenziali e valutare quali fra essi assumano rilevanza nella sfera dell’imposizione, così da circoscrivere l’accezione fiscale della sussidiarietà. Nonostante la dottrina abbia segnalato che si tratta di definizioni improprie (9), è ormai uso comune quello di distinguere la sussidiarietà in verticale ed orizzontale (10).

(7) Per i rapporti fra sussidiarietà orizzontale e tasse, sia consentito il rimando ad A. Perrone, Gli aspetti fiscali delle attività di rigenerazione e riuso di beni a fini di interesse generale, in Aa.Vv., La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto delle città, a cura di Francesca Di Lascio e Fabio Figlioni, Il Mulino, Bologna, 2017, 241 ss. (8) Sul punto, per un primo, quanto autorevole, approccio, anche per il profilo comunitario, si veda S. Cassese, L’aquila e le mosche. Principio di sussidiarietà e diritti ammnistrativi nell’area europea, in Il Foro Italiano, 1995, V, 373, (estratto), 1 ss. (9) cfr. V. Cerulli Irelli, (voce) Sussidiarietà (diritto amministrativo), in Enciclopedia giuridica “Treccani”, agg. XII, 2004, 4. Rileva, invero l’Autore che il principio di sussidiarietà, anche nel magistero ecclesiale, che è forse la più feconda fonte di elaborazione concettuale dell’istituto, nasce con valenza unitaria, e vale a definire un ruolo peculiare dello Stato, che è chiamato a limitare il proprio ambito d’ingerenza a favore dei cd «corpi intermedi», che possono consistere tanto in articolazioni territoriali dell’apparato pubblico dotate di specifiche funzioni amministrative (comuni, province, ecc.), quanto in formazioni ed aggregazioni di carattere privato, e cioè gruppi di individui che operano nel sociale, ma che non sono espressione o diramazione del potere pubblico. Il concetto sociale e canonico della sussidiarietà è, dunque, unitario. È, invece, la necessità di distinguerla sotto il profilo funzionale che induce ad operare una diversificazione. In tal senso si veda anche S. Cassese, L’aquila e le mosche cit., 4. (10) La cd. «sussidiarietà orizzontale» è stata variamente studiata dai giuristi di diritto positivo ed i riferimenti sono molteplici. Volendo indicare alcuni contributi specifici, e senza pretesa di esaustività, si veda L. Antonini, Il principio di sussidiarietà orizzontale: da welfare state a welfare society, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2000, p. 99-105; G. Arena, Il principio di sussidiarietà orizzontale nell’art. 118 u.c. della Costituzione, in Studi in onore di Giorgio Berti, Napoli, 2005, 179-221; Id. Sussidiarietà e nuova cittadinanza in Sussidiarietà e diritti, a cura di V. Baldini, Napoli, 2007, 117-127; Id. Cosa è la sussidiarietà, in La sussidiarietà tra politica e amministrazione, Trieste: Regione Friuli-Venezia Giulia, 2007, 33-48; Id. Sussidiarietà, la piattaforma costituzionale di una nuova cittadinanza, in Libertà Civili, v. II, 2011, 136-138; V. Cerulli Irelli, (voce) Sussidiarietà (diritto amministrativo), cit., 2 ss. D. D’alessandro, Sussidiarietà, solidarietà e azione amministrativa, Milano, 2004, passim. D’atena, Costituzione e principio di


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La sussidiarietà che opera come criterio di distribuzione delle funzioni amministrative fra autorità centrali e autorità locali, ispirandosi al principio secondo cui la funzione amministrativa deve essere attribuita all’ente più vicino al soggetto governato, per cui l’ente superiore deve intervenire soltanto nel caso in cui l’ente destinatario della funzione non riesca adeguatamente a svolgerla, è nota come sussidiarietà verticale (11). La sussidiarietà che prevede, invece, l’obbligo dello Stato di non limitare le autonome iniziative svolte dagli individui e dai «corpi sociali» nella tutela dei beni comuni, e anzi accompagna tale obbligo negativo con l’impegno di favorire tali iniziative, è nota come sussidiarietà orizzontale. Normalmente, la sussidiarietà verticale è ricondotta ai primi tre commi dell’art. 118 Cost. (novellato), è collegata alla problematica del decentramento e della valorizzazione delle autonomie locali e risponde ad un criterio di riparto delle funzioni amministrative basato sulla regola secondo la quale esse «sono attribuite alla organizzazione di livello territoriale più prossima agli amministrati», e cioè il Comune (12). La sussidiarietà orizzontale, è invece normalmente ricondotta al quarto comma dell’art. 118, il quale, come noto, prevede che «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Quanto al profilo fiscale, la sussidiarietà verticale è sempre stata associata al cd. federalismo fiscale (13) ed alla problematica del riconoscimento dell’autonomia impositiva degli enti locali. E senza dubbio, a tutt’oggi, è questo l’aspetto della sussidiarietà che è stato maggiormente studiato dalla dottrina tributaria. L’accezione fiscale della sussidiarietà, quindi, ha finora coinciso con quella verticale. È noto che la cd parabola federalista ha avuto alterne fortune, ma non è oggetto di questo contributo lo studio dell’attuale sviluppo del federalismo

sussidiarietà, in Quaderni Costituzionali, 1/2001, p... F. Giglioni, La sussidiarietà orizzontale nella giurisprudenza, in G. Arena, G. Cotturri, Il Valore aggiunto, Roma, 2010, p. 159-182. (11) V. Cerulli Irelli, Sussidiarietà cit., 3. (12) In tal senso G. Guarino, L’Italia? Ora è fondata sui comuni, in Corriere della Sera, 16.01.2002; V. Cerulli Irelli, Sussidiarietà cit., 6. (13) Per il rapporto fra sussidiarietà verticale e federalismo fiscale, si veda M. Cardillo, Il ruolo dei comuni nell’applicazione del principio di sussidiarietà fiscale, in Diritto e Pratica Tributaria, 2012, 2, 345 ss.; F. Gallo, L’applicazione cit., 211.


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fiscale (14), in questa sede si vogliono piuttosto analizzare le implicazioni fiscali della sussidiarietà cd orizzontale, e, segnatamente, in che misura essa può interessare il campo dei tributi. Siffatta analisi, però, impone lo studio di ulteriori aspetti della sussidiarietà e dunque la necessità di declinarne una nuova accezione fiscale. 3. L’accezione “fiscale” della sussidiarietà: orizzontale e positiva. – A tal scopo non sembra sufficiente, quanto meno al livello teorico, fermarsi alla distinzione fra sussidiarietà verticale ed orizzontale, ed è certamente proficuo aggiungere una riflessione sulla duplice direzione, positiva e negativa, attraverso cui la sussidiarietà tende normalmente a svilupparsi. L’istituto, infatti, già nelle sue prime elaborazioni concettuali, ha sempre avuto, e tuttora conserva, una dimensione elastica, che ha indotto taluni autori a definirla come sussidiarietà «liquida» (15), e che ha consentito la sua ampia diffusione e applicazione a diversi livelli teorici e pratici. La sussidiarietà, sotto questo profilo, non comporta soltanto il ritrarsi dell’intervento dello Stato per lasciare maggior spazio alle organizzazioni amministrative di livello inferiore, ma comporta anche una sorta di obbligo, o comunque un impegno, delle organizzazioni gerarchicamente superiori a favorire le attività amministrative delegate agli organi inferiori o le autonome iniziative di intervento nel sociale o nella gestione e cura dei beni comuni da parte dei cittadini attivi (16). Nel primo senso la sussidiarietà si declina come negativa, nel secondo essa è sussidiarietà positiva, che – in definitiva – consiste nel subsidium che lo Stato s’impegna a fornire alle attività che provengono dal basso (17).

(14) Per un riferimento alla cd. crisi del federalismo fiscale ed alle prospettive di un suo possibile sviluppo in chiave di riforma del titolo V della Costituzione, si veda F. Gallo, op. e loco ult. cit. (15) M. Bergo, Il diritto sociale frammentato. Principio di sussidiarietà e assistenza sociale, Padova, 2013, 217, 225. Di ambiguità parla S. Cassese, op. cit., 3. (16) S. Cassese, op. cit., 5; V. Cerulli Irelli, op. cit., 3. A tal riguardo M. Bergo, op. cit., 225, nota 56, richiama il noto discorso tenuto da Delors all’Istituto europeo di amministrazione pubblica, ove lo Statista sostenne che «La sussidiarietà non rappresenta solo il limite all’intervento di un’autorità superiore nei confronti di una persona o di una comunità che siano in grado di agire autonomamente, ma anche l’obbligo per questa autorità di intervenire nei confronti di un singolo o di un gruppo per offrire i mezzi necessari alla realizzazione di una attività» (Maastricht, Institut euopéen d’administration publique, coll. «Dcument de travail», 1991, 7-19. (17) S. Cassese, op. cit.; 5; V. Cerulli Irelli, op. cit., 3. Evidenzia l’aspetto bottom up della sussidiarietà M. Bergo, op. cit., 239 ss.


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Quanto ai profili fiscali, sembra che l’accezione positiva sia quella che maggiormente si attagli al campo delle imposte. Di fatti, nella misura in cui la sussidiarietà negativa limita l’ingerenza dello Stato a favore dei livelli inferiori di governo o di autonomi gruppi di privati cittadini attivi, non sembra esservi spazio per un utilizzo strumentale della leva fiscale. In altri termini, non è certo agendo sui tributi che lo Stato riduce la propria ingerenza. I campi d’intervento, in questo senso, sembrano essere più quelli della cessione di funzioni o della deregolamentazione di determinate attività e prestazioni (18). Di contro, nella misura in cui la sussidiarietà positiva richiede un impegno dello Stato a favorire le autonome iniziative dei privati cittadini (19), v’è certamente lo spazio per potersi domandare se questo sostegno possa essere reso agendo sulla leva fiscale. L’accezione della sussidiarietà pertinente all’area dei tributi, dunque, è quella orizzontale e positiva. 4. La questione centrale: è possibile individuare un criterio di legittimazione costituzionale che giustifichi un intervento fiscale a sostegno della sussidiarietà orizzontale? – Le superiori riflessioni ci hanno così condotto al tema centrale del presente lavoro. Tema che si articola nei seguenti quesiti: come possono svilupparsi i rapporti fra sussidiarietà e fiscalità a seguito della riforma dell’art. 118, ult. comma, Cost.? Esiste un criterio di legittimazione costituzionale che consenta di individuare nella sussidiarietà orizzontale una nuova e moderna forma di concorso alle spese pubbliche? Se così fosse, dovremo poi domandarci quali sono gli strumenti per attribuire rilevanza fiscale alla sussidiarietà orizzontale. Un buon punto di partenza per rispondere ai superiori interrogativi è la constatazione dell’effetto dirompente che la nuova dimensione costituzionale della sussidiarietà sembra aver avuto sullo schema, storicamente consolidato, del rapporto pagamento delle imposte/concorso alle spese pubbliche. Si noti che il caposaldo di questo rapporto, che è prettamente fiscale, non ha, però, natura fiscale, ma giuspubblicistica. Esso, infatti, si rinviene nel principio panpubblicistico «che a sua volta ha dominato a lungo nell’esperienza positiva dello Stato moderno, sino a tempi recentissimi» secondo il quale «a

(18) V. Cerulli Irelli, op. cit. 11. (19) V. Cerulli Irelli, op. cit. 4.


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ogni esigenza o bisogno di carattere collettivo, cui far fronte con attività di interesse generale, di amministrazione, [.. deve..] provvedere lo Stato o comunque una organizzazione pubblica» (20). È proprio sul principio panpubblicisitco di esclusiva dello Stato nella cura degli interessi generali che s’innesta quello fiscale della ripartizione del carico tributario (21). Lo Stato, infatti, cui compete in esclusiva il compito di soddisfare le esigenze e i bisogni di carattere collettivo, necessita, per adempiere tale compito, di pecunia, cioè di ricchezza; ma lo Stato non produce ricchezza, preleva ricchezza e la eroga con finalità redistributive. Le spese pubbliche, che soddisfano le esigenze e i bisogni collettivi, sono erogate dallo Stato, ma sono finanziate dai contribuenti mediante il pagamento delle imposte. Il sostegno economico al principio panpubblicistico dell’esclusiva dello Stato nel soddisfacimento delle esigenze collettive, dunque, proviene dai contribuenti, che pagano le imposte. Esiste, pertanto, un sistema, storicamente consolidato, che si sviluppa nei seguenti passaggi: esclusiva dello Stato nel compito di soddisfare le esigenze collettive; esigenza finanziaria dello Stato connessa a tale compito; sostegno dell’esigenza finanziaria dello Stato tramite il pagamento delle imposte da parte dei contribuenti. La sussidiarietà orizzontale spezza questo schema consolidato, poiché consente di invertire i termini del rapporto. Il novellato ultimo comma dell’art. 118 Cost., infatti, prevede l’impegno dello Stato, delle Regioni, ecc., a favorire «l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Il principio panpubblicistico dell’esclusiva dello Stato nella cura e perseguimento degli interessi generali, dunque, deve adesso misurarsi con il principio di sussidiarietà; si tratta, cioè, di un bilanciamento fra principi generali, che è sempre fonte di limitazione dell’area d’estensione degli stessi (22). Limita-

(20) V. Cerulli Irelli, op. cit., 4. Sul punto anche P. Boria, La riforma del patto fiscale nel Welfare State, in «I venerdì di diritto e pratica tributaria» (atti del convegno di Genova del 14-15 ottobre 2016), in corso di pubblicazione, vol. I, 185 ss. (21) F. Gallo, Le ragioni del Fisco, 114, ove L’Autore sostiene che l’art. 53 Cost. rappresenta, fondamentalmente, un criterio di riparto della spesa pubblica. (22) Su questi temi si veda diffusamente L. Ferrajoli, I fondamenti dei diritti Fondamentali, in Diritti fondamentali. Un dibattito teorico (a cura di Ermanno Vitale), Bari, 2001 (ult. rist. 2008), 280 ss. Sul tema del rapporto fra principi generali concorrenti, sia consentito il richiamo ad A. Perrone, Art. 6 della CEDU, diritti fondamentali e processo tributario: una riflessione teorica, in Riv. dir. trib., 2013, I, 919 ss.


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zione che, nel caso in esame, si traduce nella perdita dell’esclusiva a favore della mano pubblica. Il perseguimento e la cura degli interessi generali, cioè, non è più solo dello Stato, delle Regioni, ecc., ma è anche dei cittadini, singoli e associati. Si badi, però, che – almeno a nostro modo di vedere, ed almeno sotto il profilo fiscale – l’effetto dirompente cui si è accennato dianzi, non consiste tanto nella legittimazione dell’iniziativa privata a detrimento del regime di esclusiva dell’iniziativa pubblica (e, quindi, ancora, nel profilo negativo della sussidiarietà), quanto nella previsione dell’impegno della mano pubblica di favorire quella privata. Anche prima della novella costituzionale, infatti, il regime di esclusiva pubblica non poteva essere inteso così rigorosamente da escludere radicalmente l’iniziativa privata. In altri termini, l’autonoma iniziativa dei cittadini per il perseguimento di interessi collettivi poteva liberamente essere esercitata anche prima della riforma, in quanto non vi era una delegittimazione costituzionale del ruolo dell’iniziativa privata; vi era, invece, un mancato riconoscimento costituzionale dell’impegno della mano pubblica a favorire quella privata. La sussidiarietà orizzontale, quindi, poteva anche essere riconosciuta prima della riforma dell’art. 118, quanto meno nella misura in cui essa non era vietata. Ciò che, invece, non poteva riconoscersi (prima della riforma) era la sussidiarietà cd. positiva, e cioè l’impegno dello Stato, delle Regioni, ecc., a riconoscere e, quindi, favorire l’iniziativa privata (23). Insomma, ci sembra che la sussidiarietà orizzontale, prima della riforma, si esplicava tutta nell’area del non giuridico, un’area in cui alla volontaria scelta dei cittadini di attivarsi non rispondeva un impegno dello Stato di favorire tali iniziative. Probabilmente, pertanto, la portata innovativa della riforma risiede proprio nel riconoscimento costituzionale di questo impegno e cioè nella giuridicizzazione della sussidiarietà orizzontale. Ebbene, nel campo dei tributi è certamente il riconoscimento del valore costituzionale dell’impegno a favorire che apre la strada all’imposizione come strumento di ausilio alla sussidiarietà orizzontale. Proviamo allora a ricostruire il rapporto pagamento delle imposte/concorso alle spese pubbliche alla luce del bilanciamento (imposto dal novellato

(23) Sottolinea l’effetto dirompente e rivoluzionario dell’introduzione del principio di sussidiarietà orizzontale nella Costituzione, G. Arena, Il principio di sussidiarietà orizzontale cit., loco cit.


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art. 118, ult. comma) fra il principio dell’esclusiva della mano pubblica e il principio di sussidiarietà orizzontale. Se il perseguimento delle attività di interesse generale non è più monopolio dello Stato, ma è giuridicamente riconosciuto l’apporto sussidiario dei cittadini, singoli o associati, che possono, mediante le loro prestazioni, concorrere a realizzare quelle attività, viene meno anche la stretta identificazione fra pagamento delle imposte e «concorso» alle spese pubbliche. Le imposte, cioè, non sono più l’unico strumento attraverso il quale il cittadino/contribuente concorre alla spesa pubblica. Insomma, ciò che si vuol dire, è che il concorso alle spese pubbliche potrebbe anche intendersi come diretto perseguimento delle attività di interesse generale da parte dei cittadini attivi. Esso, dunque, potrebbe realizzarsi prendendosi direttamente cura dei beni comuni, o – più in generale – svolgendo direttamente, come singolo o come partecipe di associazioni, attività di interesse generale e di rilevanza collettiva. Se è così, il pagamento delle imposte non è più lo strumento unico e necessario di «concorso» alla spesa pubblica, perché ad essa si può partecipare anche in altro modo e cioè svolgendo direttamente attività volte al perseguimento di interessi generali. Invero, tali considerazioni potevano farsi anche prima della valorizzazione costituzionale del principio di sussidiarietà. La formulazione legislativa dell’art. 53 Cost., infatti, è così ampia che poteva anche legittimare una forma alternativa di concorso alle spese pubbliche che non si realizzasse necessariamente attraverso il pagamento delle imposte. Ma, prima della riforma, non esisteva alcun criterio di legittimazione costituzionale che consentisse di attribuire un valore, in termini fiscali, a tali forme alternative di concorso. S’intende dire che, prima di quella riforma, non vi era nulla che impegnasse lo Stato a riconoscere che la partecipazione alle spese pubbliche potesse realizzarsi anche in forme diverse dall’imposizione. Nulla, dunque, impegnava lo stato ad attribuire un valore fiscale alle forme alternative di concorso. Oggi, l’art. 118, ult. comma, invece, dà allo Stato questa possibilità, anzi – più correttamente – impegna lo Stato a riconoscere questa possibilità. Questi, infatti, è chiamato a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, e fra la diverse forme del favorire vi può essere certamente quella fiscale. Insomma, chi può escludere che, alla luce della valorizzazione costituzionale del principio di sussidiarietà orizzontale e positiva, lo Stato debba impegnarsi a riconoscere che, oggi, la partecipazione alle pubbliche spese possa realizzarsi, non solo attraverso il pagamento delle imposte, ma anche mediante lo svolgimento di attività che perseguono direttamente finalità di interesse generale?


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Se, come riteniamo, e come speriamo di dimostrare nei successivi paragrafi, non vi sono fondate ragioni che consentano di escludere questa possibilità, è allora certo che la sussidiarietà orizzontale può assumere rilevanza fiscale, ed il criterio di legittimazione di tale rilevanza è proprio di tipo costituzionale. L’ipotizzata conclusione, peraltro, ci sembra possa trovare conferma nella duttilità del termine «favoriscono». Invero, in dottrina è dibattuta la portata dell’obbligatorietà del termine proprio in ragione della sua elasticità, ma, senza voler approfondire questioni che non ci competono, riteniamo di poter condividere le ragioni (peraltro maggioritarie in dottrina) di coloro che intendono il termine favorire come un obbligo, o, quanto meno, come un impegno della mano pubblica ad attivarsi per creare le migliori condizioni per lo svolgimento delle autonome iniziative dei privati cittadini. Viceversa, non può non concordarsi con quella dottrina che ha sostenuto che un’interpretazione più lassista del termine favorire equivarrebbe a privarlo di qualsiasi significato (24). Se, dunque, favorire equivale ad impegnare, ci sembra che nulla possa escludere che nell’impegno vi stia anche la volontà dello Stato di riconoscere che il concorso alle spese pubbliche non passa necessariamente attraverso il filtro delle imposte, ma può essere attuato con attività che direttamente perseguono interessi generali. Sembra, pertanto, che la valorizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale, unitamente alla previsione dell’impegno dello Stato a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, abbia creato un plafond di legittimazione costituzionale della sussidiarietà fiscale; abbia cioè previsto che è costituzionalmente legittimo attribuire un valore fiscale alla sussidiarietà orizzontale, per cui il concorso alle spese pubbliche può essere realizzato anche attraverso la stessa. Ovviamente, e forse è addirittura superfluo puntualizzarlo, la sussidiarietà orizzontale non sostituisce la tradizionale via del concorso, ma si affianca ad essa. In altri termini, non è ipotizzabile un regime fiscale in cui la partecipa-

(24) Osserva, a riguardo, V. Cerulli Irelli, op. cit., 14, che «la disposizione costituzionale non sancisce, come ipotizzato da alcuni, una mera possibilità per i soggetti pubblici; ciò significherebbe difatti privare di significato la norma costituzionale. Al contrario l’art. 118 definisce un vero e proprio obbligo giuridicamente rilevante a carico degli enti». In tal senso anche G. Arena, op. e loco ult. cit. La questione dell’effettivo significato del termine «favoriscono», contenuto nell’ultimo comma dell’art. 118, Cost., è altresì affrontata, con riguardo ai diversi orientamenti dottrinari, da M. Bergo, Il diritto cit., 253 ss.


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zione alle spese pubbliche sia intesa esclusivamente come partecipazione attiva dei cittadini volta al diretto perseguimento di finalità di interesse collettivo; la tradizionale forma di concorso, e cioè il pagamento dei tributi, rimane e continua a svolgere un ruolo prevalente e fondamentale. L’aspetto innovativo della riforma dell’art. 118 Cost. non consiste nel sovvertire il regime fiscale vigente, serve – semmai – ad integrarlo, a renderlo più elastico; il ché, non è certamente poco. 5. Le questioni problematiche ancora aperte. – Le precedenti conclusioni, se, da un canto, rappresentano un punto d’arrivo, consentendo di attribuire rilevanza costituzionale anche agli aspetti fiscali della sussidiarietà orizzontale, dall’altro non esauriscono il perimetro delle questioni in campo. In primo luogo, infatti, si dovrà chiarire cosa significa attribuire un valore fiscale alla sussidiarietà orizzontale e, in secondo luogo, si dovrà analizzare se il riconoscimento di un valore fiscale alla sussidiarietà orizzontale sia compatibile con i principi costituzionali che governano la materia dell’imposizione. Di questi aspetti, pertanto, ci occuperemo. 6. Riconoscere che la sussidiarietà orizzontale può rappresentare una forma alternativa di concorso alla spesa pubblica, non comporta una rimunerazione della prestazione dei cittadini attivi. Il problema della compatibilità con il concetto di spesa pubblica e con i vincoli di bilancio. – Quanto al primo aspetto d’indagine, come già accennato nel primo paragrafo, favorire non equivale a rimunerare. Riconoscere un valore fiscale, in termini di concorso alle spese pubbliche, alle prestazioni dei cittadini attivi, non vuol dire rimunerare quelle prestazioni. Lo Stato non può pagare (né ha alcun obbligo di pagare), con uno sconto d’imposta, l’attività sussidiaria dei cittadini che perseguono finalità d’interesse collettivo; può (anzi deve), invece, legittimarla, nel senso di riconoscere che essa è forma alternativa di concorso alle spese pubbliche. Non vi è un compenso alla prestazione, dunque, ma la legittimazione di una diversa forma di concorso. La differenza è sottile, ma essenziale, quanto meno nella misura in cui si vogliano superare una serie di ostacoli che inevitabilmente si frappongono allo sviluppo della sussidiarietà orizzontale. L’obbligo di rimunerare, infatti, incide sull’equilibrio della spesa della pubblica, aprendo inevitabilmente la strada ad una serie di questioni di compatibilità con l’art. 81 Cost. e con il concetto stesso di spesa pubblica. In altri termini, chi è decide cosa è spesa pubblica? Chi è decide quali


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siano le attività di partecipazione attiva che debbano essere rimunerate e quali no? Chi è decide in che misura rimunerarle? In un ordinamento giuridico (qual è il nostro) basato sul principio della rappresentatività democratica, in cui governano le istituzioni democraticamente elette, è ovvio che tali decisioni non possono che spettare alle istituzioni. Sono esse che decidono cosa è spesa pubblica, quali siano i suoi limiti di erogazione, i suoi vincoli di bilancio (volti, oggi, a realizzare l’equilibrio), quali siano gli interessi ed i beni meritevoli di tutela e, dunque, destinatari di spesa pubblica. Non può esistere, pertanto, alcun obbligo di rimunerazione delle prestazioni dei cittadini attivi a carico dello Stato, né appare sostenibile la giuridicizzazione della pretesa ad una rimunerazione di quelle prestazioni. Ciò, d’altro canto, non rientra neanche nello spirito della sussidiarietà, la quale è, per definizione, volontaria e non nasce certo con finalità corrispettiva. Sono la consapevolezza di poter intervenire, il sentire la responsabilità della cosa pubblica come elemento di appartenenza dei privati, la volontà di affiancarsi alle istituzioni (non di sostituirsi ad esse) che animano la sussidiarietà orizzontale, e non certo l’intento di ottenere un corrispettivo in termini di sconto d’imposta. La sussidiarietà orizzontale, dunque, non pretende una rimunerazione fiscale. Essa, invece, necessita di legittimazione. Ciò significa che le istituzioni devono prendere atto che essa esiste, che può rappresentare un forma alternativa di concorso alla spesa pubblica, che essa necessita di una regolamentazione e di una disciplina giuridica e di strumenti (anche fiscali o parafiscali) che la favoriscano. In tal modo la sussidiarietà orizzontale non sovverte i criteri di riparto della spesa pubblica, perché sono pur sempre le istituzioni che dovranno stabilire, tramite lo strumento normativo, quali sono i beni e gli interessi che meglio possono essere perseguiti dai cittadini attivi. Analogamente, essa, non pone problemi ai vincoli di bilancio, in quanto sono pur sempre le istituzioni che stabiliscono, ancora una volta per legge, quali strumenti fiscali sono i più idonei a favorirla ed in che misura essa possa essere favorita. In ultima analisi, riconoscere alla sussidiarietà orizzontale il ruolo di forma alternativa di concorso alla spesa pubblica, non impone la necessità di rimunerarla con sconti d’imposta, ma impone, invece, la necessità di prendere atto della sua esistenza e di favorirla tramite un’adeguata regolamentazione normativa e, quindi, tramite i tradizionali canali della democrazia rappresentativa.


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D’altro canto, sotto il profilo teorico, affermare che favorire equivale a rimunerare in termini fiscali la prestazione, comporterebbe uno stravolgimento della struttura stessa dell’imposta, e - ovviamente - non possiamo chiedere così tanto alla sussidiarietà. L’imposta, di fatti, è tributo «acausale» (25); il contribuente, cioè, quando paga l’imposta, non sa quale quota di servizio pubblico sta finanziando, sconosce la destinazione della somma di denaro da lui versata e, soprattutto, non paga in misura pari alla quota parte di servizio pubblico di cui fruisce. Non v’è corrispondenza fra il versato ed il ricevuto, in quanto le imposte si pagano, non in ragione del valore economico dei servizi di cui si è destinatari, ma in ragione della capacità contributiva, il ché – come noto – risponde ad un obbligo di solidarietà, per cui chi ha di più deve pagare di più (più che proporzionalmente di più). Questo è il criterio su cui la nostra Costituzione ha fondato il sistema impositivo. Criterio che verrebbe disatteso qualora lo Stato, riconoscendo il valore fiscale della sussidiarietà orizzontale, rimunerasse le prestazioni dei cittadini attivi mediante una riduzione d’imposta pari al valore economico della loro prestazione. In questo caso, a parte la difficoltà pratica di calcolare con esattezza il valore economico di una prestazione di partecipazione attiva, vi sarebbe una corrispondenza fra la forma alternativa di contribuzione e il servizio pubblico. Il concorso alla pubblica spesa reso mediante la prestazione di partecipazione attiva (forma di contribuzione alternativa al pagamento dell’imposta), cioè, sarebbe pari al valore economico di quella prestazione, con la conseguenza che il cittadino contribuirebbe alle spese pubbliche, non in ragione della sua capacità economica (del suo livello di ricchezza), ma in ragione di un importo ragguagliato al valore economico della prestazione da lui resa. Il criterio solidaristico del concorso graduato alla capacità economica cederebbe, così, il passo ad un criterio commutativo e causale. Pertanto, se intendessimo favorire come rimunerare – con uno sconto d’imposta – la prestazione di partecipazione attiva, la forma alternativa di concorso alla spesa pubblica diverrebbe un contributo causale (rendo la prestazione in quanto fruisco di uno sconto d’imposta, o – il che è lo stesso – lo sconto d’imposta mi è concesso in quanto rendo la prestazione e nella misura del valore della stessa), con struttura antitetica a quella delle tradizionali forme di contribuzione.

(25) L’espressione è utilizzata dal L. Del Federico, I tributi cit., passim.


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Il riconoscimento del valore fiscale della sussidiarietà orizzontale, dunque, non può consistere in una riduzione del tributo ragguagliata al valore della prestazione di partecipazione attiva. Questo è indubbiamente vero per le imposte; diversamente va studiato il problema per i tributi cd. «causali» e cioè quelli in cui è ravvisabile una forma di correlazione fra corresponsione e fruizione del servizio (26). Si conferma, così, che le maggiori difficoltà teoriche (e pratiche) nel cercare una correlazione fra sussidiarietà e fiscalità si riscontrano proprio nell’ambito delle imposte, per le quali, se si vuole riconoscere rilevanza fiscale alla sussidiarietà orizzontale, la via da percorrere non può essere quella della rimunerazione (in termini di riduzione d’imposta) della prestazione, ma quella della legittimazione della prestazione come forma alternativa di concorso alla spesa pubblica. Questo, come vedremo, determina rilevanti conseguenze sulle modalità pratiche di valorizzazione fiscale della sussidiarietà orizzontale. 7. Il problema della rilevanza fiscale della sussidiarietà orizzontale alla luce del tradizionale principio di capacità contributiva. – Ulteriore aspetto d’indagine è quello della compatibilità fra la dimensione fiscale della sussidiarietà orizzontale, che si è cercato sopra di prospettare, ed il principio di fondo che governa gli assetti impositivi nella nostra carta costituzionale. Di fatti, la conclusione secondo la quale sussiste un plafond di legittimazione costituzionale, in ragione del quale il concorso alle spese pubbliche può essere realizzato anche attraverso la sussidiarietà orizzontale, non avrebbe un sufficiente livello di credibilità teorica se non ne venisse testata l’armonicità con il principio di una tassazione conforme a capacità contributiva. In termini concreti dobbiamo, dunque, chiederci se la capacità del cittadino attivo di rendere una prestazione di utilità collettiva possa effettivamente rientrare nel concetto di «capacità contributiva» di cui all’art. 53 Cost. ed appagare, così, seppur in modo diverso ed alternativo, il criterio fondamentale di riparto della spesa pubblica congegnato dal nostro legislatore costituente.

(26) Nonostante nel presente lavoro non ci si occupi di tali aspetti, è, però, doveroso puntualizzare che non si intende dire che i tributi cd. «causali» si pagano se si fruisce del servizio con gli stessi finanziato, ma che essi si pagano in ragione di quel servizio, per finanziare quel servizio. Su questi temi si veda L. Del Federico, op. e loco. ult. cit. Sia consentito ancora una volta il richiamo ad A. Perrone, Gli aspetti fiscali delle attività di rigenerazione e riuso di beni a fini di interesse generale, cit., loco cit.


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7.1. Segue: la sussidiarietà orizzontale e l’esatta dimensione del concetto di «capacità» che sta a fondamento dell’art. 53 Cost. L’ipotizzata dimensione fiscale della sussidiarietà orizzontale appare compatibile con tale concetto. – I termini in cui si sviluppa la questione di compatibilità che stiamo studiando sembrano essere i seguenti. Si è detto, al § 4, che la circostanza che l’accezione fiscale della sussidiarietà possa declinarsi come orizzontale e positiva, consente di identificare nella stessa una forma alternativa di concorso alle spese pubbliche e quindi, sotto questo profilo, almeno in prima battuta, appaga la previsione dell’art. 53 Cost. Tuttavia, è noto che l’art. 53 consta di due enunciati: il primo è fondamentalmente rivolto al contribuente, nel senso che è un monito diretto a tutti i contribuenti, per effetto del quale ognuno è tenuto a concorrere alle spese pubbliche, e cioè a fornire la necessaria provvista finanziaria affinché lo Stato possa provvedere alla pubblica spesa; il secondo è rivolto allo Stato ed ha come destinatario il contribuente, nel senso che è un monito allo Stato affinché esso gradui il concorso dei contribuenti alle spese pubbliche in ragione di un parametro ben definito, la «capacità contributiva». La dimensione fiscale della sussidiarietà orizzontale, che sin qui abbiamo esaminato, si riferisce al primo enunciato dell’art. 53 Cost., e cioè alla possibilità di individuare nella sussidiarietà una forma di concorso alle spese pubbliche; segnatamente, una forma alternativa alla tradizionale partecipazione mediante pagamento delle imposte. Dobbiamo adesso analizzare i rapporti con il secondo enunciato dell’art. 53 e chiederci se l’attitudine dei cittadini attivi a svolgere direttamente attività sussidiarie di cura e tutela di interessi collettivi e/o sociali possa essere considerata come un forma alternativa di capacità contributiva. Ciò, ovviamente presuppone un interrogativo: cos’è esattamente la capacità contributiva? Chiunque sia avvezzo a studiare questioni fiscali sa bene che l’esatta definizione e delimitazione di questo concetto ha impegnato generazioni di studiosi e, tutt’oggi – sebbene, in linea di massima, tutti concordino nel ritenere che essa abbia un sostrato economico per cui essa, in definitiva è la capacità economica di pagare i tributi per concorrere alla spesa pubblica – stenta a trovarsi un consenso condiviso (27).

(27) Vastissima è, ovviamente, la letteratura a riguardo. Per qualche “essenziale” richiamo bibliografico si veda: Giardina, Le basi teoriche del principio della capacità


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Non è certo questa la sede per affrontare una questione di tal peso e – a onor del vero – neanche sembra necessario affrontarla. Ai nostri fini, probabilmente, è sufficiente divedere l’espressione nei suoi due termini ed analizzarli separatamente. L’aggettivo «contributiva», ovviamente, indica che l’attitudine deve essere rivolta alla contribuzione, cioè al concorso alle spese pubbliche. Più problematico è, invece, il sostantivo «capacità», che richiede di spiegare in cosa consista quest’attitudine. È un’attitudine economica? Certamente sì; ma è soltanto economica? La «capacità» di cui all’art 53 Cost., dunque, è declinabile esclusivamente come capacità economica? Ferma restando la riserva precedente, per cui non è possibile – in queste sede – affrontare esaustivamente la complessa tematica della capacità contributiva, riteniamo, però, che, per le precipue finalità del presente scritto, sia sufficiente il riferimento ad un’acuta, quanto recente, dottrina che ha gettato nuova luce sul concetto di capacità che sta alla base, non soltanto dell’art. 53 Cost., ma di tutte le disposizioni costituzionali che si riferiscono ai diritti e doveri dei cittadini (28). Il punto di partenza dell’interessante prospettiva è l’art. 1 della Cost., ove si afferma il principio generale della democraticità, che, in quanto riferibile all’intero ordinamento giuridico italiano, pervade altresì la materia fiscale. È stato, a riguardo, autorevolmente osservato che, dei diversi principi ispiratori del testo costituzionale (il «personalista», il «lavorista», il «pluralista» ed il «democratico»), quello democratico «è il più comprensivo perché li riassume

contributiva, Milano, 1961; Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965; Lombardi, Contributo allo studio dei diritti costituzionali, Milano, 1967; La Rosa, Eguaglianza tributaria ed esenzioni Fiscali; Milano, 1968; Gaffuri, L’attitudine alla contribuzione, Milano, 1969; Maffezzoni, Il principio di capacità contributiva nel diritto italiano; Torino, 1970; Moschetti, Il principio della capacità contributiva, Padova 1973; ID. (voce) Capacità contributiva, in Enc. giur., vol. V, Roma, 1988; Marongiu, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria, Torino, 1991; De Mita, Fisco e costituzione. Vol. I, Milano, 1987; ID. Fisco e costituzione. Vol. II, Milano, 1993. (28) Cfr. F. Moschetti, Il «principio democratico» sotteso allo Statuto dei diritti del contribuente e la sua forza espansiva, in Aa. Vv., Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente. Studi in onore del prof. Gianni Marongiu, a cura di A. Bodrito, A. Contrino e A. Marcheselli, Torino, 2012, 5 ss.


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tutti, in quanto racchiude in sé, in germe, gli altri, i quali pertanto ne sono, in certo modo, esplicazione e svolgimento» (29). L’introduzione nella Costituzione del principio di democraticità ha comportato un radicale mutamento di prospettiva rispetto alle concezioni politiche e sociali esistenti prima del varo della Carta. In sostanza, il principio democratico afferma che la «sovranità appartiene al popolo» e ciò stravolge la previgente concezione di uno Stato etico in sé (30), diretta incarnazione dei valori che la collettività deve perseguire; uno Stato che è sopra e prima degli individui, per cui l’individuo è in funzione dello Stato. Il principio democratico di matrice costituzionale ribalta i termini del rapporto, per cui è lo Stato che è in funzione dell’individuo, ed è, invece, quest’ultimo, sia singolarmente che collettivamente, ad esser portatore dei valori fondanti della società; è quest’ultimo che è sovrano. La rivoluzione democratica della Costituzione italiana consiste, in primo luogo, nel porre la sovranità dell’individuo al centro del nostro sistema giuridico. Ma la concezione costituzionale della sovranità dell’individuo non lo identifica solo come singolo, bensì come individuo collettivo; e, conseguentemente, non lo identifica come isolato nei suoi interessi, ma come persona solidale. Solidarietà e collettività sono i due modi di espressione della sovranità della persona, tant’è che l’art. 2 Cost., completa l’art. 1 nel riconoscere che i diritti inviolabili della persona vanno riconosciuti dalla Repubblica «sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (ponendo così l’accento sulla collettività), e individua come principali doveri della persona quelli «inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (ponendo così l’accento sulla solidarietà). La persona, singola e collettiva, quindi, è al fondamento della nostra concezione di Stato, così come la «persona solidale, attore primo del bene comune, che pone le proprie “capacità” al servizio dell’interesse collettivo» (31) è l’individuo che la nostra Costituzione pone al centro dello Stato. L’idea del legislatore costituzionale, antitetica alla concezione totalitaria dello Stato, sembra, quindi, essere quella di uno Stato in cui gli individui, singolarmente e collettivamente, mettono a disposizione le proprie capacità

(29) In tal senso C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova, 1975, p. 148, citato da F. Moschetti, op. cit. 5, nota 7. (30) Sulla concezione hegeliana di Stato etico, si veda F. Moschetti, Il «principio democratico» cit., 5-6, e bibliografica ivi citata. (31) Così F. Moschetti, op. cit., 6.


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per perseguire un interesse comune di cui essi sono portatori, e lo fanno mossi da un intento solidaristico (che diviene «dovere inderogabile») di concorrere alla realizzazione del bene comune. Idea, questa, che – come rileva Norberto Bobbio – è già nitida nelle lezioni del compianto statista Aldo Moro, il quale osservava che se lo Stato è, come lo è certamente, etico, il rapporto è però invertito rispetto alla tradizionale concezione dell’eticità dello Stato. Difatti, è «l’eticità dei singoli (considerati come persona) e degli aggregati sociali in cui questi si esprimono» che «è alla base dell’ordinamento e lo Stato deve far propri, assumere questi valori e realizzarli come strumento, come mezzo e non come fine» (32). Il fine, dunque, non è lo Stato, ma sono i valori della persona, singola e collettiva, e lo Stato diviene strumento, mezzo di realizzazione di tali valori. Nella misura in cui, nella prospettiva costituzionale, il rapporto di sovranità è invertito ed è lo Stato che opera in funzione dell’individuo, è poi consequenziale che l’interesse collettivo non promani dall’alto, come un valore preconfezionato; non è lo Stato che si fa ideatore del bene comune che spetterà, poi, ai singoli perseguire, ma è l’individuo, singolo ed associato, che si fa latore di quell’interesse e di quel bene e che lo persegue in ragione delle sue capacità. L’interesse collettivo, è stato efficacemente osservato, «non è un valore autosufficiente, autoreferenziale, calato dall’alto, autodefinito dal potere dominante, ma germina dalle capacità delle persone, è realizzato con il concorso solidale delle persone (e nei limiti della loro capacità), è individuato e definito attraverso il consenso delle persone» (33). Il rapporto fra interesse collettivo e capacità della persona è dunque reciproco: l’interesse collettivo (id est: il bene comune) è espressione dei valori della persona (singola e associata) ed il perseguimento di quell’interesse avviene tramite le capacità della persona, in ragione di quelle capacità, che devono essere messe a disposizione con spirito e dovere di solidarietà. L’interesse collettivo, dunque, non può prescindere dalle capacità della persona, né può superarle, nel senso che non può comportare imposizioni (personali e/o patrimoniali) che non tengano conto dell’effettiva capacità della persona (34). Alla luce di questi concetti, solo schematicamente affrontati, chiediamoci

(32) Così N. Bobbio, Il giovane Aldo Moro, in Dal fascismo alla democrazia. I regimi, le ideologie, le figure e le culture politiche, a cura di M. Bovero, Milano, 1997, citato da F. Moschetti, op. cit., 8, nota 17. (33) Così F. Moschetti, op. cit., 7. (34) Cfr. F. Moschetti, op. e loco ult. cit.


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adesso quali possano essere le conseguenze del principio democratico, così declinato, nell’area dei tributi. In primo luogo, appare evidente che l’art. 23 Cost. è proprio l’estrinsecazione, nel campo impositivo, del principio di democraticità, e – segnatamente – del concetto di democrazia rappresentativa (ed è ovvio che, con ciò, non diciamo nulla di nuovo). La sovranità del contribuente si esprime attraverso il consenso all’imposizione, che è mediato attraverso le strutture democratiche di espressione dello stesso, e cioè gli organi, dotati di rappresentatività popolare, che hanno il compito di legiferare. È questa la moderna espressione del tradizionale principio no taxation without representation che, sebbene sia nato con la finalità di limitare il potere del sovrano nei confronti delle classi dominanti, è oggi espressione del criterio del necessario consenso alla tassazione veicolato attraverso la forma democratica (35). In secondo luogo, come si è detto, il concetto di capacità della persona va collegato all’interesse collettivo ed al dovere di solidarietà. La capacità è, al contempo, il criterio di misura dell’idoneità degli individui a perseguire l’interesse collettivo – poiché quell’interesse non può prescindere dalla capacità degli individui e non può superarla – e attitudine dell’individuo a perseguire quegli interessi con animo solidale. La misura entro la quale può essere chiesto ad ogni individuo di perseguire l’interesse comune è proprio la capacità della persona individuale e collettiva, che deve estrinsecarsi con spirito di solidarietà. Sembra, allora, che la capacità che sta a fondamento del dettato costituzionale altro non sia se non l’attitudine a perseguire l’interesse collettivo e la misura di quell’attitudine. La capacità contributiva è, poi, l’attitudine a perseguire l’interesse collettivo mediante la forma specifica del concorso alle spese pubbliche. Ebbene, proviamo adesso, alla luce di queste osservazioni, a rispondere al quesito che c’eravamo posti circa la possibilità di racchiudere nel concetto di capacità contributiva anche l’attitudine dei cittadini attivi ad adoprarsi per perseguire la tutela di beni comuni. La soluzione, invero, sembra a portata di mano. Difatti, se la capacità contributiva è l’attitudine della persona a perseguire l’interesse collettivo mediante il concorso alle spese pubbliche, e se il concorso alle spese pubbliche (come si è visto) può essere legittimamente realizzato attraverso prestazioni

(35) Sul punto si veda F. Tesauro, Istituzioni cit., 13 ss e bibliografia citata alla nota 1.


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dirette dei cittadini attivi, allora la capacità di questi ultimi di adoprarsi per prendersi cura e tutela di beni comuni è capacità contributiva. Non sembra sussistere, dunque, alcuna difficoltà teorica nell’includere nel concetto di capacità contributiva anche la tipologia di prestazioni dirette che vengono svolte dalla cd. cittadinanza attiva. Non sembra, pertanto, sussistere alcuna incompatibilità fra la dimensione fiscale della sussidiarietà orizzontale ed il concetto di capacità contributiva. A questo punto, i cittadini attivi che autonomamente assumono l’iniziativa di perseguire un interesse collettivo, prendendosi direttamente cura dei beni (materiali e immateriali) comuni, stanno soltanto facendo uso di quella capacità che la Costituzione riconosce come strumento per la realizzazione di quegli interessi; essi, cioè, stanno contribuendo alla spesa pubblica con un’attitudine non strettamente economica, ma che è comunque espressione della capacità di concorrere alle pubbliche spese. La sussidiarietà orizzontale, allora, sembra compatibile con il concetto di capacità contributiva, per cui esiste, anche sotto questo profilo, un criterio di legittimazione fiscale, di natura costituzionale, della sussidiarietà orizzontale. Ma v’è di più. Come si è visto, la capacità che sta alla base principio di democraticità recepito dalla Costituzione, si coniuga con la solidarietà. Essa, di fatti, non è soltanto l’attitudine della persona, individuale e collettiva, ad adoprarsi per il perseguimento del bene comune, ma è altresì spirito di solidarietà che, nell’ottica costituzionale, deve animare quell’attitudine. Si tratta, cioè, di una capacità animata da solidarietà. Ebbene, la solidarietà è a fondamento del criterio di capacità contributiva, così come esso è concepito dall’art. 53 Cost., in quanto gli individui, non soltanto sono chiamati a concorre alle spese pubbliche per effetto della loro attitudine alla contribuzione, ma sono chiamati a concorrere in ragione della loro attitudine, e cioè in ragione della loro capacità di contribuzione. Questo imperativo, poi, si coniuga con la previsione del secondo comma dell’art. 53 Cost., che prefigura un sistema tributario informato al criterio di progressività, per cui chi ha di più, in termini di capacità, deve concorrere più che proporzionalmente alla spesa pubblica, in quanto deve sopperire a chi ha di meno. Il concorso alla pubblica spesa, pertanto, è sempre stato concepito in termini solidaristici. Chi ha maggiore disponibilità economica deve dare di più e finanziare la quota parte di spesa pubblica destinata a chi nulla ha, o ha di meno. Il legame fra l’art. 53 e l’art. 2, secondo comma, Cost., è caratteristico dell’imposizione: la capacità contributiva è una capacità fondata sulla solidarietà.


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È ovvio allora che se si potesse dimostrare l’esistenza di uno stretto legame fra solidarietà e sussidiarietà orizzontale, esso non potrebbe che essere un ulteriore elemento di conferma, a livello teorico, dell’esistenza di un criterio di legittimazione costituzionale della dimensione fiscale della sussidiarietà. 7.2. Segue: la solidarietà senza sussidiarietà. Sussidiarietà e solidarietà: un approdo comune della dottrina giuridica e del magistero ecclesiale. – L’analisi del possibile legame fra solidarietà e sussidiarietà orizzontale non muove necessariamente da considerazioni giuridiche. Il tema della solidarietà, infatti, come declinazione della carità, ha sempre interessato anche la dottrina della Chiesa, la quale, peraltro, ha attribuito decisivo valore anche all’attività dei cd. «corpi intermedi», e – dunque – alla sussidiarietà, considerata come vera espressione della capacità dell’individuo, della famiglia e dei corpi sociali (associazioni, fondazioni, ecc.), di partecipare attivamente al compiuto sviluppo della persona. Il tema dei rapporti fra solidarietà e sussidiarietà, poi, è particolarmente sviluppato nell’enciclica Caritas in Veritate (36), ove all’aspetto caritatevole della solidarietà, si aggiunge quello sociale della sussidiarietà, che la sublima. Nella feconda espressione di Papa Benedetto XVI «il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa», e ciò perché è soltanto nella connessione che solidarietà e sussidiarietà realizzano la loro più piena dimensione. Va chiarito, a riguardo, che la dottrina della Chiesa ravvisa nella sussidiarietà una «manifestazione particolare della carità» ed un principio guida di «collaborazione» fra individui che prescinde dal loro credo religioso («collaborazione fraterna di credenti e non credenti»). Essa è essenzialmente «una forma di aiuto alla persona attraverso l’autonomia dei corpi intermedi»; aiuto che viene offerto quando l’individuo non riesce a far da sé, e che non è necessariamente caritatevole, nel senso assistenzialista del termine, ma è, invece, emancipatore, in quanto tende a favorire «la libertà e la partecipazione», intesa come «assunzione di responsabilità» (37). La sussidiarietà, dunque, è sempre collaborazione, impegno reciproco, che riconosce la dignità della persona destinataria dell’ausilium, e mira a realizzare, attraverso la reciprocità, la «intima costruzione dell’essere umano». Solo così la sussidiarietà è un antidoto

(36) Benedetto XVI, Lettera Enciclica Caritas in Veritate, Città del Vaticano, 2009, 97 s (37) Così Benedetto XVI, Lettera Enciclica Caritas in Veritate cit., p. 96.


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all’assistenzialismo paternalista. È questo, dunque, il senso dell’espressione secondo la quale la «solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno» (38). Non è possibile – o, almeno, non è fecondo – secondo il magistero ecclesiale, predicare la solidarietà senza la sussidiarietà. È curioso notare che la concezione laica della solidarietà, qual è certamente quella costituzionale, finisce con il coincidere con quella prospettata dalla dottrina della Chiesa. La solidarietà costituzionale, infatti, non è paternalismo, ma è consapevolezza che, mettendo a disposizione le capacità di chi ha di più, si contribuisce alla crescita ed al miglioramento – e non all’assistenza – di chi ha di meno. È questa una possibile declinazione del cd. welfare state (39); è questa l’ottica, tutta tributaria, dell’art. 53, in cui il dovere di concorrere in ragione della propria capacità, non va inteso come finanziamento di cure assistenzialistiche nei confronti dei meno abbienti, ma va inteso come strumento per realizzare le condizioni necessarie affinché i meno abbienti possano, un domani, vivere adeguatamente con le proprie capacità. In questo senso la dottrina tributaria riconosce uno stretto legame dell’art. 53, non soltanto con l’art. 2, ma anche con l’art. 3 Cost. (40) Insomma, anche la solidarietà costituzionale sembra essere una solidarietà con sussidiarietà. D’altro canto, e reciprocamente, la dottrina che si è occupata della riforma dell’art. 118 Cost, non ha mancato di sottolineare come, già in nuce, i principi ispiratori di quella riforma si trovassero nell’art. 2 Cost. È stato osservato, a riguardo, che «lo stesso testo costituzionale, nella sua versione originaria già prevedeva … che i cittadini, anzi gli uomini, come singoli ovvero nell’ambito di formazioni sociali nelle quali si svolge la loro personalità, agissero in vista dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2)» (41). La riforma dell’art. 118 ult. comma, pertanto, si incanala in questo solco e realizza una prospettiva sussidiaria embrionalmente contenuta nell’art. 2; una sussidiarietà solidale, appunto. Anche la dottrina tributaria ha apertamente riconosciuto il legame fra la solidarietà e la sussidiarietà orizzontale, affermando che, attraverso il principio di

(38) Benedetto XVI, Lettera Enciclica Caritas in Veritate cit., 97. (39) Sul punto P. Boria, La trasformazione del Welfare State, in La Rivista di Finanza, 2011, 4; Id., La riforma del patto fiscale cit., 185 ss. (40) P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2001, 86 ss. (41) Così V. Cerulli Irelli, op. cit., 4. Analogamente M. Bergo, op. cit., 254.


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sussidiarietà, i cittadini e tutti coloro che sono interessati alla cura del bene comune, non richiedono alle istituzioni le risorse finanziarie per soddisfare le loro esigenze, ma diventano corpi intermedi «organizzati, che partecipano, operano con efficienza, si assumono responsabilità, prestano la loro capacità organizzativa e il loro lavoro, in nome dell’interesse generale e della solidarietà» (42). Dunque, se la solidarietà è poco funzionale in assenza della sussidiarietà orizzontale (poiché scade nell’assistenzialismo paternalistico), d’altro canto quest’ultima è espressione della prima. Volendo ancora parafrasare le parole di Benedetto XVI, se la solidarietà senza sussidiarietà scade nell’assistenzialismo paternalistico, la sussidiarietà, in assenza di solidarietà, «scade nel particolarismo sociale», e cioè nell’attitudine a supplire le carenze della mano pubblica all’esclusivo scopo di perseguire i propri interessi e non l’interesse comune. La sussidiarietà orizzontale e la solidarietà, dunque, si muovono lungo lo stesso percorso. Non è difficile allora sostenere che esiste un ulteriore profilo di legittimazione costituzionale della dimensione fiscale della sussidiarietà orizzontale. Quest’ultima ha una sua legittimazione nel campo dei tributi poiché è impregnata di quello stesso spirito solidaristico che sta a fondamento dell’obbligo (solidale) di concorre alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva. 8. Il problema pratico di “come” utilizzare le imposte. – Risolte (almeno nella misura in cui si condividano le superiori conclusioni) le questioni concettuali e teoriche, rimane il problema pratico di come utilizzare le imposte per favorire le autonome iniziative dei cittadini, volte alla cura e tutela di beni collettivi e/o sociali. Intanto, occorre comprendere di quali beni stiamo discutendo, e siamo consapevoli che tale questione travalica i confini del presente contributo, poiché l’esatta estensione dei beni, materiali e/o immateriali, che possono ricevere tutela dalle prestazioni di partecipazione attiva dei cittadini, il problema del loro riconoscimento e della misura in cui debbano essere favorite le relative prestazioni, va risolto, come già detto, a livello legislativo, tramite una disciplina adeguata della sussidiarietà orizzontale. In questa sede cerchiamo di rispondere alla questione preliminare del se la fiscalità possa essere usata per

(42) Così F. Gallo, L’applicazione cit., 222. Sui rapporti fra solidarietà e sussidiarietà nel campo tributario si veda L. Carpentieri, L’illusione cit., 92 ss.


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favorire la sussidiarietà e non alla questione conseguente di quali siano i beni dei degni di tutela. Purtuttavia, nella dottrina tributaria vi è stato chi ha individuato – in linea di massima – tali beni, identificandoli in quelli «di uso comune» che «assolvono per vocazione naturale ed economica all’interesse sociale, servono i cittadini e possono essere preziosi strumenti di cittadinanza attiva se da loro stessi gestiti» (43). In quest’ampia categoria vengon fatti rientrare beni di primaria importanza per la collettività e di utilizzo generale, quali l’acqua, l’energia, l’etere, l’ambiente, la formazione sociale, ecc. È ovvio che si tratta di criteri di massima che, però, ai ristretti fini del presente studio sembrano già sufficienti. Ebbene, ciò posto, chiediamoci come lo Stato possa utilizzare, sotto il profilo pratico, la leva fiscale per favorire l’autonoma iniziativa di cittadini attivi che si prendono cura di tali beni. 8.1. Segue: l’utilizzo delle agevolazioni fiscali sotto forma di deducibilità dall’imponibile delle somme destinate a sostenere le attività di sussidiarietà orizzontale. – Si è già detto – e non sembra, pertanto, necessario soffermarsi ulteriormente sull’argomento – che, a livello concettuale e teorico, favorire attraverso le imposte non può essere inteso come rimunerare con sconti d’imposta i cittadini attivi. D’altro canto, alle difficoltà teoriche si aggiunge l’aspetto pratico. Difatti, se provassimo ad immaginare di voler ricompensare la prestazione dei cittadini attivi mediante una riduzione delle loro imposte sul reddito, ci troveremmo di fronte all’impossibilità pratica di attuare tale disegno. Come si fa a valutare l’importo della riduzione o esenzione d’imposta? Lo si ragguaglia al valore economico della prestazione? Ma, attraverso quali parametri, si calcola questo valore? E, nelle ipotesi (che poi sono le più frequenti) in cui la prestazione è resa in forma associata da associazioni di cittadini attivi, come si fa a calcolare il valore/quota delle prestazioni del singolo? Sono tutti interrogativi ai quali personalmente non saprei rispondere. Difficoltà teoriche e complessità pratiche, pertanto, suggeriscono che la strada debba essere diversa. Il che, però, non significa che deve essere diverso lo strumento. Quest’ultimo, infatti, può, pur sempre, essere ricercato all’interno dell’ampio genus delle agevolazioni fiscali.

(43) Così F. Gallo, op. e loco ult. cit.


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Preliminarmente è doveroso puntualizzare che, anche in questo caso stiamo maneggiando uno strumento molto complesso, che tanto ha impegnato la dottrina tributaria, e non è certo nostro intendimento affrontare – in questa sede – l’articolata problematica del concetto di «agevolazione fiscale», dell’esatta delimitazione del suo perimetro di applicazione, dell’evoluzione (e/o involuzione) nell’utilizzo dello strumento, ecc. Rimandiamo, pertanto, per questi approfondimenti, alla dottrina che se n’è variamente occupata (44). Ai nostri fini, sembra sufficiente rilevare che, parte di quella dottrina, ha acutamente osservato che, probabilmente, l’aspetto migliore per studiare le agevolazioni fiscali è quello funzionale (45), che attiene «ai fini che le varie agevolazioni fiscali perseguono». Sotto questo profilo è stato osservato che i fini «sono quelli propri della spesa pubblica e dell’intervento dello Stato nell’economia e nella società». Le agevolazioni, in altri termini, rappresentano «sostanziali surrogati di finanziamenti pubblici diretti» (46) i quali appunto possono essere «proficuamente attribuiti piegando la via tributaria a fini extrafiscali» (47). D’altro canto, è stato ancora osservato che il criterio cd funzionale, seppur relativo, sembra essere l’unico che consente di «accomunare veramente le diverse agevolazioni fiscali, consentendone la rappresentazione alla stregua di un genus ampio, cui si riconducono una pluralità di species dalle caratteristiche eterogenee (esenzioni, crediti d’imposta, regimi fiscali sostitutivi, dilazioni di pagamento, ecc.)» (48). È il profilo funzionale, pertanto, che riesce ad individuare una dimensione onnicomprensiva delle agevolazioni fiscali e consente di inquadrarle nel concetto di «spese fiscali». È, dunque, soltanto in questo senso, generalissimo, che ci riferiamo alle

(44) Per qualche riferimento bibliografico si veda M. Basilavecchia, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni fiscali (Diritto tributario) in Enc. Dir., Agg. V, 2002, 48 ss. F. Batistoni Ferrara, Agevolazioni ed esenzioni fiscali, in Diz. Dir. pubbl., I, a cura di Cassese S., 2006, 175 ss.; F. Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992, passim; Id. Agevolazioni fiscali, bilancio delle tax expenditures e politica tributaria: il caso italiano, in Rass. Trib., 2012, 994 ss.; S. La Rosa, Le agevolazioni tributarie, in Scritti scelti, Vol. I, Torino, 2011, p. 243 ss.; A. Guidara, Agevolazioni fiscali, in Diritto on line (2013); F. Moschetti - R. Zennaro, Agevolazioni fiscali, in Dig. comm., I, 1987, p. 63 ss.; A. Pace, Agevolazioni fiscali. Forme di tutela e schemi processuali, Torino, 2012, passim. (45) In tal senso S. La Rosa, Le agevolazioni tributarie cit., loc. cit., A. Guidara, Agevolazioni fiscali cit., 2-3. (46) L’espressione è di S. La Rosa, Le agevolazioni cit., 243. Sul punto si veda altresì F. Fichera, Le agevolazioni cit., 57 ss. (47) Cfr. A. Guidara, Agevolazioni fiscali, in Diritto on line (2013). (48) cfr. La Rosa, op. e loco cit.


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agevolazioni fiscali come strumento che lo Stato può utilizzare per favorire la sussidiarietà orizzontale. Il ragionamento è il seguente. Il termine «favoriscono» – come detto – è assai elastico e certamente una delle possibili applicazioni del favorire sono gli interventi finanziari dello Stato (49); interventi che potrebbero essere diretti, sovvenzionando le associazioni di cittadini attivi, o indiretti, creando delle strutture che rendano più agevole l’iniziativa di quei cittadini (50). In sostanza, una delle forme attraverso le quali lo Stato può favorire le autonome iniziative dei cittadini attivi è senz’altro quella del sussidio finanziario. Come sappiamo, però, le attuali condizioni di salute della finanza pubblica rendono scarsamente fattibile il ricorso all’intervento finanziario dello Stato. Ipotesi alternativa all’intervento, allora, potrebbe essere la previsione di un’agevolazione fiscale, intesa – appunto – nel senso generalissimo di «spesa fiscale». Lo Stato, dunque, non interviene con proprie risorse finanziarie, ma utilizza, indirettamente, risorse finanziarie altrui e consente, al terzo erogatore di tali risorse, di godere di un’agevolazione fiscale (che diventa, così, a tutti gli effetti, una «spesa fiscale»). È ovvio, però – per tutto quanto sopra si è detto – che il destinatario dell’agevolazione non può essere il cittadino che, singolarmente o in forma associata, rende la prestazione di partecipazione attiva. Il destinatario dell’agevolazione, invece, è quel contribuente che decide di impiegare una parte del proprio reddito per sovvenzionare l’attività dei cittadini attivi. In altri termini, chi fruisce dell’agevolazione è colui che destina una somma di denaro al sovvenzionamento delle attività di sussidiarietà orizzontale poste in essere da terzi. Può trattarsi della diretta erogazione di una somma di denaro ad associazioni di cittadini, o dell’utilizzo (indiretto) di quella somma per realizzare strutture di cui i cittadini attivi si avvalgono nell’esercizio della loro attività, ecc. Insomma, è una sussidiarietà nella sussidiarietà, poiché sarebbe compito dello Stato favorire tramite interventi finanziari le autonome iniziative di partecipazione attiva; ma, laddove lo Stato non riesca per carenza di budget, può attribuire un’agevolazione fiscale a quei contribuenti che decidono di surrogarsi allo Stato, o – anche in assenza di qualsiasi surroga – decidono comunque di sovvenzionare con una parte del loro reddito le autonome iniziative di partecipazione attiva di privati cittadini.

(49) In questo senso V. Cerulli Irelli, op. cit., 11. (50) In tal senso, ancora, V. Cerulli Irelli, op. cit., 15.


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L’agevolazione fiscale consisterebbe, poi, nel consentire la deducibilità – integrale o parziale – dal reddito dell’erogante della somma erogata. Si tratterebbe, quindi, di un’agevolazione intesa come deducibilità della spesa. In conclusione, le agevolazioni fiscali sono senz’altro uno strumento che lo Stato può utilizzare per favorire fiscalmente le attività di sussidiarietà orizzontale, a patto, però, che esse non siano fruite dal cittadino attivo che direttamente provvede alla cura e tutela dei beni comuni, ma siano fruite dal cittadino/contribuente che volontariamente decide di sostenere quelle attività con una parte del proprio reddito (garantendo a quest’ultimo la deducibilità, totale o parziale, dal proprio imponibile, della somma erogata). Invero, nel nostro ordinamento esistono già norme che operano secondo questo schema. Si pensi all’art. 100 del D.P.R. n. 917/86, significativamente rubricato «oneri di utilità sociale», che prevede - per esempio - al comma 1, lett. a), la deducibilità, ai fini della determinazione del reddito imponibile IRES, delle erogazioni liberali fatte a favore di persone giuridiche che perseguono esclusivamente finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto; deducibilità che è consentita «per un ammontare complessivamente non superiore al 2 per cento del reddito d’impresa dichiarato». La disposizione, purtroppo, è caotica, essendo strutturata secondo il tipico schema casistico-enunciativo delle norme tributarie, tant’è che prevede ben venti ipotesi diverse di spese deducibili [dalla lettera a) alla lettera o ter)] a favore di enti variamente configurati e per finalità variamente configurate. Tuttavia, tale norma, sebbene non operi alcun riferimento alla sussidiarietà orizzontale, potrebbe essere utilizzata come prototipo, sul quale strutturare una disposizione di carattere generale che preveda la deducibilità, integrale – o, più verosimilmente, parziale – delle somme erogate a favore di associazioni di cittadini attivi che perseguono attività di cura e tutela di beni comuni. Ovviamente, sarebbero necessarie una serie di precauzioni, volte ad evitare gli abusi. Dovrebbe, cioè, trattarsi di associazioni che rientrano in tipologie ben definite, con un assetto statutario ben delineato, con requisiti specifici e che possano concretamente dimostrare l’effettivo perseguimento di finalità tipiche della sussidiarietà orizzontale (51). Ma tali aspetti riguardano considerazioni de jure condendo, che potranno proficuamente farsi soltanto dopo che

(51) A titolo di esempio potrebbero essere previste cautele analoghe a quelle contenute nell’art. 14 del D.L. n. 35/2005, di cui si parlerà a breve nel testo.


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sia stato deciso, a livello politico, di riconoscere la validità e l’utilizzabilità dello strumento in sé. Un altro esempio normativo di utilizzo delle agevolazioni fiscali per supportare attività di utilità sociale è l’art. 14 del D.L. 14 marzo 2005, n. 35 (conv. con modif. nella legge n. 80/2005) (52), il quale – nell’ambito della disciplina del cd. «terzo settore» – prevede la deducibilità (dall’imponibile IRPEF o IRES) delle liberalità, in denaro o in natura, erogate da persone fisiche o da enti soggetti all’IRES, in favore di ONLUS, di associazioni di promozione sociale (iscritte nel registro nazionale previsto dall’articolo 7, della legge n. 383/2000), di fondazioni e associazioni riconosciute aventi per oggetto statutario la tutela, la promozione e la valorizzazione dei beni di interesse artistico, storico e paesaggistico, o – ancora – in favore di fondazioni e associazioni riconosciute che perseguano la promozione di attività di ricerca scientifica (53). Anche in questo caso, la norma non prevede alcun riferimento alle autonome iniziative di cittadini attivi che agiscono con scopi di sussidiarietà orizzontale. Ma ciò che rileva, ai nostri fini, non è la previsione in atto, quanto la possibilità concreta di utilizzare lo strumento dell’agevolazione fiscale per sostenere quelle iniziative, e l’art. 14 in commento dimostra certamente che lo strumento è fattivamente utilizzabile. Ancora una volta, dunque, è solo un problema di volontà politica e non di mancanza degli strumenti giuridici idonei. 8.2. Segue: Oltre il 5 per mille. La teoria del cittadino “padrone dell’imposta”. – Ipotesi diversa, ma pur sempre adattabile allo scopo, è la possibilità, riconosciuta al contribuente, di scegliere di impiegare una parte dell’imposta da lui pagata per scopi specifici. Uno strumento assai noto, in tal senso, è il cd «5 per mille», che consente, mediante un’opzione effettuata in dichiarazione, di destinare questa piccola porzione di imposte ad una serie di enti pubblici, associazioni, fondazioni, ecc. (tutte normativamente identificate e catalogate) che perseguono scopi umanitari, sociali, di assistenza, di ricerca, ecc. In questo caso si è fuori dall’ambito delle agevolazioni fiscali, perché lo Stato non riconosce alcuna riduzione o esenzione d’imposta al contribuente,

(52) Per un ampio riferimento ai rapporti tra la norma citata nel testo e la sussidiarietà orizzontale, si veda M. Bergo, op. cit., 274 ss. (53) La deducibilità, dal reddito complessivo del soggetto erogante, opera nel limite del dieci per cento del reddito complessivo dichiarato, e comunque nella misura massima di 70.000 euro annui.


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ma rinuncia ad una porzione di quell’imposta che, invece di affluire alle casse erariali, è destinata agli enti di cui si è detto. Nonostante lo strumento sia diverso, la finalità costituzionale di favorire la sussidiarietà orizzontale con la leva fiscale può essere ugualmente perseguita. Difatti, è sempre lo Stato che interviene per «favorire» (sussidiarietà positiva) le autonome iniziative dei cittadini attivi, destinando a tali iniziative una parte del proprio gettito. Si tratta, quindi, di un vero e proprio intervento finanziario dello Stato, attuato, non attingendo alle casse erariali, ma dirottando a terzi una parte del gettito diretto a quelle casse. Ebbene, è proprio partendo dalla previsione del 5 per mille che si è ipotizzato di potersi spingere oltre, formulando la teoria del cittadino «padrone dell’imposta», secondo la quale il contribuente dovrebbe essere, almeno in parte, in grado di poter scegliere la destinazione del proprio gettito (54). La sovranità del contribuente, dunque, non si esprimerebbe soltanto attraverso il principio no taxation without representation, e quindi sul versante dell’imposizione, ma anche sul versante della spesa pubblica, sulla destinazione della spesa pubblica. Le conseguenze dell’applicazione di questa teoria alla sussidiarietà orizzontale sono evidenti: il contribuente potrebbe scegliere che una parte dei tributi da lui pagati venga destinata a cittadini che si prendono cura dei beni comuni o, comunque, ad autonome iniziative di rilevanza sociale. L’applicazione estesa di questa teoria potrebbe avere effetti rivoluzionari sulle potenzialità di estensione della sussidiarietà orizzontale (55).

(54) In tal senso M. Cardillo, Il ruolo dei comuni cit., loco cit. (55) Peraltro, la teoria del cittadino «padrone dell’imposta» potrebbe anche rappresentare un correttivo all’attuale stato di crisi del principio della riserva di legge, collegato a quella sorta di cortocircuito democratico, per cui le imposte applicabili in un determinato Stato (quantomeno le imposte sulle attività finanziarie), disciplinate con leggi regolarmente emesse da organi rappresentativi del popolo di quello Stato, non necessariamente vengono pagate da coloro che nello Stato risiedono; oggi, infatti, la ricchezza è liquida e mobile, il contribuente può decidere dove allocare i propri capitali e, quindi, in quale nazione pagare le imposte (sul punto appare imprescindibile ricordare il noto volume di F. Galgano - S. Cassese - G. Tremonti - T. Treu, Nazioni senza ricchezza, ricchezza senza nazione, Bologna, 1993). Egli, pertanto, non necessariamente è soggetto ai tributi che sono democraticamente imposti dallo Stato in cui risiede. Eufemisticamente potremmo dire che è rimasta la representation, ma è venuta meno la taxation. In questa prospettiva, l’idea che il contribuente che, per la tipologia di redditi prodotti, non può dirottare la tassazione verso altri paesi (tipico esempio sono le imposte sui redditi da lavoro dipendente), possa quantomeno riappropriarsi dell’imposta, e stabilire quali siano i servizi che maggiormente necessitano di essere finanziati, consentirebbe di recuperare


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La teoria del cittadino «padrone dell’imposta» è suggestiva, ma, a mio sommesso avviso, va valutata con prudenza. Il cittadino, infatti, è miope. Egli ben conosce le condizioni e le esigenze locali e, dunque, ben potrebbe individuare quei servizi che, a livello territoriale circoscritto, necessitano di maggior finanziamento, ma difficilmente riuscirebbe ad avere una prospettiva generale, estesa alla società come nazione, capace di individuare le esigenze (non locali, ma) della collettività dei consociati. Tale compito spetta, e deve continuare a spettare, allo Stato. La funzione allocativa delle risorse e la funzione redistributiva sono pubbliche non per definizione, ma per necessità. È lo Stato che deve continuare ad essere il padrone dell’imposta, poiché è lo Stato che solo può avere quella prospettiva generale di soddisfacimento dei bisogni della collettività, che è compito della moderna finanza interventista e funzionale. L’assetto pubblicistico della tassazione deve permanere, almeno fintato che si ritiene che le imposte abbiano una fondamentale funzione redistributiva. Insomma, la teoria del cittadino padrone dell’imposta è certamente condivisibile, nella misura in cui, però, si riconosce che la padronanza è limitata (assai limitata) e non sostituisce, ma integra, quella dello Stato. In quest’ottica, localmente circoscritta, la possibilità di consentire al cittadino di scegliere come destinare parte delle proprie imposte è certamente un valido strumento che può consentire di favorire, tramite la leva fiscale, gli scopi della sussidiarietà orizzontale. 9. Conclusioni: è ravvisabile un criterio di legittimazione costituzionale della dimensione fiscale della sussidiarietà orizzontale anche nel campo delle imposte. – Riassumendo i fili sparsi delle precedenti considerazioni, riteniamo di poter dare una risposta al quesito centrale del presente scritto. La sussidiarietà orizzontale ha una dimensione fiscale nel tessuto costituzionale; gode, cioè, di un criterio di legittimazione costituzionale, in ragione del quale i tributi possono essere utilizzati come strumento attraverso il quale lo Stato favorisce la sussidiarietà orizzontale. Segnatamente, anche le imposte, tributi acausali sorretti dal criterio di capacità contributiva, possono essere utilizzate come strumento del favorire. I principi costituzionali che governano l’imposizione non sembrano ostare alla possibilità che lo Stato, le Regioni, ecc., si avvalgano anche delle imposte per

almeno una parte di quella quota di democraticità che è andata persa. Sul punto si veda altresì L. Carpentieri, L’illusione cit., 94 ss.


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favorire «l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». D’altro canto, pur escludendo che gli attori della sussidiarietà orizzontale possano direttamente beneficiare di riduzioni d’imposta, esistono comunque strumenti giuridici che consentono di utilizzare le imposte in modo alternativo. Si possono riconoscere forme di deducibilità variamente articolate a coloro che decidono di sovvenzionare le attività di partecipazione attiva, o si può consentire ai contribuenti di disporre di una parte della loro imposta per finanziare quelle attività. Insomma, la sussidiarietà cd orizzontale può legittimamente essere concepita come una forma diversa ed alternativa di concorso alle spese pubbliche. Occorre, allora, prendere atto che i tempi cambiano, che i rapporti fra il pubblico ed il privato si modificano, che la coscienza del partecipare alla cosa pubblica si evolve ed assume nuove forme di manifestazione. Gli strumenti giuridici, anche quelli fiscali, come sempre, dovrebbero adeguarsi ai mutati assetti sociali. Spetta, allora, alla volontà politica del legislatore prendere atto che la partecipazione attiva dei cittadini può essere una nuova, moderna, ed alternativa forma di concorso alle spese pubbliche

Antonio Perrone



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La dimensione multilivello delle sanzioni tributarie e le diverse declinazioni del principio di offensività-proporzione Sommario: 1. Introduzione. – 2. L’ampio spettro del principio di offensività-proporzione: dalla tradizionale funzione di garanzia alle mutate esigenze di tutela. – 3. La poliedricità degli interessi tutelati dal diritto tributario punitivo: dal generico interesse alla riscossione all’equilibrio di bilancio. – 4. Effettività della sanzione, fallimento della deterrenza e logica utilitaristica della prevenzione. – 5. segue: alcuni casi paradigmatici. – 6. La funzione ermeneutica del principio di offensività-proporzione e l’impatto sul diritto tributario punitivo. – 7. segue: evoluzione normativa e casistica. – 8. Note conclusive.

1. Introduzione. – Il diritto punitivo costituisce una delle ultime roccaforti dell’autonomia degli Stati i quali sono, notoriamente, restii alla intrusione delle istituzioni sovranazionali in tale delicato settore (1). Le ragioni non sono, esclusivamente, di carattere giuridico ma di tipo ideologico e politico: infatti, a prescindere dalle limitate competenze dell’Unione e del diritto internazionale in materia sanzionatoria (2), i singoli ordinamen-

(1) Non è questa la sede per soffermarsi su tali questioni, di ampio respiro teorico, sulle quali sono stati spesi “fiumi di inchostro”. Solamente per citare alcune autorevoli pubblicazioni recenti cfr. D. Pulitanò, Sulla pena. Fra teoria, principi e politica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, I, 559; S. Bartoli, Il diritto penale tra vendetta e riparazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, I, 96; M. Donini, Scienza penale e potere politico, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, 95. Per ampie considerazioni sistematiche con specifico riferimento ai reati tributari vd., A. Di Pietro, Diritto penale tributario: profili comparati, in Rass. Trib., 2015, 333. (2) Sul punto, con particolare riferimento alla politica penale dell’Unione, vd. da ultimo, S. Vinciguerra, La proposta di Direttiva Ue contro i reati di frode che ledono gli interessi finanziari, in Dir. prat. Trib. int., 2016, 1074, nonché, tra gli altri, D. Rinoldi, Principi di politica legislativa penale europea e tutela degli interessi finanziari dell’Unione da condotte di frode, in Comm. Int., 2013, 1049.


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ti si ritengono liberi di criminalizzare/decriminalizzare le diverse condotte contra legem secondo un proprio autonomo apprezzamento ed in base alle esigenze di tutela/contrasto che vanno emergendo in un determinato contesto storico (3). Tuttavia, i valori europei ed internazionali ormai influenzano, sensibilmente, anche un ambito tradizionalmente di matrice interna, quale l’individuazione dei beni giuridici tutelati (e da tutelare) (4), nonché le modalità di tutela dei medesimi (vd. infra § III - IV) (5). Sulla scia della giurisprudenza della Corte di Giustizia e di quella Europea dei Diritti dell’Uomo si sono, infatti, affermati taluni principi comuni che rappresentano un fondamentale “banco di prova” per la tenuta del diritto punitivo dei singoli ordinamenti (6). Tali principi – primo fra tutti quello di proporzionalità – costituiscono una diversa “faccia della stessa medaglia” di categorie tipicamente di matrice domestica, come quella della offensività (vd. infra § II - III). È, al tempo stesso, un problema comune alla maggior parte dei paesi europei (7) ed extraeuropei (8), il fenomeno dell’eccessivo (o meglio, “spro-

(3) Lo stesso concetto di “sicurezza sociale”, inteso in senso ampio, influenza, sensibilmente, le diverse politiche criminali. Sul punto vd., per tutti, Aa. Vv., Sicurezza e diritto penale, a cura di M. Donini - M. Pavarini, Bologna, 2011. (4) Interessanti ed acute considerazioni sistematiche in L. Foffani, Politica criminale europea e sistema finanziario: l’esempio degli abusi di mercato, in Penale Contemporaneo, 2014, n. 3-4, 65. Per una ricognizione sulla sovranità nazionale in ambito tributario vd., da ultimo, F. Pitrone, Forma e sostanza della sovranità tributaria. Gli effetti del progetto BEPS e del coordinamento fiscale nell’UE, in Aa.Vv., L’evasione e l’elusione fiscale internazionale, a cura di F. Amatucci, R. Cordeiro Guerra, Roma, 2017, 329. (5) I principi sovranazionali arrivano ad influenzare anche il processo penale. Sul punto vd., per tutti, M. Caianiello, Il principio di proporzionalità nel procedimento penale, in Penale Contemporaneo, 2014, n. 3-4, 144 al quale si rinvia anche per l’ampio apparato bibliografico. (6) Per un’ampia disamina della giurisprudenza CEDU cfr., da ultimo, S. Cociani, Sul divieto di cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative in materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2015, I, 405; F. Pepe, Sistema sanzionatorio tributario e ne bis in idem CEDU: la dimensione antropologica di un (irriducibile?) conflitto, in Riv. Dir. Trib., 2015, I, 490; G. Marino, Le sanzioni tributarie nella giurisprudenza della CEDU, in Riv. Dir. trib. int., 2014, Vol. 3, 19. (7) Su tali profili vd., diffusamente, Aa.Vv., Surcharges and Penalties in Tax Law, a cura di R. Seer - A. L. Wilms, Amsterdam, 2016. Con particolare riferimento alla specifica problematica dell’eccessivo carico sanzionatorio ed ai rimedi esperibili sia concesso rinviare al contributo in tale volume di L. Del Federico - F. Montanari, Decriminalization of tax law by administrative penalties on tax duties. Per una panoramica europea vd., altresì, R. Seer, Surcharges and Penalties in Tax Law (in an European Overview), in Riv. Dir. trib. int., 2014, Vol 2, 17. Per una interessante ricostruzione su come i principi europei “entrano” nelle decisioni nazionali vd., da ultimo, G. Alpa, Comparazione e diritto straniero nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in Contratto e Impresa, 2016, 879. (8) Oltre al report di S. Mazza, L. Lederman, S. Johnson, United States nel citato


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porzionato”) carico punitivo, anche con riferimento alla sovrapposizione di sanzioni apparentemente diverse tra loro ma, quanto alla funzione ed agli effetti, della medesima natura. Come è noto, infatti, in ragione di un sostanziale ampliamento della nozione di materia penale (9) si sta delineando, quanto meno in chiave funzionale, una equiparazione tra le sanzioni penali e quelle amministrative caratterizzate dalla afflittività e dalla deterrenza (10). Tanto più che appare ormai maturo il tempo per parlare di principi del diritto tributario punitivo (11) ove ricondurvi tutte le diverse categorie di sanzioni rientranti nello schema concettuale coniato dalla CEDU (12) in quanto “strumenti di reazione alla violazione del precetto, caratterizzati da un apprezzabile grado di afflittività” (13). In generale, dunque, dovrebbero essere ricomprese nel pe-

volume Surcharges and Penalties in Tax Law, si rinvia, da ultimo, all’approfondito ed esaustivo contributo di A. Garcia - S. Rittler - J. Schindler - E. Woods, Tax Violations, in American Criminal Law Review, 2016, Vol. 53, 1825. (9) Per un’ampia disamina del concetto di materia penale, vista dalla prospettiva del penalista cfr., da ultimo, F. Mazzacuva, La materia penale e il doppio binario della Corte Europea: le garanzie al di là delle apparenze, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 1899. (10) Si parla, comunemente, di “identità teleologica” e di “omogeneità funzionale” delle sanzioni amministrative rispetto a quelle penali. Vd., in particolare, da ultimo, R. Miceli, voce Sanzioni Amministrative tributarie in Diritto On-line, Treccani, 2014. (11) Parlava già di diritto punitivo tributario in senso lato L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993,128. (12) Per il ruolo della CEDU vd., per tutti, F. Gallo, La concorrenza fra il diritto nazionale e il diritto europeo (Ue e Cedu) nella giurisprudenza costituzionale italiana, in Giur. Comm, 2015, 255; Aa.Vv., Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e giustizia tributaria italiana, a cura di F. Bilancia, C. Califano, L. Del Federico, P. Puoti, Torino, 2014; F. Tesauro, Cedu e diritto tributario in Aa.Vv., Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, a cura di Leanza, Tizzano, Vassalli, Napoli, 2014, 679. Da ultimo, e con esclusivo riferimento ai profili sanzionatori, vd. F. Amatucci, II sistema delle sanzioni amministrative tributarie secondo il diritto Ue e il diritto internazionale, in Aa.Vv., Trattato di Diritto sanzionatorio tributario - Diritto sanzionatorio amministrativo, a cura di A. Giovannini, E. Di Martino, A. Marzaduri, Milano, 2016, Tomo II, 1293 e, nel medesimo volume, A. Giovannini, Il principio del ne bis in idem sostanziale, 1265. (13) L. Del Federico, Le sanzioni atipiche: esperienza italiana e quadro europeo, in Riv. dir. trib., 2014, 63. Su tali aspetti e sulle diverse categorie vd., ancora, del medesimo autore, Sanzioni proprie e sanzioni improprie in Aa.Vv., Trattato di Diritto sanzionatorio tributario - Diritto sanzionatorio amministrativo, op. cit., 1317; Id., Le sanzioni improprie nel diritto tributario, in Riv. dir. Trib., 2014, I, 693. Per interessanti considerazioni circa il rapporto tra le sanzioni amministrative non pecuniarie e i principi CEDU vd., da ultimo, M. Sandulli A. Leoni, Sanzioni non pecuniarie della p.a., in Treccani – Il libro dell’anno del diritto 2015, Roma, 2015, 201 nonché F. Goisis, Verso una nuova nozione di sanzione amministrativa in senso stretto: il contributo della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, in Riv. it. Dir. Pubb. Com., 2014, 337.


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rimetro della “materia penale” tutte quelle sanzioni che non sono meramente simboliche (il caso tipico è quello delle pene pecuniarie determinate in misura fissa e di modesto importo (14)), ma che sono caratterizzate da un “enorme impatto ed entità economica, tali da compromettere la vita delle persone” (15). D’altro canto, appare tutt’altro che scontato che la previsione di una pena detentiva – in astratto, la sanzione più grave ed invasiva se applicata con rigore – abbia, in concreto (16), un grado di afflittività (17) e deterrenza superiore rispetto ad elevate pene pecuniarie che possono, per esempio, eliminare un soggetto dal mercato (18). L’esperienza pratico-applicativa, infatti, insegna che è molto più certa – per usare un parametro (quello della certezza) caro già al C. Beccaria (19) – l’esecuzione di una sanzione pecuniaria rispetto ad una detentiva (20). In altri termini, una volta identificata la natura afflittiva e deterrente di una determinata sanzione (21), è giocoforza concludere nel senso che i valori (e

(14) Sulle diverse forme di decriminalizzazione e sul fatto che la previsione di sanzioni fisse di poche centinaia di euro sia, essa stessa, espressione di tale fenomeno vd. L. Del Federico - F. Montanari, Decriminalization of tax law by administrative penalties on tax duties, op. cit., 108 ss. (15) Le espressioni tra le virgolette sono di M. Donini, Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, in Diritto Penale Contemporaneo, n. 4/2013, 29 il quale (pag. 31) parla di “distinzione formale” tra “penale e amministrativo”. Tale contributo è oggi edito anche in Aa.Vv. I principi fondamentali del diritto penale tra tradizioni nazionali e prospettive sovranazionali, a cura di A.M. Stile - S. Manacorda - S. Mongillo, Napoli 2015. (16) Osserva P. Corso, Comminare sanzioni diverse per il medesimo illecito tributario non è in contrasto con la Carta dell’Unione Europea, in Riv. giur. trib., 2013, 473, che la scelta di punire con sanzioni amministrative condotte già punite con quelle penali, nasce dal fatto che il legislatore ritiene le sanzioni penali “non sufficienti per un’adeguata attività di contrasto”. (17) Sulla concezione punitiva dell’illecito tributario – anche per ampi rilievi critici all’attuale sistema – vd., da ultimo, D. Coppa, Questioni attuali in tema di sanzioni amministrative, in Rass. Trib., 2016, 1023. (18) Analogamente F. Pepe, Sistema sanzionatorio tributario e ne bis in idem CEDU: la dimensione antropologica di un (irriducibile?) conflitto, op. cit., e la dottrina citata alla nota n. 88. (19) C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1764, a cura di Fabietti, Milano, 1973, 66. Sulla attualità del pensiero di C. Beccaria vd., da ultimo, M. Ruotolo, Rileggendo C. Beccaria, oggi. Brevi riflessioni sui limiti del potere punitivo, in Dir. Pubb., 2014, 669 nonché, con espresso riferimento alle sanzioni tributarie, L. Meoli – P. Sorbello, Il rischio della sanzione e il comportamento del contribuente. Riflessioni sull’analisi economica del diritto, in Riv. Dir. Trib. Int., 2014, 197. (20) Sul fatto che la deterrenza derivi, in larga misura, dalla certezza nella applicazione della pena vd. A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 162. (21) Per ampie considerazioni vd. anche A. Giovannini, Il principio del ne bis in idem sostanziale, in Aa.Vv, Trattato di Diritto sanzionatorio tributario - Diritto sanzionatorio


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gli obiettivi) che, anche a livello costituzionale ed europeo (22), si sono affermanti in materia penale, devono avere piena valenza in tutta l’area dell’illecito tributario (23). Seguendo tale percorso logico, i principi di offensività e proporzione non possono essere considerati, esclusivamente, quali parametri di garanzia e di tutela: questi ultimi, infatti, costituiscono strumenti propulsivi per la promozione di standard minimi di protezione di interessi primari nazionali e sovranazionali, anche in una logica utilitaristica-preventiva. È, quindi, sulle modalità di tutela che si “gioca” la partita più rilevante e delicata una volta assodato un sostanziale fallimento dell’attuale modello sanzionatorio fondato sulla deterrenza, quanto meno sul piano degli effetti (vd. infra § IV). È, dunque, imprescindibile trasporre nel settore del diritto sanzionatorio tributario l’apparato concettuale che si è formato in seno al diritto penale comune (24) il quale, anche sul versante applicativo, sembra muoversi di pari passo proprio con i traguardi raggiunti dalla normativa tributaria (quest’ultima per molti versi antesignana anche rispetto ad alcune recenti e fondamentali riforme del codice penale) (vd. infra § VI).

amministrativo, op. cit., Tomo I, 1270 ss. Per una compiuta ricostruzione delle diverse categorie di sanzioni vd. anche, da ultimo, nel medesimo trattato S. Buttus, Le sanzioni pecuniarie e le sanzioni accessorie, Tomo II, 1347 ss. Su tali tematiche e sulla necessità di adottare un approccio sostanzialista circa la natura della sanzione vd. l’approfondito contributo di S. Dorigo, Il rapporto tra sanzione tributaria e sanzione penale secondo la Corte di Giustizia e i possibili effetti sull’ordinamento italiano, in Riv. dir. trib., 2013, IV, 203. (22) Sul punto la bibliografia è ormai sterminata. Quindi, per ampie considerazioni – e per l’esaustiva bibliografia citata –vd., da ultimo, S. Manacorda, voce Diritto Penale Europeo, in Treccani – Diritto On Line, 2014. (23) Osserva, infatti, la dottrina più autorevole che, a differenza delle fattispecie incriminatrici, che necessitano interventi dei singoli legislatori nazionali, le norme ed i principi europei, “entrano direttamente in tutto il sistema giuridico, senza mediazione del diritto nazionale”. M. Donini, Critica dell’antigiuridicità e collaudo processuale delle categorie. I bilanciamenti di interessi dentro e oltre la giustificazione del reato, in Riv. it. dir. e proc. penale, 2016, 560. Per interessanti considerazioni circa la circolarità dei modelli in ambito squisitamente penale vd. anche V. Manes, I principi penalistici nel network multilivello: trapianto, palingenesi, cross-fertilization, in Riv. it. dir. e proc. penale, 2012, 839, il quale parla, efficacemente, di “movimenti tellurici” nei principi del diritto penale. Sulla tematica della interpretazione in chiave europea cfr., da ultimo, l’autorevole saggio di F.C. Palazzo, Interpretazione penalistica e armonizzazione europea, in Arsiterpretandi, 2016, 77. (24) Per una panoramica dell’impatto dei principi penalistici sul sistema sanzionatorio tributario vd., da ultimo, s. Vinciguerra, Considerazioni sui principi generali di diritto sostanziale delle infrazioni amministrative tributarie, in Atti del convegno Per un nuovo ordinamento tributario, Genova, 14-15 ottobre 2016, vol. II, 939.


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La chiave di lettura fondamentale, in conclusione, deve essere l’individuazione degli interessi a protezione dei quali è prevista una determinata sanzione, in ragione di esigenze sempre nuove e poliformi, sia sul piano assiologico, sia applicativo. In tale prospettiva è assolutamente centrale il principio di offensività-proporzione in base al quale è possibile, da un lato, verificare se una determinata sanzione trovi una idonea giustificazione già sul piano della selezione degli interessi tutelati, delle modalità di tutela e della efficacia della misura e, dall’altro, interpretare ed applicare nel modo corretto la normativa esistente evitando pericolose derive nella direzione di quelli che potremmo definire automatismi applicativi delle sanzioni, oggi non più tollerabili (vd. infra § V). 2. L’ampio spettro del principio di offensività-proporzione: dalla tradizionale funzione di garanzia alle mutate esigenze di tutela. – Il principio di offensività, come è noto, costituisce uno dei “centri nevralgici” del diritto punitivo e, per un’ampia corrente di pensiero, la stella polare della penalistica moderna. Pur non essendo compito degli studiosi di diritto tributario inserirsi nel poderoso e sempre vivace dibattito teorico (25), occorre partire dal presupposto che l’apparato concettuale del diritto penale comune è entrato, de plano, nel campo dell’illecito tributario, seppur con delle peculiarità (26), e forse non del tutto consapevolmente: è innegabile, infatti, che sia stata ormai superata, per via legislativa e giurisprudenziale (27), la dottrina penalistica che escludeva la rilevanza del principio di offensività in materia di illeciti amministrativi (28) (il quale, quindi, seppur evocato,

(25) Sul quale, oltre alla bibliografia che si citerà in seguito con riferimento a specifici aspetti, vd., per tutti, M. Donini, L’eredità di Bricola e il costituzionalismo penale come metodo. Radici nazionali e sviluppi sovranazionali, in Dir. pen. cont. riv. trim., 2012, n. 2; V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005 e la bibliografia citata dagli autori. (26) Sul punto cfr. L. Del Federico, Violazioni e sanzioni in materia tributaria, in Enc. Giur. Treccani, Aggiornamento IX, 2001, Roma, 1 il quale parla di “concezione punitiva” con “adattamenti specialistici”. (27) È, infatti, interessante rilevare che è la stessa Corte di Cassazione a richiamare il principio di offensività come elemento che differenzia le violazioni meramente formali (non punibili) da quelle formali (punibili). Vd. Cass. civ., sez. V, 13 aprile 2013, n. 8044; Cass. civ., sez., V, 25 giugno 2014, n. 14401. (28) Sul punto vd. L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010, in particolare la dottrina citata alle note 262 e 266, pag. 298 nonché, da ultimo, G. Melis, Gli interessi tutelati, op. cit. Per i dubbi circa la diretta applicabilità di tale


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rimaneva in una posizione assolutamente defilata e marginale (29)) (vd. infra § VI). Al tempo stesso, negli ultimi anni si è affermato, con una inarrestabile forza di espansione e trasversalità a diversi settori, il principio di proporzionalità/ proporzione (30) (anch’esso ben noto, da sempre, al diritto penale) (31). La dottrina penalistica, infatti, ha sovente enfatizzato (seppure in diverse e variegate prospettive) i legami tra offensività e proporzione, esprimendosi anche in termini di principio di offensività-proporzione (binomio che si utilizzerà anche nel corso del presente lavoro) (32). Tale terminologia è ben rappresentativa, quanto meno in termini descrittivi, del fatto che la proporzionalità, considerata isolatamente, risulta un principio “monco” in quanto “da solo non basta a radicare un controllo sul disvalore delle norme, apparendo, di per sé, come un mero schema di giudizio i cui contenuti vanno ricercati altrove” (33): d’altro canto, il concetto di proporzio-

principio vd. anche l’interessante (anche se ormai datato) contributo di G. Porcaro, Decadenza dal diritto al credito d’imposta per omessa dichiarazione del dividendo e principio di offensività nel sistema sanzionatorio tributario non penale, in Rass. Trib., 1999, 1194. (29) Sul punto vd., anche, R. Cordeiro Guerra, Illecito tributario e sanzioni amministrative, Milano, 1996, 102. (30) Per una ricostruzione sistematica di tale principio, anche in chiave costituzionale, e senza alcuna pretesa di completezza, vd., in particolare, L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, op. cit., 80 ss; R. Lupi, Prime osservazioni sul nuovo sistema delle sanzioni amministrative tributarie, in Rass. Trib., 1998, 328; L. Cinquemani, L’attività sanzionatoria dell’Amministrazione finanziaria, Milano, 2008, 218 ss.; A. Mondini, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’Iva europea, Pisa, 2012, 11 ss; A. Bodrito, Note in tema di proporzionalità e Statuto del contribuente, in Aa.V.v., Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente. Studi in onore del prof. Gianni Marongiu, a cura di A. Bodrito, A. Contrino, A. Marcheselli), Torino, 2012, 278; A. Salvati, Principio di proporzionalità e sanzioni da ritardo nell’adempimento dell’obbligazione tributaria, in Rass. Trib., 2013, 572; S. Dorigo, Il rapporto tra sanzione tributaria e sanzione penale secondo la Corte di Giustizia e i possibili effetti sull’ordinamento italiano, in Riv. dir. tirb., 2013, IV, 216 e ss; A. Giovanardi, Le frodi iva. Profili ricostruttivi, Torino, 2013, 60; F. Amatucci, Sanzioni tributarie e proporzionalità in Riv. dir. trib. in., 2014, 7. Quanto alla dottrina europea vd., per tutti, J. Dácio Rolim, Proportionality and fair taxation, Amsterdam, 2014. (31) Per un’ampia ed articolata disamina – anche in chiave storica – vd., da ultimo, l’ampio saggio di A. Merlo, Considerazioni sul principio di proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale in materia penale, in Riv. it. Dir. proc. Pen., 2016, I, 1427. (32) Interessanti spunti circa il rapporto tra i due principi nell’ambito specifico dei reati tributari in A. Perrone, La nuova disciplina dei reati tributari: “luci” e “ombre” di una disciplina appena varata, in Riv. dir. trib., 2015, I, 61. Taluni riferimenti in L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, op. cit., 159-160. (33) A. Molinarolli, Una possibile dimensione europea del principio di offensività. Un’analisi integrata dei principi, in Diritto Penale contemporaneo, 2016, 8.


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nalità, già sul piano semantico, oltre ad essere un concetto indeterminato (34) implica un giudizio di relazione tra diverse grandezze e, quindi, una ponderazione tra interessi e valori potenzialmente in contrasto tra loro. È evidente che occorre selezionare e contestualizzare tali “grandezze” per poterne comprendere, a fondo, l’utilità e la rilevanza, anche sul piano pratico applicativo. Lo strumento individuato dalla dottrina penalistica, a volte implicitamente, per raggiungere tale risultato, pare proprio l’offensività la quale si pone “a monte” rispetto alla proporzionalità stessa. In tale contesto, costituisce opinione largamente diffusa, da un lato, che non esistano espressi principi europei (o, comunque, sovranazionali) pienamente corrispondenti a quello di offensività di matrice domestica e, dall’altro, che non vi sia, come già intuibile, una immediata sovrapponibilità tra offensività e proporzione (35). In particolare, quest’ultima viene sovente valorizzata come “corollario” della offensività, con raffinate e complesse sfumature teoriche, in larga misura superflue rispetto all’economia del presente lavoro. Sul piano domestico, il principio di offensività è indirizzato, in chiave prevalentemente (per non dire, esclusivamente) garantistica, a delimitare i beni penalmente tutelabili e, dunque, a selezionare interessi (nella comune prospettiva ed accezione della sanzione penale come extrema ratio (36)). In altri termini, esso costituisce un limite all’attività del legislatore e, conseguentemente, un criterio di sindacabilità delle politiche criminali (e, quindi, delle cosiddette opzioni legislative (37)).

(34) La proporzionalità, inoltre, è legata a doppio filo con i principi di uguaglianza e ragionevolezza. Ampi riferimenti ai diversi angoli di visuale dai quali si può analizzare il principio in A. Mondini, Il principio di proporzionalità, op. cit., 11 ss., nonché a pag. 65; L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, op. cit., 285. (35) Sul punto, anche con ampi richiami alla dottrina straniera e per uno straordinario apparato bibliografico vd., per tutti, M. Donini, Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, op. cit., 4 e ss. il quale afferma che “l’offensività ha una dimensione assiologica che manca alla proporzione, la quale è del tutto relativa e utilitaristica”. Sulla evoluzione della proporzionalità in chiave europea vd. C. Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, in Diritto Penale Contemporaneo, n. 1/2012, 110. Per ampi riferimenti ai rapporti tra offensività e proporzionalità vd. V. Manes, Il principio di offensività, op. cit., 264. (36) Sul tale tematica la bibliogafia è, ovviamente, sterminata. Per una completa ricorstruzione vd., in particolare, l’analisi – anche in chiave storico-ricostruttiva – di G. Demuro, Ultima ratio: alla ricerca di limiti all’espansione del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 1654. (37) L’efficace espressione è di V. Manes, Ragionevolezza delle norme penali, in Treccani - Il libro dell’anno del diritto, Roma, 2012.


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Il principio di proporzionalità, invece, come già accennato, presuppone l’offensività (cioè la preliminare selezione del bene/interesse tutelato o che l’ordinamento dovrebbe tutelare efficacemente) ed è utilizzato per sindacare l’adeguatezza del mezzo impiegato rispetto allo scopo perseguito (38) (non, quindi, necessariamente ed esclusivamente, in chiave garantistica). Da tale prospettiva, pur essendo attribuita al principio di proporzionalità, anche in ambito tributario, una funzione in larga misura limitativa (39) e “delegittimante l’intervento punitivo” (40), il medesimo impone un vaglio sulla idoneità dello strumento sanzionatorio rispetto al fine (41): ciò traspare, chiaramente, dalla stessa monolitica giurisprudenza della Corte di Giustizia proprio in materia tributaria la quale attribuisce alle sanzioni la finalità di garantire l’esatta riscossione dell’imposta, l’adempimento degli obblighi formali e di evitare, preventivamente, l’evasione. Dunque, se l’apparato sanzionatorio non è “idoneo” (per citare, testualmente, il metro di giudizio utilizzato comunemente dai Giudici del Lussemburgo) per far fronte a tali obiettivi, lo stesso non può essere considerato “proporzionato”: ciò non significa, come appare evidente, che in base a detto principio si renda necessaria, sempre e comunque, un’attenuazione del carico punitivo o un ampliamento delle garanzie del reo ma solamente che l’apparato sanzionatorio deve essere rimodulato e parametrato – più che in termini quantitativi (42), qualitativi – rispetto agli interessi da tutelare. Si passa, dunque, da una logica prevalentemente garantistica dell’illeci-

(38) Sul punto vd. l’approfondita indagine, in chiave penalistica, di C. Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, in Diritto penale contemporaneo, 2012, 111. (39) Su tali profili, vd. testualmente, da ultimo, F. Amatucci, Sanzioni tributarie e proporzionalità, op. cit., 9 e ss.gg.; G. Ingrao, Appunti sulla applicazione del principio di proporzionalità per la revisione delle sanzioni amministrative tributarie, in Riv. dir. trib., 2014, I, 971. (40) A. Merlo, op. cit., 1440 al quale si rinvia per l’ampia letteratura a riguardo. (41) Valorizzano in particolar modo e condivisibilmente il profilo funzionale del principio A. Salvati, Principio di proporzionalità e sanzioni da ritardo nell’adempimento dell’obbligazione tributaria, op. cit., 572 e ss.gg.; F. Aquilanti, Le sanzioni amministrative per le violazioni della disciplina Iva al vaglio europeo di proporzionalità, in Rass. Trib., 2014, 645. (42) Peraltro, anche nella letteratura economica non vi sono risultanze empiriche dalle quali emerga, chiaramente, che la rimodulazione meramente quantitativa (poco importa se in aumento o in diminuzione) delle sanzioni produce effetti virtuosi sui comportamenti. Sul punto cfr. J. Slemrod, Tax compliance and enforcement: an overview of new research and its policy implication, in Aa.V.v., The economics of tax policy, a cura di J. Auerbach, K.Smetters, Oxford, 2017, 81 e la bibliografia specifica su tale profilo.


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to, ad una marcatamente efficientistica che pare ormai caratterizzare tutto il diritto penale comune (e della quale non può che risentirne, a cascata, quello tributario) (43). Parte della dottrina penalistica (44), nell’ambito di tale scenario, ritiene che, sul piano europeo, lo stesso principio di offensività acquisisca una diversa valenza rispetto a quella tradizionale e che sia espressione di una esigenza di punire per garantire la protezione effettiva di “interessi ritenuti degni di tutela da parte della comunità internazionale” (45), quali quelli finanziari che trovano espressa menzione nei Trattati. D’altro canto, come è noto, l’art. 325 del Trattato Ue, da un lato, prevede, espressamente, tale obbligo di contrasto e, dall’altro, che “gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari”. Dunque, anche a livello di fonti primarie dell’Unione, è imposta una convergenza tra obiettivi (e strumenti) a tutela degli interessi sovranazionali e di quelli domestici. In buona sostanza, e per tirare le fila del discorso, in base al principio di offensività-proporzione, occorre preliminarmente condurre un vaglio di meritevolezza sulla tutela del bene interessato e, solamente in seguito, porre in essere “una valutazione improntata a parametri di efficienza per quel che concerne la presenza di strumenti alternativi ugualmente idonei ed efficaci” (46) (corollario della necessarietà). Anche nel diritto tributario punitivo, il primo “step” per comprendere la portata di tali principi è identificare quali interessi sono sottesi alla scelta di sanzionare o meno un determinato comportamento e – fermo

(43) Sul punto anche S. Moccia, Funzione della pena ed implicazioni sistematiche: tra fonti europee e costituzione italiana, in Dir. pen. e processo, 2012, 921. (44) Il tema è estremamente delicato, dibattuto e controverso e non si ha, certamente, la pretesa di affrontarlo in tale sede, se non partendo dalle “conclusioni” della dottrina e per tratti essenziali. Sul punto vd., anche per l’ampia bibliografia citata, M. Donini, Il principio di offensività, op. cit., alla nota n. 89. (45) Testualmente S. Manacorda, Dovere di punire? Gli obblighi di tutela penale nell’era della internazionalizzazione del diritto, in Riv. it. Dir. e proc. Pen., 2012, 1364. Osserva G. Stea, L’offensività europea come criterio di proporzione dell’opzione penale, in Arch. Penale, 2013, 18 che “rispetto all’impostazione bricoliana per cui i diritti e libertà fondamentali sono il catalogo necessario dei beni meritevoli di tutela penale, la lettura europea dell’offensività-proporzione va ben oltre, in quanto, in chiave retribuzionistica, individua dei veri e propri doveri di tutela penale di determinati interessi…nell’ottica europea, l’offensività diventa anche obbligo di tutela penale della vittima, nel senso che la lesione o messa in pericolo di un bene fondamentale impone la sanzione punitiva per il reo, nell’interesse della collettività e della vittima”. (46) A. Molinarolli, op. cit., 9.


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restando il criterio della extrema ratio nella previsione della tutela penale – se la scelta del legislatore appare proporzionale (rectius, adeguata) rispetto alla finalità perseguita (c.d. equilibrio sanzionatorio della fattispecie) (47). 3. La poliedricità degli interessi tutelati dal diritto tributario punitivo: dal generico interesse alla riscossione all’equilibrio di bilancio. – Il punto centrale della questione, come accennato in premessa, è enucleare gli interessi tutelati e da tutelare in quanto “l’offensività senza il bene giuridico è inconcepibile già lessicalmente” (48) ed “esprime l’essenza di un reato sul piano generale degli interessi lesi e protetti” (49). La difficoltà consiste nel fatto che, analogamente a quanto avviene in ambito penale – ove il problema è esponenziale (50) – a fronte di talune “macro categorie” di interessi pressoché intuitivi da individuare, sono annoverabili una serie di beni apparentemente secondari, in continua espansione e spesso a vocazione europea (51) ed internazionale, di non sempre immediata collocazione (52). L’utilità dell’impianto teorico penalistico in ambito tributario punitivo appare evidente in quanto l’offensività-proporzione consente di verificare, a monte, la tenuta delle diverse opzioni sanzionatorie costituendo, da un lato, un fondamentale metro di giudizio e, dall’altro, un altrettanto rilevante strumento

(47) Per ampie considerazioni vd. ancora V. Manes, Principio di proporzionalità. Scelte sanzionatorie e sindacato di legittimità, op. cit. (48) M. Donini, Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, op. cit., 8. (49) M. Donini, Critica dell’antigiuridicità e collaudo processuale delle categorie. I bilanciamenti di interessi dentro e oltre la giustificazione del reato, op. cit, 560. La stessa CEDU, peraltro, per identificare la materia penale, ritiene che si debba “avere riguardo al tipo di interesse tutelato. La circostanza infatti che la norma che la prevede sia posta a tutela di interessi di carattere generale della società e non di interessi particolari di determinate categorie è sicuro indice della natura penale della stessa”. Testualmente G. Marino, Sanzione tributaria e giurisprudenza CEDU, op. cit., 32. (50) Parla di beni giuridici “vaghi”, V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale, op. cit., 74 ss. (51) Sotto tale profilo, dal punto di vista penalistico, vd. L. Foffani, Verso un’armonizzazione europea del diritto penale dell’economia: la genesi di nuovi beni giuridici economici di rango comunitario, il ravvicinamento dei precetti e delle sanzioni, in Aa.V.v., L’evoluzione del diritto penale nei settori d’interesse europeo alla luce del trattato di Lisbona, a cura di G. Grasso, L. Picotti, M. Sicurella, Milano, 2011, 583. (52) Per le problematiche tradizionali vd. ampi riferimenti in L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, op. cit., 129 ss.


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propulsivo. Nel settore delle sanzioni amministrative, la valutazione di conformità della pena al principio di offensività-proporzione avviene, tradizionalmente, in una duplice prospettiva che si potrebbe definire oggettiva (cioè, connessa al “quantum” della sanzione irrogabile parametrata al tributo effettivamente evaso o al “livello di intralcio” all’azione impositiva) e soggettiva (cioè, parametrata ai diversi gradi di disvalore della condotta) (53), nella logica originaria – e, certamente, tutt’ora centrale – del bilanciamento tra tutela e rigore punitivo. Resta, invece, spesso estranea al giudizio di offensività – proporzione l’efficacia della misura e l’effettività della stessa (vd. infra § V). In altri termini, la deterrenza e l’effetto utile vengono costantemente evocati ma, sul piano concreto ed empirico (54), poco indagati, rimanendo sempre sullo sfondo più come fini ideali di giustizia (55), che come effettivi parametri di valutazione delle opzioni legislative (56). Tali aspetti sono assolutamente centrali in quanto si sta delineando un sistema sanzionatorio multilivello nell’ambito del quale la stessa tradizionale bipartizione dell’interesse fiscale in sostanziale (interesse alla riscossione) e procedimentale (relativo alla fase attuativa), diviene evanescente (57) o, comunque, da contestualizzare rispetto al nuovo assetto costituzionale ed europeo (58).

(53) In argomento, G. Ingrao, Appunti sulla applicazione del principio di proporzionalità, op. cit. 973 ss. (54) Su tali aspetti – con particolare riferimento alla effettività della pena criminale misurabile empiricamente – vd., da ultimo, l’interessante (ed autorevole) contributo di A. Pagliaro, Funzioni della pena criminale, in Cass. penale, 2016, 1846 e l’ampia letteratura americana citata dall’autore. (55) Non può che condividersi la conclusione secondo cui “la predisposizione da parte dell’ordinamento di sanzioni a fronte del compimento di un illecito da parte di un soggetto non ha per scopo la realizzazione di un ideale di giustizia ultraterrena o astratta, bensì un fine concreto e socialmente utile, ovverosia la protezione di interessi e beni giuridici, dalla cui salvaguardia dipende la garanzia di una pacifica convivenza”. G. Melis, Gli interessi tutelati, in Aa.V.v., Trattato di Diritto sanzionatorio tributario - Diritto sanzionatorio amministrativo, op. cit., Tomo II, 1293. (56) Sulla effettività della pena come parametro concreto delle politiche criminali vd., da ultimo, l’approfondito lavoro di P. Sorbello, Politica criminale ed osservanza delle regole. Riflessioni su limiti e possibilità di conversione al razionale dei comportamenti, in Riv. it. Dir. Proc. Pen., 2016, 1914 e l’ampia bibliografia citata dall’autore. (57) Da ultimo, G. Melis, Gli interessi tutelati, op. cit., 1301 ss. (58) Già L. Del Federico, Violazioni e sanzioni in materia tributaria, op. cit., 1-2 identificava un interesse “trasversale” laddove osservava che “il bene tutelato si identifica con


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Al vertice di tale sistema vi è, certamente, la salvaguardia delle “risorse finanziarie proprie della collettività, viste tali risorse come bene giuridico in senso proprio da proteggere come tale alla luce degli artt. 2, 53 e 81 della Costituzione” (59). Tuttavia, lo stesso concetto di “risorsa finanziaria” assume oggi una valenza più definita (e vincolante) in termini di equilibrio dei bilanci pubblici e di azione amministrativa finalizzata alla sostenibilità del debito (obiettivo, quest’ultimo, imposto, espressamente, dal novellato art. 97 Cost (60)). Come si è osservato, infatti, il principio della economicità dell’azione amministrativa non è più solamente implicito nel sistema e codificato da una legge ordinaria (art. 1, Legge 241/1990), ma si aggiunge a quelli di buon andamento ed imparzialità divenendo esso stesso un autonomo parametro di valutazione costituzionale (61). Occorre, dunque, che l’ordinamento adotti soluzioni, anche in ambito punitivo, incentrate sulla minimizzazione dei costi e, conseguentemente, su modelli sanzionatori che tendano al “risultato utile” (vd. infra § IV). Da qui nasce la menzionata difficoltà di delimitare, nettamente, le diverse facce dell’interesse fiscale stante una ormai ineliminabile interdipendenza tra i diversi interessi in gioco. Sul piano sostanziale, infatti, non è più individuabile un “unico oggetto di protezione” (62) da parte del sistema sanzionatorio, ma una serie di “beni pubblici” compositi che, pur ruotando tutti attorno alla “stella polare” della riscossione, spaziano dal mantenimento degli equilibri di bilancio – oggi principio autonomo, in precedenza ricavabile solamente in modo implicito e dalla dubbia vincolatività (63) – fino alla tempestiva contribuzione.

l’interesse alla percezione dei tributi, pronta e perequata alla capacità contributiva mediante l’esatto funzionamento del sistema tributario inteso globalmente”. (59) A. Giovannini, Per una riforma del sistema sanzionatorio amministrativo in Aa.V.v., Trattato di Diritto sanzionatorio tributario - Diritto sanzionatorio amministrativo, op. cit. 1400. Sul punto vd., anche D. Coppa, Questioni attuali in tema di sanzioni amministrative, op. cit., 1023 - 1024. (60) Oggi tale norma obbliga alle pubbliche amministrazioni di “assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”. (61) G. Bottino, Il nuovo art. 97 della Costituzione in Riv. trim. dir. Pubb., 2014, 692. Si è, altresì, “coniata” in dottrina una nuova categoria delle invalidità, cioè quella del “vizio del risultato”. M. Gioiosa, Amministrazione di risultato e tutela giurisdizionale, Napoli, 2012, 405. (62) L’espressione è di R. Miceli, voce Sanzioni Amministrative, op. cit. (63) Sul punto vd., tra gli altri, A. Giovannini, Imposizione e finanza pubblica in Atti del convegno Per un nuovo ordinamento tributario, Op. cit., Vol. III, 159; F. Gallo, Il diritto e l’economia. Costituzione, cittadini e partecipazione, in Rass. Trib., 2016, 287; E. De Mita, Il


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È chiaro che – anche in seguito ai noti (e, da più parti, criticati) arresti della Corte Costituzionale la quale ha dato prevalenza all’equilibrio di bilancio su altri diritti fondamentali (64) – la limitazione delle conseguenze finanziarie deve divenire anch’essa un autonomo “oggetto di protezione” da parte delle norme sanzionatorie, svincolato da un generico, e quanto mai indeterminato, interesse alla contribuzione (65). E ciò non può non essere tenuto in considerazione sotto il profilo del bilanciamento tra i diversi interessi potenzialmente contrastanti tra loro, nonché della tensione tra tutela e rigore punitivo. D’altro canto, anche l’intervento dell’Unione in ambito tributario non viene più visto solamente in termini di eliminazione degli “ostacoli al raggiungimento del mercato interno”, ma anche di richiesta di una effettiva ed efficace tutela degli “interessi finanziari dei singoli Stati membri” (66). Occorre, dunque, contemperare gli obiettivi primari dell’ordinamento, con quelli tutelati dai singoli microsistemi di norme sanzionatorie (comunque, strumentali a dare attuazione ai principi contenuti nell’art. 97 Cost.), parametrandoli alle esigenze di ogni “microsettore” e storicizzandole (67). Infat-

conflitto tra capacità contributiva ed equilibrio finanziario dello Stato, in Rass. Trib., 2016, 563; A. Giupponi, Il principio costituzionale dell’equilibrio di bilancio e la sua attuazione, in Quad. cost., 2014, 1; A. Brancasi, Bilancio (equilibrio di), in Enc. del diritto, Annali, VII, Milano, 2012; F. Bilancia, Spending reviuwe pareggio di bilancio. Cosa rimane dell’autonomia locale?, In Dir. Pubb., 2014, 45; Id, Note critiche sul cosiddetto pareggio di bilancio, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2012, 349. Per considerazioni anche di carattere finanziario vd., da ultimo, M. Aulenta, The Usefulness of the fiscal compact to supersedethe domestic stability pact, in Riv. dir. Fin., 2016, I, 241 nonché per una interessante indagine in chiave interdisciplinare O. Chessa, Pareggio strutturale di bilancio, keynesismo e unione monetaria in Quaderni Cost., 2016, 454. (64) Oltre alla dottrina precedentemente citata vd. anche S. Cociani, L’horror vacui e l’irretroattività degli effetti delle sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale, in Riv. dir. trib., 2015, I, 12; G. Bizioli, L’incostituzionalità della Robin Hood tax fra discriminazione qualitativa dei redditi ed equlibrio di bilancio, in Rass. Trib., 2015, 1079. Per considerazioni di carattere generale vd., da ultimo, S. Mangiameli, Il diritto alla giusta imposizione. La prospettiva del costituzionalista in Dir. prat. Trib., 2016, 1373. (65) Osserva, recentemente, F. Gallo, L’Europa sociale e l’Europa fiscale dopo il trattato di Lisbona, in Dir. prat. Trib., 2016, I, 1790-1791, che “la parità di bilancio e` ora divenuta un dovere prioritario per tutti gli Stati membri, che prevale, seppur in via transitoria, sugli obblighi, più generali, della crescita in regime di concorrenza e dell’economia sociale di mercato”. (66) Testualmente, G. Melis, Evasione ed elusione fiscale internazionale e finanziamento dei diritti sociali: recenti trends e prospettive, in Rass. Trib., 2014, 1287. (67) Osserva M. Donini, Principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, op. cit., 23 che, sotto il profilo della offensività, il “catalogo” dei beni costituzionali rimane necessariamente aperto: “si tratta di vedere se la scelta del legislatore storico non possa


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ti, nell’epoca del fiscal compact, in cui, come detto, l’equilibrio di bilancio entra “a gamba tesa” nella Costituzione (68) come bene da tutelare prioritariamente (69) ed in cui viene enfatizzata l’efficienza economica dell’azione amministrativa (70), appare illusorio non cedere all’utilitarismo delle scelte legislative: ovviamente, anche il sistema valoriale dell’illecito non può che muoversi di pari passo. Nel quadro testé delineato, il nodo centrale diviene quello di individuare strumenti idonei a proteggere gli interessi erariali nel solco della offensivitàproporzione delle misure da adottare, partendo da un dato inequivocabile: l’attuale modello sanzionatorio è, evidentemente, inidoneo a limitare una ormai endemica ed esponenziale sottrazione di gettito, sia sul piano domestico, sia su quello europeo ed internazionale. 4. Effettività della sanzione, fallimento della deterrenza e logica utilitaristica della prevenzione. – Il problema della deterrenza e della efficienza del sistema sanzionatorio è ampiamente studiato nella letteratura economica (71), ma tutt’ora largamente irrisolto: infatti, pur essendo noti e misurabili (quantitativamente) gli effetti delle condotte illecite (72), il drammatico e costante aumento di sottrazione di gettito (73) mostra un chiaro ed inequivocabile fal-

in parte ridefinire situazioni più aggiornate rispetto all’idea del costituente” in quanto “c’è sempre un problema di storicizzazione inevitabile”. (68) Sulla valenza costituzionale dell’equilibrio di bilancio vd., da ultimo, C. Buzzacchi, Spesa pubblica ed indebitamento: le regole dei nuovi artt. 81 e 97 della Cost., in Riv. it. Dir pubb. Com., 2016,421; Id., Ideologie economiche, vincoli giuridici, effettiva giustiziabilità: il tema del debito, 2016 in www.forumcostituzionale.it. (69) D’altro canto lo stesso art. 119 del Trattato Ue identifica, espressamente, tra i principi direttivi che devono guidare gli Stati membri proprio, il raggiungimento di “finanze pubbliche sane”. (70) In dottrina si è affermato che, anzi, tale regola assume una valenza prioritaria rispetto ai generali principi di buon andamento ed imparzialità. Vd., in particolare, le ampie considerazioni di G. Pesce, La sostenibilità del debito pubblico della Pubblica Amministrazione nella nuova costituzione finanziaria dello Stato, in Riv. it. Dir pubb. Com., 2015, 531. (71) Per un’ampia disamina dei diversi modelli utilizzabili e per le diverse posizioni della dottrina vd., da ultimo, J. Slemrod, Tax compliance and enforcement: an overview of new research and its policy implication, op. cit. 92 ss nonché l’autorevole commento a tale contributo, nel medesimo volume, di D. Weisbach, pag. 103. (72) Per un quadro a livello mondiale vd., da ultimo, G. Zucman, The Hidden Wealth of nations, Chicago, 2015. (73) Sul punto vd., da ultimo, l’ampia analisi, anche quantitativa di V. Pellegrini - A. Sanelli - E. Tosti, What do external statistics tell us about undecleared assets held abroad and


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limento del sistema in termini di deterrenza (74) (richiamata, peraltro, proprio dalla stessa Corte di Giustizia e dalla Commissione europea (75) come ineliminabile parametro nel giudizio di proporzionalità (76)) e, conseguentemente, della prevenzione. Tale fenomeno è, per esempio, già ben noto sul piano del diritto tributario internazionale in cui, nonostante la misurabilità quantitativa del danno cagionato dalla erosione della base imponibile, la maggiore complessità è proprio quella di selezionare (ed, eventualmente, sanzionare) i comportamenti potenzialmente dannosi ex ante (77): tanto che, proprio in ragione della mancanza di inequivocabili risultanze empiriche di riferimento, è sempre più frequente l’utilizzo di clausole generali nel tentativo di indirizzare i comportamenti del contribuente (78). A ciò si aggiunga che un ulteriore profilo di incertezza deriva dal fatto che, mentre per i giuristi è essenziale distinguere i comportamenti tra “evasivi” ed elusivi/abusivi, gli economisti tendono ad unificare le due categorie giungendo a risultati che, in una logica schiettamente giuridica, possono essere fuorvianti. In buona sostanza, se, da un lato, appare, certamente, giustificato e conforme al principio di offensività-proporzione prevedere un apparato sanzionatorio che colpisce, ex post, e con pene afflittive, gli omessi versamenti, le dichiarazioni infedeli, le false fatturazioni, ecc… che costituiscono, sul piano del danno arrecato, le condotte più gravi, dall’altro, queste ultime sono anche le più semplici da giustificare (e da “mappare”) in presenza di una palese e conclamata violazione della normativa tributaria. Soprattutto, tali sanzioni si

tax evasion, Banca d’Italia, Paper n. 367, Novembre 2016. Sono, altresì, molto interessanti i risultati contenuti nella “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale” stilata da apposita Commissione e reperibile a sito www.mef.gov.it. (74) Su tale problematica vd. l’autorevole e stimolante contributo di A. Raskolnikov, Crime and punishment in taxation: deceit, deterrence and the self-adjusting penalty in Columbia Law Review, 2006, 569. (75) Sulle comunicazioni in materia vd., da ultimo, G. Panebianco, La variabile consistenza delle garanzie penali nella politica criminale europea, in Riv. it. Dir. Proc. Pen., 2016, 1724. (76) Ampi richiami in F. Amatucci, Sanzioni tributarie e proporzionalità, op. cit., 10. (77) Sul punto vd, l’interessante contributo di D. Dharmapala, What do we know about base erosion and profit shifting?A review of the empirical literature, in Fiscal Studies, 2014, 421. (78) Sulle tendenze a livello internazionale vd., da ultimo, l’interessante lavoro di P. Piantavigna, The abuse and aggressive tax planning in the Beps era: how EU law and the OECD are establishing a unifyng conceptual framework in international tax law despite linguistic discrepancies, in World Tax Journal, 2017, 1.


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sono dimostrate, nei fatti, inefficaci ad evitare il compimento degli illeciti. Sembrano, dunque, da valorizzare nuovamente quelle tesi – nel tempo, parzialmente abbandonate – che enfatizzavano la trasparenza amministrativa e la salvaguardia della funzione accertativa come beni giuridici tutelati (79) da rivisitare, tuttavia, in chiave “moderna” ed in termini di efficacia economica dell’azione amministrativa (80): ciò soprattutto alla luce del fatto che, oggi, è la Costituzione a delineare, espressamente, i vincoli che caratterizzano l’agere della pubblica amministrazione (vd. retro § III). Nel solco di tali vincoli, devono tornare al centro del sistema sanzionatorio gli obblighi strumentali al reperimento di risorse finanziarie (ed, ovviamente, alla stabilità delle stesse) in quanto la difficoltà (ma, al tempo stesso, l’esigenza) è proprio quella di evitare che si concretizzi la sottrazione di materia imponibile, soprattutto a fronte di una oggettiva difficoltà di individuare, in concreto e nel dettaglio, le cause della sottrazione di gettito, nonché le ragioni che inducono il contribuente a comportamenti contra legem (81). Quella che deve essere garantita, in conclusione, non è più solamente la funzione accertativa, ma la concreta “messa a disposizione” dell’Amministrazione finanziaria di un sempre crescente numero di informazioni (82), nella

(79) Per tutti F. Gallo, Teoria e tecnica legislativa e interesse protetto nei nuovi reati tributari: considerazioni di un tributarista, in Giur. Comm., 1984, 31. (80) Su tali profili vd., da ultimo, G. Tropea, La discrezionalità amministrativa tra semplificazioni e liberalizzazioni anche alla luce della Legge 124/2015, in Dir. Amm., 2016, 107 il quale osserva che “attraversiamo una fase connotata da una epocale modifica della relazione fra autorità, società e ruolo del diritto pubblico: esso cessa — almeno in parte — di essere strumento di limitazione e controllo del potere e si dirige, invece, verso la funzionalizzazione alla garanzia della concorrenza, quindi all’organizzazione della società e delle istituzioni all’interno delle regole economiche”. (81) Su tali profili vd. l’interessante contributo di J. Dubin, The causes and consequences of income tax noncompliance, New York, 2011, nel quale l’autore, mediante dati empirici, cerca di individuare le diverse cause del fenomeno. Sul punto vd. anche lo stimolante contributo di A. Raskolnikov, Reveling choices: using taxpayer choice to target tax enforcement, in Columbia Law Review, 2009, 689; A. Doran, Tax penalties and tax compliance, in Harvard Journal on Legislation, 2009, 112, nonché, da ultimo, A. Thimmesch, Testing the models of Tax Compliance: the Use-Tax experiment, in Utah Law Review, 2015, 1. (82) Valorizzano il ruolo delle informazioni, anche sul piano degli standards internazionali, da ultimo, J. A. Rozas Valdés - E. Sonetti, Tax penalties in a cooperative compliance framework, in Riv. dir. Trib. int., 2014, 31.


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logica della preventiva disclosure (83) e della compliance (84): ciò proprio al fine di evitare le procedure di accertamento ed ottimizzare i costi da esse derivanti (85). Se, infatti, pare oggi inequivocabile che stia divenendo un valore generalmente riconosciuto a livello nazionale ed internazionale, la ricerca del dialogo e della collaborazione tra contribuente e fisco (86), anche la mancanza di disponibilità al dialogo che rischia di impattare sulle risorse finanziarie ed ingenerare un esponenziale aumento dei costi amministrativi – in aperto contrasto, dunque, con i novellati artt. 81 e 97 Cost. – deve divenire una condotta sanzionabile. D’altro canto, in un sistema tributario fondato sull’autoliquidazione dei tributi ed, al tempo stesso, su di un’attività di accertamento eventuale (per non dire meramente casuale ed ipotetica (87)), pare illusorio pensare che il contribuente propenso all’evasione subisca l’effetto “deterrente” di un possibile controllo: è, infatti, ampiamente studiato in letteratura che solamente l’aumento della probabilità di subire un accertamento (e l’applicazione delle sanzioni) determina una maggiore propensione all’adempimento spontaneo (88). È, quindi, necessaria la predisposizione di un apparato sanzionatorio capillare e caratterizzato da una certa duttilità rispetto alle esigenze del singolo periodo storico. Peraltro, anche il concetto di semplificazione amministrativa, ormai da anni costantemente cavalcato dalla politica, non identifica solamente la rimozione di obblighi ed adempimenti (a volte, effettivamente, superflui e

(83) Su tali profili vd., in particolare, da ultimo, il contributo monografico di L. Strianese, La tax compliance nell’attività conoscitiva dell’Amministrazione finanziaria, Roma, 2014. (84) Come è noto lo stesso OCSE “spinge” verso la Cooperative Compliance. Vd. in particolare il documento OECD, Co-operative Compliance: A Framework. From Enhanced Relationship to Co-operative Compliance scaricabile dal sito internet istituzionale. (85) Vi è una vastissima letteratura economica che analizza i costi connessi ai diversi modelli. Sul punto vd. i contributi contenuti nel volume Aa. Vv., Tax Simplification, a cura di C. Evens - R. Krever - P. Mellor, The Netherlands, 2015. (86) Sul punto vd. il recente “atto di indirizzo per il conseguimento degli obiettivi di politica fiscale 2016/2018 (reperibile al sito internet www. mef.gov.it/ministero/oiv/documenti/ ATTO_INDIRIZZO_POLITICHE_FISCALI_2016-2018.pdf. In tale documento viene, chiaramente, enfatizzata la cooperative compliance ed, al tempo stesso, la necessità di reperire ulteriori informazioni direttamente dal contribuente. (87) Sul fatto che il “rischio di un controllo” sia irrilevante vd. anche la Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale” citata in precedenza. (88) Cfr, per tutti, J. Slemrod, Tax compliance and enforcement, op. cit.


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ridondanti) quanto, piuttosto, la valorizzazione della trasparenza e della genuinità dei rapporti tra amministrazione ed amministrati (89). L’approccio – al di là dei diversi proclami sul “fisco amico” (90) e fermo restando l’interesse che la tax compliance sta assumendo in tutte le scienze giuridico-sociali (91) – è prevalentemente utilitaristico e necessitato, come detto, da una non più tollerabile perdita di gettito. E se oggi, come si è acutamente posto in luce, “il denaro dei contribuenti è il più importante dei beni gestiti dai pubblici poteri” (92), ben si comprende che i comportamenti che mettono concretamente in pericolo tale bene devono essere sanzionati, proprio in virtù del principio di offensività-proporzione (vd. retro § II). Il rischio è, certamente, quello di una prevedibile deriva verso tecniche di anticipazione della tutela nella logica penalistica del principio di precauzione. Tuttavia, tale ipotesi non deve “scandalizzare” in quanto, secondo opinione consolidata, la logica della precauzione entra in gioco come “criterio di gestione del rischio in condizioni di incertezza circa possibili effetti dannosi ipoteticamente collegati a determinate attività” (93). Il ché, per quanto già detto,

(89) Su tali profili vd. l’autorevole ricostruzione di M.P. Chiti, Semplificazione delle regole e semplificazione dei procedimenti: alleati o avversari?, in Foro Amm., 2006, 1057, nonché, di B.G. Mattarella, La trappola delle leggi. Molte, oscure, complicate, Bologna, 2011, in particolare pag. 129 e ss. Sui rapporti tra semplificazione e certezza del diritto tributario vd. anche l’interessante contributo di J. Freedman, Managing Tax Complexity: The Institutional Framework for Tax-Policy Making and Oversight, in Aa. Vv., Tax Simplification, op. cit., 259, nonché, nel medesimo volume ma in chiave prevalentemente economica, K.E. Hickman, Administering Tax Complexity versus Simplicity,171. (90) L’espressione è di A. Giovannini, Legge di stabilità 2015-Il nuovo ravvedimento operoso: il “Fisco amico” e il “condono permanente”, in Fisco, 2015, 315, il quale parla di “ideologia distorta del fisco amico”. Del medesimo autore, per ulteriori considerazioni su tale profilo, cfr Il contraddittorio endoprocedimentale, in Rass. Trib., 2017, 14. (91) Si pensi, a titolo di curiosità, all’interessante contributo, in chiave empirico, di C. Berti - B. Kastlunger - E. Kirchler, La china scivolosa del comportamento fiscale: un contributo alla costruzione di uno strumento per la ricerca sulla compliance, in Giornale Italiano di psicologia, 2013, 377. Per le diverse tesi relative agli studi dei “comportamentalisti” in termini economici vd., da ultimo, J. Slemrod, Tax compliance and enforcement, op. cit. (92) G. Pesce, op. cit., 531. (93) D. Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza. La logica precauzionale come fattore espansivo del penale nella giurisprudenza della Cassazione, in Diritto Penale contemporaneo, 2011, al quale rinviamo anche per l’ampia bibliografia citata. Del medesimo autore vd., altresì, il contributo monografico Principio di precauzione e diritto penale. Paradigmi dell’incetrtezza nella struttura del reato, Roma, 2012. Da ultimo, in chiave prevalentemente critica e per l’ampio apparato bibliografico vd., M. Caterini, Il diritto penale del nemico “presunto”, in Politica del diritto, 2015, 635,


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si verifica anche in materia tributaria, proprio in ragione della già menzionata “imprevedibilità fiscale” che guida i comportamenti del contribuente (94). D’altro canto, non pare assolutamente una forzatura paragonare i danni cagionati dalla endemica carenza di risorse statali (e dal consequenziale incremento del debito pubblico) sui diritti fondamentali della persona, con quelli derivanti dalla commissione, per esempio, di reati ambientali per i quali vengono, costantemente, apprestate incisive forme di tutela anticipata. Oggi, infatti, anche interessi fino a pochi anni fa ritenuti “incomprimibili”, subiscono una valutazione comparativa con quelli finanziari. La stessa giurisprudenza, infatti, ha sancito che anche la tutela dei diritti inviolabili e generalmente riconosciuti (quale il diritto alla salute) dipendono dalla sostenibilità finanziaria dell’intervento pubblico: “nel bilanciamento di interessi, tutti di pari rango costituzionale, la tutela del diritto alla salute può trovare accoglimento nei limiti delle risorse finanziarie disponibili atteso che nei sistemi costituzionali contemporanei non vi è garanzia di effettività e di rispetto per i diritti fondamentali fuori da un determinato equilibrio di bilancio democraticamente fissato (entrate, spese, e indebitamento autorizzato), che garantisca la sostenibilità e la durata dei diritti medesimi, che coordini in vario modo i conti, tra risorse e prestazioni, e tra le generazioni presenti e quelle future” (95). Non si pone più, quindi, solamente un problema di “finanza e giustizia sociale” – per usare le parole di un celebre saggio di Ezio Vanoni (96) – ma di stretta sopravvivenza della comunità statale e di salvaguardia dei diritti fondamentali della persona e della collettività (97). In altri termini, appaiono tutt’altro che ingiustificati modelli sanzionatori incentrati sulla prevenzione dell’illecito piuttosto che sulla repressione tout court: il reperimento di risorse finanziarie, infatti, è centrale per i bisogni primari della collettività e dei singoli, alla stregua della repressione di condotte che possono impattare, per esempio, sulla salute pubblica.

(94) Su tali aspetti vd., per tutti, B. Torgler, Tax compliance and tax morale: a theoretical and empirical analysis, Cheltenham, 2007. (95) Cons. di Stato 4 febbraio 2016, n. 450. (96) Vanoni, La finanza e la giustizia sociale in Scritti di finanza pubblica e di politica economica, a cura di Tramontana, Padova, 1976. (97) Sui costi dei diritti e sulla rilevanza dei tributi vd. C.R. Sunstein - S. Holmes, The costs of rights. Why liberty depends of taxes, New York, 1999 (edito in Italia per i tipi de Il Mulino).


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5. Segue: alcuni casi paradigmatici. – L’evoluzione legislativa mostra essa stessa una embrionale (ma spesso farraginosa ed estemporanea) evoluzione verso modelli ispirati alla prevenzione ed alla ricerca di soluzioni che vedono il contribuente quale “collaboratore necessario” (98) del fisco, in taluni casi “premiato”, mentre in altri “punito”. Al di là della previsione di istituti dettati, palesemente, da esigenze “congiunturali” – quali, per esempio, la c.d. Voluntary Disclosure (99) sui redditi di fonte estera non dichiarati – sono, infatti, ormai varie le ipotesi in cui il legislatore “premia” il contribuente virtuoso che consente all’amministrazione finanziaria capillari controlli preventivi, così come, specularmente, quelle in cui vengono sanzionate condotte omissive di pericolo concreto. Si muove in tale direzione la disciplina delle esimenti in tema transfer pricing (100) ove emerge, chiaramente, la esclusione di qualunque disvalore al comportamento del contribuente che si espone, sin da subito, ad un confronto con l’Agenzia (mediante una vera e propria disclosure) e che opera negli schemi individuati dall’OCSE (101) . Anche qui, una volta verificato sulla base della esperienza applicativa che le operazioni poste in essere tra società consociate possono mascherare manovre fraudolente, il legislatore decide di intervenire in via preventiva (cioè nella logica precauzionale), con la finalità di reperire il più significativo numero di informazioni utili ad evitare sottrazione di base imponibile.

(98) Autorevole dottrina parla anche di “tax compliance” imposta quando l’adempimento deriva dalla minaccia di sanzioni e controlli. E. Kirchler, The economic psychology of tax behaviour, Cambridge, 2007, 51. Per le diverse attitudini dei contribuenti alla contribuzione vd. il celebre contributo di E. Posner, Law and social norms: the case of tax compliance, in Virginia Law Review, 2000, 1781. (99) Sulla quale vd. P. Mastellone, The Italian Voluntary Disclosure Programme: A new Era of Tax Amnesty?, in European Taxation, 2015, Vol. 55, 374; S. Dorigo - P. Mastellone, Lotta alla criminalità economica. L’influenza delle iniziative internazionali ed europee sull’ordinamento tributario e penale italiano, in Aa. Vv., L’evasione e l’elusione fiscale internazionale, op. cit., 599 nonché per ampie considerazioni sistematiche, per tutti, Malherbe, Tax Amnesties, Amsterdam, 2011. (100) Sul punto cfr., in particolare, Sacchetto, Il Transfer pricing internazionale: una normativa alla ricerca della propria identità, in Rass. Trib., 2016, 886; Della Valle, Transfer price: l’esimente relativa alla rettifica del valore normale, in Riv. trim. dir. trib., 2012, 65; A.M. Gaffuri, La nuova disciplina in tema di documentazione dei “prezzi di trasferimento”, in Rass. Trib., 2011, 1444. (101) Con particolare riferimento a tale tematica vd., da ultimo, A. Turina, L’evoluzione del coordinamento fiscale internazionale in L’evasione e l’elusione fiscale internazionale. In tema di prezzi di trasferimento tra Joint Transfer Pricing Forum dell’Unione Europea e progetto Beps, in Aa. Vv., L’evasione e l’elusione fiscale internazionale, op. cit., 515 ss.


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Sono, altresì, altrettanto significative le nuove fattispecie introdotte dal D. Lgs. 158/2015 (102), relative agli obblighi dichiarativi connessi a pratiche che, sempre nella comune esperienza, sono caratterizzati da una elevata pericolosità fiscale ma che sono spesso incontrollabili ex post. Il riferimento è alle disposizioni contenute nel novellato art. 8, comma III – bis, ter, quater e quinques D. lgs. 471/1997 (103), le quali devono, necessariamente, essere lette in stretta correlazione con la coeva riforma degli interpelli “obbligatori” e facoltativi (104), nonché con le modifiche introdotte dal c.d. “Decreto per la crescita ed internazionalizzazione delle imprese” (105). In estrema sintesi, da un lato, è stato eliminato l’obbligo (106) di interpellare, preventivamente, l’Amministrazione con riferimento a talune situazioni connotate da un rilevante “rischio fiscale” ma, dall’altro – uniformandosi a quanto già previsto per la ormai abrogata disciplina dei costi black list (107) – sono stati introdotti specifici obblighi di segnalazione in sede dichiarativa, alternativi alla richiesta di interpello. Anche qui la logica è utilitaristica ed efficientistica: una volta eliminato il costoso onere di interpello preventivo (cioè, quello che veniva definito come una “verificazione amministrativa

(102) Sulle quali sia concesso rinviare, per ulteriori approfondimenti, a F. Montanari, Le violazioni di obblighi formali, documentali e contabili nelle imposte dirette e nell’Iva, in Aa.V.v., Trattato di Diritto sanzionatorio tributario - Diritto sanzionatorio amministrativo, op. cit., 1741. (103) Si tratta della disciplina CFC, di taluni profili specifici profili del regime del consolidato, della participation exemption e delle agevolazioni ACE. Per una dettagliata analisi del contento delle stesse vd., ancora, F. Montanari, Op. loc. cit., 1748 ss. (104) D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, in vigore dal I° gennaio 2016. Sul punto vd., da ultimo, Alfano, Verrigni, Gli interpelli: evoluzione sistematica e trend legislativo italiano, in Dir. prat. Trib. int., 2016, 841. (105) D. lgs 14 settembre 2015, n. 147. (106) Per una ricostruzione sistematica di tali istituti vd., da ultimo, La rosa, L’interpello obbligatorio in Riv. dir. Trib., 2011, I, 711 e l’ampia bibliografia citata dall’Autore, il quale sottolinea (pag. 713), efficacemente, la differenza tra le diverse forme di interpello: quelli obbligatori, infatti, “prescindono totalmente dalla maggiore o minore chiarezza delle discipline di riferimento e sono, invece, finalizzati al monitoraggio e controllo fiscale di specifiche scelte operative del contribuente e situazioni fattuali predeterminate, diverse da caso a caso, in quanto ritenute meritevoli di particolare attenzione da parte degli Uffici finanziari”. (107) Sul punto vd., da ultimo, Sul punto vd., da ultimo, L. Perrone, La evoluzioneinvoluzione della disciplina sulla indeducibilità dei costi black list e le sanzioni improprie, in Atti del convegno Per un nuovo ordinamento tributario, Genova, 14-15 ottobre 2016, vol. III, 213, oggi edito con modifiche in Rass. Trib., 2017, 188 La tormentata disciplina normativa sulla deducibilità dei costi black-list, i riflessi sulla sua efficacia nel tempo e le sanzioni improprie.


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necessaria” (108) su impulso del contribuente), i novellati obblighi dichiarativi consentono all’Agenzia delle Entrate un più efficace monitoraggio preventivo e l’acquisizione di notizie ed elementi direttamente dal contribuente. Conseguentemente, a fronte delle suddette modifiche sul piano sostanziale e procedimentale, il D. Lgs. 158/2015 ha introdotto specifiche sanzioni applicabili nel caso in cui il contribuente che non si avvale della procedura di interpello (o che, avvalendosene, non abbia ottenuto risposta positiva), ometta le informazioni richieste. In ultima analisi, a chiusura del cerchio con la novellata disciplina sugli interpelli, è particolarmente significativo l’art. 11, comma VII -Ter, D.lgs. 471/1997, (109) il quale oggi disciplina autonome sanzioni per i contribuenti che non presentano l’interpello antielusivo (l’unico rimasto, obbligatorio) oggi previsto, in via generalizzata, dall’art. 11, comma II, dello Statuto dei diritti del contribuente (d’ora innanzi, per semplicità lo Statuto) (110). La stessa norma, poi, disciplina anche una specifica circostanza aggravante in quanto la suddetta sanzione “è raddoppiata nelle ipotesi in cui l’amministrazione finanziaria disconosca la disapplicazione delle norme aventi ad oggetto deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive del soggetto passivo”. La ratio dell’intervento normativo appare evidente: da un lato, il legislatore intende punire – analogamente a quanto già evidenziato per gli obblighi dichiarativi alternativi alle forme di interpello facoltativo – colui che si sottragga ad una disclosure preventiva e, dall’altro, prevede una “responsabilità aggravata” nell’ipotesi in cui tale comportamento, secondo un giudizio ex post, abbia arrecato un pregiudizio erariale in termini di gettito (e che, quindi, l’operazione venga, effettivamente, qualificata come elusiva).

(108) Testualmente, G. Fransoni, Efficacia e impugnabilità degli interpelli fiscali con particolare riguardo all’interpello disapplicativo, in Aa.V.v., Elusione ed abuso del diritto tributario, a cura di G. Maisto, Milano, 2009, 77. Sugli interpelli vd. ancora G. Fransoni, Quale vaghezza.…?: considerazioni sui presupposti dell’interpello qualificatorio, in Rass. Trib., 2016, 570. (109) Introdotto dal D. Lgs. 158/2015. (110) Introdotto dal D. Lgs. 156/2015, a decorrere dal I° gennaio 2016, il quale dispone che “il contribuente interpella l’amministrazione finanziaria per la disapplicazione di norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta, o altre posizioni soggettive del soggetto passivo altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, fornendo la dimostrazione che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non possono verificarsi”.


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6. La funzione ermeneutica del principio di offensività-proporzione e l’impatto sul diritto tributario punitivo. – Le considerazioni che precedono non devono portare a conclusioni affrettate nel senso della valorizzazione di condotte di pericolo in astratto. La logica efficientistica ed utilitaristica, al contrario, deve essere considerata “a tutto tondo”: proprio in virtù del principio di offensività-proporzione, da un lato, non è più tollerabile l’applicazione di sanzioni a fronte di condotte perfettamente genuine (seppur astrattamente contra legem) ma determinate da errori veniali e, dall’altro, a chiusura del cerchio, si rende necessaria la predisposizione di strumenti idonei a ridurre drasticamente (od eliminare), il carico sanzionatorio a fronte di comportamenti virtuosi del contribuente successivi alla eventuale commissione dell’illecito (111). Fermo restando il valore assiologico dell’offensività-proporzione (e, quindi, la propria naturale funzione selettiva, vd. retro § II - III), nella dottrina penalistica viene, altresì, ampliato l’ambito d’indagine dal piano della formulazione (e del controllo) della fattispecie, a quello più propriamente applicativo, ed interpretativo (112): è, infatti, considerato di preminente utilità verificare la tenuta del regime sanzionatorio nel caso concreto (113), oltre che secondo un giudizio di astratta conformità ai precetti costituzionali ed europei. Tale ap-

(111) Il fenomeno in esame è, evidentemente, ormai in moto da anni ma, oggi, sta assumendo forme e manifestazioni sempre più evidenti, sia dal punto di vista delle condotte sanzionate, sia da quello della previsione di strumenti che escludono, ex ante, la punibilità del contribuente “virtuoso”. Si muovono, certamente, in tale direzione il nuovo ravvedimento operoso nel quale la sanzione è graduata in base al momento temporale in cui il contribuente si ravvede e l’innovativo art. 13, D. Lgs. N. 74/2000, che ha introdotto una vera e propria causa di non punibilità derivante dalla integrale estinzione del debito tributario. In entrami i casi si tratta, nella sostanza di ipotesi di vera e propria decriminalizzazione o, comunque, di “uso premiale delle sanzioni tributarie”. Sul punto vd., in particolare, D. Conte, Il gene mutante del ravvedimento operoso ed i suoi effetti sul nuovo modello di attuazione del prelievo, in Riv. dir. trib., 2015, I, 442; S. Galeazzi, Il nuovo ravvedimento operoso, in Riv. dir. trib., 2014, I, 994. Sul punto vd., per tutti, G. Melis, La nuova disciplina degli effetti penali dell’estinzione del debito tributario, in Rass. Trib., 2016, 589; V. Mastroiacovo, Riflessi penali delle definizioni consensuali tributarie e riflessi fiscali delle definizioni bonarie delle vertenze penali, in Riv. dir. Trib., 2015, I, 142. Per il profilo delle attenuanti vd., da ultimo, F. Rasi, L’attenuante del pagamento del tributo, in Riv. trim. dir. trib., 2015, 421. Per considerazioni di carattere generale e sistematico vd., M.C. Pierro, L’uso premiale delle sanzioni tributarie e la crisi del principio di specialità, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 679. (112) Si parla anche di “canone interpretativo universalmente accettato”. V. Manes, Ragionevolezza delle norme penali, op. cit. (113) Per ampi riferimenti alla offensività in concreto nella giurisprudenza vd. M. Bertolino, Legalità costituzionale in materia penale: tecniche decisorie e giudici ordinari, in Quaderni Cosr., 2015,


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proccio deriva anche da una considerazione di ordine “pratico”, prima ancora che ideologico e teorico: cioè dal fatto che sono rarissimi i casi in cui la Corte Costituzionale (fatta eccezione per il sindacato della ragionevolezza) (114) ha utilizzato la lesività del bene giuridico come parametro per sindacare l’attività del legislatore (115). Analoghe considerazioni valgono con riferimento alla giurisprudenza europea in tema di proporzionalità in quanto la Corte devolve sempre al giudice nazionale il compito di verificare, in concreto, se siano o meno rispettati i principi europei: dunque, anche qui prevale un criterio ermeneutico e la concreta applicazione di disposizioni che se, astrattamente, possono dirsi adeguate, devono “reggere” sul piano applicativo. Peraltro, anche l’evoluzione del diritto e della legislazione penale comune mostra una palese concretizzazione del principio di offensività, nonché un notevole pragmatismo del sistema. Il riferimento è, evidentemente, al novellato art.131-bis, c. p. (116) il quale, come è noto, ha sancito la non punibilità delle condotte caratterizzate dalla “particolare tenuità dell’offesa” (117), che le Sezioni Unite (118) hanno ritenuto applicabile ad ogni fattispecie criminosa, in presenza dei presupposti e nel rispetto dei limiti fissati dalla norma stessa. Il percorso argomentativo di tale sentenza è di particolare interesse in quanto viene espressamente stabilito che “tra i molteplici significati eventualmente compatibili con la lettera della legge si dovrà operare una scelta con l’aiuto del criterio del bene giuridico,

(114) Per una analisi, anche numerica, delle decisioni della Corte vd., per tutti, V. Manes, Dove va il controllo di costituzionalità in materia penale?, in Riv. it- dir. proc. pen, 2015, 154. (115) Su tali profili vd., in particolare, G. Fiandaca, Sulla giurisprudenza costituzionale in materia penale, in Cass. Pen., 2017, 13; T. Epidendio, Eguaglianza, offensività e proporzione della pena in Treccani – Il libro dell’anno del diritto, Roma, 2015, 101; V. Manes, I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di offensività e ragionevolezza, in Dir. penale contemporaneo, n. 1/2012, 99. (116) Introdotto dal D. Lgs. 16 marzo 2015 n. 28 (117) Sul punto vd., da ultimo, G. Cocco, Per un manifesto del neoilluminismo penale, Padova, 2016, 73. Per una analisi del contesto in cui è inserita tale disciplina vd. F.C. Palazzo, Nel dedalo delle riforme recenti e prossime venture (a proposito della Legge 67/2014), in Riv. it. di dir. e proc. pen., 2014, 1693. (118) Cass. SS. UU. Pen., 25 febbraio 2016, n. 13682 in Giur. It., 2016, 1730, annotata da R. S. Bartoli, La particolare tenuità del fatto è compatibile con i reati di pericolo presunto. Per considerazioni di carattere generale vd. I. Giacona, La nuova causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), tra esigenze deflattive e di bilanciamento dei princìpi costituzionali; R. S. Bartoli, L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. Pen. Proc., 2015, 662.


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considerando fuori del tipo di fatto incriminato i comportamenti non offensivi dell’interesse protetto. In breve, è proprio il parametro valutativo di offensività che consente di individuare gli elementi fattuali dotati di tipicità; e di dare contenuto tangibile alle espressioni vaghe che spesso compaiono nelle formule legali”. In buona sostanza, la novella introduce un criterio ermeneutico-applicativo fondato sulla offensività in concreto, essendo devoluto al giudice il compito di accertare se una condotta astrattamente offensiva si è tramutata in un comportamento dagli effetti “penalmente irrilevanti”. Come si è osservato, infatti, “a differenza di quanto avviene con interventi di depenalizzazione, che operano sul piano astratto, la rinuncia alla pena, ispirata alla logica del de minimis non curat praetor è stata realizzata in questa occasione – con una sorta di depenalizzazione in concreto – introducendo un istituto che rimette al giudice la concretizzazione della valutazione legislativa di immeritevolezza di pena” (119). Nel medesimo solco tracciato dal diritto penale comune, anche il sistema punitivo tributario, a fronte di uno specchio di interessi poliedrico e “multilivello” (vd. retro, § III), predilige il momento applicativo e la predisposizione di clausole generali (120) e sono, peraltro, straordinarie le assonanze tra gli istituti penalistici e quelli prettamente tributari. Si muove, evidentemente, in tale logica la Legge Delega 11 marzo 2014 n. 23 la quale, all’art. 8 (121), individua, tra i criteri direttivi per la revisione del sistema sanzionatorio, la “proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti” (122), parametro, peraltro, già previsto dal legislatore del 1997 (123). In attuazione di tale principio, la riduzione alla metà delle sanzio-

(119) G. Alberti, Non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Treccani – Il libro dell’anno del diritto 2016, Roma, 2016. (120) Sulla tematica delle clausole generali nel diritto tributario sia concesso rinviare a F. Montanari, Diritto giurisprudenziale, contrasto ai comportamenti abusivi e certezza nei rapporti tributari, in Riv. dir. Trib., 2016, I, 211. (121) Per talune osservazioni, anche in chiave critica, vd., da ultimo, L. Del Federico, Abuso e sanzioni, in Aa.V.v., Abuso del diritto ed elusione fiscale, a cura di E. Della Valle, V. Ficari, G. Marini, Torino, 2017, 182 ss. (122) La stessa Legge delega 669/1996, all’art. 10, comma II, n. 11, prevedeva tale principio, pur implicitamente, ove si legge che le sanzioni “devono essere commisurate alla effettiva entità oggettiva della violazione”. (123) Il riferimento è, evidentemente, all’art. 7 del D. Lgs. 472/1997 sul quale vd. B. Pastorelli, Criteri di determinazione della sanzione in Aa.V.v., Commentario alle disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria, a cura di F. Moschetti, L. Tosi, Padova, 2000, 198.


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ni – limitata, nella previgente normativa, a “circostanze eccezionali” – diviene la regola nel caso in cui vi sia “manifesta sproporzione tra entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione” (124). È, altresì, paradigmatico di tale trend l’istituto del lieve inadempimento, in materia di riscossione, disciplinato dall’art. 15-Ter, D. P. R. 602/1973 (125), marcatamente ispirato ai principi del diritto penale. È evidente che le menzionate clausole generali devono essere riempite di contenuto e che solamente un giudizio sulla condotta effettiva si pone in linea con il principio di offensività-proporzione. In altri termini, appare ormai assodato che l’odierno sistema sanzionatorio rifiuta, nettamente, una logica meramente formalistica dell’illecito secondo una definizione preconcetta del comportamento sempre punibile in quanto vietato e che la sanzione deve essere parametrata all’effettivo disvalore della condotta (ed, eventualmente, non irrogata). Sono perfetta espressione di tale humus giuridico-culturale le disposizioni contenute nell’art. 10 dello Statuto e nell’art. 6, comma V –Bis, D. lgs. 472/1997 (126). Appare, infatti, largamente condiviso che la norma statutaria e l’art.6, sono entrambe finalizzate ad escludere la punibilità di comportamenti innocui

(124) Sul punto vd., da ultimo, G. Beretta, Considerazioni sulla riduzione delle sanzioni amministrative per manifesta sproporzione, in Rass. Trib., 2017, 78. (125) Sul quale si rinvia, per ampi approfondimenti, a A. Branca, La nuova tollerabilità del lieve inadempimento. Limiti ed eccessi di una definizione normativa, in Riv. Dir. Trib., 2016, I, 534 il quale valorizza i rapporti con l’art. 131-bis, c.p.. Per alcune prime applicazioni nella giurisprudenza di merito vd., in particolare, Comm. Trib. Prov. di Teramo, 18 novembre 2015 edita in Riv. Giur. Trib., 2016, 164 con nota di L. Lovecchio, Sanzione ridotta per l’omesso versamento di alcune rate degli avvisi bonari – I giudici di merito applicano il principio di proporzionalità delle sanzioni in sincronia con la delega fiscale. (126) Sul fatto che tali norme abbiano introdotto, quanto meno implicitamente, il principio di offensività vd. G. Marongiu, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2010, 144. Sul punto vd. anche L. Del Federico, Statuto del contribuente, illecito tributario e violazioni formali, op. cit., 862; Id., Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, op. cit., 291. Analogamente A. Contrino, Titoli ambientali, contratto di polling e operazioni imponibili ai fini Iva: note a margine della prima giurisprudenza in Rass. Trib., 2013, 693; A. Giovannini - L. Trombella, Violazioni formali e omessa annotazione delle dichiarazioni d’intento Iva, in GT Riv. Giur. trib., 2014, 124; Id, Cumulo giuridico, sanzioni per tardiva fatturazione e principio di concreta offensività, in Corr. Trib., 2014, 3267. Per una approfondita ricostruzione dell’evoluzione del sistema sanzionatorio, con particolare riferimento al principio di offensività vd. anche R. Miceli, Le violazioni meramente formali, in Aa.V.v., Lo Statuto dei diritti del contribuente, a cura di A. Fantozzi, A. Fedele, Milano, 2005, 586.


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solamente sotto il profilo degli effetti (127): la prima, di quelli sostanziali connessi alla determinazione della base imponibile e dell’imposta, la seconda, di quelli procedimentali/strumentali (128). Al di là, dunque, dei diversi interessi tutelati (vd. retro § III), entrambe le disposizioni riflettono, quasi pedissequamente, l’esimente di diritto comune della “particolare tenuità dell’offesa” e risultano, certamente, una diretta espressione di istanze garantistiche – ma anche efficientistiche – tipiche del moderno diritto penale (129). Deve, peraltro, condividersi l’opinione di chi ritiene che la norma statutaria non si riferisca, tout court, alle violazioni “intrinsecamente formali” (quindi, ontologicamente inoffensive), ma ad “una diversa categoria di violazioni, aventi in linea di massima, ed in astratto, carattere sostanziale (cioè violazioni potenzialmente suscettibili di incidere sulla determinazione dell’imponibile e dell’imposta) ma, all’atto pratico – alla luce, cioè, della situazione di fatto e del comportamento complessivamente tenuto dal contribuente – da reputarsi meramente veniali e derubricabili a infrazioni meramente formali, per l’inidoneità delle stesse a determinare debiti d’imposta” (130). In altri termini, l’art. 10 dello Statuto e l’art. 6, comma 5-bis D. Lgs. 472/1997, si pongono su binari paralleli e sono intesi a disciplinare fenomeni parzialmente diversi tra loro: il primo (analogamente a quanto disposto dal novellato art. 131 bis, c.p.) esclude la punibilità di violazioni sostanziali che perdono la propria offensività in quanto, in concreto, non determinano un minor debito d’imposta (o un credito non spettante); il secondo sancisce la non

(127) D. Stevanato, La non punibilità delle violazioni “meramente formali” nello statuto, op. cit., 529. L’autore evidenzia, in particolare, che l’utilizzo del verbo tradurre, ad opera dell’art. 10, non può che sottendere il mutamento di un determinato comportamento (astrattamente punibile), in una condotta che, secondo un giudizio ex post, non ha arrecato alcun nocumento all’interesse fiscale: l’art. 10, dunque, valorizza, al fine della non punibilità, non tanto la natura della violazione, quanto gli effetti della stessa. (128) Sulla tutela dell’interesse ad un corretto funzionamento del sistema procedimentale vd., per considerazioni sistematiche, P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002, 332., nonché Id., Il bilanciamento di interesse fiscale e capacità contributiva nell’apprezzamento della Corte Costituzionale, in Aa.V.v., Diritto tributario e Corte Costituzionale, a cura di L. Perrone, C. Berliri, Napoli, 2006, 57 ss.; R. Miceli, Il sistema sanzionatorio tributario, in Aa.V.v., Diritto tributario, a cura di Fantozzi, op. cit., 902; M. Basilavecchia, Metodi di accertamento e capacità contributiva, in Rass. Trib., 2012, 1107. (129) Su tali aspetti vd. i diversi contributi contenuti in Aa.V.v., Il mercato della legge penale: nuove prospettive in materia di esclusione della punibilità tra profili sostanziali e processuali, a cura di F. Sgubbi - D. Fondaroli, Padova, 2011. (130) D. Stevanato, op. loc. cit., 526.


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sanzionabilità di violazioni intrinsecamente formali ma che, sempre secondo un giudizio ex post, non hanno intralciato l’attività istruttoria (e di monitoraggio) piuttosto che di accertamento in senso stretto. In conclusione, proprio in virtù del principio di offensività-proporzione non pare più particolarmente appagante la netta ed aprioristica suddivisione tra le “violazioni formali” (sempre inoffensive) (131) e quelle sostanziali (sempre punibili), se non, tuttalpiù, sul piano meramente descrittivo e classificatorio. È, quindi, forse più corretto – sia dal punto di vista assiologico, sia ermeneutico-interpretativo – distinguere le violazioni offensive (sempre punibili) da quelle inoffensive (sempre non punibili). Seguendo tale approccio, così come violazioni ontologicamente formali possono essere caratterizzate, in concreto ed a posteriori, da un certo grado di offensività (132), al tempo stesso la violazione di taluni obblighi, sostanziali per natura, può tradursi in comportamenti non punibili, in quanto del tutto innocui, rectius, di particolare tenuità e quindi inoffensivi. In altri termini, una volta entrato nell’apparato concettuale del diritto tributario punitivo quello penalistico della “tenuità dell’offesa”, della “venialitá” del comportamento e del “lieve inadempimento”, spetterà all’Amministrazione finanziaria (nell’esercizio dei propri poteri autoritativi) ed ai giudici fare un corretto uso di tali fondamentali strumenti ermeneutici trattandosi, come detto, di tipiche ipotesi di clausole generali da riempire di contenuto. È vero, come si è osservato in dottrina, che tale approccio “rischia di dilatare eccessivamente il potere discrezionale di funzionari e giudici e, al tempo stesso di deresponsabilizzare il legislatore” (133): tuttavia, è altrettanto vero

(131) La tematica della non punibilità delle violazioni formali, come è noto, è stata oggetto di approfonditi studi in dottrina, già prima dell’introduzione dell’art. 10 della Legge 27 luglio 2000, n. 212 (d’ora innanzi, lo Statuto) e dell’art. 6, comma 5 bis, D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. Cfr, in particolare, D. Coppa - S. Sammartino, voce Sanzioni tributarie, in Enc. Giur., 1989, 448; L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, op. cit., 38 ss., nonché 408; A. Giovannini, Sui principi del nuovo sistema sanzionatorio non penale in materia tributaria, in Dir. e prat. trib., 1997, I, 1996. e l’ampia bibliografia citata dagli autori. (132) Sembra porsi in tale prospettiva anche R. Miceli, Violazioni meramente formali, op. cit., 595, la quale afferma che “si ritiene che non vi siano violazioni oggi divenute di per sé formali, in quanto è solo l’applicazione in concreto del principio di offensività a dotare una violazione di tale qualità”. (133) G. Melis, Gli interessi tutelati, op. cit. Osserva, altresì, autorevole dottrina che “viviamo in una fase storica nella quale il ruolo del giudice e del diritto giurisprudenziale è andato acquistando uno spazio crescente rispetto alla legislazione scritta anche nell’ambito


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che il sistema tributario è ormai abituato ad una ingerenza sempre più massiccia di giurisprudenza e prassi in sede di creazione (e non di mera applicazione) del diritto (134) e che tale fenomeno pare inarrestabile: volendo usare le parole di autorevole dottrina, “viviamo nell’età della giurisdizione. Ciò vale anche in relazione al diritto penale” (135), pur con sfumature necessariamente diverse ed eterogenee (136).

del diritto penale…ciò altera, in qualche modo e misura, la fisionomia del diritto penale corrispondente alla tradizionale visione “legicentrica”, ideologicamente avversa ad un forte ruolo conformativo della giurisdizione e alla de-formalizzazione che la concretizzazione giurisprudenziale delle fattispecie incriminatrici produce come effetto inevitabile (si pensi, ad esempio, ai giudizi di “offensività in concreto”). Fiandaca, Sulla giurisprudenza costituzionale in materia penale, op. cit., 14 (134) Sul vd. ancora F. Montanari, Diritto giurisprudenziale, contrasto ai comportamenti abusivi e certezza nei rapporti tributari op. cit., 211. Spunti interessanti, con riferimento al sostanzialismo della CEDU in A. Giovannini, La Corte EDU ribadisce il divieto di doppia sanzione e la Cassazione rinvia alla Consulta, in Corr. Trib., 2015, 905. Per ampie e colte considerazioni di teoria generale vd., da ultimo, gli autorevoli contributi di N. Lipari, Dottrina e giurisprudenza quali fonti integrate del diritto, in Riv. trim. dir. proc. Civ., 2016, I, 1153; Castronovo, L’aporia tra ius dicere e ius facere, in Europa e dir. Priv., 2016, 981. (135) B. Pastore, Interpretare, giudicare, controllare. Diritto penale giurisprudenziale e metodologia giuridica, in Arsinterpretandi, 2016, 61.In tale ambito è stato autorevolmente sottolineato che “non rimane che affidarsi all’etica del limite, all’assunzione di un abito mentale che renda il giudice penale guardingo nei confronti di ogni operazione interpretativa che abbia il tono dell’azzardo, dell’esorbitanza, dell’eccesso quando si tratta di estendere l’area del penalmente rilevante. La responsabilità del giudice è quella del limite. F.C. Palazzo, Interpretazione penalistica e armonizzazione europea, op. cit., 87-88. Su tale tematica vd. anche il fondamentale contributo di M. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale. Dalla dogmatica classica alla alla giurisprudenza-fonte, Padova, 2011. Per un approccio fortemente critico a tale tematica vd., da ultimo, l’altrettanto autorevole contributo di L. Ferrajoli, Contro il creazionismo giurisprudenziale. Una proposta di revisione dell’approccio ermeneutico alla legalità penale, in Arsinterpretandi, 2016, 23. Sul profilo della legalità, con esclusivo riferimento alle sanzioni amministrative vd., da ultimo, L. Del Federico, Il principio di legalità, in Aa.V.v., Diritto sanzionatorio amministrativo, op. cit., 1421. Per ampi riferimenti alla legalità penale, in rapporto alla interpretazione ed alle fonti europee vd., da ultimo, F.C. Palazzo, Principio di legalità e giustizia penale, in Cass. Pen., 2016, 2695. (136) In particolare, vd., da ultimo, L. Eusebi, L’insostenibile leggerezza del testo: la responsabilità perduta della progettazione politica-criminale, in Riv. it. dir. e proc. pen, 2016, 1668; S. Bartoli, Legge penale e giudice: un vecchio rapporto alla ricerca di un nuovo equilibrio, in Cass. pen., 2014, 403; V. Manes, Prometeo alla Consulta: una lettura dei limiti costituzionali all’equiparazione tra “diritto giurisprudenziale” e “legge” in Giur. Cost., 2012, 3474. Per un’ampia e sistematica ricostruzione vd., in particolare, A. Cadoppi, Il valore del precedente nel diritto penale. Uno studio sulla dimensione in action della legalità, 2ª ed., Torino, 2007. Per interessanti considerazioni circa il ruolo delle “fonti non vincolanti” vd., per tutti, A. Bernardi, Sui rapporti tra diritto penale e soft law, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2011, 536.


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D’altro canto, esclusi i casi in cui il legislatore ha optato per decriminalizzare (137), ab origine, una determinata condotta astrattamente sanzionabile, vi sarà sempre (anzi, vi deve essere) un giudizio tecnico e di valore posto in essere dal Giudice (138) – e, prima ancora, dall’ente che irroga la sanzione – anche solamente per stabilire il quantum della pena (139). In altri termini, saranno sempre i Giudici e gli Uffici a dover riempire di contenuto tali concetti indeterminati: ovviamente, le scelte degli uni e degli altri potranno (e dovranno) esser sindacate proprio in ragione del principio di offensività-proporzione, anche sul piano della motivazione (140) e della argomentazione. A ciò consegue che anche i provvedimenti impositivi dovrebbero essere adeguatamente motivati con riferimento ai diversi profili sanzionatori, soprattutto alla luce delle diverse clausole generali connesse, sia alla quantificazione/riduzione del carico punitivo, sia alla eventuale applicazione delle esimenti previste dal D.lgs. 472/1997 e dallo Statuto. 7. 7. Segue: evoluzione normativa e casistica. – L’evoluzione normativa degli ultimi anni mostra, anch’essa, una valorizzazione di tali principi ed uno dei pregi del più volte citato D. Lgs 158/2015, pur con tutti i limiti che lo caratterizzano – soprattutto, in termini di “mancanza di coraggio” – è stata proprio quella di enfatizzare il disvalore dei comportamenti. La casistica applicativa (141) è assolutamente significativa, e, mentre in taluni casi il legislatore è intervenuto proprio per mitigare talune clamorose (ed ingiustificate) rigidità della Suprema Corte (o, comunque, per tentare di sanare iniquità del sistema), in altri è stata la stessa giurisprudenza a mettere

(137) Il riferimento non è solamente alle condotte totalmente escluse da sanzione ma anche a tutti quei casi in cui sono previste sanzioni fisse. Per approfondimenti vd. L. Del Federico - F. Montanari, Decriminalization of tax law by administrative penalties on tax duties, op. cit., 108 ss. (138) Per ampi spunti relativi al diritto penale comune vd., F. Basile, L’enorme potere delle circostanze sul reato. L’enorme potere dei giudici sulle circostanze, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 1743 e per considerazioni sistematiche M. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale, op. cit., 81 ss. (139) Sulla caduta di molti “dogmi” anche in materia penale vd. R. Bartoli, Lettera, precedente, scopo. Tre paradigmi interpretativi a confronto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 1759. (140) Valorizza l’obbligo di motivazione, soprattutto in punto di quantificazione, L. Del Federico, Abuso e sanzioni, op. cit., 183. (141) Sulla quale, per un’ampia disamina vd. F. Montanari, La violazione di obblighi formali, op. cit. 1748 3 ss.


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ordine e, sostanzialmente, a riempire di contenuto, alcune fattispecie sanzionatorie. Appare paradigmatico il caso dell’errata imputazione a periodo delle componenti reddituali (142), recentemente (ed opportunamente) regolamentato dal legislatore mediante la codificazione di un’autonoma fattispecie di “infedeltà dichiarativa”. L’art. 1, comma IV, D. Lgs. 471/1997, in seguito alle modifiche apportate dal D. Lgs. 158/2015, infatti, ha, sostanzialmente, decriminalizzato la condotta di infedele dichiarazione quando “l’infedeltà è conseguenza di un errore sull’imputazione temporale di elementi positivi o negativi di reddito, purché il componente positivo abbia già concorso alla determinazione del reddito nell’annualità in cui interviene l’attività di accertamento o in una precedente” (143) ed in assenza di danno erariale. È evidente che l’auspicata modifica normativa è improntata al canone della offensività-proporzione sul piano degli effetti, in quanto il comportamento del contribuente non lede alcun interesse erariale (sostanziale o procedurale). Appare, ancora, emblematica della valenza applicativa del principio di offensività-proporzione il novellato art. 5, comma V, D. Lgs 471/1997 in materia di Iva laddove è oggi previsto che “chi chiede a rimborso l’eccedenza detraibile risultante dalla dichiarazione in assenza dei presupposti individuati dall’articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, è punito con la sanzione amministrativa pari al trenta per cento del credito rimborsato”. Tali disposizioni, oltre a ridurre la sanzione irrogabile, circoscrivono,

(142) Sul punto vd., in particolare, M. Beghin, L’azione di rimborso tutela il contribuente in caso di errata imputazione a periodo dei costi, in Corr. Trib., 2008, 1383; E. Marello, Rettifiche a seguito di errata imputazione a periodo: la ricerca di un rimedio alla doppia imposizione, in Rass. Trib., 2009, 209; M. Ingrosso, Credito d’imposta da indebito ed errata imputazione a periodo, in Rass. Trib., 2011, 577; D. Stevanato, Non punibilità di errate imputazioni a periodo che si traducono in violazioni meramente formali, in Dialoghi dir. trib., 2011, n. 5; Id, La non punibilità delle violazioni “meramente formali” nello statuto, in Aa.V.v., Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente. Studi in onore del prof. Gianni G. Marongiu, a cura di A. Bodrito - A. Contrino - A. Marcheselli), op. cit., 533. (143) È, infatti, noto che, nella vigenza della precedente normativa se, da un lato, secondo l’orientamento della Suprema Corte, la erronea imputazione a periodo poteva legittimare il rimborso del tributo, dall’altro, ad avviso dell’Agenzia delle Entrate tale comportamento dava, comunque, luogo all’applicazione delle ordinarie sanzioni per infedele dichiarazione.


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chiaramente, l’area dell’illecito disponendo che la condotta punibile è quella che, in concreto, ha determinato l’effettiva erogazione del rimborso non spettante: al contrario, nella precedente disciplina veniva punito chi “in difformità della dichiarazione” chiedeva “un rimborso non dovuto o in misura eccedente il dovuto” (144). In altri termini, anche qui la scelta del legislatore è stata netta nel senso di punire solamente comportamenti concretamente connotati da un rilevante grado di offensività, che si sostanziano in un effettivo rimborso (145). È, per concludere, di notevole interesse il caso del ritardo nella registrazione delle fatture che, secondo un giudizio ex post, non abbia influito sulla liquidazione periodica (che pare, evidentemente, l’interesse tutelato in via prioritaria). Il legislatore, infatti, ha preso posizione, in modo netto ed inequivocabile, modificando l’art. 6, comma I, D. Lgs. 471 il quale dispone oggi, espressamente, che nei casi di ritardata annotazione delle fatture, “la sanzione è dovuta nella misura da euro 250 a euro 2.000 quando la violazione non ha inciso sulla corretta liquidazione del tributo”, confermando una netta inversione di tendenza nel senso della proporzionalità (146) e della decriminalizzazione di condotte inoffensive. Il D. Lgs. 158/2015 sembra, dunque, avere, definitivamente, risolto il criticabile (e criticato) orientamento della Suprema Corte secondo il quale, nonostante la insussistenza di alcun danno erariale, la tardiva annotazione

(144) Osserva R. Cordeiro Guerra, Le sanzioni, in Aa.V.v., Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, tomo IV, op. cit., 767, che tale norma “disciplina una nuova figura di illecito: l’indebita richiesta di rimborso presentata al di fuori della dichiarazione, ovverosia la richiesta, in difformità della dichiarazione, di un rimborso non dovuto”. (145) In realtà, si sarebbe potuti giungere a conclusioni analoghe già sulla base dell’art. 10 dello Statuto (e del generale canone della offensività-proporzione in chiave interpretativa) in quanto, nel caso di mancata erogazione del rimborso, secondo un giudizio ex post, una violazione marcatamente di natura sostanziale si sarebbe potuta “tradurre” in un comportamento privo di offensività. La modifica normativa è parsa, tuttavia, quanto mai opportuna in quanto, in precedenza, l’orientamento della Suprema Corte era eccessivamente rigoroso e la punibilità del contribuente era subordinata alla mera (ed astratta) richiesta di rimborso. In tal senso, da ultimo, Cass. 5 agosto 2016, n. 16422. (146) Tale norma appare quanto mai opportuna in quanto, anche recentemente, la Suprema Corte ha stabilito che in caso di mancata trascrizione nel registro cartaceo dei dati relativi alle fatture di acquisto di beni e servizi inerenti, annotati su supporti informatici, la dichiarazione annuale IVA, in cui i corrispondenti importi siano stati portati in detrazione, in quanto non conforme ai dati annotati sul registro stesso deve essere considerata infedele. Cass. 22188/2015, cit.


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delle fatture costituirebbe, sempre e comunque, un comportamento punibile “in quanto tale”, posto che “nessuna deroga all’obbligo di annotazione delle fatture emesse è desumibile dal complesso normativo” (147). 8. Note conclusive. – Le considerazioni che precedono mostrano un’ormai imprescindibile interdipendenza tra singole questioni teoriche e praticoapplicative, apparentemente slegate tra loro ma che, in realtà, coinvolgono l’ordinamento nel suo complesso ed in cui i singoli aspetti devono essere indagati in termini unitari. Il diritto tributario punitivo viene, invece, spesso analizzato in modo autonomo ed avulso rispetto ai principi generali dell’azione amministrativa e della funzione impositiva (148). Oggi, tuttavia, è necessario un cambio di prospettiva radicale e proprio il principio di offensività – proporzione può assumere una sorta di “valenza biunivoca” quale chiave di lettura in un contesto apparentemente diverso rispetto a quello della tutela penale. Detto principio sembra, infatti, assumere un ruolo fondamentale come criterio guida per costruire un modello dell’illecito tributario improntato sulla cosiddetta amministrazione di risultato (149), anch’essa espressione di un imperante utilitarismo ed efficientismo ormai di rango costituzionale. In altri termini, rigore punitivo, economicità dell’azione

(147) Cass. 25 giugno 2014, n. 3267, la quale ha stabilito che la tardiva fatturazione degli anticipi ricevuti dai clienti – avvenuta, nella fattispecie concreta, contestualmente alla fatturazione del saldo – pur non comportando alcuna sottrazione di materia imponibile, non può dirsi attratta nel novero delle violazioni meramente formali. Sul punto vd., in particolare, il commento di A. Giovannini - L. Trombella, Violazioni formali e omessa annotazione delle dichiarazioni d’intento Iva, op. cit. 124 ss.). (148) Autorevole dottrina, già un decennio fa, enfatizzando l’unitarietà dell’ordinamento, evidenziava che “i tempi sono oggi maturi per una teoria giuridica unitaria delle manifestazioni dell’autorità, costruire la quale potrebbe rivelarsi nel prossimo futuro uno dei compiti principali di una nuova (com’è chiaro, non soltanto in senso anagrafico) generazione di giuspubblicisti. Romano Tassone, Analisi economica del diritto ed amministrazione di risultatoœ, in Dir. Amm., 2007, 75. (149) Sul punto, in particolare, L. Del Federico, L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva: verso l’amministrazione di risultato, in Riv. trim. dir. trib., I, 2013, 853. Per una ricostruzione sistematica vd., tra gli altri, G. Pastori, Attività amministrativa e tutela giurisdizionale nella legge n. 241/1990 riformata, in Aa.V.v., Le riforme della l. 7 agosto 1990, n. 241 tra garanzia della legalità ed amministrazione di risultato, a cura di L.R. Perfetti, Padova, 2008, 6. Su tali profili vd. anche il significativo contributo di S. Civitarese Matteucci, La forma presa sul serio. Formalismo pratico, azione amministrativa ed illegalità utile, Torino, 2006 (in particolare il capitolo IV).


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amministrativa e tutela del contribuente devono convivere ed occorre ricercare un complesso “punto di equilibrio” (vd. retro § II – III – IV). Nel momento in cui gli interessi primari dell’ordinamento non sono più solamente quello alla riscossione ed alla giusta contribuzione – essendo posti, questi ultimi, sul medesimo piano (o, forse, nel solco intrapreso dalla giurisprudenza costituzionale ed amministrativa, anche in posizione subordinata) rispetto all’equilibrio dei bilanci e dell’efficacia economica dell’azione amministrativa – anche il diritto tributario punitivo deve rispondere alle medesime logiche: ciò soprattutto alla luce di un innegabile fallimento dell’attuale “modello della deterrenza” il quale non è in grado di arginare il continuo aumento di erosione della base imponibile e di evasione da riscossione (vd. retro § IV). Conseguentemente, le garanzie e le tutele – in termini di bilanciamento di valori – devono cedere il passo al rigore o, quanto meno, a modelli sanzionatori in cui assume un ruolo preponderante la precauzione ed in cui viene enfatizzata la cooperazione necessaria del contribuente con l’Amministrazione finanziaria (vd. retro § IV e V). Naturalmente, occorre coerenza ed una visione del sistema “a tutto tondo” (150): quindi, i medesimi principi utilitaristici ed efficientistici, incentrati sull’economicità dell’azione amministrativa, impongono la non punibilità di condotte del contribuente inoffensive (151) (vd. § VI e VII). Sul piano applicativo ed interpretativo, infatti, l’idea centrale è che, così come non può essere sanzionato l’agere dell’Amministrazione finanziaria, solo astrattamente e formalmente illegittima – ma che, nella sostanza e in concreto, non ha arrecato alcun nocumento al contribuente – allo stesso modo quest’ultimo non può essere rimproverato per una condotta che non ha in alcun modo pregiudicato l’interesse fiscale (inteso in senso ampio) (vd. retro § III). Emerge, dunque, una perfetta simmetria con la tematica del depotenziamento dei vizi formali del procedimento (e dei provvedimenti): solamente in

(150) Enfatizza e valorizza una indagine complessiva dell’ordinamento ed il rapporto tra sanzioni ed accertamento M. Basilavecchia, Funzione di accertamento tributario e funzione repressiva: i nuovi equilibri (dalla strumentalità alla sussidiarietà), in Dir. prat. Trib., 2005, I, 3 il quale auspica un equlibrio tra le due funzioni. (151) Come si è osservato, infatti, “la non punibilità delle violazioni meramente formali esprime il principio di proporzionalità ed, al tempo stesso, spinge verso la revisione in ottica sostanzialistica, della disciplina e della gestione dei rapporti tributari”. L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, op. cit., 288.


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tale prospettiva sembra possibile giungere ad un sistema uniforme (152) (e meno caotico anche sul piano degli adempimenti) in quanto fondato su solidi principi e sul bilanciamento tra i valori fondamentali dell’ordinamento (153) tra i quali, oggi, occorre certamente menzionare anche l’equilibrio di bilancio e l’efficienza economica della attività della pubblica amministrazione (vd. retro § III – IV). Gli spunti che giungono in tal senso dalla giurisprudenza sembrano inequivocabili e viene, peraltro, talvolta richiamata proprio la “offensività” quale parametro per valutare la legittimità o meno dell’azione impositiva e, conseguentemente, la validità/invalidità dei provvedimenti. È, in tal senso, particolarmente significativo – al di là che se ne condivida o meno il contenuto – l’orientamento delle Sezioni Unite (154) relativo all’art. 12, comma VII, dello Statuto (155). La Corte, infatti, ha sancito l’invalidità degli atti gravati da vizi caratterizzati da una “non lieve offensività” degli interessi del contribuente: solamente in ragione di una valutazione ex post è possibile verificare se debba prevalere l’interesse fiscale sulle garanzie statutarie (e sia, quindi, legittimata l’urgenza nella emissione dell’avviso di accertamento). Si pensi, ancora, alla teorizzazione, sempre da parte delle Sezioni Uni-

(152) Su tali tematiche è ancora oggi di estrema attualità il pensiero di F. Bosello, La certezza nei rapporti tributari, in Sociologia del diritto, 1990, 40 ss., Id, La fiscalità fra crisi del sistema e crisi del diritto, in Riv. dir. Trib., 1998, I, 1083. Per un’ampia trattazione sistematica ed, in particolare, per una disamina dei vari orientamenti dottrinali vd. M. Logozzo, L’ignoranza della legge tributaria, Milano, 2002, 43 ss. (153) Sul punto vd., da ultimo, A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 4 ss. Su tali profili, anche in chiave europea, vd., da ultimo, l’approfondita ricostruzione di L.R. Perfetti, Per una teoria delle clausole generali in relazione all’esercizio dei pubblici poteri: il problema dell’equità, in Giur. it., 2012, 1213, nonché Id., Discrezionalità amministrativa, clausole generali e ordine giuridico della società in Dir. amm., 2013, 309 e F. Merusi, La legalità amministrativa, Bologna, 2012, 88 ss. Sulla proporzionalità come criterio di bilanciamento nel diritto amministrativo vd., da ultimo, F. Trimarchi banfi, Canone di proporzione e test di proporzionalità nel diritto amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, 361. (154) SS. UU. 29 luglio 2013, n. 18184 sulla quale vd. i commenti di F. Tesauro, In tema di invalidità dei provvedimenti impositivi e di avviso di accertamento notificato ante tempus, in Rass. Trib., 2013, 1137; G. Tabet, Spunti controcorrente sulla invalidità degli accertamenti «ante tempus», in Gt Riv. giur. trib., 2013, 843. (155) Sul punto vd., in particolare, G. Ragucci, Le garanzie del contribuente sottoposto a verifiche, in Aa.V.v., Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente. Studi in onore del prof. Gianni G. Marongiu, op. cit., 342 ss.; Id, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, 231 ss. e l’ampia bibliografia citata dall’autore. Per taluni ulteriori approfondimenti vd. anche F. Pistolesi, Le «invalidità» degli atti impositivi in difetto di previsione normativa, in Riv. dir. trib., 2012, I, 1131.


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te (156) del “contraddittorio dagli effetti utili”, secondo cui, in estrema sintesi, il vizio del procedimento (cioè, la emissione dell’atto senza avere “dato voce” alle ragioni del destinatario del medesimo) si traduce in una invalidità del provvedimento solamente se tale mancanza ha posto in “concreto pericolo” le ragioni del contribuente. In ultima analisi, è altrettanto, rilevante l’orientamento della Suprema Corte in tema di liquidazione della dichiarazione ex art. 36 – bis, D. P. R. 600/1973 ove il Collegio ha ritenuto che la mancata comunicazione dell’esito della procedura al contribuente, prima della notificazione della cartella di pagamento, può inficiare la validità dell’iscrizione a ruolo “soltanto qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione” (157). Anche qui emerge, con forza, la ricerca di un bilanciamento (158), in termini di proporzionalità (159), tra rilevanza dei vizi formali della sequenza procedimentale (il mancato invio dell’avviso bonario) ed il diritto del contribuente al contraddittorio preventivo: l’iscrizione a ruolo non preceduta dalla comunicazione di irregolarità è illegittima solamente se, secondo un giudizio ex post, tale atto avrebbe potuto avere un contenuto diverso in assenza di detto vizio (160).

(156) SS. UU. 9 dicembre 2015 n. 24823 in Dir. prat. Trib., 2016, II, 719 con nota di Lovisolo, Sulla c.d. utilità del previo contraddittorio endoprocedimentale. Su tali profili vd. anche, da ultimo, E.A. La Scala, L’effettiva applicazione del principio del contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario tra svolte, ripensamenti e attese, in Riv. dir. fin. Sc. fin., 2015, I, 394. (157) Cass. civ., sez. trib 25 maggio 2012, n. 8342. Sul punto ampi riferimenti in L. Del Federico, F. Montanari, voce Liquidazione del tributo, in Treccani – Diritto On Line, 2014. (158) In tale prospettiva vd., in particolare, L. Del Federico, L’evoluzione del procedimento…, op. cit., 856. Sulle diverse concezioni del principio di proporzionalità nel diritto amministrativo vd., in particolare, A. Cognetti, Legge, amministrazione, giudice: potere amministrativo fra storia e attualità, Torino, 2014. (159) Sulla importanza della proporzionalità nel procedimento vd., da ultimo, F. Amatucci, L’autonomia procedimentale tributaria nazionale ed il rispetto del principio europeo del contraddittorio, in Riv. trim. dir. trib., 2016, I, 257. (160) Il ché, certamente, si pone perfettamente in linea con l’impostazione di fondo della novella del 2005 che ha introdotto l’art. 21, comma 8-octies nel corpo della legge 241/1990, considerato una delle massime espressioni dell’amministrazione di risultato. Su tali profili vd. anche l’approfondita analisi di E. Marello, I fondamenti sistematici del sistema duale nullitàannullabilità, in Riv. dir. fin. Sc. fin., 2014, I, 328, nonché, da ultimo, Randazzo, La questione della applicabilità agli atti impositivi della sanatoria dei vizi formali (art. 21-octies, comma 2, legge 241 del 1990), in Atti del convegno Per un nuovo ordinamento tributario, Genova, 14-15 ottobre 2016, vol. II, 733. Per considerazioni di teoria generale vd. l’approfondito contributo di S. Civitarese Matteucci, La validità degli atti giuridici tra teoria e dogmatica. Alcune riflessioni a partire da due libri recenti, in Dir. Pubb., 2015, 227.


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In conclusione, anche alla luce delle recenti modifiche normative attuative della Legge delega (vd. retro § V e VII), i passi avanti compiuti sono, certamente, rilevanti ed il legislatore ha imboccato la strada corretta. Il vero “salto di qualità”, tuttavia, sarebbe stato forse quello di prevedere, in via generalizzata, la non punibilità delle condotte che si sostanziano in un lieve inadempimento non limitando, dunque, l’operatività di detto istituto all’ambito “angusto” in cui è stato inserito, analogamente a quanto è stato fatto da parte del legislatore penale con l’introduzione dell’art. 131 – bis, c.p. (vd. retro, § VI). È pur vero che si potrebbe giungere a risultati analoghi in via interpretativa ma, in mancanza di apposite disposizioni aumenta, esponenzialmente (161), il rischio di derive autoritarie della giurisprudenza nella logica della bieca ragion fiscale. Il pericolo è, infatti, quanto mai attuale e da non sottovalutare e non dovrebbero essere più tollerati orientamenti, come quello recentemente espresso dalla Suprema Corte (162), secondo cui il pagamento del tributo con tre giorni di ritardo è sempre punibile con la sanzione nella misura del 30% ai sensi dell’art. 13, D. Lgs. 472/1997.

Francesco Montanari

(161) Sul fatto che la presenza della legge rafforzi anche il diritto vd., da ultimo, lo straordinario contributo di F. Schauer, The force of law, Harvard, 2015. (162) Cass. 27 febbraio 2017, n. 4960.


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Interposizione, simulazione soggettiva e reato di dichiarazione fraudolenta Sommario: 1. La previsione di legge ed i dubbi circa il suo ambito applicativo. – 2. (segue) la posizione della Suprema Corte. – 3. L’elusione mediante interposizione: conseguenze sul piano sanzionatorio. – 4. La riforma del 2015 sul duplice fronte tributario e penale. – 5. Conseguenze in ordine all’ambito applicativo dell’art. 37, comma 3, d.p.r. 600/73. – 6. (segue) e in ordine al possibile rilievo penale dei fenomeni di interposizione soggettiva. L’Amministrazione finanziaria disconosce gli effetti fiscali dell’interposizione soggettiva, imputando all’effettivo possessore i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti. L’interposizione cui si riferisce la norma istitutiva del relativo potere è quella fittizia, che genera evasione fiscale potenzialmente rilevante sul piano penale, laddove ricorrano i presupposti di legge. I possibili effetti elusivi dell’interposizione reale possono invece essere disconosciuti in forza della clausola antielusiva statutaria, ed in nessun caso l’abusivo risparmio di imposta che ne deriva può essere penalmente sanzionato. It is grant to Tax Administration the power of denying tax consequences of subjective interposition, by attributing income to real holder, despite of the appearance. Law disposition providing this power refers to subjective simulation, generating tax evasion and possibly a criminal offence. On the contrary, tax consequences of agency could be denied by applying the general clause against tax avoidance, and no criminal punishment can be applied.

1. La previsione di legge ed i dubbi circa il suo ambito applicativo. – Il D.p.r. n. 600/73, in materia di accertamento delle imposte reddituali, al suo art. 37, comma 3, conferisce all’Amministrazione finanziaria il potere di imputare al contribuente sottoposto a controllo “i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti”, purché sia fornita la dimostrazione “anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti” che egli “ne è l’effettivo possessore per interposta persona”. Tale potere è esercitabile tanto in sede di rettifica, quanto nel caso di accertamento d’ufficio. La disposizione di cui si discorre sancisce quindi, in via di principio, la irrilevanza fiscale dell’interposizione.


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Sin dalla sua introduzione (1), essa ha dato luogo, occorre dire, a dubbi interpretativi, essenzialmente riconducibili a due questioni, tra loro parzialmente connesse. L’una afferisce alla natura fittizia o reale dell’interposizione i cui effetti, ricorrendone i presupposti, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a disconoscere sul piano tributario in base al suo disposto; l’altra alla riconducibilità delle condotte interessate dalla stessa previsione legislativa al fenomeno dell’evasione ovvero dell’elusione fiscale (2). Ai fini di una ordinata e proficua disamina delle due questioni, si ritiene occorra preliminarmente osservare quanto segue. È pacifico che si ha interposizione fittizia in presenza di una simulazione soggettiva (3). Come è noto, tale fenomeno non è oggetto di definizione da parte del legislatore, che si limita a disciplinarne gli effetti, in particolare tra le parti, all’art. 1414 c.c.; la dottrina, nell’intento di sopperire a tale carenza, è pervenuta ad individuare gli elementi caratterizzanti la simulazione, in particolare relativa, in maniera variegata (4). Ai fini che qui rilevano, può sintetizzarsi osservando che si ha simulazione soggettiva allorché un soggetto – l’interposto – figuri soltanto come parte del negozio, mentre gli effetti di quest’ultimo si producono direttamente nei confronti di un diverso soggetto – l’interponente – che pure vi rimane formalmente estraneo. L’interposto fittizio ed il terzo contraente – il quale è consapevole dell’interposizione, la accetta e vi aderisce – creano dunque la parvenza esteriore di un contratto che, sotto il profilo soggettivo, è diverso da quello voluto: la comune volontà è infatti che i suoi effetti si producano non in capo al con-

(1) Avvenuta ad opera dell’art. 30, d.l. n. 69 del 1989, convertito dalla legge n. 154 dello stesso anno. (2) All’indomani dell’approvazione della norma osservava F. Gallo, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusive, in Dir. Prat. Trib., I, 1992, 1761, come fosse da porre in dubbio “la natura propriamente antielusiva” della norma concernente l’interposizione di persona. Ciò per quanto, come si preciserà, come tale essa fosse stata presentata dallo stesso legislatore. (3) Così, ex multis, C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1997, 657, P. Casella, Simulazione (dir. priv.), in Enc. Dir., Milano, 1990, 604, e R. Sacco, Simulazione I (diritto civile), in Enc. Giur., XXVIII, Roma, 1992, che precisano trattarsi di ipotesi di simulazione relativa; A. Gentili, Simulazione dei negozi giuridici (voce), in Dig. Civ., IV, Torino, 1999, per il quale “si ha simulazione soggettiva nei casi di interposizione fittizia, in cui risulta ai terzi esser parte del rapporto persona diversa da quella che assume gli stessi diritti o doveri nel rapporto fra le parti”; A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, XXII ed., 2017, 609; P. Zatti - V. Colussi, Lineamenti di diritto privato, Padova, 2015, 475. (4) Per un excursus sulle differenti posizioni dottrinarie v. A. Gentili, op.cit.


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traente formale o apparente, ossia all’interposto, ma in capo all’interponente (5). In tale contesto, secondo alcuni, fondamentale è però la sussistenza della cosiddetta controdichiarazione: il negozio simulato è inoperante tra le sue parti apparenti, non in ragione di una “generica” assenza della volontà e degli effetti, ma perché l’esclusione degli effetti è prevista è regolata nella controdichiarazione (6). Ciò che, occorre dire, facilita le cose dal punto di vista pratico, non essendo sempre agevole verificare, dall’esterno ed ex post, la volontà delle parti. Ora, in simili circostanze, dal punto di vista tributario, si ritiene ci si trovi al cospetto di una vera e propria evasione fiscale: il perfezionamento di una simulazione, quale appena descritta, determina infatti un autentico occultamento di materia imponibile, quanto meno sotto il profilo soggettivo, nella misura in cui essa viene imputata ad un soggetto diverso da quello cui dovrebbe essere ascritta (7). Differente è il caso di interposizione reale, o rappresentanza indiretta (8). Tale fenomeno si verifica infatti allorché un soggetto agisca nell’interesse altrui, ponendo in essere un negozio effettivo e voluto dalle sue parti, e i cui effetti si producono in capo all’agente, ossia all’interposto reale; quest’ultimo poi, in conformità agli accordi già intercorsi con l’interponente, dovrà provvedere al ritrasferimento in suo favore dei medesimi effetti (9).

(5) Cfr. F. Galgano, Diritto civile e commerciale, II, Le obbligazioni e i contratti, tomo I, Obbligazioni in generale. Contratti in generale, IV ed., Padova, 2004, 341 ss., per il quale “c’è simulazione quando i contraenti creano, con la propria dichiarazione, solo le parvenze esteriori di un contratto, del quale non vogliono gli effetti, oppure creano le parvenze esteriori di un contratto diverso da quello da essi voluto” e, in tale contesto, la simulazione soggettiva, o interposizione fittizia di persona, “è una particolare specie di simulazione relativa, che investe la identità di una delle parti”. (6) V.R. Sacco, G. Denova, Il contratto, Torino, IV ed., 2016, 631 ss. (7) Sul collegamento tra simulazione ed evasione v. anche R. Lupi, Contratti collegati e interposizione fittizia, in Rass. Trib., 1995, 2065. (8) L’assimilazione tra interposizione reale e rappresentanza indiretta risale a Messineo, Dottrina generale del contratto, III ed., Milano, 1948, 139, ed è stata successivamente ripresa, fra gli altri, da Carresi, Il contratto, in A. Cicu - F. Messineo (dir.), Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 1987, 401, e A. Torrente - P. Schlesinger, Manuale, cit., 533. Secondo una ricostruzione parzialmente differente, l’interposizone reale deve essere ricondotta all’alveo del negozio fiduciario: cfr., ad esempio, C.M. Bianca, op. cit., 674, e P. Zatti - V. Colussi, op. cit., 475, ove si evidenzia come, in caso di interposizione reale, interposto ed interponente possano considerarsi avvinti da un patto di fiducia con effetti obbligatori. (9) In passato, occorre dire, una parte autorevole della dottrina civilistica ha sostenuto la possibilità e financo l’opportunità di superare la distinzione tra interposizione fittizia e


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In tale contesto, occorre dire, sul piano fiscale non pare di potersi propriamente parlare di evasione; piuttosto, al ricorrere dei necessari presupposti, potrà ravvisarsi una ipotesi di elusione (10), a fronte dell’impiego effettivo ma strumentale di istituti e forme giuridiche, posto in essere al solo fine di carpire vantaggi fiscali altrimenti non spettanti (11).

reale, pervenendo ad una definizione unitaria del fenomeno (v., ad esempio, S. Pugliatti, La simulazione dei negozi unilaterali, in Diritto civile. Metodo, teoria, pratica (saggi), Milano, 1951, 561: per una sintesi delle differenti posizioni si rinvia a F. Scardulla, Interposizione di persona, in Enc. Dir., Milano, XXII, 1972). Senza entrare nel merito della discussione condotta in quell’ambito, ci si limita qui a rilevare come, sul piano tributario, per le ragioni che di seguito si cercheranno di illustrare, la distinzione tra le due ipotesi si ritiene debba essere mantenuta, in particolare nell’attuale contesto normativo, perché funzionale a distinguere tra condotte destinate ad essere represse con strumenti e modalità fra loro profondamente differenti. Sul punto si richiamano comunque le considerazioni formulate da L. Perrone, Società immobiliari (dir. trib.), in Riv. Dir. trib., I, 1993, 1018, poco tempo dopo l’introduzione dell’art. 37, comma 3, d.p.r. 600/73, nel nostro ordinamento: secondo l’Autore, il ricorso del legislatore tributario alla nozione di interposizione, proprio in considerazione della distinzione sussistente in ambito civilistico tra fittizia e reale, ha determinato una contrazione – ritenuta inopportuna – dell’ambito applicativo della norma tributaria, inapplicabile alle ipotesi di rappresentanza indiretta (i.e. di interposizione reale), nelle quali l’effettivo possessore di reddito non può che essere il rappresentante interposto. Per una prospettiva parzialmente differente, ma egualmente interessante, secondo la quale la norma tributaria deve essere letta autonomamente, senza condizionamenti imposti dalla distinzione civilistica tra interposizione fittizia e reale, non del tutto adeguata a rispecchiare il riferimento all’effettività del possesso di reddito v. M. Nussi, L’imputazione del reddito tra soggetto interposto ed effettivo possessore: profili procedimentali, in Rass. Trib., 1998, 733 ss. (10) Sul punto v. F. Gallo, Prime, cit., 1763 s., che distingue, da un lato, il ricorso, da parte del contribuente, ad atti simulatori, cui l’Amministrazione può reagire mediante l’impiego degli ordinari strumenti volti a fronteggiare l’evasione fiscale, e, dall’altro, la conclusione di “negozi indiretti”, eventualmente ricadenti, per i loro effetti sul piano tributario, nell’ambito applicativo della normativa antielusiva. (11) Amplissima la letteratura sull’argomento. Per limitarsi solo ai contributi più recenti, e senza alcuna pretesa di completezza, v. M. Beghin, La tassazione differenziale e la non opponibilità al Fisco delle operazioni elusive, in Riv. Dir. Trib., 2016, I, 259; A. Contrino, La trama dei rapporti tra abuso del diritto, evasione fiscale e lecito risparmio d’imposta, in Dir. Prat. Trib., 2016, 1407; G. Corasaniti, Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario, in Dir. Prat. Trib., 2016, I, 465 ss; G. Falsitta, Note critiche intorno al concetto di abuso del diritto nella recentissima codificazione, in Riv. Dir. Trib., 2016, I, 707; V. Ficari, Vizi e virtù della nuova disciplina dell’abuso e dell’elusione tributaria ex art. 10-bis della l. n. 212/2000, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2016, 313; F. Gallo, L’abuso del diritto in materia fiscale nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di cassazione, in Rass. Trib., 2016, 839; Giovannini, L’abuso del diritto tributario, in Dir. Prat. Trib., 2016, 895; G. Melis, Evasione ed elusione fiscale internazionale e finanziamento dei diritti sociali: recenti trends e prospettive, in Rass. trib., 2014, 1283; S. Sammartino, Sanzionabilità dell’elusione fiscale, in Rass. Trib., 2015, 403); M. Versiglioni, Abuso del diritto. Logica e Costituzione, Pisa, 2016.


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Tale distinzione si ritiene dovrebbe consentire di correttamente impostare le due – connesse – questioni interpretative di cui sopra. Due sembrano, infatti, le opzioni ricostruttive possibili. In conformità alla prima, l’interposizione i cui effetti fiscali possono essere disconosciuti dall’Amministrazione, in forza del disposto di cui all’art. 37, comma 3, è – unicamente – quella fittizia (12); tale disposizione, quindi non può essere ascritta tra quelle aventi funzione antielusiva, ma, più propriamente, la sua funzione deve essere assimilata a quella che contraddistingue ogni disposizione finalizzata ad accertare fenomeni di evasione fiscale (13). Al contrario, se l’interposizione che l’Amministrazione finanziaria può disconoscere ex art. 37, comma 3, è – soprattutto – quella reale, allora difficilmente può negarsi che la stessa disposizione sia da annoverare tra le norme espressamente antielusive previste dal nostro ordinamento (14).

(12) In questo senso in dottrina cfr. M. Basilavecchia, L’interposizione soggettiva riguarda anche comportamenti elusivi?, in Corr. Trib., 2011, 2968, il quale, molto chiaramente, afferma, con riguardo alla ratio dell’art. 37, comma 3, che essa non deve essere ricercata nella volontà di contrastare condotte elusive, quanto, più semplicemente, di dotare l’Amministrazione di “uno strumento diretto di autotutela per combattere, anche a mezzo di presunzioni, intestazioni fittizie di cespiti, senza dover ricorrere alla preventiva azione giudiziaria dinnanzi al giudice ordinario”; per una conclusione analoga, che muove tuttavia da presupposti non perfettamente coincidenti, v. A. Di Pietro, Commento all’art. 37, d.p.r. 600/73, in Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di F. Moschetti, II, Padova, 2011, 218, secondo il quale la norma di cui si discute non si applica alla interposizione reale, e “a diversa soluzione si perverrebbe (soltanto) facendo prevalere la ratio dell’art. 37, comma 3”. Circoscrivono nettamente l’applicabilità dell’art. 37, comma 3, alle ipotesi di interposizione fittizia altresì S. Cipollina, Elusione fiscale (voce), in Dig. Comm. (I Agg.), 2007, la quale evidenzia come sia lo stesso lessico normativo a circoscrivere la sfera di applicazione dell’art. 37, 3° co., all’interposizione fittizia, “evocando i concetti e le tecniche procedimentali proprie della simulazione”; V. Ficari, Normalizzazione, elusione ed interposizione: a quando un’«illuminata giurisprudenza»?, in GT – Riv. Giur. Trib., 2009, 63; G. Gaffuri, Diritto tributario, Padova, VII ed., 2012, 204; F. Gallo, Prime, cit., 1768; E. Nuzzo, Simulazione, interposizione e realità dell’usufrutto su titoli azionari privi del diritto di voto, in Rass. Trib., 1997, II, 1366, oltre agli Autori di cui alla nota successiva. (13) Così anche F. Paparella, Possesso di redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000, 297, nonché F. Randazzo, Interposizione fittizia ed elusione alla luce della nuova clausola generale antielusiva, in GT – Riv. Giur. Trib., 2016, 71. (14) Sul punto meritano di essere richiamate in primo luogo le considerazioni di F. Falsitta, Usufrutto di azioni e contratto in maschera, in Riv. Dir. Trib., II, 1995, 1193, secondo cui l’art. 37, comma 3, d.p.r. 600/73, si pone sulla stessa linea concettuale della norma contenuta all’attuale art. 20, d.p.r. n. 131/86, in quanto quest’ultimo “si occupa del profilo oggettivo, e decreta l’ovvia prevalenza degli effetti reali su quelli di facciata” mentre la norma dettata ai fini dell’accertamento reddituale “stabilisce, altrettanto ovviamente, che la titolarità di codesti effetti reali debba parimenti essere ascritta secondo il criterio dell’effettività, non


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Tale premessa logica e metodologica appare invero solida e convincente; ma non si può sottacere che frequenti sono state le deviazioni dallo schema alla stessa sotteso, tanto da parte dello stesso legislatore, quanto, soprattutto, ad opera della giurisprudenza che ha concretamente dato applicazione alla disposizione normativa oggetto del presente contributo. E valga il vero. Per quanto concerne il legislatore, non può che destare perplessità l’affermazione contenuta nella relazione di accompagnamento alla già richiamata legge di conversione del decreto che ha introdotto l’attuale art. 37, comma 3, d.p.r. 600/73. Si afferma testualmente, in tale ambito, che la norma ha “di mira essenzialmente il fenomeno elusivo che si realizza frequentemente attraverso l’interposizione fittizia di un soggetto” (15) (enfasi aggiunta). La

dell’apparenza” Nello stesso senso, più di recente, v. Id., Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”, in Riv. Dir. Trib., I, 2010, 375, ove si afferma che la circoscrizione dell’ambito applicativo della disposizione di cui si discorre alla sola interposizione fittizia sarebbe “logicamente non sostenibile”. Nonostante i limiti lessicali della previsione, infatti, l’estensione interpretativa del suo disposto alle ipotesi di interposizione reale sarebbe imposta dalla ratio legis; tale ricostruzione si inscrive peraltro in una prospettiva più ampia, già fatta propria dall’Autore in precedenza, secondo cui gli effetti prodotti dalla simulazione – e, dunque, della interposizione fittizia – sul piano tributario potrebbero essere di per sé disconosciuti in applicazione dell’art. 6, comma 2, TUIR: v. G. Falsitta, L’interposizione fittizia e il dribbling al Fisco, in Riv. Dir. Trib., II, 1996, 522. Su una posizione equiparabile, per quanto attiene all’ambito applicativo dell’art. 37, comma 3, v., in un primo momento, anche F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, I, parte generale, Torino, 2005, VII ed., 266, in particolare nt. 44, il quale – riprendendo la posizione dell’Amministrazione finanziaria – evidenziava come “la disposizione sarebbe inutile se si limitasse a formalizzare il principio per cui, se vi è un fenomeno di interposizione fittizia, il reddito deve essere tassato in capo al possessore effettivo del reddito, e non a carico di quello apparente”; successivamente l’opinione dell’Autore è mutata e la più idonea norma di contrasto all’interposizione reale è stata dallo stesso individuata nell’art. 37-bis, d.p.r. 600/73, applicabile ratione temporis (F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, I, parte generale, Milanofiori Assago, 2015, XII ed., 232). Nel senso della necessità di considerare l’art. 37, comma 3, quale norma finalizzata a contrastare fenomeni elusivi determinati da ipotesi di interposizione reale v. A. Lovisolo, Il contrasto all’interposizione «gestoria» nelle operazioni effettive e reali, ma prive di valide ragioni economiche, in GT Riv. Giur. Trib., 2011, 10, 869, secondo cui “l’effettivo contenuto normativo dell’art. 37, terzo comma, è diretto a contrastare, non solo (e non tanto) il fenomeno della simulazione soggettiva («interposizione fittizia» in senso stretto), ma anche quello della interposizione «reale», beninteso nelle sole ipotesi in cui l’effettivo acquisto ed operatività dell’interposto si connota per l’assenza di una propria ragione economica, essendo diretti al solo risparmio (o peggio ancora: «raggiro») d’imposta”. (15) Vedi la relazione al disegno di legge S. 1301 “Disposizioni in materia tributaria per ampliare gli imponibili, contenere le elusioni e consentire gli accertamenti parziali in base agli elementi segnalati dall’anagrafe tributaria” (Atto C.3498 del 3 gennaio 1989), reperibile in www.storiacamera.it.


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sovrapposizione tra i due piani che in precedenza si sono voluti distinguere non potrebbe essere più netta: secondo il legislatore l’interposizione è fittizia, ma l’indebito risparmio di imposta che ne deriva è frutto di – mera – elusione delle norme tributarie. A confermare indirettamente tale opzione ricostruttiva – che pure, lo si ripete, non si condivide – vi era poi, sino a qualche tempo addietro, la espressa previsione della facoltà, accordata al contribuente, di rivolgersi dapprima al Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive, e poi, a seguito della sua soppressione, alla Direzione Centrale dell’Agenzia delle Entrate, al fine di chiedere chiarimenti circa la possibilità di vedere applicata alla propria situazione concreta la norma di cui all’art. 37, comma 3, di cui si discorre. Tale circostanza poteva forse far propendere per la sussunzione dell’interposizione fiscalmente irrilevante in forza del suo disposto al fenomeno elusivo; ciò per quanto, ad onor del vero, ai medesimi organi, e facendo ricorso allo stesso strumento, ci si potesse rivolgere anche al fine di chiarire la riconducibilità di determinati costi tra le spese pubblicitarie, ovvero tra quelle di rappresentanza, ossia allo scopo di dissipare eventuali dubbi circa un profilo che non pare comunque poter assumere rilievo sub specie di elusione tributaria (16). 2. (segue) la posizione della Suprema Corte. – La giurisprudenza di legittimità, da parte sua, ha assunto nei riguardi della disposizione legislativa di cui si discorre un orientamento che è andato radicalmente mutando nel corso degli anni. In un primo momento la Suprema Corte, avallando l’orientamento sostanzialmente univoco della giurisprudenza di merito (17), e discostandosi dalla

(16) Ai sensi dell’art. 21, comma 2, l. n. 413/91, oggi soppresso, era infatti possibile indirizzarsi dapprima al Comitato e poi, dal 2008, alla Direzione Centrale, al fine di richiedere pareri in merito alla “applicazione, ai casi concreti rappresentati dal contribuente, delle disposizioni contenute negli articoli 37, comma terzo, e 37 -bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni”, ovvero “ai fini dell’applicazione dell’articolo 74, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, la qualificazione di determinate spese, sostenute dal contribuente, tra quelle di pubblicità e di propaganda ovvero tra quelle di rappresentanza”. (17) Tra le decisioni più celebri, quella resa con riguardo al caso che ha coinvolto il calciatore Diego Armando Maradona (Comm. Trib. II grado di Napoli, 29 giugno 1994, n. 126, in Rass. Trib., 1995, 2043, con nota di R. Lupi, Contratti collegati ed interposizione fittizia).


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posizione assunta dall’Amministrazione finanziaria (18), ne aveva circoscritto in maniera molto netta l’ambito applicativo, limitandolo alle ipotesi di interposizione fittizia. In tale prospettiva, i Giudici di legittimità si erano spinti sino ad affermare che il disconoscimento degli effetti fiscali di condotte differenti, per quanto idonee ad incidere sul profilo soggettivo del rapporto tributario – e, dunque, il disconoscimento, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di ipotesi di interposizione reale – dovesse trovare il proprio fondamento nel ricorso a strumenti diversi e ulteriori – e, dunque, nell’applicazione di norme finalizzate al contrasto all’elusione fiscale (19). Tale orientamento si è mantenuto costante sino alla primavera 2011 (20), allorché, in un contesto radicalmente connotato dalla strenua ricerca, da parte dei Giudici di legittimità, di un appiglio idoneo a reprimere condotte elusive – rectius: abusive – delle disposizioni fiscali sostanziali, la stessa Corte ha

Per ulteriori riferimenti alla giurisprudenza di merito in materia di art. 37, comma 3, v. F. Paparella, Primi punti fermi della Cassazione sull’art. 37, comma 3, del D.p.r. n. 600 del 1973, in Rass. Trib., 2000, in particolare nt. 3. (18) V., in particolare, Se.Ci.T., Relazione in materia di usufrutto su azioni, 6 ottobre 1993, reperibile in Rass. Trib., 1994, 211, e la successiva delibera n. 137/1993. Tale relazione è stata successivamente richiamata nella motivazione di Cass. Civ., sez. trib., 14 novembre 2005, n. 22932, in Dir. Prat. Trib., 2006, 20235, con nota di G. Corasaniti, La nullità dei contratti come strumento di contrasto alle operazioni di dividend washing nella recente giurisprudenza della Suprema Corte. (19) Cass. Civ., 3 aprile 2000, n. 3979, in bancadati fisconline, laddove si afferma che l’art. 37, comma 3, d.p.r. 600/73, “stabilendo l’imputabilità al possessore effettivo dei redditi di cui “appaia” titolare altro soggetto in base ad interposizione di persona, inequivocamente si occupa del caso dell’interposizione fittizia in senso proprio, caratterizzata dalla divaricazione fra situazione esteriore e situazione sostanziale, rispettivamente riferibili all’interposto ed all’interponente, non anche del caso dell’interposizione cosiddetta reale, quale quella accertata dalla sentenza impugnata, ove la forma e la sostanza coincidono, e si può porre soltanto un problema di validità ed efficacia dell’atto negoziale determinativo della variazione soggettiva nella titolarità del bene”. Numerosi i commenti della dottrina a tale decisione (tutti, a quanto consta, in senso adesivo): oltre a F. Paparella, Primi, cit., 1273 ss., v. altresì R. Bardinu, Il “dividend washing” e l’interposizione fittizia all’esame della Corte di Cassazione, in Dir. Prat. Trib., 2000, 1346; S. Dus, Dividend washing, Corte di Cassazione e profili di illegittimità della tesi del Se.C.I.T., in Rass. Trib., 2000, 1267; F. Nuzzo, Il dividend washing tra la cessione temporanea di titoli azionari e dell’usufrutto su azioni, in Rass. Trib., 2000, 921; P. Piccone Ferrarotti, Sull’applicabilità dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 al cosiddetto dividend washing, in Rass. Trib., 2000, 933; G. Zoppini, Annotazioni sul regime fiscale proprio delle operazioni di «dividend washing», in Giur. It., 8-9, 2000. (20) Si veda ancora, sempre nel 2011, Cass. Civ., sez. trib., n. 8671, depositata in data 15 aprile (in bancadati fisconline), che riprende quasi letteralmente l’orientamento espresso nel 2000.


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mutato sensibilmente la propria posizione, pervenendo sostanzialmente ad un completo révirement. Secondo la pronuncia che ha determinato tale inversione, resa a giugno del 2011 (21), in applicazione dell’art. 37, comma 3, possono essere disconosciuti gli effetti fiscali dell’interposizione – anche – reale. Ciò in quanto la stessa disposizione si iscriverebbe a tutti gli effetti nel quadro degli strumenti antielusivi approntati dal nostro legislatore tributario; quadro eventualmente integrabile – secondo il noto e discusso orientamento generale in quegli anni invalso in seno alla Suprema Corte – attraverso il richiamo al generale e fondamentale principio di capacità contributiva (22). 3. L’elusione mediante interposizione: conseguenze sul piano sanzionatorio. – A dispetto delle indicazioni provenienti dal legislatore del 1988, quindi, sino a ieri l’approdo ultimo del diritto vivente (23) in tema di applicazione dell’art. 37, comma 3, d.p.r. 600/73, era nel senso di ritenere – anche – reale

(21) V. Cass. Civ., sez. trib., 10 giugno 2011, n. 12788, in bancadati fisconline e in GT Riv. Giur. Trib., 2011, 10, 869 nota di A. Lovisolo, Il contrasto, cit., il quale, come si è anticipato, concorda con le conclusioni cui è pervenuta la Suprema Corte in tale decisione. (22) Celebri, sul punto, le c.d. sentenze di Natale (Cass. Civ., SS.UU., 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056, 3057, in bancadati fisconline) nelle quali per la prima volta le Sezioni Unite affermarono che i principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione costituiscono il fondamento dell’assunto secondo cui “il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”. Molti i commenti resi in ordine a tali decisioni; v., ex multis, e senza pretesa di esaustività, M. Beghin, L’abuso del diritto tra capacità contributiva e certezza dei rapporti Fisco-contribuente, in Corr. Trib., 2009, 823; G. Corasaniti, Sul generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario, in Dir. Prat. Trib., 2009, 20213; E. De Mita, Giurisprudenza fiscale della Cassazione in materia di abuso di diritto, in Boll. Trib., 2011, 645: L. Lupi - D. Stevanato, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, in Corr. Trib., 2009; 403; G. Marongiu, Abuso del diritto, poteri di accertamento e principio di legalità, in Corr. Trib., 2009, 3631; G. Zizzo, Clausola antielusione e capacità contributiva, in Rass. Trib., 2009, 487. (23) Nell’accezione che di tale locuzione ha accolto la Corte costituzionale, quale consolidata interpretazione giurisprudenziale di una disposizione normativa. Sul punto v., per tutti, M. Cavino, Diritto vivente, in Dig. Disc. Pubbl. (agg.), Torino, 2010, nonché, in passato, V. Zagrebelsky, La dottrina del diritto vivente, in Giur. Cost., 1986, I; per una recente efficace analisi del tema ed una ricognizione della giurisprudenza costituzionale e degli approdi dottrinari sul punto, L. Salvato, Profili del diritto vivente nella giurisprudenza costituzionale, in www.cortecostituzionale.it, 2015.


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l’interposizione disconoscibile in forza di tale previsione, e – in maniera invero coerente – di ascrivere la stessa disposizione tra quelle aventi funzione antielusiva. Dal punto di vista delle conseguenze pratiche dell’adesione a tale opzione ermeneutica, può forse osservarsi quanto segue. Nello scenario da ultimo disegnato dalla giurisprudenza di legittimità, il sistematico riferimento all’interposizione reale, ai suoi effetti elusivi, e agli strumenti disponibili per il loro contrasto, ha finito per distogliere l’attenzione dalle ipotesi di interposizione fittizia, generatrice di vera e propria evasione fiscale, offuscandone quasi, paradossalmente, la concreta possibilità di sussistenza. In taluni significativi casi, infatti, pur al cospetto di fattispecie in cui si sarebbe potuto e dovuto propriamente parlare di simulazioni soggettive, e di condotte, dunque, apertamente contrastanti con l’ordinamento tributario, la Suprema Corte ha invece optato per affrontare la questione attraverso il richiamo all’interposizione reale, e agli effetti abusivi che ne derivano (24). In questa prospettiva, si può osservare, l’evoluzione – o la involuzione – ermeneutica della disposizione recata dal più volte richiamato art. 37, comma 3, pare rispecchiare più in generale la tendenza che ha caratterizzato la giurisprudenza, in particolare di legittimità, tra il 2008 ed il 2014: tale trend si è sostanziato nel ricorso pressoché sistematico al generale divieto di abuso del diritto, al fine di disconoscere le conseguenze tributarie di condotte che, di per sé, avrebbero potuto e dovuto essere oggetto di repressione alla stregua di ordinarie ipotesi di evasione fiscale (25). Le ragioni alla base dell’affermarsi di tale modus operandi, in seno soprattutto alla Cassazione, sono molteplici ed esulano dall’oggetto del presente contributo; tra le meno nobili, forse, vi è la maggior duttilità che, prima dell’introduzione dell’attuale art. 10-bis dello Statuto del contribuente, ca-

(24) V., ad esempio, Cass. Civ., sez. trib., 15 ottobre 2014, n. 21794. Fra i commenti a tale sentenza cfr. M. Beghin, L’interposizione fittizia di persona e l’”evasione elusiva”: spunti per la sistematizzazione della materia, in Corr. Trib., 2014, 3613, il quale, in una prospettiva comparabile a quella qui adottata, rileva come, nell’ambito di tale decisione, indebitamente “L’interposizione fittizia è definitivamente risucchiata nel vortice dell’elusione”. (25) Sul punto v. il contributo, già richiamato, di G. Falsitta, Spunti, cit., il quale opportunamente evidenzia, tra l’altro, come a tale indebita sovrapposizione non sia estraneo neppure il case-law della Corte di Giustizia. Anche i Giudici del Lussemburgo, in effetti, hanno in alcuni casi chiamato in causa il generale divieto di abuso del diritto al fine di disconoscere tutela a comportamenti concretamente fraudolenti e schiettamente evasivi (si veda, ad esempio, la nota sentenza Cadbury Schweppes, 12 settembre 2006, resa per la causa C-196/04).


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ratterizzava l’applicazione del divieto di abuso del diritto di origine pretoria, considerata non solo l’assenza di qualsiasi garanzia procedimentale prevista per la sua applicazione (26), ma addirittura la sua pretesa rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del processo (27). Maggior rilievo assumono invece, in questa sede, le conseguenze che, sul piano sanzionatorio, sono derivate da tale inopportuna espansione dell’ambito applicativo delle misure antielusive, ingiustificatamente esteso a condotte schiettamente evasive. Fatte salve alcune isolate pronunce maggiormente rispettose non solo della matrice penalistica che connota il sistema delle sanzioni tributarie amministrative (28), ma altresì delle indicazioni provenienti sul punto dalla Corte di Giustizia europea (29), è noto che l’orientamento giurisprudenziale interno, ancor prima dell’approvazione della clausola statutaria, si è consolidato nel senso di ritenere le stesse sanzioni applicabili anche in caso di comportamenti disconosciuti dall’Amministrazione – quando non dal giudice tributario – attraverso l’applicazione del generale principio che vieta l’abuso del diritto.

(26) Cfr., in ordine a tale profilo, E. Marello, Elusione fiscale e abuso del diritto: profili procedimentali e processuali, in Giur. It., 2010, 1722; M. Nussi, Abuso del diritto: profili sostanziali, procedimentalprocessuali e sanzionatori, in Giust. Trib., 2009, 323; M. Pierro, Abuso del diritto: profili procedimentali, in Giust. Trib., 2009, 410. (27) Sul tema v., oltre ai contributi di E. Marello e M. Nussi citati alla nota precedente, M. Cantillo, Profili processuali del divieto di abuso del diritto: brevi note sulla rilevabilità d’ufficio, in Rass. Trib., 2009, 475, e G. Ragucci, La rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di abuso del diritto e difesa del contribuente, in Giust. Trib., 2009, 150. (28) Sul punto v. le differenti posizioni di L. Del Federico, Introduzione alla riforma delle sanzioni amministrative tributarie: i principi sostanziali del d.lgs. n. 472/1997, in Riv. Dir. trib., 1999; R. Lupi, Prime osservazioni sul nuovo sistema delle sanzioni amministrative tributarie, in Rass. Trib., 1998; I. Manzoni, Illecito amministrativo tributario, in Enc. Dir., Milano, 2007; G. Marongiu, Le sanzioni amministrative tributarie: dall’unità al doppio binario, in Riv. Dir. trib., 2004; R. Miceli, Il sistema sanzionatorio tributario, in Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, Torino, 2012; L. Tosi, Profili soggettivi della disciplina delle sanzioni tributarie, in Rass. Trib., 1999, 1328. (29) Si veda Cass. 25 maggio 2009, 12042, in bancadati fisconline, che ha escluso l’applicabilità delle sanzioni amministrative in caso di violazione di un principio generale, quale il divieto di abuso del diritto. E si veda altresì, in ambito europeo, la sentenza Halifax resa dalla Corte di Giustizia in data 21 febbraio 2006 per la causa C-255/02, nell’ambito della quale pure tale applicazione è espressamente negata (nelle parole dei Giudici del Lussemburgo, al par. 93 della suddetta pronuncia “Occorre altresì ricordare che la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre a una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco, bensì e semplicemente a un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’IVA assolta a monte”).


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Sostanzialmente opposta, occorre dire, è stata la conclusione con riguardo alle sanzioni penali; in tale ambito infatti, dopo alcune incertezze, l’approdo interpretativo è stato nel senso di escludere rilevanza alle condotte qualificate come abusive. Tale conclusione, a ben vedere, era la sola possibile, tenuto conto dei più fondamentali principi informatori dell’ordinamento penale, quali sono quelli di legalità e tassatività. L’abuso del diritto si configura infatti, per definizione, alla stregua di un comportamento che non integra la violazione di alcuna disposizione di legge, ed è anzi formalmente conforme alle previsioni dell’ordinamento; la sua inopponibilità al Fisco dipende da ciò, che tale condotta non è sorretta da alcuna ragione economica di carattere extrafiscale, e si giustifica unicamente nella prospettiva di carpire abusivamente – per l’appunto – un vantaggio fiscale indebito, in quanto contrario allo spirito della disposizione tributaria applicata. Attribuendo rilievo a simili condotte sul piano penale, finirebbero per trovare ingresso anche in tale ambito valutazioni sostanzialmente discrezionali di ciò che è da ritenere imponibile, ovvero è consentito portare in deduzione, e di ciò che invece non lo è; tali valutazioni hanno ad oggetto in buona sostanza il rispetto ovvero la violazione non del contenuto di specifiche disposizioni normative, ma della loro ratio, nonché l’intento sottostante alla condotta che ha generato le poste contestate, di per sé, in applicazione della lettera delle stesse previsioni di legge, non imponibili, ovvero deducibili. In un simile contesto, come appare evidente, sarebbe rimessa in toto all’interprete l’integrazione della norma che descrive la condotta penalmente rilevante, ciò che inevitabilmente determinerebbe il venir meno della certezza del diritto in uno degli ambiti in cui essa è espressamente e costituzionalmente garantita. È sulla scorta di simili condivisibili considerazioni (30) che la Cassazione penale, nell’occuparsi appunto della vexata quaestio afferente al rilievo penale dell’elusione e dell’abuso del diritto, è infine perve-

(30) Condivise dalla maggior parte della dottrina: v., fra gli altri, I. Caraccioli, Imposta elusa e reati tributari di evasione nell’impostazione della Cassazione, in Riv. dir. trib., IV, 2012, 86 ss. A. Di Amato, La rilevanza penalistica dell’elusione fiscale, Padova, 2002; G. Flick, Abuso del diritto ed elusione fiscale: quale rilevanza penale?, in Giur. Comm., 2011, 471 ss; G. Flora, Perché l’elusione fiscale non può costituire reato (A proposito del caso Dolce e Gabbana), in Riv. Trim. dir. Pen. Eco., 2011, 866 ss; A. Marcheselli, Elusione, buona fede e principi di diritto punitivo, in Rass. Trib., 2009, 401 ss.; A. Perini, La tipicità inafferrabile ovvero elusione fiscale, abuso del diritto e norme penali, in Riv. Trim. dir. Pen. Eco., 3, 2012, 731. Maggiormente possibilista, circa il potenziale rilievo penale dell’elusione fiscale nel nostro ordinamento, F. Gallo, Rilevanza penale dell’elusione fiscale, in Rass. Trib., 2001, 321ss.


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nuta ad escludere tale rilievo ancor prima dell’intervento del legislatore del 2015 (31). La conseguenza, a ben vedere aberrante, che è scaturita dall’applicazione congiunta degli orientamenti appena richiamati – l’uno volto a forzare i limiti della nozione di comportamento abusivo, l’altro ad escluderne la rilevanza penale – è stata, in ultima analisi, quella di privare di rilievo sub specie di reati

(31) V. Cass. pen., sez. V, 16 gennaio 2013, n. 36859, in bancadati dejure, laddove si afferma, in maniera molto chiara, “per potersi parlare di abuso del diritto, o di elusione, occorre che l’atto cui si abbia riguardo costituisca esercizio delle facoltà connesse ad una situazione giuridica della quale l’autore sia titolare, pur volendo egli destinare l’uso di quei poteri a scopi diversi da quelli per cui gli siano stati attribuiti: uso che, come ricordato, in materia tributaria viene a consistere nel compimento di operazioni conformi ai modelli previsti dalla legge, ma strumentali solo ad ottenere un risparmio fiscale. Come detto, in tale ambito la rilevanza penale della condotta appare difficilmente configurabile, per la necessità del doveroso rispetto del principio costituzionale di stretta legalità e del suo più immediato corollario, che impone la tassatività delle fattispecie incriminatrici: è evidente infatti che non esiste una norma da cui ricavare una immediata equiparazione dell’elusione all’evasione, categorie concettuali che vengono ancora distinte in interventi legislativi recenti, seppure ispirati da una logica di comune intervento nei confronti di entrambe. (…) Il principio di legalità implica, del resto, che il giudice penale non possa limitarsi a prendere atto dell’esistenza di una specifica disposizione antielusiva, ma debba piuttosto ricavare dall’ordinamento previsioni sanzionatorie che vadano oltre il mero divieto per il contribuente di perseguire vantaggi fiscali indebiti: ciò perché all’abuso del diritto la disposizione antielusiva consente di contrapporre il disconoscimento delle conseguenze dei negozi adottati (la ricordata inopponibilità degli stessi all’Amministrazione finanziaria), non già sanzioni diverse ed ulteriori. In altre parole, per aversi sanzioni penali occorrono previsioni esplicite, indicative della volontà del legislatore di apprestare – dinanzi alla ipotizzata violazione di qualsivoglia norma, tributaria o meno – la tutela di maggior rigore”. Secondo un orientamento più rigoroso fatto proprio da altre decisioni della stessa Cassazione penale, occorre dire, sarebbe invece possibile riconoscere rilievo penale all’elusione nei soli casi in cui la condotta elusiva “corrisponda ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge”, ossia “in presenza di una descrizione della fattispecie elusiva provvista dei necessari criteri di determinatezza” (in questi termini si è espressa Cass. pen., sez. II, 28 febbraio 2012, n. 7739, poi confermata da Cass. pen., sez. III, 31 luglio 2013, n. 33187). Anche pronunciandosi in questi più rigorosi termini, tuttavia, la Suprema Corte circoscrive la sfera di efficacia della norma penaltributaria alle ipotesi in cui la indeducibilità del costo pur effettivamente sostenuto, ovvero la tassazione del componente positivo formalmente non imponibile, deriva direttamente da una specifica disposizione fiscale, avente finalità antielusiva, e non dal disconoscimento degli effetti tributari di una condotta ad opera dell’Amministrazione finanziaria, posto in essere in forza di una norma procedimentale. Da ultimo, come noto, la Cassazione ha poi introdotto, sul piano dell’elemento soggettivo, la distinzione tra dolo di evasione – imposto da tutte le norme incriminatrici istitutive di reati dichiarativi – e dolo di elusione, escludendo in radice che la condotta da quest’ultimo connotata possa assumere rilievo sul versante penale (v. Cass. Pen., sez. III, 30 ottobre 2015, n. 43809, in bancadati dejure).


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tributari fattispecie che avrebbero invece dovuto assumerne. False fatturazioni, falsità contabili occultate al Fisco attraverso la creazione di falsi documenti o il ricorso ad altre condotte decettive, ipotesi di interposizione fittizia, in quanto superficialmente contestate sul piano fiscale attraverso il rimando al generale divieto di abuso del diritto, o, comunque, a disposizioni ritenute ascrivibili tra quelle aventi natura antielusiva, sono divenute per ciò solo irrilevanti sub specie di dichiarazione fraudolenta ex artt. 2 o 3, D.lg. n. 74/00. 4. La riforma del 2015 sul duplice fronte tributario e penale. – È nel contesto appena descritto che è intervenuto il legislatore del 2015, attraverso una duplice innovazione, l’una apportata sul piano fiscale e l’altra su quello penaltributario, che si ritiene possa e forse debba, ai fini che qui rilevano, essere riguardata ed apprezzata in una prospettiva unitaria. In primo luogo, è stata introdotta nel nostro ordinamento una nuova e generale clausola antielusiva (o antiabusiva). Nell’ambito dell’art. 10-bis, l. n. 212/00, che tale previsione contiene, si afferma in via generale il potere dell’Amministrazione finanziaria di disconoscere gli effetti fiscali di condotte abusive, con qualsiasi modalità siano poste in essere e, in via definitiva, si chiarisce l’irrilevanza penale del fenomeno contrastato attraverso le sue previsioni. Non solo. Quel che maggiormente interessa ai fini del presente contributo, è che si ammonisce l’interprete ad evitare il ricorso alla generale categoria di abuso del diritto, laddove sia possibile disconoscere i vantaggi fiscali conseguiti dal contribuente contestando la violazione di specifiche norme tributarie (32). La precisazione è significativa anche tenuto conto della sua collocazione, appena precedente alla richiamata esclusione della punibilità penale di condotte abusive. L’impunità opera, si ritiene abbia inteso significare il legislatore, unicamente laddove sia giustificata dall’impossibilità di sanzionare nella forma più grave prevista dall’ordinamento chi non abbia apertamente infranto nessuna disposizione sostanziale, ma, “pur nel rispetto formale delle norme fiscali”, abbia realizzato vantaggi fiscali “in contrasto con le finalità delle nor-

(32) Si riportano di seguito, per comodità di consultazione, i due commi cui ci si riferisce: “12. In sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie. 13. Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”.


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me fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario” (33). Chi al contrario sia incorso in una aperta violazione della previsione tributaria, dovrà vedersi contestare una vera e propria evasione, e, se del caso, dovrà essere penalmente perseguito, al ricorrere delle condizioni all’uopo previste dal già richiamato d.lg. n. 74/00. Frutto della medesima logica, ossia della volontà di distinguere tra evasione – penalmente rilevante – ed elusione fiscale – irrilevante sub specie di reato tributario – si ritiene sia la significativa innovazione apportata dalla riforma entrata in vigore ad inizio 2016 alla disciplina del reato di dichiarazione fraudolenta, contenuta all’art. 3 del suddetto decreto del 2000 (34). La relativa previsione, infatti, inscrive ora, tra le condotte punite, quella consistente nell’indicare in dichiarazione, ai fini delle imposte sui redditi o dell’IVA, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, ovvero elementi passivi fittizi, o crediti o ritenute fittizi, “compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente”. Ai sensi della nuova lettera g-bis) del precedente art. 1 – nel quale, come noto, sono contenute le definizioni necessarie alla corretta interpretazione ed applicazione delle fattispecie di reato descritte dalle norme successive – si precisa che “per operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente si intendono le operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall’art. 10-bis della l. 27 luglio 2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte, ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti”. A dispetto di qualche ambiguità espressiva (35), l’opzione ricostruttiva sottostante all’intervento del legislatore del 2015 si ritiene sia piuttosto chiara.

(33) Così il combinato disposto dei commi 1 e 2 della norma statutaria più volte richiamata. (34) In questa prospettiva appare significativo il passaggio della Relazione illustrativa al D.lgs. n. 128/2015, reperibile su www.camera.it, nel quale si afferma “alla luce delle previsioni dell’art. 1 del presente decreto e della nuova formulazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (è possibile che) operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di vera e propria evasione”. (35) Sul punto correttamente rileva A. Perini, voce Reati tributari, in Dig. Disc. Pen. Agg., Torino, 2016, 576, che il divieto di abuso del diritto oggetto di codificazione nell’ambito dello Statuto dei diritti del contribuente, richiamato dalla norma penaltributaria definitoria, non pare abbia in alcun caso vocazione ad applicarsi ad operazioni simulate; cosicché una lettura poco lungimirante del nuovo art. 1, lett. g-bis), d.lg. n. 74/00, richiamato nel testo, potrebbe finire per riportare in auge una indebita, per quanto parziale, sovrapposizione tra ipotesi elusive ed ipotesi evasive, ossia tra fattispecie che non possono in nessun caso assumere rilievo penale e fattispecie che invece devono rivestirlo, al ricorrere dei presupposti di legge.


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Alla necessaria distinzione tra elusione ed evasione corrisponde quella, altrettanto irrinunciabile, tra condotte che in nessun caso possono integrare gli estremi di un reato tributario e condotte che, invece, possono assumere rilievo sul piano penale. In tale prospettiva, la simulazione finalizzata all’evasione configura, al superamento delle soglie di punibilità previste dal più volte richiamato art. 3, una fattispecie punita penalmente, che in nessun caso può configurare un’ipotesi elusiva, ma si traduce sempre in un’evasione di imposta. L’interposizione fittizia, quale declinazione soggettiva del fenomeno simulatorio, è dunque riconducibile all’area delle condotte potenzialmente rilevanti dal punto di vista penale, come tale con certezza generatrici di evasione fiscale. Ora, nello scenario che si è descritto, tenuto conto della lettera della nuova norma penale, che espressamente circoscrive il proprio ambito applicativo alla – sola – interposizione fittizia, la distinzione tra quest’ultima e l’interposizione reale, per quanto, sul piano pratico, non sempre agevole, appare oggettivamente non obliterabile (36), se non altro sotto il profilo delle conseguenze che ne possono derivare sul piano tributario e penaltributario. Si ritorna quindi alla distinzione di cui si è detto in apertura. Da un lato, si ha l’interposizione fittizia, fenomeno di simulazione soggettiva relativa, generatrice di evasione, e non di elusione, che può assumere, al ricorrere degli altri presupposti previsti dalla normativa penaltributaria, rilevanza penale; dall’altro, si ha l’interposizione reale, che nulla ha a che vedere con la simulazione, e può invece configurare, laddove sia finalizzata a carpire indebiti vantaggi fiscali, una ipotesi di elusione, non sanzionabile penalmente, disciplinata dall’art. 10-bis dello Statuto del contribuente (37). In tale contesto, per distinguere tra le due, il richiamo delle conclusioni raggiunte in ambito civilistico è sostanzialmente inevitabile; il criterio maggiormente idoneo, che si ritiene compendi in sé la risposta alle differenti istanze della dottrina, pare quello utilizzato dalla giurisprudenza di legittimità,

(36) In merito indubbio interesse rivestono le osservazioni formulate anni addietro da V. Uckmar, L’”interposizione fittizia” e “le società di comodo” quali ipotesi di reato fiscale, in Aa.Vv., Evasione fiscale e repressione penale, Atti del Convegno di Torino, 7-8 marzo 1981, Padova, 1982, in ordine alla inopportunità di sanzionare penalmente l’evasione derivante da interposizione fittizia, proprio in considerazione della difficoltà legata alla qualificazione del fenomeno. (37) Nello stesso senso anche L. Castaldi, La Corte di cassazione tra simulazione, elusione e obiettiva condizione di incertezza del dato normativo, in GT - Riv. Giur. Trib., 2016, 580.


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volto a valorizzare, ai fini della distinzione tra interposizione fittizia e reale, la presenza di un accordo simulatorio che coinvolga interponente, terzo e interposto (38). In tanto l’interposto potrà dirsi fittizio, e ci si troverà quindi al cospetto di una autentica evasione di imposta, in quanto il terzo sia stato coinvolto dall’accordo simulatorio, e vi abbia prestato la propria adesione, acconsentendo a che gli effetti del contratto concluso con l’interposto si producessero direttamente nella sfera dell’interponente. Laddove invece il terzo sia all’oscuro di tale accordo, o vi rimanga comunque estraneo, è chiaro che interponente e interposto dovranno eventualmente procedere ad uno o più passaggi ulteriori, cui rimarrà estraneo il terzo contraente, al fine di realizzare lo scenario giuridico realmente voluto. 
Tenuto conto di tale distinguo, è ora possibile procedere ad alcune ulteriori considerazioni. 5. Conseguenze in ordine all’ambito applicativo dell’art. 37, comma 3, d.p.r. 600/73. – Occorre ora chiedersi quali conseguenze derivino dalla duplice riforma normativa appena richiamata – e dall’adesione del legislatore alla sopra illustrata opzione ricostruttiva che, si ritiene, essa ha comportato – ai fini della definizione dell’ambito applicativo della disposizione di cui all’art. 37, comma 3, d.p.r. 600/73, rimasta, di per sé, immutata. Allo scopo, appare in primo luogo utile il richiamo effettuato nel paragrafo precedente alla generale clausola antielusiva introdotta nel 2015, in forza della quale è oggi possibile il disconoscimento dei vantaggi fiscali indebitamente ottenuti attraverso l’uso distorto di strumenti giuridici di per sé leciti; dunque, come si è detto, in forza della quale è oggi possibile disconoscere gli eventuali effetti elusivi dell’interposizione reale. Ora, a fronte dell’introduzione di tale calusola generale, pare senz’altro significativo il permanere, nel nostro ordinamento, dell’art. 37, comma 3, di cui si discorre. In effetti, si ritiene, tale mantenimento può essere considerato sintomatico dell’intento, da parte del legislatore, di affermare una volta per tutte la natura schiettamente evasiva delle condotte disconoscibili, sul piano tributario, attraverso l’applicazione del suo disposto. Se così non fosse, la norma di cui si discorre sarebbe stata abrogata, in quanto assorbita dal nuovo art. 10-bis, al pari di quanto avvenuto per il successivo art. 37-bis.

(38) V., ad esempio, Cass. Civ., sez. II, 10 marzo 2015, n. 4738, e Id., sez. I, 10 aprile 2013, n. 8682, entrambe in bancadati dejure.


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Forse si obietterà, a tale conclusione, che l’introduzione della clausola antiabuso statutaria non ha comportato l’abrogazione di singole puntuali disposizioni aventi ratio antielusiva previste dal nostro ordinamento (39). Ma non può sfuggire l’ontologica differenza che esiste tra tali – appunto – specifiche norme, e quella recata dall’art. 37, comma 3, che ha vocazione ad applicarsi ad un numero indefinito di ipotesi non precisabili a priori, e concretamente individuabili dalla sola Amministrazione finanziaria, attraverso una valutazione naturalmente sindacabile in sede giurisdizionale. Vero è, invece, che se le condotte avute di mira dalla previsione normativa di cui si discute fossero da ascrivere al genus dell’elusione fiscale, o dell’abuso del diritto, i relativi effetti tributari potrebbero oggi essere disconosciuti, ricorrendone i presupposti, attraverso il ricorso alla nuova norma statutaria; incomprensibile sarebbe quindi la scelta, operata dal legislatore del 2015, di mantenerla comunque in vita. Una simile scelta è razionale – come deve presumersi, fino a prova contraria, siano le scelte legislative – solo nella misura in cui l’interponente cui si riferisce l’art. 37, comma 3, apertamente si sottrae ai propri doveri fiscali, occultando materia imponibile – ossia propriamente evadendo le imposte sui redditi - attraverso la fittizia imputazione di tale imponibile all’interposto. Con il che, si ritiene, si dovrebbe rinvenire da ultimo, e opportunamente, a quello che, fin da principio, era apparso l’inquadramento più condivisibile e razionale (40).

(39) Per la distinzione tra norme con ratio antielusiva e norme espressamente antielusive v. F. Tesauro, Istituzioni, 2015, cit., 258. In ordine alla possibile coesistenza tra specifiche norme idonee a penalizzare singole pratiche elusive (c.d. norme a fattispecie antielusiva) ed una generale clausola antielusiva, con funzione residuale e di integrazione, v. già F. Gallo, Prime, cit., 1766 e 1767. (40) Per quanto non si possa sottacere che, nonostante la riforma, la Sezione tributaria della Cassazione ha al momento mantenuto il proprio orientamento assolutamente invariato: si veda Cass. Civ., sez. trib., 3 marzo 2017, n. 5408, in bancadati fisconline, dove si legge “La disciplina antielusiva dell’interposizione, prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37, comma 3, non presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione del regime fiscale che costituisce il presupposto d’imposta: ne deriva che il fenomeno della simulazione relativa, nell’ambito della quale può ricomprendersi l’interposizione fittizia di persona, non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo anche mediante operazioni effettive e reali”. Nello stesso senso anche Cass. Civ., sez. V, 14 dicembre 2016, n. 4966, e 6 dicembre 2016, n. 818.


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La simulazione relativa soggettiva, attraverso cui si realizza l’interposizione fittizia, poiché genera evasione fiscale, può essere senz’altro disconosciuta dall’Amministrazione finanziaria; in forza dell’art. 37, comma 3, tale simulazione è superata, in fase di accertamento, senza necessità di ricorrere ai rimedi civilistici ordinari, esperibili dai terzi che siano dalla stessa pregiudicati, ed anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, idonee a invertire l’onere probatorio, e ad addossare al contribuente la dimostrazione della realtà dell’operazione ritenuta simulata (41). Non a caso, si aggiunge, si è oggi definitivamente chiarito, sempre per via normativa, che l’eventuale interpello presentato dal contribuente, al fine di conoscere preventivamente la possibilità di sussumere la fattispecie che lo coinvolge nell’ambito applicativo dell’art. 37, comma 3, è proposto secondo il procedimento che disciplina l’interpello c.d. ordinario, e non seguendo le previsioni dettate con riguardo all’interpello antiabusivo (42). In un simile contesto, si ritiene dunque che l’Amministrazione finanziaria potrà oggi procedere alla diretta imputazione all’interponente dei redditi di cui appare titolare l’interposto unicamente laddove dimostri, anche in via presuntiva, la sussistenza di una simulazione soggettiva in forza della quale a tale apparente titolarità si è pervenuti; ossia laddove sia in grado di dimostrare, ancorché presuntivarne l’esistenza di un accordo simulatorio necessariamente esteso al terzo contraente, la presenza di una controdichiarazione idonea a privare di effetti, sotto il profilo soggettivo, il negozio simulato, facendo invece valere, su tale piano, quello dissimulato. In assenza di tale dimostrazione, ancorché induttiva, nessuna imputazione diretta sarà possibile nel confronti del ritenuto interponente e l’Amministrazione dovrà necessariamente ricorrere al diverso strumento predisposto dallo Statuto. Diversamente ragionando, tra l’altro, tenuto conto dell’assenza

(41) Osservava F. Gallo, op. cit., 1769 e 1786, all’indomani della sua approvazione, che la norma in questione, priva di effetti antielusivi, si pone invece come “rafforzativa” di un potere già esistente, in quanto consente di far valere la simulazione, in fase di rettifica, anche attraverso la prova indiretta, con conseguente inversione dell’onere probatorio, addossato al contribuente. (42) V. art. 37, comma 4, D.p.r. 600/73, che rimanda alla lettera a) dell’art. 11, comma 1, dello Statuto del contribuente, come riformato nel 2015 – concernente in genere l’applicazione delle disposizioni tributarie, laddove vi siano condizioni di obiettiva incertezza circa la loro corretta interpretazione e la corretta qualificazione di fattispecie cui esse si riferiscono – e non alla lettera c) della stessa norma statutaria, concernente l’applicazione della disciplina antiabusiva ad una specifica fattispecie.


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di garanzie procedimentali specifiche – equiparabili a quelle dettate all’art. 10-bis – previste ai fini dell’applicazione dell’art. 37, comma 3, si finirebbe con l’avallare una inaccettabile disparità di trattamento tra i contribuenti, fondata – un po’paradossalmente – sulla natura degli strumenti elusivi utilizzati. 6. 6. (segue) e in ordine al possibile rilievo penale dei fenomeni di interposizione soggettiva. – L’evasione accertata in sede amministrativa attraverso l’applicazione dell’art. 37, comma 3, potrà poi assumere rilievo, al ricorrere dei necessari presupposti, in ambito penale – ovviamente tenuto conto del fatto che, in quella sede, sarebbe preclusa la possibilità di fondare la eventuale contestazione sulle sole presunzioni semplici. Occorre dunque chiedersi quale fattispecie di reato potrà essere eventualmente integrata, in primo luogo, dall’interponente; la risposta deve essere fornita, si ritiene, proprio alla luce della riforma del 2015. Il reato dichiarativo eventualmente ascrivibile all’effettivo possessore dei redditi, di cui appaiano titolari altri soggetti, fittiziamente interposti, alla luce della nuova definizione delle condotte sussumibili nell’ambito di applicazione del delitto di cui all’art. 3 (43), si ritiene appunto la dichiarazione fraudolenta disciplinata da tale disposizione. Tale conclusione appare la più corretta, alla luce del riferimento, contenuto al suo interno, alle condotte simulatorie, quali artifici idonei ad integrare la condotta punita, e tenuto conto della definizione di operazioni simulate di cui al già richiamato art. 1, d.lg. n. 74/00, che, come si è detto, espressamente menziona le operazioni “riferite a soggetti fittiziamente interposti”. Non si ignora certo la problematica sorta, a seguito della novella del 2015, con riguardo al compito non agevole cui è chiamato l’interprete, dovendo distinguere tra simili operazioni, appunto “riferite a soggetti fittiziamente interposti”, e quelle “riferite a soggetti diversi da quelli effettivi”, secondo la definizione che lo stesso art. 1, alla lettera a), fornisce della nozione di operazioni soggettivamente inesistenti (44); nozione rilevante, quest’ultima, ai sen-

(43) A mente dell’art. 3 è oggi punito con la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, “compiendo operazioni simulare oggettivamente o soggettivamente” indica in dichiarazione elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi, purché siano superare entrambe le soglie di punibilità da tale norma indicate con riferimento tanto all’imposta quanto all’impinibile evaso. (44) La questione è evidenziata e diffusamente analizzata anche da L. Imperato, Commento all’art. 3, d.lg.s. n. 74/00, mod. d.lg.s. n. 158/15, in I. Caraccioli (dir.), La riforma


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si dell’art. 2, d.lg. n. 74/00, istitutivo del diverso reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (45). È appena il caso di precisare che tale distinzione assume indubbio rilievo sul piano pratico: i due reati di dichiarazione fraudolenta previsti dal nostro ordinamento, infatti, sono sì puniti con la medesima pena, ma unicamente in relazione al delitto disciplinato dall’art. 3 sono previste soglie di punibilità. La possibilità di ricondurre l’evasione nell’alveo dell’una o dell’altra previsione normativa può essere determinante sul piano del rilievo penale della condotta, rappresentando le soglie di punibilità, come è noto, un elemento costitutivo del reato (46). Qualora l’evasione sia quella derivante, ai fini delle imposte reddituali, dall’interposizione fittizia accertabile sul piano tributario in applicazione dell’art. 37, comma 3, tuttavia, la questione in concreto non si pone. La condotta delittuosa, in simili circostanze, è al più – al ricorrere degli altri presupposti necessari – quella dell’interponente, che, grazie al compimento di operazioni soggettivamente simulate, può indicare in dichiarazione componenti positivi inferiori a quelli effettivi; tale condotta non può in nessun caso assumere rilievo sub specie di dichiarazione fraudolenta ex art. 2, dal momento che la disposizione al suo interno contenuta punisce esclusivamente l’indicazione in dichiarazione di elementi passivi fittizi (47).

dei reati tributari, Milano, 2016, 89 ss., il cui ragionamento prende le mosse dal condivisibile assunto per cui né può ritenersi parzialmente ed implicitamente abrogato l’art. 2, né, d’altra parte, può del tutto vanificarsi la novella legislativa, che, anzi, sembra voler portare alle conseguenze ultime un orientamento giurisprudenziale già manifestatosi in seno alla Cassazione penale, e volto ad escludere la perfetta coincidenza tra operazioni soggettivamente inesistenti e interposizioni fittizie (v., in particolare, pag. 92 e nt. 59). (45) La norma incriminatrice è rimasta invariata a seguito dell’ultima riforma, e punisce con la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’IVA, indichi in una delle dichiarazioni relative a tali tributi elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti; tra questi rientrano appunto, ai sensi dell’art. 1, lett. a), quelli “che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”. Il reato si perfeziona, al ricorrere dei suddetti presupposti, a prescindere dall’entità dell’evasione; non sono previste, quindi, soglie di punibilità. (46) La nota vexata quaestio della riconducibilità delle stesse soglie fra gli elementi costitutivi del reato ovvero tra le condizioni di punibilità è stata risolta dalle Sezioni Unite penali (Cass. pen., SS.UU., 12 settembre 2013, n. 37424, in bancadati dejure), le quali hanno aderito – si ritiene correttamente – alla prima opzione ricostruttiva. (47) Sul punto, occorre dire, anche in considerazione della lettera dell’art. 3, d.lg. n. 74/00, che principia facendo salva l’applicazione della norma che lo precede, è stato rilevato che, nonostante la riforma, l’interposizione fittizia è destinata ad assumere comunque rilievo


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Nelle ipotesi cui risulti applicabile, sul piano amministrativo, l’art. 37, comma 3, quindi, a prescindere dal fatto che si rifletta in una falsità documentale (48), l’interposizione fittizia potrà astrattamente rilevare solo sub specie di dichiarazione fraudolenta “mediante altri artifici”, essendo funzionale non a creare, per poi documentare, un elemento passivo fittizio in capo al dichiarante, ma a dissimulare un suo reddito, imputandolo ad altri; ciò, ad esempio allo scopo di non dichiararlo tout court – si pensi all’ipotesi di interposto non residente – o al fine di evitare gli effetti della progressività (49) – si pensi al caso del professionista affermato che chieda ad un giovane collega di imputarsi parte dei suoi compensi professionali, provvedendo egli stesso al pagamento della minore imposta reddituale sugli stessi dovuta. La validità di tale opzione ricostruttiva, che circoscrive il rilievo penale della fattispecie di cui si discute, sul piano delle imposte reddituali, al solo reato ex art. 3 eventualmente commesso dall’interponente, è confermata, del resto, dall’analisi della costante giurisprudenza della Cassazione penale in materia di operazioni soggettivamente inesistenti. È infatti assolutamente pacifico, per la Suprema Corte (50), che il reato di cui all’art. 2 del decreto n. 74, allorché sia commesso avvalendosi di fatture per operazioni – solo – soggettivamente inesistenti, ha quale unico possibile oggetto materiale della condotta punita la dichiarazione presentata ai fini IVA, e può dunque configurarsi nella sola ipotesi in cui le operazioni di cui si discorre siano assoggettate a tale tributo: se l’operazione esiste sul piano oggettivo, infatti, il costo dedotto dal contribuente è stato sostenuto, e gli elementi passivi indicati in dichiarazione ai fini reddituali non sono fittizi. Ancorché ci si trovi

per il perfezionamento della dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture inesistenti tutte le – numerose – volte in cui “la manifestazione di una volontà simulata sia destinata a ridondare nel confezionamento di un documento falso” A. Perini, voce Reati tributari, cit., 577. Ciò purché, evidentemente, si tratti di “fatture o altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie”, secondo quanto indicato dal più volte citato art. 1, lett. a), e purché, soprattutto, la simulazione che abbia dato origine alla falsa fattura sia funzionale alla deduzione di un elemento passivo fittizio, e non all’occultamento di componenti positivi (A. Perini, La riforma dei reati tributari, in Dir. Pen.proc., 1/2016, 19). (48) Ciò che di per sé, in particolare a seguito dell’ultima riforma, non impedisce il perfezionamento del reato di cui all’art. 3, posto che, tra le condotte tipizzate da tale disposizione, vi è appunto il ricorso a documenti falsi. (49) Sull’interposizione come mezzo per eludere la progressività dell’imposta v. V. Uckmar, op.cit., 159. (50) V. ad esempio Cass. Pen., 17 ottobre 2013, n. 47471, in bancadati fisconline, e la copiosa giurisprudenza citata dai Giudici di legittimità al punto 14 di tale decisione.


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in presenza di fatture emesse da soggetto diverso da quello che ha reso la prestazione, quindi, ai fini delle imposte sui redditi non potrà parlarsi di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 neppure in capo al soggetto che le abbia contabilizzate o utilizzate al fine di documentare il costo effettivamente sostenuto (51). Meno immediato, occorre dire, si ritiene sia il corretto inquadramento della posizione dell’interposto fittizio, il quale – al di là della possibile ipotesi di concorso – potrebbe forse vedersi contestare la commissione del reato di cui all’art. 8, d.lg. n. 74/00. Ciò, naturalmente, a voler ammettere che il fine di “consentire a terzi l’evasione” possa sussistere anche laddove il terzo menzionato dalla norma non sia il soggetto destinatario della fattura (52). Una simile ricostruzione, occorre dire, spezzerebbe definitivamente il legame che, in un’ottica sistematica, parrebbe invece necessario mantenere tra fattispecie punita dall’art. 2 e reato di emissione di false fatture; quel che forse è più grave, tuttavia, è che essa potrebbe condurre ad ingiustificate asimmetrie punitive, dal momento che, a differenza dell’art. 3 e come l’art. 2, l’art. 8 appena citato non prevede alcuna soglia di punibilità. La questione si complica poi ulteriormente laddove si ponga mente al profilo IVA, che pure resta escluso dalla sfera applicativa dell’art. 37, comma 3. L’interponente che sia altresì soggetto passivo ai fini di tale imposta, in effetti, al superamento delle soglie di punibilità, commette altresì il reato di cui all’art. 3 con riguardo alla propria dichiarazione IVA, nella misura in cui non vi indica le operazioni imponibili, apparentemente compiute dall’interposto fittizio. Sotto tale profilo, la situazione rimane invariata; non così per quanto attiene all’interposto. Come noto, per quanto attiene all’imposta sul valore aggiunto, secondo un orientamento giurisprudenziale assolutamente costante (53), la contestazione

(51) Secondo il medesimo orientamento, peraltro, costui dovrà invece rispondere del reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 ai fini IVA, dal momento che si ritiene integrata la condizione della soggettiva inesistenza della fattura tutte le volte in cui essa provenga da un soggetto diverso da quello che ha reso la prestazione, a prescindere dall’effettivo versamento dell’imposta a beneficio dello stesso (si veda, da ultimo, Cass. Pen., sez. III, 11 febbraio 2015, n. 19012). Sul punto v. infra nel testo. (52) A mente dell’art. 8, come è noto, soggiace alla medesima pena prevista per il reato di cui all’art. 2 chiunque “emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” al fine di “consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto”. Il reato si perfeziona a prescindere dal superamento di soglie di punibilità, così come quello disciplinato dal già richiamato art. 2, solitamente contestato al soggetto che abbia contabilizzato le suddette fatture. (53) V. le precedenti nt. 49 e 50.


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di dichiarazione fraudolenta potrà essere formulata anche nei confronti del destinatario della fattura, che abbia provveduto alla sua contabilizzazione e alla dichiarazione del relativo elemento passivo, nella misura in cui il diritto alla detrazione del tributo europeo presuppone la provenienza del documento contabile dal soggetto che ha reso la prestazione; e ciò a prescindere dall’effettiva corresponsione del tributo all’interposto. Occorre quindi chiedersi se, in virtù della modifica normativa del 2015, ed in costanza del medesimo orientamento giurisprudenziale, la dichiarazione IVA che espone elementi passivi fittizi, tali in ragione della interposizione fittizia dell’emittente, sia oggi da ritenere fraudolenta ai sensi dell’art. 2 ovvero dell’art. 3 del decreto n. 74. La soluzione di tale questione è invero disagevole. Fermo restando che l’interposizione deve essere nota al destinatario della prestazione o della fornitura, e alla stessa egli deve avere prestato la propria adesione, perché diversamente non potrà aversi interposizione fittizia, né dolo, entrambi gli scenari che possono configurarsi si caratterizzano per qualche criticità. Si ipotizzi il mantenimento del rilievo della condotta ex art. 2; in considerazione della più volte ricordata assenza di soglie di punibilità, che caratterizzano invece la previsione normativa successiva, si delineerebbe una situazione quasi paradossale, in cui si troverebbe ad essere punito in modo potenzialmente più grave il soggetto (terzo contraente) che, a differenza dell’interponente, sanzionato ai sensi dell’articolo 3, potrebbe anche non aver tratto alcun beneficio fiscale dalla simulazione (rispondendo del reato, come si è detto, anche laddove abbia corrisposto l’IVA all’interposto). Assoggettando invece anche il terzo contraente, partecipe della simulazione, alla previsione di cui all’art. 3, così come novellato nel 2015, si esclude il rischio che un simile irrazionale scenario si produca; si verificherebbe con certezza, tuttavia, l’asimmetria paventata in precedenza, determinata dal più grave trattamento punitivo inflitto ai sensi dell’art. 8 all’interposto, emittente della fattura contabilizzata dal terzo contraente. Le considerazioni di cui sopra, peraltro, lasciano intalterata la criticità di fondo: permane infatti difficoltoso comprendere in cosa si concreti il fine di evasione del terzo contraente che, pur avendo consentito alla simulazione, abbia comunque corrisposto l’imposta – ipotesi magari non maggioritaria, ma comunque non escludibile a priori. Forse, occorre dire, proprio i dubbi interpretativi che la modifica dell’art. 3 ha portato con sé potrebbero essere l’occasione per un generale ripensamento, soprattutto da parte della giurisprudenza, della posizione del terzo contraente nelle ipotesi di interposizione soggettiva, in particolare sotto il profilo degli elementi necessari affinché


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gli possa essere contestato il – grave – reato di cui all’art. 2, sia pure ai soli fini IVA. Da ultimo, una precisazione – per quanto, forse, ovvia – si impone. Quanto si è sin qui osservato non esclude affatto, ovviamente, che anche l’interposizione reale possa essere disconosciuta dall’Amministrazione finanziaria in sede di accertamento in rettifica o d’ufficio, ossia non esclude in alcun modo che ne possano essere disattesi gli effetti sul piano fiscale. A tale disconoscimento potrà e dovrà infatti certamente procedersi, per quanto non in applicazione dell’art. 37, comma 3, ma in conformità a quanto stabilito dalla clausola generale antielusiva recentemente introdotta nel nostro ordinamento (54). L’adozione di tale corretto approccio non potrà che determinare le ormai note conseguenze, in termini sia di adeguata verifica di tutti i presupposti previsti dall’art. 10-bis dello Statuto, sia di riconoscimento, a vantaggio del contribuente, delle garanzie procedimentali previste a pena di nullità del successivo accertamento, sia infine, naturalmente, di sicura esclusione della punibilità sul versante penale (55).

Stefania Gianoncelli

(54) Cfr. F. Tesauro, Istituzioni, 2015, cit., 232, il quale, come si è anticipato, era giunto alle medesime conclusioni con riguardo all’applicabilità dell’oggi abrogato art. 37-bis, d.p.r. 600/73. (55) Sul punto si veda, da ultimo, Cass. Pen., sez. III, 5 ottobre 2016, n. 41755, in bancadati fisconline, che ha ben delineato il confine tra fattispecie elusive, penalmente irrilevanti, ed ipotesi di vera e propria evasione, frutto di simulazione, ovviamente rilevanti sul piano della punibilità penale. In un passato piuttosto risalente, occorre dire, la Suprema Corte aveva in talune occasioni sostenuto il rilievo penale altresì dell’interposizione reale (v. Cass. Pen., sez. III, 16 dicembre 1986, in Rass. Trib., 1988, II, 1049); ogni dubbio sul punto deve ritenersi fugato oggi, in considerazione della modifica normativa intervenuta nel 2015.



Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Corte cost., Sent., 22 novembre 2016, 11 gennaio 2017, n. 7; Pres. Grossi. Art. 3 Cost. - Art. 38 Cost. – Art. 97 Cost. - Contabilità e bilancio dello Stato – Previdenza sociale – Parafiscalità - Obbligo contributivo – Natura dell’obbligo contributivo – Presupposto dell’obbligo contributivo – Enti di previdenza privatizzati – Spending review – Incremento delle entrate pubbliche – Indebito tributario – Rimborso di imposta. È costituzionalmente illegittimo, con riferimento agli artt. 3, 38 e 97 Cost., l’art. 8, comma 3, D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della L. 7 agosto 2012, n. 135, nella parte in cui prevede che le somme derivanti dalle riduzioni di spesa ivi previste siano versate annualmente dalla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per i dottori commercialisti ad apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato. L’incostituzionalità della normativa censurata discende dal fatto che la compressione di un principio di sana gestione finanziaria, come quello inerente alla natura mutualistica degli enti privatizzati di cui all’art. 1 del D.Lgs. n. 509 del 1994, non risulta proporzionato all’alternativa di assicurare un prelievo generico a favore del bilancio dello Stato. In sostanza, in un sistema ispirato – pur nell’ambito del meccanismo contributivo – alla capitalizzazione dei contributi degli iscritti, l’ingerenza del prelievo statale rischia di minare quegli equilibri che costituiscono elemento indefettibile dell’esperienza previdenziale autonoma.

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, in L. 7 agosto 2012, n. 135, promosso dal Consiglio di Stato nel procedimento vertente tra la Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei dottori commercialisti - CNPADC ed altri e il Ministero dell’economia e delle finanze ed altro, con ordinanza del 4 giugno 2015, iscritta al n. 208 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2015. Visti l’atto di costituzione della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei dottori commercialisti - CNPADC, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;


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Parte seconda

udito nell’udienza pubblica del 22 novembre 2016 il Giudice relatore Aldo Carosi; uditi l’avvocato Aristide Police per la Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei dottori commercialisti - CNPADC e l’avvocato dello Stato Amedeo Elefante per il Presidente del Consiglio dei ministri. Svolgimento del processo 1. Con ordinanza iscritta al n. 208 del registro ordinanze del 2015, il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, in L. 7 agosto 2012, n. 135 – con particolare riguardo al primo, terzo e quarto periodo della disposizione – per violazione degli artt. 2, 3, 23, 35, 36, 38, 53 e 97 della Costituzione. La questione trae origine dall’appello della Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti (CNPADC) e da due iscritti alla Cassa in proprio, sigg. W.A. e R.G., proposto contro la sentenza del Tar Lazio - Roma n. 6103 del 18 giugno 2013, che aveva rigettato il ricorso avverso i provvedimenti applicativi dell’art. 8 cit. La norma censurata impone alle Casse di previdenza privatizzate di cui al D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509 (Attuazione della delega conferita dall’art. 1, comma 32, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, in materia di trasformazione in persone giuridiche private di enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza), in forza della loro inclusione nell’elenco redatto dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della L. 30 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), di adottare interventi di razionalizzazione per la riduzione della spesa per consumi intermedi in modo da assicurare risparmi corrispondenti al 5 per cento per il 2012 ed al 10 per cento a partire dal 2013, nonché di riversare annualmente i risparmi di spesa, così conseguiti sui propri consumi intermedi, al bilancio dello Stato. In punto di rilevanza, osserva il Consiglio di Stato che gli atti impugnati sarebbero applicativi dell’art. 8, comma 3, del D.L. n. 95 del 2012, per la parte in cui assoggettano anche la CNPADC al regime di versamento previsto dalla predetta norma; nella misura in cui determinano l’imposizione del versamento anche da parte della Cassa appellante, troverebbero il loro diretto e completo presupposto nella previsione normativa della cui costituzionalità si dubita e, dunque, il problema della loro legittimità non discenderebbe dalla presenza di eventuali vizi di legittimità, bensì dalla legittimità costituzionale del loro fondamento normativo. Né, secondo il rimettente, la questione apparirebbe ex se risolvibile affermando o negando la natura pubblicistica delle Casse di previdenza, posto che il legislatore avrebbe “legificato” i predetti elenchi e, pertanto, in assenza di specifiche censure di illegittimità costituzionale avverso le normative che a detti elenchi fanno rinvio, non ci si potrebbe che limitare a prendere atto di tale scelta legislativa. Secondo il Consiglio di Stato non sarebbe dirimente la questione della natura della


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personalità giuridica (di diritto pubblico o privato) delle Casse di previdenza (ovvero della loro assimilazione, nominativamente disposta, alle amministrazioni pubbliche) ma, piuttosto, assumerebbe rilievo la provenienza, da soggetti privati, della contribuzione destinata a costituire le risorse per il futuro trattamento pensionistico agli iscritti alla Cassa di previdenza, nonché il fatto che la disposizione impugnata non incida su trasferimenti a carico della finanza pubblica, nella specie non presenti, bensì imponga un prelievo percentualmente determinato sulla misura dei c.d. consumi intermedi, che avrebbero parimenti la loro fonte nelle somme percepite dai propri iscritti e la cui disponibilità dovrebbe essere mantenuta nella piena ed autonoma determinazione della Cassa medesima. Tanto premesso, il Consiglio di Stato ritiene che l’art. 8, comma 3, del D.L. n. 95 del 2012, imponendo un versamento obbligatorio in favore dello Stato di parte delle somme frutto dei contributi versati dagli iscritti, finirebbe con il distrarre dette somme, in dotazione alla Cassa, dalla loro causa tipica e dalla ragione, normativamente prevista, che ne legittima l’imposizione. La distrazione dal perseguimento delle finalità che sono alla base dell’imposizione coattiva integrerebbe la violazione dell’art. 23 Cost., in quanto il potere impositivo attribuito alle Casse previdenziali verso i propri iscritti sarebbe legato al perseguimento delle predette finalità e non potrebbe essere vanificato destinando parte delle risorse ad esigenze generali di finanza pubblica. La disposizione impugnata violerebbe altresì gli artt. 35, 36 e 38, comma 2, Cost., poiché, sottraendo parte dei contributi alle Casse, il legislatore inciderebbe sulla misura del trattamento pensionistico, da intendersi anche come “retribuzione differita” e contravverrebbe all’esigenza di assicurare mezzi adeguati per le esigenze connesse alla vecchiaia del lavoratore; più in generale, inciderebbe sulla finalità di tutela del lavoro, costituzionalmente garantita. Inoltre, l’art. 8, comma 3 cit., si porrebbe in conflitto con gli artt. 2, 3 e 97 Cost., in quanto il prelievo ivi previsto inciderebbe, in modo non ragionevole, sulla autonomia dell’ente, impedendo al medesimo di poter disporre delle somme derivanti da contribuzioni dei propri iscritti, per destinarle ad esigenze strumentali alla realizzazione delle finalità previdenziali. Esso inciderebbe, altresì, sul principio di buon andamento delle amministrazioni pubbliche, posto che non realizzerebbe alcuna economicità dell’azione amministrativa, e determinerebbe altresì una distrazione di somme dalla loro finalità tipica. Infine, secondo il giudice a quo, la norma impugnata violerebbe gli artt. 3 e 53 Cost. in quanto, dovendosi ritenere che i contributi versati dagli iscritti siano assimilabili ai tributi, il prelievo corrispondente al versamento imposto alla Cassa, stabilito in una percentuale fissa in relazione alla spesa per consumi intermedi dell’anno 2010, non terrebbe in considerazione né la capacità contributiva del soggetto, né qualsivoglia criterio di progressività, in ciò determinando altresì sia una disparità di trattamento tra soggetti destinatari di una medesima percentuale di esazione, indipendentemente dalla loro soggettiva capacità contributiva, sia una palese irragionevolezza della previsione.


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2. È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, deducendo l’inammissibilità o, comunque, l’infondatezza delle questioni. Rammenta la difesa erariale che l’art. 8, comma 3, del D.L. n. 95 del 2012, fa parte di una serie di misure tese alla razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica contenute nel suddetto decreto-legge, che ha esteso anche agli enti pubblici non territoriali gli obiettivi comuni di contenimento della spesa. L’ambito di applicazione soggettivo delle suddette disposizioni sarebbe quindi stabilito dall’art. 1, comma 2, della L. n. 196 del 2009, nel testo modificato dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, il quale prevede che “ai fini della applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica, per amministrazioni pubbliche si intendono, per l’anno 2011, gli enti e i soggetti indicati a fini statistici nell’elenco oggetto del comunicato dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) in data 24 luglio 2010, pubblicato in pari data nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana n. 171, nonché, a decorrere dall’anno 2012, gli enti e i soggetti indicati a fini statistici dal predetto Istituto nell’elenco oggetto del comunicato del medesimo Istituto in data 30 settembre 2011, pubblicato in pari data nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana n. 228, le Autorità indipendenti e, comunque, le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni”. Secondo l’interveniente, il legislatore in tal modo avrebbe stabilito che tutte le amministrazioni pubbliche, così come individuate dall’elenco ISTAT cui la legge rinvia, siano destinatarie delle disposizioni in materia di contenimento della spesa pubblica. L’inclusione di un ente nell’elenco ISTAT - e, di conseguenza, la sua qualificazione a tali fini quale “pubblica amministrazione” - costituirebbe il presupposto per la soggezione all’art. 8, comma 3, del D.L. n. 95 del 2012. A tali obblighi sarebbero dunque tenuti tutti gli enti per il solo fatto di essere compresi nel predetto elenco. Poiché con l’art. 1, comma 2, della L. n. 196 del 2009, il legislatore avrebbe sostanzialmente recepito, in via legislativa, il predetto elenco ISTAT, ne discenderebbe che, da un canto, ogni modificazione del suddetto elenco non potrebbe che avvenire attraverso una legge di approvazione; dall’altro, che ogni questione relativa alla legittimità o meno dell’inclusione di un ente in tale elenco, essendo rimessa alla discrezionalità del legislatore, non potrebbe che essere censurata nella forme del giudizio di legittimità costituzionale. Secondo la difesa erariale, pertanto, non sarebbe possibile censurare la legge che assoggetta la CNPADC ai tagli di spesa previsti dalle disposizioni sulla c.d. spending review contenute nel D.L. n. 95 del 2012, se non dopo aver censurato la legge che, includendo la CNPADC all’interno dell’elenco ISTAT, le avrebbe conferito la qualifica di pubblica amministrazione. Poiché, difatti, l’art. 8, comma 3, del d.l. 6 luglio 2012 non viene contestato da un punto di vista “oggettivo” (vale a dire con riferimento alle misure di contenimento dallo stesso previste), bensì da un punto di vista “soggettivo” (lamentando la CNPADC di essere stata inclusa tra i destinatari di dette misure) e poiché l’ambito di applicazione soggettivo delle misure previste nell’ambito della c.d. spending review viene individuato, per relationem, tramite il rinvio all’elenco


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ISTAT delle pubbliche amministrazioni, sarebbe evidente - secondo il Presidente del Consiglio dei ministri - che contestare la legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, del D.L. n. 95 del 2012 significherebbe censurare la legittimità costituzionale della qualificazione della Cassa come pubblica amministrazione, che però non è oggetto di doglianza da parte del giudice a quo. Secondo la difesa erariale, pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dal Consiglio di Stato, la questione relativa alla natura pubblica o privata della Cassa non potrebbe essere considerata priva di rilevanza ai fini della valutazione da effettuarsi in ordine alla fondatezza della questione di costituzionalità della disposizione impugnata. Poiché, difatti, a mente dell’art. 1, comma 1, della L. n. 196 del 2009, “le amministrazioni pubbliche concorrono al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica “...definiti in ambito nazionale in coerenza con le procedure e i criteri stabiliti dall’Unione europea...” e ne condividono le conseguenti responsabilità”, l’inserimento delle Casse di previdenza nell’elenco ISTAT le avrebbe necessariamente gravate dell’obbligo di contribuire alle manovre di bilancio ed ai provvedimenti di contenimento della spesa pubblica. Rammenta ulteriormente la difesa erariale, che lo stesso Consiglio di Stato, in una precedente decisione (sentenza n. 6014 del 28 novembre 2012), avrebbe affermato che l’inclusione nell’elenco ISTAT delle stesse “non è, infatti, frutto di una valutazione arbitraria dell’Amministrazione, ma, al contrario, corrisponde alla qualificazione pubblica degli stessi e ai criteri stabiliti dalla legge in coerenza con i princìpi desumibili dall’art. 81 della Costituzione e con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione”. Osserva il Presidente del Consiglio dei ministri che, anche se si dovessero qualificare come privati i contributi versati alla Cassa dagli iscritti, la questione di legittimità costituzionale sarebbe comunque infondata in quanto l’art. 8, comma 3, cit., richiederebbe come unico requisito, per l’assoggettamento alle misure di contenimento previste nell’ambito della c.d. spending review, la natura di pubblica amministrazione del destinatario, tanto che sarebbe bastato considerare che la CNPADC fosse una pubblica amministrazione per concludere nel senso della infondatezza. In ogni caso, secondo la difesa erariale, il giudice a quo sarebbe comunque incorso in errore, anche nel considerare private le risorse gestite dal fondo. A giudizio dell’interveniente, invece, tali risorse deriverebbero la propria natura da quella pubblica della Cassa e dalle funzioni da essa svolte, sicché i due aspetti della vicenda non potrebbero essere singolarmente considerati, in quanto l’uno (la funzione previdenziale pubblica svolta dalla Cassa con conseguente vincolo di destinazione sulle somme da essa gestite), influirebbe inevitabilmente sull’altro (natura della prestazione). A riprova della natura pubblica delle risorse della Cassa, secondo la Presidenza del Consiglio dei ministri, vi sarebbe l’obbligatorietà dei contributi, il potere di esazione dei medesimi e, infine, l’impossibilità per gli iscritti di poter liberamente disporre di quanto versato. Con riferimento alla denunciata violazione dell’art. 23 e degli artt. 3 e 53 Cost.,


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Parte seconda

obietta il Presidente del Consiglio dei ministri che, con l’introduzione dell’obbligo di versare allo Stato i risparmi di spesa conseguiti dalle Casse professionali, non si sarebbe inteso introdurre un tributo, in quanto si tratterebbe di disposizioni rivolte a tutte le amministrazioni pubbliche, affinché contribuiscano al consolidamento del processo di razionalizzazione e revisione della spesa e, quindi, non vi sarebbe alcuna prestazione patrimoniale imposta, ma solo una redistribuzione delle risorse di finanza pubblica. Procedendo dal presupposto che la CNAPDC è un’amministrazione pubblica, sarebbe evidente, per la Presidenza del Consiglio dei ministri, che non sarebbe ipotizzabile né una violazione dell’art. 3 Cost., in quanto la Cassa è colpita dai tagli di spesa come tutte le altre amministrazioni, né dell’art. 23 Cost., in quanto non si sarebbe in presenza di una prestazione patrimoniale, ma di una misura trasversale che incide sul patrimonio di ciascuna amministrazione. Né, tanto meno, secondo la difesa erariale sarebbe configurabile una violazione dell’art. 53 Cost., in quanto non verrebbe in rilievo il principio di capacità contributiva dei singoli iscritti alla Cassa, non trovandosi in presenza di un tributo, ma di una operazione di redistribuzione della finanza pubblica. Neppure, secondo l’interveniente, la norma impugnata si porrebbe in contrasto con gli artt. 35, 36, 38, comma secondo, Cost., in quanto non vi sarebbero ragioni perché la finalità (pubblica), svolta delle casse previdenziali tramite l’accantonamento obbligatorio di una quota di reddito professionale, avrebbe dovuto condurre ad esentare la Cassa, rispetto a quanto previsto per le altre pubbliche amministrazioni, dall’obbligo di versamento del risparmio per consumi intermedi a favore dell’Erario, misura che rientrerebbe tra gli interventi correttivi di finanza pubblica, coinvolgenti anche gli enti privatizzati. Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, ad escludere la violazione degli artt. 35, 36 e 38 Cost., influirebbe, inoltre, il fatto che, allo stato, non vi sarebbe prova alcuna che le norme sospettate di incostituzionalità possano aver inciso sulle prestazioni a favore dei liberi professionisti iscritti alle Casse, tanto che la stessa CNPADC, nelle proprie difese, avrebbe prospettato come mera eventualità, che, per effetto delle disposizioni della c.d. spending review, possa esservi un depauperamento del monte delle contribuzioni dei professionisti iscritti alla Cassa. Quindi, la disposizione impugnata non avrebbe direttamente inciso sulle prestazioni a favore dei liberi professionisti iscritti alle Casse, dato che non sarebbe stata dimostrata alcuna decurtazione delle prestazioni previdenziali loro assicurate in base alle norme vigenti. Infine, osserva il Presidente del Consiglio dei ministri che la pretesa violazione dei princìpi costituzionali invocati, non deriverebbe dal D.L. n. 95 del 2012, che individua solo l’ambito di applicazione soggettiva delle misure di tagli alla spesa pubblica, facendo riferimento alla nozione di “pubblica amministrazione”, ma dagli elenchi ISTAT che hanno disposto la suddetta equiparazione. Si tratterebbe di restrizioni di spesa imposte soprattutto ai soggetti che beneficiano di contributi e finanziamenti pubblici, necessarie per garantire il rispetto del principio del pareggio di bilancio sancito dall’art. 81 Cost., anche alla luce degli impegni assunti dall’Italia con le autorità europee.


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Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, quindi, nel valutare la conformità alla Costituzione della norma censurata, si dovrebbero tenere a mente anche le ragioni che hanno spinto il legislatore a predisporre una disciplina tanto rigorosa, e quindi si imporrebbe di ponderare adeguatamente l’art. 81 Cost. con gli altri parametri costituzionali richiamati dal Consiglio di Stato, nel rispetto dei princìpi di proporzionalità e ragionevolezza, posta la necessità di individuare un punto di equilibrio dinamico e non prefissato, in anticipo tra tutti i vari diritti tutelati dalla Costituzione. 3. Si è costituita in giudizio anche la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti, svolgendo argomentazioni a sostegno dell’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata. Secondo la parte, l’art. 8, comma 3, secondo periodo, del D.L. n. 95 del 2012, si rivelerebbe incostituzionale perché, con esso, il legislatore avrebbe introdotto una forma di surrettizio prelievo tributario – destinato ai soli enti previdenziali privatizzati – del tutto svincolato dal rispetto dei noti parametri di ragionevolezza e progressività, attraverso il quale le risorse private devolute alla gestione della CNPADC e destinate all’erogazione di trattamenti previdenziali ed assistenziali sono trasferite all’erario, per non meglio specificate esigenze finanziarie pubbliche. Evidenzia che gli enti previdenziali privatizzati a mente del D.Lgs. n. 509 del 1994 non beneficiano di alcun trasferimento e/o finanziamento pubblico e non godono di alcuna garanzia da parte dello Stato, per quanto attiene ad un’eventuale situazione di grave disavanzo, essendo, anzi, previsto il ricorso alla liquidazione coatta amministrativa laddove sia impossibile ripristinare l’originario equilibrio economicofinanziario. Rammenta, inoltre, che la Corte Costituzionale, nella sentenza recte: ordinanza n. 214 del 1999, ha sottolineato come il D.Lgs. n. 509 del 1994 abbia introdotto un “nuovo sistema autofinanziato conseguente alla privatizzazione”. Un conto sarebbe, quindi, la rilevanza pubblicistica che connota sia la funzione che l’attività della Cassa, ed un altro l’origine e la natura delle risorse in sé considerate. In sostanza, l’assenza di un contributo pubblico escluderebbe la natura pubblica del patrimonio. Con riferimento alla violazione degli artt. 3, 35, 36, 38 e 97 Cost., la parte sostiene che il legislatore, con la norma impugnata, non abbia operato un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali (sentenza n. 70 del 2015) della tutela, anche futura, dei lavoratori e delle esigenze di risanamento delle finanze pubbliche e sarebbe, comunque, discriminatoria, in quanto colpirebbe esclusivamente alcune categorie di lavoratori per il solo fatto di esercitare professioni regolamentate con obbligo d’iscrizione ai relativi enti previdenziali. Evidenzia, che i consumi intermedi non costituiscono una spesa per l’erario, ma sarebbero espressione della autonomia gestionale, organizzativa e contabile riconosciuta dal D.Lgs. n. 509 del 1994 agli enti previdenziali privatizzati, quale corollario dell’obbligo dei medesimi di attenersi ad una rigorosa gestione economico-finanziaria tale da assicurare l’equilibrio di bilancio, pena la liquidazione coatta amministrativa, senza poter accedere a finanziamenti pubblici.


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Parte seconda

Ne deriverebbe, quindi, secondo la medesima, la violazione dell’art. 97 Cost., in quanto la norma impugnata colpisce il patrimonio vincolato della Cassa, formato da versamenti dei privati destinati all’erogazione di prestazioni previdenziali ed assistenziali, costituzionalmente garantite dall’art. 38 Cost. La norma impugnata violerebbe ulteriormente gli artt. 3 e 97 Cost., perché il prelievo imposto inciderebbe in misura strutturale sulla capacità della Cassa di perseguire efficacemente le finalità attribuite dalla legge, sebbene la Corte (sentenza n. 178 del 2015) abbia riconosciuto che “l’emergenza economica”, pur potendo giustificare interventi eccezionali, non consenta di introdurre misure strutturali. Motivi della decisione 1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della L. 7 agosto 2012, n. 135, in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 35, 36, 38, 53 e 97 della Costituzione, nella parte in cui applica anche alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per i dottori commercialisti (CNPADC) un prelievo commisurato alle spese per consumi intermedi dell’esercizio 2010. L’art. 8, comma 3, del D.L. n. 95 del 2012 stabilisce che: “Ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni, al fine di assicurare la riduzione delle spese per consumi intermedi, i trasferimenti dal bilancio dello Stato agli enti e agli organismi anche costituiti in forma societaria, dotati di autonomia finanziaria, inseriti nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuati dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della L. 31 dicembre 2009, n. 196, nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) con esclusione delle regioni, delle province autonome di Trento e di Bolzano, degli enti locali, degli enti del servizio sanitario nazionale, e delle università e degli enti di ricerca di cui all’allegato n. 3, sono ridotti in misura pari al 5 per cento nell’anno 2012 e al 10 per cento a decorrere dall’anno 2013 della spesa sostenuta per consumi intermedi nell’anno 2010. Nel caso in cui per effetto delle operazioni di gestione la predetta riduzione non fosse possibile, per gli enti interessati si applica la disposizione di cui ai periodi successivi. Gli enti e gli organismi anche costituiti in forma societaria, dotati di autonomia finanziaria, che non ricevono trasferimenti dal bilancio dello Stato adottano interventi di razionalizzazione per la riduzione della spesa per consumi intermedi in modo da assicurare risparmi corrispondenti alle misure indicate nel periodo precedente; le somme derivanti da tale riduzione sono versate annualmente ad apposito capitolo dell’entrata del bilancio dello Stato entro il 30 giugno di ciascun anno. Per l’anno 2012 il versamento avviene entro il 30 settembre. Il presente comma non si applica agli enti e organismi vigilati dalle regioni, dalle province autonome di Trento e di Bolzano e dagli enti locali”.


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1.1. Secondo il rimettente la norma violerebbe gli artt. 35, 36 e 38, secondo comma, Cost., in quanto, per esigenze di finanza pubblica, distrarrebbe somme destinate a finalità previdenziali, con ciò incidendo sulla misura del trattamento pensionistico inteso come “retribuzione differita”, tenuto anche conto delle particolari caratteristiche del sistema mutualistico introdotto per la Cassa in questione dal D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509 (Attuazione della delega conferita dall’art. 1, comma 32, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, in materia di trasformazione in persone giuridiche private di enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza). Il Consiglio di Stato ritiene inoltre che siano violati gli artt. 2, 3 e 97 Cost. poiché il prelievo imposto dal censurato art. 8, comma 3, inciderebbe in modo non ragionevole sull’autonomia dell’ente, sulla disponibilità e sulla destinazione di somme derivanti dalle contribuzioni dei propri iscritti. Infatti, mentre il prelievo risponderebbe a logica per le amministrazioni pubbliche finanziate dallo Stato, per la CNPADC, che deve gestire la previdenza in regime di autofinanziamento, esso sarebbe irragionevole e contrario alle finalità statutarie della Cassa stessa. Il prelievo contrasterebbe altresì con il principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., considerato che determinerebbe la distrazione di somme dalla loro finalità tipica ed una sostanziale riduzione del finanziamento delle prestazioni pensionistiche, piuttosto che realizzare una maggiore economicità dell’azione amministrativa. Inoltre, secondo il rimettente, la disposizione impugnata violerebbe anche gli artt. 3 e 53 Cost. Ciò in quanto il prelievo imposto dalla norma in questione, essendo determinato in misura percentuale su quanto complessivamente speso dall’ente per consumi intermedi nell’anno 2010, non sarebbe progressivo e non terrebbe in alcun conto la capacità contributiva del soggetto, determinando in tal modo una disparità di trattamento tra soggetti destinatari di una medesima percentuale di esazione. Infine, secondo il rimettente la disposizione impugnata violerebbe l’art. 23 Cost., in quanto, nel prevedere il versamento obbligatorio di una parte dei contributi previdenziali dei privati iscritti all’ente, distrarrebbe dette somme dalla loro causa tipica. 1.2. È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, deducendo l’inammissibilità o comunque l’infondatezza delle questioni. A suo avviso la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo sarebbe inammissibile in ragione della consequenzialità tra iscrizione nell’elenco predisposto dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) e debenza del prelievo. Evidenzia in proposito che il giudice rimettente non avrebbe impugnato l’art. 1, comma 2, della L. 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica): tale disposizione, includendo la CNPADC nell’elenco ISTAT, costituirebbe il presupposto del prelievo a favore dell’Erario, sicché la prescrizione impugnata realizzerebbe, in ragione di detta propedeutica iscrizione, un regime unitario di partecipazione agli obiettivi di finanza pubblica per tutti gli enti appartenenti al consolidato delle pubbliche amministrazioni. Nel merito, la difesa erariale rileva che, nell’ambito delle misure tese alla razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica, il D.L. n. 95 de 2012 sulla cosiddetta


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spending review avrebbe esteso agli enti pubblici non territoriali gli obiettivi di contenimento tra i quali quelli contenuti nell’art. 8, comma 3, di detto decreto. Secondo l’intervenuto, il legislatore avrebbe individuato quali destinatari delle disposizioni in materia di contenimento della spesa pubblica tutte le amministrazioni pubbliche comprese nell’elenco ISTAT cui la legge rinvia. L’inclusione di un ente nell’elenco ISTAT - e, pertanto, la sua qualificazione quale pubblica amministrazione – costituirebbe il presupposto per la soggezione all’art. 8, comma 3, D.L. n. 95 del 2012. Ad avviso della difesa erariale non sarebbe possibile censurare la legge che assoggetta la CNPADC alle riduzioni di spesa previste dal decreto sulla spending review se non dopo aver censurato la legge che, includendo il predetto ente all’interno dell’elenco ISTAT, lo qualifica come pubblica amministrazione. La CNPADC invece non avrebbe impugnato tale normativa. Il Presidente del Consiglio rileva inoltre che anche le risorse gestite dal fondo avrebbero natura pubblica. Tale connotazione deriverebbe, oltre che dal carattere pubblicistico delle funzioni svolte dalla Cassa, dal fatto: a) che i contributi degli iscritti non sono volontari ma imposti da specifica normativa; b) che gli enti privatizzati hanno un potere autoritativo di esazione dei contributi; c) che gli iscritti non hanno facoltà di disporre liberamente di quanto versato. Da ciò discenderebbe che l’art. 8, comma 3, del D.L. n. 95 del 2012 non violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto i tagli di spesa colpirebbero tutte le amministrazioni pubbliche inserite nell’elenco ISTAT. Secondo il Presidente del Consiglio, la norma impugnata non si porrebbe neppure in contrasto con gli artt. 35, 36 e 38, secondo comma, Cost., in considerazione della natura pubblica della CNPADC e dei fondi di cui essa dispone. Ciò giustificherebbe anche il versamento obbligatorio dei risparmi all’Erario per la realizzazione di interventi correttivi di finanza pubblica da parte dello Stato, ipotesi non lesiva dei precetti contenuti negli artt. 38 e 97 Cost. Infine, secondo l’intervenuto non sarebbe stata fornita prova degli effetti negativi ipoteticamente prodotti dalla norma impugnata, in quanto i professionisti iscritti alla Cassa non avrebbero subito decurtazioni delle prestazioni previdenziali loro assicurate dalle norme vigenti. 2. Ai fini della presente decisione sono necessarie alcune premesse. L’elenco delle amministrazioni pubbliche appartenenti al conto economico consolidato previsto dall’art. 1, comma 3, della L. n. 196 del 2009 – come modificato dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della L. 26 aprile 2012, n. 44 – è stato istituito in attuazione di precisi obblighi comunitari sulla base di norme classificatorie e definitorie proprie del sistema statistico nazionale ed europeo, ai sensi del regolamento CE n. 2223/96 del Consiglio del 25 giugno 1996 modificato dal Regolamento UE 549/2013 relativo al “Sistema Europeo dei Conti Nazionali e Regionali nell’Unione


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Europea” (SEC2010). I criteri utilizzati per la classificazione sono di natura statisticoeconomica. Tale regolamento è servente alla definizione delle politiche dell’Unione europea ed al monitoraggio delle economie degli Stati membri e dell’Unione economica e monetaria (UEM), i quali “richiedono informazioni comparabili, aggiornate e affidabili sulla struttura dell’economia e l’evoluzione della situazione economica di ogni Stato membro o regione” (considerando n. 1 del regolamento UE n. 549/2013). La Commissione utilizza gli aggregati dei conti nazionali e regionali, raccolti attraverso tali informazioni, per i fini amministrativi dell’Unione e, in particolare, per i calcoli di bilancio. Dunque, il sistema europeo dei conti, disciplinato dai richiamati regolamenti, prevede una metodologia finalizzata al monitoraggio della convergenza economica ed al conseguimento di uno stretto coordinamento delle politiche finanziarie europee. La CNPADC è classificata, secondo l’allegato A (Capitolo 2 “Unità e insiemi di unità” – I settori istituzionali – Amministrazioni pubbliche S.13) del regolamento UE n. 549/2013, nel sottosettore S.1314, afferente agli “Enti di previdenza e assistenza sociale” (2.117), il quale “comprende le unità istituzionali centrali, di Stati federati e locali, la cui attività principale consiste nell’erogare prestazioni sociali che rispondono ai seguenti due criteri: a) in forza di disposizioni legislative o regolamentari determinati gruppi della popolazione sono tenuti a partecipare al regime o a versare contributi; b) le amministrazioni pubbliche sono responsabili della gestione dell’istituzione per quanto riguarda la fissazione o l’approvazione dei contributi e delle prestazioni, a prescindere dal loro ruolo di organismo di sorveglianza o di datore di lavoro”. Nell’ambito delle procedure di convergenza verso gli obiettivi europei di contenimento della spesa pubblica, l’inserimento in tale elenco ha comportato per l’ente previdenziale la sottoposizione ai pertinenti vincoli di riduzione della spesa. Tuttavia, a differenza della maggior parte degli enti pubblici e dei soggetti inseriti nell’elenco, la CNPADC non gode di finanziamenti pubblici che – anzi – sono vietati dalla legge istitutiva: “Gli enti trasformati continuano a svolgere le attività previdenziali e assistenziali in atto riconosciute a favore delle categorie di lavoratori e professionisti per le quali sono stati originariamente istituiti, ferma restando la obbligatorietà della iscrizione e della contribuzione. Agli enti stessi non sono consentiti finanziamenti pubblici diretti o indiretti, con esclusione di quelli connessi con gli sgravi e la fiscalizzazione degli oneri sociali” (art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 509 del 1994). È altresì utile un’ulteriore premessa circa la natura giuridica della CNPADC e la sua sostanziale irrilevanza nell’ambito del thema decidendum. La trasformazione della Cassa operata dal D.Lgs. n. 509 del 1994, pur avendo inciso sulla forma giuridica dell’ente e sulle modalità organizzative delle sue funzioni, non ha modificato il carattere pubblicistico dell’attività istituzionale di previdenza ed assistenza, che mantiene non solo una funzione strettamente correlata all’interesse pubblico di assicurare dette prestazioni sociali a particolari categorie di lavoratori, ma acquisisce un ruolo rilevante in ambito europeo attraverso l’inclusione delle risultanze del relativo bilancio nel calcolo del prodotto nazionale lordo ai prezzi di mercato


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Parte seconda

(PNLpm), mediante le uniformi regole di contabilizzazione del sistema europeo dei conti economici integrati. Al riguardo, questa Corte ha avuto modo di affermare che “dal quadro così tracciato dalla riforma emerge che la suddetta trasformazione ha lasciato immutato il carattere pubblicistico dell’attività istituzionale di previdenza ed assistenza svolta dagli enti, articolandosi invece sul diverso piano di una modifica degli strumenti di gestione e della differente qualificazione giuridica dei soggetti stessi: l’obbligo contributivo costituisce un corollario, appunto, della rilevanza pubblicistica dell’inalterato fine previdenziale. L’esclusione di un intervento a carico della solidarietà generale consegue alla stessa scelta di trasformare gli enti, in quanto implicita nella premessa che nega il finanziamento pubblico o altri ausili pubblici di carattere finanziario” (sentenza n. 248 del 1997). 3. Tanto premesso, l’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura dello Stato, argomentata in ragione della mancata considerazione della iscrizione nell’elenco ISTAT e delle conseguenze che ne deriverebbero automaticamente in punto di debenza del prelievo, non può essere accolta. Secondo la difesa dello Stato, il fatto che la CNPADC sia stata individuata dalla legge quale componente dell’elenco ISTAT, nonché risulti destinataria delle disposizioni in materia di contenimento della spesa pubblica, costituirebbe indefettibile presupposto per la soggezione dell’ente previdenziale all’art. 8, comma 3, del D.L. n. 95 del 2012 e, conseguentemente, il giudice rimettente avrebbe compiuto una sorta di aberratio ictus, nel censurare la legge che prevede il prelievo ai danni della CNPADC stessa anziché l’art. 1, comma 2, della L. n. 196 del 2009, come modificato dal D.L. n. 16 del 2012, il quale, includendo il predetto ente nell’elenco ISTAT, comporterebbe l’automatica applicazione del prelievo a favore dell’Erario. Nella prospettazione del giudice rimettente, al contrario, non è contestata la legittimità dell’inclusione della CNPADC nell’elenco delle amministrazioni ISTAT e neppure la legittimità della prima parte della disposizione, laddove vengono dettate norme finalizzate alla riduzione della spesa per consumi intermedi. Infatti, se da un lato egli menziona l’intero comma 3, compresa la parte riferita agli enti che non ricevono trasferimenti dal bilancio dello Stato e la prescrizione afferente ad interventi di razionalizzazione della spesa, dall’altro chiarisce che la questione riguarda “gli atti impugnati, nella misura in cui determinano l’imposizione del versamento anche da parte della Cassa appellante, trovando il loro diretto e completo presupposto nella previsione normativa della cui costituzionalità si dubita, e, dunque, il problema della loro legittimità (in parte qua) non discende dalla presenza di eventuali vizi di legittimità, bensì dalla legittimità costituzionale del loro fondamento normativo”. Pertanto, l’eccezione d’inammissibilità non può essere accolta, dal momento che l’ordinanza di rimessione si limita a dubitare della legittimità costituzionale del prelievo operato dal legislatore statale nei confronti della CNPADC, tema che costituisce l’oggetto del presente giudizio. 4. Venendo al merito, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferi-


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mento agli artt. 3, 38 e 97 Cost. con riguardo alla sola prescrizione inerente all’imposizione del versamento annuale nelle casse dello Stato, è fondata. Per quanto di seguito meglio specificato, la scelta di privilegiare, attraverso il prelievo, esigenze del bilancio statale rispetto alla garanzia, per gli iscritti alla CNPADC, di vedere impiegato il risparmio di spesa corrente per le prestazioni previdenziali non è conforme né al canone della ragionevolezza, né alla tutela dei diritti degli iscritti alla Cassa, garantita dall’art. 38 Cost., né al buon andamento della gestione amministrativa della medesima. 4.1. Sotto il profilo della ragionevolezza, l’art. 3 Cost. risulta violato per l’incongrua scelta di sacrificare l’interesse istituzionale della CNPADC ad un generico e macroeconomicamente esiguo impiego nel bilancio statale. L’esame del contesto legislativo rivela come la disposizione censurata operi in deroga all’ordinario regime di autonomia della Cassa, in parte alterando il vincolo funzionale tra contributi degli iscritti ed erogazione delle prestazioni previdenziali. Prescindendo dall’indagine sulla natura del contributo, e tenuto conto che le politiche statali possono, in particolari contingenze, incidere anche sull’autonomia finanziaria di un ente pubblico, nel caso in esame la compressione di un principio di sana gestione finanziaria, come quello inerente alla natura mutualistica degli enti privatizzati di cui all’art. 1 del D.Lgs. n. 509 del 1994, non risulta proporzionato all’alternativa di assicurare un prelievo generico a favore del bilancio dello Stato. Mentre l’interesse della CNPADC è specificamente riferibile alla missione istituzionale di gestire ed assicurare nel tempo le prestazioni previdenziali agli associati, quello dello Stato è – per obiettiva conformazione della norma impugnata – circoscritto alla generica copertura del complesso della spesa. Nella ponderazione delle due finalità non appare ragionevole il sacrificio – a beneficio di un generico interesse dello Stato ad arricchire, in modo peraltro marginale, le proprie dotazioni di entrata – di quella della CNPADC, che è collegata intrinsecamente alla necessaria autosufficienza della gestione pensionistica. In particolare, con riguardo al bilanciamento tra le esigenze istituzionali della Cassa e quelle del bilancio statale, non può essere condiviso l’assunto dell’Avvocatura generale dello Stato secondo cui l’interesse dell’ente previdenziale a mantenere parte delle risorse acquisite attraverso la contribuzione degli iscritti sarebbe recessivo rispetto all’esigenza di prelevare dette risorse “per garantire il rispetto del principio del pareggio di bilancio sancito dall’art. 81 Cost. anche alla luce degli impegni assunti dal nostro Paese con le autorità europee”. La difesa statale desume un’arbitraria correlazione eziologica tra l’art. 1, comma 2, della L. n. 196 del 2009, la prima parte dell’art. 8, comma 3, del D.L. n. 95 del 2012, non contestata dal giudice rimettente, e la seconda parte del medesimo comma 3 dell’art. 8: l’iscrizione nell’elenco ISTAT della CNPADC non comporterebbe soltanto la considerazione di quest’ultima nel complesso macroeconomico della finanza pubblica da coordinare attraverso l’imposizione di economie della spesa per beni intermedi, ma anche il prelievo di tali economie a beneficio dello Stato. Al contrario,


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come già premesso, tale rapporto di causalità tra le citate disposizioni non sussiste. È di tutta evidenza che la prima parte della norma impugnata provvede in modo costituzionalmente legittimo ad assicurare – attraverso il risparmio e l’accantonamento della percentuale di spesa pertinente a ciascuno dei soggetti rientranti nel sistema europeo dei conti nazionali e regionali dell’Unione europea-SEC 2010 – il coordinamento della finanza pubblica allargata per il raggiungimento degli obiettivi concordati in sede europea, mentre la seconda parte introduce un finanziamento a favore dell’Erario. Pertanto, è la sola disposizione dell’art. 8, comma 3, impugnata dal rimettente a porre in essere un prelievo indebito nei confronti della CNPADC – il quale determina, nella situazione economico-patrimoniale della destinataria, una minusvalenza correlata ad una speculare plusvalenza a favore del bilancio dello Stato – mentre quella che impone la riduzione degli oneri per beni intermedi, oltre al coordinamento finalizzato al rispetto dei vincoli europei, costituisce di per sé anche un meccanismo idoneo a rendere più efficiente la gestione pensionistica nella misura in cui riduce le spese correnti della Cassa, indirizzando il risparmio alla naturale destinazione delle prestazioni previdenziali. A parte il fatto che nella manovra di finanza pubblica il contestato prelievo assume valore neutro, dal momento che il saldo complessivo delle risorse disponibili nel consolidato pubblico risulta invariato, tale prelievo costituisce una scelta autonoma del legislatore statale (consistente nel trasferimento di risorse della CNPADC al proprio bilancio), del tutto distinta dall’adempimento degli obblighi di riduzione della spesa concordati in sede europea. Se, in astratto, non può essere disconosciuta la possibilità per lo Stato di disporre, in un particolare momento di crisi economica, un prelievo eccezionale anche nei confronti degli enti che – come la CNPADC – sostanzialmente si autofinanziano attraverso i contributi dei propri iscritti, non è invece conforme a Costituzione articolare la norma nel senso di un prelievo strutturale e continuativo nei riguardi di un ente caratterizzato da funzioni previdenziali e assistenziali sottoposte al rigido principio dell’equilibrio tra risorse versate dagli iscritti e prestazioni rese. Alla luce di tali considerazioni risultano capovolte anche le argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui la fattispecie normativa in esame sarebbe il portato di un’”adeguata ponderazione” delle esigenze di equilibrio della finanza pubblica di cui all’art. 81 Cost. con “gli altri parametri costituzionali richiamati dal Consiglio di Stato ... nel rispetto dei princìpi di proporzionalità e ragionevolezza ... in relazione alla pari necessità di rispetto dell’art. 81 Cost. ed alla luce della necessità di individuare un punto di equilibrio dinamico e non prefissato in anticipo tra tutti i vari diritti tutelati dalla Carta costituzionale”. Una valutazione in termini di proporzionalità e di adeguatezza tra i dialettici interessi in gioco può essere realizzata solo all’interno del quadro legislativo della materia “secondo determinazioni discrezionali del legislatore, le quali devono essere basate sul ragionevole bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti nell’attuazione graduale di quei principi, compresi quelli connessi alla con-


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creta e attuale disponibilità delle risorse finanziarie e dei mezzi necessari per far fronte ai relativi impegni di spesa” (sentenza n. 119 del 1991). Infatti, se il costante orientamento di questa Corte è nel senso che il legislatore conserva piena libertà di scelta tra sistemi previdenziali di tipo mutualistico - caratterizzati dalla corrispondenza fra rischio e contribuzione e da una rigorosa proporzionalità fra contributi e prestazioni previdenziali – e sistemi di tipo solidaristico – caratterizzati, di regola, dall’irrilevanza della proporzionalità tra contributi e prestazioni previdenziali – una volta scelta con chiarezza la prima delle due opzioni, il bilanciamento degli interessi in gioco deve avvenire tenendo conto della soluzione normativa prevista dal D.Lgs. n. 509 del 1994. Nel caso in esame, quest’ultima è nel senso di realizzare modalità di finanziamento del sistema pensionistico della CNPADC attraverso la capitalizzazione dei contributi versati da ciascun lavoratore prima della quiescenza. Tali contributi sono gestiti dalla Cassa attraverso criteri di autonomia delineati dal legislatore secondo accantonamenti a basso rischio, cosicché, al momento del pensionamento, ogni lavoratore ritira il proprio montante contributivo, cioè quanto versato sino alla quiescenza, maggiorato dai cosiddetti coefficienti di trasformazione. Questa scelta si contrappone al sistema dell’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP), ora confluito nell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nel quale il pagamento delle pensioni viene effettuato utilizzando i contributi correntemente versati dai lavoratori in servizio e dai relativi datori di lavoro, senza che si effettui alcun accantonamento dei contributi stessi. Negli anni ‘90 il legislatore italiano ha ritenuto che i due sistemi potessero coesistere in ragione delle specifiche peculiarità. Risulta, quindi, evidente come in quello in esame esista un collegamento chiaro ed indefettibile fra volume dei contributi versati e livello delle prestazioni rese, legame che comporta un forte richiamo alla responsabilità del gestore, dalla cui buona amministrazione dipende in sostanza il mantenimento di un sistema che non può altrimenti finanziarsi. In definitiva, se in Costituzione non esiste un vincolo a realizzare un assetto organizzativo autonomo basato sul principio mutualistico, occorre tuttavia evidenziare che, una volta scelta tale soluzione, il relativo assetto organizzativo e finanziario deve essere preservato in modo coerente con l’assunto dell’autosufficienza economica, dell’equilibrio della gestione e del vincolo di destinazione tra contributi e prestazioni. 4.2. Sotto il profilo del buon andamento di cui all’art. 97 Cost., non può essere ignorato che la riforma della CNPADC, avvenuta in attuazione del portato normativo del D.Lgs. n. 509 del 1994, è ispirata dall’esigenza di percorrere una strada alternativa di tipo mutualistico rispetto alla soluzione “generalista” della previdenza dei dipendenti pubblici rappresentata dal sistema INPDAP, ora accorpato all’INPS. Tale alternativa consiste sostanzialmente nell’autonomia finanziaria comportante l’assoluto divieto di contribuzione da parte dello Stato, nonché la ricerca di equilibri di lungo periodo sul piano previdenziale, finanziario ed economico. In definitiva, si tratta di un sistema progettato e finalizzato all’equilibrio di lungo periodo di cui è connotato sintomatico “la previsione di una riserva legale, al fine di


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assicurare la continuità nell’erogazione delle prestazioni, in misura non inferiore a cinque annualità dell’importo delle pensioni in essere. Ferme restando le riserve tecniche esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, all’eventuale adeguamento di esse si provvede, nella fase di prima applicazione, mediante accantonamenti pari ad una annualità per ogni biennio” (art. 1, comma 4, lettera c, della L. n. 509 del 1994). In tale contesto, le spese di gestione della CNPADC devono essere ispirate alla logica del massimo contenimento e della massima efficienza, dal momento che il finanziamento di tale attività strumentale grava sulle contribuzioni degli iscritti, cosicché ogni spesa eccedente al necessario finisce per incidere negativamente sul sinallagma macroeconomico tra contribuzioni e prestazioni. Secondo tale prospettiva – come già rilevato – le misure di contenimento della spesa per i beni intermedi stabilite dall’art. 8, comma 3, del D.L. n. 95 del 2012 sono utili non solo ad assicurare pro quota la partecipazione della Cassa al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, ma anche a preservare da un’eccessiva espansione della spesa corrente una parte delle risorse naturalmente destinate alle prestazioni previdenziali, salvaguardando il buon andamento dell’ente in conformità agli obiettivi della riforma del 1994. Se la prima parte dell’art. 1, comma 3, appare, dunque, un efficace strumento di coordinamento della finanza pubblica, la seconda parte – nel destinare detto risparmio all’Erario – collide anche con l’art. 97 Cost., in quanto sottrae alla CNPADC risorse intrinsecamente destinate alla previdenza degli iscritti. E, nel caso di specie, non è tanto l’entità del prelievo – peraltro esiguo in rapporto alla dimensione delle entrate dello Stato – a determinare la non conformità a Costituzione, quanto l’astratta configurazione della norma, che aggredisce, sotto l’aspetto strutturale, la correlazione contributi-prestazioni, nell’ambito della quale si articola “la naturale missione” della CNPADC di preservare l’autosufficienza del proprio sistema previdenziale. 4.3. Con riguardo alla violazione dell’art. 38 Cost., non sono condivisibili le argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui il prelievo non colpirebbe le situazioni previdenziali degli iscritti, ma si limiterebbe ad incidere sul bilancio della Cassa. Occorre a tal proposito ricordare che – per effetto della riforma del 1994 – le posizioni previdenziali degli iscritti sono collettivamente e singolarmente condizionate dalla regola per cui la prestazione deve essere resa solo attraverso la contribuzione capitalizzata del destinatario e non attraverso l’impiego delle contribuzioni versate dagli altri iscritti in attività. Ciò con assoluta esclusione – a differenza della previdenza dei pubblici dipendenti – di qualsiasi contribuzione a carico dello Stato nel momento in cui il flusso finanziario proveniente dai versamenti contributivi non risulti sufficiente al pagamento delle prestazioni dovute. In sostanza, in un sistema ispirato – pur nell’ambito del meccanismo contributivo – alla capitalizzazione dei contributi degli iscritti, l’ingerenza del prelievo statale rischia di minare quegli equilibri che costituiscono elemento indefettibile dell’esperienza previdenziale autonoma. Questa Corte ha affermato che la scelta di dotare le Casse


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di previdenza di un sistema di solidarietà endocategoriale basato sulla comunanza di interessi degli iscritti – cosicché ciascuno di essi concorre con il proprio contributo al costo delle erogazioni delle quali si giova l’intera categoria – e di vincolare in tal senso la contribuzione di detti soggetti, costituisce soluzione del tutto ragionevole e idonea a “prevenire situazioni di crisi finanziaria e dunque di garantire l’erogazione delle prestazioni . È stato così sancito il vincolo d’una riserva legale a copertura per almeno cinque anni delle pensioni in essere (art. 2, comma 2, del D.Lgs. n. 509 del 1994) e, più recentemente in sede di riforma del sistema pensionistico generale, è stata prevista l’obbligatorietà della predisposizione di un bilancio tecnico attuariale per un arco previsionale di almeno quindici anni (art. 3, comma 12, della L. 8 agosto 1995, n. 335)”. Pertanto, “la solidarietà endocategoriale che il legislatore si è preoccupato di non far venire improvvisamente meno”, è finalizzata ad “assicurare l’idonea provvista di mezzi: considerazione, quest’ultima, tanto più valida ora, in un sistema dichiaratamente autofinanziato”, in cui “tale previsione “assicura lo strumento meglio idoneo all’attuazione di finalità schiettamente pubbliche...”. Tanto può affermarsi anche con riguardo agli scopi previdenziali perseguiti dalle Casse previdenziali autonome nel quadro della già richiamata solidarietà interna ai professionisti, a vantaggio dei quali l’ente è stato istituito: la comunanza d’interessi degli iscritti comporta che ciascuno di essi concorra con il proprio contributo al costo delle erogazioni delle quali si giova l’intera categoria, di talché il vincolo può dirsi presupposto prima ancora che imposto” (sentenza n. 248 del 1997). Considerate le complesse problematiche alla base della deficienza strutturale dei meccanismi di finanziamento della previdenza dei dipendenti pubblici, l’alternativo sistema, voluto dal legislatore per gli enti privatizzati in un periodo ormai risalente, merita di essere preservato da meccanismi – quali il prelievo a regime in esame – in grado di scalfirne gli assunti di base. Ciò anche in considerazione del fatto che detti assunti ne hanno, comunque, garantito la sopravvivenza senza interventi di parte pubblica per un ragguardevole periodo di tempo. In proposito non può essere sottovalutato come la tutela degli equilibri finanziari della CNPADC sia intrinsecamente funzionale alla garanzia delle posizioni previdenziali degli associati, a sua volta riconducibile all’art. 38 Cost. 5. In definitiva, subordinare le esigenze di coerenza dell’ordinamento previdenziale, disegnato dal D.Lgs. n. 509 del 1994 in senso mutualistico e successivamente perfezionato attraverso l’applicazione del sistema contributivo, ad un meccanismo di prelievo di importo marginale (anche per il carattere di neutralità finanziaria nell’ambito della manovra complessiva) non risulta coerente né in grado di superare i test di ragionevolezza precedentemente richiamati. Infatti, proprio una ponderazione delle esigenze di equilibrio della finanza pubblica tende inevitabilmente verso la soluzione di non alterare la regola secondo cui i contributi degli iscritti alla CNPADC devono assicurarne l’autosufficienza della gestione e la resa delle future prestazioni, in presenza di un chiaro divieto normativo all’intervento riequilibratore dello Stato.


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Per quanto considerato, l’art. 8, comma 3, del D.L. n. 95 del 2012 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo in riferimento agli artt. 3, 38 e 97 Cost. nella parte in cui prescrive che le somme derivanti dalle riduzioni di spesa previste da tale norma siano versate annualmente dalla CNPADC ad apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato. 6. Restano assorbite le ulteriori censure sollevate dal giudice rimettente. P.Q.M. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della L. 7 agosto 2012, n. 135, nella parte in cui prevede che le somme derivanti dalle riduzioni di spesa ivi previste siano versate annualmente dalla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per i dottori commercialisti ad apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato.

L’illegittimità costituzionale del tributo da spending review. La Corte Costituzionale nella sentenza n. 7/2017 ha dichiarato illegittima la norma che stabilisce per gli enti di previdenza privatizzati l’obbligo di versare in apposito capitolo del bilancio dello Stato le somme derivanti dalle riduzioni di spesa motivate dall’esigenza di produrre un incremento delle entrate pubbliche (c.d. spending review) Tale decisione si fonda sulla violazione dei parametri costituzionali rappresentati dall’art. 3 (sproporzionalità e irragionevolezza della norma), dall’art. 97 (buona amministrazione) e dall’art. 38 (tutela della previdenza). In specie la Corte ritiene che il sacrificio delle esigenze finanziarie dell’ente previdenziale produce un’irragionevole e sproporzionata compressione dell’attitudine ad assicurare un adeguato risultato economico e finanziario in favore dei lavoratori iscritti all’ente medesimo rispetto all’esiguo vantaggio apportato alla fiscalità generale. In base al ragionamento della Corte Costituzionale il prelievo da spending review operato sugli enti previdenziali va considerato come un indebito di natura tributaria, la cui restituzione è rimessa alle procedure del rimborso di imposta con giurisdizione della commissione tributaria. The Constitutional Court through the decision n. 7/2017 declared unlawful the rule by law which undertakes the previdential entities to pay to the Government an amount corresponding to the saving on public expenses (saving by spending review). This decisioni is motivated on the basis of some constitutional parameters of the Italian Constitution (art. 3, 97 and 38). Basically, the Court considered unreasonable and sproportionated the sacrifice of the finance of the previdential entities compared to the light financial advantage for the Government. According to the juridical reasoning of the Court the saving by spending review is to be considered as an undue taxable amount which can be reimboursed through the fiscal procedure with the jurisdiction of the tax court.


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Sommario: 1. Premessa. – 2. La natura tributaria del prelievo imposto agli enti previ-

denziali dalla disciplina della spending review. – 3. L’orientamento della Corte costituzionale ripropone la logica tradizionale della c.d. “parafiscalità”. – 4. Segue. Gli interessi frazionali come fondamento logico del contributo “parafiscale” richiesto a ristrette categorie di soggetti. – 5. Illegittimità del prelievo da spending review per violazione del parametro della ragionevolezza e proporzionalità. – 6. Il test di proporzionalità come elemento tipico di valutazione della correttezza del bilanciamento degli interessi in materia di finanza pubblica nella recente giurisprudenza costituzionale. – 7. L’azione di recupero dell’indebito fiscale va effettuata presso le Commissioni tributarie.

1. Premessa. – La Corte costituzionale, con la sentenza qui commentata (n. 7 dell’11.1.2017), ha affrontato un tema decisamente innovativo nel panorama del diritto tributario. La Corte dichiara illegittima la norma che stabilisce per gli enti di previdenza privatizzati l’obbligo di versare in apposito capitolo del bilancio dello Stato le somme derivanti dalle riduzioni di spesa motivate dall’esigenza di produrre un incremento delle entrate pubbliche (c.d. spending review) (1). In via preliminare, viene considerata legittima la sottoposizione dell’ente previdenziale ai vincoli di riduzione della spesa, in ragione della natura pubblicistica della funzione assolta da tali soggetti (e cioè la funzione di previdenza ed assistenza) (2) che impone di aderire agli obiettivi europei di contenimento della spesa pubblica (3). Viene invece ritenuto illegittimo l’obbligo di versare nelle casse erariali le somme risultanti dalla spending review per contrasto con diversi parametri costituzionali. In particolare, la Corte qualifica tale obbligazione posta a carico dell’ente previdenziale come una violazione del parametro della ragionevolezza (sancito nell’art. 3 Cost.) a causa della “incongrua scelta di sacrificare l’interesse istituzionale [dell’ente previdenziale] ad un generico e macro-economicamente esiguo impiego nel bilancio dello Stato”. Invero, “la compressione di un principio di sana gestione finanziaria, come quello inerente alla natura

(1) La norma in questione è rappresentata dall’art. 8 comma 3 del D. L. n. 95/2012. (2) Su tale passaggio vedi Corte Cost. sentenza n. 248/1997. (3) La Corte esprime con chiarezza il proprio convincimento su questo punto, affermando che “l’elenco delle amministrazioni pubbliche appartenenti al conto economico consolidato [dello Stato] … è stato istituito in attuazione di precisi obblighi comunitari … tale regolamento è servente alla definizione delle politiche dell’Unione europea ed al monitoraggio delle economie degli Stati membri e dell’Unione economica e monetaria”. Pertanto “l’inserimento in tale elenco ha comportato per l’ente previdenziale la sottoposizione ai pertinenti vincoli di riduzione della spesa”.


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mutualistica degli enti privatizzati ... non risulta proporzionato all’alternativa di assicurare un generico favore del bilancio dello Stato”. Adottando il canone della proporzionalità la Corte formula pertanto un sindacato di illegittimità costituzionale della norma per contrasto con l’art. 3 Cost. Parimenti, la scelta di sacrificare le esigenze finanziarie dell’ente previdenziale – e quindi di comprimere l’attitudine ad assicurare un adeguato risultato economico e finanziario in favore dei lavoratori iscritti all’ente medesimo – comporta anche la violazione dei parametri previsti nell’art. 38 Cost. e 97 Cost., poiché riduce irragionevolmente l’efficienza e la capacità di funzionamento dell’ente medesimo (4). D’altro lato, la Corte Costituzionale ritiene che nel bilanciamento degli interessi di rilevanza costituzionale possa ammettersi un prelievo di carattere eccezionale nei confronti degli enti previdenziali, in deroga al principio dell’autonomia finanziaria, mentre considera “non conforme a Costituzione articolare la norma nel senso di un prelievo strutturale e continuativo nei riguardi di un ente caratterizzato da funzioni previdenziali ed assistenziali sottoposte al rigido principio dell’equilibrio finanziario tra risorse versate dagli iscritti e prestazioni rese”. Sulla base di tali considerazioni di diritto, viene affermata l’illegittimità della norma sindacata nella parte in cui stabilisce un prelievo patrimoniale indebito a carico dell’ente previdenziale ed a favore del bilancio dello Stato. 2. La natura tributaria del prelievo imposto agli enti previdenziali dalla disciplina della spending review. – La sentenza qui commentata qualifica la prestazione patrimoniale posta a carico degli enti previdenziali come un “prelievo”, valorizzando l’effetto di depauperamento subito dai soggetti tenuti a riversare in apposito capitolo del bilancio dello Stato le somme rivenienti dal risparmio operato in base alle regole della spending review.

(4) Il ragionamento della Corte parte dall’assunto che la riforma previdenziale degli enti privatizzati “è ispirata dall’esigenza di percorrere una strada alternativa di tipo mutualistico rispetto alla soluzione generalista della previdenza dei dipendenti pubblici … tale alternativa consiste sostanzialmente nell’autonomia finanziaria comportante l’assoluto divieto di contribuzione da parte dello Stato, nonché la ricerca di equilibri di lungo periodo sul piano previdenziale, finanziario ed economico”. Ne consegue pertanto che “le spese di gestione [dell’ente previdenziale] devono essere ispirate alla logica del massimo contenimento e della massima efficienza, dal momento che il finanziamento di tale attività strumentale grava sulle contribuzioni degli iscritti, cosicché ogni spesa eccedente al necessario finisce per incidere negativamente sul sinallagma macroeconomico tar contribuzioni e prestazioni”.


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Peraltro, la Corte accoglie una qualificazione apparentemente neutrale di tale prelievo chiarendo incidentalmente di non volere entrare nel merito della natura giuridica della prestazione patrimoniale (5). Invero, in alcune parti della sentenza emergono elementi concettuali che lasciano intendere l’accoglimento di una qualificazione del prelievo a carico degli enti previdenziali come un tributo. In specie: i. la Corte riferisce che la questione di legittimità riguarda “l’imposizione del versamento annuale nelle casse dello Stato” (6); il sintagma “imposizione” fornisce una chiara indicazione del background logico su cui si fonda il ragionamento svolto nella sentenza (e cioè la natura tributaria del versamento imposto gli enti previdenziali); ii. la prestazione patrimoniale conseguente alla spending review viene qualificata come un “contributo” (7), con una scelta terminologica che indica una tipologia di tributo tradizionalmente riconosciuta nelle classificazioni dottrinali (8); iii. la Corte accoglie in buona sostanza l’intero ragionamento giuridico del Consiglio di Stato (giudice a quo) nell’ambito del quale la prestazione patrimoniale a carico degli enti previdenziali è assimilata ai tributi (9). Ad ogni modo, gli elementi caratterizzanti di tale prelievo posto a carico degli enti previdenziali appaiono coerenti con i connotati propri del tributo, così come ricostruito dalla dottrina e dalla giurisprudenza (10).

(5) In particolare, all’inizio del terzo capoverso del paragrafo 4.1. (delle considerazioni in diritto) la sentenza riporta l’inciso “prescindendo dall’indagine sulla natura del contributo”, che evidenzia chiaramente l’intenzione della Corte di non qualificare la prestazione patrimoniale richiesta agli enti previdenziali. (6) Par. 4 delle considerazioni in diritto della sentenza commentata. (7) Par. 4.1. terzo capoverso delle considerazioni in diritto della sentenza commentata. (8) Su questo punto vedi G. Ingrosso, I contributi nel sistema tributario italiano, Napoli 1964. Cfr. altresì P. Boria, Sistema tributario, Torino 2008, 863 ss. (9) “Infine, secondo il giudice a quo la norma impugnata violerebbe gli artt. 3 e 53 Cost. in quanto dovendosi ritenere che i contributi versati dagli iscritti siano assimilabili ai tributi il prelievo corrispondente al versamento imposto alla Cassa … non terrebbe in considerazione né la capacità contributiva del soggetto, né qualsivoglia criterio di progressività” (ultimo periodo par. 2 delle considerazioni in fatto). (10) Sul tema si è formata una dottrina assai consistente che, dopo annosa discussione, sembra ormai avere raggiunto una posizione tendenzialmente univoca. A tal riguardo cfr. A. Fedele, La distinzione dei tributi dalle entrate di diritto privato e la competenza del tribunale, in Dir. prat. trib., 1969, II, 3; Id., Corrispettivi di pubblici servizi, prestazioni imposte, tributi, in Riv. dir. fin., 1971, II, 4; L. Del Federico, Tassa, in Dig. IV, disc. priv., sez. comm., XV, 337;


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È noto, infatti, che la nozione di tributo è individuata con riferimento a quattro elementi qualificanti: a. il depauperamento patrimoniale del contribuente, b. la coattività della prestazione patrimoniale richiesta al soggetto; c. la destinazione del gettito adenti pubblici; d. la funzione pubblica della prestazione patrimoniale. Il prelievo da spending review presenta certamente le prime tre caratteristiche, trattandosi di un depauperamento patrimoniale imposto in modo coattivo (attraverso legge dello Stato) e destinato al bilancio dello Stato. Anche la funzione pubblica della prestazione patrimoniale sembra ricorrere nel caso concreto, considerando che il prelievo è correlato al perseguimento di obiettivi generali della finanza pubblica richiesti dalle politiche comunitarie (così come evidenziato nella stessa sentenza qui commentata). Se ne può pertanto dedurre che la formula neutrale richiamata dalla Corte costituzionale (e cioè il “prelievo” senza ulteriore qualificazione) debba coerentemente essere riportata all’ambito classificatorio del tributo. 3. L’orientamento della Corte costituzionale ripropone la logica tradizionale della c.d. “parafiscalità”. – A ben guardare, la classificazione come tributo riferibile al “prelievo” da spending review imposto agli enti previdenziali sembra potersi accostare concettualmente ai contributi di natura tributaria. Ed invero, il prelievo tributario posto a carico di una categoria limitata di soggetti può essere ricondotto alla categoria del “contributo”, figura giuridica polisemantica che si presenta in modo piuttosto generico ed alquanto equivoco, a causa dell’uso ambiguo che ne è stato fatto nelle scienze economiche per indicare in maniera indistinta ogni forma di concorso del privato alle spese dell’ente pubblico (11). Nel tentativo di offrire una rappresentazione compiuta di un fenomeno, che ormai presenta caratteri recessivi, la dottrina tributaria ha teorizza-

Id., Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000; G. Fransoni, La nozione di tributo nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Aa. Vv., Diritto tributario e Corte Costituzionale, a cura di L. Perrone e C. Berliri, Napoli, 2006, 123 ss.; M. Ingrosso, M. Tributo e sovranità, in Aa. Vv. Diritto tributario e Corte Costituzionale, cit., 137; A. Viotto, Tributo, in Dig. Disc. priv., Sez. comm., vol. XVI, Milano, 1999, 236; P. Boria, Diritto tributario, Torino 2016, 197 ss. (11) Sul tema richiamo quanto detto in Boria, Il sistema tributario, Torino 2008, 861 ss.


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to la possibilità di costruire un genus a sé stante meglio conosciuto come “parafiscalità” (12). Da un punto di vista economico, con il sintagma “parafiscalità” si fa riferimento alla finanza degli enti pubblici “non territoriali”, al sistema cioè di entrata e di spesa di quegli organismi i quali, pur avendo caratteristiche pubbliche e pur essendo dotati di un proprio bilancio alimentato da prelievi coattivi, non dispongono di un territorio da amministrare. Il fenomeno si origina in Italia negli anni trenta in concomitanza con una forte spinta di decentramento finanziario in capo ad enti pubblici di nuova creazione, nonché a seguito di un marcato intervento dello Stato nell’economia. L’esigenza preminente di questa epoca storica riguardava, infatti, il reperimento di ulteriori strumenti di finanziamento per fronteggiare nuovi oneri per servizi di utilità collettiva senza tuttavia gravare sulla fiscalità generale (13). Emergeva, a tal proposito, la considerazione di fondo che vi fossero casi nei quali la fissazione di prelievi obbligatori stabiliti per legge rappresentasse

(12) Sul tema della parafiscalità si considerano contributi essenziali G. Morselli, Le finanze degli enti pubblici non territoriali, Padova, 1943; Id, La parafiscalità, Lisbona, 1952; Id, Prime linee di introduzione alla teoria della parafiscalità, Padova, 1957; G. Allorio, La portata dell’art. 23 della Costituzione e l’incostituzionalità delle leggi sui contributi turistici, in Dir. prat. trib., 1957, II, 78; G. Ingrosso, Parafiscalità e teoria giuridica dell’imposta, in Rass. fin. pubbl., 1956, 223; A. Pesenti, Della natura e della sistemazione giuridica di alcune contribuzioni che nascono dalla disciplina dei prezzi, Studi parmensi, 1950; A. Amorth, Fondamento costituzionale delle prestazioni pecuniarie ad enti pubblici in Scritti giuridici, vol III, 1513, Milano, 1999; F. Forte, Parafiscalità, in NNDI, vol. XXVII, Torino, 1965, 376; ID, Note sulla nozione di tributo nell’ordinamento finanziario italiano e sul significato dell’art. 23 della Costituzione, in Riv. dir. fin., I, 1956, 248; Id, Sull’attribuzione della qualità di tassa e di imposta a pubbliche entrate, in Riv. dir. fin., II, 1952, 201; G. Stefani, Presupposti e sviluppi della teoria della parafiscalità , in Storia e storiografia del pensiero moderno, a cura di Morselli, Padova, 1960, 341; Id, Parafiscalità e fiscalità occulta nel finanziamento della sicurezza sociale, in Boll. Trib., 1980, 5; G.A. Micheli, Profili critici in tema di potestà di imposizione, in Riv. dir. fin., 1964, I, 31; M.S. Giannini, I proventi degli enti pubblici minori e la riserva di legge, in Riv. dir. fin., 1957, I, 3; S. Buscema, Considerazioni sulla parafiscalità e sul suo controllo, in Riv. pol. Econ., 1956, 310; Id, Natura tributaria dei contributi parafiscali, in Dir. prat. trib., 1957, II, 265; S. Cosciani, Parafiscalità, in Enc. it., App., III, Roma, 1961, 362; A. Fedele, Corrispettivi di pubblici servizi, prestazioni imposte, tributi, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1971, II, 4; Id, La distinzione dei tributi dalle entrate di diritto privato e la competenza del tribunale, in Dir. prat. trib., 1969, II, 3; R. Braccini, Parafiscalità, in Dig. IV sez. comm., X, Torino, 1994, 447 ss. (13) Parte della dottrina ha rilevato come il termine “parafiscalità” si è affermato in Italia soltanto per eliminare lo stigma della finanza corporativa totalitaria. Cos’ esso intende richiamare la nozione di una imposta “categoriale” o di “gruppo” la quale risulterebbe collegata a “collettività redistributive” prive di capacità contributiva. In tal senso R. Braccini, Parafiscalità, cit., 456.


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l’unico meccanismo di finanziamento per una serie di servizi gratuiti sostenuti nell’interesse collettivo, considerando che tali servizi non potevano essere offerti, a parità di condizioni, attraverso il meccanismo del mercato. In specie, si andava formando il convincimento che processi di offerta collettiva finanziati indipendentemente dal godimento del servizio (e quindi svincolati dalla domanda di mercato) consentivano di garantire una adeguata dimensione del servizio a favore di comunità ristrette, connotate da un chiaro spirito mutualistico (14). Così, cominciò a stabilirsi il principio che alcuni servizi resi da enti pubblici dovevano essere finanziati sulla base di prestazioni patrimoniali imposte a titolo di contributo ai cittadini che traevano beneficio dai servizi stessi. In qualche modo si andava definendo una relazione tra la prestazione patrimoniale obbligatoria per legge ed il beneficio ritratto dall’individuo con riferimento al servizio pubblico. Mantenendosi in un ambito di indagine prettamente economico, la dottrina (15) ha individuato le caratteristiche comuni delle finanze parafiscali attraverso l’individuazione di quattro connotati principali: i. l’esistenza di un ente pubblico indipendente, dotato di un bilancio proprio; ii. la mancanza di una natura territoriale per l’ente che eroga il servizio; iii. la previsione di entrate obbligatorie prelevate dalla cerchia dei beneficiari del servizio fornito dall’ente pubblico; iv. la previsione di servizi da erogare a favore di categorie ben determinate (individuate con riferimento ad una posizione professionale ovvero ad una condizione economica o sociale ovvero all’utenza del servizio). Si può osservare, peraltro, che le entrate parafiscali assumono connotati radicalmente differenti rispetto ai “prezzi” non soltanto per la fonte genetica (da individuarsi nella legge e non nella contrattazione libera di mercato), ma anche per il contenuto commutativo rispetto al servizio erogato; ed infatti, assai frequentemente, pur riscontrandosi una correlazione con il beneficio ricevuto dal destinatario del servizio, la determinazione della prestazione patrimoniale obbligatoria non viene fissata secondo uno schema sinallagmatico, bensì in ragione di valutazioni di opportunità politica (e dunque può rivelarsi inferiore ovvero, talora, superiore al costo del servizio). Ne consegue che le regole applicabili alle entrate parafiscali non possono individuarsi in base alla teoria dei prezzi, ma piuttosto secondo i criteri della finanza pubblica.

(14) Vedi R. Braccini, Parafiscalità, cit., passim. (15) Vedi la dottrina citata in precedenza alla nota 12.


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Benché recentemente siano stati formulati dubbi in merito alla necessità ed alla stessa opportunità di ricorrere alla formula della “parafiscalità”, intesa come categoria giuridica denotata da elementi di autonomia concettuale (16), l’utilizzo di tale classificazione vale ad esprimere la differenza che intercorre tra il contributo riconducibile ad una solidarietà ristretta, di tipo mutualistico, rispetto alla solidarietà generale, sostenuta dalle imposte e dagli altri tributi. Ne consegue pertanto l’opportunità di rimarcare la distinzione tra i contributi obbligatori, posti a carico di un gruppo ristretto di soggetti in ragione delle esigenze di categoria, e gli altri tributi, che si riferiscono all’interesse generale della collettività territoriale (nazionale o riferibile ad un ente pubblico territoriale, come la Regione, il Comune, la città metropolitana etc.) (17). 4. Segue. Gli interessi frazionali come fondamento logico del contributo “parafiscale” richiesto a ristrette categorie di soggetti. – L’accostamento alla “parafiscalità” vale ad evidenziare il fondamento giuridico del contributo imposto ai soggetti iscritti agli enti previdenziali (e quindi a spiegare la logica di finanza pubblica sottostante alla contribuzione previdenziale). La contribuzione previdenziale è funzionale ad assicurare il perseguimento di un obiettivo generale della collettività – e cioè la tutela della previdenza e della assistenza sociale, in base al principio contenuto nell’art. 38 Cost. (18) – che viene misurato e specificamente curato per categorie definite e circoscritte di lavoratori. In particolare, gli enti previdenziali privatizzati si fanno carico di perseguire il suddetto obiettivo di tutela della previdenza e dell’assistenza per le varie categorie di lavoratori autonomi (19).

(16) La dottrina recente sostiene che la parafiscalità assume oggi un carattere prevalentemente descrittivo e classificatorio di entrate obbligatorie che presentano alcune caratteristiche comuni, ma non anche un valore giuridico specifico quale categoria di prestazioni patrimoniali intermedie rispetto ai tributi e ad altre entrate pubbliche. Vedi a tal riguardo R. Braccini, Parafiscalità, cit., 447 ss. (17) Da ultimo sull’argomento vedi P. Puri, Destinazione previdenziale e prelievo tributario, Milano, 2005, 8 ss. a cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti bibliografici. (18) In generale per un inquadramento sistematico del tema della sicurezza sociale nell’ordinamento giuridico moderno cfr. G. Mazzoni, Previdenza e assistenza sociale, in Studi in onore di T. Ascarelli, III, Milano 1968; G. Chiarelli, La sicurezza sociale, in Nuovo trattato di diritto del lavoro, a cura di L. Riva Sanseverino, G. Mazzoni, III, Padova, 1971, 3 ss; M. Persiani Art. 38, in Commentario della costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1979, 237 ss.; M. Cinelli, Previdenza sociale, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1988. (19) Per un inquadramento sistematico della previdenza complementare nel modello classico di sicurezza sociale vedi M. Persiani, Diritto della previdenza sociale, Padova, 1987,


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Il fondamento della contribuzione previdenziale va ravvisato pertanto nella cura di un interesse settoriale e delimitato, riconducibile in sostanza ad una frazione – più o meno grande – della intera collettività (20). Ne consegue, pertanto, l’emersione di interessi di categoria, che attribuiscono rilievo ai bisogni di un gruppo circoscritto di consociati che non possono identificarsi con gli interessi ed i bisogni della collettività intera. L’emersione degli interessi di categoria costituisce una delle note caratteristiche degli ordinamenti giuridici a partire dal XIX secolo a seguito della proliferazione dei raggruppamenti sociali che si sviluppano intorno alla rivendicazione di bisogni apparentemente irriducibili alla sintesi statale. Essi sono una tipica espressione del processo di “differenziazione degli interessi”, risultante dalla intersecazione delle cerchie di vita sociale, i quali non possono venire riportati alla sfera individuale né alla sfera statale e generale (21). Si tratta di “interessi speciali”, in quanto volti al perseguimento di obiettivi circoscritti rispetto a quelli della comunità generale e dunque commisurabili rispetto a questi ultimi secondo un rapporto di species a genus; nonché di “interessi frazionali”, aventi un carattere superindividuale e riconducibili alle aspettative ed ai bisogni di una frazione della comunità, identificabile in ragione dell’area dei soggetti interessati. Il profilo di maggiore rilievo riguarda la tensione dialettica che si instaura con gli altri interessi riconosciuti dall’ordinamento, delineandosi il problema delle “appartenenze multiple” del medesimo individuo rispetto ad una pluralità di raggruppamenti ed alla società (22).

34 ss. Per l’analisi del quadro giuridico istituito dalla legge n. 509/1994 vedi R. Pessi, La riforma delle pensioni e la previdenza complementare, Padova, 1997. Per alcune considerazioni di carattere fiscale sull’argomento cfr. altresì P. Puri, Destinazione previdenziale e prelievo tributario, Milano, 2005. (20) Sul fondamento del rapporto giuridico previdenziale vedi M. Persiani, Il sistema giuridico della previdenza sociale, Padova, 1960; Id., Sicurezza sociale, in Nov.mo Dig. It., XVII, Torino, 1970, 300 ss; Id., Lezioni di diritto della previdenza sociale, Padova, 1982; F. Rossi, Rapporto di lavoro subordinato e rapporto giuridico previdenziale, Milano, 1968; Id., Previdenza sociale, Padova, 2000. Per alcune considerazioni sull’argomento vedi P. Puri, La previdenza nel disegno prefigurato nella Costituzione, in Boria, P. Puri, Welfare e previdenza: il benessere dietro l’angolo, Roma, 2012, 95 ss. (21) Vedi in argomento R. Von Mohl, Die Geschichte und Literature der Staatswissenschaften, I, Erlangen, 1855. Per ampi riferimenti e richiami si veda L. Ornaghi, Il concetto di interesse, Milano, 1984, 452 ss. (22) Può a tal riguardo riscontrarsi una intrinseca ambivalenza degli interessi di categoria: per un verso, essi possono porsi in termini di correlazione strumentale o comunque di com-


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Proprio la percezione conflittuale dell’interesse frazionale rispetto all’interesse della comunità costituisce il dato caratterizzante del pluralismo all’interno dei sistemi costituzionali moderni. Appartiene infatti alla tradizione costituzionale consolidata l’affermazione secondo cui l’interesse di categoria è individuabile con riferimento ad un gruppo di individui “che siano uniti e spinti da un medesimo e comune impulso di passione o di interesse in contrasto con i diritti degli altri cittadini o con gli interessi permanenti e complessi della comunità” (23). Emerge dunque l’esigenza di ricercare forme di mediazione normativa che consentano di ponderare l’interesse generale con gli interessi frazionali, attraverso una progressiva opera di ravvicinamento degli obiettivi della comunità rispetto alle sfere di utilità dei raggruppamenti sociali, eventualmente anche mediante meccanismi di contrattazione degli interessi (24). Si va pertanto realizzando una sorta di “governo degli interessi”, nell’ambito del quale l’interesse generale viene ricostruito ed articolato anche tenendo conto delle preferenze e delle esigenze formulate dai gruppi dotati di maggiore autorevolezza e forza rappresentativa (25). In questa prospettiva appare agevole rilevare come gli interessi frazionali si pongano in una posizione differenziata rispetto agli interessi generali della collettività ed ai valori della sfera individuale. Rispetto all’ordinamento tributario ne consegue pertanto che gli interessi frazionali, cui si ispirano le regole fiscali (di agevolazione o comunque di diversa imposizione) costituiscono una sorta di tertium genus rispetto all’interesse fiscale dello Stato comunità ed alla capacità contributiva. L’ambivalenza intrinseca degli interessi di categoria determina così una rilevante tensione dialettica rispetto ai tradizionali valori costituzionali dell’imposizione fiscale nella declinazione concreta dell’ordinamento tributario (26).

plementarità rispetto agli interessi generali, in quanto funzionali a perseguire obiettivi coincidenti con quelli dell’intera comunità; per altro verso, gli interessi di categoria sono suscettibili di esprimere un’istanza di conflitto nei confronti della comunità generale, laddove siano destinati a promuovere aspettative e bisogni collidenti rispetto ai programmi di sviluppo formulati dallo Stato. Sul punto vedi P. Boria, Sistema tributario, Torino, 2008, 1050 ss. (23) Si veda il saggio n. 10 di J. Madison in Hamilton - Madison - Jay, The federalist, New York, 1788, trad. ital. a cura di D’Addio e Negri, Bologna, 1997, 190. (24) Si vedano sul punto la nota ricostruzione sulla “democrazia degli interessi” sviluppata da R. Dahl, A preface to the Democratic Theory, Chicago 1956, trad. ital. Milano, 1994. (25) Vedi W. Streeck - C. Schmitter, Comunità, mercato, Stato e associazioni? Il possibile contributo dei governi privati all’ordine sociale, in Stato e mercato, 1985. (26) Sulla relazione di conflitto (anche solo potenziale) dei principi promozionali ricon-


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5. Illegittimità del prelievo da spending review per violazione del parametro della ragionevolezza e proporzionalità. – Nella sentenza commentata la Corte Costituzionale chiarisce due passaggi logici essenziali per la ricostruzione del quadro giuridico applicabile al tema del finanziamento del rapporto previdenziale: i. è da considerare legittima l’inclusione dell’ente previdenziale nell’elenco dei soggetti assimilati alla pubblica amministrazione al fine di avviare e realizzare un piano di economie di spesa (riconducibili per l’appunto alla spending review) per il rafforzamento generale della finanza pubblica in ottemperanza alle linee guida provenienti dalle politiche comunitarie; ii. è invece illegittima la compressione dell’interesse frazionale posto a fondamento del rapporto giuridico previdenziale mediante la produzione di una minusvalenza nei conti dell’ente previdenziale a seguito dell’obbligo di riversare i risparmi prodotti dalla spending review in apposito capitolo del bilancio dello Stato. Il prelievo imposto agli enti previdenziali viene considerato illegittimo dalla Corte per la violazione di una serie di parametri costituzionali. In primo luogo, la prestazione patrimoniale imposta all’ente previdenziale appare incongrua e sproporzionata rispetto al beneficio prodotto allo Stato, con violazione del principio stabilito dall’art. 3 Cost. La Corte rileva a questo proposito che il prelievo da spending review, oltre ad avere una consistenza quantitativa esigua rispetto ai valori complessivi emergenti dal bilancio dello Stato, produce un rilevante sacrificio rispetto alla gestione finanziaria dell’ente previdenziale, poiché riduce in maniera significativa i flussi reddituali che possono essere utilizzati per ottimizzare il risultato della gestione annuale. In secondo luogo, la lesione dell’autonomia finanziaria dell’ente previdenziale conseguente all’imposizione dell’obbligo di sostenere una prestazione patrimoniale in favore di terzi (e cioè in favore dello Stato) altera il rapporto di correlazione che intercorre tra contribuzione obbligatoria, a carico degli iscritti, e prestazioni pensionistiche, a carico dell’ente previdenziale medesimo, con una duplice violazione dei principi stabiliti dall’art. 97 Cost. (buona amministrazione) e dall’art. 38 Cost. (tutela del diritto alla previdenza ed assistenza dei lavoratori). Il sottofondo logico delle tre violazioni di parametri costituzionali è indi-

ducibili agli interessi frazionali rispetto ai valori dell’interesse fiscale e della capacità contributiva vedi P. Boria, L’interesse fiscale, Torino 2002, 107 ss.


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viduabile nel convincimento che, nell’attuale quadro giuridico, l’autonomia finanziaria dell’ente previdenziale rappresenta un valore intangibile rispetto all’azione legislativa. La Corte puntualizza, infatti, che il legislatore è libero di scegliere il meccanismo di finanziamento per la previdenza obbligatoria per i vari settori del lavoro, optando tra sistemi solidaristici e sistemi mutualistici (27); però, laddove sia effettuata la scelta per un sistema di tipo mutualistico, in cui deve sussistere una rigorosa corrispondenza tra contribuzione obbligatoria e prestazioni previdenziali, questa scelta non può essere messa in discussione successivamente con una compressione della gestione finanziaria dell’ente previdenziale, che minerebbe il fondamento stesso del sistema mutualistico (alterando la corrispondenza tra contribuzione obbligatoria e prestazioni previdenziali) (28). Pertanto, poiché per gli enti previdenziali privatizzati – come nel caso di specie – è stata operata la scelta di un sistema previdenziale mutualistico (a seguito della legge n. 509/1994), l’imposizione del prelievo da spending review si pone in irrimediabile contrasto con le ragioni dell’autonomia finanziaria sottese al sistema mutualistico stesso e va dichiarato illegittimo (29). 6. Il test di proporzionalità come elemento tipico di valutazione della correttezza del bilanciamento degli interessi in materia di finanza pubblica nella recente giurisprudenza costituzionale. – In sostanza, l’opzione per il sistema di mutualità interna negli enti previdenziali privatizzati – e dunque per un assetto organizzativo della previdenza di categoria ispirato alla logica della solidarietà frazionale – produce l’incompatibilità in termini di coerenza con la solidarietà generale riconducibile all’intera collettività nazionale.

(27) Sulla ricostruzione della logica del sistema di finanziamento della sicurezza sociale e della previdenza, vedi F. Forte - F. Reviglio, La finanza della sicurezza sociale, Torino, 1975. In specie sulla mancanza di vincoli di carattere costituzionale nella configurazione dei metodi di reperimento delle risorse pubbliche destinate al finanziamento dei sistemi previdenziali, vedi M. Cinelli, Sicurezza sociale, in Enc. Dir., XLII, Milano, 1990, 505 ss. (28) Alterazione dell’equilibrio finanziario tanto più rilevante in quanto gli enti previdenziali privatizzati non sono legittimati a ricevere alcun finanziamento dallo Stato. (29) Come rileva puntualmente la Corte (alla fine del par. 4.1. delle considerazioni di diritto) “in definitiva, se in Costituzione non esiste un vincolo a realizzare un assetto organizzativo autonomo basato sul principio mutualistico, occorre tuttavia evidenziare che, una volta scelta tale soluzione, il relativo assetto organizzativo e finanziario deve essere preservato in modo coerente con l’assunto dell’autosufficienza economica, dell’equilibrio della gestione e del vincolo di destinazione tra contributi e prestazioni”.


La Corte formula, dunque, un bilanciamento di interessi tra l’interesse frazionale della categoria di lavoratori interessati dalla previdenza degli enti privatizzati e l’interesse generale della collettività nazionale (riconducibile ai bisogni di finanza dello Stato). La valutazione del corretto inquadramento giuridico degli interessi in gioco va rimessa infatti, nell’apprezzamento della Corte costituzionale, a “determinazioni discrezionali del legislatore, le quali devono essere basate sul ragionevole bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti nell’attuazione graduale di quei principi, compresi quelli connessi alla concreta ed attuale disponibilità delle risorse finanziarie e dei mezzi necessari per fare fronte ai relativi impegni di spesa” (30). Nel caso di specie il bilanciamento è stato effettuato tenendo conto dell’assetto della scelta del sistema mutualistico degli enti previdenziali privatizzati e sulla base di una valutazione di coerenza, ragionevolezza e proporzionalità. Nella giurisprudenza costituzionale è ricorrente il ricorso al parametro della ragionevolezza per il sindacato di legittimità delle leggi tributarie, trattandosi del parametro di valutazione più indicato per il bilanciamento della dialettica degli interessi costituzionali coinvolti tipicamente nel fenomeno tributario (31). Di recente la Corte costituzionale ha mostrato di adottare anche il parametro della proporzionalità nel sindacato di leggi tributarie per la valutazione della correttezza della soluzione assunta dal legislatore ordinario (32). In particolare, la valutazione del test di proporzionalità viene formulata in base ad una sequenza che si articola in tre passaggi logici (33): a. dapprima si identifica lo scopo perseguito dal legislatore;

(30) Vedi la sentenza commentata (par. 4.1. delle considerazioni di diritto) che peraltro richiama espressamente Corte Cost. sentenza n. 119/1991. (31) Vedi in argomento G. Scaccia, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000; L. D’andrea, Ragionevolezza e legittimazione del sistema, Milano, 2005. Nella prospettiva tributaria vedi P. Boria, Il bilanciamento di interesse fiscale e capacità contributiva nell’apprezzamento della Corte costituzionale, in Aa. Vv., Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di L. Perrone e C. Berliri, Napoli, 2007, 64 ss. (32) Vedi Corte Cost. sentenza n. 10/2015, in Riv. Dir. Trib., 2015, II, 4 ss., ove si afferma che “affinché il sacrificio recato ai principi i eguaglianza e di capacità contributiva non sia sproporzionato e la differenziazione dell’imposta non degradi in arbitraria discriminazione, la sua struttura deve coerentemente raccordarsi con la relativa ratio giustificatrice”. (33) Sul tema vedi P. Boria, L’illegittimità costituzionale della Robin hood tax e l’enunciazione di alcuni principi costituzionali informatori del sistema della finanza pubblica, in Riv. Dir. Trib., 2015, II, 388 ss.


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b. si definisce il rapporto tra mezzi normativi e fini legislativi; c. infine, si valutano gli effetti prodotti in concreto dalle norme sindacate per verificare la connessione razionale dei mezzi rispetto ai fini. Il giudizio di proporzionalità costituisce un meccanismo del sindacato delle leggi –frequente nella giurisprudenza costituzionale straniera, e meno frequente nella giurisprudenza costituzionale nazionale – che viene sempre più diffuso in ragione dei principi provenienti dall’ordinamento comunitario. Va segnalato a tale riguardo che, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, è adottato frequentemente il controllo della idoneità strumentale e graduale – e dunque il ricorso al principio della proporzionalità – della fattispecie normativa di diritto interno a raggiungere l’obiettivo sistematico assegnato dal Trattato o dal diritto comunitario derivato (34). Si tratta pertanto di un parametro di valutazione teleologica della norma, la cui applicazione è affidata a giudizi di tipo probabilistico-quantitativo e ad una analisi di tipo prognostico sulle finalità dell’atto normativo all’interno dell’ordinamento comunitario. In specie, il giudizio di proporzionalità viene utilizzato dalla Corte di Giustizia per verificare se la compressione di diritti individuali o comunque di situazioni giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento comunitario in ragione del perseguimento di interessi pubblici nazionali è l’unica soluzione possibile ed è realizzata in modo ragionevole oppure se esistono altre forme di bilanciamento che risultano meno onerose per gli interessi individuali (35). Il principio di proporzionalità nell’ordinamento comunitario risponde così ad una logica di bilanciamento di interessi contrapposti (comunitario e nazionale) secondo una valutazione di efficienza strumentale e gradualistica della legge. Ne discende pertanto che il legislatore interno non può imporre, mediante atti normativi, obblighi o restrizioni dei diritti individuali e delle libertà in misura superiore a quanto strettamente necessario per il raggiungimento della finalità pubblica da perseguire, operando un confronto tra i vantaggi pubblici e i pregiudizi individuali. In particolare si è sostenuto che il controllo di proporzionalità della normativa interna implica la verifica di tre diversi standard: idoneità, necessità, adeguatezza. L’idoneità costituisce la potenziale capacità di perseguire l’o-

(34) Cfr. P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2016, 283 ss. (35) Sul principio di proporzionalità nell’ordinamento comunitario cfr. D.U. Galetta, Discrezionalità amministrativa e principio di proporzionalità, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1994, 139 ss.; M. Sandulli, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998.


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biettivo fissato dalla norma nazionale così da consentire la valutazione della congruità del mezzo rispetto al fine. La necessità viene individuata in ragione della mancanza di una alternativa rispetto alla scelta normativa, stante l’assenza di disponibilità di altri strumenti parimenti efficaci per il raggiungimento dell’obiettivo fissato dall’ordinamento nazionale. L’adeguatezza rappresenta l’attività discrezionale volta al bilanciamento dei valori (ed in specie degli interessi pubblici ed individuali coinvolti dalla soluzione normativa prescelta). La giurisprudenza comunitaria ha riconosciuto che il principio di proporzionalità riveste una notevole rilevanza nella materia tributaria (36), trattandosi di criterio essenziale per garantire che il perseguimento degli obiettivi di diritto interno produca il minor pregiudizio possibile rispetto alle finalità comunitarie (37). Possono rinvenirsi varie decisioni della Corte di Giustizia in cui viene fatto ricorso in maniera esplicita al principio di proporzionalità al fine di sindacare determinate misure legislative nazionali le quali, pur risultando dirette a proteggere un interesse pubblico, si riflettono in danno all’interesse individuale (o frazionale) in misura giudicata non adeguatamente proporzionale. In tal caso il principio di proporzionalità mostra una qualche contiguità rispetto al principio di effettività, in quanto esprime il bisogno di assicurare una concreta tutela ai cittadini in ordine ai propri diritti, evitando che le norme legislative pongano oneri ed adempimenti tali da rendere eccessivamente oneroso l’esercizio dei diritti medesimi (38).

(36) Vedi esplicitamente in tal senso, Corte di Giustizia, sentenza del 5.7.1977, causa C-114/76, Bela-Mhle; sentenza del 18.12.1997, cause riunite C-286/94, C-340/95, C-401/95, Molenheide; sentenza del 21.3.2000, cause riunite da C-110/98 a C-147/98, Galbafrisa; sentenza del 10.7.2008, causa C-25/07; sentenza del 27.11.2008, causa C-418/07, Societè Papillon; sentenza del 21.1.2010, causa C-311/08. (37) Per una accurata analisi della portata del principio di proporzionalità in materia fiscale vedi A. Mondini, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’Iva europea, Ospedaletto, 2012; A. Meloncelli, Il controllo di proporzionalità e la giurisprudenza comunitaria in materia fiscale, in Riv. Dir. Trib. 2005, I, 779 ss. Con particolare riguardo all’applicazione del principio di proporzionalità alla materia delle presunzioni legali vedi G. Petrillo, L’osservanza del principio di proporzionalità UE nell’individuazione dei criteri presuntivi ragionevoli, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2013, 373 ss. (38) Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 18.12.1997, cause riunite C-286/94, C-340/95, C-401/95, Molenheide; sentenza del 8.7.1999, causa C-254/97, Baxter; sentenza del 10.7.2008, causa C-25/07; sentenza del 27.11.2008, causa C-418/07, Societè Papillon; sentenza del 21.1.2010, causa C-311/08.


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7. L’azione di recupero dell’indebito fiscale va effettuata presso le Commissioni tributarie. – Il riconoscimento della illegittimità del prelievo da spending review imposto agli enti previdenziali privatizzati costituisce la premessa logica per l’avvio di un’azione di recupero di quanto indebitamente versato. La qualificazione di tale prestazione patrimoniale come tributo (secondo la ricostruzione formulata in precedenza) comporta la necessità del ricorso alla procedura del rimborso di imposta e poi, eventualmente, alla giurisdizione tributaria (39). Invero, il diritto alla restituzione del tributo rappresenta la situazione giuridica soggettiva che nasce, in capo al contribuente, in tutti i casi in cui viene effettuato un pagamento di una prestazione tributaria in assenza di un vincolo obbligatorio. Ed infatti, poiché l’obbligazione costituisce la causa giustificatrice di ogni versamento tributario, la ripetizione dell’indebito, conseguentemente, assurge a rimedio giuridico generale per i versamenti effettuati in assenza di obbligazione. Nel caso di specie, l’indebito tributario si realizza nel momento in cui durante la fase della riscossione viene effettuato un versamento, a titolo di tributo, che non è supportato da una corretta previsione di legge (stante l’illegittimità costituzionale) (40). La qualificazione indebita della somma versata è pertanto un effetto dell’utilizzo dell’obbligazione, quale strumento per la realizzazione del prelievo, e dell’accoglimento del principio di ripetizione dell’indebito per neutralizzare gli spostamenti patrimoniali in assenza di causa (41).

(39) Si tratta di un tema noto alla dottrina tributaria: la dichiarazione di incostituzionalità di una norma che imponeva una prestazione fiscale costituisce una tipica fattispecie di rimborso tributario. Su questo tema cfr. A. Fedele, Rapporti pendenti e rapporti esauriti nell’applicazione retroattiva dell’imposta sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili, in Giur. It., 1967, I, 587 ss.; A. Berliri, Gli effetti delle sentenze della Corte costituzionali sui rapporti tributari pendenti con particolare riferimento all’ILOR, in Giur. Imp. 1981, 343 ss. (40) All’eliminazione retroattiva della disposizione dall’ordinamento interno consegue che il versamento tributario risulta effettuato in assenza di obbligazione: la prestazione fiscale risulta, quindi, ab origine indebita e il diritto al rimborso si considera determinato a seguito del versamento. (41) Il fondamento di tale disciplina è da rinvenire nell’art. 2033 c.c., principio generale di diritto comune, operante in tutti i settori dell’ordinamento giuridico che si servono dell’istituto dell’obbligazione; in base a tale principio è considerato ripetibile ogni pagamento effettuato in assenza di causa solvendi, indipendentemente dal rapporto che ne sta alla base (il quale può essere di natura privatistica o pubblicistica). Sul tema vedi, ex multis, F. Tesauro, Il rimborso d’imposta; Torino, 1975; G. Potito, La ripetizione dell’indebito nel diritto finanziario, Napoli, 1975; G. Tabet, Contributo allo studio del rimborso d’imposta, Roma, 1985; M. Basilavecchia, Rimborso di tributi, in Enc. Giur. Treccani, Agg., XXVII, Roma, 2002; R. Miceli, Indebi-


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Così, l’ente previdenziale che intende richiedere la restituzione del prelievo da spending review indebitamente pagato deve effettuare la richiesta di rimborso all’Agenzia delle entrate competente attraverso apposita istanza. Avverso la decisione negativa dell’ufficio, ovvero trascorsi 90 giorni senza che sia intervenuta la decisione, il contribuente può ricorrere alla Commissione Tributaria Provinciale impugnando il diniego espresso o tacito. Pertanto, nel caso in cui la procedura di rimborso non produca un esito positivo (sia per diniego esplicito, sia per il consolidamento del silenzio) occorre attivare la giurisdizione tributaria, che, come noto, costituisce la giurisdizione esclusiva in tutte le liti di carattere fiscale incluse quelle relative alla restituzione dell’indebito tributario (42). Infatti, in base all’art. 2 del D. Lgs. n. 546/1992, sono di spettanza del giudice tributario «tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati»; sul piano oggettivo, pertanto, la giurisdizione tributaria è fissata in relazione alla nozione di tributo. Nella norma si è optato per una formula espansiva della nozione di tributo (attraverso l’inciso «comunque denominati»), volendosi evidentemente esprimere l’obiettivo di un allargamento dell’ambito della giurisdizione tributaria ad ogni rapporto tributario (43). Anche il termine per l’esercizio di tale azione di rimborso va ricercato nella disciplina del rimborso tributario. Alla fattispecie del prelievo da spending review sembra potersi applicare la regola secondo cui l’istanza di rimborso deve essere presentata, in assenza di un termine specificamente stabilito da disposizioni di legge, entro il termine di decadenza di “due anni dal pagamento o dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione” (art. 21 comma 2 del D. Lgs. n. 546/1992).

to comunitario e sistema tributario interno, Milano, 2009; F. Paparella, Il rimborso dei tributi, in Aa. Vv., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, Torino, 2012, 867 ss. (42) Secondo la giurisprudenza consolidata della Suprema Corte l’indebito oggettivo in materia tributaria resta assoggettato “alla puntuale disciplina del contenzioso tributario” e pertanto “non vi è spazio per un’azione generale di indebito”. Cfr. Cass. SS. UU. 9.6.1989 n. 2786. (43) Sul tema vedi P. Russo, L’ampliamento della giurisdizione tributaria e del novero degli atti impugnabili: riflessi sugli organi e sull’oggetto del processo, in Rass. Trib., 2009, 1568 ss.; E. Della Valle, La giurisdizione tributaria e il rapporto giuridico tributario, in Aa. Vv., Il processo tributario, a cura di E. Della Valle, G. Marini e V. Ficari, Padova, 2008, 67 ss.; V. Mastroiacovo, La giurisdizione tributarie ed i tributi, in Aa. Vv., Il processo tributario, cit., 21 ss.; V. Ficari, Il processo tributario, in Aa. Vv., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, Torino, 2012, 983 ss.


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In ogni caso, poiché la disciplina normativa assume in linea di massima come dies a quo la data del versamento ai fini della decorrenza del termine decadenziale, essa appare inadeguata per le somme indebitamente versate a seguite di una pronuncia costituzionale che ha dichiarato illegittima la norma che fissava l’obbligazione tributaria. Ne consegue che ragionevolmente il dies a quo va considerato con riguardo alla data della sentenza della Corte Costituzionale (data di pubblicazione), poiché essa rappresenta il presupposto logico per la maturazione del diritto al rimborso tributario (44).

Pietro Boria

(44) Al fine della individuazione del momento di decorrenza del termine per l’azione di rimborso conseguente all’overruling interpretativo va dato rilievo al momento in cui un atto interpretativo qualificato (nel caso di specie la sopravvenuta decisione della Corte costituzionale) abbia sovvertito un orientamento stabile e consolidato nel tempo a cui il contribuente si sia fiduciosamente affidato nella definizione del proprio comportamento fiscale. Sul tema, con riguardo ad una decisione della Corte di Giustizia europea, vedi F. Amatucci, L’overruling interpretativo ministeriale non incide sul dies a quo per il rimborso dell’IVA, in Rass. trib., 2012, 803 ss.; R. Miceli, Nuove prospettive nazionali in materia di rimborso IVA, in Riv. trim. di dir. trib., 2012, 763 ss.



Corte Costituzionale, 7 febbraio 20172 – marzo 2017, sent. n. 47; Pres. Grossi – Rel. Morelli Fermo “fiscale” del veicolo ex art. 86 d.P.R. n. 602/1973 – Esclusione dall’obbligo di pagamento della tassa automobilistica – Non sussiste Sono costituzionalmente legittime le leggi regionali che – a fronte dell’art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982, il quale afferma che l’obbligo di pagamento della tassa automobilistica viene meno in caso di indisponibilità del veicolo conseguente a provvedimento della pubblica amministrazione annotato al PRA – stabiliscono l’obbligo di pagamento della tassa automobilistica anche per il periodo durante il quale il veicolo è sottoposto a fermo “fiscale” ai sensi dell’art. 86 del d.P.R. n. 602/1973.

LA CORTE COSTITUZIONALE (Omissis) ha pronunciato la seguente Sentenza nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 8-quater, comma 4, della legge della Regione Toscana 22 settembre 2003, n. 49 (Norme in materia di tasse automobilistiche regionali), aggiunto dall’art. 33 della legge della Regione Toscana 14 luglio 2012, n. 35, e dell’art. 9 della legge della Regione Emilia-Romagna 21 dicembre 2012, n. 15 (Norme in materia di tributi regionali), promossi dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze con ordinanze dell’8 ottobre 2015 e dell’11 marzo 2016 e dalla Commissione tributaria provinciale di Bologna con ordinanza del 23 ottobre 2015, rispettivamente iscritte al n. 344 del registro ordinanze 2015 e ai nn. 197 e 118 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 3, 41 e 25, prima serie speciale, dell’anno 2016. Visti gli atti di costituzione di S. G., della Regione Toscana e della Regione Emilia-Romagna; udito nell’udienza pubblica del 7 febbraio 2017 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli; uditi gli avvocati Diego Cremona per S. G., Marcello Cecchetti per la Regione Toscana e Maria Chiara Lista per la Regione Emilia-Romagna. Ritenuto in fatto


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1. Nel corso di un giudizio promosso contro la Regione Toscana ed Equitalia Centro spa, per l’annullamento di una cartella esattoriale emessa per mancato pagamento della tassa automobilistica che la ricorrente assumeva da lei non dovuta in quanto relativa a periodo in cui l’autovettura di sua proprietà era gravata da fermo amministrativo, l’adita Commissione tributaria provinciale di Firenze, sezione seconda, premessane la rilevanza, ha sollevato, con l’ordinanza in epigrafe (reg. ord. n. 344 del 2015), questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 8-quater della legge della Regione Toscana 22 settembre 2003, n. 49 (Norme in materia di tasse automobilistiche regionali), nel testo introdotto dall’art. 33 della legge della stessa Regione 14 luglio 2012, n. 35, recante «Modifiche alla legge regionale 29 dicembre 2010, n. 65 (Legge finanziaria per l’anno 2011) e alla legge regionale 27 dicembre 2011, n. 66 (Legge finanziaria per l’anno 2012) e ulteriori disposizioni collegate. Modifiche alle l.r. 59/1996, 42/1998, 49/1999, 39/2001, 49/2003, 1/2005, 4/2005, 30/2005, 32/2009, 21/2010, 68/2011». La disposizione denunciata – a tenore della quale «La trascrizione presso il PRA del provvedimento di fermo derivante dalla procedura di riscossione coattiva di crediti di natura pubblicistica non esplica effetti ai fini della interruzione e sospensione dell’obbligo tributario» – contrasterebbe, secondo la rimettente, con gli «articoli 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione – in relazione all’articolo 5, comma 36, del decreto-legge 30 dicembre 1982, n. 953 (Misure in materia tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 1983, n. 53 – e 119, secondo comma, della Costituzione». E ciò per le medesime ragioni per le quali la sentenza di questa Corte n. 288 del 2012 (le cui motivazioni il giudice a quo fa proprie e trascrive) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di altra norma regionale ritenuta di analogo contenuto (art. 10 della legge della Regione Marche 28 dicembre 2011, n. 28, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2012 e pluriennale 2012/2014 della Regione (Legge finanziaria 2012)». 1.1. Si è costituita in questo giudizio la parte privata S. G., che – nell’aderire alla prospettazione ed alle conclusioni dell’ordinanza di rimessione – ha in particolare sottolineato la corrispondenza di contenuto della norma regionale censurata rispetto a quello di cui all’art. 10 della legge della Regione Marche n. 28 del 2011, dichiarato costituzionalmente illegittimo. 1.2. Si è costituita, ed ha anche depositato successiva memoria, la Regione Toscana, sostenendo che l’esenzione prevista dalla richiamata normativa statale – in dipendenza della “perdita di disponibilità” del veicolo in forza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria od amministrativa – non possa considerarsi soppressa o derogata dalla impugnata disposizione di essa Regione, per essere questa riferita alla diversa fattispecie del fermo di cui all’art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), che, analogamente al pignoramento, comporterebbe unicamente l’effetto giuridico di rendere inopponibili/ inefficaci (ma non invalidi), nei soli confronti del concessionario della riscossione (di crediti di natura pubblicistica), gli atti di disposizione del veicolo.


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2. In altro successivo giudizio, proposto per l’annullamento di tassa automobilistica del pari relativa a vettura gravata da fermo amministrativo, la Commissione tributaria provinciale di Firenze, sezione quarta, con ordinanza (reg. ord. n. 197 del 2016) di contenuto pressoché identico a quello dell’ordinanza che precede, ha sollevato la medesima questione di legittimità costituzionale dell’art. 8-quater, comma 4, della legge della Regione Toscana n. 49 del 2003, in riferimento agli stessi parametri come sopra evocati. 2.1. Anche in questo giudizio si è costituita la Regione Toscana per contestare la fondatezza delle censure formulate dalla Commissione rimettente. 3. La Commissione tributaria provinciale di Bologna, sezione quinta – nell’ambito di controversia in cui veniva analogamente in contestazione la debenza della tassa automobilistica relativamente a vettura sottoposta, nel periodo di riferimento, a fermo amministrativo da parte di Equitalia Centro spa – ha sollevato, con l’ordinanza iscritta al n. 118 del registro ordinanze del 2016, questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 della legge della Regione Emilia-Romagna 21 dicembre 2012, n. 15 (Norme in materia di tributi regionali), nella parte in cui prevede che il fermo del veicolo disposto dall’agente della riscossione, ai sensi dell’art. 86 del d.P.R. n. 602 del 1973, «non rientra tra le fattispecie che fanno venir meno l’obbligo del pagamento della tassa automobilistica», in riferimento, ancora una volta, all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, in relazione al citato art. 5, comma 36, del d.l. n. 953 del 1982, ed all’art. 119, comma secondo, oltre che agli artt. 120 e 3 Cost. Nel motivare la non manifesta infondatezza di tale (parallela) questione, anche la Commissione rimettente ha fatto rinvio alla sentenza di questa Corte n. 288 del 2012, sul presupposto che questa abbia pronunciato l’illegittimità costituzionale di norma (art. 10 della già citata legge della Regione Marche n. 28 del 2011) relativa ad «una medesima fattispecie, differenziata dalla presente solamente in ordine all’Ente che aveva emanato la disposizione di legge censurata». 3.1. Si è costituita in questo terzo giudizio la Regione Emilia-Romagna. Secondo la difesa di detta Regione, avrebbe errato il giudice a quo nel non avvedersi di quanto la norma della Regione Marche, incorsa nella su richiamata declaratoria di illegittimità costituzionale, sia, in realtà, «totalmente diversa» da quella recata dall’art. 9 della legge della Regione Emilia-Romagna qui impugnata. Quest’ultima disposizione non apporterebbe, infatti, deroga alcuna alla disciplina statale in tema di esenzione dal pagamento della tassa automobilistica, di cui all’art. 5, comma 36, del decreto-legge n. 953 del 1982, non interferendo rispetto alla fattispecie del «fermo amministrativo», ivi contemplata, ed attenendo invece alla differente fattispecie del fermo cautelare disposto dall’agente di riscossione, ai sensi dell’art. 86 del d.P.R. n. 602 del 1973. Da qui la conclusione di inammissibilità o manifesta infondatezza della questione sollevata. 3.1.2. Con memoria depositata nell’imminenza dell’udienza di discussione, la Regione Emilia-Romagna ha sottolineato come, alla data del 1° dicembre 2016, i veicoli circolanti con fermo apposto da Equitalia, per omesso pagamento di crediti riferi-


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bili alle più diverse pubbliche amministrazioni, siano, solo in essa Regione, 183.254, ed ha affermato che «la perdita di gettito per la Regione», nel caso in cui non dovesse trovare più applicazione la norma denunciata, «ammonterebbe a 29.448.114,87 di Euro», parte dei quali di spettanza dello Stato. Considerato in diritto 1. Con le due ordinanze (reg. ord. n. 344 del 2015 e n. 197 del 2016), di sostanzialmente identico contenuto, di cui si è in narrativa detto, la Commissione tributaria provinciale di Firenze, sezione seconda (nel primo caso) e sezione quarta (nel secondo caso), solleva questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 8-quater, comma 4, della legge della Regione Toscana 22 settembre 2003, n. 49 (Norme in materia di tasse automobilistiche regionali), aggiunto dall’art. 33 della successiva legge regionale 14 luglio 2012 n. 35, recante «Modifiche alla legge regionale 29 dicembre 2010, n. 65 (Legge finanziaria per l’anno 2011) e alla legge regionale 27 dicembre 2011, n. 66 (Legge finanziaria per l’anno 2012) e ulteriori disposizioni collegate. Modifiche alle l.r. 59/1996, 42/1998, 49/1999, 39/2001, 49/2003, 1/2005, 4/2005, 30/2005, 32/2009, 21/2010, 68/2011», per contrasto con gli artt. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione – in relazione all’art. 5, comma 36, del decreto-legge 30 dicembre 1982, n. 953 (Misure in materia tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 1983, n. 53 – e 119, secondo comma, Cost. La disposizione regionale così denunciata – nel prescrivere che «La trascrizione presso il PRA del provvedimento di fermo derivante dalla procedura di riscossione coattiva di crediti di natura pubblicistica non esplica effetti ai fini della interruzione e sospensione dell’obbligo tributario» – violerebbe, appunto, gli evocati artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119, secondo comma, Cost., in quanto derogatoria della norma interposta di cui all’art. 5, comma 36, del citato d.l. n. 953 del 1982, prevedente, invece, in tal caso, una espressa esenzione dall’obbligo di pagamento della tassa automobilistica. 2. Con riferimento agli stessi parametri di cui sopra – oltre che all’art. 120 (senza motivazione e solo in dispositivo evocato) ed all’art. 3 Cost. (per il profilo della asserita disparità di trattamento dei cittadini residenti nella Regione resistente rispetto a quelli residenti nella Regione Marche) – la Commissione tributaria provinciale di Bologna, sezione quinta, dubita, a sua volta, della legittimità costituzionale dell’art. 9 della legge della Regione Emilia-Romagna 21 dicembre 2012, n. 15 (Norme in materia di tributi regionali), nella parte in cui detta norma analogamente prevede che «il fermo del veicolo disposto dall’agente della riscossione, ai sensi dell’art. 86 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), non rientra tra le fattispecie che fanno venir meno l’obbligo del pagamento della tassa automobilistica». 3. I tre giudizi – nel primo dei quali si è costituita la parte privata e, in tutti, la Regione resistente nei rispettivi procedimenti a quibus – per i profili di identità o connessione delle questioni sollevate, in ragione del prospettato contrasto con i medesimi parametri costituzionali ed in relazione alla stessa norma interposta, possono riunirsi per essere decisi con unica sentenza.


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4. Le Commissioni rimettenti convergono nel motivare la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate sulla base della ritenuta sovrapponibilità delle disposizioni regionali, rispettivamente da esse censurate, a quella di cui all’art. 10 della legge della Regione Marche 28 dicembre 2011, n. 28, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2012 e pluriennale 2012/2014 della Regione (Legge Finanziaria 2012)», già dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza di questa Corte n. 288 del 2012. 5. Entrambe le questioni, con tale identica motivazione sollevate, non sono fondate. 5.1. L’art. 5, comma 36 (recte: comma trentasettesimo nel testo vigente), del d.l. n. 953 del 1982 – che, ai fini della denunciata violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119, secondo comma, Cost., le odierne ordinanze di rimessione, come già quella relativa al giudizio deciso con la citata sentenza n. 288 del 2012, richiamano come norma interposta – dispone che «La perdita del possesso del veicolo o dell’autoscafo per forza maggiore o per fatto di terzo o la indisponibilità conseguente a provvedimento dell’autorità giudiziaria o della pubblica amministrazione, annotate nei registri indicati nel trentaduesimo comma, fanno venir meno l’obbligo del pagamento del tributo per i periodi d’imposta successivi a quello in cui è stata effettuata l’annotazione». L’art. 10 della legge della Regione Marche n. 28 del 2011 si poneva frontalmente in contrasto con la riferita norma statale di esenzione, disponendo esattamente il contrario, e cioè che «la disposizione del fermo amministrativo o giudiziario di beni mobili registrati non esenta dall’obbligo di pagamento della tassa automobilistica regionale». E per tale ragione ne è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, in quanto «la Regione, con riferimento alla tassa automobilistica che […] si qualifica come tributo proprio derivato […] non può escludere esenzioni […] già previste dalla legge statale» (sentenza n. 288 del 2012). Sia la Commissione tributaria provinciale di Firenze che quella di Bologna assumono ora che la fattispecie disciplinata dalle disposizioni rispettivamente denunciate (art. 8-quater, comma 4, della legge della Regione Toscana n. 49 del 2003 e art. 9 della legge della Regione Emilia-Romagna n. 15 del 2012) non sarebbe diversa da quella che formava oggetto dell’art. 10 della legge della Regione Marche n. 28 del 2011, essendo quindi analogamente derogatoria della norma statale interposta, che ne comporterebbe il contrasto con gli evocati parametri costituzionali. 5.2. La comune premessa, da cui muovono i giudici a quibus nel sollevare le questioni in esame, non è esatta. Il “fermo amministrativo” – al quale è correlata l’esenzione prevista dal citato art. 5, comma 36 (recte: trentasettesimo) del d.l. n. 953 del 1982 (e cui identicamente si riferiva la caducata disposizione della Regione Marche, per escludere invece l’esenzione stessa) – è propriamente, infatti, il fermo del veicolo disposto dall’Autorità di pubblica sicurezza ovvero dalla Polizia stradale o comunale. Ai sensi dell’art. 214


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(Fermo amministrativo del veicolo), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) esso consegue ora quale misura accessoria, unitamente ad altre sanzioni, a gravi violazioni di norme dello stesso codice. Si tratta di misura che comporta la cessazione della circolazione del veicolo con l’obbligo di custodia in luogo non sottoposto a pubblico passaggio ed apposizione su di esso di apposito sigillo; il trattenimento del documento di circolazione presso l’organo di polizia; l’obbligo di rimozione e trasporto in un apposito luogo di custodia, ove si tratti di ciclomotori e motocicli; e la confisca, oltre all’applicazione di sanzioni penali ed amministrative, in caso di circolazione del mezzo con elusione del provvedimento di fermo. Diverso è, invece, il fermo cosiddetto fiscale, al quale non poteva evidentemente riferirsi la norma di esenzione del 1982, in quanto solo successivamente il decretolegge 31 dicembre 1996, n. 669 (Disposizioni urgenti in materia tributaria, finanziaria e contabile a completamento della manovra di finanza pubblica per l’anno 1997), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1997, n. 30, ha introdotto detta diversa ipotesi di fermo, all’interno dell’art. (91-bis, poi rifluito nell’art.) 86, del d.P.R. n. 602 del 1973, come misura di garanzia del credito di enti pubblici e non come sanzione conseguente a violazione di norme del codice della strada. Più propriamente si tratta in questo caso di una misura cautelativa provvisoria, con effetti indiretti di conservazione della garanzia patrimoniale, che l’agente incaricato della riscossione di crediti di enti pubblici può adottare, a sua discrezione, in alternativa alla immediata attivazione delle procedure esecutive, allo scopo di indurre il debitore ad un adempimento spontaneo, che gli consenta di ottenere la rimozione del fermo. Fermo, quest’ultimo, che comunque non comporta la materiale sottrazione della vettura alla disponibilità del proprietario; non gli impedisce di trasferirla a terzi con atto di alienazione (con traslazione, ovviamente, del vincolo); e, in caso di elusione del divieto di circolazione, dà luogo all’applicazione di una sanzione pecuniaria al proprietario, ma non anche al sequestro del mezzo. 5.3. L’esclusa sospensione dell’obbligo di pagamento della tassa automobilistica durante il periodo di fermo della vettura disposto dall’agente della riscossione – quale si rinviene nelle due leggi regionali impugnate dai giudici a quibus – non si pone, dunque, in contrasto con la esenzione dal tributo (nella diversa ipotesi di fermo disposto dall’autorità amministrativa o da quella giudiziaria) prevista, in via di eccezione, dal d.l. n. 953 del 1982, e rientra, invece, nella regola – innovativamente introdotta dallo stesso – che vuole quel tributo correlato non più alla circolazione, ma alla proprietà del mezzo. E tanto vale ad escludere la fondatezza della censura di violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119, secondo comma, Cost., nei riguardi, sia dell’art. 8-quater, comma 4, della legge della Regione Toscana n. 49 del 2003 sia dell’art. 9 della legge della Regione Emilia-Romagna n. 15 del 2012, come prospettata dalle Commissioni tributarie rimettenti. 6. Non fondata è anche la censura di violazione dell’art. 3 Cost., formulata dalla sola Commissione tributaria di Bologna con riguardo alla legge della Regione EmiliaRomagna n. 15 del 2012.


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Diversamente da quanto presupposto da detto giudice, la caducazione (a seguito di sentenza n. 288 del 2012) dell’art. 10 della legge n. 28 del 2011 della Regione Marche non altro, infatti, ha comportato che il ripristino, all’interno di quella Regione, della esenzione dal tributo automobilistico – in caso di fermo della vettura disposto dall’autorità amministrativa o giudiziaria – quale operante su tutto il territorio nazionale e, quindi, anche nell’ambito della Regione Emilia-Romagna. Per cui ai proprietari di vetture residenti all’interno di questa non può dirsi riservato «l’evidente trattamento di sfavore in confronto al cittadino della Regione Marche», lamentato dalla rimettente. 7. L’art. 120 Cost. è, infine, richiamato, senza motivazione alcuna, solo in dispositivo della ordinanza di rimessione della Commissione tributaria di Bologna; non vi è, pertanto, questione – di contrasto con detto parametro della legge regionale da quella Commissione impugnata – sulla quale questa Corte debba pronunciarsi. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8-quater, comma 4, della legge della Regione Toscana 22 settembre 2003, n. 49 (Norme in materia di tasse automobilistiche regionali), aggiunto dall’art. 33 della legge della medesima Regione 14 luglio 2012, n. 35, sollevata, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119, secondo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze, sezione seconda e sezione quarta, con le due ordinanze in epigrafe; 2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 della legge della Regione Emilia-Romagna 21 dicembre 2012, n. 15 (Norme in materia di tributi regionali), sollevata in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera e), 119, secondo comma, e 3 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Bologna, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Tassa automobilistica e fermo del veicolo La sentenza n. 47/2017 della Corte Costituzionale ha stabilito che la tassa automobilistica può essere applicata anche a veicoli sottoposti a “fermo fiscale” ai sensi dell’articolo 86 del d.P.R. n. 602/1973. Il presente articolo sottopone a critica questa decisione dimostrando come il “fermo fiscale” costituisca provvedimento della pubblica amministrazione che determina la temporanea indisponibilità del veicolo e, pertanto, escluda l’obbligo di pagamento della tassa automobilistica ai sensi dell’articolo 5, commi 32 e seguenti del d.l. n. 953/1982. Sentence 47/2017 issued by the Constitutional Court, establishes that the automotive tax may also be applied to vehicles which are subject to “fiscal hold”, according to article 86 of d.P.R. number 602/1973. This present article criticises this decision showing how


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the “fiscal hold” represents a measure of the public administration which determines the temporary unavailablity of the vehicle and, as such, rules out the obligation of the automotive tax according to article 5, paragraph 32 and subsequent ones of law decree number 953/1982.

Sommario: 1. La “doppia” soluzione della Corte costituzionale sull’applicabilità della tassa automobilistica in caso di fermo del veicolo. – 2. La disciplina delle tasse automobilistiche e la riconducibilità, a tal fine, del fermo fiscale tra i provvedimenti della pubblica amministrazione. – 3. L’indisponibilità temporanea del veicolo quale causa di esclusione dell’applicabilità della tassa automobilistica. – 4. Conclusioni: l’applicazione della tassa automobilistica dovrebbe essere esclusa anche in caso di fermo fiscale.

1. La “doppia” soluzione della Corte costituzionale sull’applicabilità della tassa automobilistica in caso di fermo del veicolo. – Con sentenza n. 47 del 2 marzo 2017, la Corte Costituzionale ha considerato costituzionalmente legittime alcune norme regionali (1) che prevedono l’applicazione della tassa automobilistica anche su veicoli oggetto di fermo fiscale ai sensi dell’art. 86 del d.P.R. n. 602/1973; ciò nonostante qualche anno prima la stessa Corte (cfr. sent. n. 288/2012) avesse dichiarato illegittime altre leggi regionali (2) che avevano previsto l’applicazione della tassa su veicoli oggetto di fermo disposto per violazioni del codice della strada. La diversità di trattamento riservata dalla Corte a due fattispecie apparentemente simili, tanto da essere sovente confuse anche dalla dottrina (3), merita di essere approfondita, al fine di verificare se essa possa dirsi o meno condivisibile. Il problema essenziale sotteso alla questione e giustamente posto in risal-

(1) Si tratta, in particolare, delle norme di cui all’art. 8-quater, comma 4, della legge della Regione Toscana 22 settembre 2003, n. 49 (secondo cui “la trascrizione presso il PRA del provvedimento di fermo derivante dalla procedura di riscossione coattiva di crediti di natura pubblicistica non esplica effetti ai fini della interruzione e sospensione dell’obbligo tributario”) e all’art. 9 della legge della Regione Emilia Romagna 21 dicembre 2012, n. 15 (secondo cui il fermo del veicolo disposto dall’agente della riscossione, ai sensi dell’art. 86 del d.P.R. n. 602 del 1973, “non rientra tra le fattispecie che fanno venir meno l’obbligo del pagamento della tassa automobilistica”). (2) Si trattava, in quel caso, dell’art. 10 della legge della Regione Marche 28 dicembre 2011, n. 28, il quale stabiliva che “a decorrere dall’anno di imposta 2012, la disposizione del fermo amministrativo o giudiziario di beni mobili registrati non esenta dall’obbligo del pagamento della tassa automobilistica regionale”. (3) Emblematica, al riguardo, la trattazione di S. Petitti - E. Vincenti, Codice della strada, Milano, 2011, 1100-1104.


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to dalle ordinanze di rimessione consiste nel fatto che una legge statale (art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982), entrata in vigore prima dell’introduzione nell’ordinamento del fermo tributario (avvenuta nel 1997 con l’art. 5, comma 4, lett. e del d.l. n. 669/1996), stabilisce che “la perdita del possesso del veicolo o dell’autoscafo per forza maggiore o per fatto di terzo o la indisponibilità conseguente a provvedimento dell’autorità giudiziaria o della pubblica amministrazione, annotate nei registri indicati nel trentaduesimo comma [PRA], fanno venir meno l’obbligo del pagamento del tributo per i periodi d’imposta successivi a quello in cui è stata effettuata l’annotazione” e fino a che non “avviene il riacquisto del possesso o la disponibilità del veicolo”. In conseguenza di ciò, una legge che aveva previsto l’applicazione della tassa anche in caso di “fermo amministrativo o giudiziario” è stata dichiarata illegittima per violazione dei principi di riparto di competenze tra leggi statali e leggi regionali come stabiliti dall’articolo 117, comma 2, lett. e) Cost. (4). Talché, a fronte di leggi regionali che avevano previsto l’applicazione dalla tassa automobilistica nel caso in cui la vettura fosse oggetto di fermo fiscale ai sensi dell’art. 86 del d.P.R. n. 602/1973, alcune Commissioni Tributarie adite in sede di ricorso hanno ritenuto – tra l’altro – che norme del genere violassero il parametro costituzionale di cui all’art. 117, comma 2, lett. e) Cost. (nonché quello di cui all’art. 119, comma 2 Cost.), in relazione all’art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982, allo stesso identico modo in cui lo violava – secondo quanto già accertato dalla sentenza n. 288/2012 – la norma regionale che prevedeva l’applicazione della tassa anche in caso di “fermo amministrativo o giudiziario”: per questo, le Commissioni Tributarie hanno rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità delle norme suddette. Nella sentenza in commento, la Corte Costituzionale afferma preliminarmente che il concetto di “fermo amministrativo” cui si riferiva la legge regionale sulla quale aveva deciso nella sentenza n. 288/2012 è riferibile al solo

(4) In particolare, il par. 3 della sentenza n. 288/2012 ha accertato che, in base all’art. 17 della l. n. 449/1997 e all’art. 7, comma 1 della l. n. 42/2009, la tassa automobilistica deve qualificarsi come “tributo proprio derivato”, per cui la singola Regione “a) non può modificarne il presupposto ed i soggetti d’imposta (attivi e passivi); b) può modificarne le aliquote nel limite massimo fissato dal comma 1 dell’art. 24 del d.lgs. n. 504 del 1992 (tra il 90 ed il 110 per cento degli importi vigenti nell’anno precedente); c) può disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei limiti di legge e, quindi, non può escludere esenzioni, detrazioni e deduzioni già previste dalla legge statale”. Avendo escluso esenzioni, detrazioni e deduzioni già previste dalla legge statale, la legge della Regione Marche oggetto di giudizio nella sentenza n. 288/2012 è stata dichiarata incostituzionale.


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fermo di polizia stradale di cui all’art. 214 del Codice della Strada: limitata riferibilità, peraltro, della quale non vi era traccia nella sentenza del 2012 e in relazione alla quale la sentenza n. 47 del 2017 si limita a una asserzione apodittica (5). Ciò premesso, la Corte comunque conclude che le ragioni che avevano determinato la declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza n. 288/2012 non sussistono nel nuovo caso sottoposto al suo esame in quanto, per un verso, il concetto di “provvedimento della pubblica amministrazione” previsto dall’art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982 dovrebbe ritenersi riferito esclusivamente al fermo di polizia stradale di cui all’art. 214 del Codice della Strada e, per altro verso e in ogni caso, il vincolo apposto dal fermo fiscale sarebbe in qualche modo “più debole” di quello derivante dal fermo di polizia stradale e così non varrebbe a integrare il presupposto di esclusione dall’applicazione della tassa automobilistica previsto dalla legge. Nessuna delle due ragioni del differente trattamento, che la Corte illustra in motivazione, appare convincente. 2. La disciplina delle tasse automobilistiche e la riconducibilità, a tal fine, del fermo fiscale tra i provvedimenti della pubblica amministrazione. – Il primo argomento non si presta ad essere condiviso poiché, secondo una corretta lettura, anche il fermo fiscale di cui all’art. 86 del d.P.R. n. 602/1973 deve considerarsi un “provvedimento della pubblica amministrazione” nel senso fatto proprio dall’art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982. Dalla formulazione della testo normativo, infatti, emerge chiaramente che il legislatore non ha voluto intendere il concetto di “provvedimento” nel senso specifico che esso assume nell’ambito del diritto amministrativo. Invero, il testo normativo parla indistintamente di “provvedimento dell’autorità giudiziaria o della pubblica amministrazione” e, se avesse voluto intendere il concetto di “provvedimento” nel suo senso amministrativistico (6), sarebbe stato del

(5) Afferma, al riguardo, la sentenza che “il ‘fermo amministrativo’ – al quale è correlata l’esenzione prevista dal citato art. 5, comma 36 (recte: trentasettesimo) del d.l. n. 953 del 1982 (e cui identicamente si riferiva la caducata disposizione della Regione Marche, per escludere invece l’esenzione stessa) – è propriamente, infatti, il fermo del veicolo disposto dall’Autorità di pubblica sicurezza ovvero dalla Polizia stradale o comunale”. Per converso, la ricomprensione del fermo di polizia stradale e del fermo fiscale nel superiore e unitario genus del “fermo amministrativo” è acquisita nella dottrina che più accuratamente ha studiato le varie tipologie di fermo (cfr., per tutti, E. Brandolini, a cura di, Il fermo amministrativo, Padova, 2012, passim, specie 376-378). (6) Dovendosi intendere per atto amministrativo “autoritativo”, l’atto espressivo di un


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tutto irrazionale l’utilizzo di esso per atti emanati dall’autorità giudiziaria. Del resto, se in questa sede il concetto di “provvedimento della pubblica amministrazione” fosse utilizzato nel senso tecnico di atto costitutivo di posizioni giuridiche nuove non già integralmente contenute nella legge (7), ad esso non sarebbe riconducibile neppure il fermo amministrativo di cui all’art. 214 CdS, che invece secondo la stessa giurisprudenza costituzionale in commento è ad esso sicuramente riconducibile: difatti, essendo i presupposti di emanazione del fermo di cui all’art. 214 CdS rigidamente previsti dalla legge senza che alcun margine di discrezionalità sia lasciato al riguardo alla pubblica amministrazione, si è di fronte a un atto propriamente vincolato al quale non si attaglia il concetto di “provvedimento amministrativo” (8), con la conseguenza che intendendo il concetto di provvedimento utilizzato dall’art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982 in senso tecnico la giurisprudenza costituzionale smentirebbe se stessa e la norma in parola rimarrebbe di fatto priva, in questa parte, di effettiva portata applicativa, in contrasto con il principio per cui le disposizioni normative vanno interpretate potius ut valeant quam ut pereant. Per converso, un’interpretazione sistematica della norma, che guardi alla relazione di essa con il presupposto del tributo e con il senso dell’esclusione da imposizione che essa dispone, richiede di considerare a questi fini “provvedimento” qualunque atto giuridico lecito idoneo a determinare unilateralmente in capo al titolare del diritto reale sul veicolo (9) l’effetto di “indisponibilità” del veicolo stesso, effetto al verificarsi del quale (e alla cui registrazione pres-

potere attribuito per la soddisfazione di un interesse pubblico o, secondo la lettura preferibile (cfr. nota successiva), espressivo di un potere di determinazione (di parte) degli effetti dell’atto stesso (ovvero – di parte – della fattispecie al cui verificarsi gli effetti stessi si producono) di modo che l’amministrazione cooperi a dettare la norma singolare disciplinatrice del caso di specie, “innovando” in questo senso l’ordinamento rispetto a quanto già prestabilito dalla legge (7) In diritto tributario cfr. P. Russo, L’accertamento tributario nel pensiero di Enzo Capaccioli: profili sostanziali e processuali, in Riv. dir. trib., 2010, I, 661 ss., ove un’ampia disamina delle diverse impostazioni condotta raffrontando le posizioni della dottrina amministrativistica con quelle della dottrina tributaristica. (8) Sul carattere tecnicamente non “provvedimentale” degli atti irrogativi di sanzioni amministrative sia consentito rinviare a F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2015, 908-909. (9) Più precisamente, al titolare del diritto reale individuato dalla norma (proprietà, anche se soggetta a patto di riservato dominio, e usufrutto) o al titolare della facoltà generalmente connaturata al diritto reale che la norma individua come idonea a integrare il presupposto del tributo anche in caso di estrapolazione e trasferimento a terzi a titolo di diritto personale di godimento (il riferimento è al caso dell’utilizzatore del bene in leasing, compreso tra i soggetti passivi del tributo dal comma 32 dell’art. 5 del d.l. n. 953/1982).


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so il PRA) la norma collega l’esclusione dall’applicazione della tassa automobilistica. Invero, nella sua sinteticità il complesso normativo dei commi 32-40 dell’art. 5 del d.l. n. 953/1982 è sufficientemente chiaro nel sancire il venire meno del presupposto applicativo del tributo automobilistico in tutti i casi in cui il titolare del diritto reale (o l’utilizzatore in leasing) perde la “disponibilità” del veicolo: il comma 32 contempla implicitamente il caso in cui egli giuridicamente la perde per sua libera volontà negoziale, ossia per aver trasferito il proprio diritto o comunque le facoltà sufficienti a integrare il concetto di “disponibilità” (è il caso, come detto, del leasing) (10); la prima parte del comma 36 contempla il caso in cui egli la perde di fatto per eventi naturali o per fatti di terzi anche contra ius che determinano lo spossessamento; residua, all’evidenza, il solo caso in cui egli la perde, prescindendo dal suo libero consenso negoziale, per fatti di terzi giuridicamente consentiti dall’ordinamento. E a queste fattispecie, evidentemente, il legislatore ha voluto riferirsi utilizzando il concetto di “provvedimento dell’autorità giudiziaria o della pubblica amministrazione”, basandosi sul fatto che generalmente un’ablazione lecita della disponibilità di un bene può avvenire nel nostro ordinamento soltanto in peculiari fattispecie che vedono coinvolti soggetti dotati di possibilità esorbitanti rispetto a quelle conferite ai comuni operatori. Da ciò deriva, tra l’altro e come conclusione necessitata, che la provenienza soggettiva di tale atto dall’autorità giudiziaria o dalla pubblica amministrazione va intesa in senso sistematico come riferita alla generalità dei soggetti abilitati a incidere unilateralmente nella sfera giuridica altrui con atti leciti. Pertanto, nessun dubbio può sussistere in ordine al fatto che il concessionario della riscossione dei tributi si presti ad essere ricompreso nell’alveo della pubblica amministrazione come intesa nella norma in esame. Del resto, è bensì vero che fino ad oggi la funzione della riscossione è stata svolta generalmente tramite enti organizzati in forma societaria (come era Equitalia S.p.A.), ma è altrettanto evidente che essi – trattandosi di organi ausiliari dell’ente impositore, da esso posseduti e legati da stringenti vincoli concessori – rappresentano comunque organismi di diritto pubblico pienamente rientranti in un perimetro di pubblica amministrazione modernamente concepito (11). Peraltro, nella sua formulazio-

(10) In tale gruppo di fattispecie può comprendersi anche quella in cui la libertà del titolare determina il venir meno del presupposto territoriale del tributo, ciò che avviene con il trasferimento della residenza e del veicolo all’estero (cfr. comma 32-bis dell’art. 5 cit.). (11) Come noto, non è possibile attualmente ricostruire una nozione unitaria e valida a tutti i fini di “pubblica amministrazione”, essendo essa un concetto cd. “a geometrie variabili”


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ne originaria (art. 91-bis del d.P.R n. 602/1973, come introdotto dall’art. 5 del d.l. n. 669/1996), l’istituto prevedeva che la decisione di emanare il fermo fosse assunta dalla Direzione Regionale delle Entrate, per la quale la ricomprensione soggettiva nel novero delle pubbliche amministrazioni non può essere posta in discussione (12) e solo tecnicamente eseguita dal concessionario della riscossione: talché la successiva semplificazione della procedura, la quale ha previsto la concentrazione della fase decisoria e attuativa in capo al concessionario della riscossione, mantenendo comunque in capo all’Agenzia delle Entrate una funzione di controllo, non si presta a incidere sulla provenienza a tutti gli effetti amministrativa del fermo fiscale, consistendo piuttosto in un mero ampliamento dei poteri conferiti al concessionario dettato da finalità di efficienza della procedura (13), naturalmente, l’affidamento delle fase delle riscossione all’ente pubblico economico agenzie delle Entrate Riscossione (art. 1 del d.l. n. 193/2010) elimina alla radice qualsivoglia possibile problema sul punto. Alla luce di tali premesse, emerge che la questione dell’applicabilità dell’art. 5, comma 36, del d.l. n. 953/1982 al fermo fiscale non richiede di affrontare ex professo il tema, sul quale molto si è scritto (14), del carattere tecnicamente provvedimentale o meramente esecutivo del fermo fiscale. È vi-

suscettibile di ampliare o restringere il proprio ambito applicativo a seconda del comparto nel quale ad esso si opera riferimento. Quanto ai concessionari per la riscossione dei tributi costituiti in forma societaria (come era Equitalia S.p.A.), pare evidente che per essi ricorrono in generale gli indici che dottrina e giurisprudenza individuano come “sintomatici” della qualificabilità di un soggetto come “pubblica amministrazione” (per una sintesi di essi cfr., per tutti, D. Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna, 2016, 325 ss.), come viene comunemente riconosciuto (si rinvia, per tutti, alla trattazione di A. Parlato, Gestione pubblica e privata nella riscossione dei tributi a mezzo ruolo, in Rass. trib., 2007, 1355 ss.): sicuramente, poi e giusta quanto osservato nel testo, il concessionario della riscossione deve considerarsi “pubblica amministrazione” ai fini della specifica “geometria” disegnata dall’art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982, per le ragioni già esposte nel testo. (12) Ciò anche ai fini dell’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 156/2001, norma riferita al pubblico impiego ma cui sovente rinviano altre norme al fine di individuare la nozione di pubblica amministrazione. (13) Concorda sul punto anche la giurisprudenza che pure si mostra discorde su ulteriori profili relativi al fermo fiscale (Cons. St., V, sent. n. 4689/2005, da un lato, e Cons. St., VI, ord. n. 2032/2006, dall’altro). (14) Cfr., per tutti, C. Buccico, Misure cautelari a tutela del credito erariale, Torino, 2013; S. Cannizzaro, Il fermo dei beni mobili registrati e l’ipoteca nella fase di riscossione dei tributi, Roma, 2011. A tale dottrina si rinvia anche per una disamina delle posizioni che si sono susseguite sui temi, in questa sede non rilevanti, della ricostruzione dogmatica della funzione prevalente rivestita dal fermo fiscale (cautelare, coercitiva, pignoratizia o di garanzia del credito) e della giurisdizione competente a conoscere le controversie ad esso relative.


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ceversa necessario e sufficiente verificare, alla luce di quanto sopra osservato, se il fermo fiscale sia o meno idoneo a determinare unilateralmente una forma di “indisponibilità” del veicolo da registrare presso il PRA. Nel paragrafo successivo si esaminerà se l’effetto prodotto dal fermo fiscale possa essere ricompreso nel concetto di “indisponibilità” come inteso dall’art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982. È bene però subito chiarire che, quanto al requisito della unilateralità, pochi dubbi possono sussistere in ordine alla ricorrenza di esso per il fermo fiscale: ciò sia che si adotti una ricostruzione amministrativistica di esso, sia che si adotti una ricostruzione civilistica. Nella prospettiva della ricostruzione amministrativistica del fermo fiscale, il riconoscimento della idoneità a incidere unilateralmente sulla sfera giuridica di un contribuente sussiste per la definizione stessa di provvedimento amministrativo, sia nel senso tradizionale e allargato (15), sia nel senso più tecnico e ristretto (16). Nella prospettiva della ricostruzione civilistica del fermo

(15) Chiarissimo, in tal senso, S.M. Messina, L’iscrizione di ipoteca sugli immobili ed il fermo dei beni mobili registrati nella procedura esattoriale e nel processo tributario, in Riv. dir. trib., 2008, I, 335 ss., par. 4, il quale – muovendo dalla concezione tradizionale di “provvedimento amministrativo” come “atto con cui l’autorità amministrativa dispone in ordine all’interesse pubblico di cui è attributaria, esercitando la propria potestà e correlativamente incidendo su situazioni soggettive del privato” – conclude che le misure di ipoteca e fermo “sono espressione di una potestà pubblica delegata e discrezionale nella quale l’attribuzione di poteri è funzionalmente connessa all’interesse pubblico ad una pronta e completa acquisizione dei tributi”, con la conseguenza che “non pare possibile dubitare dell’esistenza, nel caso di specie, degli elementi tipici del provvedimento amministrativo”. In questo senso anche C. Glendi, Il giudice amministrativo non può giudicare sul fermo di beni mobili registrati, in Corr. Trib., 2005, 3172 e L. Del Federico, Fermo sui beni mobili e ipoteca, in Aa.Vv., La riscossione dei tributi, a cura di M. Basilavecchia - S. Cannizzaro - A. Carinci, Milano, 2011, 226, il quale riconosce che “l’Agente della riscossione opera per l’iscrizione di ipoteca e del fermo esercitando unilateralmente un potere autoritativo, specificamente attribuitogli dalla legge”. In giurisprudenza cfr., in particolare, Cons. St., VI, ord. n. 2032/2006, ove ulteriori riferimenti giurisprudenziali. (16) In questa prospettiva, infatti, il fermo fiscale di cui all’articolo 86 del d.P.R. n. 602/1973, non dovendo per l’attuale disciplina essere obbligatoriamente emesso al ricorrere di determinati presupposti previsti dalla legge, si caratterizza per un vero e proprio margine di discrezionalità in ordine all’an della relativa emissione, talché ad esso si collega la creazione di effetti che non possono considerarsi già integralmente prodotti per il verificarsi in concreto della fattispecie prevista dalla legge, ma che risultano innovativi delle situazioni giuridiche ordinamentali esistenti in base alla legge in quanto filtrati da una decisione potestativa del soggetto attivo che supera la mera ricognizione e dichiarazione dell’esistente e viene a creare situazioni passive nuove secondo lo schema Norma - Fatto - Potere - Effetto. Una simile prospettiva è adottata da S. Palmosi, Profili attuali sulla natura e giurisdizione del fermo ex art. 86, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, in Rass. trib., 2005, 186 ss., par. 5.3; G. Porcaro, Problemi (e ipotesi di soluzione) in tema di giurisdizione nell’impugnazione del fermo di autoveicoli, anche alla luce


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fiscale, il riconoscimento dell’idoneità a incidere unilateralmente sulla sfera giuridica di un contribuente non è comunque contestato, essendo semmai essa ricondotta alla figura di un peculiare diritto potestativo attribuito a una particolare categoria di creditori (17), anziché alla generalità di essi, a motivo della particolarità dell’interesse che l’ordinamento riconosce all’effettiva riscossione di tale tipologia di crediti, dalla cui corretta e piena esazione dipende in ultimo il funzionamento degli apparati pubblici (18). Pertanto, anche senza il

della sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004, in Rass. Trib., 2004, 2085; I. Franco, Il fermo amministrativo dei veicoli a motore nella normativa fiscale sulla riscossione, in Foro amm., 2003, 2115; L. Spagnoletti, Le “ganasce” fiscali: breve storia del fermo amministrativo dei beni mobili registrati in sede di riscossione di entrate mediante ruolo, tra problemi sostanziali e processuali, in Giust. amm., 2003, 392. (17) Il concetto di “diritto potestativo” è evocato per il fermo fiscale da Cons. St., V, sent. n. 4689/2005. Riguardo a tale decisione, peraltro, meritano di essere svolte alcune considerazioni ulteriori. I giudici di questa Sezione del Consiglio di Stato, invero: in primo luogo, hanno inquadrato il fermo fiscale “fra gli strumenti di conservazione dei cespiti patrimoniali sui quali può essere soddisfatto coattivamente il credito, che l’ordinamento ordinariamente appresta alla generalità creditori”; conseguentemente, hanno affermato che non vi sarebbe “provvedimento amministrativo lesivo di interessi legittimi del titolare del bene che ne è assoggettato”; in conclusione, hanno negato la giursidizione amministrativa sulla base di una certa lettura della sentenza n. 204/2004 della Corte Costituzionale in combinato con la posizione prevalente fino al 2006 (e sancita anche da Cass., SS.UU., n. 2053/2006) attributiva al giudice civile ordinario della giurisdizione sulle controversie relative al fermo fiscale. Il predetto combinato, infatti, faceva sì che in tale particolare congiuntura normativa la “ambientazione” civilistica dell’istituto fosse stata ritenuta prevalente rispetto alla “ambientazione” pubblicistica, con conseguente inconfigurabilità della giurisdizione amministrativa. Tali passaggi argomentativi contenuti nella decisione amministrativa, tuttavia, non incidono sulla problematica di cui si discute in questa sede. Anzitutto, il problema della prevalenza della “ambientazione” civilistica o pubblicistica, rilevante nella prospettiva della sentenza n. 204/2004 della Corte Costituzionale, è attualmente stemperato dopo lo scorporo – avvenuto con l’art. 35, comma 26-quinquies del d.l. n. 223/2006 – dell’istituto del fermo fiscale dal coacervo degli atti esecutivi conosciuti dal giudice ordinario e con l’autonomizzazione di esso anche sotto il profilo della sollecitazione dell’interesse a impugnare di fronte al giudice speciale tributario. Inoltre, si evidenzia come sia la stessa Quinta Sezione del Consiglio di Stato a riconoscere – naturalmente – che nell’ambito dell’istituto del fermo fiscale sussistono “connotazioni particolari derivanti dalla natura del rapporto obbligatorio in forza del quale il debitore è tenuto al pagamento e della legislazione speciale che lo prevede, accordando poteri extra ordinem al creditore ed allo stesso incaricato della riscossione”: tanto basta, nella prospettiva, indicata nel testo, a integrare il concetto di “provvedimento” nel senso lato in cui deve essere inteso nell’economia dell’art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982. (18) Come sottolineato da G. Fransoni - P. Russo, La giurisdizione in materia di fermo di beni mobili registrati, in Il fisco, 2004, 1184, nella semplice prospettiva dell’esecuzione forzata privatistica si dovrebbe infatti “dubitare fortemente della legittimità dell’attribuzione ad un soggetto che è parte del rapporto in contestazione (e, quindi, tutt’altro che terzo ed imparziale) del potere, esercitabile inaudita altera parte, di tutelare così incisivamente il proprio


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bisogno di scandagliare la matrice di fondo che accomuna i diritti potestativi dei privati e i poteri amministrativi (19) e che può legittimamente condurre a formulare, sotto alcuni profili, considerazioni comuni (20), è senz’altro possibile affermare come sia pacifico tanto in una prospettiva amministrativistica quanto in una prospettiva civilistica il riconoscimento della sussistenza di quel requisito dell’unilateralità degli effetti prodotti dal fermo fiscale che si è dimostrato rilevare ai sensi dell’art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982. Del resto, ponendosi nella prospettiva civilistica che vede nel fermo fiscale un mero atto preordinato all’espropriazione forzata del veicolo, se tale misura non fosse stata prevista dall’ordinamento (e, più in generale, se non sussistessero le peculiarità dell’esecuzione esattoriale) analogo effetto avrebbe dovuto ottenersi unicamente rivolgendosi all’autorità giudiziaria in sede di processo esecutivo, talché nell’economia dell’art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982 sarebbe stata comunque integrata quella fattispecie di esclusione da tassa automobilistica costituita dal “provvedimento dell’autorità giudiziaria”: pertanto, la possibilità conferita al creditore di autoprodurre tale effetto non si presta, all’evidenza, a giustificare un differente trattamento nella prospettiva dell’articolo stesso. Per concludere, è bene evidenziare come la circostanza – valorizzata dalla Corte Costituzionale nella motivazione della sentenza in commento – secondo cui, al momento della entrata in vigore della norma che ha disposto la non applicazione della tassa automobilistica ai veicoli sottoposti a fermo amministrativo (art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982), il fermo fiscale di cui all’attua-

interesse rinviando ad un momento successivo – ed in costanza dell’effetto lato sensu ablativo – qualsiasi contestazione sull’esistenza di ogni vizio formale o sostanziale”. (19) Matrice di fondo comune che ha spinto, per un verso, una parte della dottrina (L. Bigliazzi Geri, Contributo ad una teoria dell’interesse legittimo nel diritto privato, Milano, 1967; Aa.Vv., Il diritto privato nel prisma dell’interesse legittimo, a cura di U. Breccia - L. Briscuglia - F.D. Busnelli, Torino, 2001) sulla sperimentale via di ricostruire in termini di interesse legittimo la posizione di soggezione in cui si trova il destinatario dell’esercizio di alcuni diritti potestativi privatistici e, per altro verso, altra parte della dottrina a ricostruire in termini moderni (ossia senza tornare alle fictiones degli amministrativisti di fine Ottocento) l’esercizio del potere amministrativo in termini di rapporti di diritto comune (C. Cudia, Funzione amministrativa e soggettività della tutela. Dall’eccesso di potere alle regole di rapporto, Milano, 2008). (20) Si può osservare, al riguardo, che il collegarsi del fermo fiscale a quelli che, da un punto di vista strutturale, sono normali rapporti di debito-credito non vale ad escludere che la speciale attribuzione a una determinata categoria di soggetti (nella specie, agente della riscossione) della possibilità di costituirsi unilateralmente un mezzo di coazione del tipo del fermo fiscale rappresenti, sotto questo profilo, un vero e proprio potere autoritativo (spunti in tal senso in P. Russo, L’accertamento tributario nel pensiero di Enzo Capaccioli: profili sostanziali e processuali, cit., 685-686, specie nota 36).


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le art. 86 del d.P.R. n. 602/1973 non era previsto dall’ordinamento, non vale certo a giustificare la conclusione per cui a quest’ultimo “non poteva evidentemente riferirsi la norma di esenzione del 1982”. Se così fosse, neppure il fermo amministrativo di cui all’art. 214 del Codice della strada rileverebbe per la norma del 1982, essendo anch’esso sopravvenuto (d.lgs. n. 285/1992); inoltre in presenza di una clausola normativa imperniata su un concetto ampio come quello di “provvedimento della pubblica amministrazione” che legittima l’esclusione dall’applicazione della tassa automobilistica, l’evoluzione normativa che introduca figure nuove rispetto a quelle vigenti al momento dell’entrata in vigore della clausola normativa, ma che parimenti si prestano a rientrare nel concetto ampio su cui essa si basa, rende di regola doverosa (salve ovviamente indicazioni contrarie dei lavori preparatori, delle quali non pare esservi traccia nella specie) la ricomprensione nell’alveo applicativo della norma stessa delle nuove figure previste dall’ordinamento e rientranti nel concetto posto a base della clausola normativa. Pertanto, nessun argomento interpretativo - neppure di questo tipo - osta alla ricomprensione del fermo fiscale di cui all’art. 86 del d.P.R. n. 602/1973 nel concetto di “provvedimento della pubblica amministrazione” previsto dall’art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982 come fattispecie esonerativa dall’obbligo di corresponsione della tassa automobilistica. 3. L’indisponibilità temporanea del veicolo quale causa di esclusione dell’applicabilità della tassa automobilistica. – Come si è detto, affinché determini l’effetto di escludere l’applicazione della tassa automobilistica, il provvedimento della pubblica amministrazione deve essere idoneo a determinare unilateralmente una almeno temporanea “indisponibilità” del veicolo, pubblicizzata nelle forme individuate dalla legge (iscrizione al PRA). Al fine di conferire significato a un concetto complesso come l’“indisponibilità”, soccorre un duplice ordine di considerazioni – le prime, di carattere sistematico, le seconde, di carattere giurisprudenziale – le quali sollevano dal gravoso compito di subordinare l’interpretazione della disposizione normativa del comma 36 dell’art. 5 del d.l. n. 953/1982 alla ricostruzione e adozione di una nozione generale di “indisponibilità”. Sotto il profilo sistematico, occorre rifarsi alla medesima lettura complessiva delle disposizioni di cui ai commi 32-40 dell’art. 5 del d.l. n. 953/1982 già prospettata all’inizio del paragrafo precedente. Il combinato normativo collega il venir meno dell’obbligo di corresponsione della tassa automobilistica al trasferimento del diritto reale che costituiva presupposto del tributo oppure al trasferimento giuridico o alla perdita di alcune facoltà dipendenti dalla titolarità del diritto reale stesso: in questa prospettiva, a fronte della pie-


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nezza delle potestates utendi ac fruendi connesse al diritto reale, si tratta di individuare se le conseguenze giuridiche che si verificano in dipendenza di specifiche fattispecie ordinamentali valgano ad integrare una perdita di facoltà idonea a determinare il venir meno dell’obbligo tributario. Il legislatore risolve il problema, per il caso della causa di forza maggiore e del fatto del terzo, individuando nel “possesso” quella facoltà la cui perdita è necessaria e sufficiente per escludere il pagamento del tributo (espletate le dovute formalità pubblicitarie). Non altrettanto fa, il legislatore, per il caso della perdita di facoltà in dipendenza di atto giuridicamente lecito di terzi, ossia di “provvedimento dell’autorità giudiziaria o della pubblica amministrazione” nel senso ricostruito nel precedente paragrafo. Al riguardo, soccorre tuttavia il secondo ordine di considerazioni sopra prospettato, ossia quello di carattere giurisprudenziale. Invero, sebbene nella sentenza in commento la Corte non fornisca una diretta interpretazione del concetto di “indisponibilità”, essa compie tuttavia una disamina dei profili di diversificazione tra fermo di polizia stradale ex art. 214 CdS e fermo fiscale ex art. 86 del d.P.R. n. 602/1973 sul presupposto che, per determinare l’esclusione dal pagamento della tassa automobilistica, sia necessaria una “indisponibilità” pari o superiore a quella prodotta dal fermo di polizia stradale; indisponibilità che, ad avviso della Corte, il fermo fiscale non produrrebbe poiché apporrebbe al veicolo un vincolo troppo “debole”. La circostanza che la Corte Costituzionale indichi un parametro (fermo di polizia stradale ex art. 214 CdS) cui sicuramente riconnettere l’integrazione del presupposto di “indisponibilità” necessario ad escludere l’applicazione della tassa automobilistica permette operativamente di assumere il medesimo come paradigma definitorio del contenuto di questo specifico concetto (impregiudicata naturalmente ogni valutazione rispetto agli ulteriori profili rilevanti, quali ad esempio la registrazione della misura nelle forme previste dall’articolo stesso) e, conseguentemente, di procedere per comparazione fra esso e la fattispecie ordinamentale della quale voglia misurarsi sotto questo profilo l’idoneità a escludere l’applicazione della tassa automobilistica. Così ha fatto, del resto, la stessa Corte con riferimento alla fattispecie del fermo fiscale: solo che, a una più approfondita verifica, il ragionamento comparativo compiuto dalla Corte al riguardo giunge a conclusioni non condivisibili. In questa prospettiva di comparazione fra fermo di polizia stradale e fermo fiscale, va anzitutto rilevato che la Corte non menziona l’unico elemento al quale il legislatore del 1982 ha conferito espresso rilievo, ossia l’iscrizione del provvedimento di fermo presso il PRA (che il comma 36 dell’art. 5 richiama mediante il rinvio al comma 32). Sotto tale profilo, la conclusione dovrebbe quindi essere opposta rispetto a quella tratta dalla Corte Costituzionale, poiché


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il fermo fiscale è iscritto al PRA (e quindi integra il presupposto di esclusione stabilito dall’art. 5, commi 36 e 32 del d.l. n. 953/1982), mentre non lo è il fermo amministrativo ex art. 214 CdS (21) che, come tale, seguendo una interpretazione restrittiva non dovrebbe integrare il presupposto di esclusione dal pagamento della tassa automobilistica stabilito dal decreto del 1982 (22). Per converso, gli aspetti del fermo fiscale cui la Corte sembra conferire rilievo per diversificarne il regime di “indisponibilità” rispetto al fermo di polizia stradale (carattere provvisorio, funzione cautelare, assenza di materiale sottrazione del veicolo, assenza di vincoli di custodia in luogo lontano dal pubblico passaggio, assenza di sigilli, mancato ritiro della carta di circolazione, assenza di preclusioni alla trasferibilità, mancata previsione del sequestro e di sanzioni penali in caso di violazione del divieto di circolazione) da un lato non diversificano apprezzabilmente i due istituti e, dall’altro, attengono ad aspetti che in nessun modo possono ragionevolmente farsi rientrare nel concetto di “indisponibilità” cui la norma conferisce rilievo. A prescindere dal carattere del fermo come provvedimento amministrativo in senso tecnico (che si è detto non rilevare in questa sede), la funzione di esso (legata alla espropriazione forzata intesa alla realizzazione del credito tributario nel caso di fermo fiscale, e propriamente sanzionatoria nel caso di fermo di polizia stradale) appare ictu oculi irrilevante in questo frangente dove contano gli effetti oggettivi prodotti dall’applicazione dell’istituto. Inoltre, e diversamente da quanto sembra ritenere la Corte, anche il fermo di polizia stradale è provvisorio (23) e anche nel fermo di polizia stradale è prevista, come regola generale, l’attribuzione del bene in custodia al proprietario, mentre per converso pure nel fermo fiscale la custodia può essere attribuita a terzi

(21) Oltre che al diretto interessato e alle amministrazioni coinvolte, infatti, esso viene regolarmente comunicato solo al Sistema informativo di gestione dei veicoli sequestrati o fermati, ma non al PRA (cfr. circ. Min. Int. n. 300/26711 del 2109.2007, par. 5.4., su cui Aa.Vv., Il fermo amministrativo, a cura di E. Brandolini, cit., 362). (22) Per completezza, si segnala, peraltro, come sia doveroso estendere l’applicazione dell’esclusione anche al caso di fermo amministrativo stradale, pur non essendo iscritto al PRA, poiché come noto le risultanze del PRA hanno carattere di presunzione relativa ma non assoluta (cfr. Corte Cost., sent. n. 164/1993 e tutta la giurisprudenza successiva). (23) La temporaneità del fermo è pacifica in dottrina: cfr., per tutti, Aa.Vv., Il fermo amministrativo, a cura di E. Brandolini, cit., 235-238; Aa.Vv., Il nuovo codice della strada e il regolamento di esecuzione con note di commento e giurisprudenza, a cura di A.A. Abrugiati, Milano, 2011, 724, il quale definisce il fermo di polizia stradale come “misura di interdizione temporanea per una durata corrispondente al periodo fissato dalle violazioni cui inerisce”.


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(art. 5, comma 3 D.M. n. 503/1998). Sotto il profilo delle sanzioni per il caso di violazione del divieto di circolazione, la norma sul fermo fiscale (art. 86, comma 3 del d.P.R. n. 602/1973) rinvia proprio alla norma sul fermo amministrativo, salvo il coordinamento necessario alla luce della generale assenza di rilievo penale nel caso di fermo fiscale (24). Quanto alla trasferibilità della proprietà del veicolo in costanza di operatività della misura, nessuna norma formalmente la preclude in caso di fermo amministrativo ex art. 214 CdS (25), non essendovi del resto neppure alcuna indicazione della misura presso il PRA: il caso, effettivamente, appare scolastico, poiché postula che un potenziale acquirente abbia talmente tanta fretta di acquistare la titolarità di un veicolo usato da non voler attendere neppure il lasso di tempo necessario per entrarne a tutti gli effetti in possesso (ciò che durante il fermo potrebbe comportare la violazione degli obblighi di custodia e la conseguente applicazione di sanzioni ablative di carattere definitivo come la confisca), ma il fatto che tali ipotesi teoriche non siano escluse dalla legge né dai principi vale a dimostrare che eventuali differenze sul punto rispetto alla regolamentazione espressamente prevista per il fermo fiscale (trascrizione presso il PRA e inopponibilità al fisco del trasferimento ai sensi dell’art. 5, comma 1 del D.M. n. 503/1998), quand’anche per ipotesi sussistessero, non risulterebbero per definizione essenziali perché appunto non caratterizzanti l’istituto a livello legislativo. Pertanto, tra quelle elencate dalla Corte, le uniche differenze tra fermo fiscale e fermo di polizia stradale rimangono l’assenza di sigilli e di possibili conseguenze penali, la diversa regolamentazione circa il luogo di custodia del bene e il mancato ritiro della carta di circolazione. Tutte circostanze che, a

(24) Cfr., per tutti, I. Caraccioli, Profili penali delle ‘ganasce fiscali’ sulle auto, in Il fisco, 2003, 5390, il quale evidenzia come non siano applicabili gli articoli 388 e 388-bis del codice penale, in quanto il provvedimento di fermo fiscale non è emesso dal giudice e non è per esso prevista dalla legge la costituzione del depositario del veicolo come “custode” in senso tecnico. (25) Invero, l’art. 396 del regolamento attuativo del Codice della Strada (d.P.R. n. 495/1992) rinvia, per il fermo amministrativo, alle norme sul sequestro soltanto nella misura in cui esse siano compatibili. Sotto questo profilo, la strumentalità del sequestro alla confisca (art. 213 CdS), che non ricorre per il fermo amministrativo, giustifica un diverso trattamento sotto il profilo della libera disponibilità del bene da parte del proprietario. Invero, mentre nel caso del sequestro la perdita della proprietà del veicolo da parte del precedente proprietario si configura come la conseguenza ordinaria (sempre che ovviamente sia confermata l’integrazione della fattispecie che ha indotto l’organo di polizia a dar corso alla misura), niente di tutto ciò avviene nel caso del fermo amministrativo di cui all’art. 214 CdS (Cass. pen., sez. VI, n. 44498/2009).


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ben vedere, possono forse determinare in pratica una più “debole” dissuasione dalla violazione del divieto di circolazione in caso di fermo fiscale rispetto al fermo amministrativo, ma che nulla hanno a che spartire con il presupposto della tassa automobilistica e con il possibile perimetro interpretativo del concetto di “indisponibilità” integrante il presupposto della mancata applicazione della tassa in caso di veicoli sottoposti a fermo. Ciò per due ordine di motivi. In primo luogo, assumendo come corretta la posizione espressa dalla Corte (cfr. già Corte Cost., sent. n. 164/1993, ord. n. 308/1995) secondo cui il d.l. n. 953/1982 avrebbe mutato il presupposto della tassa dalla circolazione di veicoli (art. 1 del d.P.R. n. 39/1953) alla disponibilità (per titolarità di diritti reali o di determinate facoltà alienate dal titolare del diritto reale) del mezzo, la facoltà derivante dalla disponibilità del mezzo e consistente nella possibilità di farlo circolare è per definizione divenuta in sé irrilevante al fine del presupposto del tributo: talché un possibile rilievo di essa rispetto alla non debenza della tassa appare ormai scarsamente coerente rispetto a una razionale configurazione del tributo stesso (26). In secondo luogo, laddove qualche rilievo tale facoltà (o meglio, il relativo venir meno) avesse in sé per la non applicazione del tributo, tale rilievo si tradurrebbe nella valorizzazione – al fine dell’esonero dal pagamento della tassa – dell’effetto creato da fattispecie giuridiche idonee a determinare l’insorgenza dell’effetto stesso, e non nella valorizzazione di fattispecie attinenti a maggiori o minori garanzie con le quali la conservazione dell’effetto è perseguita o a maggiori o minori possibilità che tale effetto sia di fatto vanificato (27). Queste ultime, infatti, consistono

(26) Non può essere accolto, a questo riguardo, il ragionamento che sembra compiere la Corte all’inizio del par. 5.3. dela sentenza in commento, secondo cui essendo il nuovo presupposto del tributo legato alla mera “proprietà” del veicolo (per una disamina della evoluzione normativa e giurisprudenza cf. G. Falsitta, La storia del “bollo auto” e la fretta della Corte Costituzionale, de Il fisco, 1996, 1905 n.), la fattispecie di non applicazione del tributo in caso di fermo amministrativo costituirebbe una esenzione in senso tecnico con la quale il legislatore avrebbe voluto valorizzare il vecchio criterio della preclusione alla circolazione. Esso, infatti, è basato su una ricostruzione approssimativa del presupposto del tributo (che, come risulta palese dalla semplice lettura del comma 32 dell’art. 5 del d.l. n. 953/1982, non è certo limitato alla sola “proprietà”), con la conseguenza che altrettanto approssimativa deve considerarsi la qualificazione della fattispecie del comma 36 come esenzione piuttosto che come esclusione. In ogni caso, il ragionamento è da considerarsi giuridicamente errato per le ragioni che si stanno per esporre in seconda battuta nel testo. (27) In questo senso anche C. Scalinci, Se il fermo del veicolo è “fiscale” (e non “stradale”) per la Consulta la tassa automobilistica resta dovuta, in Riv. dir. trib., supplemento online, 13.04.2017.


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in fattispecie diverse da quella produttiva dell’effetto che interessa e non sono legate a essa da rapporti di pregiudizialità (quanto, semmai, di dipendenza): ne consegue che eventuali diversità degli effetti previsti da queste fattispecie dipendenti (aventi ad oggetto le garanzie di conservazione dell’effetto pregiudiziale o le conseguenze per la violazione di esso) in nulla incidono sull’effetto della fattispecie pregiudiziale ritenuto rilevante. Pertanto, a fronte della ipotesi – che pare trasparire da questi passaggi della sentenza della Corte – per cui sarebbe l’effetto della preclusione alla circolazione a determinare il venir meno dell’obbligo di corresponsione della tassa automobilistica, e a fronte di due fattispecie (fermo di polizia stradale e fermo fiscale) che producono pacificamente due effetti del medesimo contenuto di dar vita a un divieto di circolazione, conferire rilievo al fatto che alcune fattispecie dipendenti e correlate (attinenti alle garanzie di conservazione dell’effetto rilevante o alle conseguenze per la violazione di esso) siano diverse nel caso della figura del fermo amministrativo rispetto alla figura del fermo fiscale costituisce passaggio logicamente indebito e giuridicamente errato. 4. Conclusioni: l’applicazione della tassa automobilistica dovrebbe essere esclusa anche in caso di fermo fiscale. – Dalla ricostruzione sopra svolta risulta chiaro che l’iscrizione di un fermo fiscale ex art. 86 del d.P.R. n. 602/1973 sul veicolo determina il venir meno dell’obbligo di pagamento della tassa automobilistica di cui all’art. 5, commi 32 ss. del d.l. n. 953/1982 fino al momento in cui il fermo non sia cancellato. Tale conclusione deriva, anzitutto, dalla constatazione che il fermo fiscale costituisce “provvedimento della pubblica amministrazione annotat(o)” al PRA che determina la temporanea “indisponibilità” del veicolo nel senso inteso dal comma 36 dell’art. 5 stesso. Inoltre, quel che la Corte Costituzionale ha ritenuto per il fermo di polizia stradale ex art. 214 del Codice della Strada non può non valere anche per il fermo fiscale. I due istituti sono infatti sovrapponibili quanto agli elementi rilevanti ai fini delle norme in questione, diversificandosi per aspetti che non possono ragionevolmente ritenersi incidere sui presupposti indicati dal comma 36 dell’art. 5 cit. Pertanto, laddove il concetto di “provvedimento della pubblica amministrazione annotat(o)” al PRA che determina la temporanea “indisponibilità” ai sensi dell’art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982 dovesse – come sembra ritenere la Corte Costituzionale – ritenersi limitato al fermo di polizia stradale di cui all’art. 214 del Codice della Strada, la norma in questione dovrebbe ritenersi incostituzionale nella parte in cui, senza ragionevoli motivi, circoscrive il proprio ambito applicativo a uno soltanto dei possibili casi di fermo di veicoli disposto dalla pubblica autorità.


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Ciò a prescindere dal carattere agevolativo o meno dello stesso art. 5, comma 36 del d.l. n. 953/1982: premesso che, a differenza di quanto sostiene la Corte e come dovrebbe emergere in modo sufficientemente chiaro dalla ricostruzione contenuta nei paragrafi precedenti, la norma in esame contiene all’evidenza una esclusione sistematica che concorre a delimitare il presupposto del tributo sulla base della ratio applicativa del tributo stesso, e non una esenzione che esclude eccezionalmente l’applicazione di esso per ragioni di politica fiscale estranee e ulteriori rispetto alla ratio del tributo stesso (28), è comunque acquisito (cfr., ad es., sent. nn. 176/1992 e 154/1999 e, da ultimo, nn. 153/2017 e 111/2016) che la materia delle agevolazioni è soggetta al sindacato della Corte anche nel senso di estenderne l’ambito applicativo ai casi in cui ciò sia richiesto dal principio di razionalità e dal divieto di disparità di trattamento tra fattispecie che, per gli elementi rilevanti, possono dirsi uguali, come accade nel caso di specie.

Francesco Farri

(28) Sulla diversità dei concetti di esclusione ed esenzione cfr., per tutti, G. Fransoni, Tipologia e struttura della norma tributaria, in Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, Torino, 2012, 286-287; A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 146 ss.



Commissione Tributaria provinciale Alessandria, aprile 2016 - 19 dicembre 2016, n. 407; Pres. e Rel. S. Moltrasio Abuso del diritto – Dazi doganali – Importatore titolare di certificati AGRIM completamente utilizzati per importazione a dazio agevolato – Acquisto di prodotto estero e rivendita a altri importatori professionali al di fuori del territorio dello stato – Successiva importazione da parte di costoro a dazio agevolato con spendita dei propri certificati – Conclusiva cessione del prodotto al “primo” importatore senza ricarico – Sussistenza di valide ragioni economiche e difetto di vantaggio fiscale indebito – Legittimità dell’operazione Non costituisce abuso del diritto – sussistendo valide ragioni economiche, oltre al lecito risparmio di imposta – nel caso in cui un operatore commerciale del settore (ESSE s.p.a.), titolare di diritti e titoli AGRIM, che abbia esaurito i propri diritti/titoli, effettui l’importazione dei quantitativi oggetto di causa a dazio agevolato (e non a dazio pieno, applicando il quale il prezzo del prodotto sarebbe stato certamente “fuori mercato”), realizzando un profitto economicamente apprezzabile e non soltanto un puro e semplice risparmio di imposta fine a se stesso, operando una sorta di “triangolazione”. Essa consiste, nella fattispecie, nell’acquisto da parte di ESSE s.p.a. dal produttore extra-UE di carne bovina congelata e nella rivendita, allo stato estero, a due società titolari, in quanto importatori professionali, di certificati AGRIM; le due società importano il prodotto in ambito UE, lo sdoganano a dazio agevolato e lo rivendono immediatamente dopo, senza ricarico, all’operatore stesso.

Fatto SILCA S.p.A. ha impugnato l’avviso di accertamento protocollo 6047 RU del 21.9.2015 con il quale l’Agenzia delle Dogane, ritenuta l’operazione relativa all’importazione di carne bovina congelata di provenienza brasiliana a dazio agevolato mediante interposizione di soggetti titolari di titoli AGRIM (Annerstedt Flodin AB e Meat Corporation of Namibia LTD) risultato di un’ipotesi di “abuso del diritto”, richiede il versamento dei maggiori diritti risultanti dalla differenza daziaria nonché della relativa IVA, oltre interessi, per la complessiva somma di 1.224.229,31 euro per diritti doganali e di 125.819,97 euro per interessi, oltre interessi maturandi dalla data dell’avviso al saldo.


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L’operazione sottostante l’avviso in oggetto è estremamente semplice: SILCA S.p.A., operatore nel mercato delle carni bovine congelate, ha interesse ad importare in ambito comunitario un certo quantitativo di cani bovine congelate di provenienza da paesi extra-UE ma non è in possesso, per avere esauriti i propri, dei relativi titoli AGRIM che le consentirebbero di fruire del dazio agevolato derivante dal contingentamento complessivo fissato annualmente in 53.000 tonnellate di prodotto; poichè l’importazione del prodotto a dazio pieno sarebbe certamente antieconomica in quanto comporterebbe l’applicazione di un prezzo di cessione non concorrenziale, SILCA S.p.A. opera una sorta di “triangolazione” in quanto acquista dal produttore extra-UE la carne bovina congelata e la rivende, allo stato estero, a due società (Annerstedt Flodin AB e Meat Corporation of Namibia LTD) titolari, in quanto importatori professionali, di certificati AGRIM; le due società importano il prodotto in ambito UE, lo sdoganano a dazio agevolato e lo rivendono immediatamente dopo, senza ricarico, a SILCA S.p.A. che in tal modo, di fatto, può beneficiare, senza costi aggiuntivi, del dazio agevolato e, dunque, di un risparmio fiscale utile a rendere il prezzo di cessione del prodotto concorrenziale. L’Agenzia delle Dogane, premessa la non fittizietà dell’operazione in quanto i titoli AGRIM sono liberamente trasferibili e premesso altresì che non sarebbe ravvisabile alcuna frode alla legge nell’operazione in oggetto, contesta l’abuso del diritto fondato sull’assenza di un vantaggio economico dell’operazione a fronte di un mero risparmio fiscale in capo a SILCA S.p.A. In particolare, secondo l’Agenzia delle Dogane “…non si rinviene nessun elemento di economicità nello schema negoziale con il quale le società Meat e Annerstedt operano per conto di altri soggetti, posto che non ricevono nessun compenso per tale attività commerciale; l’assenza di ricarico e il solo pagamento dell’uso del titolo portano a ritenere inesistente qualsiasi altra giustificazione economica apprezzabile dell’operazione economica contestata. In conclusione, risulta evidente e predominante la condizione oggettiva di risparmio di imposta, quale motivazione sostanziale dell’operazione commerciale descritta, ove la natura abusiva della triangolazione è confermata dall’ultima retrocessione delle merci importate dalle citate società estere alla stessa Silca (reale destinataria della merce) subito dopo lo sdoganamento a tariffa preferenziale…Infine, è appena il caso di osservare che nessuna norma avrebbe impedito alle dette società di cedere semplicemente a Silca i propri titoli ovvero alla stessa Silca di importare carne, seppur a dazio pieno…”. SILCA S.p.A. premette al merito alcune eccezioni preliminari cui si darà conto nella parte motivazionale. È stata disposta la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato subordinatamente alla prestazione di fideiussione. In ragione dell’importo da garantire, SILCA S.p.A. non ha rinvenuto alcun istituto di credito o compagnia assicurativa disposta a prestare la fideiussione, per cui ha


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domandata l’anticipazione dell’udienza di discussione che è stata fissata per il giorno 14.3.2016. In ragione dell’oggettiva complessità delle questioni trattate la deliberazione della sentenza è stata rinviata, ai sensi dell’art. 35,comma 2, D.Lgs. 546/92, alla prima camera di consiglio utile per la data del 18.4.2016. Diritto 1. Le questioni preliminari. SILCA S.p.A. ha sollevate alcune questioni di carattere preliminare che, in quanto tali, vanno esaminate con priorità. 1.1. Omessa indicazione del responsabile del procedimento. SILCA S.p.A. chiede l’accertamento della nullità dell’atto impugnato per omessa indicazione del responsabile del procedimento e a tal fine richiama la norma in tema di cartella di pagamento. L’eccezione è infondata perché avuto riguardo agli atti di accertamento in materia doganale non è previsto dalla legge, a differenza di quanto è prescritto in tema di riscossione mediante cartella di pagamento, l’obbligo di indicare, a pena di nullità, il responsabile del procedimento (invero, l’art. 9, comma 3-bis, D.L. n. 16/2012 prevede altre formalità ma non quella dell’indicazione del responsabile del procedimento; inoltre, la riscossione non avviene mediante cartella di pagamento ma a seguito dell’esecutività dell’avviso di accertamento o di rettifica dell’accertamento). 1.2. Prescrizione della pretesa erariale in relazione alla bolletta doganale n. 4285K del 24.9.2012. SILCA S.p.A. eccepisce la prescrizione della pretesa dell’Agenzia delle Dogane in quanto la raccomandata contenente l’atto impositivo è giunta ad essa ricorrente due giorni dopo la scadenza del termine triennale. L’eccezione è infondata. La notificazione degli atti si perfeziona, per il notificante, nel momento in cui il plico è consegnato all’Ufficio Postale. Il plico è stato consegnato all’Ufficio Postale di Rivalta Scrivia il 22.9.2015, dunque prima della scadenza del termine triennale richiamato. 1.3. Difetto o insufficienza della motivazione dell’atto impugnato. L’eccezione è infondata. L’atto contiene l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche poste a fondamento dell’atto stesso. In ogni caso si osserva che SILCA S.p.A. ha articolato ampiamente le proprie difese e in più occasioni, nel corpo del ricorso, fa riferimento a tesi giuridiche, sposate dall’Agenzia delle Dogane, ritenute dalla stessa ricorrente non condivisibili, segno che ha potuto adeguatamente difendersi ed opporsi all’atto impositivo. 2. Il merito. La pretesa dell’Agenzia delle Dogane, che vorrebbe applicare il dazio pieno e non quello agevolato conseguente all’utilizzo dei titoli AGRIM, si fonda sulla nozione di


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abuso del diritto anteriore alla sua “codificazione” avvenuta a seguito dell’introduzione, con D.Lgs. 5.8.2015, n. 128, dell’art. 10-bis nel corpo della L. 27.7.2000, n. 212 (c.d. statuto dei diritti del contribuente): l’operazione posta in essere da SILCA S.p.A., mediante l’interposizione reale di Annersted Flodin AB e di Meat Corporation of Namibia LTD, sarebbe priva di qualsivoglia valida ragione economica e sarebbe stata funzionale esclusivamente ad ottenere un indebito risparmio di imposta. Va doverosamente premesso che in base al principio secondo cui l’oggetto giuridico del contenzioso tributario è cristallizzato dalle argomentazioni, in fatto ed in diritto, espresse dall’Ufficio Finanziario nell’atto impugnato, l’unica questione che deve essere affrontata – e sulla quale ha esercitato il proprio diritto di difesa la ricorrente- è quella volta a verificare, stante il tenore dell’atto impugnato, la sussistenza o meno di un’ipotesi di abuso del diritto e cioè, in sostanza, se l’operazione commerciale (costituita da più negozi giuridici tutti funzionali ad un unico risultato costituito dall’importazione di carne congelata extra UE a dazio agevolato) posta in essere da SILCA S.p.A. con il concorso di Annersted Flodin AB e di Meat Corporation of Namibia LTD, sia o meno sorretta da valide ed effettive ragioni economiche giuridicamente apprezzabili (causa contrattuale) ovvero sia stata funzionale esclusivamente ad ottenere un indebito risparmio di imposta fine a se stesso. L’operazione commerciale posta in essere da SILCA S.p.A., oltre ad essere perfettamente lecita, ha una sua ragione giuridico-economica sottostante, sia avuto riguardo allo scopo perseguito dalla stessa ricorrente, sia avuto riguardo allo scopo perseguito da Annersted Flodin AB e da Meat Corporation of Namibia LTD, in quanto realizza un lecito risparmio di imposta direttamente collegato a rendere concorrenziale il prezzo del prodotto importato e, infine, consente di realizzare un utile di impresa avuto riguardo a tutte le parti commerciali coinvolte nell’operazione; non solo, ma non froda affatto le ragioni latu sensu fiscali dello Stato perché si muove all’interno del contingente di prodotto a dazio ridotto stabilito in ambito europeo, con l’utilizzo delle procedure e degli strumenti apprestati a livello comunitario. Il Regolamento CE n. 431/2008 stabilisce che ogni anno (dal 1° luglio al 30 giugno dell’anno seguente) è aperto un contingente tariffario di importazione di carne bovina congelata a dazio agevolato nella misura di 53.000 tonnellate. Agli operatori in possesso dei requisiti e che ne facciano richiesta sono attribuiti diritti di importazione. Il diritti di importazione permettono al titolare di acquisire, nel momento più opportuno nel corso del periodo di validità, i relativi titoli AGRIM che consentono, di fatto, l’importazione del prodotto a dazio agevolato. A ciascun operatore viene attribuito un certo numero di diritti di importazione in ragione delle importazioni effettuate nell’anno precedente. All’atto della presentazione della domanda tendente ad ottenere il rilascio dei diritti gli operatori debbono versare una cauzione che viene incamerata nell’ipotesi


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in cui nel corso del periodo di validità non vengano utilizzati mediante richiesta di emissione dei relativi titoli. Al momento del ritiro dei titoli l’operatore è tenuto a versare un’ulteriore cauzione che viene incamerata laddove i titoli non vengano effettivamente utilizzati. L’omesso utilizzo dei diritti e/o dei titoli conseguenti determina per l’operatore, oltre alla perdita della o delle cauzioni, l’esclusine dal novero degli importatori per l’anno seguente. I diritti derivanti dai titoli cui si è fatto cenno sono trasferibili durante il periodo di validità degli stessi (art. 8 Regolamento CE 23.4.2008, n. 376). Quindi, il diritto di importare carne bovina congelata a dazio agevolato nel limite del contingente di 53.000 tonnellate in ragione di anno è cedibile; ciò comporta, come prima considerazione che, il relativo risparmio di imposta, costituito dal pagamento del dazio agevolato, non può certamente, in assenza di altri elementi significativi a supporto, essere considerato illegittimo e costituire fondamento per ritenere la relativa operazione conseguenza di pratica abusiva. SILCA S.p.A. ha optato per l’acquisto del diritto di importazione e non per l’acquisto del titolo, tanto è vero che i titoli sono stati rilasciati alle due società estere che hanno, di fatto, curato l’importazione e lo sdoganamento del prodotto e, in forza della cessione del diritto, hanno, dietro versamento di una somma di denaro (83.000 euro), ritrasferita la merce a SILCA S.p.A. Dal punto di vista fiscale non vi è differenza perché in entrambi i casi il risultato fiscale è quello di ottenere l’applicazione del dazio in misura ridotta; è rilevante, ma non rileva affatto nella presente controversia trattandosi di mere motivazioni proprie delle parti contraenti, sotto il profilo del diritto per l’anno successivo ad ottenere ulteriori diritti all’emissione di titoli, perché mentre nel primo caso il cedente conserva tale diritto, nel secondo caso lo perde. L’operazione di cui sopra, diversamente da quanto ritenuto dall’Agenzia delle Dogane, non ha determinato alcuna turbativa della concorrenza nel mercato comunitario perché non ha affatto comportato uno sforamento rispetto al limite delle 53.000 tonnellate di prodotto ed anzi, nel rispetto di tale limite, ha consentito l’utilizzo di diritti, prima, e di titoli, poi, che probabilmente non sarebbero stati utilizzati. Il fatto che l’importazione di carne bovina congelata sia rimasta, malgrado la suddetta operazione, nel limite delle 53.000 tonnellate comporta il certo rispetto dei principi fissati a livello comunitario in tema di quantità di prodotto importabile e di tutela della concorrenza: altro sarebbe stato se detto limite fosse stato superato, ma in tal caso, probabilmente, si sarebbe trattato di utilizzazione di titoli AGRIM falsificati, pratica ben conosciuta dalla giurisprudenza, soprattutto in tema di importazione di banane. Neppure, può essere condivisa l’affermazione dell’Agenzia delle Dogane secondo la quale l’acquisto dei diritti di importazione da parte di SILCA S.p.A. abbia, di fatto, determinato un “…indebito mantenimento di una posizione di privilegio ai


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fini delle successive assegnazioni in termini di diritti all’importazione da parte di operatori che, di fatto, figuravano solo formalmente come soggetti economici dediti all’attività di importazione”. E ciò per due considerazioni: perché non è certo compito dell’Agenzia delle Dogane in quanto non rileva sotto il profilo strettamente fiscale, bensì degli organismi comunitari, valutare se vi sia stato indebito mantenimento di posizione di privilegio, e perché, soprattutto, si tratta pur sempre di operatori che, in quanto titolari di diritti per l’importazione, sono stati ritenuti dagli organismi europei soggetti effettivamente operanti nel settore. Per quanto concerne, poi, lo specifico tema dell’abuso del diritto, dall’esame dello schema negoziale oggetto di accertamento emerge che sussistevano valide ragioni economiche, oltre al lecito risparmio di imposta (peraltro strettamente connesso alla concorrenzialità del prodotto e, dunque, alla possibilità di realizzazione di un profitto economicamente apprezzabile), sottostanti alla conclusione dei contratti stessi: a) SILCA S.p.A., operatore commerciale del settore, titolare di diritti e titoli AGRIM, non avrebbe potuto, per avere esaurito i propri diritti/titoli, effettuare l’importazione dei quantitativi oggetto di causa a dazio agevolato e, quindi, l’operazione commerciale non sarebbe stata conclusa per antieconomicità perché, con il pagamento del dazio pieno il prezzo del prodotto sarebbe stato certamente “fuori mercato”, e, pertanto, l’importazione in oggetto ha permesso a SILCA S.p.A. di realizzare un profitto economicamente apprezzabile e non soltanto un puro e semplice risparmio di imposta fine a se stesso; b) le due società estere (Annerstedt Florin AB e Meat Corporation of Namibia LTD) hanno incassato il corrispettivo di 83.000 euro relativo alla cessione dei diritti, hanno evitato di vedersi incamerare le cauzioni versate e hanno mantenuto i requisiti per partecipare alla distribuzione dei diritti relativi all’annualità seguente. Inoltre, non consta la violazione di alcuna norma a livello europeo, non consta la turbativa della concorrenza, non consta lo sforamento del tetto, ritenuto congruo dalle autorità europee, delle 53.000 tonnellate di prodotto. In conclusione, non ravvisandosi la sussistenza di alcuna elusione di imposta conseguente a pratica abusiva, il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento dell’atto impugnato. 3. Le spese. La controvertibilità delle questioni trattate costituisce grave ragione in forza della quale disporre, ai sensi dell’art. 15, comma 2, D.Lgs 546/92, la compensazione delle spese processuali. P. Q. M. la Commissione accoglie il ricorso e, conseguentemente, annulla l’atto impugnato. Compensa le spese processuali. Alessandria, 18 aprile 2016. Il Presidente est.


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Prime applicazioni sostanziali (e alcune considerazioni procedimentali) sull’abuso di diritto in materia doganale È legittimo, per un soggetto che abbia utilizzato tutti i propri certificati AGRIM nelle operazioni di importazione, importare secondo uno schema triangolare altri beni all’interno del mercato UE (per poterli rivendere a prezzo di mercato) secondo il seguente schema: - il contribuente acquista i beni al di fuori del mercato europeo e li cede nel paese di produzione ad altri importatori, ancora dotati di certificati AGRIM non utilizzati; - gli altri operatori importano beni nel mercato europeo a dazio agevolato, utilizzando i propri certificati AGRIM; - infine, tali importatori cedono quei beni al contribuente al solo costo senza alcun margine di utile. Questo schema non costituisce comportamento abusivo, ex art. 10bis dello Statuto del Contribuente (Decreto Legislativo n. 212/2000), disposizione antielusiva italiana. La sua funzione è di disapplicare quelle operazioni realizzate non nel contesto delle normali relazioni commerciali, ma essenzialmente per ottenere vantaggi fiscali indebiti. A taxpayer can import goods from outside the EU at a lower tariff using a sort of triangular scheme, after spending all its AGRIM certificates. Otherwise, the purchase of goods would become unprofitable. The scheme can be summarized as follows: - the taxpayer buys goods outside the EU, and sells them in the country of production to other professional importers, whose AGRIM certificate has not been spent jet; - the other professional importers import goods from outside the EU at the lower tariff, as their certificates allow to do; - then, the other professional importers sell goods to the taxpayer at cost without any mark up. The scheme described above does not constitute tax abuse, according to the art. 10 bis of Taxpayers Statute (Legislative Decree n. 212/2000), the Italian anti – avoidance legislation. Its role is to challenge transactions carried out not in the context of normal commercial operations, but basically for the purposes of wrongfully obtaining tax advantages.

Sommario: 1. Il caso ricostruito e deciso dalla pronuncia in esame. – 2. Brevi rifles-

sioni sui profili procedimentali dell’art. 10 bis nel contesto della libera scelta del contribuente tra regimi fiscali consentiti. – 3. Cenni alla non rilevabilità d’ufficio della natura abusiva dell’operazione. – 4. Le prospettive dell’art. 10- bis dello Statuto.

1. Il caso ricostruito e deciso dalla pronuncia in esame. – La sentenza che qui si annota (1) e che rappresenta, a quanto ci consta, la prima appli-

(1) Si tratta di Comm. Trib. prov. Le Alessandria, Sez. VI, Pres. e Rel. Moltrasio, sent. 9 maggio 2016, n. 182, inedita.


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cazione della nuova disciplina dell’abuso di diritto (2) alla materia di tributi

(2) La bibliografia sull’elusione fiscale prima e sull’abuso del diritto poi è divenuta, specie negli ultimi anni, vastissima. Per un inquadramento generale tra le opere più recenti: S. Cipollina, voce “Elusione fiscale”, in Digesto Comm., Torino, 2007, aggiornamento; P. Tabellini, L’elusione della norma tributaria, Milano, 2006; G. Zizzo, voce “Elusione ed evasione tributaria”, in Dig. Dir. Pubbl., Milano, 2006, III, 2173. Sull’ abuso del diritto v., ex multis: Aa.Vv., Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009; Contrino, Il divieto dell’ abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, in Dir. e Prat. Trib., 2009, I, 471 ss.; P. Piantavigna, Abuso del diritto e fiscalità nella giurisprudenza comunitaria: un’ipotesi di studio, in Riv. Dir. Fin., 2009, I, 369-428; G. Tabet, Abuso del diritto ed elusione fiscale, in Boll. Trib., 2009, 85 ss.; M. Basilavecchia, Elusione e abuso del diritto: una integrazione possibile, in Riv. Giur. Trib., 2008, 741 ss.; P. Pistone, L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le ipotesi terminologiche, in Riv. Dir. Trib., 2007, IV, 17 ss.; F. Amatucci, L’abuso del diritto nell’ordinamento tributario nazionale, in Corr. giur., 2009, 4, 553 ss.; M. Beghin, Alla ricerca di punti fermi in tema di elusione fiscale e abuso del diritto tributario (Nel comparto dei tributi non armonizzati), in Boll. trib. inf., 2009, 19, 1413 ss.; F.D. Busnelli - E. Navarretta, Abuso del diritto e responsabilità civile, in Diritto privato, III, in L’abuso del diritto, a cura di G. Furgiuele, Padova, 1998, 210; G. Chinellato, Codificazione tributaria ed abuso del diritto: contributo allo studio degli strumenti di contrasto all’elusione fiscale, Padova, 2007; S.F. Cociani, Spunti ricostruttivi sulle tecniche giuridiche di contrasto all’elusione tributaria. Dal disconoscimento dei vantaggi tributari all’inopponibilità al fisco degli atti, fatti e negozi considerati “elusivi”, in Riv. dir. trib., 2001, 7, 705 ss.; F. Dami, La condotta elusiva deve essere sanzionata pur nel rispetto dei principi generali, in Riv. dir. trib., 2012, 113 ss.; A. Di Amato, Contratto e reato. Profili civilistici, in Tratt. dir. civ. C.N.N., diretto da P. Perlingieri, IV, 37, Napoli, 2003, 249 ss.; O. Drigani, Risparmio di imposta e nullità del contratto. Una strada non percorribile dal Giudice tributario, in Il fisco, 2006, 46, 7065 ss.; S. Fiorentino, Il problema dell’elusione nel sistema tributario positivo, in Riv. dir. trib., 1993, 7, 789 ss.; S. Fiorentino, L’elusione tributaria. Scelte di metodo e questioni terminologiche, Napoli, 1996; S. Fiorentino, Qualificazione fiscale dei contratti d’impresa: abuso e sanzionabilità, in Riv. dir. trib., I, 2012, 177 ss.; F. Gallo, Elusione, risparmio d’imposta e frode alla legge, in Riv. dir. comm., 1989, 3, 377 ss.; A. Giovannini, II divieto d’abuso del diritto in ambito tributario come principio generale dell’ordinamento, in Rass. trib., 2010, 4, 982 ss.; F.M. Giuliani, Elusione fiscale, frode alla legge e causa concreta del contratto, in Contr. impr., 2007, 2, 455 ss.; A. Lovisolo, L’evasione e l’elusione tributaria, in Riv. prat. trib., 1984, 5, 1286 ss.; F. Mancinelli, Elusione ed evasione, Napoli, 1989; C. Melillo, Elusione e abuso del diritto: tra ipotesi di integrazione ed esigenze di certezza normativa, in Dir. prat. trib., 2010, 3, 413 ss.; A. Merone, Ricomincio da tre, in Il Foro nap., 2012, 84 ss. R. Miceli, Elusione tributaria, abuso del diritto (comunitario) e inapplicabilità delle sanzioni amministrative, in Riv. dir. trib., 2010, 5, 551 ss.; M. Nussi, Elusione tributaria ed equiparazioni al presupposto nelle imposte sui redditi: nuovi (e vecchi) problemi, in Riv. dir. trib., 1998, 5, 503 ss.; 2; E. Nuzzo, Elusione, abuso dello strumento negoziale, fraudolenza, in Rass. trib., 1996, 6, 1314 ss.; P. Pacitto, Attività negoziale, evasione ed elusione tributaria: spunti problematici, ivi, 1987, 4, 727 ss.; F.M. Scarlata, La elusione, in Boll. trib. inf., 1989, 6, 447 ss.; P.M. Tabellini, L’elusione della norma tributaria, Milano, 2007; P.M. Tabelli-


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doganali, offre lo spunto per alcune considerazioni sui profili procedimentali di tale disciplina. Come noto, la disciplina dettata dall’art. 10-bis dello Statuto del contribuente trova applicazione in tutti i settori dell’ordinamento fiscale compresi quindi i tributi doganali (a differenza dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600, il cui ambito applicativo era limitato alle imposte sui redditi e alle altre imposte cui ne era stata estesa espressamente l’applicazione). Tuttavia, ai tributi doganali si rendono applicabili i primi 4 commi dell’art. 10-bis, non anche le cautele e le garanzie relative al riparto dell’onere probatorio tra Fisco e contribuente e all’adempimento dell’onere di motivazione, particolarmente rafforzato: il comma 4 del D. Lgs. N. 128 del 2015 dispone infatti che “i commi da 5 a 11 dell’articolo 10-bis della legge n. 212 del 2000 non si applicano agli accertamenti e ai controlli aventi ad oggetto i diritti doganali di cui all’articolo 34 del decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, che restano disciplinati dalle disposizioni degli articoli 8 e 11 del decreto legislativo 8 novembre 1990, n. 374, e successive modificazioni, nonché dalla normativa doganale dell’Unione europea”. Pur riconoscendo le peculiarità dei tributi doganali, nella pronuncia in nota i giudici osservano che appare particolarmente distonica la disapplicazione della disposizione di cui al 9° comma del nuovo art. 10-bis, ossia di quella che disciplina specificamente i profili processuali e la non rileva-

ni, L’elusione

fiscale, Milano, 1988; M. Tancredi, Considerazioni critiche sulla costante evoluzione giurisprudenziale in tema di elusione tributaria ed abuso del diritto, in Boll. trib. inf., 2009, 6, 425 ss.; G. Tremonti, L’autonomia contrattuale e normativa tributaria: il problema dell’elusione tributaria, in Riv. it. dir. fin., 1986, 3, 369 ss.; B. Troisi, L’abuso del diritto negli obiter dicta e nelle rationes decidendi della Corte costituzionale, in I rapporti patrimoniali nella giurisprudenza costituzionale, a cura di M. Tamponi ed E. Gabrielli, Collana «Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica Italiana», Napoli, 2006, 279 ss.; G. Zizzo, Clausola antielusione e capacità contributiva, ivi, 2, 2009, 486; G. Zizzo, La giurisprudenza in materia di abuso ed elusione nelle imposte sul reddito, in Corr. trib., 2012, 1019 ss.; G. Zizzo, Ragioni economiche e scopi fiscali nella clausola antielusione, in Rass. trib., 1, 2008, 170 ss.; G. Zizzo, Abuso del diritto, scopo di risparmio d’imposta e collegamento negoziale, ivi, 3, 2008, 869 ss.; G. Zoppini, Prospettiva critica della giurisprudenza “antielusiva” della Corte di Cassazione, ivi, 1999, 11, 919 ss. Per i profili di fiscalità internazionale, ai quali in questa sede può farsi unicamente rimando, si segnala l’iniziativa dell’OCSE nell’ambito del progetto denominato Base Erosion and Profit Shifting (BEPS): sia consentito rinviare sul punto alla seguente fonte: About BEPS, available at: http://www.oecd.org/tax/beps-about.htm.


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bilità d’ufficio dell’abuso del diritto. Posto che anche gli accertamenti doganali vanno comunque impugnati davanti al comune giudice tributario non vi è, infatti, alcuna ragione di prevedere regole processuali diverse da quelle applicabili in presenza di altri atti impositivi che recano la stessa contestazione di abuso del diritto e, soprattutto, una contestazione fondata sulla medesima nozione di abuso. Il fatto di causa era piuttosto semplice: un operatore nel mercato delle carni bovine congelate, interessato a importare in ambito comunitario un certo quantitativo di carni di provenienza extra-UE ma non in possesso, per avere esauriti i propri, dei relativi titoli AGRIM che gli avrebbero consentito di fruire del dazio agevolato, operava una sorta di “triangolazione”, acquistando la merce dal produttore extra-UE e rivendendola, allo stato estero, a due società titolari, in quanto importatori professionali, di certificati AGRIM; le due società importavano il prodotto in ambito UE, lo sdoganavano a dazio agevolato e lo rivendevano immediatamente dopo, senza ricarico, al primo operatore, consentendogli di beneficiare, senza costi aggiuntivi, del dazio agevolato e, dunque, di un risparmio fiscale utile a rendere concorrenziale il prezzo di cessione del prodotto. L’Agenzia delle Dogane prendeva atto dei fatti e della circostanza che i titoli AGRIM sono liberamente trasferibili; quindi non rilevava alcun irregolarità dal punto di vista dei rapporti contrattuali, ma contestava al contribuente l’abuso del diritto fondato sull’assenza di una sostanza economica dell’operazione a fronte del mero risparmio fiscale ottenuto dall’operatore. Le argomentazioni svolte dal giudice di merito per riconoscere la fondatezza del ricorso prendono le mosse dalla prospettazione e dalla realizzazione dell’operazione commerciale, nonché dagli effetti che la stessa produce in capo alle parti e sotto il profilo degli obblighi tributari. Il giudice riconosce anzitutto la ragione giuridico-economica sottesa al rapporto contrattuale che “realizza un lecito risparmio di imposta direttamente collegato a rendere concorrenziale il prezzo del prodotto importato e, infine, consente di realizzare un utile di impresa avuto riguardo a tutte le parti commerciali coinvolte nell’operazione”. Non solo; il giudice osserva anche che l’operazione “non froda affatto le ragioni latu sensu fiscali dello Stato perché si muove all’interno del contingente di prodotto a dazio ridotto stabilito in ambito europeo, con l’utilizzo delle procedure e degli strumenti apprestati a livello comunitario”.


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Ciò che resta non del tutto esplicitato in motivazione è se la decisione cui il giudice giunge sia dovuta a un difetto di prova da parte dell’Erario o al fatto che il contribuente abbia fornito prova della sussistenza delle valide ragioni economiche. Il profilo probatorio è uno degli aspetti di maggior complessità e di più elevata delicatezza della questione e, nonostante la rilevata esclusione della materia doganale dall’applicazione dei commi relativi a tale profilo, il giudice non si sottrae alla questione. Come noto, la nuova disciplina di contrasto all’abuso del diritto pone a carico dell’amministrazione l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati nonché la loro non conformità a una normale logica di mercato; mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali tali da giustificare il ricorso agli strumenti giuridici utilizzati. Per la precisione, il comma 9 dell’art. 10-bis dello Statuto dispone che “l’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi di cui ai commi 1 e 2. Il contribuente ha l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al comma 3”. Tale disposizione attua il principio previsto dall’articolo 5, comma 1, lettera d), della legge delega n. 23 del 2014, il quale prefigura a carico dell’amministrazione l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché la loro mancata conformità a una normale logica di mercato, prevedendo, invece, che gravi sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti (3). Sotto questo profilo, la norma si allinea dunque a quella precedente giurisprudenza (4) di legittimità secondo la quale all’amministrazione finanziaria spetta l’onere di fornire una seria prospettazione della fattispecie di abuso, individuan-

(3) Per una puntuale disamina del percorso che Amministrazione finanziaria e contribuente devono seguire affinché l’onere probatorio di rispettiva pertinenza possa dirsi effettivamente e correttamente assolto, prendendo spunto dagli elementi costitutivi il comportamento abusivo contestato e dall’interpretazione della giurisprudenza e della dottrina, si rinvia a P Russo, L’onere probatorio in ipotesi di “abuso del diritto” alla luce dei principi elaborati in sede giurisprudenziale, in Fisco, 2012, 1301. (4) In primis Cass., ord. 2 novembre 2011, n. 22716, in banca dati Il Fisconline.


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done e precisandone gli aspetti, senza che dunque essa possa limitarsi ad affermare che l’utilizzo di forme giuridiche inusuali, anche mediante negozi giuridici collegati, sia in grado di far considerare l’operazione priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio d’imposta (5). Secondo questo orientamento è l’Amministrazione finanziaria, in prima battuta, a dover fondare la propria pretesa impositiva dando prova degli elementi che costituiscono la fattispecie abusiva, gravando successivamente, sul contribuente l’onere di provare che “in contrario, le predette operazioni corrispondono ad un interesse economico non marginale” (6). Al riguardo i giudici di legittimità, in ossequio ai principi giurisprudenziali di matrice comunitaria (7), hanno precisato che l’assolvimento di tale onere deve essere particolarmente accurato, affermando che la valutazione discrezionale incontra dei limiti, posto che «l’abuso deve risultare da un insieme di elementi obiettivi», anche nell’ottica di salvaguardare il principio di proporzionalità. È d’obbligo, pertanto, per l’Amministrazione finanziaria un atteggiamento improntato alla massima cautela laddove proceda a ipotizzare e contestare comportamenti abusivi, «essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche ... cautela che ..., qualunque sia la sua matrice, deve essere massima quando non si tratti di operazioni finanziarie, di artificioso frazionamento di contratti o di anomala interposizione di stretti congiunti, ma di ristrutturazioni societarie, soprattutto quando le stesse avvengono nell’ambito di grandi gruppi d’imprese» (8). Conseguentemente, l’Amministrazione finanziaria, nell’assolvere l’obbligo motivazionale a fondamento della propria pretesa, non potrà limitarsi alla formulazione di generici rilievi, ma dovrà indicare: - gli elementi a sostegno dell’assunto dell’esistenza di un comportamento abusivo, evidenziando nell’atto impositivo perché la forma giuridica (o il complesso di forme giuridiche) impiegata abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all’operazione economica intrapresa; - quali obblighi e quali divieti sarebbero stati aggirati;

(5) In senso analogo anche Cass., n. 12622 del 2012, in Banca dati Il fisconline. (6) In tal senso ancora Cass., ord. n. 22716 del 2012, in Banca dati Il fisconline. (7) Cfr. le recenti sentenze della Corte di giustizia UE, 22 dicembre 2010, causa C-103/09 cit. e 27 ottobre 2011, causa C-504/10, in L’Iva, 2011, 63, in Banca dati Il fisconline. (8) Cass., n. 1372 del 2011, in Banca dati Il fisconline.


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- l’assenza di effettività economica, a fronte dell’obiettivo esclusivo o essenziale rappresentato dall’indebito risparmio d’imposta (9). La linea di tendenza che esce rafforzata dalla riforma è dunque quella dell’estensione del contraddittorio alle ipotesi di rilevazione di condotte abusive, come momento essenziale e imprescindibile di attuazione di un diritto fondamentale riconosciuto dal diritto comunitario e, quindi, applicabile nel nostro ordinamento. Il principio del contraddittorio ha trovato nella giurisprudenza della Corte di giustizia un’ampia elaborazione che può sinteticamente riassumersi nel diritto di chiunque a manifestare il proprio punto di vista sugli addebiti mossi contro di lui, prima che venga adottato un provvedimento nei suoi confronti e nell’obbligo per l’autorità competente di dare comunicazione all’interessato dei rilievi contestati, concedendogli un termine congruo e ragionevole per preparare la propria difesa e per far valere nelle sedi competenti le sue posizioni (10). Anche in tema di abuso del diritto, il sistema tributario richiede quindi – a maggior ragione dopo le modifiche normative del 2015 – che l’atto impositivo dia conto in motivazione delle ragioni dell’Erario, la cui chiara articolazione si coordina, pur restando autonoma, con il sopra esposto adempimento dell’onere probatorio. Prevede infatti il comma 8 dell’art. 10 bis: “Fermo quanto disposto per i singoli tributi, l’atto impositivo è specificamente motivato, a pena nulli-

(9) In tal senso, Cass., 27 luglio 2011, n. 16428, in Boll. trib., 2011, 1727. (10) Si veda Corte di giustizia UE, sez. II, 18 dicembre 2008, causa C-349/07, in GT - Riv. giur. trib., 2009, 203, con nota di A. Marcheselli,, secondo la quale diritto al contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario è diritto fondamentale del diritto comunitario. Per un esame analitico dei contenuti della sentenza cfr., altresì, G. Ragucci, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario, in Rass. trib., 2009, 580. Tra i principi generali comuni che rivestono un ruolo prioritario nel procedimento di integrazione giuridica europea deve includersi, come rileva, L. Del Federico, Tutela del contribuente e integrazione giuridica europea, Milano, 2010, 233, il principio del contraddittorio o della difesa amministrativa, anche se, mentre la maggior parte dei principi, tra i quali il principio di legalità, la tutela del diritto alla difesa, l’obbligo di motivazione e la tutela del legittimo affidamento, trovano già adeguata applicazione nel diritto tributario italiano, analoga considerazione non è riferibile al principio del contraddittorio. Per un’analisi ragionata dell’orientamento giurisprudenziale con riferimento ai principi che governano il procedimento tributario, tra i quali, il principio del contraddittorio, si rinvia a C. Califano, Principi comuni e procedimento tributario: dalle tradizioni giuridiche nazionali alle garanzie del contribuente, in Riv. dir. trib., 2004, I, 993, il quale ritiene che l’esercizio della funzione amministrativa da parte degli organi nazionali deve tenere in considerazione il rispetto delle garanzie poste dal diritto comunitario, che possono fungere da elemento propulsivo del diritto interno, sulla scia di quanto riconosciuto in sede comunitaria.


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tà, in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente nel termine di cui al comma 6”. Tale disposizione, in attuazione del principio previsto dall’articolo 5, comma 1, lettera e), della legge delega, prescrive l’obbligo di motivazione dell’atto di accertamento, a pena di nullità, in relazione a: condotta abusiva; norme o principi elusi; indebiti vantaggi fiscali realizzati; chiarimenti forniti dal contribuente (11). Anche la giurisprudenza di merito è approdata alle medesime conclusioni cui è giunta la dottrina (12), ritenendo applicabili le garanzie procedimentali del previo contraddittorio e della motivazione rafforzata anche al disconoscimento dei vantaggi tributari avvenuto per il tramite della clausola pretoria dell’abuso del diritto;: del resto, se la contestazione di abuso viene formulata in quanto si tratta di clausola generale immanente nel sistema, del pari immanenti nel sistema devono essere considerate anche le cautele che valorizzano il contraddittorio (13). Proseguendo nella disamina degli elementi essenziali costitutivi della

(11) In tema di motivazione “rafforzata”degli avvisi di accertamento antielusivi, si legga F. Tesauro, La motivazione degli atti di accertamento antielusivi e i suoi riflessi processuali, in Corr. Trib., 2009, 3634. (12) In dottrina, sul tema delle garanzie endoprocedimentali cfr., altresì, L. Salvini, La cooperazione del contribuente e il contraddittorio nell’accertamento, in Corr. trib., 2009, 3570; F. Tesauro, La motivazione degli atti di accertamento antielusivi ed i suoi riflessi processuali, in Corr. trib., 2009, 3634; G. Zizzo, Clausola antielusione e capacità contributiva, in Rass. trib., 2009, 490; M. Beghin, Art. 37-bis, in Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di F. Moschetti, Tomo II, Accertamento e sanzioni, Padova, 2010; M. Nussi, Abuso del diritto: profili sostanziali, procedimental-processuali e sanzionatori, in Giust. trib., 2009; 323; A. Contrino, Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, retro, 2009, I, 477; M. Pierro, Abuso del diritto: profili procedimentali, in Giust. trib., 2009, 410; G. Zoppini, Da mihi factum dabo tibi ius: note laterali sulle recenti sentenze delle Sezioni Unite in tema di abuso del diritto, in Riv. dir. trib., 2009, 607; E. Marello, Elusione fiscale e abuso del diritto: profili processuali e procedimentali, in Giur. it., 2010; F. Tundo, Abuso del diritto ed elusione: un’anomala sovrapposizione, in Corr. trib., 2011, 281; A. Marcheselli, Abuso del diritto, libertà economiche e garanzie procedimentali: un episodio da rivedere, in GT - Riv. giur. trib., 2012, 225. (13) Per la giurisprudenza di merito cfr. Comm. trib. reg. Lombardia, 16 gennaio 2012, n. 2, in GT - Riv. giur. trib., 2012, 632, con nota di F. Tundo, La mancata instaurazione del contraddittorio su un’ipotesi potenzialmente elusiva rende nullo il successivo atto impositivo; Comm. trib. prov. Genova, 24 gennaio 2011, n. 2, in Corr. trib., 2011, 1474; Comm. trib. prov. Brescia, 18 febbraio 2011, n. 14, in banca dati Big suite, Ipsoa; Comm. trib. prov. Milano, 21 febbraio 2011, n. 54, in Dialoghi trib., 2011, 248 con nota di A. Ballancin - D. Stevanato - R. Lupi, Sull’abuso del diritto spettano le garanzie procedimentali dell’art. 37-bis.


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fattispecie, va portata l’attenzione sul risparmio di imposta; elemento che anch’esso deve essere provato dall’Amministrazione finanziaria. Se l’atto abusivo è teso a ridurre il costo fiscale, l’Amministrazione deve comparare i costi fiscali del negozio che si ritiene abusivo con i costi fiscali di un termine di paragone (che può essere un altro negozio, o anche la semplice inazione), provando che gli interessi soddisfatti tramite il negozio giuridico contestato sono normalmente soddisfatti tramite un diverso negozio (dal maggiore costo fiscale). Sul punto sembra assai chiara quella giurisprudenza della Corte Suprema (14) secondo la quale «spettava dunque all’Amministrazione allegare – non solo – che il ruolo di ... nell’economia del sistema non era altrimenti spiegabile se non per conseguire ... vantaggi fiscali per il gruppo, ma anche esplicitare tale conclusione mettendo a confronto l’asserito comportamento abusato con il comportamento fisiologico aggirato» (15). Anche a voler considerare che i commi da 5 a 11 dell’art. 10-bis non si applicano alla materia doganale, è lecito dubitare che in tal materia non vigano le ordinarie regole probatorie di cui all’art. 2697 c.c. in forza delle quali chi intende far valere la propria ragione ne deve dimostrare il fondamento e chi intende smentire tale affermazione deve fornire prova del contrario o privare di vis probatoria quanto controparte deduce. Nel caso di specie, la liceità del contratto posto in essere tra le parti e la sua conformità alla disciplina di settore viene rinvenuta dalla Commissione di Alessandria nel disposto del Regolamento CE n. 431/2008 il quale stabilisce che ogni anno (dal 1° luglio al 30 giugno dell’anno seguente) è aperto un contingente tariffario di importazione di carne bovina congelata a dazio agevolato nella misura di 53.000 tonnellate. Agli operatori in possesso dei requisiti e che ne facciano richiesta sono attribuiti diritti di importazione che permettono di acquisire, nel momento più opportuno nel corso del periodo di validità, i titoli AGRIM che consentono l’importazione del prodotto a dazio agevolato. In questo contesto amministrativo, di carattere contrattuale – autorizzatorio, a ciascun operatore viene in concreto attribuito un certo numero di diritti di importazione in ragione delle importazioni effettuate nell’anno precedente; e i diritti derivanti dai titoli cui si è fatto cenno sono libera-

(14) Cass. sez. trib. 21 gennaio 2009, n. 1465, in Banca dati Il fisconline. (15) Si veda la pronuncia di cui alla nota precedente.


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mente trasferibili durante il periodo di validità degli stessi (art. 8 Regolamento CE 23.4.2008, n. 376). L’elemento della libera trasferibilità del diritto in questione da un soggetto importatore ad un altro risulta centrale nella motivazione della sentenza: secondo il giudice “ciò comporta, come prima considerazione che il relativo risparmio di imposta, costituito dal pagamento del dazio agevolato, non può certamente, in assenza di altri elementi significativi a supporto, essere considerato illegittimo e costituire fondamento per ritenere la relativa operazione conseguenza di pratica abusiva”. In altri termini, ove l’ordinamento prevede un vantaggio a fronte di una determinata situazione giuridica, il contribuente che – anche tramite un comportamento che implica atti giuridici ad hoc – si ponga esattamente in quella situazione non abusa del proprio diritto, ma si limita a esercitarlo secondo quanto l’ordinamento gli consente. Rilevata l’assenza di un vantaggio tributario indebito (che di per sé avrebbe legittimato l’accoglimento del ricorso (16), la Commissione di Alessandria si spinge oltre, nel dar conto di come “per quanto concerne, poi, lo specifico tema dell’abuso del diritto, dall’esame dello schema negoziale oggetto di accertamento emerge che sussistevano valide ragioni economiche, oltre al lecito risparmio di imposta (peraltro strettamente connesso alla concorrenzialità del prodotto e, dunque, alla possibilità di realizzazione di un profitto economicamente apprezzabile), sottostanti alla conclusione dei contratti stessi:”. Sotto questo profilo, la sentenza arriva a individuare la valida ragione economica nello scopo di ottenere l’acquisto di prodotto a un prezzo (dazio incluso) quanto più possibile basso, nel rispetto del sistema amministrativistico che regola la materia. Volendo ottenere quel prodotto per i propri scopi imprenditoriali a prezzo basso, la sola via possibile – esauriti i propri certificati AGRIM – per il contribuente era quella di agire come

(16) Sul punto, per la definizione di tal vantaggio, si annoti la recente pronuncia Commissione tributaria provinciale di Roma, Sez. LXIII, Sent. 17 marzo 2016 (7 marzo 2016), n. 6405 - Pres. Gentile - Rel. Turco, secondo la quale “l’elemento del vantaggio indebito dell’abuso del diritto non è rinvenibile nella mera violazione della “ratio” formale degli istituti volti ad ottenere il risparmio fiscale, ovverosia nel riscontro di una semplice originalità degli schemi giuridici scelti dal contribuente per ottenere il risparmio fiscale. Ma consiste nella violazione della “ratio” sostanziale delle norme fiscali applicate, vale a dire nel contrasto fra la finalità dell’operazione economica realizzata e quella degli istituti tributari attivati”.


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ha effettivamente agito: rivolgersi ad altri operatori e acquistare i di loro diritti. Ma non solo: i diritti di importazione permettono al titolare di acquisire, nel momento più opportuno nel corso del periodo di validità, i titoli AGRIM che consentono, di fatto, l’importazione del prodotto a dazio agevolato. A ciascun operatore viene attribuito un certo numero di diritti di importazione in ragione delle importazioni effettuate nell’anno precedente. All’atto della presentazione della domanda tendente ad ottenere il rilascio dei diritti, gli operatori debbono versare una cauzione che viene incamerata nell’ipotesi in cui, nel corso del periodo di validità, i titoli non vengano effettivamente utilizzati. L’omesso utilizzo dei diritti e/o dei titoli conseguenti determina per l’operatore, oltre alla perdita della cauzione, l’esclusione dal novero degli importatori per l’anno seguente. Quindi, anche dal punto di vista delle controparti contrattuali della società ricorrente l’operazione era munita di valide ragioni economiche: ove esse non avessero ceduto i titoli, il diritto in essi incorporato sarebbe rimasto inutilizzato, con perdita delle cauzioni e – soprattutto – esclusione dal novero degli importatori per l’anno seguente. Di qui la sussistenza, anche per le ridette società, di una valida ragione economica per intraprendere l’operazione, quale certamente è lo sfruttamento dei diritti conseguenti ai titoli, sia pur senza margine di utile, al fine – economicamente apprezzabile, per non dire centrale nella prospettiva di chi professionalmente importa beni dall’estero – di non essere comunque esclusi dal novero degli importatori l’anno venturo. Complessivamente, quindi, l’operazione appariva ampiamente giustificata dal punto di vista imprenditoriale, sia a guardarla dal lato del contribuente che a guardarla dalla prospettiva delle controparti contrattuali. 2. Brevi riflessioni sui profili procedimentali dell’art. 10 bis nel contesto della libera scelta del contribuente tra regimi fiscali consentiti. – Come già avvertito, ai tributi doganali non si applicano i profili procedimentali della norma sull’abuso; ma è proprio su questi profili che vorrei svolgere alcune riflessioni, partendo da una più generale osservazione sulla libertà negoziale del contribuente. La disciplina procedimentale dell’abuso è preceduta dal disposto del quarto comma: “resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”.


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Questa precisazione, per quanto possa apparire meramente tautologica, si propone di fissare un punto fermo che era stato messo in discussione dagli orientamenti giurisprudenziali di cui si è già riferito, secondo i quali la scelta del regime fiscale più favorevole poteva ritenersi legittima solo in presenza di valide ragioni economiche (extrafiscali). Il legislatore puntualizza invece che questa scelta, di per sé, è sempre legittima salvo che, come si evince dalla relazione illustrativa, non ricorrano gli estremi della nuova e più rigorosa nozione di abuso. La dottrina che si è occupata del profilo aveva in realtà in modo quasi monolitico indicato la stessa soluzione ora adottata dal legislatore (17), ma risulta oggi ulteriormente confermato che “lecito risparmio di imposta, l’abuso del diritto e l’evasione fiscale sono nozioni che attengono a piani normativi diversi e si pongono in rapporto di reciproca esclusione” (18). La collocazione della precisazione poco prima della disciplina della fase procedimentale ne attesta la natura di invito – fermo e chiaro – all’Amministrazione a non porre in discussione la facultas agendi del contribuente come sopra descritta. Ne è conferma la relazione illustrativa, che evidenzia in modo molto chiaro come l’art. 10 bis, comma 4, intenda ribadire “il principio generale secondo cui il contribuente può legittimamente perseguire un risparmio di imposta esercitando la propria libertà di iniziativa economica e scegliendo, tra gli atti i fatti e i contratti quelli meno onerosi sotto il profilo impositivo. La norma sottolinea, quindi, che l’unico limite alla suddetta libertà è costituito dal divieto di perseguire un vantaggio fiscale indebito. Di qui la già sottolineata delicatezza dell’individuazione delle rationes delle norme tributarie ai fini della configurazione dell’abuso”.

(17) Si leggano sul punto, V. Uckmar, Tax avoidance and Tax Evasion. General Report, in Cahiers de droit fiscal international, vol. LXVIIIa, Deventer-Boston, 1983, 64 ss.; A. Lovisolo, L’evasione e l’elusione tributaria, Dir. E prat. Trib., 1984, I, 1290 ss.; S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale. I problema dell’elusione fiscale, Padova, 1992, 133 ss. e 148 ss.; S. Fiorentino, L’elusione tributaria, Napoli, 1996, 25 ss.; A. Contrino, Elusione fiscale, evasione e strumenti di contrasto, cit., 18 ss.; R. Lupi, Elusione e legittimo risparmio d’imposta nella nuova normativa, in Rass. trib., 1997, 1099 ss. e Id., Manuale professionale di diritto tributario, Milano, 1998, 62 ss. A. Garcea, Il legittimo risparmio d’imposta, Padova, 2000, 63 ss. e, più di recente, M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, Padova, 2013, 1-6 e 257 ss. (18) Cfr. G. Fransoni, La “multiforme” efficacia nel tempo dell’art. 10-bis dello Statuto su abuso ed elusione fiscale, in Corr. trib., 2015, 4366 ss.


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Del resto, la stessa legge delega indicava con chiarezza nell’art. 5, concernente la disciplina dell’abuso o elusione fiscale, la necessità, in sede di attuazione, di “garantire la libertà di scelta del contribuente tra le diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale” (1° comma, lett. b): si tratta di una libertà garantita sia dall’art. 42 Cost. che tutela la libera iniziativa economica, sia dall’art. 24 Cost. che prevede la tutela giurisdizionale dei diritti (19); bene quindi ha fatto il legislatore a sancire a chiare lettere il principio, forte di una doppia copertura costituzionale. Invero, la previsione riecheggia quella diretta – vigente l’art. 37-bis d.p.r. n. 600 del 1973 – a distinguere proprio le ipotesi di lecito risparmio d’imposta da quelle di elusione: la relazione al vecchio art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973, ove la distinzione era stata tracciata bene ma in modo vano, essendo poi stata pressoché ignorata dalla prassi amministrativa e, sovente, anche dalla giurisprudenza (20). Essa affermava che “si può fornire cosı` un criterio tendenziale per distinguere l’elusione rispetto al mero risparmio d’imposta: quest’ultimo si verifica quando tra i vari comportamenti posti dal sistema fiscale su un piano di pari dignità, il contribuente adotta quello fiscalmente meno oneroso. Non v’è aggiramento fintanto che il contribuente si limita a scegliere tra due alternative che in modo strutturale e fisiologico l’ordinamento gli mette a disposizione. (...) La norma antielusione non può quindi vietare la scelta tra una serie possibili di comportamenti cui il sistema fiscale

(19) S. La Rosa, Ancora sugli incerti confini tra abuso del diritto, elusione ed illecito fiscale, in Riv. dir. trib., 2012, 353; M. Beghin, Una strana idea di libertà economica e di vantaggio fiscale asistematico (su elusione fiscale e abuso del diritto), in Corr. Trib., 2015, 731. (20) Segnalo, quale esempi di giurisprudenza che distingue e riconosce come legittimo il risparmio di imposta, quando non costituisce abuso del diritto, le seguenti pronunce di Legittimità: Cass., sez. trib., 29 settembre 2006, n. 21221; Cass., sez. trib., 4 aprile 2008, n. 8772; Cass., sez. trib., 21 aprile 2008, n. 10257 e Cass., sez. trib., 21 gennaio 2011, n. 1372. Per una recente ricostruzione della giurisprudenza sull’abuso del diritto in ambito tributario, cfr. G. Marini, Le ricadute della giurisprudenza internazionale nell’ordinamento italiano: l’abuso del diritto nel settore tributario, in N. Lettieri, G. Marini e G. Merone, L’abuso del diritto nel dialogo tra corti nazionali ed internazionali, Napoli, 2014, 145 ss.; V. Ficari, Clausola generale antielusiva, art. 53 Cost. e regole giurisprudenziali, in Rass. trib., 2009, 390 ss. Si leggano anche, con riferimento a casi specifici, M. Nussi, Donazione immobiliare tra lecito risparmio d’imposta, evasione e abuso del diritto, in Corr. trib., 2009, 2334; D. Stevanato, Ancora un’accusa di elusione senza “aggiramento” dello spirito della legge, in Corr. trib., 2011, 678 ss. e G. Escalar, Indebita trasformazione del divieto di abuso del diritto in divieto di scelta per il regime fiscale meno oneroso, in Corr. trib., 2012, 2707 ss.


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attribuisce pari dignità di quello fiscalmente meno oneroso. Tra gli strumenti fungibili, ma che il sistema pone su un piano di sostanziale parità si pensi, ad esempio, alla scelta sul tipo di società da utilizzare, alla scelta tra cedere aziende e cedere partecipazioni sociali, o al sistema di finanziamento basato su capitale proprio o di debito, sul periodo di imposta in cui incassare i proventi o pagare spese, fino ad arrivare alla misura degli ammortamenti, degli accantonamenti e di tutte le altre valutazioni di bilancio (...). In tutti questi casi la scelta della via fiscalmente meno onerosa non è implicitamente vietata dal sistema, ma al contrario esplicitamente o implicitamente consentita, e non è configurabile alcun aggiramento di obblighi o divieti” (21). La stessa giurisprudenza comunitaria che ha introdotto nel sistema dei tributi armonizzati il concetto in esame (22) pone come punto di partenza delle proprie argomentazioni la premessa secondo cui “i soggetti passivi sono generalmente liberi di scegliere le strutture organizzative e le modalità operative che ritengano più idonee per le loro attività economiche nonché al fine di limitare i loro oneri fiscali” e secondo cui “il soggetto passivo, nel caso in cui possa scegliere tra differenti operazioni, ha diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permetta di limitare la contribuzione fiscale” (punto 54), chiarendo che “perché possa parlarsi di un comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni” (punto 74). Anche la Cassazione, in questa prospettiva, ha escluso che possa integrare abuso del diritto la scelta dell’imprenditore d’installare stabilimenti industriali, costituendosi in forma societaria, nei territori del Mezzogiorno,

(21) Per un commento e ulteriori approfondimenti, v. R. Lupi, Elusione e legittimo risparmio d’imposta nella nuova normativa, in Rass. trib., 1997, 1099 ss. (22) CGCE, 21 febbraio 2006, causa C-255 del 2002, Halifax, punto n. 53, e in seguito punto 54 e 74, annotata da P. Pistone, L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le imprecisioni terminologiche della Corte di Giustizia in tema di iva, in Riv. dir. trib., 2007, IV, 3 ss. Confermano tale orientamento le seguenti pronunce che si sono occupate della questione; Cfr., fra le molte, CGCE, 21 febbraio 2008, causa C-245/2006, Part service; Id., 22 maggio 2008, causa C-162/2007, Ampliscientifica; Id., 22 dicembre 2010, causa C-277/2009, Royal Bank of Scotland; Id., 20 giugno 2013, causa C-653/2011, Newey.


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cosı` da fruire delle previste agevolazioni fiscali, in quanto “i detti risparmi fiscali (...) rappresentano la contropartita fissata dallo stesso legislatore ad incentivazione di tale costituzione e non una finalità antigiuridica” (23). La Corte di Giustizia, dal canto suo, ha affermato che quando un soggetto passivo ha la scelta tra due operazioni, non è obbligato a scegliere quella che implica un maggior carico fiscale, ma ha il diritto di scegliere la conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale (24). Ove quindi il vantaggio discenda da una libera e consentita scelta, esso vantaggio deve intendersi voluto dal legislatore, che lo prevede e consente. Tornando al tema del riparto dell’onere probatorio tra Amministrazione finanziaria e contribuente si è detto che l’art. 10-bis pone a carico dell’amministrazione l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati nonché la loro non conformità ad una normale logica di mercato; a pone a carico del contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali che giustifichino il ricorso degli strumenti giuridici utilizzati (25).

(23) Cass., sez. trib., 12 maggio 2011, n. 10383; seguono la scia di questa pronuncia anche Cass., sez. trib., 5 dicembre 2014, n. 25758 e Cass., sez. trib., 26 agosto 2015, n. 17175, tutte in Banca dati Il fisconline. (24) Cfr. C. Giust. CE, 21 febbraio 2008, causa C-425/06, Part service srl, punto 47, in Giur. it., 2008, IV, 103, con nota di V. Liprino, Il difficile equilibrio tra libertà di gestione e abuso del diritto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: il caso Part Service. (25) Si legga Corte di giustizia UE, sez. II, 18 dicembre 2008, causa C-349/07, in GT - Riv. giur. trib., 2009, 203, con nota di A. Marcheselli, Il diritto al contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario è diritto fondamentale del diritto comunitario. Per un esame analitico dei contenuti della sentenza cfr., altresì, G. Ragucci, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario, in Rass. trib., 2009, 580. Tra i principi generali comuni che rivestono un ruolo prioritario nel procedimento di integrazione giuridica europea deve includersi, come rileva, L. Del Federico, Tutela del contribuente e integrazione giuridica europea, Milano, 2010, 233, il principio del contraddittorio o della difesa amministrativa, anche se, mentre la maggior parte dei principi, tra i quali il principio di legalità, la tutela del diritto alla difesa, l’obbligo di motivazione e la tutela del legittimo affidamento, trovano già adeguata applicazione nel diritto tributario italiano, analoga considerazione non è riferibile al principio del contraddittorio. Per un’analisi ragionata dell’orientamento giurisprudenziale con riferimento ai principi che governano il procedimento tributario, tra i quali, il principio del contraddittorio, si rinvia a C. Califano, Principi comuni e procedimento tributario: dalle tradizioni giuridiche nazionali alle garanzie del contribuente, in Riv. dir. trib., 2004, I, 993, il quale ritiene che l’esercizio della funzione amministrativa da parte degli organi nazionali deve tenere in considerazione il rispetto delle garanzie poste dal diritto comunitario, che possono fungere da elemento


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Ma, lungi dall’essere mera forma, il contraddittorio – fase precedente alla formazione delle prove – attiene alla sostanza del rapporto di imposta: di qui l’accresciuto rilievo della richiesta di chiarimenti, da “notificare” – termine tecnico munito di significato proprio – a sottolineare la necessità della forma scritta di tale richiesta e della sua trasmissione in modo formale (diversamente si sarebbe utilizzato il termine “comunicazione”) al contribuente, anche onde consentire all’Erario di fornire prova, in caso di contestazione, dell’invio e della ricezione della stessa. Proprio a presidio dell’effettività del contraddittorio, l’art. 10 bis, comma 8, impone all’Amministrazione finanziaria – come avveniva in vigenza dell’art. 37 bis – l’onere di motivare in modo specifico l’atto impositivo, a pena di nullità, non solo in relazione ai requisiti costitutivi dell’abuso, ma anche per quanto attiene ai chiarimenti forniti dal contribuente. Il comma 8 recita: “fermo quanto disposto per i singoli tributi, l’atto impositivo è specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente nel termine di cui al comma 6”. 3. Cenni alla non rilevabilità d’ufficio della natura abusiva dell’operazione. – Proseguendo nella disamina dell’art. 10-bis, ci si imbatte in quella parte del testo che chiaramente esclude – finalmente – che l’abuso del diritto possa essere rilevato d’ufficio da parte del giudice tributario. L’origine della questione è nota e assai delicata. Nelle sentenze del 2008 (26) le Sezioni Unite della Corte di cassazione, oltre ad enucleare nell’ordinamento tributario un generale principio antielusivo, ne avevano affermato la rilevabilità d’ufficio così fornendo un clamoroso e inaspettato assist agli uffici che tale eccezione non avessero sollevato in alcuno dei precedenti gradi di giudizio (27), e i cui rilievi

propulsivo del diritto interno, sulla scia di quanto riconosciuto in sede comunitaria. (26) Si rimanda a Corte Cass. n. 30055, n. 30056 e n. 30057 del 23 dicembre 2008, tutte in banca dati Fisconline. (27) Tale enunciazione di principio non è condivisa in dottrina da Lupi e Stevanato, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, Corr. Trib. 2009, n. 6, 403 ss., a parere dei quali la valutazione circa l’elusività di un comportamento «... può avvenire soltanto nell’ambito dell’attività di accertamento (e non certo essere rilevata d’ufficio dal giudice, magari solo in sede di giudizio di legittimità)»


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fondati sull’abuso risultassero – al vaglio del giudice – quantomeno scricchiolanti. È fuor di dubbio che l’abuso del diritto non possa che essere rilevato dalla sola Amministrazione finanziaria nell’ambito dei suoi compiti istituzionali: il giudice tributario non può far propria tale prerogativa. Una tale “sostituzione” limiterebbe in modo del tutto sorprendente e illegittimo il diritto alla difesa del contribuente con conseguente violazione dell’art. 24 Cost. La Cassazione avrebbe infatti dovuto quantomeno – e sia pur forzando anche in questo caso i principi – rinviare il processo al precedente Giudice del merito atteso che il soggetto passivo d’imposta non aveva avuto la possibilità di controdedurre di fronte all’eccezione relativa all’esistenza di abuso del diritto non sollevata in alcuna fase antecedente. È sin troppo evidente, infatti, che la Corte Suprema anche a voler ammettere che potesse d’ufficio sollevare la questione di abuso del diritto, non poteva deciderla nel «merito», ma avrebbe dovuto quanto meno rimetterla alla commissione per verificare se la richiamata procedura fosse stata osservata e comunque se non sussistevano valide ragioni economiche prevalenti su quelle fiscali (28). La condotta della Suprema Corte è quindi apparsa inaccettabile e quindi censurabile (29). La dottrina ha sottolineato come non esista, nell’ordinamento processuale, una regola che attribuisce al giudice il potere di rilevare d’ufficio un elemento costitutivo della domanda, perché ciò significherebbe accogliere una domanda diversa da quella proposta. In sostanza, il giudice può sempre rilevare d’ufficio le eccezioni, in tutti i casi in cui non via sia una norma espressa che lo escluda, riservandola alle parti. Tale regola viene

(28) Così Uckmar, L’abuso del diritto è quello della cassazione, in Italia Oggi dell’8 aprile 2009. (29) Cfr., per tutte, Cass, 20 maggio 2013, n. 12282. Sul punto v., fra gli altri, A. Poddighe, Abuso del diritto e contraddittorio processuale, in Rass. trib., 2009, 1830 ss.; G. Fransoni, Preclusioni processuali, rilevabilità d’ufficio e giusto processo, in Corr. trib., 2013, 449. Si veda, inoltre, A. Giovannini, La delega unifica elusione e abuso del diritto: nozione e conseguenze, in Corr. Trib. n. 2014, 1827, il quale ammette la rilevazione in giudizio dell’abuso in forza dell’art.113 c.p.c., in quanto trattandosi di una norma giuridica in senso proprio deve essere vista come “regola di giudizio”. Ritengo sommessamente, peraltro, che anche l’applicazione o meno di tal “regola di giudizio” dovrebbe esser vagliata nel contraddittorio tra le parti.


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desunta, a contrario, dall’art. 112 c.p.c., secondo cui il giudice non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti. In altre parole, il giudice non può respingere un ricorso contro un avviso di accertamento basandosi ex officio sulla “eccezione” che la pretesa fiscale, se non è fondata sulla violazione di un obbligo di dichiarazione (evasione), è comunque fondata perché il comportamento del contribuente è elusivo, o – vigente la disposizione di nuovo conio – abusivo. Se la “ragione giuridica” posta a fondamento dell’avviso impugnato non è la clausola antielusiva, il giudice non può quindi dotare l’avviso di accertamento di legittimità in forza di una ragione giuridica diversa (antielusiva), e respingere in base a tale diversa “ragione giuridica” il ricorso del contribuente (30) Successivamente nella giurisprudenza della Cassazione – prima della disposizione qui esaminata – si era registrata anche una ulteriore evoluzione sul punto, nella direzione ora sancita positivamente. In una non più recentissima sentenza il Giudice di Legittimità (31) ha affermato, infatti, il seguente principio: l’omessa indicazione alle parti, ad opera del giudice, di una questione di fatto, ovvero mista di fatto e diritto, rilevata d’ufficio, sulla quale si fondi la decisione, comporta la nullità della sentenza (c.d. “della terza via”, o “a sorpresa”) per violazione del diritto di difesa delle parti, private dell’esercizio del contraddittorio e delle connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione decisiva ai fini della deliberazione, allorché la parte che se ne dolga prospetti in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere qualora il contraddittorio sulla predetta questione fosse stato tempestivamente attivato. Anche a seguire la nozione ampia del principio jura novit curia, infatti, è ben vero che il giudice può liberamente scegliere, anche d’ufficio, come

(30) F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, 197, secondo il quale nell’utilizzo dei criteri identificativi della domanda, a cui il giudice deve attenersi (ex art. 112 c.p.c.) anche nei processi d’impugnazione, come il processo amministrativo e tributario, sono compresi il presupposto d’imposta e la norma impositiva, indicati nella motivazione dell’atto impugnato. Il giudice tributario deve muoversi insomma entro questo perimetro, segnato dalla motivazione dell’atto impugnato e dai motivi del ricorso, come del resto ripetutamente affermato dalla Cassazione (ex multis, Cass., 20 ottobre 2011, n. 21719, in banca dati Fisconline,). (31) Corte Cass. n. 17949 del 19 ottobre 2012, in banca dati Fisconline.


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qualificare i fatti del giudizio, ossia individuare a quale istituto giuridico ritenerli corrispondenti e quali norme applicare, ma può farlo fermi restando i fatti oggetto del giudizio; neppure il giudicante può quindi modificare i fatti valutati nella loro materialità. Applicare l’una o l’altra disposizione di legge al fatto di causa è quindi consentito al giudicante; mutare il fatto qualificandolo diversamente non è invece consentito. Per il giudice tributario non vi è quindi alcuna latitudine che gli consenta di agire entro i confini della diversa qualificazione giuridica dei fatti allegati dall’Amministrazione, nel caso di un atto impositivo ove la condotta evasiva sia stata censurata con l’abuso del diritto. Costituisce infatti una vera e propria sostituzione dei fatti fondamento della pretesa il passaggio – ad esempio – da un’ipotesi di abuso del diritto, da un lato, a una di inesistenza o fittizietà di operazioni imprenditoriali, e viceversa. Non solo. La tesi secondo cui il giudice può rilevare e applicare d’ufficio la clausola generale antielusiva non appare per nulla coerente con i principi che governano il processo tributario e, ancor prima, con l’obbligo della motivazione degli atti impositivi, che debbono precisamente indicare, secondo le norme che li regolano, i presupposti di fatto e le considerazioni di diritto posti a fondamento della pretesa (32). Ritenere legittimo l’atto impugnato in forza del rilievo officioso dell’abusività dell’operazione è quindi come sostituire – con un colpo di mano – una motivazione illegittima con una motivazione solida, senza consentirne la contestazione da parte del contribuente e la valutazione della fondatezza della contestazione stessa da parte del giudice.

(32) Così M. Cantillo, Profili processuali del divieto di abuso del diritto: brevi note sulla rilevabilità d’ufficio, in Rass. trib., 2009, 475, che aggiunge: “l’oggetto del giudizio è delimitato, anche con riguardo ai poteri cognitivi e decisionali del giudice, appunto dalle allegazioni addotte nell’atto impositivo dell’Amministrazione e dai motivi del ricorso del contribuente, non essendo consentito alle parti introdurre fatti ed elementi diversi da quelli enunciati (come sanciscono gli artt. 7 e 24 del d.lgs. n. 546/ 1992). Inoltre, il negozio ritenuto elusivo non è nullo ma inopponibile all’amministrazione; non si discute, in pratica, di un contratto ex se invalido, bensì della sua inefficacia nei confronti dell’Amministrazione, in quanto qualificabile come abuso; e ciò significa che l’illiceità del comportamento deve essere espressamente dedotta con l’atto impositivo a fondamento della pretesa tributaria. Non è dunque applicabile l’art. 1421 cod. civ,”


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4. Le prospettive dell’art. 10-bis dello Statuto. – La norma sull’abuso del diritto dovrà essere interpretata alla luce della Carta costituzionale. Come di recente autorevolmente osservato (33), “pur essendosi fatti passi avanti sul piano interpretativo, non si sono … risolti del tutto – ne´ si potevano risolvere – i problemi definitori di un istituto che, per sua natura, richiede pur sempre una verifica della compatibilità della nuova normativa con la clausola generale antiabuso di derivazione costituzionale” (34). Nella sua relazione con l’art. 53 Cost., la disposizione dell’art. 10 bis dello Statuto del Contribuente chiarisce come i criteri di decisione vengono orientati risalendo, sopra questi, alla disposizione costituzionale che li definisce: si progredisce quindi verso l’alto dalla regola giuridica al principio dell’ordinamento, dal diritto al valore che lo fonda (35). In sostanza, quindi, il giudice – e prima di questi l’Amministrazione finanziaria – dovranno interpretare l’art. 10-bis alla luce degli artt. 53 e 23 Cost., nell’intento di trovare, in una prospettiva di certezza del diritto, il giusto equilibrio tra lotta all’elusione e rispetto delle legittime scelte negoziali del contribuente. La codificazione dell’abuso del diritto in ambito tributario rappresenta, in un certo senso, una forma di quasi-transplant (36) di una nozione nata in ambito civilistico, la cui trasposizione nel nostro settore ha richiesto non piccoli adattamenti: basti pensare che nel settore tributario, la parte “abusante” non è quella preponderante quanto a potere, ma quella in posizione di soggezione rispetto alla più forte. Sostiene autorevole dottrina che esiste una tendenza, nell’ordinamento, a “risolvere specifiche problematiche tributarie con gli strumenti del

(33) Di recente si vedano F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, 1315 ss. (34) P. Russo, Profili storici e sistematici in tema di elusione ed abuso del diritto in materia tributaria: spunti critici e ricostruttivi, retro, 2016, vol, 3 ss., il quale ritiene che il lungo percorso che ha condotto all’introduzione dell’art. 10-bis non sia approdato a risultati soddisfacenti né tantomeno a punti fermi, come invece richiederebbe quel bene della certezza giuridica che è una delle maggiori aspirazioni alla quale tendere nel campo del diritto. (35) Per considerazioni critiche su questo percorso, si legga N. Irti, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016. (36) Si consenta, per gli approfondimenti comparatistici anche relativi al concetto di transplant e alla sua applicazione nel diritto tributario, il rimando al mio Comparazione delle procedure di soluzione dei conflitti in materia tributaria nei sistemi italiano e statunitense, Milano, 2012.


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diritto dei privati”, ma “non si vede quale sia in questo contesto il diritto di credito da tutelare, posto che non si discute dell’adempimento di un’obbligazione già sorta, quanto al più di una aspettativa ordinamentale, la cui esistenza è però tutta da dimostrare: l’aspettativa, cioè, che dato un certo obiettivo economico, questo debba essere necessariamente raggiunto dai privati usando schemi aventi una «intensità» fiscale equipollente a quella concepita per la fattispecie giuridica assunta, assiologicamente, quale «pietra di paragone»” (37). La sentenza in esame, sotto questo profilo, dimostra fermezza e giusta autonomia di valutazione e giudizio, oltre che buona tecnica argomentativa, nel riconoscere come tutelate espressamente dall’ordinamento, anche dopo l’introduzione nel sistema della disciplina dell’abuso del diritto, le libere scelte del contribuente comportanti la legittima applicazione di differenti regimi tributari (38). Questo risulta a mio avviso il principale apporto al dibattito fornito dalla pronuncia esaminata. La stessa, invero, avrebbe forse potuto ulteriormente diffondersi sulla disamina delle valide ragioni economiche, oggetto dell’onere probatorio da parte del contribuente; si tratta come noto di un profilo peraltro ampiamente trattato dalla giurisprudenza formatasi nel vigore dell’art. 37 bis D.p.r. n. 600 del 1973, poiché le stesse hanno sin da allora sempre costituito il punto fondamentale delle difese delle imprese colpite da questo genere di rilievo. Libertà di scelta dei regimi fiscali da parte del contribuente e valide ragioni economiche risultano profili centrali nel dibattito, poiché la disposizione dell’art. 10 bis dello Statuto ha grandemente contribuito proprio a una migliore definizione del difetto di sostanza economica e dei vantaggi fiscali “abusivi” che possono in concreto essere non voluti, non previsti dall’ordinamento o comunque del tutto inaspettati per il sistema tributario. Certamente, questa pronuncia conferma, anche se non direttamente stante l’inapplicabilità della stessa ai tributi doganali, la centralità che nel sistema assume l’intervenuta procedimentalizzazione dell’abuso del dirit-

(37) Così D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche: anatomia di un equivoco, in Dir. E prat. Tributaria, n. 5, 2015, 696. (38) La pronuncia in esame si colloca sotto questo profilo, sia pur senza espressamente richiamarle, nel solco delle decisioni conformi ben note: Cass., Sez. V, 29.9.2006, n. 21221; Cass., Sez. V, 4.4.2008, n. 8772; Cass., Sez. V, 21.4.2008, n. 10257 e Cass., Sez. V, 21.1.2011, n. 1372, le si veda tutte in Banca dati Fisconline.


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to, al quale l’Erario può far ricorso come strumento di contrasto ai fenomeni di alterazione dell’equo riparto dei carichi tributari solo osservando la procedura dettagliata nella seconda parte dell’art 10 bis. La dottrina precisa come la richiesta di chiarimenti del Fisco abbia carattere doveroso e sia diretta a creare, specularmente, una situazione soggettiva, “un “diritto”, al punto che il mancato o illegittimo adempimento dell’obbligo incide sulla validità della funzione (“nullità”), a tutela dell’inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall’art. 24 Cost., ma anche del buon andamento dell’amministrazione, presidiato dall’art. 97 Cost.” (39). A ciò potrebbe però aggiungersi che solo nella fase dialogica ivi disciplinata, nel contraddittorio tra Fisco e contribuente, sarà in concreto possibile, secondo una valutazione che necessariamente dovrà variare caso per caso, ottenere gli elementi che potranno chiarire o contribuire a chiarire la natura abusiva o non abusiva dell’operazione. Mi pare che di ciò il Legislatore si sia ben avveduto, ritenendo talmente essenziale questa fase procedimentale da tutelarne il corretto funzionamento con la previsione della nullità dell’avviso di accertamento emanato senza la sua scrupolosa osservanza, in ogni fase e dettaglio. Di fronte alla varietà delle fattispecie proponibili dal contribuente, come di fronte alla vastità dei possibili rilievi del Fisco, vero elemento di oggettiva valutazione delle une come degli altri appare quindi il rigoroso rispetto del confronto pre-processuale, le cui risultanze potranno chiarire la natura abusiva o meno dell’operazione in argomento. In quest’ottica, resta da chiarire se l’esclusione degli accertamenti antielusivi in materia di tributi doganali – prevista dal legislatore del 2015 – sia dovuta al richiamo al diritto dell’Unione (e quindi alle garanzie previste in forza delle disposizioni e della giurisprudenza eurounitaria), ritenuto di per sé sufficiente per le finalità di cui sopra, o invece sia frutto di altre considerazioni che invero nel sistema dell’abuso del diritto non è semplice rinvenire. Non è detto infatti, come dimostra la sentenza qui commentata, che non si pongano questioni di abuso del diritto nell’applicazione di tali tributi, da un lato, e neppure può ritenersi sbrigativamente che il contribuente

(39) Così C. Glendi - C. Consolo - A. Contrino, Abuso del diritto e novità sul processo tributario, IPSOA, 2015, 50.


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

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non abbia diritto, se oggetto di contestazioni di tal natura, di collaborare con il Fisco nella fase procedimentale, prima di opporsi in sede giudiziale. Sotto questo ulteriore profilo, potrebbero porsi anche questioni di natura costituzionale, risultando invero difficile trovare differenze tali, tra le due situazioni poste a confronto (quella relativa all’abuso nell’applicazione delle disposizioni in tema di tributi diretti e indiretti, da un lato e quella relativa all’abuso nell’applicazione delle disposizioni in tema di diritti di confine, dall’altro) da giustificare una diversa dosimetria delle garanzie procedimentali accordate al contribuente ante emanazione dell’avviso di accertamento.

Roberto Succio



Rubrica di diritto tributario internazionale comparato a cura di Piera Filippi

Spunti ricostruttivi della nozione di beneficiario effettivo ai fini delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni concluse dall’Italia Sommario: 1. Introduzione. – 2. La sentenza 27113/16 della Suprema Corte di Cassazione. – 3. L’interpretazione dell’espressione “beneficiario effettivo”. – 3.1. In generale. – 3.2. Il rinvio formale al diritto interno. – 3.3. L’analisi contestuale. – 3.3.1. In generale. – 3.3.2. Elementi contestuali rilevanti ai fini dell’interpretazione dell’espressione “beneficiario effettivo”. – 3.3.2.1. Le finalità perseguite dalle convenzioni per evitare le doppie imposizioni ed il contrasto a fenomeni elusivi o evasivi. – 3.3.2.2. La nozione di “beneficiario effettivo” elucidata nel Commentario al Modello OCSE e nei rapporti elaborati dall’OCSE in materia. – 3.3.2.3. Le rilevanti norme di diritto internazionale. – 3.3.2.4. La giurisprudenza di Stati esteri. – 3.4. Conclusioni. – 4. Valutazione della sentenza 27113/16 alla luce della precedente analisi ricostruttiva. La sentenza 27113/16 della Suprema Corte di Cassazione si inserisce nel solco della giurisprudenza di legittimità e, soprattutto, di merito che negli ultimi anni ha affrontato il tema dell’interpretazione dell’espressione “beneficiario effettivo” ai fini dell’applicazione delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni concluse dall’Italia. Essa offre, dunque, lo spunto per una riflessione ricostruttiva della nozione di beneficiario effettivo ai fini convenzionali. Ad avviso dell’autore, detta nozione deve essere costruita prendendo le mosse dalla definizione di beneficiario effettivo recata dall’articolo 26-quater, comma 4, lett. c), numero 1), del D.P.R. n. 600 del 1973, e dal concetto di effettivo possessore di cui all’articolo 37, comma 3 del D.P.R. n. 600 del 1973, come interpretato dalla recente giurisprudenza di legittimità. La nozione così ricavata dovrebbe essere ulteriormente precisata alla luce dei chiarimenti contenuti nel Commentario al Modello di Convenzione OCSE. Decision n. 27113/2016 of the Italian Supreme Court deals with the concept of beneficial owner, which is relevant for the purpose of the application of the Italian tax treaties. In this respect, that is one of the several decisions issued by Italian courts on the matter in the last few years. It provides the author with a starting point to discuss how the term beneficial owner, used in the Italian tax treaties, should be construed. It is the author’s opinion that such a term should be interpreted starting from the meaning that it has under Italian domestic law and further elucidated in the light of the Commentary to the OECD Model Tax Convention.


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Parte quinta

1. Introduzione. – La sentenza 27113/16 della Suprema Corte di Cassazione si inserisce, con rimarchevoli risultati, nel solco della giurisprudenza di legittimità e, soprattutto, di merito che negli ultimi anni ha affrontato il tema dell’interpretazione dell’espressione “beneficiario effettivo” ai fini dell’applicazione delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni concluse dall’Italia, le quali, riproducendo in larga parte il Modello OCSE di Convenzione per eliminare le doppie imposizioni sul reddito e sul patrimonio (di seguito “Modello OCSE”), impiegano tale espressione negli articoli 10 (dividendi), 11 (interessi) e 12 (canoni). Essa offre, dunque, lo spunto per una riflessione ricostruttiva della nozione di beneficiario effettivo ai fini convenzionali. Il presente contributo elabora detta riflessione muovendo da una sintesi dei principali argomenti ed approdi interpretativi della citata sentenza (paragrafo 2), per poi procedere con un’autonoma ricostruzione della nozione di beneficiario effettivo in base agli ordinari canoni ermeneutici applicabili – sul piano giuridico internazionale – alle disposizioni contenute nelle convenzioni bilaterali per eliminare le doppie imposizioni (paragrafo 3). L’approdo di detta riflessione ricostruttiva è utilizzato quale parametro per sistematizzare e valutare l’arresto giurisprudenziale della Suprema Corte (paragrafo 4). 2. La sentenza 27113/16 della Suprema Corte di Cassazione. – La sentenza concerne, essenzialmente, l’interpretazione dell’espressione “beneficiario effettivo” (1) impiegata nell’articolo 10 della Convenzione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica francese per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per prevenire l’evasione e la frode fiscali (di seguito “Convenzione”) (2). In particolare, come noto, il comma 4 b) di detto articolo sanciva l’obbligo per l’Italia di corrispondere alle società residenti in Francia che ricevessero

(1) Nell’articolo 10 della Convenzione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica francese per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per prevenire l’evasione e la frode fiscali sono alternativamente utilizzate le espressioni “beneficiario effettivo”, “effettivo beneficiario” ed il termine “beneficiario”, senza che traspaia alcun intento di attribuire a siffatte diverse espressioni una pluralità di significati difformi. (2) Convenzione conclusa a Venezia, il 5 ottobre 1989, in lingua italiana e francese, entrambi i testi facenti egualmente fede. La convenzione è stata ratificata e resa esecutiva in Italia con la Legge n. 20 del 7 gennaio 1992.


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dividendi distribuiti da società residenti in Italia un ammontare pari alla metà del credito d’imposta cui avrebbe avuto diritto una società residente in Italia che avesse percepito i medesimi dividendi, diminuito della ritenuta alla fonte del 5% prevista al comma 2. La corresponsione di tale ammontare era tuttavia subordinata al verificarsi di taluni requisiti: (i). che la società percipiente fosse il “beneficiario effettivo” dei dividendi (3); (ii). che detta società avesse detenuto direttamente o indirettamente, nel corso di un periodo di almeno 12 mesi precedenti la data della delibera di distribuzione dei dividendi, almeno il 10 per cento del capitale della società distributrice (4); (iii). qualora più della metà del capitale di detta società fosse posseduta da una o più persone non residenti nel suo Stato di residenza, che la società producesse all’autorità competente italiana, ove richiesto, elementi che permettessero di ritenere che la stessa avesse acquisito la partecipazione generatrice dei dividendi per ragioni commerciali di buona fede o nell’ambito dell’ordinaria attività di fare o gestire investimenti e non allo scopo principale di beneficiare del “credito d’imposta” (5). In merito, con il primo motivo di ricorso il contribuente deduceva la violazione e falsa applicazione, ex articolo 360, c. 1, n. 3 c.p.c., dell’articolo 10 della Convenzione, con particolare riferimento al predetto requisito (i), avendo la commissione tributaria regionale errato, ad avviso del ricorrente, ad interpretare l’espressione “beneficiario effettivo”. Con il secondo motivo di ricorso, il contribuente ha poi declinato sul versante della motivazione e della prova del fatto giuridico la medesima questione, deducendo ex articolo 360, c. 1, n. 5 c.p.c. l’inconferenza degli elementi probatori indicati dalla commissione tributaria regionale per escludere la qualifica di “beneficiario effettivo” in capo al ricorrente. Con riferimento a detti motivi di ricorso, la Cassazione ha elaborato alcuni spunti argomentativi degni di nota. In primo luogo, essa ha rilevato come la clausola del beneficiario effettivo costituisca un principio di ordine generale delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni, in virtù del quale i benefici convenzionali

(3) (4) (5)

Articolo 10, c. 2-a) della Convenzione. Ibidem. Articolo 10, c. 8 della Convenzione.


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spetterebbero soltanto alla società che “disponga, non solo giuridicamente ma anche economicamente, dei dividendi percepiti; risultandone la destinataria reale”. La clausola in parola sarebbe preordinata ad impedire che “a giovarsi del regime bilaterale contro le doppie imposizioni sia una società madre priva di sostanza economica, e strumentalmente costituita nello Stato contraente al solo fine di usufruire dei vantaggi convenzionali su dividendi che potrebbero dirsi “propri” della [percipiente] solo sul piano formale, non anche sostanziale; in quanto destinati ad altra [società] collocata in un Paese il cui ordinamento non preveda pari vantaggi fiscali”. La Suprema Corte riconduce dunque la clausola del beneficiario effettivo alla funzione di norma entielusiva speciale, finalizzata a contrastare lo specifico fenomeno dell’abuso delle convenzioni per il tramite di società passanti (c.d. conduit). In secondo luogo, la Corte ha qualificato tale clausola come una codificazione di un principio immanente nelle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni, ricavabile in via interpretativa applicando i principi ermeneutici (di natura consuetudinaria) di cui all’articolo 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, a mente del quale ogni trattato “deve essere interpretato secondo buona fede ed alla luce del suo oggetto e del suo scopo”. Per effetto di detta qualificazione, la previsione testuale della clausola del beneficiario effettivo sarebbe irrilevante, di guisa che, anche in sua assenza, non si dovrebbe comunque “riconoscere il regime di favore alla società […] che - non essendo il beneficiario effettivo dei dividendi che danno luogo al credito d’imposta abbia abusato del trattato mediante un’allocazione territoriale strumentale, stravolgendone appunto l’oggetto e lo scopo pratico (c.d. “treaty abuse”)”. In terzo luogo, la Suprema Corte ha espressamente richiamato il Commentario all’articolo 10 del Modello OCSE quale guida interpretativa rilevante (6). In quarto luogo, i giudici di legittimità hanno affermato la conformità della clausola in commento ai principi generali antielusivi dell’ordinamento interno (7), della fiscalità internazionale e dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea (8). Ad avviso della Corte, infatti, la clausola del beneficiario

(6) In quanto relativa alla nozione di “beneficiai owner” di cui l’articolo 10 del Modello OCSE, ritenuta dalla Corte “conforme” alla clausola recata dalla Convenzione. (7) Il richiamo – esplicito – è all’articolo 10 bis della Legge n. 212/2000. (8) La Corte ha espressamente richiamato, in merito, le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea (di seguito “CGUE”) pronunciate nelle cause Halifax e Cadbury Schweppes (CGUE, 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax; CGUE, 12 settembre 2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes).


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effettivo “si pone nell’ambito di un contesto normativo certamente complesso […] ma sostanzialmente armonico; nel cui ambito non si pongono frizioni applicative tra le norme antielusive, generali e speciali, di varia matrice”. Sulla scorta della suddetta analisi, la Corte ha poi elaborato una definizione in positivo di “beneficiario effettivo”, secondo la quale deve attribuirsi tale qualifica al “soggetto al quale sia attribuito l’uso ed il godimento dei dividendi oggetto di tassazione, in relazione ai quali esso si ponga come destinatario finale (“owner”, dominus), e non come semplice intermediario, agente o fiduciario”. Il corollario che ne discende, sotto il profilo probatorio, è l’obbligo per il giudice di valutare la sussistenza in concreto dell’unico elemento normativamente rilevante ai fini della nozione di “beneficiario effettivo”, costituito dalla “padronanza ed autonomia della [società] percipiente sia nell’adozione delle decisioni di governo ed indirizzo delle partecipazioni detenute, sia nel trattenimento ed impiego dei dividendi percepiti (in alternativa alla loro traslazione alla capogruppo sita in un Paese terzo)”. Tale ricostruzione della nozione di “beneficiario effettivo” è sostanzialmente conforme a quella elaborata dalla stessa Suprema Corte nella (di poco) precedente sentenza 2016/10792, (9) avente ad oggetto l’applicazione dell’articolo 10, comma 4 della Convenzione tra l’Italia ed il Regno Unito (10). Ivi, i giudici di legittimità hanno, infatti, affermato che la condizione posta dalla Convenzione “per l’applicazione di tale disposizione, rappresentata dall’essere, la società estera che riceve i dividendi, beneficiaria effettiva degli stessi” consiste nella circostanza che “il contribuente, che ne beneficerà, sia un soggetto, non solo, sottoposto alla effettiva giurisdizione dell’altro Stato contraente (requisito della residenza), ma anche il soggetto che avrà la disponibilità economica e giuridica del provento formalmente percepito, versandosi, altrimenti, nell’ipotesi di una ‘traslazione impropria dei benefici convenzionali’”. Similarmente a quanto fatto nell’arresto qui annotato, anche in detta sentenza la Cassazione ha poi evidenziato che la “clausola del beneficiario effettivo si può quindi qualificare come una clausola generale dell’ordinamento fiscale internazionale, volta ad impedire che i soggetti possano abusare dei trattati fiscali attraverso pratiche di treaty shopping con lo scopo di far godere del-

(9) Corte di Cassazione, 25 maggio 2016, causa 10792/2016 (Eco-bat), annotata in P. Pistone, Italy: The Concept of Beneficial Ownership in Tax Treaties and its General AntiAvoidance Function, in fase di pubblicazione. (10) Convenzione conclusa il 21 ottobre 1988 e ratificata con Legge 5 novembre 1990, n. 329.


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la protezione convenzionale contribuenti che, altrimenti, non ne avrebbero avuto diritto o che avrebbero subito un trattamento fiscale, comunque, meno favorevole”. La Corte ha dunque, anche in tal caso, rigettato una ricostruzione puramente formalistica della nozione di beneficiario effettivo – alla quale avrebbe, viceversa, aderito la Commissione Tributaria Regionale – sostanzialmente coincidente “con quella di soggetto percettore dei dividendi e a tal titolo soggetto all’imposta nel paese estero”. In modo corrispondente, nel trattare il secondo motivo del ricorso, la Corte ha fermamente rigettato la rilevanza, ai fini dell’attribuzione della qualifica di beneficiario effettivo, degli elementi fattuali valorizzati dal giudice di merito, ossia: (i). la struttura di controllo societario “a cascata” del gruppo, anche ove la capogruppo sia residente di uno Stato che non abbia concluso con l’Italia una convenzione per evitare le doppie imposizioni recante benefici analoghi a quelli previsti dalla Convenzione; (ii). il fatto che il patrimonio della società percipiente i dividendi sia prevalentemente investito in partecipazioni azionarie e che nello stato patrimoniale risultino modesti crediti operativi; (iii). la mancanza di dipendenti e, più in generale, di una struttura organizzativa significativa in capo alla società percipiente; (iv). l’assenza di significativi investimenti in Europa, da parte della società percipiente, nell’anno in cui sono stati corrisposti i dividendi; (v). l’assenza di fatturazione per servizi gestionali prestati dalla società percipiente alla società distributrice. In particolare, ad avviso della Suprema Corte, è indubbio “che una società madre percipiente non [possa] non ritenersi “beneficiaria effettiva” dei dividendi solo perché priva, in quanto di pura partecipazione, delle caratteristiche tipiche (quelle individuate dal giudice di merito) di una società operativa”, non essendo essenziali, ai fini dell’integrazione dei requisiti per qualificarsi come beneficiario effettivo dei dividendi, gli “indici di esternazione ed organizzazione operativa richiesti dal giudice di merito con riguardo ad un compito istituzionale di mero indirizzo e direzione unitaria, partecipazione alle assemblee della controllate, riscossione dei dividendi”. Particolarmente apprezzabile è poi il chiarimento in merito al fatto che la circostanza che la società percipiente “sia a sua volta totalitariamente controllata da altra società non residente in uno Stato stipulante (c.d. controllo “a cascata”), non [comprova] pertanto, di per sé, l’artificiosità ovvero la strumentalità della medesima e, con ciò, l’insussistenza del [beneficio convenzionale]”. Ne consegue che l’esclusione del credito d’imposta sulla base


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del solo rapporto di controllo intercorrente tra la capogruppo residente in uno Stato terzo (11) e la società percipiente (12) è, dunque, illegittima, “posto che – quantomeno in astratto, e fatto salvo il potere/dovere del giudice di merito di verificarlo in concreto – la relazione di controllo tra capogruppo ed holding, o subholding, avente ad oggetto la pura detenzione di partecipazioni geografiche non esclude di per sé che quest’ultima sia dotata di autonomia organizzativa e gestionale; e ciò anche per quanto concerne il punto qualificante costituito dalla allocazione dei dividendi provenienti dalle società figlie”. Parimenti irrilevante è il fatto che la ricchezza rinveniente dalle società operative confluisca e sia in definitiva imputabile alla capogruppo. La clausola del “beneficiario effettivo”, infatti, resta ancorata, per ragioni letterali, sistematiche e teleologiche, ad una nozione tecnica di dividendi, di guisa che “alla società [percipiente] non potrebbe negarsi la qualità di beneficiaria effettiva dei “dividendi” per la sola circostanza che della produzione di tali dividendi possa giovarsi la capogruppo [residente in uno Stato terzo]; almeno fino a quando non si dimostri che tale giovamento è consistito nel diretto trasferimento a quest’ultima dei dividendi imponibili, non già di una generica e non meglio valutabile “ricchezza” o redditività di gruppo”. Infine, in sede di analisi del terzo e quarto motivo di ricorso, la Suprema Corte ha affrontato il tema della localizzazione della sede di direzione effettiva della società francese, sulla base dell’erroneo presupposto che l’accesso ai benefici convenzionali fosse subordinato alla dimostrazione che la società percipiente, oltre ad essere la beneficiaria effettiva dei dividendi, debba anche avere la propria sede della direzione effettiva in Francia. Tale requisito, tuttavia, non è specificamente richiesto - ai fini di cui sopra - dalla Convenzione, la quale si limita a prevedere che il beneficiario effettivo debba essere fiscalmente residente in Francia. Peraltro, l’erroneità di tale presupposto, fatto proprio dall’Agenzia, era stata correttamente rilevata dalla Cassazione nella precedente sentenza 2016/10792 con riferimento all’applicazione dell’analoga, per quanto qui rileva, Convenzione conclusa tra l’Italia ed il Regno Unito. In detto arresto, i giudici avevano, infatti, riscontrato come la tesi secondo cui il requisito della “residenza della società estera […] dovrebbe identificarsi in quello della direzione effettiva […] non trova fondamento nella convenzione

(11) Nel caso di specie gli Stati Uniti. (12) Che, nella fattispecie oggetto di giudizio, svolgeva la funzione di sub-holding preposta alla direzione e coordinamento delle sussidiarie del gruppo nell’Europa meridionale.


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medesima”. Ad avviso della Corte, infatti, “l’esigenza di considerare la direzione effettiva dell’impresa viene in rilievo [ex articolo 4, comma 3 della Convenzione] solo nel caso in cui la società abbia sede in entrambi gli stati contraenti”. Con riferimento all’argomento, elaborato dal giudice d’appello, che, in assenza di riscontri indiziari di una sua normale operatività, la collocazione della società madre in Francia risulti di per sé significativa di artificiosità sotto il profilo della mancanza in tale Stato di una sede di direzione effettiva, la Corte rileva anzitutto che le valide ragioni economiche (extrafiscali) di un’operazione, che ne escludano l’intento elusivo, possono consistere nel mero conseguimento di vantaggi non direttamente economici e reddituali, ma strutturali e di miglior organizzazione aziendale. Ad avviso dei giudici di legittimità, tale principio può attagliarsi anche alla collocazione territoriale di società holding all’interno di un vasto gruppo multinazionale con interessi in aree geograficamente lontane e diverse dallo Stato di residenza della capogruppo. In secondo luogo, la Cassazione valorizza l’evoluzione storica della struttura del gruppo, rilevando come la società italiana fosse controllata da una società francese del gruppo sin dal 1946, ossia molti anni prima della conclusione ed entrata in vigore della Convenzione. In terzo luogo, i giudici pongono l’accento sulla necessità di attribuire il giusto rilievo, sotto il profilo probatorio, ad elementi indiziari quali (i) l’incontestata presenza della sede legale ed amministrativa del contribuente in Francia; (ii) il suo assoggettamento ivi ad imposizione; (iii) la residenza in Francia dei suoi amministratori; (iv) il fatto che le fondamentali decisioni concernenti l’amministrazione della società siano adottate in Francia. Parimenti essi, evidenziano come, con riferimento all’identificazione del luogo della sede di direzione effettiva, la valutazione da parte del giudice di elementi indiziari di segno contrario debba riguardare esclusivamente fatti che attengano alla nozione di sede di direzione effettiva desumibile dal Modello OCSE, ossia al luogo di adozione della volontà decisionale di gestione e controllo. Viceversa, è inconferente – e dunque irrilevante – il riferimento a, e la valorizzazione di, elementi indiziari che si limitino a provare l’assenza di operatività in capo alla società francese, stante la sua natura di società holding. 3. L’interpretazione dell’espressione “beneficiario effettivo”. 3.1. In generale. – L’espressione “beneficiario effettivo” non è generalmente definita nelle convenzioni per evitare le doppie imposizioni conclu-


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se dall’Italia (13). Essa deve essere, pertanto, interpretata in base ai principi ermeneutici codificati dagli articoli 31, 32 e 33 della Convenzione di Vienna (14) sul diritto dei trattati (15). Inoltre, alla stessa si applica l’articolo 3, comma 2 delle convenzioni italiane conformi al Modello OCSE (16), il quale prevede che, ai fini dell’ap-

(13) L’unica eccezione è rappresentata dalla convenzione conclusa con la Germania il 18 ottobre 1989, il cui protocollo, al paragrafo 9, dispone che, con riferimento agli articoli 10, 11 e 12 della convenzione, la “persona che percepisce dividendi, interessi e canoni è considerata beneficiario effettivo […] se ad essa spetta il diritto al quale tali pagamenti si ricollegano e se i redditi che ne ritrae devono essere ad essa attribuiti in virtù della legislazione fiscale dei due Stati”. (14) Gli articoli 31 e 32 della Convenzione di Vienna, rilevanti ai fini del presente contributo, dispongono: Article 31 - General rule of interpretation 1. A treaty shall be interpreted in good faith in accordance with the ordinary meaning to be given to the terms of the treaty in their context and in the light of its object and purpose. 2. The context for the purpose of the interpretation of a treaty shall comprise, in addition to the text, including its preamble and annexes: (a) any agreement relating to the treaty which was made between all the parties in connection with the conclusion of the treaty; (b) any instrument which was made by one or more parties in connection with the conclusion of the treaty and accepted by the other parties as an instrument related to the treaty. 3. There shall be taken into account, together with the context: (a) any subsequent agreement between the parties regarding the interpretation of the treaty or the application of its provisions; (b) any subsequent practice in the application of the treaty which establishes the agreement of the parties regarding its interpretation; (c) any relevant rules of international law applicable in the relations between the parties. 4. A special meaning shall be given to a term if it is established that the parties so intended. Article 32 - Supplementary means of interpretation Recourse may be had to supplementary means of interpretation, including the preparatory work of the treaty and the circumstances of its conclusion, in order to confirm the meaning resulting from the application of article 31, or to determine the meaning when the interpretation according to article 31: (a) leaves the meaning ambiguous or obscure; or (b) leads to a result which is manifestly absurd or unreasonable. (15) Sulla rilevanza e la portata dei canoni ermeneutici codificati dalla Convenzione di Vienna ai fini dell’interpretazione delle convenzioni per eliminare le doppie imposizioni concluse dall’Italia, si rinvia a P. Arginelli, Riflessioni sull’interpretazione delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni conformi al Modello OCSE, in Rivista di diritto tributario, 2016, parte V, 151 ss. (16) Sull’articolo 3, comma 2 del Modello di Convenzione OCSE si vedano, ex multis, K. Vogel, La clause de renvoi de l’article 3, par. 2, Modèle de Convention de l’OCDE, in Aa.Vv., Réflexion offertes à Paul Sibille, Etudes de fiscalité, 1981, 957 ss.; J.F. Avery Jones et al., The Interpretation of Tax Treaties with Particular Reference to Article 3(2) of the OECD


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plicazione della convenzione da parte di uno Stato contraente, i termini e le espressioni non ivi definiti hanno il significato che ad essi è attribuito dalla legislazione di detto Stato relativamente alle imposte cui la convenzione si applica, a meno che il contesto non richieda una diversa interpretazione. L’articolo 3, comma 2 del Modello OCSE e il suo Commentario (17) risolvano

Model, in British Tax Review, 1984, 18 ss. e 90 ss.; Aa.Vv., Interpretation of tax treaties. Transcript of the panel discussion of Seminar B at the IFA Congress in London held on 11 September 1985, in Bulletin for international taxation, 1986, 75 ss.; H. Shannon, US Income Tax Treaties: Reference to Domestic Law for the Meaning of Undefined Terms, in Intertax, 1989, 453 ss.; K. van Raad, 1992 additions to Articles 3(2) (interpretation) and 24 (Non-discrimination) of the 1992 OECD Model and Commentary, in Intertax, 1992, 672 ss.; J.F. Avery Jones, Article 3(2) of the OECD Model Convention and the Commentary to It: Treaty Interpretation, in European Taxation, 1993, 252 ss.; K. Vogel - R.G. Prokisch, General Report, in Interpretation of double taxation convention. Cahiers de Droit Fiscal International, 1993, LXXVIIIa, 76 ss.; M. Edwardes-Ker, Tax Treaty Interpretation, Dublino, 1995, Capitolo 10; K. van Raad, Interpretation and Application of Tax Treaties by Tax Courts, in European Taxation, 1996, 3 ss.; K. Vogel, On Double Taxation Conventions, L’Aja, 1997, Art. 3, nn.m. 57 ss.; E. van der Bruggen, Unless the Vienna Convention Otherwise Requires: Notes on the Relationship between Article 3(2) of the OECD Model Tax Convention and Articles 31 and 32 of the Vienna Convention on the Law of Treaties, in European Taxation, 2003, 142 ss.; N. Shelton, Interpretation and application of tax treaties, Londra, 2004, 195 ss.; F.A. Engelen, Interpretation of Tax Treaties under International law, Amsterdam, 2004, 473 ss.; J.A. Becerra, Interpretation and Application of Tax Treaties in North America, Amsterdam, 2007, 69 ss.; P. Baker, Double Taxation Conventions, Londra (fogli mobili), Introductory Topics, nn.m. E.19 ss.; G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2004, 659 ss.; G. Melis, L’interpretazione delle convenzioni internazionali in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio, in Rassegna Tributaria, 1996, 98 ss.; P. Arginelli, Multilingual Tax Treaties: Interpretation, Semantic Analysis and Legal Theory, Amsterdam, 2015, 526 ss.; P. Arginelli, Riflessioni sull’interpretazione delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni conformi al Modello OCSE, in Rivista di diritto tributario, 2016, parte V, 166 ss. (17) Nel 1995 il testo dell’articolo 3, comma 2 è stato modificato per indicare esplicitamente (anche in reazione alla contraria giurisprudenza canadese – cfr. Supreme Court of Canada, 28 settembre 1982, causa Melford Developments Inc. v. R, [1982] 2 SCR 504) che il rinvio all’ordinamento giuridico dello Stato che applica la convenzione è da intendersi come dinamico, ossia diretto al diritto vigente al momento di applicazione della convenzione. Il paragrafo 13.1 del Commentario all’articolo 3, in merito, specifica che la modifica al testo del Modello è stata introdotta “to conform more closely to the general and consistent understanding of [OECD] Member states”. In ogni caso, già nel 1992 (ossia prima che il testo del Modello fosse emendato) il Commentario era stato modificato per chiarire come l’articolo 3, comma 2 dovesse essere interpretato nel senso che il rinvio al diritto interno degli Stati contraenti doveva essere inteso come fatto al diritto vigente alla data di applicazione della convenzione (cfr. paragrafi 11 e 12 del Commentario all’articolo 3, come modificato nel 1992). Sulla preferibilità di intendere il rinvio come dinamico, si vedano J. F. Avery Jones et al., The interpretation of tax treaties with particular reference to article 3(2) of the OECD Model, in British Tax Review, 1984, 41 ss.; M. Edwardes-Ker, Tax Treaty Interpretation., Dublino, 1994 (fogli mobili), paragrafo 9.05;


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la questione se il rinvio debba essere inteso come diretto alla legge in vigore al momento della conclusione della convenzione, ovvero a quella in vigore al momento dell’applicazione della convenzione, in favore di quest’ultima soluzione. Inoltre, nell’ipotesi in cui esistano più significati attribuiti al rilevante termine o espressione convenzionale nell’ordinamento giuridico dello Stato che applica la convenzione, l’articolo 3, comma 2 del Modello OCSE e il relativo Commentario risolvono la potenziale antinomia in favore del significato ad esso attribuito dalle leggi fiscali relative alle imposte oggetto della convezione (18). Come sopra evidenziato, la rigidità del rinvio formale al diritto dello Stato che applica la convenzione è stemperato dalla possibilità, esplicitamente attribuita all’interprete, di optare per una diversa soluzione ermeneutica qualora il contesto lo richieda (19). Tale diversa soluzione potrebbe dunque comportare

G. Tixier - G. Gest - J. Kerogues, Droit Fiscal International, Parigi, 1979, 474; K. Vogel, Klaus Vogel on Double Taxation Conventions, L’Aja, 1997, 64, m.no. 124d. (18) Il paragrafo 13.1 del Commentario all’articolo 3 del Modello OCSE, nel commentare la modifica introdotta nel 1995 al testo dell’articolo 3, comma 2 del Modello, che ha incluso per la prima volta l’inciso secondo cui “any meaning under the applicable tax laws of that State prevailing over a meaning given to the term under other laws of that State”, chiarisce che il “Paragraph 2 was amended in 1995 to conform its text more closely to the general and consistent understanding of Member States. For purposes of paragraph 2, the meaning of any term not defined in the Convention may be ascertained by reference to the meaning it has for the purpose of any relevant provision of the domestic law of a Contracting State, whether or not a tax law. However, where a term is defined differently for the purposes of different laws of a Contracting State, the meaning given to that term for purposes of the laws imposing the taxes to which the Convention applies shall prevail over all others, including those given for the purposes of other tax laws.” Sul punto, cfr. anche F.A. Engelen, Interpretation of Tax Treaties under International law, Amsterdam, 2004, 485 ss.; J. Sasseville, Interpretation of Double Taxation Conventions in Canada: An Update, in Bulletin for international taxation, 1994, 375 ss. (19) Per un’analisi di quali elementi e strumenti interpretativi siano riconducibili nel “contesto” di cui all’art. 3, comma 2 si rinvia alla dottrina richiamata alla nota 14. Si evidenzia, tuttavia, in termini concisi, come la dottrina prevalente ritenga che il “contesto” di cui all’art. 3, comma 2 sia più ampio del “contesto” richiamato dall’articolo 31 della Convenzione di Vienna (cfr., in particolare, E. van der Bruggen, Unless the Vienna Convention Otherwise Requires: Notes on the Relationship between Article 3(2) of the OECD Model Tax Convention and Articles 31 and 32 of the Vienna Convention on the Law of Treaties, in European Taxation, 2003, 143 ss; K. Vogel, On Double Taxation Conventions, L’Aja, 1997, Art. 3, n.m. 72; K. Vogel - R.G. Prokisch, General Report, in Interpretation of double taxation convention. Cahiers de Droit Fiscal International, 1993, LXXVIIIa, 82; J.F. Avery Jones et al., The Interpretation of Tax Treaties with Particular Reference to Article 3(2) of the OECD Model, in British Tax Review, 1984, 104; G. Melis, L’interpretazione delle convenzioni internazionali in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio, in Rassegna Tributaria, 1996, 118 ss.; P. Arginelli, Riflessioni sull’interpreta-


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l’attribuzione di un significato uniforme, ed eventualmente autonomo, ovvero del significato attribuito al rilevante termine o espressione dal diritto dell’altro Stato contraente. 3.2. Il rinvio formale al diritto interno. – Escludendo la legge di ratifica della summenzionata convenzione per evitare le doppie imposizioni conclusa tra Italia e Germania, l’ordinamento tributario italiano, al quale rinvia l’articolo 3, comma 2 delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni concluse dall’Italia, contiene una (20) definizione dell’espressione “beneficiario effettivo”, introdotta in sede di recepimento della direttiva 2003/49/CE (Direttiva Interessi e Canoni) (21). In specie, ai sensi dell’articolo 26-quater, ccomma 4, lett. c), numero 1), del D.P.R. n. 600 del 1973, le società percipienti sono considerate beneficiarie effettive “se ricevono i pagamenti in qualità di beneficiario finale e non di intermediario, quale agente, delegato o fiduciario di un’altra persona” (22).

zione delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni conformi al Modello OCSE, in Rivista di diritto tributario, 2016, parte V, 174-175). Rientrerebbero, infatti, nel “contesto” di cui all’articolo 3, comma 2 del Modello OCSE, oltre agli elementi costitutivi del “contesto” ai sensi dell’articolo 31 CVDT (ossia il testo della convenzione, i documenti annessi alla convenzione, gli accordi intervenuti tra tutte le parti contraenti e qualsiasi strumento proveniente da uno Stato contraente e accettato da tutti gli altri Stati contraenti, che siano in qualche modo relativi alla convenzione ed alla sua conclusione), tutti gli altri strumenti precedenti e successivi alla conclusione della rilevante convenzione che siano idonei ad identificare la comune volontà degli Stati contraenti. In questa prospettiva, la dottrina maggioritaria fa rientrare nel “contesto” di cui all’articolo 3, comma 2 del Modello OCSE anche il Commentario al Modello e, a talune condizioni, i Reports pubblicati dall’OCSE su specifiche questioni interpretative. In maniera simile, la dottrina maggioritaria e lo stesso Commentario all’articolo 3 del Modello riconducono al “contesto” di cui all’articolo 3, comma 2 la legislazione dell’altro Stato contraente. Inoltre la giurisprudenza di diversi Stati sembra ricondurre nel concetto di “contesto” anche le sentenze emanate dagli organi giurisdizionali dell’altro Stato contraente (cfr. D. Ward, Use of Foreign Court Decisions in Interpreting Tax Treaties, in Courts and tax treaty law, a cura di G. Maisto, Amsterdam, 2007, 161 ss.). (20) Una seconda definizione era recata dall’articolo 1, comma 1, del d.lgs. 18 aprile 2005, n. 84 attuativo della direttiva 2003/48/CE (Direttiva Risparmio), il quale è stato tuttavia abrogato, a decorrere dall’1 gennaio 2016, dall’articolo 28, c. 1, della Legge n. 122 del 2016. (21) Sul punto, si rinvia all’ampio contributo di F. Avella, Il beneficiario effettivo nelle convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni: prime pronunce nella giurisprudenza di merito e nuovi spunti di discussione, in Rivista di diritto tributario, 2011, V, 3 ss. (22) Il citato articolo 26-quater reca anche una definizione di “beneficiario effettivo” applicabile alle stabili organizzazioni, la quale appare, invero, di minor significatività, ai fini della presente analisi, in quanto nelle convenzioni contro le doppie imposizioni la clausola del beneficiario effettivo rileva unicamente con riferimento alle persone residenti di uno, o en-


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Un’altra nozione teoricamente rilevante è quella di “effettivo possessore” di cui all’articolo 37, ccomma 3 del D.P.R. n. 600 del 1973, (23) il quale consente all’amministrazione finanziaria di imputare ad un contribuente “i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”. L’estensione della richiamata nozione di effettivo possessore a fattispecie di interposizione reale da parte della recente giurisprudenza della Suprema Corte (24), infatti, rende tale nozione maggiormente idonea a contrastare fenomeni di abuso delle convenzioni per il tramite di società conduit (25). Inoltre, non pare ostativo al rinvio convenzionale a tale nozione né il fatto che la stessa non sia definita nell’ordinamento interno, in quanto l’articolo 3, comma 2 delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni conformi al Modello OCSE parla di “significato” e non di “definizione” (26), né

trambi, gli Stati contraenti e non, viceversa, con riferimento alle stabili organizzazioni. Cfr., in senso analogo, F. Avella, Il beneficiario effettivo nelle convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni: prime pronunce nella giurisprudenza di merito e nuovi spunti di discussione, in Rivista di diritto tributario, 2011, V, 3 ss. (23) Sul tema della interposizione di persona ai fini tributari si veda, ex multis, F. Paparella, Possesso dei redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000; A. Lovisolo, Possesso di reddito ed interposizione di persona, in Diritto e Pratica Tributaria, 1993, 1675 ss.; M. Basilavecchia, L’interposizione soggettiva riguarda anche comportamenti elusivi?, Corriere Tributario n. 36/2009, 2968 ss.; F. Gallo, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, in Diritto e Pratica Tributaria, 1761 ss. (24) Si vedano, tra le altre, Cass., sentenza 15830 del 2016; Cass., sentenza 21952 del 2015; Cass., sentenza n. 21794 del 2014; Cass., sentenza 25671 del 2013. Sull’estensione dell’ambito oggettivo di applicazione dell’articolo 37, comma 3 del D.P.R. n. 600 del 1973 al fenomeno dell’interposizione reale dei persona, si vedano, in senso critico, F. Randazzo, Abuso del diritto, la donazione preordinata a evadere il regime fiscale delle plusvalenze - Interposizione fittizia ed elusione alla luce della nuova clausola generale antielusiva, in GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2016, 71 ss.; e, in senso conforme, A. Lovisolo, Il contrasto all’interposizione “gestoria” nelle operazioni effettive e reali, ma prive di valide ragioni economiche, in GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2011, 869 ss. (25) La sovrapponibilità tra clausola del beneficiario effettivo ed applicazione di norme generali antielusive al fine di contrastare fenomeni di abuso delle convenzioni per il tramite di società conduit è evidente anche nei recenti lavori dell’OCSE, sviluppati nell’ambito del progetto BEPS. Si veda, in particolare, il paragrafo 187 della Bozza di Commentario al nuovo articolo 29 del Modello OCSE (http://www.oecd.org/tax/treaties/draft-contents-2017-updateoecd-model-tax-convention.pdf), nonché il Rapporto Finale sull’azione 6 del Progetto BEPS di OCSE/G20 (OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, Preventing the Granting of Treaty Benefits in Inappropriate Circumstances, Action 6: 2015 Final Report, pp. 65 ss.). (26) Sul punto, si rinvia a P. Arginelli, Multilingual Tax Treaties: Interpretation, Semantic Analysis and Legal Theory, Amsterdam, 2015, 560 ss.


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il fatto che l’espressione impiegata nell’ordinamento giuridico nazionale (effettivo possessore) differisca da quella utilizzata nella Convenzione (effettivo beneficiario), stante l’analogia funzionale tra le due sottostanti nozioni (27). 3.3. L’analisi contestuale. 3.3.1. In generale. – La dottrina prevalente (28) è dell’avviso che il concetto di contesto richiamato dall’articolo 3, comma 2 del Modello OCSE sia più ampio di quello individuato dall’articolo 31, commi 1 e 2 della Convenzione di Vienna. Nella Convenzione di Vienna il contesto è limitato al testo del trattato – inclusivo del preambolo e di eventuali allegati – agli accordi intervenuti tra (tutte) le parti contraenti in occasione della conclusione del trattato ed a qualsiasi strumento elaborato da una parte degli Stati contraenti in occasione della conclusione del trattato e accettato dagli altri Stati contraenti come correlato al trattato.

(27) Cfr., in senso analogo, in dottrina B. Arnold, The Interpretation of Tax Treaties: Myths and Realities, in Bulletin for international taxation, 2010, 13; J. F. Avery Jones, The interaction between tax treaty provisions and domestic law, in Tax Treaties and Domestic Law, a cura di G. Maisto, Amsterdam, 2006, 133-134; J. F. Avery Jones, Problems of Categorising Income and Gains for Tax Treaty Purposes, in British Tax Review, 2001, 393; H. Pijl, Aantekeningen bij de lex-fori-bepaling in belastingverdragen, in Weekblad Fiscaal Recht, 1995, 1254 ss.; F. Engelen, Interpretation of Tax Treaties under International Law, Amsterdam, 2004, 488; P. J. Wattel - O. Marres, Characterization of Fictitious Income under OECD-Patterned Tax Treaties, in European Taxation, 2003, 71; P. Arginelli, Multilingual Tax Treaties: Interpretation, Semantic Analysis and Legal Theory, Amsterdam, 2015, 550 ss.; P. Arginelli, Riflessioni sull’interpretazione delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni conformi al Modello OCSE, in Rivista di diritto tributario, 2016, parte V, 168-169; e nella giurisprudenza estera, inter alia, Corte di appello degli Stati Uniti, 16 gennaio 1963, Samman, 313 F.2d 461, paragrafi 5, 6 e 8; Corte Suprema dei Paesi Bassi, 4 novembre 1992, causa 27222, BNB 1993/38; Corte tributaria degli Stati Uniti, 11 aprile 1983, Estate of Burghardt, 80 T.C. 705. (28) Cfr. E. van der Bruggen, Unless the Vienna Convention Otherwise Requires: Notes on the Relationship between Article 3(2) of the OECD Model Tax Convention and Articles 31 and 32 of the Vienna Convention on the Law of Treaties, in European Taxation, 2003, 143 ss.; K. Vogel, On Double Taxation Conventions, L’Aja, 1997, Art. 3, n.m. 72; K. Vogel - R.G. Prokisch, General Report, in Interpretation of double taxation convention. Cahiers de Droit Fiscal International, 1993, LXXVIIIa, 82; J.F. Avery Jones et al., The Interpretation of Tax Treaties with Particular Reference to Article 3(2) of the OECD Model, in British Tax Review, 1984, 104; G. Melis, L’interpretazione delle convenzioni internazionali in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio, in Rassegna Tributaria, 1996, 118 ss.; F. Avella, La qualificazione dei redditi nelle Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia, in Rivista di diritto tributario, 2010, V, 58.


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Al contrario, si ritiene che siano riconducibili al contesto di cui all’articolo 3, comma 2 del Modello OCSE anche tutti gli altri mezzi di interpretazione che appaiano idonei ad individuare la comune volontà delle parti contraenti con riferimento al significato da attribuire alle disposizioni convenzionali. In particolare, la dottrina tende a ricomprendere nel concetto di contesto, ai fini dell’articolo 3, comma 2 del Modello OCSE, gli strumenti ermeneutici indicati dai commi 3 e 4 dell’articolo 31 della Convenzione di Vienna – ossia (i) gli accordi tra gli Stati contraenti successivi alla conclusione del trattato e concernenti l’interpretazione e l’applicazione delle sue disposizioni, (ii) la successiva prassi applicativa che evidenzi l’accordo degli Stati contraenti riguardo all’interpretazione del trattato e (iii) le norme di diritto internazionale applicabili nei rapporti tra gli Stati contraenti – nonché i mezzi supplementari di interpretazione cui si riferisce l’articolo 32. Inoltre, è posizione condivisa dalla dottrina dominante che il contesto di cui all’articolo 3, comma 2 del Modello OCSE comprenda il Commentario al Modello e che, al fine di determinare se tale contesto richieda una diversa interpretazione, l’interprete debba attribuire un’adeguata rilevanza alla posizione espressa dall’OCSE nel medesimo (29). Parimenti, si ritiene che siano ri-

(29) I contributi dottrinali che si sono occupati della rilevanza del Commentario OCSE ai fini dell’interpretazione delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni sono particolarmente numerosi. Senza pretesa di esaustività si rinvia a The Legal Status of the OECD Commentaries, a cura di S. Douma - F. Engelen, Amsterdam, 2008; D.A. Ward et al., The Interpretation of Income Tax Treaties with Particular Reference to the Commentaries on the OECD Model, Amsterdam, 2005; K. Vogel, Reflections on the future of the OECD Model Convention and commentare, in Bulletin for international fiscal documentation, 1996, 527 ss.; K. Vogel, The influence of the OECD commentaries on treaty interpretation, in Bulletin for international fiscal documentation, 2000, 612 ss.; M. Lang, How significant are the amendments of the OECD commentary adopted after the conclusion of a tax treaty?, in Diritto e Pratica Tributaria Internazionale, 2002, vol. II, 3 ss.; J. Sasseville, Court decisions and the commentary to the OECD Model Convention, in Courts and tax treaty law, a cura di G. Maisto, Amsterdam, 2007, 189 ss.; F. A. Engelen, Some observations on the legal status of the Commentaries on the OECD Model, in Bulletin for international taxation, 2006, 105 ss.; R.L. Doernberg, Amending the OECD Model Treaty and commentary in response to corporate tax integration, in Intertax, 1995, 3 ss.; H. Pijl, The OECD Commentary as a source of international law and the role of the judiciary, in European Taxation, 2006, 216 ss.; M. Lang - F. Brugger, The role of the OECD Commentary in tax treaty interpretation, in Australian tax forum, 2008, 95 ss.; D.A. Ward, The role of the Commentaries on the OECD Model in the tax treaty interpretation process, in Bulletin for international taxation, 2006, 97 ss.; M.J. Ellis, The role of the Commentaries on the OECD Model in the tax treaty interpretation process - response to David Ward, in Bulletin for international taxation, 2006, 103 ss.; P.J. Wattel, The legal status of the OECD Commentary and static or ambulatory interpretation of tax treaties, in European Taxation, 2003, 222 ss.; F.A. Engelen, Interpretation of


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conducibili al contesto di cui di cui all’articolo 3, comma 2 del Modello OCSE anche i rapporti pubblicati dall’OCSE su specifiche questioni interpretative, in particolar modo ove gli stessi siano richiamati dal Commentario al Modello, ovvero sia palese che le modifiche apportate al Commentario siano il frutto dell’anali condotta in seno all’OCSE (ed in particolare in seno al Comitato per gli Affari Fiscali dell’OCSE) e formalizzata in uno specifico rapporto (30). Infine, è ragionevole includere nel concetto del contesto ai fini dell’articolo 3, comma 2 del Modello OCSE anche il diritto interno dell’altro Stato contraente (31), le sentenze emanate dagli organi giudiziari di detto Stato (32), nonché i materiali unilateralmente da esso predisposti e che attengano all’interpretanda convenzione (33).

Tax Treaties under International law, Amsterdam, 2004, 458 ss.; nella dottrina italiana, si veda G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2004, 622 ss.; Id., L’interpretazione delle convenzioni internazionali, cit., 93 ss.; A. Pozzo, L’interpretazione delle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione, in Diritto tributario internazionale, a cura di V. Uckmar, Padova, 2005, 167 ss.; M. Cerrato, La rilevanza del Commentario OCSE a fini interpretativi: analisi critica dei più recenti indirizzi giurisprudenziali, in Rivista di diritto tributario, 2009, IV, 11 ss.; P. Arginelli, Multilingual Tax Treaties: Interpretation, Semantic Analysis and Legal Theory, Amsterdam, 2015, 502 ss.; P. Arginelli, Riflessioni sull’interpretazione delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni conformi al Modello OCSE, in Rivista di diritto tributario, 2016, parte V, 163-165. (30) Sul ruolo da attribuire ai rapporti elaborati dal Comitato per gli Affari Fiscali dell’OCSE al fine di interpretare le convenzioni conformi al Modello OCSE, si rinvia a K. Provodová, The relevance of the OECD reports for the interpretation of tax treaties, in Fundamental Issues and Practical Problems in Tax Treaty Interpretation, a cura di M. Schilcher e P. Weninger, Vienna, 2008, 139 ss. (31) Cfr., esplicitamente in tal senso, il paragrafo 12 del Commentario all’articolo 3 del Modello OCSE; in dottrina, K. Vogel, On Double Taxation Conventions, L’Aja, 1997, Art. 3, n.m. 72; D. Ward in Aa.Vv., Interpretation of tax treaties. Transcript of the panel discussion of Seminar B at the IFA Congress in London held on 11 September 1985, in Bulletin for International Taxation, 1986, 77 ss.; contra N. Shelton, Interpretation and application of tax treaties, Londra, 2004, 197. (32) Cfr. D. Ward, Use of Foreign Court Decisions in Interpreting Tax Treaties, in Courta and tax treaty law, a cura di G. Maisto, Amsterdam, 2007, 161 ss.; K. Vogel - R.G. Prokisch, General Report, in Interpretation of double taxation convention. Cahiers de Droit Fiscal International, 1993, LXXVIIIa, p. 63; P. Baker, Double Taxation Conventions, Londra (fogli mobili), Introductory Topics, nn.m. E.26 ss. (33) Sulla questione se i materiali predisposti unilateralmente da uno Stato contraente possana essere ricondotti nel concetto di contesto ai fini dell’articolo 3, comma 2 del Modello OCSE, si vedano P. Baker, Double Taxation Conventions, Londra (fogli mobili), Introductory Topics, nn.m. E.30 ss.; K. Vogel - R.G. Prokisch, General Report, in Interpretation of double taxation convention. Cahiers de Droit Fiscal International, 1993, LXXVIIIa, 69.


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Il fatto che un novero così ampio ed eterogeneo di strumenti interpretativi possa essere ricompreso nel concetto di conteso ai fini dell’articolo 3, comma 2 del Modello OCSE non implica tuttavia che a ciascuno di detti strumenti debba essere attribuito il medesimo peso ai fini interpretativi. Sarà invece necessario individuare quali siano, nella particolare fattispecie oggetto di analisi, gli strumenti cui attribuire maggiore importanza, considerando l’oggetto e lo scopo della convenzione bilaterale, la genesi di tali strumenti e l’eventuale esistenza di una concordanza tra i significati che possono essere inferiti da detti strumenti (34). 3.3.2. Elementi contestuali rilevanti ai fini dell’interpretazione dell’espressione “beneficiario effettivo”. 3.3.2.1. Le finalità perseguite dalle convenzioni per evitare le doppie imposizioni ed il contrasto a fenomeni elusivi o evasivi. – Un primo elemento che deve essere appropriatamente valorizzato è costituito dalle finalità perseguite dalle convenzioni per eliminare le doppie imposizioni. Sotto questo profilo, il titolo proposto nel Modello OCSE del 1963 faceva espressamente riferimento alla finalità precipua di evitare le doppie imposizioni e lo stesso faceva il titolo proposto nel Modello del 1973. (35) Nel Modello OCSE del 1992 fu rimosso il riferimento all’eliminazione della doppia imposizione, contestualmente all’inserimento di una nota nella quale l’OCSE chiariva come gli Stati contraenti potessero seguire la diffusa prassi di includere nel titolo della convenzione un riferimento “to either the elimination of double taxation or to both the avoidance of double taxation and the prevention of fiscal evasion” (36). Nonostante il primo espresso riferimento, nel titolo della convenzione modello, all’obiettivo di prevenire i fenomeni di evasione fiscale sia rinvenibile soltanto nella versione del 1992 del Modello OCSE, appare irragionevole rite-

(34) Cfr., amplius, P. Arginelli, Multilingual Tax Treaties: Interpretation, Semantic Analysis and Legal Theory, Amsterdam, 2015, 568 ss. Cfr, anche F. Avella, La qualificazione dei redditi nelle Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia, in Rivista di diritto tributario, 2010, V, 61. (35) Il titolo proposto in entrambi i modelli era: “Convention between (State A) and (State B) for the avoidance of double taxation with respect to taxes on income and on capital” (enfasi aggiunta). (36) Modello OCSE del 1992, Titolo della Convenzione, nota 1 (enfasi aggiunta).


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nere che prima di tale data l’OCSE ed i suoi Stati membri escludessero la possibilità di utilizzare le convenzioni bilaterali conformi a tale modello ai fini del contrasto di pratiche evasive (o elusive) e, ancor più, che tali Stati concordassero sulla possibilità per i contribuenti di accedere ai benefici convenzionali per il tramite di costruzioni artificiose, fossero essere di natura elusiva o evasiva. Sotto un primo profilo, giova rammentare che il Modello OCSE, sin dal 1963, includeva un articolo sullo scambio di informazioni ai fini tributari, il quale era applicabile anche con riferimento ai procedimenti di attuazione delle norme fiscali di diritto interno degli Stati contraenti. (37) In merito, il relativo commentario precisava come “the main rule on exchange of information is applicable in many cases where information is required for the prevention of fiscal fraud or fiscal evasion” (38). In secondo luogo, il Commentario all’articolo 7 del Modello del 1963 riconosceva esplicitamente, con riferimento all’applicazione delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni, come i “Contracting States should be free to use all methods at their disposal to fight fiscal evasion” (39). Un simile riferimento al diritto degli Stati contraenti di contrastare fenomeno di applicazione elusiva o evasiva della convenzione è rinvenibile nel commentario all’articolo 12 di detto modello (40). In terzo luogo, appare francamente irragionevole la lettura secondo la quale Stati che, nei propri ordinamenti giuridico-tributari, annoveravano già negli anni sessanta del secolo scorso principi e norme, generali e speciali, di contrasto ai fenomeni elusivi ed invasivi, potessero accettare un’applicazione strettamente formale delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni da parte dei contribuenti, anche ove tale applicazione apparisse palesemente distorta al fine di garantire l’accesso ai benefici convenzionali, pur in assenza di quei requisiti di collegamento effettivo – del contribuente, ovvero dei redditi – con gli Stati contraenti che la rilevante convenzione presuppone. In questa prospettiva, nel Commentario al Modello del 1977 (41), l’OCSE

(37) Articolo 26, c. 1, Modello OCSE del 1963. (38) Commentario all’articolo 26 del Modello OCSE del 1963, paragrafo 6, il quale procedeva notando che “The Contracting States should be free, however, to agree bilaterally on special provisions intended to prevent fiscal fraud or evasion of tax”. (39) Commentario all’articolo 7 del Modello OCSE del 1963, paragrafo 8. (40) Commentario all’articolo 12 del Modello OCSE del 1963, paragrafo 9. (41) Nel 1977, l’OCSE introdusse nel Commentario all’articolo 1 del Modello una apposita sezione intitolata “Improper use of the Convention”.


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chiariva come, sebbene il fine delle convenzioni bilaterali sia “to promote, by eliminating international double taxation, exchanges of goods and services, and the movement of capital and persons; they should not, however, help tax avoidance or evasion” (42). Nello stesso Commentario si dava evidenza del fatto che talune fattispecie di abuso delle convenzioni fossero oggetto di specifiche norme di contrasto contenute nel Modello del 1977 (43). Lo stesso concludeva nel senso che sarebbe “appropriate for Contracting States to agree in bilateral negotiations that any relief from tax should not apply in certain cases, or to agree that the application of the provisions of domestic laws against tax avoidance should not be affected by the Convention”, senza tuttavia subordinare l’applicazione delle norme interne antielusive (o evasive), né un’interpretazione in chiave antiabuso delle rilevanti convenzioni bilaterali, ad una espressa disposizione in senso conforme nel testo pattizio. Tale approccio è divenuto ancor più esplicito a seguito delle modifiche apportate al Commentario OCSE nel 2003, in particolare alla sezione “Improper use of the Convention” del Commentario all’articolo 1. Con specifico riferimento alla questione se l’abuso delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni possa giustificare la non applicazione delle norme pat-

(42) Commentario all’articolo 1 del Modello OCSE del 1977, paragrafo 7. (43) Commentario all’articolo 1 del Modello OCSE del 1977, paragrafo 10. Si riportano di seguito integralmente i paragrafi 8-10 di detto Commentario: “8. Moreover, the extension of the network of double taxation conventions still reinforces the impact of such manoeuvres as they make it possible, through the creation of usually artificial legal constructions, to benefit both from the tax advantages available under certain domestic laws and the reliefs from tax provided for in double taxation conventions. 9. This would be the case, for example, if a person (whether or not a resident of a Contracting State), acted through a legal entity created in a State essentially to obtain treaty benefits which would not be available directly to such person. Another case would be one of an individual having in a Contracting State both his permanent home and all his economic interests, including a substantial participation in a company of that State, and who, essentially in order to sell the participation and escape taxation in that State on the capital gains from the alienation (by virtue of paragraph 4 of Article 13), transferred his permanent home to the other Contracting State, where such gains were subject to little or no tax. 10. Some of these situations are dealt with in the Convention, e.g. by the introduction of the concept of “beneficial owner” (in Articles 10, 11 and 12) and of special provisions, for the so-called artiste- companies (paragraph 2 of Article 17). Such problems are also mentioned in the Commentaries on Article 10 (paragraphs 17 and 22), Article 11 (paragraph 12), Article 12 (paragraph 7). It may be appropriate for Contracting States to agree in bilateral negotiations that any relief from tax should not apply in certain cases, or to agree that the application of the provisions of domestic laws against tax avoidance should not be affected by the Convention”.


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tizie abusate, il Commentario riconosce che “States do not have to grant the benefits of a double taxation convention where arrangements that constitute an abuse of the provisions of the convention have been entered into” (44). Ad avviso dell’OCSE, per molti Stati “taxes are ultimately imposed through the provisions of domestic law, as restricted […] by the provisions of tax conventions. Thus, any abuse of the provisions of a tax convention could also be characterised as an abuse of the provisions of domestic law under which tax will be levied. For these States, […] to the extent […] anti-avoidance rules are part of the basic domestic rules set by domestic tax laws for determining which facts give rise to a tax liability, they are not addressed in tax treaties and are therefore not affected by them. Thus, as a general rule, there will be no conflict between such rules and the provisions of tax conventions” (45). Altri Stati “consider that a proper construction of tax conventions allows them to disregard abusive transactions, such as those entered into with the view to obtaining unintended benefits under the provisions of these conventions. This interpretation results from the object and purpose of tax conventions as well as the obligation to interpret them in good faith (see Article 31 of the Vienna Convention on the Law of Treaties)” (46). Il Commentario all’articolo 1 del Modello OCSE del 2003 richiama, infine, il principio generale di proporzionalità, in ragione del quale “it should not be lightly assumed that a taxpayer is entering into the type of abusive transactions referred to above”. In questa prospettiva, “the benefits of a double taxation convention should not be available where a main purpose for entering into certain transactions or arrangements was to secure a more favourable tax position and obtaining that more favourable treatment in these circumstances would be contrary to the object and purpose of the relevant provisions” (47). 3.3.2.2. La nozione di “beneficiario effettivo” elucidata nel Commentario al Modello OCSE e nei rapporti elaborati dall’OCSE in materia. – L’espressione “beneficiario effettivo” fu inclusa per la prima volta nel Modello OCSE nel 1977. Il Commentario al Modello chiariva come la limitazione, prevista dal comma 2 dell’articolo 10 (48), al potere impositivo dello Stato della fonte

(44) (45) (46) (47) (48)

Commentario all’articolo 1 del Modello OCSE del 2003, paragrafo 9.4. Commentario all’articolo 1 del Modello OCSE del 2003, paragrafo 9.2. Commentario all’articolo 1 del Modello OCSE del 2003, paragrafo 9.3. Commentario all’articolo 1 del Modello OCSE del 2003, paragrafo 9.5. Nonchè dagli articoli 11, comma 2, e 12, comma 1, del Modello OCSE.


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non spettasse qualora un “intermediary, such as an agent or nominee” (49), fosse interposto tra il beneficiario e il soggetto pagatore (50). Al fine di interpretare in maniera coerente e sistematica tali passaggi del Commentario, appare utile rammentare che gli stessi sono richiamati nel Commentario all’articolo 1 del Modello OCSE del 1977, nel contesto dell’analisi concernente l’applicazione abusiva delle convenzioni per eliminare le doppie imposizioni, richiamata nella precedente sezione del presente contributo. In tale contesto, l’OCSE evidenziava come “the extension of the network of double taxation conventions still reinforces the impact of [abusive] manoeuvres as they make it possible, through the creation of usually artificial legal constructions, to benefit both from the tax advantages available under certain domestic laws and the reliefs from tax provided for in double taxation conventions. This would be the case, for example, if a person (whether or not a resident of a Contracting State), acted through a legal entity created in a State essentially to obtain treaty benefits which would not be available directly to such person. […] Some of these situations are dealt with in the Convention, e.g. by the introduction of the concept of “beneficial owner”. (51). È di tutta evidenza, dunque, che l’originaria intenzione dell’OCSE, attraverso l’introduzione della clausola del beneficiario effettivo, fosse quella di contrastare le costruzioni giuridiche artificiose finalizzate essenzialmente all’ottenimento di benefici convenzionali altrimenti non spettanti (e, pertanto, indebiti), ove tali costruzioni si concretizzassero nell’interposizione, tra il pagatore ed il beneficiario effettivo, di un soggetto che operasse per conto del beneficiario effettivo potendo esercitare un potere autonomo estremamente limitato sui rilevanti flussi reddituali, quale appunto un fiduciario o un mandatario (52). Nel successivo Rapporto OCSE del 1987, relativo all’uso di società ed altri enti passanti (conduit) da parte dei contribuenti al fine di accedere a benefici

(49) Nella versione ufficiale francese del Commentario, al termine inglese “nominee” corrisponde il termine “mandataire”. (50) Commentario all’articolo 10 del Modello OCSE del 1977, paragrafo 12 (cfr. anche il Commentario all’articolo 11 del Modello OCSE del 1977, paragrafo 8, ed il Commentario all’articolo 12 del Modello OCSE del 1977, paragrafo 4). (51) Commentario all’articolo 1 del Modello OCSE del 1977, paragrafi 8, 9 e 10 (enfasi aggiunta). (52) Cfr., in senso analogo, J. Gooijer, Beneficial Owner: Judicial Variety in Interpretation Counteracted by the 2012 OECD Proposals?, in Intertax, 2014, 205-208, il quale basa le proprie conclusioni anche sull’analisi dei lavori preparatori in seno all’OCSE che condussero all’adozione del Modello del 1977 e del relativo Commentario.


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convenzionali altrimenti non spettanti (53), l’OCSE negava espressamente la qualifica di “beneficiario effettivo” agli enti che, pur non agendo formalmente come mandatari o fiduciari, erano soggetti ad obblighi giuridici a vantaggio di terzi, tali da ricondurli sostanzialmente nell’alveo dei fiduciari, mandatari o amministratori operanti per conto di tali parti, sebbene in nome proprio (54). Le conclusioni esplicitate dall’OCSE nel Rapporto del 1987 sono state poi recepite nel Commentario al Modello del 2003, il quale precisa anche che la clausola del beneficiario effettivo “was introduced in paragraph 2 of Article 10 to clarify the meaning of the words “paid ... to a resident” as they are used in paragraph 1 of the Article. It makes plain that the State of source is not obliged to give up taxing rights over dividend income merely because that income was immediately received by a resident of a State with which the State of source had concluded a convention” (55). Il Commentario sottolinea inoltre come detto chiarimento sia riconducibile ad una esegesi teleologica e sistematica del testo convenzionale (56), di guisa che, ove “an item of income is received by a resident of a Contracting State acting in the capacity of agent or nominee it would be inconsistent with the object and purpose of the Convention for the State of source to grant relief or exemption merely on account of the status of the immediate recipient of the income as a resident of the other Contracting State. The immediate recipient of the income in this situation qualifies as a resident but no potential double taxation arises as a consequence of that status since the recipient is not treated as the owner of the

(53) OCSE, Rapporto Double Taxation Convention and the Use of Conduit Companies, in Issues in International Taxation. n. 1, International Tax Avoidance and Evasion. Four related Studies, 1987. (54) Rapporto Double Taxation Convention and the Use of Conduit Companies, paragrafo 14-b): “The Commentaries mention the case of a nominee or agent. The provisions would, however, apply also to other cases where a person enters into contracts or takes over obligations under which he has a similar function to those of a nominee or an agent. Thus a conduit company can normally not be regarded as the beneficial owner if, though the formal owner of certain assets, it has very narrow powers which render it a mere fiduciary or an administrator acting on account of the interested parties (most likely the shareholders of the conduit company). In practice, however, it will usually be difficult for the country of source to show that the conduit company is not the beneficial owner. The fact that its main function is to hold assets or rights is not itself sufficient to categorise it as a mere intermediary, although this may indicate that further examination is necessary”. (55) Commentario all’articolo 10 del Modello OCSE del 2003, paragrafo 12. (56) Ibidem (“The term “beneficial owner” is not used in a narrow technical sense, rather, it should be understood in its context and in light of the object and purposes of the Convention, including avoiding double taxation and the prevention of fiscal evasion and avoidance”).


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income for tax purposes in the State of residence” (57). Infine, richiamando il Rapporto del 1987, il Commentario asserisce che, in modo analogo, “a conduit company cannot normally be regarded as the beneficial owner if, though the formal owner, it has, as a practical matter, very narrow powers which render it, in relation to the income concerned, a mere fiduciary or administrator acting on account of the interested parties” (58). Il Commentario è stato, da ultimo, emendato nel 2014. L’OCSE ha, in tale occasione, individuato con maggior chiarezza gli elementi essenziali al fine della qualificazione del percettore del reddito quale beneficiario effettivo, dovendosi negare tale qualifica allorché “[the] recipient’s right to use and enjoy the dividend is constrained by a contractual or legal obligation to pass on the payment received to another person” (59). L’esistenza di tale obbligazione può essere provata documentalmente (60), ovvero valorizzando il comportamento concludente delle parti (61). In ogni caso, ai fini del suddetto accertamento, non rilevano gli obblighi che non siano causalmente collegati alla ricezione del rilevante componente reddituale da parte del soggetto interposto (62). Il Commentario al Modello OCSE del 2014 affronta anche il tema del rapporto tra la clausola del beneficiario effettivo e le ulteriori norme – ed i principi – applicabili in caso di abuso delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni (63), ribadendo l’impostazione generale esplicitata dall’OCSE

(57) Commentario all’articolo 10 del Modello OCSE del 2003, paragrafo 12.1. (58) Commentario all’articolo 10 del Modello OCSE del 2003, paragrafo 12.1 (enfasi aggiunta). (59) Commentario all’articolo 10 del Modello OCSE del 2014, paragrafo 12.4. (60) Ibidem: “Such an obligation will normally derive from relevant legal documents”. (61) Ibidem: “Such an obligation […]may also be found to exist on the basis of facts and circumstances showing that, in substance, the recipient clearly does not have the right to use and enjoy the dividend unconstrained by a contractual or legal obligation to pass on the payment received to another person”. (62) Ibidem: “This type of obligation would not include contractual or legal obligations that are not dependent on the receipt of the payment by the direct recipient such as an obligation that is not dependent on the receipt of the payment and which the direct recipient has as a debtor or as a party to financial transactions, or typical distribution obligations of pension schemes and of collective investment vehicles entitled to treaty benefits under the principles of paragraphs 6.8 to 6.34 of the Commentary on Article 1”. (63) Commentario all’articolo 10 del Modello OCSE del 2014, paragrafo 12.5: “The fact that the recipient of a dividend is considered to be the beneficial owner of that dividend does not mean, however, that the limitation of tax provided for by paragraph 2 must automatically be granted. This limitation of tax should not be granted in cases of abuse of this provision (see also


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nel Commentario del 2003, ossia che l’esistenza di detta clausola non limita in alcun modo l’applicazione di tali altre norme e principi (64). Infine, il Commentario al Modello OCSE del 2014 espressamente rigetta la possibilità che l’espressione “beneficiario effettivo” possa essere interpretata alla luce del significato che tale espressione (ed espressioni ad essa analoghe) assumono in altri contesti giuridici, quali la disciplina in materia di prevenzione e contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo (65).

paragraphs 17 and 22 below). As explained in the section on “Improper use of the Convention” in the Commentary on Article 1, there are many ways of addressing conduit company and, more generally, treaty shopping situations. These include specific anti-abuse provisions in treaties, general anti-abuse rules and substance-over-form or economic substance approaches. Whilst the concept of “beneficial owner” deals with some forms of tax avoidance (i.e. those involving the interposition of a recipient who is obliged to pass on the dividend to someone else), it does not deal with other cases of treaty shopping and must not, therefore, be considered as restricting in any way the application of other approaches to addressing such cases”. (64) Tale impostazione sembra essere condivisa dall’Italia, come manifestato dalla prassi convenzionale della Repubblica di concludere convenzioni portanti norme di limitazione dei benefici, finalizzate al contrasto di fenomeni di treaty shopping ed applicabili tanto a fattispecie elusive riconducibili all’ambito di applicazione della clausola del beneficiario effettivo, quanto a fattispecie estranee a tale ambito (e.g. la lettera m) del Protocollo alla Convenzione ItaliaKuwait, conclusa nel 1987; l’art. 30 della Convenzione Italia-Israele, conclusa nel 1995; l’art. 30 della Convenzione Italia-Lituania, conclusa nel 1996; l’art. 28 della Convenzione ItaliaEstonia, conclusa nel 1997; l’art. 2 del Protocollo alla Convenzione Italia-Stati Uniti, conclusa nel 1999; l’art. 29 della Convenzione Italia-Libano, conclusa nel 2000; l’art. 8 del Protocollo alla Convenzione Italia-Islanda, conclusa nel 2002; l’art. 30 della Convenzione Italia-Azerbaijan, conclusa nel 2004; l’art. 29 della Convenzione Italia-Qatar, conclusa nel 2002; l’art. 27 della Convenzione Italia-Cile, conclusa nel 2015). Si veda anche l’articolo 7 della recente Multilateral convention to implement tax treaty related measures to prevent base erosion and profit shifting, che dovrebbe essere aperta alla firma a partire dal mese di giugno del 2017, la quale è preordinata a far recepire nelle convenzione bilaterali per eliminare le doppie imposizioni in vigore tra i propri Stati contraenti le principali raccomandazioni emerse in seno al progetto BEPS (http://www.oecd.org/tax/beps/) ed attinenti all’interpretazione ed all’applicazione di dette convenzioni bilaterali (Multilateral convention to implement tax treaty related measures to prevent base erosion and profit shifting, articolo 7). (65) Commentario all’articolo 10 del Modello OCSE del 2014, paragrafo 12.6: “The above explanations concerning the meaning of “beneficial owner” make it clear that the meaning given to this term in the context of the Article must be distinguished from the different meaning that has been given to that term in the context of other instruments [cfr. la definizione di “beneficial owner” in (i) Financial Action Task Force, International Standards on Combating Money Laundering and the Financing of Terrorism & Proliferation – The FATF Recommendations (OECD-FATF, Paris, 2012), p. 110; e (ii) 2001 Report of the OECD Steering Group on Corporate Governance, “Behind the Corporate Veil: Using Corporate Entities for Illicit Purposes” (OECD, Paris, 2001), p. 14] that concern the determination of the persons (typically the individuals) that exercise ultimate control over entities or assets. That different


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3.3.2.3. Le rilevanti norme di diritto internazionale. – La direttiva Interessi e Canoni, la quale ha portato all’introduzione di una definizione dell’espressione “beneficiario effettivo” nell’ordinamento tributario italiano, è certamente parte del contesto rilevante ai fini dell’applicazione dell’articolo 3, comma 2 delle convenzioni italiane conformi al Modello OCSE concluse con altri Stati membri dell’Unione europea. Essa, infatti, è riconducibile alla categoria delle rilevanti norme di diritto internazionale applicabili alle relazioni tra le parti (66), richiamata dall’articolo 31, comma 3, lett. c) della Convenzione di Vienna (67), tenuto conto dell’affinità tra le finalità perseguite dalla direttiva e quelle proprie delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni, nonché del fatto che la struttura ed il contenuto normativo della direttiva riflette in larga parte quelli degli articoli 11 e 12 del Modello OCSE, ai quali evidentemente la Commissione ed il Consiglio hanno fatto riferimento in sede di redazione della stessa. Per l’effetto, la rilevanza della definizione di “beneficiario effettivo” contenuta nella direttiva Interessi e Canoni, la quale già acquisisce significanza in ragione del rinvio alla norma di recepimento di tale definizione nell’ordinamento italiano (68) operato dall’articolo 3, comma 2 delle convenzioni italiane conformi al Modello OCSE, risulta dunque rafforzata nell’ipotesi di convenzioni concluse con altri Stati membri dell’Unione europea. Ci si potrebbe domandare se altri strumenti giuridici di diritto derivato dell’Unione europea contengano disposizioni che possano assurgere al rango

meaning of “beneficial owner” cannot be applied in the context of the Article. Indeed, that meaning, which refers to natural persons (i.e. individuals), cannot be reconciled with the express wording of subparagraph 2 a), which refers to the situation where a company is the beneficial owner of a dividend. In the context of Article 10, the term “beneficial owner” is intended to address difficulties arising from the use of the words “paid to” in relation to dividends rather than difficulties related to the ownership of the shares of the company paying these dividends. For that reason, it would be inappropriate, in the context of that Article, to consider a meaning developed in order to refer to the individuals who exercise “ultimate effective control over a legal person or arrangement.” (66) Sulla rilevanza di dette norme ai fini ermeneutici nel contesto della Convenzione di Vienna, si rinvia a P. Arginelli, Multilingual Tax Treaties: Interpretation, Semantic Analysis and Legal Theory, Amsterdam, 2015, 209 ss. (67) Si veda, in senso conforme, F. Avella, Using EU Law To Interpret Undefined Tax Treaty Terms: Article 31(3)(c) of the Vienna Convention on the Law of Treaties and Article 3(2) of the OECD Model Convention, in World Tax Journal, 2012, 97 ss.; F. Avella, Il beneficiario effettivo nelle convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni: prime pronunce nella giurisprudenza di merito e nuovi spunti di discussione, in Rivista di diritto tributario, 2011, V, 25 ss.; F. Engelen, Interpretation of Tax Treaties under International Law, Amsterdam, 2004, 436. (68) Articolo 26-quater, comma 4, lett. c), numero 1), del D.P.R. n. 600 del 1973.


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di rilevanti norme di diritto internazionale ai fini dell’interpretazione della locuzione “beneficiario effettivo” contenuta nelle convenzioni per eliminare le doppie imposizioni concluse dall’Italia con altri Stati membri dell’Unione. Il dubbio si potrebbe porre, in particolare, con riferimento alla direttiva sulla tassazione del risparmio (69) ed alla direttiva sul contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo (70). La prima utilizza l’espressione “beneficiario effettivo” nella definizione dei presupposti applicativi della disciplina da essa recata. Ai sensi dell’articolo 2: 1. Ai fini della presente direttiva, per “beneficiario effettivo” si intende qualsiasi persona fisica che percepisce un pagamento di interessi o qualsiasi persona fisica a favore della quale è attribuito un pagamento di interessi, a meno che essa dimostri di non aver percepito tale pagamento a proprio vantaggio o che non le sia stato attribuito, ossia: a) agisce come agente pagatore ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1; oppure b) agisce per conto di una persona giuridica, di un’entità i cui profitti sono soggetti ad imposta in base ai regimi generali di tassazione delle imprese, di un OICVM autorizzato ai sensi della direttiva 85/611/CEE o di un’entità di cui all’articolo 4, paragrafo 2 della presente direttiva e, in quest’ultimo caso, comunica denominazione e indirizzo di tale entità all’operatore economico che effettua il pagamento di interessi e quest’ultimo trasmette quindi tali informazioni all’autorità competente dello Stato membro in cui è stabilito; oppure c) agisce per conto di un’altra persona fisica che è il beneficiario effettivo e comunica all’agente pagatore l’identità di tale beneficiario effettivo a norma dell’articolo 3, paragrafo 2. Tale definizione non appare adeguata ad incidere, quale elemento contestuale, sulla ricostruzione ermeneutica della nozione di beneficiario effettivo impiegata nelle convenzioni per evitare le doppie imposizioni concluse

(69) Direttiva 2003/48/CE del Consiglio del 3 giugno 2003 in materia di tassazione dei redditi da risparmio sotto forma di pagamenti di interessi. (70) Direttiva (UE) 2015/849 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 maggio 2015, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo, che modifica il regolamento (UE) n. 648/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva 2005/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e la direttiva 2006/70/CE della Commissione.


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dall’Italia. Anzitutto il suo ambito soggettivo di applicazione appare estremamente limitato, escludendo la stessa dal novero bei beneficiari effettivi i soggetti diversi dalle persone fisiche, in aperto contrasto con l’ambito di applicazione soggettivo delle convenzioni per eliminare le doppie imposizioni concluse dall’Italia, che, essendo generalmente conformi al Modello di Convenzione OCSE, si applicano anche a fattispecie in cui il beneficiario effettivo sia un ente. In secondo luogo, la finalità perseguita dalla direttiva in cui detta definizione è impiegata si distingue affatto da quella che caratterizza l’impiego della nozione di beneficiario effettivo nelle convenzioni per evitare le doppie imposizioni. Mentre quest’ultima si risolve nella qualificazione dell’espressione “pagati … a”, impiegata negli articoli 10, 11 e 12 (71) delle convenzioni conformi al modello OCSE, al fine di individuare con maggiore precisione le fattispecie ammesse a godere dei benefici convenzionali in deroga alle disposizioni di diritto interno vigenti nello Stato della fonte, l’utilizzo dell’espressione “beneficiario effettivo” nella direttiva concorre al perseguimento dell’obiettivo di contrastare fattispecie evasive risultanti nella mancata dichiarazione nello Stato di residenza di pagamenti di interessi percepiti all’estero da persone fisiche, direttamente o per interposta persona. Si rileva, infine che la direttiva è stata sostanzialmente abrogata dall’articolo 1 della direttiva 2015/2060/UE (72), a seguito dell’introduzione nell’ordinamento dell’Unione europea di una disciplina uniforme sullo scambio automatico di informazioni in ambito finanziario ad opera della direttiva 2014/107/UE (73), la quale ha modificato la direttiva 2011/16/UE implementando lo standard globale pubblicato dal Consiglio dell’OCSE nel

(71) L’articolo 12 del Modello di Convenzione OCSE ha impiegato l’espressione “pagati … a” sino al 1995. Nel 1997 il modello è stato emendato attraverso la sostituzione della suddetta locuzione con l’espressione “il cui beneficiario effettivo è” (cfr. il Commentario all’articolo 12 del Modello di Convenzione OCSE, paragrafo 4, come modificato nel 1997 e sino alla sua sostituzione nel 2003: “Under paragraph 1, the exemption from tax in the State of source is not available when an intermediary, such as an agent or nominee, is interposed between the beneficiary and the payer, unless the beneficial owner is a resident of the other Contracting State (the text of the Model was amended in [1997] to clarify this point, which has been the consistent position of all Member countries)”. (72) Direttiva (UE) 2015/2060 del Consiglio del 10 novembre 2015 che abroga la direttiva 2003/48/CE in materia di tassazione dei redditi da risparmio sotto forma di pagamenti di interessi. (73) Direttiva 2014/107/UE del Consiglio, del 9 dicembre 2014, recante modifica della direttiva 2011/16/UE per quanto riguarda lo scambio automatico obbligatorio di informazioni nel settore fiscale.


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luglio 2014. Essa, pertanto, non reca più alcuna “relevant rule[s] of international law applicable in the relations between the parties”. Per le ragioni succintamente esposte, non appare dunque appropriato qualificare la definizione recata dall’articolo 2, comma 1, della direttiva sulla tassazione del risparmio quale rilevante norma di diritto internazionale applicabile alle relazioni tra le parti ai fini di interpretare l’espressione “beneficiario effettivo” impiegata nelle convenzioni per eliminare le doppie imposizioni concluse dall’Italia con altri Stati dell’Unione europea. Con riferimento alla direttiva sul contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, si rileva come la stessa impieghi, nella sua versione ufficiale in lingua italiana, l’espressione “titolare effettivo”, la quale appare, sotto il profilo lessicale, affine, sebbene non identica, all’espressione “beneficiario effettivo”. Peraltro, le versioni ufficiali in lingua inglese e francese della direttiva impiegano, rispettivamente, le espressioni “beneficial owner” e “bénéficiaire effectif”, le quali coincidono lessicalmente con quelle impiegate nelle due versioni ufficiali (in lingua inglese e francese) del Modello OCSE. Ai sensi dell’articolo 3, numero 6, della direttiva, per “titolare effettivo” si intende “la persona o le persone fisiche che, in ultima istanza, possiedono o controllano il cliente e/o le persone fisiche per conto delle quali è realizzata un’operazione o un’attività […]” (74). Appare, tuttavia, evidente come alla

(74) L’articolo 3, numero 6 della Direttiva (UE) 2015/849 sul contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo dispone la seguente definizione. 6) «titolare effettivo»: la persona o le persone fisiche che, in ultima istanza, possiedono o controllano il cliente e/o le persone fisiche per conto delle quali è realizzata un’operazione o un’attività e che comprende almeno: a) in caso di società: i) la persona fisica o le persone fisiche che, in ultima istanza, possiedono o controllano il soggetto giuridico attraverso il possesso, diretto o indiretto, di una percentuale sufficiente di azioni o diritti di voto o altra partecipazione in detta entità, anche tramite azioni al portatore, o attraverso il controllo con altri mezzi, ad eccezione di una società ammessa alla quotazione su un mercato regolamentato e sottoposta a obblighi di comunicazione conformemente al diritto dell’Unione o a standard internazionali equivalenti che garantiscono una trasparenza adeguata delle informazioni sugli assetti proprietari. Una percentuale di azioni pari al 25 % più una quota o altra partecipazione superiore al 25 % del capitale di un cliente detenuta da una persona fisica costituisce indicazione di proprietà diretta. Una percentuale di azioni del 25 % più una quota o altra partecipazione superiore al 25 % del capitale di un cliente, detenuta da una società, controllata da una o più persone fisiche, ovvero da più società, controllate dalla stessa persona fisica, costituisce indicazione di proprietà indiretta. È fatto salvo il diritto degli Stati membri di prevedere che una percentuale inferiore possa costituire indicazione di proprietà o di controllo. Il


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coincidenza (o affinità lessicale) non corrisponda una coincidenza (o analogia) semantica. L’espressione di “titolare effettivo”, impiegata nella direttiva sul contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, può designare unicamente persone fisiche e valorizza il rapporto di controllo o mandato esistente tra tali persone e gli enti o le persone fisiche che pongono in essere operazioni rientranti nell’ambito oggettivo di applicazione della direttiva. Al contrario, l’espressione “beneficiario effettivo” impiegata nelle convenzioni per eliminare le doppie imposizioni conformi al Modello di Convenzione OCSE può senz’altro denotare anche gli enti e valorizza l’esistenza di un collegamento qualificato, del quale si discute nel presente contributo, tra un flusso reddituale ed un soggetto astrattamente ammesso a godere dei benefici convenzionali. Inoltre, la precipua finalità della direttiva è quella di prevenire dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo, mentre quella delle summenzionate convenzioni consiste nell’eliminazione dei fenomeni di doppia imposizione internazionale attraverso la reciproca rinuncia, anche parziale, all’esercizio della propria potestà impositiva da

controllo attraverso altri mezzi può essere determinato, tra l’altro, in base ai criteri di cui all’articolo 22, paragrafi da 1 a 5, della direttiva 2013/34/UE del Parlamento europeo e del Consiglio; ii) se, dopo aver esperito tutti i mezzi possibili e purché non vi siano motivi di sospetto, non è individuata alcuna persona secondo i criteri di cui al punto i), o, in caso di dubbio circa il fatto che la persona o le persone individuate sia o siano i titolari effettivi, la persona fisica o le persone fisiche che occupano una posizione dirigenziale di alto livello, i soggetti obbligati conservano le registrazioni delle decisioni adottate al fine di identificare la titolarità effettiva ai sensi del punto i) e del presente punto; b) in caso di trust: i) il costituente; ii) il o i «trustee»; iii) il guardiano, se esiste; iv) i beneficiari ovvero, se le persone che beneficiano dell’istituto giuridico o dell’entità giuridica non sono ancora state determinate, la categoria di persone nel cui interesse principale è istituito o agisce l’istituto giuridico o il soggetto giuridico; v) qualunque altra persona fisica che esercita in ultima istanza il controllo sul trust attraverso la proprietà diretta o indiretta o attraverso altri mezzi; c) in caso di soggetti giuridici quali le fondazioni e istituti giuridici analoghi ai trust, la persona o le persone fisiche che detengono posizioni equivalenti o analoghe a quelle di cui alla lettera b). La precedente Direttiva 2005/60/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 ottobre 2005, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, conteneva una definizione analoga a quella recata dalla Direttiva (UE) 2015/849.


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parte dei due Stati contraenti. Come visto, è in tale contesto che l’espressione “beneficiario effettivo” viene impiegata al fine di arginare specifici fenomeni di abuso delle disposizioni convenzioni (treaty shopping). Anche in questo caso, dunque, non appare appropriato qualificare la definizione recata dalla direttiva quale rilevante norma di diritto internazionale applicabile alle relazioni tra le parti, al fine di interpretare l’espressione “beneficiario effettivo” recata dalle convenzioni per evitare le doppie imposizioni concluse tra Stati membri dell’Unione europea. Tale conclusione risulta, peraltro, supportata dal Commentario al Modello OCSE, a mente del quale il significato da attribuire all’espressione “beneficiario effettivo” nell’ambito delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni conformi al Modello OCSE “must be distinguished from the different meaning that has been given to that term in the context of other instruments that concern the determination of the persons (typically the individuals) that exercise ultimate control over entities or assets [for example, Financial Action Task Force, International Standards on Combating Money Laundering and the Financing of Terrorism & Proliferation – The FATF Recommendations (OECDFATF, Paris, 2012)]” (75). 3.3.2.4. La giurisprudenza di Stati esteri. – Come ho già avuto modo di rilevare, la giurisprudenza di Stati esteri rappresenta indubbiamente uno strumento efficace per stabilire il significato ordinario dei termini e delle espressioni impiegati in convenzioni bilaterali conformi ad un modello ampiamente seguito, quale il Modello OCSE (76).

(75) Commentario 2014 all’articolo 10 del Modello di Convenzione OCSE, paragrafo 12.6. Il paragrafo procede evidenziando che “[t]hat different meaning of “beneficial owner” cannot be applied in the context of the Article. Indeed, that meaning, which refers to natural persons (i.e. individuals), cannot be reconciled with the express wording of subparagraph 2 a), which refers to the situation where a company is the beneficial owner of a dividend. In the context of Article 10, the term “beneficial owner” is intended to address difficulties arising from the use of the words “paid to” in relation to dividends rather than difficulties related to the ownership of the shares of the company paying these dividends. For that reason, it would be inappropriate, in the context of that Article, to consider a meaning developed in order to refer to the individuals who exercise “ultimate effective control over a legal person or arrangement”. (76) P. Arginelli, Multilingual Tax Treaties: Interpretation, Semantic Analysis and Legal Theory, Amsterdam, 2015, 490 ss. Sulla rilevanza della giurisprudenza di Stati esteri ai fini ermeneutici (anche con riferimento alla giurisprudenza di Stati terzi rispetto alla convenzione bilaterale oggetto di interpretazione), si vedano anche K. Vogel - R.G. Prokisch, General Report, in Interpretation of double taxation convention. Cahiers de Droit Fiscal International, 1993, LXXVIIIa, 63; D. Ward, Use of Foreign Court Decisions in Interpreting Tax Treaties, in


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Una rassegna della giurisprudenza in materia mostra, anzitutto, una significativa latitudine di argomenti e procedimenti ermeneutici elaborati dai giudici (77). In particolare, in talune sentenze, la nozione di beneficiario effettivo è determinata attraverso un’interpretazione autonoma ed uniforme delle rilevanti disposizioni pattizie, mentre in altre è il risultato di un rinvio formale all’ordinamento nazionale dello Stato che applica la convenzione. Anche la nozione di beneficiario effettivo derivante da tali sforzi ermeneutici varia in maniera significativa nella giurisprudenza dei diversi Stati,

Courta and tax treaty law, a cura di G. Maisto, Amsterdam, 2007, 161 ss.; P. Baker, ITLR, vol. 1, 728-729. (77) Cfr., a titolo esemplificativo, oltre alle sentenze richiamate nel prosieguo del presente contributo, U.S. Tax Court, Aiken Industries vs. Commissioner of Internal Revenue, 56 T.C. 925 (T.C. 1971), sentenza relativa all’interpretazione della convenzione tra Stati Uniti e Honduras, conclusa il 25 giugno 1956, la quale non conteneva alcuna clausola (esplicita) di beneficiario effettivo; Hoge Raad (Corte Suprema dei Paesi Bassi), 6 aprile 1994, sentenza n. 28638, Royal Dutch Shell, BNB 1994/217; Commissione fiscale federale (Svizzera), sentenza del 28 febbraio 2001, in Dir. prat. trib. int., 2002, 977 ss.; Court of Appeal (Regno Unito), 2 marzo 2006, sentenza nella causa Indofood (cfr. P. Baker, Beneficial Ownership: After Indofood, in GITC Review, VI/1, 2007; Suprema Corte dell’Indonesia, 21 giugno 2006, sentenza nella causa PT Indah Kiat Pulp & Papper v. US Bank National Association, in ITLR, 2008, 1 ss.; Conseil d’Etat (Canada), 29 dicembre 2006, sentenza nella causa Royal Bank of Scotland, in ITLR, 2009, 683; Corte fiscale dell’Indonesia, 14 marzo 2008, sentenza nella causa Re PT Transportasi Gas Indonesia; U.S. South District Court, NY, 11 giugno 2008, sentenza nella causa CSX Corporation; Tax Court of Canada, 22 aprile 2008, sentenza nella causa Prévost, in ITLR, 2008, 736; Federal Court of Appeal (Canada), 26 febbraio 2009, sentenza nella causa Prévost, in ITLR, 2009, 757; Tribunale Federale della Svizzera, 27 novembre 2015, sentenza nella causa 2C_752/2014; nonché l’ulteriore giurisprudenza richiamata in J. Gooijer, Beneficial Owner: Judicial Variety in Interpretation Counteracted by the 2012 OECD Proposals?, in Intertax, 2014, 209-213 ed in Beneficial Ownership: Recent Trends, a cura di M. Lang et al., IBFD, 2013. In dottrina, si vedano, tra gli altri, i contributi di H. Born, Beneficial Ownership – Decision of the Netherlands Supreme Court of 6 April 1994, n. 28638, in European Taxation, 1994, 469 ss.; S. van Weeghel, The Improper Use of Tax Treaties. With particular reference to the Netherlands and the United States, L’Aja, 1998, pp. 54 ss.; C. du Toit, Beneficial Ownership of Royalties in Bilateral Tax Treaties, Amsterdam, 1999; J. D. Oliver et al., Beneficial Ownership, in Bullettin for International Taxation, 2000, 310 ss.; H. Pijl, The Definition of “Beneficial Owner” under Dutch Law, in Bullettin, 2000, 257 ss.; P. Arginelli et al., The Royal Bank of Scotland Case: More Controversy on the Interpretation of the term beneficial owner, in A decade of Case Law: Essays in honour of the 10th Anniversary of the Leiden Adv LLM in International Tax Law, a cura di R. Russo e R. Fontana, Leida, 2008, 217 ss.; B. Arnold, Tax Treaty News, in Bulletin for international taxation, 2009, 176; F. Avella, Il beneficiario effettivo nelle convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni: prime pronunce nella giurisprudenza di merito e nuovi spunti di discussione, in Rivista di diritto tributario, 2011, V, 3 ss.; J. Gooijer, Beneficial Owner: Judicial Variety in Interpretation Counteracted by the 2012 OECD Proposals?, in Intertax, 2014, 204 ss.


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sebbene si possa concludere nel senso di una tendenziale preferenza, da parte degli organi della giurisdizione tributaria, per una ricostruzione della nozione in chiave antielusiva, che valorizzi l’oggetto e lo scopo delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni, e proporzionata al fine di contrastare fenomeni di treaty shopping. Un esempio di tale approccio è rappresentato dalla consolidata giurisprudenza del Tribunale Federale Svizzero (78), secondo il quale la nozione di beneficiario effettivo rappresenta un principio antielusivo immanente nelle convenzioni per evitare le doppie imposizioni. Ai sensi di detta giurisprudenza, il soggetto cui è formalmente corrisposto un reddito non può essere qualificato come “beneficiario effettivo” nel caso in cui sullo stesso gravi un obbligo di trasferimento delle somme a terzi, che sia connesso e subordinato all’effettiva percezione delle somme da parte dell’obbligato. Il Tribunale Federale ritiene, inoltre, che l’esistenza di tale obbligo non debba esclusivamente risultare da un contratto scritto, o da una disposizione di legge, potendo lo stesso desumersi dal comportamento concludente delle parti. Infine, detta giurisprudenza ha chiarito come la qualifica di beneficiario effettivo possa essere negata qualora l’obbligo di trasferimento delle somme non sia integrale, ma concerna la maggior parte delle stesse. La (risalente) giurisprudenza statunitense si colloca nello stesso solco, sia per quanto attiene alla considerazione che il requisito del beneficiario effettivo

(78) Si veda, ad esempio, Tribunale Federale (Svizzera), sentenza del 5 maggio 2015, causa 2C 364/2012, annotata in P. Reinarz - F. Carelli, Court Rulings on Dividend Stripping and Denial of Swiss Tax Treaty Benefits, in IBFD Derivatives & Financial Instruments, 2016, n. 4 e O. Weidmann, Beneficial Ownership and Derivatives: An Analysis of the Decision of the Federal Supreme Court Concerning Total Return Swaps (Swiss Swaps Case), in Intertax, 2016, n. 8 e 9. La causa aveva ad oggetto l’applicabilità dei benefici previsti dalla convenzione bilaterale conclusa tra Svizzera e Danimarca ai dividendi pagati da una società svizzera ad una banca danese, la quale aveva concluso dei contratti di total return swap sui titoli della società svizzera, così trasferendo ad investitori esteri il rischio ed i potenziali benefici connessi alle azioni di detta società. Nella sentenza, il Tribunale Federale ha anche valorizzato i concreti effetti giuridici dei contratti derivanti conclusi dalla banca danese, assimilando gli stessi ad un obbligo di trasferimento delle somme percepite. Si vedano anche Tribunale Federale (Svizzera), sentenza del 5 maggio 2015, causa 2C_895/2012, annotata in O. Weidmann, Beneficial Ownership and Derivatives: Has the Swiss Federal Supreme Court Decision in the SMI Futures Case Put an End to ‘Cash-Futures Arbitrage’?, in Intertax, 2017, n. 3; Tribunale Federale (Svizzera), sentenza del 7 marzo 2012, cause A-6537/2010 e A-6537/2010, annotate in International Tax Law Reports, 14, pp. 638 ss.; Tribunale Federale (Svizzera), sentenza del del 27 novembre 2015, causa 2C_752/2014, annotata in P. Arginelli, Il Tribunale federale svizzero si pronuncia sulla nozione di beneficiario effettivo, in Rivista di diritto tributario, supplemento online, 2016.


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sia immanente e, pertanto, applicabile anche in assenza di una sua formale menzione nella rilevante convenzione per eliminare le doppie imposizioni (79), sia con riferimento all’approccio sostanzialista nella ricostruzione della nozione di beneficiario effettivo. In particolare, nella sentenza concernente la causa Aiken Industries (80), la Corte Tributaria Federale ha negato l’applicabilità dei benefici convenzionali previsti dalla convenzione conclusa tra Stati Uniti e Honduras, la quale non includeva l’espressione “beneficiario effettivo”, al pagamento di interessi effettuato da una società statunitense a favore di una società controllata residente in Honduras. Quest’ultima era contrattualmente obbligata a pagare una somma equivalente ad una società correlata residente nelle Bahamas, Stato con il quale gli Stati Uniti non avevano concluso una convenzione per evitare le doppie imposizioni. Ad avviso dei giudici, la società di Honduras non poteva qualificarsi come il soggetto dal quale gli interessi erano stati effettivamente percepiti. Interpretando l’espressione “received by” attraverso un rinvio al proprio ordinamento interno, i giudici hanno, infatti, ritenuto che la società honduregna non avesse “ricevuto” gli interessi in quanto la stessa non aveva “dominion and control” su tali interessi, ma, al contrario, era “committed to pay out exactly what it collected” (81). Un approccio in parte analogo caratterizza la nota sentenza Indofood, pronunciata dalla Corte di Appello dell’Inghilterra e del Galles (82). I giudici, infatti, hanno interpretato l’espressione “beneficiario effettivo” attribuendole un significato fiscale internazionalmente uniforme, basato sul principio della prevalenza della sostanza sulla forma. La nozione elaborata dai giudici ruota attorno al requisito centrale della piena disponibilità di beneficiare del reddito da parte del percipiente. Tale requisito, ad avviso dei giudici, è assente ogni qual volta il percipiente sia obbligato a trasferire le somme ricevute ad un terzo, in quanto tale obbligo farebbe venir meno, in termini concreti, un beneficio diretto a vantaggio del percipiente derivante dal pagamento del flusso reddituale. Al fine di supportare la ragionevolezza di tale nozione di beneficiario

(79) Sostanzialmente tutte le convenzioni basate sul Modello OCSE del 1963. (80) Corte Tributaria Federale (Stati Uniti), 5 agosto 1971, 56 T.C. 925 (1971), Aiken Industries. (81) Si veda, in senso sostanzialmente analogo, Corte Federale di Appello (Stati Uniti), 8 giugno 2001, 251 F.3d 210, Del Commercial Properties; Corte Tributaria Federale (Stati Uniti), 20 dicembre 1999, 78 T.C.M. (CCH) 1183, Del Commercial Properties. (82) Corte di Appello dell’Inghilterra e del Galles, sentenza del 2 marzo 2006, causa A3/2005/2497 (Indofood v. JP Morgan Chase Bank), [2006] EWCA Civ 158.


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effettivo, la Corte di appello ha attribuito rilevanza dirimente al Commentario OCSE ed espressamente rigettato il rinvio a significati tecnici recati dal diritto interno. La giurisprudenza polacca pare similarmente orientata sotto il profilo della nozione di beneficiario effettivo assunta a rilevanza, sebbene il procedimento ermeneutico seguito per elaborare detta nozione appaia parzialmente divergente da quello sopra descritto. In particolare, la Suprema Corte Amministrativa della Polonia ha recentemente interpretato l’espressione “beneficiario effettivo” al fine di applicare l’articolo 11, comma 2, della convenzione per eliminare le doppie imposizioni in vigore tra Polonia e Lussemburgo (83). La causa concerneva il pagamento di interessi da parte di una società polacca ad una società Lussemburghese facente parte del medesimo gruppo, la quale operava in qualità di cash pooler ai fini della gestione della tesoreria di gruppo. La Corte ha interpretato l’espressione in parola facendo riferimento sia al diritto civile polacco, sia al Commentario OCSE, ed ha concluso negando alla società lussemburghese la qualifica di beneficiario effettivo degli interessi, in quanto la stessa li avrebbe percepiti in qualità di mero intermediario e non avrebbe vantato sugli stessi alcun diritto di disporne liberamente, essendo soggetta ad un obbligo di corrispondere detti interessi (pro quota) alle diverse società del gruppo che avessero maturato, in relazione al rilevante periodo di riferimento, una corrispondente posizione creditoria. Di converso, la nozione di beneficiario effettivo adottata dalla giurisprudenza canadese appare significativamente più ampia e, pertanto, meno efficace a contrastare fenomeni di treaty shopping. Nelle sentenze Prévost (84) e Velcro (85), i giudici canadesi, pur formalmente aderendo alla tesi secondo cui un soggetto “conduit” non si qualificherebbe come beneficiario effettivo dei redditi dallo stesso percepiti, la hanno sostanzialmente svuotata di contenuto affermando come ci si trovi di fronte ad soggetto “conduit” esclusivamente allorquando il percipiente “has absolutely no discretion as to the use or application of funds put through it as a conduit, or has agreed to act on someone

(83) Suprema Corte Amministrativa (Polonia), sentenza del 11 giugno 2015, causa II FSK 1518/13, annotata in K. Tetłak, Poland: Beneficial Ownership of Interest in the Context of Cash Pooling, in Tax Treaty Case Law around the Globe 2016, a cura di E.C.C.M. Kemmeren et al., Online Books IBFD, 2017. (84) Corte Tributaria (Canada), 22 aprile 2008, Prévost Car; Corte Federale di Appello (Canada), 26 febbraio 2009, Prévost Car;. (85) Corte Tributaria (Canada), 24 febbraio 2012, Velcro Canada.


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else’s behalf pursuant to that person’s instructions without any right to do other than what that person instructs it” (86). Tale declinazione della nozione di beneficiario effettivo ha condotto la Corte Tributaria a ritenere soddisfatto il requisito per l’applicazione dei benefici convenzionali nel caso di una società olandese, alla quale erano pagati dei canoni di licenza da parte di una società canadese e che, in virtù di una clausola contrattuale, trasferiva con regolarità somme equivalenti a quelle percepite (al netto delle ritenute alla fonte subite) ad una società delle Antille Olandesi facente parte dello stesso gruppo, sulla scorta del fatto che detti canoni erano accreditati su un conto corrente della società olandese su cui erano versati anche altri redditi e che veniva utilizzato dalla società per finanziare una pluralità di impieghi (87). Attenta dottrina ha notato come tale nozione di beneficiario effettivo affondi le proprie radici nel diritto interno canadese (88). Un approccio comparabile è stato fatto proprio dalla Corte Suprema Olandese nella nota sentenza Market Maker (89), in cui la Corte ha ritenuto soddisfatto il requisito in parola in capo ad una società non residente che aveva acquistato il diritto alla percezione di dividendi dopo l’approvazione della distribuzione da parte dell’assemblea generale degli azionisti. Il cessionario del diritto, impegnandosi a pagare al cedente un prezzo sostanzialmente equivalente al dividendo dichiarato, al netto di una quota parte del beneficio fiscale derivante dall’applicazione della convenzione per evitare le doppie imposizioni tra i Paesi Bassi e lo Stato di residenza del cessionario, si era sostanzialmente obbligato a trasferire al cedente il reddito percepito. La nozione elaborata dai giudici olandesi appare dunque estremamente formale ed ampia, ricomprendendo qualsiasi soggetto percepisca il reddito e non sia formalmente obbligato a trasferire a terzi esattamente le somme percepite. All’estremo opposto dello spettro, sotto il profilo della latitudine della nozione di beneficiario effettivo, si collocano le ricostruzioni ermeneutiche dei giudici francesi e coreani, le quali tendono a qualificare il requisito del beneficiario effettivo come clausola generale antielusiva, di guisa che, indipendentemente dall’esistenza di un obbligo di trasferire a terzi i redditi percepiti, il primo prenditore non potrà accedere ai benefici convenzionali nel caso in cui

(86) Corte Tributaria (Canada), 22 aprile 2008, Prévost Car, p. 100. (87) Corte Tributaria (Canada), 24 febbraio 2012, Velcro Canada. (88) B. J. Arnold, The Concept of Beneficial Ownership under Canadian Tax Treaties, in Beneficial Ownership: Recent Trends, a cura di M. Lang et al., 2013, 39 ss., paragrafo 3.2.3. (89) Corte Suprema (Paesi Passi), 6 giugno 1994, BNB 1994/217 (Market Maker).


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il complesso dei negozi posti in essere si qualifichi come abusivo ai sensi del diritto interno. A titolo esemplificativo, il Consiglio di Stato Francese, nella sentenza pronunciata nella causa Royal Bank of Scotland (90), ha ritenuto che la creazione di un diritto di usufrutto triennale sulle azioni di una società francese, da parte della società controllante statunitense ed a favore di una banca inglese, costituisse una fattispecie fraudolenta posta in essere al solo fine di accedere ai più ampi benefici previsti dalla convenzione in vigore tra Francia e Regno Unito (rispetto a quelli recati dalla convenzione conclusa tra Francia e Stati Uniti). Di conseguenza, i supremi giudici amministrativi hanno qualificato la controllante statunitense, e non la banca inglese, come il beneficiario effettivo dei dividendi (91). Ancora più marcata, in questo senso, appare la nozione elaborata dalla Corte Suprema della Corea, la quale si è di recente pronunciata sul caso di una società di persone tedesca che, attraverso una società di capitali interamente controllata, anch’essa residente in Germania, aveva costituito una società veicolo in Corea al fine di perfezionale ivi l’acquisto di un immobile (92). La società coreana distribuiva periodicamente il suo intero utile alla società di capitali tedesca, la quale risultava priva di personale, amministrata dallo stesso amministratore della società di persone e con sede legale coincidente con quella di detta società. I dividendi distribuiti dalla società Coreana erano stati assoggettati ad una ritenuta alla fonte del 5%, in attuazione dell’articolo 10 della convenzione in vigore tra Corea e Germania, ai sensi del quale l’aliquota massima applicabile dallo Sato della fonte è pari al (i) 5% nel caso in cui il beneficiario effettivo sia una società residente dell’altro Stato contraente ed al (ii) l5% qualora il beneficiario effettivo sia un soggetto residente dell’altro Stato contraente diverso da una società. La Corte Suprema ha ritenuto che la società di capitali tedesca non potesse qualificarsi come beneficiario effettivo dei dividendi in quanto priva dei requisiti minimi per controllare ed ammini-

(90) Consiglio di Stato (Francia), 29 dicembe 2006, causa 283314 (Royal Bank of Scotland). (91) Si veda, tra gli altri, P. Arginelli et al., The Royal Bank of Scotland Case: More Controversy on the Interpretation of the term beneficial owner, in A decade of Case Law: Essays in honour of the 10th Anniversary of the Leiden Adv LLM in International Tax Law, a cura di R. Russo e R. Fontana, Leida, 2008, 217 ss. (92) Corte Suprema (Corea), sentenza del 26 marzo 2015, causa 2013 du 7711 (Tiger Securization Speciality), annotata in International Tax Law Reports, 18, 540 ss.


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strare le azioni della società coreana, attività svolte, in concreto, dalla società di persone. Quest’ultima, essendo fiscalmente trasparente in Germania, non poteva qualificarsi come società residente. Di talché, la convenzione doveva essere applicata con riferimento alle persone fisiche socie della società di persone, le quali potevano beneficiare esclusivamente dell’aliquota convenzionale del 15%. La Corte ha espressamente ritenuto irrilevante l’assenza di un obbligo, in capo alla società di capitali tedesca, di trasferire al proprio socio le somme ricevute dalla società coreana. La sentenza, sebbene motivi le proprie conclusioni richiamando la nozione di beneficiario effettivo, sembra in realtà valorizzare in senso decisivo l’intento elusivo della società di persone, consistente nella costituzione della società di capitali tedesca al solo fine di beneficiare della ritenuta alla fonte del 5%, altrimenti non spettante. Al netto delle differenze evidenziate nella breve rassegna che precede, si nota, in termini generali, una tendenza da parte dei giudici a valorizzare in via prevalente due elementi: l’esistenza di un obbligo giuridico di trasferire le somme percepite, da parte del soggetto interposto, ad un terzo; ed il fatto che, anche in assenza di un formale obbligo giuridico in tal senso, le somme percepite siano integralmente, o quasi integralmente, trasferite al terzo a breve distanza dal momento dell’incasso (93). In assenza di tali elementi, i giudici tendono a riconoscere la qualifica di beneficiario effettivo in capo al percipiente ed, eventualmente, a negare i benefici convenzionali in ragione di altri fatti che denotino l’abusività della fattispecie concreta oggetto di giudizio. 3.4. Conclusioni. – In sede di applicazione dell’articolo 3, comma 2, delle convenzioni bilaterali conformi al Modello OCSE, l’interprete deve individuare le possibili interpretazioni suggerite dal contesto e decidere se una di tali interpretazioni alternative debba essere adottata, con riferimento alla fattispecie concreta oggetto di analisi, in sostituzione dell’interpretazione basata sul rinvio al diritto interno dello Stato che applica la convenzione. La dottrina ha sviluppato approcci diversi a riguardo. Alcuni autori hanno elaborato la tesi secondo la quale il rinvio al diritto interno dovrebbe essere impiegato solo come tecnica interpretativa di ultima istanza, dovendosi rico-

(93) Cfr., in senso sostanzialmente analogo, J. Gooijer, Beneficial Owner: Judicial Variety in Interpretation Counteracted by the 2012 OECD Proposals?, in Intertax, 2014, 213 ss.; F. Avella, Il beneficiario effettivo nelle convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni: prime pronunce nella giurisprudenza di merito e nuovi spunti di discussione, in Rivista di diritto tributario, 2011, V, 3 ss.


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noscere preminenza ai significati derivanti dall’analisi contestuale. (94) Similarmente, l’American Law Institute ha si è espressa nel senso che “reference to domestic law ordinarily should be made only when other interpretative techniques do not support a treaty interpretation”, in ragione del fatto che un tale approccio ermeneutico promuoverebbe l’elaborazione di interpretazioni uniformi delle disposizioni delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni (95). Questo approccio, peraltro, è stato supportato dalla dottrina citata nonostante la prassi applicativa dei giudici nazionali e delle autorità fiscali punti generalmente in direzione opposta (96). Un secondo approccio, che valorizza maggiormente il rinvio al diritto interno, si basa sul presupposto che “the context must […] be reasonably strong to the internal law meaning to be ousted” (97). Infine, un terzo gruppo di autori ha sostenuto che “it is impossible to infer from Art. 3(2) a systematic preference for interpretation from the context over interpretation by reference to national law” e che “both interpretation procedures must be viewed in mutual reciprocity” (98).

(94) Si vedano, inter alia, J. B. J. Peeters, Internationaal Belastingrecht in Nederland, Amsterdam, 1954, 138; H. Debatin - O. L. Walter, Handbook on the United States-Germany Tax Convention, Amsterdam, 1966 – fogli mobili, A 5.1.2; G. Tixier - G. Gest - J. Kerogues, Droit Fiscal International, Parigi, 1979, sezioni 414 e 417; M. Edwardes-Ker, Tax Treaty Interpretation. The International Tax Treaties Service, Dublino, 1994 – fogli mobili, sezioni 7.10, 8.10 e 8.14; M. Lang, Die Bedeutung des originär innerstaatlichen Rechts für die Auslegung von Doppelbesteuerungsabkommen (Art. 3 Abs. 2 OECD Musterabkommen), in Außensteuerrecht, Doppelbesteuerungsabkommen und EU-Recht im Spannungsverhältnis: Festschrift für Helmut Debatin zum 70. Geburtstag, a cura di G. Burmester e D. Endres, Monaco, Beck, 1997, 302 ss. (95) American Law Institute, Federal Income Tax Project. International Aspects of United States Income Taxation, II. Proposals on United States Income Tax Treaties, Filadelfia, 1992, 61. (96) Si vedano, in senso difforme, Corte suprema amministrativa della Svezia, 23 dicembre 1987, causa RÅ 1987 ref. 162, Regeringsrättens årsbok (1987) (IBFD Tax Treaty Case Law Database); Corte suprema dei Paesi Bassi, 6 dicembre 2002, causa 36773, in 5 ITLR, 680 et seq., parere dell’Avvocato generale, 701-702, punto 3.3; ibidem, pp. 709-719, punti 5.5 and 5.6. (97) J. F. Avery Jones et al., The interpretation of tax treaties with particular reference to article 3(2) of the OECD Model, British Tax Review 1984, 14 ss. e 90 ss., 108. Si veda, in senso conforme, C. van Raad, Interpretatie van belastingverdragen, 47 Maandblad Belasting Beschouwingen 1978, 49 ss., 52. (98) K. Vogel et al., Klaus Vogel on Double Taxation Conventions, L’Aja, 1997, 214, sezione 70. Si vedano, inoltre, ibidem, sezione 71; J. M. Mössner, Zur Auslegung von Doppelbesteuerungsabkommen in Volkerrecht, Recht der Internationalen Organisationen, Weltwirtschaftsrecht: Festschrift Für Ignaz Seidl-Hohenveldern, a cura di K.-H. Böckstiegel et al., Colonia,


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Personalmente, per le ragioni altrove evidenziate, ritengo che la prima soluzione debba essere rigettata e che tra la seconda e la terza soluzione la differenza sia più apparente che effettiva. In particolare, ritengo che, per risultare giuridicamente fondate e ragionevoli, le interpretazioni di volta in volta avanzate debbano prendere in considerazione i seguenti elementi. (I) Le convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni sono concluse per essere interpretate e applicate da operatori giuridici esperti di diritto tributario interno (giudici, professionisti e autorità fiscali) e non da internazionalisti. In questa prospettiva, l’interpretazione dei termini e delle espressioni convenzionali, da parte degli operatori nazionali, attraverso il rinvio al proprio ordinamento giuridico semplifica il procedimento attuativo e promuove la certezza del diritto, potendo gli interpreti poggiare la loro attività ermeneutica su categorie e concetti giuridici noti e inevitabilmente caratterizzati da una più limitata vaghezza ed ambiguità, rispetto a quelli scaturenti da una interpretazione autonoma ed uniforme (99). (II) Il rinvio al diritto interno trova un limite nella necessità di evitare che l›interpretazione delle pertinenti disposizioni convenzionali risulti assurda o irragionevole (100) alla luce del contesto. In altri termini, gli effetti di un’interpretazione conforme al diritto dello Stato che applica la convenzione non devono contrastare con gli effetti che, da un’analisi del contesto, appaiano voluti dalle parti contraenti con riferimento alla specifica fattispecie concreta. (III) Il contesto generalmente comprende molti elementi eterogenei, che non supportano un unico possibile significato, ma una serie di possibili si-

1988, 426; B. J. Arnold e M. J. McIntyre, International Tax Primer. Second Edition, L’Aja, 2002, 115-116, secondo i quali “the words of Article 3(2) do not establish any clear preference for domestic law meanings or treaty meanings for undefined terms. In addition, we see no strong policy reason for establishing any residual presumption in favour of a domestic or treaty meaning. The meaning of undefined terms in a tax treaty should be determined by reference to all of the relevant information and all of the relevant context”. (99) Si veda S. Bariatti, L’interpretazione delle convenzioni internazionali di diritto uniforme, Padova, 1986, 170-171, la quale sottolinea anche come l’applicazione dei trattati internazionali da parte dei giudici nazionali costituisca un rilevante ostacolo all’elaborazione di un’interpretazione uniforme degli stessi. (100) La quale equivarrebbe ad una interpretazione non in buona fede e, dunque, contraria all’articolo 31 della Convenzione di Vienna. Ad avviso di Avery Jones, “[c]ontext, in the expression unless the context otherwise requires therefore has a wider meaning than in the Vienna Convention, and is important in avoiding the inappropriate use of internal law definitions.” (J. F. Avery Jones, United Kingdom, in International Fiscal Association, Cahiers de droit fiscal international, Vol. 78a, Deventer, Kluwer, 1993, 610).


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gnificati (spesso vaghi) che si sovrappongono in misura limitata, i quali sono percepiti dall’interprete come aventi diversi gradi di rilevanza con riferimento alla specifica questione interpretativa affrontata. Tra questi una particolare rilevanza dovrebbe essere attribuita al Modello OCSE ed al relativo Commentario. L’interprete dovrebbe raffrontare, all’interno dei suoi argomenti, il significato scaturente dal rinvio al diritto interno dello Stato che applica la convenzione con i possibili significati risultanti dall’analisi del contesto e, in caso di conflitto, supportare la propria scelta ermeneutica in base alla rilevanza e forza argomentativa degli elementi indiziari disponibili. Ovviamente, ove, con riferimento alla specifica fattispecie oggetto di analisi, emergesse una convergenza dei diversi significati scaturenti dall’analisi contestuale, contrastante con l’effetto concreto dell’interpretazione basata sul rinvio al diritto interno, sarebbe difficile per l’interprete argomentare a favore di quest’ultima interpretazione e si dovrebbe concludere che, in detto caso, il contesto richieda una diversa interpretazione (101). (IV) L’interprete deve anche valutare se il termine convenzionale oggetto di interpretazione sia impiegato nell’ordinamento giuridico nazionale in un contesto (profondamente) diverso da quello convenzionale. In caso affermativo, assumerebbe peso l’argomento secondo il quale è quantomeno dubbio che gli Stati contraenti abbiano voluto importare nella convenzione, per effetto del rinvio all’ordinamento nazionale, il significato che a detto termine è usualmente attribuito nel diritto interno (102).

(101) Ad avviso di alcuni autori, l’onere di provare che il contesto richieda un’interpretazione diversa da quella scaturente dal rinvio all’ordinamento interno sarebbe a carico della parte che invochi una tale interpretazione, valendo l’articolo 3, comma 2, a configurare una sorta di presunzione legale relativa a favore del significato tratto dal diritto (cfr. J. Sasseville, The OECD Model Convention and Commentaries, in Multilingual Texts and Interpretation of Tax Treaties and EC Tax Law, a cura di G. Maisto, Amsterdam, 2005, 134; e, sebbene non espressamente, J. F. Avery Jones et al., The interpretation of tax treaties with particular reference to article 3(2) of the OECD Model, in British Tax Review, 1984, 108. For a court decision where the “choice” between the domestic law meaning and the contextual meanings is explicitly dealt with in terms of onus of proof, see Income Tax Appellate Tribunal of Mumbai (India), 1 March 2005, Hindalco Industries Ltd v. Assistant Commissioner of Income Tax, 8 ITLR, 1 et seq., at 14, para. 18. (102) Cfr. Corte Suprema dei Paesi, 21 febbraio 2003, causa 37024, 5 ITLR, 818 ss., p. 876, paragrafo 3.5; Corte Suprema dei Paesi, 21 febbraio 2003, case 37011, BNB 2003/177. In dottrina, Engelen ritiene che sia ragionevole supporre che gli Stati contraenti intendano applicare il rinvio alle rispettive norme di diritto esclusivamente nella misura in cui tali norme siano rilevanti ai fini dell’interpretazione delle disposizioni della convenzione, il ché si verifica solamente quando l’ambito e la finalità delle norme convenzionali coincidano, o si sovrappon-


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(V) Una specifica attenzione deve, infine, essere dedicata al caso in cui il significato attribuito all’interpretando termine (o espressione), nell’ordinamento giuridico dello Stato che applica la convenzione, sia mutato dopo la conclusione della convenzione. In detta ipotesi, il contesto potrebbe richiedere che al rilevante termine sia attribuito un significato diverso a quello attualmente assegnato a detto termine nel diritto interno dello Stato che applica la convenzione. Alla luce di tali considerazioni, ritengo che, con riferimento all’interpretazione dell’espressione “beneficiario effettivo” contenuta nelle convenzioni per evitare le doppie imposizioni conformi al Modello OCSE concluse dall’Italia, sia possibile trarre le seguenti conclusioni. Il rinvio formale al diritto interno disciplinato dall’articolo 3, comma 2 delle convenzioni trova, nell’ordinamento italiano, terreno fertile. La nozione di effettivo possessore, di cui all’articolo 37, comma 3 del D.P.R. n. 600 del 1973, come elaborata dalla più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, ben si attaglia al fine di contrastare fenomeni di abuso delle convenzioni per il tramite di società conduit ed altri soggetti interposti. Tale nozione trova, peraltro, una sua specifica declinazione nella definizione di beneficiario effettivo recata dall’articolo 26-quater, comma 4, lett. c), numero 1), del medesimo D.P.R. n. 600 del 1973, secondo la quale il soggetto percipiente si qualifica come beneficiario effettivo solo nel caso in cui riceva “i pagamenti in qualità di beneficiario finale e non di intermediario, quale agente, delegato o fiduciario di un’altra persona”. Un’interpretazione di quest’ultima definizione che valorizzi gli elementi costitutivi della suddetta nozione di effettivo possessore, come elaborata dalla Suprema Corte, intercetta sia le fattispecie in cui il percettore del reddito agisca formalmente quale mandatario o fiduciario per conto di un terzo, sia le fattispecie in cui lo stesso, sebbene operi formalmente per conto proprio, sia fittiziamente interposto, ovvero realmente interposto ma disponga di limitati poteri in ordine all’uso ed al godimento delle somme percepite, essendo tenuto a corrisponderle (in tutto, o per la maggior parte) al terzo. Il contesto, più che richiedere una diversa interpretazione rispetto a quella appena delineata, appare elaborare ulteriormente la nozione di beneficiario effettivo, che pur rimane nell’alveo individuato dal diritto interno. In questa

gano largamente, a quelli delle norme interne (F. Engelen, Interpretation of Tax Treaties under International Law, Amsterdam, 2004, 487).


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prospettiva, si ritiene che debba essere recepito, in via interpretativa, il chiarimento introdotto dall’OCSE nel Commentario al Modello del 2014 secondo cui non può qualificarsi come beneficiario effettivo il percipiente il cui diritto “to use and enjoy the dividend is constrained by a contractual or legal obligation to pass on the payment received to another person”, l’esistenza di tale obbligazione potendosi provare tanto documentalmente, quanto valorizzando il comportamento concludente delle parti. Parimenti rilevante, al fine di meglio precisare la latitudine della nozione di beneficiario effettivo, risulta il chiarimento del Commentario 2014 per il quale non rilevano gli obblighi giuridici che non siano causalmente collegati alla percezione del rilevante componente reddituale da parte del soggetto interposto. Per effetto di tale ricostruzione ermeneutica, i percipienti che non siano soggetti ad obblighi giuridici di retrocessione a parti terze delle somme ricevute (ovvero della maggior parte di tali somme) si qualificano, pertanto, come i beneficiari effettivi di dette somme (103). Ad essi è, di conseguenza, riconosciuto l’accesso ai benefici convenzionali, a meno che non si dimostri la sussistenza di una fattispecie di abuso del trattato (104), ovvero qualora tali benefici siano subordinati al soddisfacimento di ulteriori specifici requisiti previsti da clausole pattizie di limitazione dei benefici, i quali risultino assenti in capo al percettore (105). Infine, con specifico riferimento agli elementi, rilevanti sotto il profilo ermeneutico, in precedenza elencati con gli ordinali (I) – (V), si rileva che: (I) L’attribuire rilevanza alla nozione nazionale di beneficiario effettivo semplifica il procedimento attuativo della convenzione e promuove la certezza del diritto.

(103) L’accesso ai benefici convenzioni è subordinato ad un pre-(meta)-requisito, ossia che il reddito sia attribuito al percipiente, sotto il profilo fiscale, nel suo Stato di residenza. Tale requisito, tuttavia, è presupposto all’accertamento della qualifica di beneficiario effettivo e concerne l’imputazione del reddito al soggetto passivo ai fini convenzionali. Per tale ragione, il suddetto requisito non è oggetto del presente contributo, nonostante taluna giurisprudenza di merito lo associ alla nozione di beneficiario effettivo (cfr., inter alia, CTR Brescia, sez. LXV, sentenza n. 2897/15; CTP Milano, sez. I, sentenza n. 9819/15). (104) In base ad una specifica norma generale antielusiva, quale quella recata dall’articolo 27 della Convenzione Italia-Cile, ovvero al generale (ed immanente) principio che sancisce il divieto di abuso delle convenzioni. (105) Ad esempio, i requisiti posti dall’articolo 29 della Convenzione Italia-Libano, ovvero quelli richiesti, ai fini del pagamento del credito di imposta, dall’articolo 10, comma 2-a) e comma 8 della Convenzione.


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(II) e (III) La nozione rinveniente dal rinvio al diritto interno appare conforme ad un’interpretazione contestuale e convergente dell’espressione beneficiario effettivo, come risultante da una esegesi sistematica e teleologica delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni conformi al Modello OCSE, dall’evoluzione (coerente nel tempo) del Commentario OCSE, dall’analisi comparata della giurisprudenza di altri Stati e dal fatto che tale nozione recepisce nell’ordinamento italiano la nozione elaborata nel contesto di una direttiva dell’Unione europea (Direttiva Interessi e Canoni) in pari materia, la quale – con riferimento alle convenzioni concluse dall’Italia con altri Stati dell’Unione – rappresenta una norma di diritto internazionale applicabile alle relazioni tra le parti ex articolo 31, comma 3, lett. c) della Convenzione di Vienna (106). (IV) Le espressioni “beneficiario effettivo” ed “effettivo possessore”, alle quali rinvia l’articolo 3, comma 2 delle convenzioni stipulate dall’Italia, sono impiegate nel D.P.R. n. 600 del 1973 con una finalità ed in un contesto analoghi a quelli che caratterizzano l’utilizzo dell’espressione “beneficiario effettivo” negli articoli 10, 11 e 12 delle predette convenzioni. (V) Sebbene la definizione di beneficiario effettivo recata dall’articolo 26-quater, comma 4, lett. c), numero 1), del D.P.R. n. 600 del 1973 e la recente evoluzione giurisprudenziale della nozione di “effettivo possessore” ai fini dell’articolo 37, comma 3 del medesimo D.P.R. siano, in molti casi, successi-

(106) La possibile (ed auspicabile) convergenza delle nozioni di beneficiario effettivo rilevanti ai fini delle convenzioni conformi al Modello OCSE e della Direttiva Interessi e Canoni è evidenziata dalle recenti domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte di giustizia dell’Unione europea da parte delle corti tributarie danesi (cfr. le cause C-115/16, C-116/16, C-117/16, C-118/16, C-119/16, C-299/16, C-682/16), tra le quali alcune sollevano anche le seguenti questioni interpretative (cfr. domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Vestre Landsret (Danimarca) il 30 dicembre 2016, causa C-682/16, BEI): “[…] 1.1. Se la nozione di «beneficiario effettivo» di cui all’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2003/49/CE, in combinato disposto con l’articolo 1, paragrafo 4, della stessa, debba essere interpretata conformemente alla nozione corrispondente di cui all’articolo 11 del modello di convenzione fiscale dell’OCSE del 1977. 1.2. In caso di risposta affermativa alla questione 1.1, se detta nozione debba essere interpretata esclusivamente alla luce dei commentari all’articolo 11 del modello di convenzione fiscale del 1977 (paragrafo 8), o se nell’interpretazione si possa tenere conto dei commentari successivi, comprese le aggiunte effettuate nel 2003 relativamente alle «società interposte» (paragrafo 8.1, ora paragrafo 10.1), nonché le aggiunte effettuate nel 2014 relativamente alle «obbligazioni contrattuali o legali» (paragrafo 10.2). […]”.


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ve alla conclusione della rilevante convenzione bilaterale per evitare le doppie imposizioni (come nel caso della Convenzione), la sostanziale sovrapposizione tra le prime e la nozione di beneficiario effettivo ricavabile dai predetti elementi contestuali esclude la necessità di rigettare un’interpretazione basata sul rinvio al diritto interno. 4. Valutazione della sentenza 27113/16 alla luce della precedente analisi ricostruttiva. – L’interpretazione elaborata dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza 27113/16, secondo la quale la qualifica di beneficiario effettivo deve essere attribuita al “soggetto al quale sia attribuito l’uso ed il godimento dei dividendi oggetto di tassazione, in relazione ai quali esso si ponga come destinatario finale (“owner”, dominus), e non come semplice intermediario, agente o fiduciario”, ossia al soggetto che abbia “padronanza ed autonomia […] nel trattenimento ed impiego dei dividendi percepiti (in alternativa alla loro traslazione alla capogruppo sita in un Paese terzo)”, appare sostanzialmente conforme alla nozione lumeggiata nel presente contributo, riconoscendo implicitamente la Corte che l’elemento essenziale della fattispecie consiste nel fatto che il beneficiario effettivo non possa essere “constrained by a contractual or legal obligation to pass on the payment received to another person” (107). In secondo luogo, si rileva come nelle motivazioni i giudici di legittimità facciano ripetutamente riferimento, sia espressamente, sia implicitamente, alle elaborazioni ermeneutiche contenute nel Commentario OCSE, il quale, come rammentato nei paragrafi che precedono, dovrebbe essere valorizzato dall’interprete come uno degli elementi essenziali del contesto ai fini dell’interpretazione delle convenzioni stipulate dall’Italia che siano conformi al Modello OCSE. Un esempio di quanto appena rilevato è rappresentato dalla conclusione, tratta dai giudici, che la clausola del beneficiario effettivo persegua in via precipua lo scopo di impedire che “a giovarsi del regime bilaterale contro le doppie imposizioni sia una società madre priva di sostanza economica, e strumentalmente costituita nello Stato contraente al solo fine di usufruire dei

(107) Essa appare, peraltro, conferme alle più recenti sentenze di merito e di legittimità. Si vedano, a titolo esemplificativo, Cass., sentenza n. 25281/15; CTP Torino, sez. VIII, sentenza n. 93/13; CTR Torino, sez. VI, sentenza n. 15/12; CTP Milano, sez. I, sentenza n. 66/13 del 1 febbraio 2013; CTR Brescia, sez. LXV, sentenza n. 2897/15; CTP Milano, sez. I, sentenza n. 9819/15.


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vantaggi convenzionali su dividendi che potrebbero dirsi “propri” della [percipiente] solo sul piano formale, non anche sostanziale; in quanto destinati ad altra [società] collocata in un Paese il cui ordinamento non preveda pari vantaggi fiscali”, la quale appare sostanzialmente in linea con quanto emerge dall’analisi dell’evoluzione del Modello OCSE e del suo Commentario (108). Si ravvisa, inoltre, detta convergenza anche con riferimento al dictum secondo cui la clausola del beneficiario effettivo rappresenterebbe la codificazione di un principio immanente nelle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni, ricavabile attraverso un’interpretazione teleologica, sistematica ed in buona fede – ossia conforme ai criteri ermeneutici dettati dall’articolo 31 della Convenzione di Vienna – di dette convenzioni, di guisa che, anche in sua assenza, non si dovrebbe comunque “riconoscere il regime di favore alla società […] che – non essendo il beneficiario effettivo dei dividendi che danno luogo al credito d’imposta – abbia abusato del trattato mediante un’allocazione territoriale strumentale, stravolgendone appunto l’oggetto e lo scopo pratico (c.d. “treaty abuse”)”. Tale concezione è, infatti, ravvisabile anche nel Commentario OCSE, a mente del quale la clausola del beneficiario effettivo “was introduced in paragraph 2 of Article 10 to clarify the meaning of the words “paid ... to a resident” as they are used in paragraph 1 of the Article. It makes plain that the State of source is not obliged to give up taxing rights over dividend income merely because that income was immediately received by a resident of a State with which the State of source had concluded a convention” (109). In terzo luogo, appaiono condivisibili sia l’affermazione della Corte secondo la quale vi sarebbe una sostanziale convergenza tra i principi generali antielusivi dell’ordinamento interno, della fiscalità internazionale e dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, sia l’affermazione concernete la conformità della clausola del beneficiario effettivo a tali principi. Tali affermazioni appaiono, infatti, supportate dall’analisi condotta nei paragrafi 3.3.2.1 - 3.3.2.3 del presente contributo.

(108) Cfr. il paragrafo 3.3.2.2 del presente contributo. (109) Commentario all’articolo 10 del Modello OCSE del 2003, paragrafo 12 (enfasi aggiunta); cfr. il paragrafo 3.3.2.2 del presente contributo. Tale concezione risulta, inoltre, condivisa dalla giurisprudenza di altri Stati (si vedano, a titolo esemplificativo, U.S. Tax Court, Aiken Industries vs. Commissioner of Internal Revenue, 56 T.C. 925 (T.C. 1971); Tribunale Federale della Svizzera, 27 novembre 2015, sentenza nella causa 2C_752/2014; cfr. il paragrafo 3.3.2.4 del presente contributo).


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Risulta, infine, particolarmente apprezzabile la coerenza che contraddistingue la sentenza con riferimento al rapporto tra (i) elaborazione della nozione astratta di beneficiario effettivo ed (ii) individuazione degli elementi fattuali idonei a provare la sussistenza (o insussistenza) del requisito del beneficiario effettivo nella fattispecie concreta oggetto di giudizio di merito. La Corte afferma, infatti, il principio per il quale sono da considerarsi inconferenti, e dunque irrilevanti sotto il profilo probatorio, gli elementi fattuali che provino esclusivamente l’operatività (ovvero la non operatività) del soggetto percipiente, ma che nulla dimostrino in merito all’effettivo controllo che lo stesso possa esercitare sui rilevanti flussi di reddito. A margine, si ritiene opportuno richiamare l’attenzione sul fatto che la sentenza include una serie di dicta concernenti taluni requisiti di accesso ai benefici convenzionali che, sebbene estranei alla nozione di beneficiario effettivo, denotano l’attenzione prestata dalla Suprema Corte all’esigenza di contrastare fenomeni di abuso delle convenzioni. La prima di tali affermazioni è quella secondo cui uno degli elementi che caratterizza la nozione di beneficiario effettivo sarebbe la “padronanza ed autonomia della [società] percipiente […] nell’adozione delle decisioni di governo ed indirizzo delle partecipazioni detenute […]”. Sebbene tale requisito di controllo (ed indirizzo) sul bene che generale i redditi non sia, a stretto rigore, un requisito essenziale della nozione di beneficiario effettivo, la quale concerne il diritto di disporre effettivamente del reddito e non del bene sottostante, lo stesso si giustifica in un’ottica di prevenzione di fenomeni abusivi consistenti (i) nell’allocazione di comodo – ed esclusivamente funzionale al conseguimento del vantaggio fiscale consistente nell’accesso ai benefici convenzionali – della partecipazione da cui promanano i dividendi alla società interposta, ovvero (ii) nel collocamento della sede legale di detta società nell’altro Stato contraente, seppur in assenza dello svolgimento in detto Stato dell’effettiva attività di amministrazione, ovvero dello svolgimento ivi delle attività necessarie al conseguimento dell’oggetto sociale. Con riferimento al fenomeno di cui al punto (i), l’introduzione del requisito della “padronanza ed autonomia della [società] percipiente […] nell’adozione delle decisioni di governo ed indirizzo delle partecipazioni detenute […]” risulta idonea e proporzionata a conseguire l’obiettivo di contrastare il predetto fenomeno elusivo. Tale scelta appare, peraltro, coerente con quella operata dal Consiglio UE in sede di introduzione della clausola generale antielusiva nell’articolo 1 della Direttiva Madre-Figlia (Direttiva 2011/96/UE). L’ottavo considerando del Preambolo alla Direttiva 2015/121/UE, modificativa della Direttiva Madre-Figlia, nel descrivere la portata e la finalità di detta clausola, rileva infat-


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ti come l’approccio antielusivo adottato nella Direttiva “può essere efficace nei casi in cui le entità interessate siano di per sé genuine ma, ad esempio, le azioni da cui ha origine la distribuzione di utili non siano attribuite in modo genuino a un contribuente stabilito in uno Stato membro, vale a dire allorché la costruzione, in base alla sua forma giuridica, trasferisca la titolarità delle azioni ma le caratteristiche della medesima non rispecchino la realtà economica”. In relazione al fenomeno di cui al punto (ii), la sentenza ha elaborato un requisito non espressamente previsto dalla Convenzione, consistente nella subordinazione dell’accesso ai benefici convenzionali alla dimostrazione che la società percipiente abbia la propria sede di direzione effettiva nell’altro Stato contraente. Anche in questo caso, la scelta operata dai giudici di legittimità appare idonea e proporzionata al conseguimento dell’obiettivo di contrastare il fenomeno abusivo consistente nella collocazione geografica di comodo del beneficiario effettivo, priva di qualunque significativo radicamento nello Stato di residenza. Inoltre, la scelta operata dai giudici di subordinare l’accesso ai benefici convenzionali ai requisiti – estranei al disposto letterale della Convenzione ed alla nozione di beneficiario effettivo – della “padronanza ed autonomia della [società] percipiente […] nell’adozione delle decisioni di governo ed indirizzo delle partecipazioni detenute […]” ed a quello della collocazione della sede di direzione effettiva della società percipiente nell’altro Stato contrante, risulta conforme al principio affermato nel Commentario al Modello OCSE secondo il quale l’esistenza di un’espressa clausola antielusiva (beneficiario effettivo) non limita in alcun modo l’applicazione di altre norme e principi anti-abuso (110). Essa appare inoltre proporzionata, non eccedendo quanto necessario al fine di conseguire l’obiettivo di contrasto ai predetti fenomeni elusivi e contemperando i contrapposti interessi, consistenti nella necessità di garantire la libertà di iniziativa economica, compresa “la libertà del contribuente di optare per una soluzione negoziale ed organizzativa comportante un maggior risparmio fiscale”, e “nell’esigenza di reprimere condotte elusive e di abuso del diritto”. Difatti, all’imposizione dei predetti requisiti si accompagna l’affermazione del principio secondo il quale la circostanza che la società percipiente “sia a sua volta totalitariamente controllata da altra società non

(110) Cfr., in particolare, il Commentario all’articolo 10 del Modello OCSE del 2014, paragrafo 12.5.


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residente in uno Stato stipulante (c.d. controllo “a cascata”), non [comprova] pertanto, di per sé, l’artificiosità ovvero la strumentalità della medesima e, con ciò, l’insussistenza del [beneficio convenzionale]”, “posto che […] la relazione di controllo tra capogruppo ed holding, o subholding, avente ad oggetto la pura detenzione di partecipazioni geografiche non esclude di per sé che quest’ultima sia dotata di autonomia organizzativa e gestionale”. Tale dictum appare particolarmente significativo, nel contesto della sentenza, posto che la Convenzione contiene una specifica disposizione antielusiva, a mente della quale qualora più della metà del capitale di detta società percipiente sia posseduta da una o più persone non residenti nel suo Stato di residenza, detta società deve produrre all’autorità competente italiana, ove richiesto, elementi che permettano di ritenere che la stessa abbia acquisito la partecipazione generatrice dei dividendi per ragioni commerciali di buona fede o nell’ambito dell’ordinaria attività di fare o gestire investimenti e non allo scopo principale di beneficiare dei benefici convenzionali (111).

Paolo Arginelli

(111) Articolo 10, c. 8 della Convenzione. Sulla legittimità di una disposizione antielusiva siffatta con il diritto dell’Unione europea ed, in particolare, con il principio di proporzionalità, si vedano le conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott della Corte di giustizia dell’Unione europea, secondo cui “[l]’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 90/435/CEE [Direttiva MadreFiglia] e l’articolo 43 CE, in combinato disposto con l’articolo 48 CE, ostano alla normativa di uno Stato membro per effetto della quale ad un’impresa avente sede all’estero, direttamente o indirettamente controllata da persone residenti in uno Stato terzo, viene imposto, ai fini della concessione dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte ai sensi dell’articolo 5 della direttiva, la prova della sussistenza di motivi non fiscali alla base della scelta della struttura della catena di partecipazioni, senza che l’amministrazione sia tenuta a fornire sufficienti indizi di una costruzione artificiosa, priva di effettività economica, finalizzata al conseguimento di un vantaggio fiscale” (Conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott, 19 gennaio 2017, causa C-6/16, Eqiom, p. 61).


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