Rivista Diritto Tributario 5/2018

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Vol. XXVIII- Ottobre

Rivista di

Diritto Tributario

www.rivistadirittotributario.it

5

Rivista bimestrale

Vol. XXVIII - Ottobre 2018

Fondata da Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi

2018

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In evidenza: • Le criticità dell’Iva per le attività di interesse generale nel nuovo Codice del Terzo settore

Francesco Montanari • Limiti alla riferibilità della sanzione alla persona giuridica, principio del beneficio e rilievo

dell’autore materiale: considerazioni e prospettive di riforma Stefano Maria Ronco • La fiscalità dei beni culturali nel passaggio generazionale

Gabriele Giusti • Il risparmio di imposta quale discusso presupposto dell’autoriciclaggio: un problema

risolto? Ivo Caraccioli • Rubriche

ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Rivista di Diritto Tributario

Diretta da Loredana Carpentieri - Gaspare Falsitta - Salvatore La Rosa Francesco Moschetti - Roberto Schiavolin

Pacini



Indici DOTTRINA

Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti

Il tentativo di mediazione della Cassazione sul rapporto tra trust e reistituita imposta sulle successioni e donazioni (nota a Cass. Civ., n. 13626/2018)................... II, 206 Andrea Buccisano

Il ruolo della residenza fiscale delle persone fisiche nell’imposizione sui redditi, e la introduzione di un nuovo discutibile criterio di tassazione per i “neo residenti”........ V, 25 Ivo Caraccioli

Il risparmio di imposta quale discusso presupposto dell’autoriciclaggio: un problema risolto?.............................................................................................................. III, 45 Paolo De Quattro

La sospensione amministrativa dell’atto nell’accertamento doganale tra tutela europea del contribuente e contraddittorio endo-procedimentale (nota a Corte di Giustizia, causa C-276/16)......................................................................................... IV, 180 Gabriele Giusti

La fiscalità dei beni culturali nel passaggio generazionale....................................... I, 487 Roberto Iaia

Atti istruttori erariali e principio europeo di proporzionalità.................................... I, 525 Francesco Montanari

Le criticità dell’Iva per le attività di interesse generale nel nuovo Codice del Terzo settore...................................................................................................................... I, 561 Stefano Maria Ronco

Limiti alla riferibilità della sanzione alla persona giuridica, principio del beneficio e rilievo dell’autore materiale: considerazioni e prospettive di riforma............. I, 587 Rubrica di diritto penale tributario

a cura di Ivo Caraccioli............................................................................................... III, 45 Rubrica di diritto europeo

a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 167 Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................ V, 125 Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.


II

indici

INDICE ANALITICO QUESTIONI GENERALI Accertamento – Accertamento doganale - Rinvio pregiudiziale – Principio del rispetto dei diritti della difesa – Diritto di essere ascoltato – Regolamento (CEE) n. 2913/92 – Codice doganale comunitario – Articolo 244 – Recupero di un debito in materia doganale – Mancata previa audizione del destinatario prima dell’emissione di un avviso di rettifica dell’accertamento – Diritto del destinatario di ottenere la sospensione dell’esecuzione dell’avviso di rettifica – Mancata sospensione automatica in caso di proposizione di un ricorso amministrativo – Rinvio alle condizioni previste all’articolo 244 del codice doganale (Corte Giust., sez. VII, 20 dicembre 2017 - 9 febbraio 2018, C-276/16, con nota di Paolo De Quattro)................................................................................................................................ IV, 167

IMPOSTE INDIRETTE IMPOSTA SULLE SUCCESSIONI E DONAZIONI Trust liquidatorio – Applicabilità dell’imposta – Sussiste – Trasferimento al trustee – Beneficiario finale – Sussiste (Cass. civ., Sez. V, 4 maggio 2018 - 30 maggio 2018, n. 13626, con nota di Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti)........... II, 201

INDICE CRONOLOGICO Corte di Giustizia 20 dicembre 2017 - 9 febbraio 2018, C-276/16........................................................ IV, 167 *** Cass. civ., Sez. V 4 maggio 2018 - 30 maggio 2018, n. 13626.............................................................. II, 201


indici

III

Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio



Dottrina

La fiscalità dei beni culturali nel passaggio generazionale Sommario: 1. La fiscalità dei beni culturali nell’attuale panorama normativo. – 2. L’esclusione dall’attivo ereditario dei beni culturali nella prospettiva sistematica del prelievo successorio. – 3. L’oggetto del beneficio. – 4. Profili procedurali. – 5. Il pagamento dell’imposta di successione mediante cessione allo Stato di beni culturali. Il presente saggio analizza la disciplina fiscale dei beni culturali nel passaggio generazionale, soffermandosi, in particolare, sull’esclusione dall’attivo ereditario prevista, ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle successioni, dagli artt. 12, lett. g) e 13 del D.lgs. n. 346/1990. Dopo aver proposto una ricostruzione sistematica di tale previsione in termini di vera e propria “esclusione” dal prelievo, anziché di mera “esenzione”, il lavoro ne definisce il perimetro applicativo e gli aspetti procedurali. Infine, il saggio si sofferma sulla disciplina prevista dall’art. 39 del predetto D.lgs. n. 346/1990, in materia di cessione dei beni culturali allo Stato in pagamento dell’imposta di successione e dei correlati tributi accessori. The essay analyses the tax treatment of the cultural assets in the passage trough generations, focusing on the exclusion from the inheritance tax set forth by the articles 12, lett. g), and 13 of Presidential Decree n. 346/1990. The paper highlights that the provision should be considered not as a mere “exemption” but as a true “exclusion”, with relevant effects on its area of application and on its procedural aspects. Eventually, the essay analyses the rules provided by the article 39 of the same Presidential Decree n. 346/1990 for the payment of the inheritance tax by the assignment of cultural assets to the State.

1. La fiscalità dei beni culturali nell’attuale panorama normativo. – Al passaggio generazionale dei beni culturali il legislatore ha riservato una particolare disciplina fiscale, evitandone, a certe condizioni, la soggezione al prelievo sulle successioni. L’art. 12, lett. g), del D.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, esclude dall’attivo ereditario, i beni sottoposti al vincolo “diretto” previsto, in


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origine, dagli artt. 1,2 e 5 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 (1) e dall’art. 36 del D.P.R. 30 settembre 1963, n. 1409 (2) (ma il cui riferimento è oggi da intendersi agli art. 10 ss. del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, cd. “Codice dei beni culturali e del paesaggio” o “Codice Urbani”) (3). L’art. 13 del medesimo D.lgs. n. 346/1990 enuncia le condizioni per l’applicazione del beneficio fiscale, mentre l’art. 59 stabilisce, infine, l’applicazione dell’imposta nella sola misura fissa prevista per l’imposta di registro agli atti di donazione che hanno ad oggetto i medesimi beni. Tale regime, sino ad un recente passato, si inseriva in un quadro normativo che garantiva ai proprietari di beni vincolati significativi vantaggi sul piano tributario, onde bilanciare gli oneri e le restrizioni derivanti dall’imposizione del vincolo previsto dagli artt. 10 ss. del Codice Urbani. Qui, invero, sono definiti “culturali” i beni che presentino un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, oppure possiedano carattere di rarità e di pregio (4).

(1) In particolare, l’art. 1 della predetta legge n. 1089/1939 (cd. legge Bottai) includeva tra i beni soggetti al vincolo, le cose mobili e immobili che presentavano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, comprese le cose di interesse paleontologico e preistorico, le cose d’interesse numismatico e i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni aventi carattere di rarità e di pregio (comma 1); oggetto di tutela erano anche le ville, i parchi e i giardini di interesse storico e artistico (comma 2). L’art. 2 estendeva la tutela anche alle cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere, siano state riconosciute di interesse particolarmente importante e come tali abbiano formato oggetto di notificazione, in forma amministrativa, del Ministro della pubblica istruzione, mentre l’art. 5 ricomprendeva tra i beni da assoggettare a vincolo le collezioni o serie di oggetti, che, per tradizione, fama e particolari interessi e caratteristiche ambientali, rivestono come complesso un eccezionale interesse artistico o storico. Per una rassegna sull’evoluzione storica della normativa cfr. M. Ainis, M. Fiorillo, L’ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali, Milano, 2015; G. Volpe, Manuale di diritto dei beni culturali. Storia e attualità, Padova, 2013; S. Mabellini, La tutela dei beni culturali nel costituzionalismo multilivello, Torino, 2016, 4 ss. (2) Tale norma estendeva la tutela anche gli archivi o i singoli documenti di proprietà di privati, dichiarati di interesse storico dai sovraintendenti archivistici. (3) Il Codice dei beni culturali e del paesaggio ha, in particolare, sostituito il previgente Testo Unico dei beni culturali e ambientali (D.lgs. 29 ottobre 1990, n. 490), con il quale si era provveduto ad un riordino della precedente disciplina. La riforma costituzionale del 2001 (legge cost. n. 3/2001) ha tuttavia suggerito l’opportunità di ripensare a fondo la materia della tutela dei beni culturali, sicché, con la legge delega 6 luglio 2002, n. 137, il parlamento ha affidato al governo il compito di ridisegnarne il relativo regime giuridico. Sul punto cfr. S. Mabellini, La tutela dei beni culturali nel costituzionalismo multilivello, cit., 25. (4) Nel concetto di bene culturale, peraltro, si è passati da un approccio estetizzante, prevalentemente incentrato sulla rarità e sul pregio della cosa (cfr. N. Greco, Stato di cultura e


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Si distinguono, poi, i beni appartenenti allo Stato, enti pubblici e persone giuridiche private senza scopo di lucro (compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti), per i quali, ai fini del riconoscimento della natura “culturale”, è sufficiente la presenza di un interesse storico “semplice”, dai beni di appartenenza privata, per i quali il riconoscimento della qualifica di bene culturale presuppone l’esistenza di un interesse “particolarmente importante”, o addirittura “eccezionale”, come nel caso delle collezioni (5). Per i beni privati, inoltre, il riconoscimento della rilevanza culturale rappresenta l’esito di una procedura amministrativa che si conclude con la dichiarazione (6) di interesse e con l’imposizione di un vincolo che, a tutela dell’integrità e della conservazione del bene culturale, comporta significative limitazioni all’esercizio delle facoltà e dei poteri del proprietario. Basti ricordare, ad esempio, che il Codice introduce (riprendendo il larga parte quanto

gestione dei beni culturali, Bologna, 1981, 192 ss.), ad un approccio storico e documentale, che, sulla scorta anche della definizione elaborata dalla “Commissione di indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose di interesse storico archeologico, artistico e del paesaggio” istituita con la legge n. 310/1964 (cd. “Commissione Franceschini”) tende ad accoglierne una nozione incentrata sul concetto di «testimonianza materiale avente valore di civiltà». Espressione di tale mutato orientamento è anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato per la quale «Il bene “culturale” è protetto per ragioni non solo e non tanto estetiche, quanto per ragioni storiche, cosi sottolineandosi l’importanza dell’opera o del bene per la storia dell’uomo e per il progresso della scienza (così Cons. Stato, Sez. VI, 17 ottobre 2003, n. 6344, in Riv. giur. edil., 2004, I, 682). Sul punto cfr. S. Mabellini, La tutela dei beni culturali nel costituzionalismo multilivello, cit., 33. (5) In tal senso, osserva A. Mansi, La tutela dei beni culturali e del paesaggio, Padova, 2004, 138, che «quando una cosa di interesse artistico o archeologico, di spettanza di un ente pubblico è sottoposta a vincolo, non è detto che la stessa cosa, allorché successivamente diventa proprietà di un privato acquisisca contemporaneamente quell’interesse “particolarmente importante”». Sul punto cfr. sempre anche S. Mabellini, La tutela dei beni culturali nel costituzionalismo multilivello, cit., 84. (6) Più nel dettaglio, mentre per i beni indicati all’art. 10, comma 1 del Codice (beni appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico ed, infine, a persone giuridiche private senza fine di lucro) il riconoscimento della rilevanza culturale avviene a seguito di una procedura di verifica compiuta dai competenti organi del Ministero ai sensi dell’art. 12, per quelli di appartenenza privata, la qualifica di beni culturali dipende dalla dichiarazione prevista dall’art. 13, rilasciata all’esito del procedimento previsto dall’art. 14. Peraltro, secondo alcuni tale dichiarazione avrebbe carattere “costitutivo” dell’interesse culturale del bene (in tal senso M. A. Sandulli, Natura e funzione della notifica e della pubblicità delle cose private di interesse artistico e storico qualificato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, 1023; S. Mabellini, La tutela dei beni culturali nel costituzionalismo multilivello, cit., 76), mentre per altri essa avrebbe una funzione ricognitiva di una qualità intrinseca del bene (in tal senso cfr. M. Grisolia, La tutela delle cose d’arte, Roma, 1952, 260 ss.; T. Alibrandi, P. G. Ferri, I beni culturali e ambientali, IV ed., Milano, 2001, 258 ss.).


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già previsto dalla legge n. 1089/1939) specifici divieti di distruggere, danneggiare o adibire i beni vincolati ad usi non compatibili con il loro carattere e le correlate esigenze di conservazione (art. 20); l’obbligo di acquisire l’autorizzazione del Ministero per effettuare interventi edilizi (art. 22); specifici obblighi di conservazione (art. 30), tra i quali quello di realizzare, a proprie spese, gli interventi all’uopo necessari, ove imposti dal Ministero, o, comunque, di sostenerne il costo quando dal medesimo direttamente realizzati (art. 32); l’obbligo di denunciarne il trasferimento della proprietà o della detenzione (art. 59). Ad essi si aggiungono gli obblighi finalizzati a consentire la fruizione al pubblico degli immobili e delle collezioni di “eccezionale” interesse (art. 104, comma 1), l’obbligo di ammettere gli studiosi che ne facciano richiesta alla consultazione di archivi o singoli documenti privati (art. 127) e, infine, l’obbligo di rendere accessibili al pubblico i beni (sia mobili che immobili) restaurati con il concorso, anche parziale, di risorse statali (art. 38) (7). Ebbene, sin dalla vigenza della legge n. 1089/1939 l’ampio corredo di oneri ora sinteticamente richiamato aveva suggerito l’introduzione di un trattamento fiscale derogatorio per i beni culturali non circoscritto alle sole imposte applicabili in occasione del passaggio generazionale ma esteso anche ad altre forme di prelievo. Un primo intervento di tipo sistematico si era avuto con la legge 2 agosto 1982, n. 512 (8), con la quale il legislatore aveva introdotto rilevanti agevolazioni fiscali per i proprietari di beni vincolati. Oltre, infatti, ad un decisivo ampliamento del novero di beni culturali esclusi dall’attivo ereditario ai fini del prelievo successorio (il cui beneficio era in precedenza circoscritto alle sole “collezioni” notificate ai sensi dell’ art. 5 della legge n. 1089/1939) (9), erano state introdotte specifiche agevolazioni

(7) Si distinguono, pertanto, obblighi di carattere negativo, ed obblighi di carattere positivo, non limitato all’ambito della conservazione, ma orientati alla fruizione da parte della collettività. In tal senso cfr. S. Mabellini, La tutela dei beni culturali nel costituzionalismo multilivello, cit., 91. Sui contenuti del vincolo si vedano anche M. Ainis, M. Fiorillo, L’ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali, cit., 194 ss. (8) Per un commento, T. Alibrandi, P.G. Ferri, N. Pasolini Dall’Onda, Il nuovo regime tributario dei beni culturali, Milano, 1983. (9) In tal senso l’originaria formulazione dell’art. 11 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637. In precedenza, l’art. 21 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270 escludeva dall’asse ereditario le collezioni di quadri, statue porcellane, libri stampe medaglie e altre simili raccolte che non fossero oggetto di un atto di obiettivo commercio. L’alienazione entro il decennio dall’apertura della successione implicava la revoca dell’agevolazione e l’imponibilità della somma ricavata dalla vendita. Non era inoltre richiesta l’esistenza del vincolo, ma il solo interesse storico e artistico della raccolta. L’art. 4 della legge n. 512/1982 estendeva, invece (tramite


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per mitigare il prelievo sui trasferimenti onerosi degli immobili vincolati (10), nonché previste particolari deduzioni per le spese di ristrutturazione e le erogazioni liberali a vantaggio dei beni culturali (11). Il quadro si completava

un’elencazione analitica), l’esclusione dall’attivo ereditario ai beni vincolati ai sensi dell’art. 1 della legge n. 1089/1939 (ad esclusione delle ville, dei parchi e dei giardini), agli archivi e i singoli documenti tutelati ai sensi dell’art. 36 della legge n. 1409/1963, ed infine, ai beni indicati nell’art. 5 della legge n. 1089/1939. Nel passaggio dal D.P.R. n. 637/1972 al D.lgs. n. 346/1990, la norma è stata riformulata, eliminando la precedente elencazione analitica ed estendendo, mediante la tecnica del rinvio, il beneficio a tutti i beni indicati negli artt. 1, 2, e 5 della legge n. 1089/1939, nonché a quelli indicati nell’art. 36 della legge n. 1409/1963 (il rinvio è, come detto, oggi da intendersi i beni indicati negli artt. 10 ss. del Codice Urbani). Sul punto cfr. N. Pasolini Dall’Onda, Commento all’art. 13, in Commentario del Testo Unico delle imposte sulle successioni e donazioni, a cura di N. D’Amati, Padova, 1996, 131 ss. (10) Per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 5 della legge n. 512/1982, l’art. 1 della Tariffa allegata sub A) al D.P.R. n. 634/1972, prevedeva per i trasferimenti di immobili vincolati ai sensi della legge n. 1089/1939 la riduzione dell’aliquota del 50 per cento. Tale agevolazione era riconosciuta sempre che l’acquirente non venisse meno agli obblighi di conservazione e protezione che ex lege lo interessavano. L’agevolazione fu poi ripresa dall’art. 1, comma 3, della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Testo unico dell’imposta di registro), che, a fronte di un’aliquota ordinaria dell’8 per cento, dispose, per i trasferimenti degli immobili in questione, l’applicazione dell’aliquota del 4 per cento (ridotta poi al 3 per cento dall’art. 7, comma 6, della legge 23 dicembre 1999, n. 488). Sul tema cfr. Consiglio Nazionale del Notariato, Acquisto di beni culturali (Studio n. 11/2005/T) a cura di V. Mastroiacovo, in Studi e materiali, 2005, 1431 ss. (11) Per effetto delle innovazioni apportate dall’art. 3 della legge n. 512/1982, l’art. 10 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 ricomprendeva tra gli oneri deducibili dal reddito delle persone fisiche, le spese sostenute dai soggetti obbligati alla manutenzione dei beni vincolati ai sensi della legge n. 1089/1939, purché risultanti da idonea documentazione, nonché le erogazioni liberali in denaro a favore dello Stato, di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni, di associazioni legalmente riconosciute che senza scopo di lucro svolgessero o promuovessero attività di studio, di ricerca e di documentazione di rilevante valore culturale e artistico, effettuate per l’acquisto, la manutenzione, la protezione o il restauro dei beni vincolati. Sempre per effetto dell’art. 3 della citata legge n. 512/1982, l’art. 6 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 598 consentiva la deduzione dei medesimi oneri dal reddito complessivo dei soggetti IRPEG. Tale assetto normativo, rimasto sostanzialmente invariato anche dopo l’introduzione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), veniva modificato dal D.L. 31 maggio 1994, n. 330, convertito nella legge 27 luglio 1994, n. 473, che sostituiva il precedente regime di deducibilità con un nuovo regime di detraibilità dall’imposta lorda, originariamente nella misura del 27 per cento dell’onere sostenuto, poi ridotto al 22 per cento ed il fine al 19 per cento. Per tale evoluzione cfr. L. G. Pasacali, Le agevolazioni fiscali in materia di beni culturali, in il fisco, 2002, I, 3638). Attualmente, mentre per i soggetti IRPEF permane la detraibilità di tali spese, ai sensi dell’art. 15, comma 1, lett. g) ed h) del TUIR, nella misura del 19 per cento, per i soggetti passivi IRES è prevista la integrale deducibilità, ai sensi dell’art. 100, comma 2, lett. e) e f) del TUIR. Sul punto cfr. F. Pistolesi, Il ruolo delle agevolazioni fiscali nella gestione dei beni culturali in tempi di crisi, in Riv. dir. trib., 2014, I, 1223-1224; L. Iacobellis, La fiscalità per la promozione del patrimonio storico e artistico, Aa. Vv., La dimensione promozionale


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con l’introduzione di un’esenzione totale dalle imposte sui redditi per gli immobili “totalmente” adibiti ad usi culturali (12), la previsione di agevolazioni per l’aggiornamento delle rendite catastali degli altri immobili di interesse storico (13) e l’introduzione della facoltà di assolvere i propri obblighi tributari (sia in materia di imposte dirette che in materia di imposte di successione), mediante la cessione allo Stato di beni culturali (14). Negli anni seguenti il favor fiscale accordato ai beni culturali trovava conferma nell’art. 11, comma 2, della legge 30 dicembre 1991 n. 413. Qui, nell’ambito di una revisione dei criteri di tassazione dei redditi dei fabbricati locati, si introduceva, per gli immobili vincolati, la rilevanza (in luogo del canone di locazione indicato nel contratto) “in ogni caso” della rendita, determinata assumendo la più bassa delle tariffe d’estimo previste nella zona censuaria di riferimento (15). Anche l’introduzione del prelievo comunale sugli immobili, poi, salvaguardava la posizione degli edifici vincolati, dettando criteri derogatori per la determinazione della relativa base imponibile (16). La giurisprudenza costituzionale, d’altro canto, confermava la compatibilità del regime fiscale previsto per gli immobili vincolati con il principio di capacità contributiva (17), consentendo alla successiva giurisprudenza di le-

del fisco, a cura di A.F. Uricchio, M. Aulenta, G. Selicato, Bari, 2015, 362 ss. (12) Cfr. l’art. 5-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, introdotto dall’art. 1 della predetta legge n. 512/1982. (13) Per i quali l’art. 2 della legge n. 512/2018 stabiliva l’applicazione del «minore tra i coefficienti previsti per i fabbricati». (14) Cfr. l’art. 42-bis del D.P.R. n. 637/1972 (introdotto dall’art. 6 della legge n. 512/1982), oggi, riprodotto con modifiche nell’art. 39 del D.lgs. n. 346/1990 e l’art. 28-bis del D.P.R. n. 602/1973 (introdotto dall’art. 7 della predetta legge n. 512/1982). (15) Su cui cfr. M. C. Fregni, Il regime fiscale, in Aa. Vv., Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, 2006, 231 ss.; V. Mastroiacovo, Le locazioni degli immobili di interesse storico, in Rass. trib., 2002, 573 ss.; Per la possibilità di estendere tale regime anche agli immobili impiegati nell’ambito di attività imprenditoriali cfr., invece, G. Girelli, Immobili di interesse storico od artistico ed imposizione sul reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 2008, I, 459 ss. (16) Ai sensi dell’art. 2, comma 5, del D.L. n. 16/1993, convertito nella legge n. 75/1993, per gli immobili di interesse storico e artistico, vincolati ai sensi dell’art. 3 della legge n. 1089/1939, la base imponibile ai fini dell’ICI era costituita dal valore che risultava applicando alla rendita catastale, determinata mediante l’applicazione della tariffa d’estimo di minore ammontare tra quelle previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è sito il fabbricato, i moltiplicatori di cui all’art. 5, comma 2, del D.lgs. n. 504/1992. Sul tema cfr. E. D’Alfonso, L’agevolazione ICI per gli immobili di interesse storico od artistico, tra vincolo diretto ed indiretto, in Rass. trib., 2009, 260 ss. (17) Cfr. Corte Cost. 28 novembre 2003, n. 346 (in banca dati Le leggi d’Italia), la


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gittimità di escluderne la natura meramente agevolativa, e di prospettarne una ricostruzione sistematica che vedeva nel regime fiscale riservato agli immobili vincolati un vero e proprio statuto fiscale derogatorio, giustificato appunto dalla minor forza economica riconducibile al possesso di un bene vincolato (18). In tal modo, si arginavano i tentativi dell’Agenzia delle Entrate di escludere l’applicazione del peculiare regime fiscale previsto per i redditi derivanti dagli immobili vincolati anche agli edifici concessi in locazione (19).

quale ha dichiarato costituzionalmente legittimo l’art. 11, comma 2, della legge n. 413/1991, nella parte in cui prevedeva che il reddito degli immobili vincolati fosse determinato anche in caso di locazione mediante l’applicazione della minore delle tariffe d’estimo previste nella zona censuaria nella quale era collocato il fabbricato e Corte Cost. 28 novembre 2003, n. 345 (anch’essa in banca dati Le leggi d’Italia), la quale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 2, comma 5, del D.L. n. 16/2003, laddove non estendeva l’agevolazione ICI anche agli immobili vincolati di proprietà di Enti ed Istituti legalmente riconosciuti. Per un commento a tali sentenze cfr. G. Marongiu, Le agevolazioni per gli immobili di interesse storico o artistico, in Giur. trib., 2004, 312 ss.; F. D’Ayala Valva, La tutela del patrimonio storico e artistico della nazione e la funzione di stimolo della corte costituzionale, in Riv. dir. trib., II, 2004, 23 ss.; M. Procopio, Immobili di interesse storico/artistico: legittimità costituzionale del particolare trattamento tributario, ivi, 8 ss. (18) In tal senso cfr. Cass., Sez. Un., 9 marzo 2011, n. 5518, in Dir. prat. trib., 2011, 805 ss., con nota di A. D’Amora, L’ICI sugli immobili di interesse storico e artistico oggetto di interventi edilizi, e in GT- Riv. giur. trib., 2011, 471 ss., con nota di G. Salanitro, Gli immobili di interesse storico e artistico oggetto di interventi di recupero nella disciplina Ici e Irpef, ove la Corte osserva che il citato art. 11, comma 2, della legge n. 413/1991 individuava una «sorta di regime sostituivo prevedendo non un’esenzione o una riduzione d’imposta (secondo una fissata percentuale), bensì una peculiare modalità d’imposizione astrattamente determinata senza alcun rapporto con il valore reale (locativo o fondiario) del bene tassato, dato che il reddito dei predetti immobili è determinato mediante l’applicazione della minore delle tariffe d’estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato» e ciò per tenere conto del fatto che i proprietari degli immobili vincolati sostengono «costi di manutenzione così rilevanti da rendere sicuramente non determinabile il reddito effettivo». (19) Il Ministero delle Finanze, con le Circolari 10 giugno 1993 n. 7 e 30 maggio 1995, n. 154 (entrambe in banca dati Fisconline) aveva sostenuto che in caso di locazione il reddito degli immobili vincolati dovesse essere commisurato al canone di locazione, senza applicarsi quanto previsto dall’art. 11, comma 2, della legge n. 413/1991. Tale posizione, peraltro, sembrava essersi rafforzata a seguito dell’introduzione della legge n. 431/1998, le cui disposizioni si rendevano applicabili, ai sensi dell’art. 1, comma 2, anche ai contratti di locazione aventi ad oggetto immobili vincolati, purché stipulati secondo condizioni contrattuali convenute, a livello locale, dalle associazioni rappresentative della proprietà e dei conduttori (cd. canone concordato). Ebbene, l’art. 8, comma 1, della medesima legge, nello stabilire, per le locazioni di immobili siti nei Comuni ad alta densità abitativa (art. 1 del D.L. n. 551/1988, conv. nella legge. n. 61/1989), che il reddito imponibile derivante al proprietario, in base a contratto stipulato o rinnovato a seguito di accordo definito in sede locale, determinato ai sensi dell’allora art. 34 (oggi art. 37) del TUIR fosse ulteriormente ridotto del 30 per cento, sembrava implicare


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Il delineato quadro normativo garantiva, pertanto, ai beni culturali un appropriato trattamento tributario che, oltre a trovare giustificazione nella minor forza economica riconducibile al possesso di tali beni in ragione dei sacrifici imposti dall’esistenza del vincolo (20), finiva per dare attuazione al precetto posto dall’art. 9 Cost., per il quale «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica», tutelando «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». La successiva esigenza di assicurare una maggiore stabilità del bilancio pubblico, nel quadro dell’aggravarsi della crisi economico/finanziaria del debito sovrano, ha, però, imposto una manovra fondata essenzialmente sull’inasprimento della tassazione immobiliare, cui si è accompagnata una revisione del trattamento fiscale accordato agli immobili di interesse storico e artistico. Così, la reintroduzione dell’imposta locale sulla proprietà immobiliare (in precedenza abolita per le abitazioni principali) (21) ha visto una consistente riduzione dei vantaggi accordati agli immobili vincolati in sede di determinazione della base imponibile, essendo stati sostituiti i previgenti criteri derogatori con una semplice riduzione alla metà del valore su cui commisurare l’applicazione del tributo (22). Analogamente, anche la risistemazione delle aliquote previste per la tassazione indiretta dei trasferimenti immobiliari ha visto l’eliminazione della misura agevolata prevista per i trasferimenti di immobili vincolati (23).

la rilevanza fiscale del canone anche per le locazione di immobili vincolati, tant’è che la circ. 6 marzo 2001, n. 22/E (in banca dati fisconline) aveva invitato gli uffici dell’Amministrazione finanziaria a proseguire nei relativi contenziosi. Solo con la successiva Circolare 14 marzo 2005, n. 9/E (in banca dati fisconline) l’Agenzia delle Entrate ha mutato il proprio orientamento recependo le indicazioni della giurisprudenza costituzionale. (20) In tal senso si esprime anche F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano 2002, 102. (21) L’esenzione dall’ICI per le abitazioni principali, escluse quelle classificate nelle categorie catastali A1 (abitazioni di lusso), A8 (ville) e A9 (castelli) era stata disposta dal D.L. 27 maggio 2008, n. 93, convertito nella legge 4 luglio 2008, n. 126. (22) L’art. 13, comma 3, secondo periodo, lett. a) del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge 22 dicembre 2011, n. 214, con il quale il legislatore ha istituito l’Imposta Municipale Propria (IMU) a decorrere dal periodo d’imposta 2012, stabilisce una riduzione del 50 per cento della base imponibile dell’imposta «per i fabbricati di interesse storico o artistico di cui all’art. 10 del codice di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42». Sul tema cfr. M. Gaballo, Le agevolazioni fiscali nell’imposizione patrimoniale degli immobili di interesse storico-artistico, in Riv. guard. fin., 2014, 1681 ss. (23) A seguito della riforma della tassazione dei trasferimenti immobiliari a titolo oneroso (art. 10 del D.lgs. n. 23/2011 e art. 26 del D.L. n. 104/2013, convertito nella legge n. 128/2013),


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Ma, sopratutto, è stato rimeditato il previgente regime di tassazione dei redditi derivanti dagli immobili d’interesse storico, che ha visto l’abolizione del regime sostitutivo fondato sull’incondizionata rilevanza della rendita catastale determinata sulla base della minore tariffa d’estimo prevista nella zona censuaria di riferimento. Tale criterio di tassazione è stato sostituito, per gli immobili locati, con la ben più modesta agevolazione consistente nella possibilità di avvalersi di una deduzione forfettaria pari al 35 per cento del canone indicato nel contratto in luogo del 5 per cento previsto per gli altri immobili, ferma restando la necessità di commisurare comunque il prelievo sul canone qualora superiore alla rendita catastale (rivalutata del 5 per cento ma ridotta del 50 per cento) (24). Si tratta, con tutta evidenza, di misure che hanno fortemente penalizzato i proprietari di immobili vincolati e che non sono state certo adeguatamente compensate dall’introduzione di provvedimenti volti ad incentivare le erogazioni liberali a favore della cultura da parte di privati ed imprese (il cd. “Art bonus”) (25). Provvedimenti che (peraltro, solo da ultimo stabilizzati), in realtà, sembrano essersi più che altro tradotti in un potenzia-

applicabile a decorrere dal 1° gennaio 2014, il trasferimento degli immobili vincolati è soggetto ad un’imposta di registro pari al 9 per cento, con un minimo dovuto pari ad Euro 1.000,00. Le imposte ipotecarie e catastali sono invece dovute nella misura fissa pari a Euro 50,00 ciascuna. Per un commento sulla nuova disciplina cfr. E. M. Bagarotto, Note in materia di tassazione dei trasferimenti degli immobili di interesse storico artistico, in Dir. prat. trib., 2018, I, 39 ss. (24) Il nuovo regime è stato introdotto con il D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito nella legge 26 aprile 2012, n. 44. Per un commento sulla nuova disciplina si vedano le riflessioni di R. Lunelli, Attualità e prospettive del trattamento dei beni storici tutelati, in Il fisco, 2013, I, 654 ss. Da ultimo la Corte Costituzionale ha respinto l’eccezione di incostituzionalità della nuova normativa rilevandone la non irrazionalità rispetto alla precedente (cfr. Corte Cost. 5 aprile 2018, n. 72, in Il fisco, 2018, 1765 ss.). (25) L’art. 1 del D.L. n. 83/2014, convertito nella legge n. 106/2014) ha introdotto per le erogazioni liberali in denaro effettuate «per interventi di manutenzione protezione e restauro di beni culturali pubblici, per il sostegno degli istituti e dei luoghi della cultura di appartenenza pubblica», nonché, per quelle disposte a favore delle fondazioni lirico sinfoniche e degli altri enti dello spettacolo ed, infine, per le elargizioni «destinate ai soggetti concessionari o affidatari di beni» oggetto di interventi di manutenzione e restauro, la facoltà di fruire, in luogo delle ordinarie detrazioni e deduzioni previste dagli artt. 15 e 100 del TUIR, di un credito d’imposta pari al 65 per cento delle erogazioni effettuate nel 2014 e nel 2015 e del 50 per cento delle erogazioni disposte a partire dal 2016. La misura originariamente temporanea, è stata stabilizzata e resa permanente dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208 (cd. legge di stabilità 2016). Per un commento cfr. F. Pistolesi, Il ruolo delle agevolazioni fiscali nella gestione dei beni culturali in tempi di crisi, cit. 1224-1225; L. Iacobellis, La fiscalità per la promozione del patrimonio storico e artistico, cit., 368 ss.


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mento delle previgenti misure, ed i cui benefici, appaiono comunque indirizzati ai soli beni di proprietà pubblica (26). In questo contesto la misura che pare mantenere l’impatto più significativo per i proprietari di beni culturali (non solo immobili) sembra essere proprio il regime previsto in caso dei trasferimenti gratuiti sia inter vivos che mortis causa. Nel delicato momento del passaggio generazionale, infatti, l’esclusione dall’attivo ereditario dei beni sottoposti al vincolo e l’applicazione dell’imposta sulle donazioni nella sola misura fissa prevista per l’imposta di registro consentono ancora oggi il mantenimento all’interno dell’originario nucleo familiare (inteso in senso ampio) del bene culturale, evitandone la dispersione a favore di soggetti in ipotesi meno interessati (anche perché meno vincolati sul piano morale) (27) ad assicurarne una tutela appropriata (28). È quindi più che comprensibile che il legislatore, nel ridimensionare i vantaggi tributari riconosciuti ai beni culturali, abbia comunque mantenuto il peculiare trattamento previsto in occasione del passaggio generazionale, poiché esso pare rivelarsi, come ora vedremo, pienamente in linea con la ricostruzione sistematica del prelievo successorio, inserendosi con coerenza nell’ambito delle altre forme esclusione per questo previste al livello normativo. 2. L’esclusione dall’attivo ereditario dei beni culturali nella prospettiva sistematica del prelievo successorio. – L’imposta sulle successioni e donazioni è stata reintrodotta in Italia con il D.L. 3 ottobre 2006 n. 262, convertito nella legge 24 novembre 2006, n. 286. Il legislatore, nel ripristinare il prelievo, ha, come noto, adottato la tecnica del rinvio, reiterando, ove compatibili con i nuovi caratteri dell’imposta, le norme contenute nel D.lgs. n. 346/1990, nella versione vigente al 25 ottobre 2001. In particolare, il prelievo si applica

(26) Tra i pochi segnali in controtendenza rispetto al complessivo arretramento dei benefici fiscali riconosciuti agli immobili vincolati si rammenta come la delega fiscale (legge n. 23/2014), nel prevedere la revisione del sistema estimativo del catasto sul tutto il territorio nazionale, abbia previsto all’art. 2, comma 1, lett. m), per le unità immobiliari riconosciute di interesse storico e artistico siano stabilite agevolazioni «che tengano conto dei particolari e più gravosi oneri di manutenzione e conservazione, nonché del complesso dei vincoli legislativi alla destinazione, all’utilizzo, alla circolazione giuridica e al restauro». Sul punto cfr. S. Mabellini, La tutela dei beni culturali nel costituzionalismo multilivello, cit., 118. (27) Sull’efficacia dei vincoli extragiuridici rispetto a quelli giuridici si vedano le riflessioni di G. B. Ferri, Il negozio giuridico, II ed, Padova, 2004, 63 ss. (28) Tale funzione dell’esclusione dei beni culturali dall’attivo ereditario è posta in luce anche da N. Pasolini Dall’Onda, Commento all’art. 13, cit., 135.


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oggi sul valore netto delle singole quote devolute agli eredi o ai legatari, sulla base di aliquote proporzionali differenziate a seconda del grado di parentela esistente con il de cuius e tenuto conto delle franchigie disposte per i trasferimenti a favore di determinate categorie di eredi (29). L’attuale struttura dell’imposta recepisce, così, anche le innovazioni che erano state apportate al tributo poco prima della sua abrogazione disposta ad opera dell’art. 13 della legge 18 ottobre 2001, n. 383. Infatti, con l’art. 69 della legge 21 novembre 2000 n. 342, il legislatore, nel tentativo di adeguare il prelievo successorio al mutato contesto economico e sociale, aveva operato un ampio restyling delle caratteristiche del tributo, senza, tuttavia, giungere ad un’integrale rielaborazione della relativa disciplina (30). Più precisamente, con il suddetto intervento si era (come noto) proceduto all’abrogazione della previgente imposta gravante, con pesanti aliquote progressive, sul “valore globale netto” dell’asse ereditario e che, in alcuni casi, finiva addirittura per cumularsi con il prelievo sulle singole quote ereditarie (31).

(29) Più precisamente il prelievo si applica oggi con le aliquote del 4 per cento nel caso di devoluzione a favore del coniuge e dei discendenti in linea retta sul valore complessivo eccedente, per ciascun beneficiario, Euro 1.000.000,00; del 6 per cento nel caso di devoluzione a favore di fratelli e sorelle, sul valore complessivo netto eccedente, per ciascun beneficiario, Euro 100.000,00; del 6 per cento, nel caso di devoluzione ad altri parenti fino al quarto grado e agli affini in linea retta, nonché agli affini in linea collaterale fino al terzo grado; dell’8 per cento, nel caso di devoluzione a favore di altri soggetti diversi dallo Stato (cfr. art. 2, comma 48, del D.L. n. 262/2006). Di recente, la Suprema Corte ha poi escluso che, ai fini della determinazione delle franchigie (da calcolare sulla singola quota e non sull’intero attivo ereditario), si debba tenere conto delle donazioni pregresse, ritenendo inapplicabile alla nuova struttura dell’imposta le regole sul coacervo contenute nell’art. 8, comma 4, del D.lgs. n. 346/1990 (in tal senso cfr. Cass., Sez. trib., 16 dicembre 2016, n. 26050, in Riv. trim. dir. trib., 2017, 231 ss., con nota di A. Fedele, Ha ancora un senso il coacervo delle donazioni? La difficile conciliazione di dati testuali ed esigenze sistematiche; per un commento alla sentenza cfr. anche V. Mastroiacovo, La Cassazione sancisce l’abrogazione tacita del coacervo del donatum con il relictum, in Riv. dir. trib., 2017, II, 87 ss. (30) Per un commento a tale intervento normativo cfr. A. Fedele, Riforma dell’imposta sulle successioni e donazioni come esito dell’evoluzione storica del tributo, in Aa. Vv., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, 39 ss. (31) L’imposta sul valore globale netto venne introdotta con il R.D.L. 4 maggio 1942, n. 434, convertito con modif. nella legge 18 ottobre 1942, n. 1220, applicata sull’intero patrimonio indipendentemente dall’imposta di successione e da essa detraibile. Nonostante le critiche della dottrina (che rilevava l’irrazionalità di un prelievo che andava ad incidere in misura diversa su lasciti di valore uguale), l’imposta sul valore globale netto venne mantenuta anche a seguito della riforma dei primi anni settanta (legge 9 ottobre 1971, n. 825), fondendosi con l’imposta sulle successioni. La nuova imposta, infatti, venne commisurata al valore globale netto dell’asse ereditario, oltre che al valore dei singoli lasciti ove disposti a favore di parenti in linea collaterale, affini o estranei. Sul punto cfr. S. Cardarelli, Tributi successori, in Enc. dir.,


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I dubbi di legittimità costituzionale che investivano tale forma di prelievo, ironicamente definita “imposta sul morto” da Luigi Einaudi (32), seppur costantemente respinti dalla giurisprudenza della Consulta (33), avevano, infatti, suggerito al legislatore l’abrogazione dell’imposta sul valore globale netto ed il mantenimento del prelievo soltanto in funzione delle singole quote attribuite ai beneficiari del patrimonio del defunto. Contestualmente, per garantire maggiore effettività al prelievo e scongiurare il consolidarsi di pratiche elusive, la riforma del 2000 aveva introdotto peculiari criteri di tassazione delle liberalità indirette, finalizzati ad affrancare (sia pure in modo parziale) la tassazione di tali forme di erogazione dalle rigide modalità previste per le imposte d’atto (34).

Milano, XLV, 1992, 156; G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, Padova, 2008, 7; L. Salvini, L’imposta sulle successioni, in Aa. Vv., Commentario al codice civile, diretto da E. Gabrielli, Delle successioni, III, a cura di V. Cuffaro e F. Delfini, Torino, 2010, 603 ss. (32) Su cui si veda F. Serrano, L’imposta di successione nel pensiero di Luigi Einaudi, in Dir. prat. trib., 1962, I, 5 ss. (33) Cfr. Corte Cost., 19 giugno 1985, n. 147, in Giur. cost., 1975, 1376 ss.; Corte Cost., 20 marzo 1985, n. 68, in Giur. Cost., 1985, I, 478 ss.; da ultimo cfr Corte Cost., 15 dicembre 2005, n. 453 (in banca dati Le leggi d’Italia). Per una decisa critica alla giurisprudenza della Corte Costituzionale si vedano le riflessioni di G. Marongiu, Ancora dubbi di incostituzionalità sulla cosiddetta “tassa sul morto”, in Dir. prat. trib., 2007, 38 ss. (34) In particolare, l’art. 56-bis del D.lgs. n. 346/1990, subordina la tassazione delle liberalità diverse dalle donazioni non formalizzate in atto ricognitivo di donazione alle seguenti condizioni: la liberalità deve risultare da dichiarazioni rese dall’interessato nel’ambito di procedimenti diretti all’accertamento dei tributi; la liberalità deve determinare, da sola o unitamente a quelle già effettuate nei confronti del medesimo beneficiario, un incremento patrimoniale superiore all’importo di 350 milioni di lire (ma il riferimento è da intendersi alle franchigie oggi esistenti). Sul tema cfr. R Lupi, I trasferimenti non formali: dalle scelte rinunciatarie del legislatore del 1973 all’imbarazzo di quello del 2000, in Aa. Vv., L’imposta sulle successioni tra crisi e riforme, cit., 289 ss. Non sembra condivisibile, da questo punto di vista, la tesi di chi, pur nell’apprezzabile tentativo di coordinare l’art. 56-bis con l’art 1, comma 4-bis (che dispone la soggezione al prelievo delle liberalità indirette risultanti da atti soggetti a registrazione, salvo il caso di donazioni o altri liberalità collegate con atti concernenti i trasferimento di immobili o aziende soggetti all’imposta di registro o all’IVA) sostiene che le liberalità indirette potrebbero scontare il prelievo soltanto se contenute in atti soggetti a registrazione (in tal senso cfr. G. Salanitro, Brevi appunti sulla tassabilità della donazione informale, in Riv. dir. trib., 2012, II, 281 ss.; A. Busani, La tassazione delle donazioni “indirette” e delle donazioni “informali” (stipulate in Italia e all’estero), in Riv. trim. dir. trib., 2016, 554 ss.). Sul punto cfr. D. Stevanato, Le liberalità tra vivi nella riforma del diritto successorio, in Aa. Vv., L’imposta sulle successioni tra crisi e riforme, cit., 248; da ultimo G. Girelli, L’enunciazione della liberalità indiretta nell’atto di compravendita di immobili o aziende, in Riv. trim. dir. trib., 2017, 80.


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Come accennato, però, il legislatore, piuttosto che intervenire con una completa rielaborazione della disciplina, aveva preferito adottare una tecnica per così dire “ortopedica” intervenendo direttamente sulle previsioni del D.lgs. n. 346/1990, senza stravolgerne il complessivo impianto. Il risultato era la presenza di rilevanti incoerenze nella disciplina applicativa del tributo, derivanti, nello specifico, dalla necessità di adeguare alla nuova struttura del prelievo una regolamentazione in origine pensata per un tributo da commisurare sul valore globale netto dell’intero asse ereditario. Si pensi, ad esempio, alla regola sulla solidarietà dei coeredi, difficilmente compatibile con la nuova struttura del prelievo (35), o alle regole in materia di territorialità dell’imposta, orientate ad attribuire peculiare rilevanza al luogo di residenza del de cuius, laddove, nella prospettiva di un prelievo diretto a colpire l’arricchimento del beneficiario, maggiormente coerente sarebbe stata l’adozione di un criterio di rilevanza territoriale fondato sul luogo di residenza dell’erede (36). In ogni caso, si può dire che con la riforma del 2000 il prelievo sembrava aver perso quel carattere di imposta patrimoniale commisurata alla capacità contributiva espressa dal patrimonio del defunto, per diventare un prelievo diretto a colpire solo l’arricchimento del beneficiario (37). E tale struttura è stata confermata anche con la reintroduzione del prelievo ad opera del D.L. n. 262/2006. La riforma del 2000 non era invece intervenuta sulla disciplina delle esenzioni soggettive ed oggettive disposte dagli artt. 3, 12 e 13 del D.lgs. n. 346/1990. Ancora oggi, pertanto, l’art. 3, esenta i trasferimenti a favore dello Stato, delle regioni, delle provincie e dei comuni, nonché quelli a favore di enti pubblici e di fondazioni o associazioni legalmente riconosciute, che hanno come scopo esclusivo l’assistenza, lo studio, la ricerca scientifica, l’educazione, l’istruzione o altre finalità di pubblica utilità, nonché quelli a favore

(35) Così G. Falsitta, N. Dolfin, L’imposta sulle successioni e donazioni, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, XI ed., Padova, 2016, 1017-1018; sul punto cfr. anche G. Salanitro, Solidarietà tra gli eredi e cumulo delle donazioni nella nuova disciplina dell’imposta sulle successioni e donazioni, in Riv. dir. trib., 2009, I, 591 ss. (36) Così sempre G. Falsitta - N. Dolfin, L’imposta sulle successioni e donazioni, 1019; nello stesso senso anche G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, cit. 218; da ultimo sul tema cfr. A. Quattrocchi, I criteri di collegamento territoriale nell’ambito dell’imposta sulle successioni e donazioni, in Riv. trim. dir. trib., 2017, 453 ss. (37) In tal senso si veda G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, cit., 34.


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delle ONLUS (per il futuro ETS) (38) e delle fondazioni bancarie previste dal D.lgs. n. 153/1999. In tutti questi casi, l’esenzione dal prelievo è quindi giustificata dall’identità soggettiva del beneficiario. La medesima esenzione è prevista altresì per i trasferimenti a vantaggio di enti pubblici, fondazioni e associazioni, diversi da quelli ora indicati, ma disposti per le medesime finalità, nonché, a condizione di reciprocità, per gli enti pubblici, le fondazioni e le associazioni costituite all’estero. Infine beneficiano dell’esenzione anche i trasferimenti a favore di partiti politici. La fruizione del beneficio è tuttavia condizionata all’impiego, entro cinque anni, dei beni ricevuti o delle somme ricavate dalla loro alienazione per le finalità indicate dal testatore, pena l’obbligo di pagamento dell’imposta e dei relativi interessi. A seguito della reintroduzione del prelievo, poi, l’art. 1, comma 78, lett. a) della legge n. 296/2006 ha esteso l’esenzione ai trasferimenti, effettuati anche tramite patti di famiglia, a favore dei discendenti e del coniuge, di aziende e partecipazioni in società di persone o di capitali, a condizione che gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa o ne detengano il controllo per un periodo non inferiore ai cinque anni dal trasferimento. Anche in questo caso, l’esenzione dal prelievo, che risponde all’esigenza di alleggerire il carico fiscale in occasione del passaggio generazionale dell’impresa, appare condizionata dall’identità soggettiva del beneficiario del trasferimento (39). Comune alle altre forme di esenzione previste dall’art. 3 del D.lgs.

(38) Le ONLUS (organizzazione non lucrative di utilità sociale) sono state introdotte nel nostro ordinamento dal D.lgs. n. 460/1997 e beneficiano di un regime di particolare favore, in quanto, per esse non costituisce esercizio di attività commerciale lo svolgimento delle attività istituzionali nel perseguimento di esclusive finalità di solidarietà sociale (art. 150, comma 1, TUIR). Inoltre, ai sensi del comma 2, i proventi derivanti dall’esercizio di attività direttamente connesse a quelle istituzionale non concorrono alla formazione del reddito. Le ONLUS sono tuttavia destinate a confluire nella categoria degli ETS (Enti del Terzo Settore), istituita con il D.lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (cd. Codice del Terzo Settore), in attuazione della legge delega 6 giugno 2016, n. 106, con conseguente abrogazione del relativo regime tributario. Specifiche agevolazioni sono state, invece, introdotte dal nuovo Codice per gli ETS. Per quanto qui di interesse, ai sensi dell’art. 82, comma 2, del nuovo codice, non sono soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni e all’imposta ipotecaria e catastale i trasferimenti a titolo gratuito effettuati a favore degli ETS, laddove i beni ricevuti siano impiegati per lo svolgimento dell’attività statutaria ai fini dell’esclusivo perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Sul tema cfr. G. Sepio - F. M. Silvetti, Terzo settore, le agevolazioni in vigore dal 1° gennaio 2008, in Il fisco, 2017, 4052 ss.; F. Farri, Le novità fiscali del codice del terzo settore: Il regime fiscale per gli enti benefici iscritti al registro, in Riv. dir. trib., supplemento online del 2 marzo 2018. (39) Sul tema cfr. V. Mastroiacovo, L’imposizione indiretta del passaggio generazionale


Dottrina

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n. 346/1990 è, inoltre, la soggezione del beneficio alla verifica, nell’arco dei cinque anni successivi al trasferimento, dell’avvenuto conseguimento delle finalità per cui esso è attribuito. L’art. 12 del medesimo decreto esclude, invece, dall’attivo ereditario, alcuni beni in ragione delle loro caratteristiche oggettive. Come ben evidenziato, si tratta, in molti casi, di beni la cui esclusione avrebbe potuto ricavarsi già dalla disciplina generale del prelievo, il che consente di qualificare tali ipotesi alla stregua di vere e proprie “esclusioni”, piuttosto che come “esenzioni” (40). Ciò, naturalmente, ove si accolga la ricostruzione di chi vede, nelle prime, situazioni sostanzialmente estranee al presupposto del tributo e, nelle seconde, ipotesi in cui l’inapplicabilità del prelievo discende (in via eccezionale) da diverse considerazioni di politica fiscale (41). Si pensi, ad esempio, ai titoli intestati al defunto ma alienati anteriormente all’apertura della successione, come pure alle indennità assicurative che gli eredi acquisiscono iure proprio e non iure successionis. Si tratta, in entrambi i casi, di ipotesi ritenute estranee al perimetro del prelievo. Viceversa, sono tradizionalmente ricondotte alla categoria delle vere e proprie esenzioni, l’esclusione dall’attivo ereditario prevista per i titoli del debito pubblico e più in generale per i titoli di stato e, infine, per i beni di interesse storico e artistico, laddove vincolati, e per i quali il proprietario abbia assolto i conseguenti obblighi di conservazione e protezione (42). In quest’ul-

dell’azienda tra regimi agevolativi e criticità del sistema, in Aa. Vv., Corrispettività, onerosità e gratuità. Profili tributari, a cura di V. Ficari e V. Mastroiacovo, Torino, 2014, 654 ss. L’A. ricorda, peraltro, che la stessa Unione Europea, con la raccomandazione del 7 dicembre 1994 e la Comunicazione n. 98/C93/02 del 20 marzo 1998 aveva sollecitato interventi normativi diretti ad alleggerire il carico fiscale nel passaggio generazionale dell’azienda. (40) In tal senso cfr. G. Lipari, Commento all’art. 12, in Aa. Vv., Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu, C. Moschetti, IV, IVA e imposte sui trasferimenti, a cura di G. Marongiu, Padova, 2011, 1181. (41) Così S. La Rosa, Esenzione (dir. trib.), in Enc. dir., XV, Milano, 1996, 569; Sul punto da ultimo cfr. anche G. Girelli, L’enunciazione della liberalità indiretta nell’atto di compravendita di immobili o aziende, cit., 82, per il quale «la distinzione tra esclusioni ed esenzioni d’imposta si fonda sulla differenziazione tra norme volte a circoscrivere la situazione colpita dal tributo e norme che dettano una disciplina giuridica derogatoria di quella medesima situazione. Di conseguenza, mentre le esclusioni d’imposta sono rinvenibili nelle ipotesi in cui la mancata applicazione del tributo è giustificata da valutazioni di estraneità relative al tributo stesso, si è in presenza di un’esenzione nel caso in cui il beneficio fiscale mira a creare posizioni di favore, in funzione del perseguimento di determinate finalità decise dal legislatore». Mette, invece, in dubbio la possibilità di distinguere esclusioni ed esenzioni N. D’Amati, Agevolazioni ed esenzioni tributarie, in Aa. Vv., La dimensione promozionale del fisco, cit., 28. (42) In tal senso cfr. N. Pasolini Dall’Onda, Commento all’art. 13, cit., 135; G.


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timo caso, peraltro, il beneficio fiscale è subordinato al ricorrere di determinate condizioni, individuate dal successivo art. 13, tra le quali il divieto di alienazione e mutamento di destinazione prima che siano decorsi cinque anni dall’apertura della successione. Nondimeno, se non sembra dubbio che nel caso dei titoli di Stato si sia al cospetto di una vera e propria “esenzione”, per il beneficio previsto a vantaggio dei beni culturali potrebbe prospettarsi anche una diversa ricostruzione. Come già accennato, infatti, al sistema dei benefici fiscali accordato ai proprietari di beni vincolati è stata, soprattutto in passato, riconosciuta natura sostanzialmente compensativa a fronte degli oneri connessi con l’imposizione del vincolo (43). La presenza di tali oneri e limitazioni al libero godimento del bene, in buona sostanza, finirebbe per svuotare il contenuto del diritto di proprietà su di esso vantato, e quindi sulla sua capacità di esprimere un’attitudine alla contribuzione paragonabile a quella derivante dal possesso di beni non vincolati. Di qui l’opportunità di prevedere forme di riduzione del prelievo che, in questa prospettiva, soltanto indirettamente appaiono dirette ad attuare le finalità di tipo extrafiscale previste dall’art. 9 Cost. Il vincolo previsto dagli artt. 10 ss. del Codice dei Beni Culturali, d’altra parte, considerate le limitazioni che comporta alle facoltà di godimento e di sfruttamento del bene da parte del proprietario, è stato, nelle ipotesi più estreme, addirittura accostato ad un provvedimento avente natura “sostanzialmente” espropriativa. Ciò, appunto, valorizzando il concetto di “espropriazione sostanziale” che ricorrerebbe ogni qual volta, al di là della sussistenza di un provvedimento ablativo di natura formale, le concrete facoltà di godimento ed impiego della proprietà risulterebbero così menomate da non consentire di riconoscere, nella posizione del proprietario, quel contenuto minimo che caratterizza il relativo diritto (44).

Lipari, Commento all’art. 13, in Aa. Vv., Commentario breve alle leggi tributarie, cit., 1185. (43) In tal senso, come visto, si esprime anche F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, cit., 102. (44) In particolare, secondo S. Mabellini, La tutela dei beni culturali nel costituzionalismo multilivello, cit., 94-95 «Sebbene ben possa dirsi che, dal riconoscimento dell’interesse storico-artistico di un bene in proprietà privata, non scaturisca, in via immediata, una ipotesi di espropriazione, quand’anche sostanziale, deve però osservarsi che tale effetto espropriativo – in ragione dell’intensità, valutata nel caso concreto, del vincolo – non può neppure essere in via assoluta escluso». Il concetto di espropriazione sostanziale è ripreso dall’A. richiamando quella dottrina (A. M. Sandulli, Natura ed effetti dell’imposizione di vincoli paesaggistici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1961, 823 ss.; G. Santaniello, Espropriazioni anomale,


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Da questo punto di vista, non sembra esservi dubbio che gli obblighi conseguenti all’imposizione del vincolo prima sintetizzati rappresentino limitazioni assai rilevanti alle facoltà di godimento ed al potere di disposizione che, tradizionalmente, integrano il contenuto del diritto di proprietà (45). Del resto, la stessa fonte, sul piano costituzionale, dell’imposizione del vincolo è stata ravvisata nell’art. 42, comma 2, Cost. che, come noto, ammette la previsione di limitazioni all’esercizio del diritto di proprietà onde garantirne la sua “funzione sociale” (46). Funzione sociale che andrebbe rintracciata nella tutela del patrimonio storico e artistico, esigenza anch’essa elevata al rango di principio costituzionale dall’art. 9 Cost. (47) Se così è, diviene allora ragionevole immaginare che la ratio sottesa all’esclusione dall’attivo ereditario dei beni culturali sottoposti al vincolo non sia da rintracciare soltanto (o quantomeno non in via immediata) nella promozione e nella valorizzazione del patrimonio artistico, quanto, piuttosto, nel riconoscimento della minor attitudine alla contribuzione che il possesso di beni soggetti al vincolo finisce per esprimere. Si tratta, a ben vedere, di una lettura che pare trovare conferma nella ricostruzione che, sul piano sistematico, in passato anche la Corte Costituzionale (48) aveva proposto per giustificare l’esistenza di un trattamento fiscale derogatorio a vantaggio dei beni culturali soggetti al vincolo. La trasmissione di un bene culturale vincolato, in questa prospettiva, non potrebbe assurgere a presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni poiché le limitazioni connesse con la presenza del vincolo avvicinerebbero la

in Enc. dir., XV, Milano, 1966, 906) per la quale «la nozione di espropriazione può fare a meno del trasferimento, in quanto l’ablazione di facoltà, pur non producendo effetto acquisitivo – ovverosia non alterando la titolarità formale della res – ben può portare all’azzeramento dei contenuti connessi al diritto proprietario, con la conseguenza di costituire, in capo al soggetto espropriato, un diritto all’indennizzo». (45) Che la disciplina dei beni culturali rappresenti una deroga alla libera proprietà è posto in luce da G. Severini, Il concetto di bene culturale nel Testo Unico, in La nuova tutela dei beni culturali e ambientali, a cura di P.G. Ferri e M. Pacini, Milano, 2001, 26; che il bene culturale sia un “bene di interesse pubblico” è invece evidenziato da G. Grisolia, La tutela delle cose d’arte, cit., 209; A.M. Sandulli, Beni pubblici, in Enc. dir., Milano, IX, 1979, 119; Parla invece, di “beni di fruizione pubblica” M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. di pubbl., 1976, 31. (46) Sul punto cfr. G. Rolla, Beni culturali e fruizione sociale, in Aa. Vv., Scritti in onore di M.S. Giannini, II, Milano, 1988, 568. (47) In tal senso cfr. S. Mabellini, La tutela dei beni culturali nel costituzionalismo multilivello, cit., 62. (48) In tal senso le già citate Corte Cost. 28 novembre 2003, n. 346; Corte Cost. 28 novembre 2003, n. 345; così anche Cass., Sez. Un., 9 marzo 2011, n. 5518.


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posizione del proprietario a quella di un mero “custode” (49) del bene, così “escludendo” il verificarsi di quell’arricchimento che, come abbiamo visto, il legislatore ha oggi posto a fondamento del prelievo. E va detto che la coerenza di una simile ricostruzione non avrebbe potuto escludersi neppure nella configurazione dell’imposta prevista prima delle modifiche disposte con la legge n. 342/2000, ossia con un prelievo diretto, come detto, a colpire il “valore globale netto” dell’asse ereditario. Ciò perché, anche nella prospettiva di un prelievo di tipo prettamente “patrimoniale” ed a carattere tendenzialmente “reale” (50), la titolarità di un bene il cui diritto di proprietà finisce per rivelarsi, sul piano sostanziale, in buona parte svuotato nel suo contenuto, difficilmente poteva reputarsi espressivo di reale capacità contributiva. La giustificazione costituzionale del prelievo era stata, del resto, rintracciata proprio nell’art. 42, Cost., laddove, al comma 4, nell’evidente ottica di garantire il conseguimento di quella “funzione sociale” della proprietà consacrata al comma 2 della medesima disposizione, riconosce al legislatore la facoltà di individuare le forme attraverso le quali lo Stato può esercitare i propri “diritti” sulle “eredità” (51). Ma se così è, anche in questa prospettiva, un diritto di proprietà il cui esercizio si riveli, se non totalmente svuotato, comunque ampiamente compresso, finisce forse per aver già assolto quella “funzione sociale” che, in ultima analisi, pare rappresentare anche la giustificazione dell’imposta sul piano costituzionale. Tale ricostruzione teorica pare, peraltro, trovare conferma anche nella disciplina che regola le ipotesi di decadenza dal beneficio previste per chi abbia alienato, tentato di esportare senza autorizzazione, o comunque mutato la destinazione del bene prima del decorso di cinque anni dall’apertura della successione. Tali eventi, infatti, sia pure in presenza del vincolo e dell’assolvimento dei connessi obblighi di conservazione, finiscono per attestare una considerazione decisamente “economica” del bene, che si rivela apprezza-

(49) Cfr. G. Piva, Cose d’arte, in Enc. dir., XI, Milano, 1962, 119. (50) Nella già citata Ord. 15 dicembre 2005, n. 453 la Corte Costituzionale, quanto al fondamento dell’imposta sull’asse globale netto, osserva che «l’imposta sulle successioni – pur formalmente unica (…) – continua ad articolarsi (con diversità di presupposto e base imponibile) in una imposizione di carattere prevalentemente patrimoniale e reale, gravante su tutti i successori ed incidente sull’asse ereditario globale, ed in una imposizione delle quote ereditarie e dei legati, gravante soltanto sui successori cosiddetti “indiretti” ed incidente sul singolo trasferimento (o incremento) di ricchezza in favore di ciascun beneficiario». Sul punto cfr. L. Salvini, L’imposta di successione, cit., 605. (51) Sul punto cfr. S. Cardarelli, Tributi successori, cit., 166.


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bile proprio nell’ottica di quell’arricchimento che il prelievo intende colpire. Anche in questo caso, insomma, il legislatore sembra riservarsi la facoltà di verificare, nei cinque anni successivi all’apertura della successione, la coerenza del beneficio con le finalità per le quali esso è concesso (52). Ciò implica, peraltro, che, a differenza di quanto precisato (sia pure in passato) dall’Amministrazione finanziaria, laddove il trasferimento avvenga a titolo gratuito potrebbero non esservi ragioni per giustificare la decadenza dal beneficio (53). La prospettata ricostruzione porta, poi, a ritenere che, come precisato anche dalla Suprema Corte (54), rientrino nell’attivo ereditario le indennità corrisposte in caso di espropriazione del bene culturale, non ravvisandovi ragioni che, sul piano sistematico, consentano di escludere tali somme dal concetto di “arricchimento” rilevante ai fini del presupposto del prelievo. L’indennità, in altri termini, pare porsi in funzione sostituiva del beneficio fiscale accordato, come detto, proprio per compensare il proprietario del bene vincolato dalle limitazioni al suo esercizio del diritto dominicale connesse con il rispetto degli obblighi imposti con il vincolo. Maggiori dubbi sorgono invece sulla coerenza con la ricostruzione qui proposta del regime previsto per gli immobili di interesse storico non sottoposti ai vincoli anteriormente all’apertura della successione, per i quali l’art. 25, comma 2, del D.lgs. n. 346/1990 dispone una riduzione dell’imposta proporzionalmente corrispondente alla metà del loro valore. Ove si consideri, infatti, che il riconoscimento del suddetto beneficio è condizionato al completamento di una particolare procedura (dettagliatamente illustrata dalla norma) che vede il Ministero dei Beni Culturali attestare la presenza delle caratteristiche di rilevanza storica e artistica e che si conclude proprio con l’apposizione del vincolo, non si comprende appieno per quali ragioni tali beni debbano riceve-

(52) Per le ipotesi di decadenza, peraltro, l’originaria versione della norma (art. 11 del D.P.R. n. 637/1972) imponeva il pagamento dell’imposta nella misura pari a tre volte quella normale, nonché il pagamento della sanzione (non riducibile) pari a tre volte l’imposta ed il versamento degli interessi moratori. Tale disciplina, assai penalizzante e irrazionale, è stata tuttavia rimossa nel passaggio dal D.P.R. n. 637/1972 al D.lgs. n. 346/1990. Sul punto cfr. N. Pasolini Dall’Onda, Commento all’art. 13, cit., 134. (53) In senso contrario si è però espressa la prassi (cfr. circ. min. 16 marzo 1994, n. 7/E-IV-9-381, in banca dai fisconline). Sul punto cfr. G. Lipari, Commento all’art. 13, cit., 1188. (54) In tal senso Cass., Sez. trib., 25 febbraio 2008, n. 4753; Sul punto cfr. sempre G. Lipari, Commento all’art. 13, cit., 1186.


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re un trattamento deteriore rispetto ai beni per i quali il vincolo era presente al momento dell’apertura della successione (55). Nell’ottica di un prelievo diretto a colpire l’arricchimento del beneficiario, infatti, l’imposizione del vincolo dovrebbe reputarsi, per le ragioni prima evidenziate, preclusiva anche ove avvenuta dopo l’apertura della successione, facendo comunque venir meno il fondamento economico dell’imposta. A conclusioni diverse potrebbe, invece, giungersi nella prospettiva di un prelievo diretto a colpire il “valore globale netto” dell’asse ereditario, in quanto, in tal caso, essendo la capacità contributiva incisa dal prelievo riferibile al defunto piuttosto che al beneficiario, l’assenza del vincolo al momento dell’apertura della successione potrebbe condurre alla valorizzazione del bene ai fini del prelievo. Da questo punto di vista, la regola dettata dall’art. 25, comma 2, del D.lgs. n. 346/1990 potrebbe allora reputarsi una soluzione di compromesso, retaggio del previgente assetto del prelievo. Per i beni diversi dagli immobili, invece, l’assenza del vincolo comporta in ogni caso l’inclusione nell’attivo ereditario secondo le regole ordinarie. Così, anche i beni culturali, ove non vincolati, rientrano nella presunzione prevista dall’art. 9, comma 2, del D.lgs. n. 346/1990, a mente della quale si considerano compresi nell’attivo ereditario denaro, gioielli e mobilia per un importo pari al dieci per cento del valore netto dell’asse ereditario (salvo non ne risulti l’esistenza per un ammontare diverso da inventario analitico redatto ai sensi degli artt. 769 ss. cod. proc. civ.), rientrando, anch’essi, nella nozione di “mobilia” (art. 9, comma 3) (56). 3. L’oggetto del beneficio. – Poiché il beneficio dipende dalle caratteristiche oggettive del bene trasferito, non sembrano, inoltre, esservi dubbi sulla possibilità di estenderne l’applicazione anche ai trasferimenti che non si per-

(55) In tal senso si esprime anche la relazione al D.lgs. n. 346/1990, osservando una «disparità di trattamento fra beni, che vengono a trovarsi in identica situazione giuridica, sia pure in momenti diversi, ma irrilevanti in termini di capacità contributiva». La medesima relazione osserva, tuttavia, che «non si è però ravvisata la possibilità, nell’ambito della delega, di porvi rimedio in sede di testo unico». Tale disparità di trattamento è rilevata anche da E. Altana, L. Silvestri, L’imposta sulle successioni e donazioni nel testo unico, Milano 1991, 351; G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, cit., 203; Sul punto cfr. anche G. Lipari, Commento all’art. 13, cit., 1186. (56) Sulle presunzioni previste dall’art. 9 del D.lgs. n. 346/1990 si veda F. Maffezzoni, Delle presunzioni di esistenza di gioielli, denaro e mobilia nell’applicazione dei tributi successori, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1967, II, 223.


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fezionano per il tramite degli ordinari strumenti offerti dall’ordinamento per consentire il passaggio generazionale della ricchezza, ma con l’impiego di forme giuridiche più complesse. Il pensiero va ad istituti di origine straniera o di recente elaborazione quali il trust (57), al contratto di affidamento fiduciario (58), ma anche al vincolo di destinazione ex art. 2645-ter del cod. civ. (59) Si tratta, in effetti, di istituti che ben si prestano ad essere impiegati per pianificare il passaggio generazionale di patrimoni caratterizzati dalla presenza di beni culturali di rilevante entità. Ad esempio, l’affidamento di un immobile o di una collezione di rilevante interesse storico ed artistico ad un trustee o ad un affidatario fiduciario può rappresentare una valida opzione per garantirne una gestione efficiente ed al riparo da possibili conflitti tra coeredi (60). D’altra parte, l’indicazione, nell’atto istitutivo del trust, o del contratto di affidamento fiduciario, dei discendenti quali beneficiari finali del patrimonio segregato può consentire, in prospettiva, il mantenimento dei beni all’interno del nucleo familiare, evitandone la dispersione a favore di estranei.

(57) Su tale istituto, riconosciuto dall’ordinamento italiano per effetto della Convenzione dell’Aia del 1° luglio 1985, ratificata dall’Italia con la legge 9 ottobre 1989, n. 364, ed entrata in vigore il 1° gennaio 1992, si vedano, senza pretese di completezza, M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008; Id, Trusts, Milano, 2001, 7 ss.; A. Gambaro, Trust, in Dig. disc. priv. sez. civ., Torino, 1999, XIX, 449 ss.; L. Santoro, Il trust in Italia, Milano, 2009. Sul regime fiscale cfr. T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, Pisa, 2012. (58) Cfr. M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, cit., 219 ss.; Id., Il contratto di affidamento fiduciario, in Trusts e attività fiduciarie, 2012, 585 ss.; Id., Il contratto di affidamento fiduciario, in Riv. not., 2012, I, 513 ss.; L’elaborazione dell’istituto è stata poi portata a compimento dallo stesso A. con la fondamentale opera monografica Il contatto di affidamento fiduciario, Milano 2014. Tale modello negoziale viene, inoltre, espressamente richiamato dall’art. 1, comma 3, della legge 22 giugno 2016, n. 112 (cd. legge sul “Dopo di noi”), con il quale il legislatore ha inteso agevolare la costituzione di trust, di vincoli di destinazione di cui all’articolo 2645-ter del cod. civ. e di fondi speciali, composti di beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario. Per un’analisi della disciplina fiscale di tali fondi si veda G. Giusti, Il regime fiscale del contratto di affidamento fiduciario: riflessi impositivi di un nuovo modello negoziale, in Riv. dir. trib., 2016, I, 372 ss. (59) Sulla disciplina civilistica degli atti di costituzione di vincoli di destinazione cfr. M. Nuzzo, Atto di destinazione ed interessi meritevoli di tutela, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, a cura di M. Bianca, Milano, 2007, 68 ss.; M. Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova, 1996; C. Scognamiglio, Negozi di destinazione e altruità dell’interesse, in Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 357-2012/C, 80 ss. (60) Sulle possibili applicazioni del trust per la protezione e la trasmissione dei beni culturali cfr. N. Canessa, Trust e beni culturali, in Trusts e attività fiduciarie, 2008, 90 ss.


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Ebbene, volendo, in questa sede, prescindere dai problemi che si pongono per l’individuazione del momento impositivo riferibile alla tassazione indiretta degli atti di destinazione (che si tende ora a ravvisare, pur non senza incertezze, nel momento della definitiva attribuzione dei beni ai beneficiari) (61), non sembra comunque esservi dubbio che, nel caso di beni vincolati, la soggezione al prelievo sugli atti gratuiti in misura diversa da quella fissa debba reputarsi comunque esclusa alla luce di quanto previsto dall’art. 59 del D.lgs. n. 346/1990. Sotto altro profilo, in passato si era, inoltre, ipotizzato che, ove oggetto del trasferimento fosse un immobile vincolato, l’esclusione dall’attivo ereditario contemplata dall’art. 12, comma 1, lett. g) dovesse estendersi anche all’applicazione delle imposte ipotecarie e catastali. A tale conclusione si era giunti valorizzando il rinvio operato dall’art. 2 del D.lgs. n. 347/1990 alle disposizioni relative all’imposta sulle successioni e donazioni per la determinazione della

(61) Come noto, in un primo momento la Corte di Cassazione aveva individuato nell’imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione un’autonoma fattispecie di prelievo indipendente dall’arricchimento del beneficiario e diretta colpire la manifestazione di capacità contributiva rappresentata dal valore dell’utilità della quale il disponente, stabilendo che sia sottratta all’ordinario esercizio delle proprie facoltà proprietarie, finisce con l’impoverirsi. In tal senso cfr. Cass. Sez. VI, Ord. 24 febbraio 2015, n. 3735; Cass., Sez. VI, Ord. 24 febbraio 2015, n. 3737; Cass., Sez. VI, Ord. 25 febbraio 2015, n. 3886, tutte in banca dati Le leggi d’Italia. Per un commento alle ordinanze cfr. T. Tassani, Sono sempre applicabili le imposte di successione e donazione sui vincoli di destinazione?, in Il fisco, 2015, 1957 ss.; D. Stevanato, La “nuova” imposta sui vincoli di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione, in GT – Riv. giur. trib., 2015, 397 ss. Successivamente, una più recente giurisprudenza (Cass., Sez. trib., 26 ottobre 2016, n. 21614, in Riv. dir. trib., 2017, II, 43 ss., con nota di A. Fedele, Vincoli di destinazione: scelte legislative inadeguate determinano un conflitto interpretativo tra le sezioni della Suprema Corte e di C. Scalinci, Dalla pigra macchina legislativa al dietrofront della Cassazione sull’esistenza di un’imposta «sulla costituzione dei vincoli di destinazione»), sia pur pronunciandosi sull’applicazione delle imposte ipotecarie e catastali, ha smentito l’esistenza di un autonomo presupposto impositivo nella mera costituzione del vincolo non accompagnata dalla devoluzione dei beni ai beneficiari finali. Sul tema si veda da ultimo anche Cass. Sez. trib., 17 gennaio 2018, n. 975 (in banca dati Le leggi d’Italia). Per un commento cfr. E. M. Bartolazzi Menchetti, Il contributo della Cassazione al chiarimento della disciplina del trust nelle imposte indirette, in Riv. dir. trib., supplemento online del 29 gennaio 2018. Va tuttavia segnalato come, con ancor più recente pronuncia, la giurisprudenza di legittimità sia tornata sulla questione, ravvisando (forse piuttosto incoerentemente con quanto affermato nel più recente orientamento) anche nel trasferimento dei beni al trustee di un trust di tipo liquidatorio non autodichiarato, il presupposto per l’applicazione dell’imposta, valorizzando, in tal caso la natura traslativa del vincolo in grado di far emergere la “potenziale” capacità economica del destinatario del trasferimento (così Cass., Sez. trib., 30 maggio 2018, n. 13626, in banca dati Le leggi d’Italia).


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base imponibile qualora il trasferimento inter vivos o mortis causa fosse stato esente ai fini di tale tributo (62). Quanto all’imposta ipotecaria, l’art. 2 del predetto decreto, infatti, stabilisce, al comma 1, che «L’imposta proporzionale dovuta sulle trascrizioni è commisurata alla base imponibile determinata ai fini dell’imposta di registro o dell’imposta sulle successioni e donazioni», mentre il successivo comma 2, precisa che «Se l’atto o la successione è esente dall’imposta di registro o dall’imposta sulle successioni e donazioni o vi è soggetta in misura fissa, la base imponibile è determinata secondo le disposizioni relative a tali imposte». Quanto all’imposta catastale, infine, l’art. 10, comma 1, dispone che «Le volture catastali sono soggette all’imposta del 10 per mille sul valore dei beni immobili o dei diritti reali immobiliari determinato a norma dell’art. 2» (63).

(62) Cfr. Comm. trib. prov. di Belluno, Sez. III, 17 aprile 2000, n. 13 e Comm. trib. reg. Toscana, Sez. XXX, 28 settembre 2005, n. 60, entrambe in Banca Dati BIG, IPSOA. (63) Per i trasferimenti di immobili vincolati soggetti ad imposta di registro, invece, la giurisprudenza di merito (cfr. Comm. Trib. Reg., Venezia, Sez. XXX, 28 aprile 2005, n. 9; Comm. Trib. Prov., Venezia, Sez. I, n. 52/1/2004, entrambe in banca dati Fisconline Commissioni Tributarie) aveva ritenuto applicabili le imposte ipotecarie e catastali nella sola misura fissa alla luce di quanto previsto dall’art. 10, comma 2, del D.lgs. n. 347/1990, a mente del quale l’imposta catastale è dovuta in misura fissa per le volture «eseguite in dipendenza di atti di cui all’art. 1, comma 1, quarto e quinto periodo, della tariffa, parte prima, allegata al T.U. delle disposizioni concernenti l’imposta di registro approvato con D.P.R. 28 aprile 1986, n. 131» e dalla nota riportata in calce all’art. 1, della tariffa allegata al D.lgs. n. 347/1990, che stabilisce l’applicazione dell’imposta catastale in misura fissa per «i trasferimenti soggetti all’imposta sul valore aggiunto, nonché per quelli di cui all’art. 1, comma 1, quarto e quinto periodo, della tariffa, parte prima, allegata al testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, approvata con D.P.R. 28 aprile 1986, n. 131». Ebbene, poiché il quarto periodo dell’art. 1 della tariffa allegata al T.U. n. 131/1986, fino alle modifiche operate con l’art. 10 del D.lgs. n. 23/2011, richiamava i trasferimenti aventi ad oggetto proprio i beni vincolati ai sensi della legge n. 1089/1939, si era detto che il coordinamento testuale tra tale norma e le disposizioni in materia di imposte ipotecarie e catastali prima richiamate, avrebbe giustificato l’applicazione in misura fissa di tali ultimi tributi. Tale interpretazione era stata, tuttavia, sconfessata dall’Amministrazione finanziaria (circ. 14 giugno 2002, n. 52/E, in banca dati fisconline), secondo la quale la posizione dell’art. 1, quarto periodo, della Tariffa, parte prima, allegata al T.U. n. 131/1986 era il frutto di uno “slittamento” derivante dalla modifiche operate con l’art. 7, comma 7, della legge n. 488/1999 (prima del quale sarebbe stato il terzo periodo), il che avrebbe comportato la necessità di continuare ad applicare ai trasferimenti di immobili vincolati le imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale. Tale posizione è stata condivisa anche dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. tra le altre Cass., 7 ottobre 2015, n. 20054; Cass., 3 febbraio 2016, n. 2101, entrambe in banca dati Le leggi d’Italia) la quale ha qualificato il rinvio all’art. 1, quarto periodo, della Tariffa, parte prima, allegata al T.U. n. 131/1986, come rinvio “statico” e quindi non influenzato dalle modifiche della norma


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Pertanto, poiché gli artt. 12, lett. g) e 13 del D.lgs. n. 346/1990 escludono i beni culturali dall’attivo ereditario, e, di conseguenza, dalla base imponibile dell’imposta sulle successioni, ciò avrebbe dovuto implicare anche l’inapplicabilità delle imposte ipotecarie e catastali, posto che, ai sensi del citato art. 2 del D.lgs. n. 347/1990, la base imponibile di tali tributi avrebbe dovuto in questo caso determinarsi proprio sulla base di un rinvio alle regole dettate per il calcolo della base imponibile dell’imposta sulle successioni. Tuttavia, la Suprema Corte ha respinto tale impostazione, precisando che l’esenzione prevista per l’imposta sulle successioni non si “comunica” anche alle altre imposte che pur facendo richiamo alla sua base imponibile, mantengono un autonomo presupposto. L’indice di capacità contributiva colpito dalle imposte ipotecarie e catastali sarebbe, infatti, diverso da quello colpito dall’imposta sulle successioni, dovendosi, di conseguenza, escludere che il rinvio operato dal predetto art. 2 del D.lgs. n. 347/1990 possa includere disposizioni incompatibili con la disciplina che dispone il rinvio. Pertanto, in mancanza di norme analoghe a quelle previste dagli artt. 12, lett. g) e 13 del D.lgs. n. 346/1990 non sarebbe possibile estendere il sistema delle agevolazioni pensate per l’imposta sulle successioni al diverso prelievo sulle trascrizioni ipotecarie e sulle volture catastali (64). Tali conclusioni, pur con tutta probabilità corrette sul piano del coordinamento testuale tra i due sistemi normativi, potrebbero, tuttavia, ritenersi suscettibili di ripensamento (quantomeno in una prospettiva de iure condendo) considerando che anche la più recente giurisprudenza di legittimità sembra aver posto in luce il rapporto di “connessione” sussistente tra le imposte ipotecarie e catastali e l’imposta sulle successioni e donazioni (ma analogo rapporto deve ritenersi sussistente con l’imposta di registro). Parte della più recente giurisprudenza sull’imponibilità della costituzione dei vincoli di destinazione, ad esempio, sembra aver posto in luce che, in assenza di un arricchimento reale ed effettivo del beneficiario, non possa ammettersi non solo la soggezione al prelievo proporzionale sugli atti gratuiti, ma anche la soggezione all’imposta proporzionale prevista per le trascrizioni ipotecarie e catastali. La casisti-

richiamata. Sul punto si veda E. M. Bagarotto, Note in materia di tassazione dei trasferimenti degli immobili di interesse storico artistico, cit., 43-44. (64) In tal senso cfr. Cass., Sez. trib., 16 aprile 2017, n. 8977, in Corr. trib., 2007, 2122, con nota adesiva di V. Mastroiacovo, L’esenzione dei beni culturali dal tributo successorio non riguarda le imposte ipocatastali. Più di recente cfr. Cass., Sez. trib., 14 gennaio 2016, n. 2098 e Cass., Sez. trib., 15 dicembre 2010, n. 25366, entrambe in banca dati Le leggi d’Italia.


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ca esaminata in alcune recenti sentenze, nell’aver escluso la rilevanza fiscale dell’atto di destinazione del bene al momento della costituzione del vincolo, si è pronunciata proprio in riferimento alle imposte ipotecarie e catastali, essendosi soffermata su casi nei quali l’imposta sulle successioni e donazioni si era resa inapplicabile (65). In altri termini, sia pur senza voler privare le imposte ipotecarie e catastali della loro autonomia, riducendole a delle mere “sovraimposte” (66), non potrebbe negarsi, per dirla con la dottrina (67), una certa “contiguità” con il prelievo “principale”, con la conseguenza di dover rintracciare nella manifestazione di capacità contributiva assunta a fondamento dell’imposta sulle successioni o dell’imposta di registro anche il presupposto delle imposte proporzionali sulle trascrizioni ipotecarie e catastali (68). Conseguentemente, laddove la disciplina del prelievo “principale” contempli forme di esclusione (e non di mera esenzione) che vadano a definirne la stessa manifestazione di capacità contributiva, le stesse dovrebbero forse

(65) In tal senso, Cass., Sez. trib., 26 ottobre 2016, n. 21614, la quale ha affermato il seguente principio di diritto: «L’istituzione di un trust cosiddetto “autodichiarato”, con conferimento di immobili e partecipazioni sociali, con durata predeterminata o fino alla morte del disponente-trustee, con beneficiari i discendenti di quest’ultimo, deve scontare l’imposta ipotecaria e quella catastale in misura fissa e non proporzionale, perché la fattispecie si inquadra in quella di una donazione indiretta cui è funzionale la “segregazione” quale effetto naturale del vincolo di destinazione, una “segregazione” da cui non deriva quindi alcun reale trasferimento di beni e arricchimento di persone, trasferimento e arricchimento che dovrà invece realizzarsi a favore dei beneficiari, i quali saranno perciò nel caso successivamente tenuti al pagamento dell’imposta in misura proporzionale». Anche la dottrina, d’altro canto, ha evidenziato che «Anche nel caso delle imposte ipotecaria e catastale, infatti, è necessario che il presupposto d’imposta sia manifestativo di capacità contributiva, con la conseguenza che nel caso di trasferimento di beni dal disponente al trustee, l’arricchimento, che è presupposto anche delle imposte ipotecaria e catastale, non sorga e che, pertanto, non sia corretta una tassazione in misura proporzionale» (così C. Buccico, Problematiche fiscali per l’imposizione indiretta dei trust, in Dir. prat. trib., 2016, I, 2381-2382). Sulla stessa linea anche le precedenti Cass., Sez. trib., 18 dicembre 2015, n. 25478, Cass., Sez. trib., 18 dicembre 2015, n. 25479 e Cass., Sez. trib., 18 dicembre 2015, n. 25480 anch’esse in banca dati Le leggi d’Italia. Si veda però, come abbiamo detto, la più recente Cass., Sez. trib., 30 maggio 2018, n. 13626, la quale ha valorizzato la distinzione tra vincoli con effetti traslativi e non, ravvisando, per i primi, il presupposto per l’applicazione dell’imposizione indiretta prescindendo da un’accurata indagine sull’effettivo arricchimento del beneficiario. (66) Così A. Fedele, Ipoteca (dir. trib.), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 856. (67) In tal senso E. M. Bartolazzi Menchetti, Qualificazione dell’atto di trasferimento dei beni al trustee nelle imposte sui trasferimenti, in Aa. Vv., Corrispettività, onerosità e gratuità. Profili tributari, a cura di V. Ficari e V. Mastroiacovo, cit., 156. (68) Cfr. A. Fedele, Ipoteca (dir. trib.), cit., 855.


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riflettersi anche sulla disciplina dell’imposta “accessoria”, influenzandone le relative regole di definizione del presupposto. Il che, in definitiva, porterebbe ad escludere che laddove, per tali ragioni, l’imposta di successione non trovi applicazione, il prelievo sulle formalità ipotecarie e catastali possa trovare spazio in misura diversa da quella fissa. Proseguendo l’esame del perimetro oggettivo di applicazione del trattamento riservato ai beni culturali nel prelievo sulle successioni e donazioni, va poi ricordato come, in linea (in tal caso) con quanto osservato dalla giurisprudenza di legittimità (69) e di recente confermato dalla giurisprudenza costituzionale (70), l’esclusione dall’attivo ereditario per i beni culturali si renda applicabile soltanto in presenza del vincolo diretto disciplinato dagli artt. 10 ss. del Codice dei Beni Culturali, e non anche in presenza del “vincolo indiretto”, contemplato dall’art. 45, comma 1, del medesimo codice. Qui si prevede, come noto, la facoltà, per l’Amministrazione, di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce e ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro. Tale vincolo non si dirige, in via diretta, nei confronti di beni di interesse storico ed artistico, ma nei confronti di altri beni che siano, rispetto ad essi, posti in una relazione di prossimità (71). Non sembra dubitabile, però, che gli obblighi e le limitazioni che insistono sui beni sottoposti a vincolo indiretto non possano essere equiparati a quelli che gravano sui proprietari dei beni soggetti a vincolo diretto (72), il che, nella

(69) Cfr. Cass., Sez. trib., 14 marzo 2008, n. 6952, in banca dati Le leggi d’Italia. (70) In tal senso cfr. Corte Cost., 20 maggio 2016, n. 111, in Riv. dir. trib., 2016, I, 311 ss. con nota di S. Giorgi, Immobili “culturali”: la ratio dell’agevolazione secondo la Consulta nell’assenza dell’art. 9 Cost. (71) Sulla natura strumentale dei vincoli indiretti rispetto ai vincoli diretti i si vedano S. Mabellini, La tutela dei beni culturali nel costituzionalismo multilivello, cit., 92; A. Mansi, Il nuovo testo unico per i beni culturali e ambientali, Padova, 2000, 99. (72) In tal senso si è espressa la Corte Costituzionale, osservando che «Anche la soggezione di determinati beni a prescrizioni di tutela indiretta, a protezione dei beni di interesse culturale contigui o prossimi, può fare insorgere, in capo ai loro titolari, vincoli e oneri. Si tratta tuttavia di oneri strutturalmente diversi da quelli che ricadono sul proprietario del bene di diretto interesse culturale. Solo in questo secondo caso, oggetto di protezione è direttamente il bene, che il proprietario è obbligato a preservare (in adempimento di una pluralità di “obblighi positivi” di conservazione, definiti agli artt. 30, 32, 33 e 34 del D.lgs. n. 42/2004) con le sue caratteristiche intrinseche, nella sua integrità e originalità; ciò che normalmente richiede impegno costante e l’impiego di specifiche tecniche e metodi di intervento manutentivo, e che può comportare,


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prospettiva ricostruttiva qui proposta, non può che riflettersi sul trattamento fiscale applicabile. Non sarebbe ragionevole, insomma, escludere, dall’attivo ereditario, beni, il cui possesso, in ragione del carattere attenuato del vincolo su di essi imposto, si riveli comunque espressione di ricchezza per il proprietario. Piuttosto, come da altri posto in evidenza, la presenza di un vincolo indiretto potrebbe rappresentare la fonte per l’introduzione di misure fiscali ad hoc che tengano conto della natura e dell’intensità del sacrificio imposto ai proprietari di tali beni, nell’ottica anche qui di promuovere le finalità espresse dall’art. 9 Cost. (73) Misure, tuttavia, che, per le considerazioni anzidette, dovrebbero essere opportunamente differenziate rispetto a quelle previste per i beni soggetti a vincolo diretto. Un tema, invece, che non pare essere stato adeguatamente esplorato riguarda la possibilità di estendere l’esclusione dall’attivo ereditario contemplata dagli artt. 12, lett. g) e 13 del D.lgs. n. 346/1990 anche ai beni culturali (ad esempio immobili) detenuti all’estero e vincolati secondo i regimi di tutela esistenti nelle rispettive giurisdizioni. Ciò, forse, perché, ove si rintracci nella tutela del patrimonio artistico della nazione la finalità delle norme ora richiamate, non parrebbero esservi giustificazioni per estenderne l’applicazione anche a beni che, situati al di là dei confini nazionali, non possono che risultare estranei alla descritta finalità. Tuttavia, non si può non osservare che, per altre forme di esenzione dal prelievo, sia di carattere soggettivo che di carattere oggettivo, a seguito dell’avvio di procedure di infrazione da parte dell’Unione Europea, il legislatore sia dovuto intervenire per evitare discriminazioni non tollerate dal diritto comunitario (74). Si ricorda, in particolare, che l’art. 8, comma 1, lett. a)

e di regola comporta, spese particolarmente ingenti. Nel caso di un bene solo indirettamente vincolato, invece, oggetto di protezione non è il bene stesso, in sé considerato, ma è il contesto ambientale o di prospettiva nel quale l’immobile di interesse si inserisce, e a garanzia del quale l’amministrazione può imporre, a carico dei beni in esso ricadenti, prescrizioni di vario tipo, ma non certo assimilabili al generale obbligo conservativo del bene culturale vero e proprio» (cfr. Corte Cost. 20 maggio 2016, n. 111). (73) Così S. Giorgi, Immobili “culturali”: la ratio dell’agevolazione secondo la Consulta nell’assenza dell’art. 9 Cost., cit., 335 ss. (74) Cfr. le procedure di infrazione n. 2012/2156 e n. 2012/2157. Sul punto si veda M. Gaballo, Le imposte sui trasferimenti di ricchezza, in G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario. Il sistema dei tributi, Padova, 2015, 364.


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della legge 30 ottobre 2014, n. 161 (75) ha esteso le agevolazioni previste in caso di devoluzione di beni a favore di enti pubblici, associazioni, fondazioni ed ONLUS (in futuro ETS) anche agli analoghi enti istituiti negli altri Stati dell’Unione e negli Stati aderenti all’accordo relativo allo Spazio Economico Europeo (SEE). Con il medesimo intervento normativo, peraltro, l’esenzione prevista per i titoli di Stato ed i titoli del debito pubblico è stata estesa ai titoli corrispondenti emessi dagli Stati dell’Unione o dagli Stati aderenti all’accordo SEE. Allo stesso modo, in passato si è anche posto in luce il possibile contrasto con il diritto dell’Unione, dell’esenzione prevista per il passaggio generazionale di aziende e partecipazioni di controllo, rilevandosi che l’assenza di una previsione volta ad estendere il beneficio anche alle aziende e le partecipazioni detenute negli altri Stati membri potrebbe portare a reputare discriminatoria l’agevolazione concessa (76). Sembra, invece, più difficile immaginare che l’aver circoscritto ai soli beni culturali esistenti nel territorio dello Stato l’esclusione dall’attivo ereditario possa reputarsi scelta censurabile per contrasto con il diritto dell’Unione, non venendo qui in rilievo interessi riferibili allo sviluppo del mercato comune (77). Tuttavia, alla luce della ricostruzione teorica qui proposta, la scelta

(75) “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea” (cd. Legge Europea 2013-bis). (76) Secondo G. Zizzo, I trasferimenti di azienda e partecipazioni sociali per successioni e donazione, in Corr. trib., 2007, 1351 ss., «Quanto alle partecipazioni in società non residenti, la loro estraneità al beneficio ben potrebbe riflettere il disinteresse dell’ordinamento italiano per le sorti di aziende situate al di fuori del suo territorio, ancorché controllate da soggetti residenti in Italia». L’A. aggiunge, però, che «Se la partecipata risiede in uno Stato membro dell’Unione europea, tuttavia, in questo disinteresse potrebbe essere ravvisato una restrizione alla libertà di stabilimento assicurata dal Trattato CE (art. 43), collocando i residenti in Italia, che esercitano direttamente o indirettamente (mediante società controllate) attività d’impresa nel territorio di un altro Stato membro in una posizione deteriore rispetto a quelle dei residenti che le medesime attività svolgono direttamente o indirettamente nel territorio italiano». (77) L’interesse dell’Unione Europea rispetto ai beni culturali è stato definito “indiretto”, in quanto l’unica disposizione dei Trattati originari che contenesse un riferimento alla cultura era l’art. 36 TFUE, diretto a preservare le esigenze culturali degli Stati membri mediante l’ammissione di deroghe alla libera circolazione delle merci giustificate dall’esigenza di tutelare il patrimonio storico e artistico degli Stati membri. In passato la Corte di Giustizia, equiparando i beni culturali agli altri beni sul mercato, ha ritenuto che gli stessi non potrebbero sottrarsi agli obblighi contenuti nei Trattati (in tal senso cfr. CGCE, 10 dicembre 1968, Causa 7/68). Tuttavia, tale equiparazione è stata posta in dubbio sia dalla dottrina (P. Petraroia, I patrimoni culturali nazionali e la loro protezione nel mercato interno europeo, in A. Maresca


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del legislatore, pur motivata dall’esigenza di promuovere la valorizzazione e la conservazione del solo patrimonio culturale della nazione, potrebbe rivelarsi meritevole di un ripensamento. Abbiamo visto, infatti, che l’esclusione dall’attivo ereditario per i beni culturali si giustifica come misura compensativa per gli obblighi e le limitazioni derivanti dalla presenza del vincolo, la cui ampiezza finisce, nella sostanza, per escludere il verificarsi di quell’arricchimento che rappresenta l’indice di capacità contributiva che il prelievo successorio intende colpire. Ma se così è, laddove il bene culturale sia, all’estero, destinatario di provvedimenti amministrativi che comportino la presenza di limitazioni e obblighi analoghi a quelli previsti dal vincolo istituito ai sensi degli artt. 10 ss. del Codice dei beni culturali, l’estensione, anche a tali beni, di quanto previsto dagli artt. 12, lett. g) e 13 del D.lgs. n. 346/1990 (magari a condizioni di reciprocità) (78) potrebbe rivelarsi scelta non priva di razionalità.

Compagna, P. Petraroia, Beni culturali e mercato europeo. Norme sull’esportazione nei Paesi della Comunità, Roma, 1991, 40 ss.), sia dal Consiglio d’Europa, che nella Recommendation 1072 (1988) “On the intenational protection of culutural property and the circulation of works of art” afferma «concept of cultural ad artistic property that is different from the concept of other goods traded». Da ultimo si veda l’art. 64-bis del Codice Urbani, per il quale, «con riferimento al regime di circolazione internazionale, i beni culturali non sono assimilabili a merci». Su tali profili cfr. S. Mabellini, La tutela dei beni culturali nel costituzionalismo multilivello, cit., 22. (78) L’esclusione dall’imposta di successione per i beni culturali non rappresenta, invero, un unicum del nostro ordinamento, ma si riscontra anche in altre esperienze giuridiche. Rileva, ad esempio, F. Pistolesi, Il ruolo delle agevolazioni fiscali nella gestione dei beni culturali in tempi di crisi, cit., 1218-1219, che «Quanto poi alle imposte di successione, che possono incidere notevolmente sulla permanenza in mano ai privati degli immobili culturali, si registra una fondamentale distinzione tra Paesi che non prevedono agevolazioni ad hoc (quali il Belgio e la Danimarca), Paesi che favoriscono il passaggio generazionale dei beni culturali in quanto tali (…) e, infine, Paesi che riducono l’imposizione – o rendono il beneficio fiscale più consistente – qualora tali beni siano aperti al pubblico (si possono ricordare i casi della Germania, dove il trasferimento mortis causa di immobili culturali è soggetto ad imposta solo per il 60 per cento del valore, mentre è del tutto esente se essi sono visitabili da pubblico, o della Francia, che accorda l’esenzione per i trasferimenti di immobili che, in base ad un accordo tra proprietari ed autorità pubblica competente, sono aperti al pubblico per un determinato numero di giorni l’anno». Sarebbe pertanto possibile immaginare, anche attraverso una revisione degli accordi contro le doppie imposizioni che estendono il loro ambito di applicazione all’imposta di successione, l’inserimento di previsioni finalizzate al mutuo riconoscimento dei benefici riservati ai beni culturali nel passaggio generazionale. Per una rassegna delle convezioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia applicabili anche all’imposta di successione cfr. A. Quattrocchi, I criteri di collegamento territoriale nell’ambito dell’imposta sulle successioni e donazioni, cit., 461.


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4. Profili procedurali. – Un sintetico sguardo meritano anche gli adempimenti procedurali prescritti dall’art. 13 del predetto D.lgs. n. 346/1990 perché i beni culturali vincolati caduti in successione possano beneficiare dell’esclusione dall’attivo ereditario. La norma come accennato, condiziona la fruizione del beneficio al rispetto di particolari condizioni di carattere procedurale, la cui funzione non deve essere, tuttavia, eccessivamente sopravvalutata. Non sembra, infatti, ammissibile che l’assolvimento di adempimenti di carattere più formale che sostanziale possa condizionare l’accesso ad un trattamento la cui natura, per come qui prospettata, sembra essere di vera e propria esclusione e non di mera esenzione dal prelievo (79). Così l’art. 13, comma 2, del D.lgs. n. 346/1990 impone, anzitutto, all’erede o al legatario che intenda avvalersi del beneficio, la presentazione di un inventario dei beni che egli ritiene non debbano essere ricompresi nell’attivo ereditario, con la descrizione particolareggiata degli stessi ed ogni altra notizia utile per la loro identificazione. Tale inventario deve essere inoltrato al competente organo periferico del Ministero dei beni culturali e ambientali, il quale deve attestare, per ogni bene, l’esistenza del vincolo e l’assolvimento degli obblighi di conservazione e protezione. L’attestazione deve essere presentata all’Ufficio in allegato alla dichiarazione di successione, o in assenza di altri beni, comunque entro i termini di presentazione della stessa. Laddove l’attestazione non sia rilasciata in tempo utile per essere allegata alla dichiarazione (o comunque inviata entro i termini di presentazione della stessa), l’art. 30, comma 6, ammette l’allegazione della richiesta di rilascio e, rinviando a quanto previsto dall’art. 23, comma 4, in materia di dimostrazione dei debiti, consente di provare, entro tre anni dall’apertura della successione, la presenza dei requisiti richiesti per l’esclusione dall’attivo ereditario dei beni vincolati. In passato, l’Amministrazione finanziaria aveva, inoltre, precisato che l’erede, laddove non avesse ottenuto l’attestazione entro il termine previsto, avrebbe comunque dovuto assolvere il tributo includendo il bene culturale nell’attivo ereditario, fermo restando il diritto al rimborso nel caso di successivo rilascio dell’attestazione e fatta salva l’ipotesi in cui la stessa venisse

(79) L’esigenza di non condizionare ad adempimenti formali la fruizione di regimi di esclusione dal prelievo è posta in luce anche da G. Girelli, L’enunciazione della liberalità indiretta nell’atto di compravendita di immobili o aziende, cit., 84.


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rilasciata prima della notifica dell’avviso di liquidazione (80). Si tratta, con tutta evidenza, di una posizione eccessivamente rigida, sconfessata, peraltro, anche dalla giurisprudenza di merito, che ha riconosciuto la natura formale di detto adempimento (81). In quest’ottica, la Suprema Corte ha altresì precisato che anche l’omessa allegazione della domanda di rilascio dell’attestazione alla dichiarazione di successione non può comportare la decadenza dal beneficio, trattandosi, appunto di adempimento formale, peraltro non esplicitamente sanzionato (82). Allo stesso modo (e nonostante la diversa posizione espressa dall’Amministrazione finanziaria) (83) la giurisprudenza ha anche chiarito che il termine triennale indicato dall’art. 23, comma 4, per la presentazione dell’attestazione non ha natura perentoria (84). Laddove il Ministero rifiuti di attestare l’assolvimento degli obblighi di conservazione e protezione derivanti dal vincolo, i beni culturali devono essere necessariamente ricompresi nell’attivo ereditario (85). Il rifiuto dell’attestazione non consegue, infatti, all’inadempimento di un obbligo formale, ma di una condizione che, per le ragioni prima evidenziate, appare costitutiva del beneficio in esame. L’art. 13, comma 3, del D.lgs. n. 346/1990 consente, in ogni caso, di proporre ricorso gerarchico al Ministro contro il rifiuto dell’attestazione. In caso di esito favorevole, la norma precisa che la decisione debba essere presentata in copia all’Amministrazione finanziaria entro trenta giorni (ma si tratta, in ogni caso di un termine non tassativo) dalla sua comunicazione, onde ottenere il rimborso di quanto nel frattempo versato (86).

(80) Cfr. circ. min. 26 marzo 1983 n. 32/270009, in banca dati fisconline; sul punto cfr. G. Lipari, Commento all’art. 13, cit., 1187. (81) In tal senso cfr. Comm. trib. reg. Toscana, Sez. IX, 17 marzo 2008, n. 17 in banca dati fisconline commissioni tributarie. (82) Così Cass., Sez. trib., 4 novembre 2008, n. 26449, in banca dati Le leggi d’Italia; in senso conforme anche Comm. trib. II grado di Pavia, Sez. IV, 22 gennaio 1996, n. 59, in banca dati fisconline commissioni tributarie. Sul punto cfr. sempre G. Lipari, Commento all’art. 13, cit., 1187. (83) In tal senso cfr. circ. min. 30 marzo 2000, n. 61/E/2000/73044 e Ris. Ag. Entr. 18 febbraio 2002, n. 48/E, entrambe in banca dati fisconline. (84) Così la già citata Cass., Sez. trib., 4 novembre 2008, n. 26449. (85) Così anche Cass., Sez. trib., 14 gennaio 2009, n. 673 e Cass., Sez. trib., 19 maggio 2008, n. 12611, entrambe in banca dati Le leggi d’Italia. Sul punto cfr. sempre G. Lipari, Commento all’art. 13, cit., 1187. (86) Così G. Lipari, Commento all’art. 13, cit., 1187. Nello stesso senso anche G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, cit., 203.


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Avverso il rifiuto dell’attestazione deve, inoltre, ritenersi ammessa la possibilità di ricorrere al giudice amministrativo, che tuttavia potrà soffermarsi solo sui profili di legittimità del provvedimento senza poter scrutinare il merito della decisione. Si è detto, inoltre, che, in tal caso, il diritto al rimborso dell’imposta versata includendo nell’attivo ereditario il bene culturale sorge soltanto al momento del passaggio in giudicato della sentenza resa nel giudizio amministrativo (87). 5. Il pagamento dell’imposta di successione mediante cessione allo Stato di beni culturali. – L’esame del regime fiscale dei beni culturali nel delicato momento del passaggio generazionale non può non terminare con uno sguardo all’art. 39 del D.lgs. n. 346/1990. La norma, come noto, consente il pagamento (totale o parziale) dell’imposta di successione e delle connesse imposte ipotecarie e catastali attraverso la cessione di beni culturali allo Stato, introducendo una particolare forma di datio in solutum (88). Tale previsione non rappresenta, peraltro, un unicum nel panorama normativo, poiché la cessione allo Stato di beni culturali è ammessa anche per il pagamento delle imposte sui redditi (compresi interessi e sanzioni) ai sensi dell’art. 28-bis del D.P.R. n. 602/1973 (89). In entrambi i casi si tratta di una facoltà introdotta sin dalla legge n. 512/1982, che, tuttavia, a differenza di quanto avvenuto in altre esperienze giuridiche (90), non sembra aver in Italia riscosso particolare fortuna. Non si tratta, nondimeno, di un istituto del tutto privo di riscontro pratico, come dimostra la presenza di una, sia pur non particolarmente ampia, casistica giurisprudenziale chiamata a risolvere i punti di maggior dubbio e criticità della disciplina all’uopo dettata dal legislatore (91).

(87) Così sempre G. Lipari, Commento all’art. 13, cit., 1187 e G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, cit., 203. (88) In tal senso cfr. G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario. I principi generali, V ed., Padova, 2016, 229; G. Guidara, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, Milano, 2011, 199; in passato nello stesso senso si era espresso E Granelli, Il pagamento delle imposte dirette e indirette mediante cessione di beni culturali, in Aa. Vv., Il regime tributario e amministrativo dei beni culturali, Roma-Milano, 1986, 113 ss. (89) L’art. 20 del D.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 ha poi esteso tale facoltà all’IVA e alle entrate degli enti territoriali (cfr. Ris. Min. 14 febbraio 2002, n. 43/E, in banca dati fisconline). (90) In tal senso L. Iacobellis, La fiscalità per la promozione del patrimonio storico e artistico, cit., 361, che cita il caso del Regno Unito in cui è presente il Cultural Gift Scheme, istituto che permette ai contribuenti di donare opere d’arte e altri beni culturali ricevendo in cambio considerevoli abbattimenti d’imposta. (91) Comm. trib. reg. Brescia, Sez. LXVII, 26 luglio 2013, n. 214, in banca dati


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Sul piano sistematico, la possibilità di adempiere l’obbligazione fiscale mediante la cessione allo Stato di beni culturali realizza, senza dubbio, le finalità di tutela del patrimonio storico e artistico indicate nell’art. 9 Cost., favorendo l’intervento pubblico in tutti quei casi in cui la mancanza di risorse del privato finirebbe per pregiudicare, in concreto, l’assolvimento degli obblighi di conservazione e protezione richiesti dalla natura culturale del bene. È quindi ragionevole che il legislatore abbia concesso allo Stato uno strumento per intervenire nella salvaguardia del patrimonio culturale, sostituendosi ad un privato che, preferendo (avendone la possibilità) disfarsi del bene, difficilmente si può immaginare vi riserverebbe adeguata cura ed attenzione (92). Peraltro, è interessante notare che in questo caso la concessione del beneficio non è condizionata, neppure in prospettiva, alla previa sussistenza del vincolo previsto dagli art. 10 ss. del Codice Urbani, potendo essere proposta la cessione anche di beni che, pur dovendo presentare le caratteristiche di cui il codice richiede la ricorrenza per la “dichiarazione” di interesse, non siano stati ancora destinatari di un formale provvedimento in tal senso (93). Si tratta, a ben vedere, di una novità dell’attuale formulazione della norma, posto che l’art. 6 della legge n. 512/1982 richiedeva, invece, la presenza del vincolo. La nuova previsione sembra, quindi, dimostrare che la natura “culturale” di un bene rappresenta una sua qualità intrinseca, suggerendo, forse, un ripensamento della tesi che vede nella dichiarazione d’interesse culturale prevista dall’art. 13 del Codice Urbani un provvedimento avente natura “costitutiva” dell’interesse dello Stato alla protezione del bene (94).

Fisconline Commissioni Tributarie; Comm. trib. centr., Sez. XIII, 17 luglio 1997, n. 3978, in banca dati fisconline; Cass., Sez. trib., 4 novembre 2008, n. 26450; Cass., Sez. trib., 4 novembre 2008, n. 26451; più di recente Cass., Sez. trib., 7 dicembre 2016, n. 25148 e Cass., Sez. trib., 21 novembre 2014, n. 24801(entrambe in banca dati Le leggi d’Italia). (92) Secondo N. Pasolini Dall’Onda, Commento all’art. 39 in Commentario del Testo Unico delle imposte sulle successioni e donazioni, a cura di N. D’Amati, cit., 346-347, «L’istituto stesso è previsto per i casi in cui la pubblica Amministrazione ritiene utile acquisire, con la proprietà, anche la disponibilità esclusiva di un bene culturale; acquisizione che, in determinati casi, può essere effettuata a condizioni vantaggiose sia per essa che per gli eredi, venendo incontro a esigenze e situazioni spesso di emergenza economica per questi ultimi, i quali possono trovare grande giovamento nella possibilità (uno dei rarissimi casi previsti) di assolvere un debito tributario con prestazioni non pecuniarie». (93) La proposta può estendersi, inoltre, alle «opere di autori viventi o eseguite da non più di cinquanta anni». (94) Tesi, come detto, sostenuta (tra gli altri) da S. Mabellini, La tutela del beni culturali nel costituzionalismo multilivello, cit., 76.


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L’attuale formulazione della norma non richiede, inoltre, a differenza della precedente, che i beni di cui si propone la cessione in pagamento dell’imposta di successione debbano appartenere all’attivo ereditario. Ne deriva che, come anche riconosciuto dal Consiglio di Stato (e da ultimo dall’Amministrazione finanziaria), oggetto della cessione può essere qualunque bene culturale indipendentemente dalla sua provenienza dalla massa ereditaria (95). Il che pare, invero, pienamente in accordo con lo spirito della norma, finalizzata a garantire la conservazione dei beni di interesse culturale, senza doverne necessariamente considerare la provenienza. Considerata la natura eccezionale della facoltà concessa dall’art. 39 del D.lgs. n. 346/1990 (ma analogo discorso vale per quanto disposto dall’art. 28bis del D.P.R. n. 602/1973), la norma disciplina nel dettaglio gli adempimenti necessari al perfezionamento della procedura per l’acquisizione del bene da parte dello Stato e per la liberazione del debitore dall’obbligazione fiscale. La norma, introduce, infatti, una fase di natura prettamente amministrativa (96), caratterizzata da ampi spazi di discrezionalità (97), che viene ad inserirsi nella dimensione attuativa del prelievo successorio, implicandone rilevanti deviazioni rispetto al paradigma ordinario. La procedura prende, infatti, avvio con l’invio, al Ministero dei beni culturali ed al competente ufficio dell’Amministrazione finanziaria, di una proposta da parte dell’erede o del legatario, contenente la descrizione dettagliata dei beni di cui si propone la cessione, e l’indicazione dei relativi valori, corredata di tutta la documentazione attestante quanto dichiarato. Tale proposta deve essere inoltrata entro il termine previsto dall’art. 37 del D.lgs. n. 346/1990 per il pagamento del tributo, ossia entro sessanta giorni dalla ricezione dell’av-

(95) In tal senso cfr. Cons. Stato, parere n. 171-bis del 3 febbraio 1987, in Cons. Stato, 1989, I, 1019; Ris. Min. Fin. Dip. Ent. 20 settembre 1993, n. IV-9-067 (in banca dati fisconline). Sul punto cfr. F. Del Torchio, Commento all’art. 39, in AA.VV., Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu, C. Moschetti, IV, IVA e imposte sui trasferimenti, a cura di G. Marongiu, cit., 1262. (96) Tant’è che il Consiglio di Stato ha riconosciuto la giurisdizione del giudice amministrativo per le controversie sorte a seguito dell’impugnazione del decreto ministeriale emanato all’esito della procedura (in tal senso cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 10 agosto 1998, n. 1152, in banca dati fisconline). (97) Messi in evidenza anche dalla giurisprudenza amministrativa, la quale ha ritenuto preclusa al giudice la rideterminazione del valore del bene definita dalla Commissione interministeriale, proprio alla luce della discrezionalità caratterizzante il procedimento all’esito del quale viene emesso il relativo provvedimento (cfr. TAR Lazio, Sez. II-quater, 4 dicembre 2014, n. 12266, in banca dati fisconline).


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viso con cui l’ufficio abbia provveduto alla liquidazione dell’imposta sulla base della dichiarazione di successione presentata (98). Importante, in questa prospettiva, è la precisazione che la presentazione della domanda interrompe il decorso del predetto termine (99). La presentazione della domanda, dicevamo, dà avvio ad un procedimento amministrativo che prevede innanzitutto l’attestazione, da parte dell’Amministrazione dei beni culturali, delle caratteristiche necessarie al riconoscimento dell’interesse culturale del bene, e, di conseguenza, la manifestazione dell’interesse all’acquisto del medesimo (art. 39, comma 3, del D.lgs. n. 346/1990). A questo punto, la procedura prosegue con la nomina di una Commissione interministeriale, incaricata di determinare le condizioni ed il valore della cessione, che verranno poi formalizzate con decreto adottato dal Ministero dei beni culturali di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze (art. 39, comma 4). La norma (art. 39, comma 6) stabilisce, inoltre, che il decreto debba essere adottato entro sei mesi dalla data di presentazione della proposta di cessione e quindi notificato al richiedente. Non si tratta, nondimeno, come precisato anche dalla prassi amministrativa (100) di un termine di natura perentoria, ma ordinatoria, il che, pur risultando comprensibile alla luce delle finalità della norma, pone alcuni problemi di coordinamento con la disciplina prevista per la fase di attuazione del prelievo successorio, posto che, come già osservato, la presentazione della richiesta interrompe (e, sembra inevitabile, con effetti permanenti sino alla definizione della procedura) il termine per il pagamento del tributo liquidato sulla base della dichiarazione di successione presentata. Come noto, la liquidazione dell’imposta di successione deve essere effettuata ad opera dall’Ufficio entro tre anni dalla presentazione della dichiarazione di successione, mediante l’invio di un avviso di liquidazione con il quale

(98) Nel caso di pagamento rateale, la prassi amministrativa ha ammesso la facoltà di presentazione della proposta anche nel corso della dilazione, entro il termine per il pagamento delle rate ancora pendenti (cfr. Ris. Ag. Entr. 24 settembre 2002, n. 308/E, in banca dati Fisconline). (99) Il che, peraltro, marca una differenza importante tra la procedura prevista dall’art. 39 del D.lgs. n. 346/1990 e quella prevista per le imposte dirette dall’art. 28-bis del D.P.R. n. 602/1973, il cui comma 6 precisa che «La proposta di cessione non sospende il pagamento delle imposte di cui al primo comma». Per un commento alla norma cfr. F. Graziano, Commento all’art. 28-bis., in Aa. Vv., Commentario breve alle leggi sul processo tributario, a cura di C. Consolo e C. Glendi, IV ed., Padova, 2017, 1035. (100) Cfr. Ris. Min. 23 gennaio 1995, n. 23/E-IV-9-026, in banca dati fisconline.


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Parte prima

si richiede il pagamento dell’imposta nel termine di sessanta giorni (101), decorsi i quali, l’Amministrazione può procedere alla riscossione dell’imposta, entro il termine di prescrizione decennale previsto dall’art. 41, comma 2, del D.lgs. n. 346/1990. Il termine di prescrizione per l’avvio della riscossione, in altri termini, inizia a decorrere soltanto una volta spirato il termine previsto per l’adempimento spontaneo (102). Se così è, l’interruzione del termine per il pagamento espressamente prevista quale conseguenza della presentazione della proposta di cessione del bene culturale allo Stato in luogo del pagamento del tributo dovrebbe, di necessità, implicare l’interruzione/sospensione anche del termine di prescrizione previsto per la riscossione dell’imposta liquidata dall’Ufficio. Il credito fiscale, infatti, in costanza dell’interruzione del termine per il pagamento del tributo non potrebbe reputarsi esigibile, il che impedirebbe il decorso della prescrizione (103). Una simile soluzione, tuttavia, considerata la natura ordinatoria del termine semestrale imposto all’Amministrazione per l’adozione del decreto che stabilisce le condizioni per la cessione, finirebbe, potenzialmente, per esporre sine die il contribuente all’obbligazione fiscale. Per tali ragioni, la sua compatibilità con primarie esigenze di certezza del rapporto tributario è stata posta in dubbio anche dalla stessa prassi amministrativa, la quale ha suggerito, laddove la procedura di protragga oltre il termine semestrale normativamente previsto, l’invio al contribuente di atti interruttivi del termine di prescrizione che attestino la permanenza dell’interesse alla riscossione dell’imposta (104).

(101) Ai sensi dell’art. 37 del D.lgs. n. 346/1990, «Il pagamento dell’imposta principale, dell’imposta complementare con gli interessi di cui agli artt. 34 e 35 e dell’imposta suppletiva deve essere eseguito entro sessanta giorni da quello in cui è stato notificato l’avviso di liquidazione». Sul procedimento di liquidazione dell’imposta cfr. G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, cit., 387 ss. (102) Si è detto, più precisamente che il dies a quo per il computo del termine di prescrizione decennale previsto dall’art. 41, comma 2, del D.lgs. n. 346/1990 decorre dallo scadere del termine di impugnazione indicato dall’art. 21, comma 1, del D.lgs. n. 546/1992. Nel caso di impugnazione, il termine decorre, invece, dal passaggio in giudicato della sentenza che accerti in via definitiva il credito fiscale (art. 2953 del cod. civ.). Trattandosi di termine di prescrizione esso è inoltre suscettibile di sospensione ed interruzione secondo le regole al riguardo previste dagli artt. 2441 ss. del cod. civ. Sul punto cfr. G. Ragucci, Commento all’art. 41, in Aa. Vv., Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu, C. Moschetti, IV, IVA e imposte sui trasferimenti, a cura di G. Marongiu, cit., 1267. (103) Ai sensi dell’art. 2935 del cod. civ., «La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere». (104) Più nel dettaglio, nella già citata Ris. Min. 23 gennaio 1995, n. 23/E-IV-9-026 si è osservato che «pur considerando che l’effetto interruttivo sospensivo riconosciuto dalla legge alla


Dottrina

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Si tratta, a ben vedere, di una posizione che appare più che condivisibile, posto che, in tal caso, il verificarsi delle condizioni per l’esigibilità dell’imposta appare subordinato alla conclusione di una procedura la cui definizione è interamente rimessa alla diligenza del creditore. Sembra, in altri termini, che, in tale ipotesi il verificarsi dell’esigibilità della prestazione sia rimessa ad un “atto meramente potestativo del creditore”, nel qual caso, la dottrina ha avuto cura di precisare che il termine di prescrizione inizia a decorrere non da quando in cui il credito diviene esigibile, ma dal momento in cui esso viene ad esistenza (105). Ne consegue, che, nel caso di specie, il termine di prescrizione decennale previsto dall’art. 41 del D.lgs. n. 346/1990 dovrebbe decorrere, nonostante l’interruzione del termine per l’adempimento della pretesa formalizzata con l’avviso di liquidazione. Ma tornando all’esame della procedura prevista dall’art. 39 del D.lgs. n. 346/1990, una volta notificato il decreto, gli eredi devono, entro due mesi, a pena di decadenza, comunicare l’accettazione delle condizioni della cessione in esso stabilite. In tal caso, il decreto e la dichiarazione di accettazione costituiscono titolo per la trascrizione nei registri immobiliari del trasferimento dei beni immobili, mentre i beni mobili devono essere consegnati entro trenta giorni dall’accettazione. L’estinzione del debito tributario consegue, però solo alla presentazione, all’Amministrazione finanziaria, entro sessanta giorni dalla dichiarazione di accettazione, delle copie autentiche del decreto e della dichiarazione stessa. Avverso il decreto dovrebbe, in ogni caso, ritenersi ammessa l’impugnazione innanzi alla giurisdizione amministrativa per sindacarne eventuali profili di legittimità (106). Particolarmente controversa, inoltre, è la previsione dell’art. 39, comma 8, a mente del quale, se il valore dei beni ceduti è inferiore all’imposta liquidata, il

proposta di cessione in rapporto al termine per il pagamento si rifletta nel termine di prescrizione, compreso quello decennale» «non può comunque sottacersi la rilevanza del termine di sei mesi accordato dalla legge per la conclusione della procedura di cessione». Ciò premesso si è rilevato che «se l’assenza di una espressa clausola normativa impedisce di considerare il suddetto termine come perentorio, è da ritenere che il suo eventuale anomalo protrarsi oltre il semestre costituisce un fatto imputabile alla pubblica Amministrazione, così che l’impedimento all’esercizio del diritto di credito è riferibile ad essa e non alla previsione normativa» Pertanto si è concluso osservando che «se la procedura in esame si prolunga oltre i sei mesi occorre, quanto meno in via cautelativa, provvedere ad emettere un atto autonomamente interruttivo del termine di prescrizione». (105) In tal senso cfr. B. Grasso, voce Prescrizione, in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, 66, per il quale «Nel caso di debiti la cui scadenza è rimessa ad un atto meramente potestativo del creditore si ritiene che la prescrizione cominci a decorrere dal momento in cui il credito sorge, dato che è questo il momento in cui il diritto può essere esercitato». (106) In tal senso, come visto, Cons. Stato, Sez. VI, 10 agosto 1998, n. 1152; TAR Lazio, Sez. II-quater, 4 dicembre 2014, n. 12266.


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contribuente è tenuto a versare la differenza, mentre, se è superiore, non ha diritto al rimborso. Come evidenziato dai commentatori (107), si tratta di una disparità di trattamento evidente e non giustificabile neppure in considerazione della rilevanza pubblica degli interessi in gioco, posto che l’art. 28-bis, comma 12, del D.P.R. n. 602/1973 prevede, nel contesto della disciplina per la cessione di beni culturali in luogo del pagamento delle imposte dirette e dell’IVA, il diritto al rimborso della differenza tra il maggior valore del bene ceduto ed il debito d’imposta estinto. Laddove, all’esito della descritta procedura, l’acquisto del bene non si perfezioni per sopravvenuto disinteresse dello Stato alla sua acquisizione, ne viene data immediata comunicazione all’Amministrazione finanziaria ed al proponente. Da tale momento riprende inoltre a decorrere il termine di sessanta giorni per il pagamento dell’imposta e, precisa, l’art. 39, comma 9, del D.lgs. n. 46/1990, degli interessi decorrenti dalla data di scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione di successione (art. 31, comma 1). Si tratta, anche qui, di una previsione controversa, posto che gli interessi dovrebbero decorrere dal momento il cui il credito è liquido ed esigibile, e quindi soltanto dalla data di notifica dell’avviso con cui viene liquidata l’imposta. Del resto, anche la giurisprudenza di legittimità (108), nel ricordare che il pagamento dell’imposta resta sospeso sino all’emanazione del decreto che definisce le modalità e i termini della cessione, ha escluso l’applicazione degli interessi compensativi sulle somme dovute in caso di rifiuto della proposta, precisando che, dalla data di notifica del decreto di rigetto, sono, invece, dovuti gli interessi di mora, senza applicazione di penalità.

Gabriele Giusti

(107) Così N. Pasolini Dall’Onda, Commento all’art. 39, cit., 350, per il quale «La diversità di trattamento nei due casi di cessione, peraltro simili e paralleli, seppure applicati a imposte diverse è stridente senza che sia possibile trovare un’accettabile giustificazione sul piano giuridico e su quello logico, visto l’assoluto contrasto con i principi della giustizia commutativa». (108) In tal senso le già citate Cass., Sez. trib., 4 novembre 2008, n. 26450; Cass., Sez. trib., 4 novembre 2008, n. 26451.


Atti istruttori erariali e principio europeo di proporzionalità Sommario: 1. Premessa. Rilievo sistematico e contenuto del principio europeo di

proporzionalità. – 2. Riflessi sulla discrezionalità amministrativa nella scelta dell’atto istruttorio e del luogo di espletamento del controllo. – 3. Il contenuto degli atti istruttori e il divieto di “fishing expedition”. – 4. (Segue): il contenuto dell’atto istruttorio e il principio di “non aggravamento” procedimentale. – 5. Il termine per rispondere nei controlli c.d. “a tavolino” – 6. (Segue): il termine per rispondere nelle verifiche in loco. – 7. Preclusioni istruttorie e proporzionalità. – 8. Gli atti istruttori da procedimento/ processo penale – 9. Corollari applicativi. La tutela avverso gli atti istruttori illegittimi (cenni). – 10. Contraddittorio amministrativo ex ante e proporzionalità. – 11. Conclusioni.

Il saggio esamina il principio di proporzionalità, alla luce della pluridecennale elaborazione giurisprudenziale europea, con l’obiettivo di offrire un’interpretazione sistematica di alcune rilevanti disposizioni nazionali afferenti l’attività istruttoria dell’amministrazione fiscale. The essay examines the principle of proportionality, in light of the decades-long European jurisprudential elaboration, with the aim of offering a systematic interpretation of some relevant national provisions concerning tax investigations.

1. Premessa. Rilievo sistematico e contenuto del principio europeo di proporzionalità. – La relazione (1) si propone di analizzare alcuni fra i più significativi riflessi giuridici del principio di proporzionalità nell’esegesi della discipli-

(1) Il contributo si riferisce alla relazione, corredata dai successivi aggiornamenti, tenuta nel corso del convegno “Principio di proporzionalità e tutela dei diritti fondamentali”, a Rovigo il 27 ottobre 2017, organizzato dall’Università di Padova e dal CUR - Consorzio Università Rovigo.


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na italiana degli atti dell’istruttoria tributaria, collocata nell’orizzonte europeo, per la preminenza sistematica che lo caratterizza rispetto a quello domestico (2). Sarà considerata l’individuazione della tipologia degli atti da adottare e del contenuto di essi, la tempistica per riscontrarli, la reazione all’omessa o tardiva risposta del destinatario, l’affluenza di elementi istruttori penalistici, l’interazione con il contraddittorio precedente l’eventuale provvedimento impositivo e/o sanzionatorio. Si porrà, inoltre, attenzione agli strumenti di tutela avverso gli atti non proporzionati. Anzitutto, è necessario considerare l’importanza della stessa affermazione della proporzionalità quale oggetto di un principio generale dell’ordinamento dell’Unione (3), intercettato e rielaborato dalla giurisprudenza della Corte di

(2) In ordine al primato del diritto europeo, cfr., ex plurimis, le celeberrime Corte di giustizia, 5 febbraio 1963, causa C-26/62, Van Gend en Loos; Corte di giustizia, 17 dicembre 1970, causa C-11/70, Internationale Handelsgesellschaft, punto 3; Corte di giustizia, 9 marzo 1978, causa C-106/77, Simmenthal; da ultimo, Corte di giustizia, 20 dicembre 2017, causa C‑664/15, Protect, punti 56-57. In proposito, la letteratura è sterminata. In ambito nazionale, v., p. es., S. Cassese, Le basi costituzionali, in Aa.Vv., Tratt.dir.amm. Dir. amm. gen., a cura di S. Cassese, Milano, 2003, I, 179 ss.; F. Bellomo, Manuale di diritto amministrativo, Padova, 2008, I, 169 ss.; G. Tesauro, Diritto dell’Unione europea, Padova, 2012, 189 ss.; fra i tributaristi, G. Bizioli, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Padova, 2008, 63 ss.; S. Marchese, Diritti fondamentali europei e diritto tributario dopo il Trattato di Lisbona, in Dir.prat.trib., 2012, I, 257 ss.; P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2015, 67 ss.; L. del Federico, Il multilateralismo nelle convenzioni internazionali in materia fiscale: la prospettiva europea e l’esperienza italiana, in Dir.prat.trib.int., 2015, 806. Sono ben noti i dati normativi italiani che realizzano il recepimento e la pervasiva estensione del diritto europeo anche a materie non regolate, in sé, dall’ordinamento dell’Unione quanto ai loro aspetti strutturali. Si allude, in primis e per es., all’art. 117, comma 1 Cost., in forza del quale la potestà legislativa statuale è subordinata ai vincoli dell’“ordinamento comunitario” nonché all’art.1, comma 1 della L. n. 241/1990, secondo cui l’attività amministrativa “è retta” dai “principi comunitari”, fra i quali si annovera quello di proporzionalità qui analizzato. Su questi profili, per tutti, v. L. del Federico, p. es. in Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010, passim. (3) Sul principio di proporzionalità, v., p. es., Aa. Vv., The Principle of Proportionality in the Laws of Europe, a cura di E. Ellis, Oxford, 1999; G. Moschetti, El principio de proporcionalidad en las relaciones Fisco-Contribuyente, in Rev.esp.der.fin., 2008, 741 ss., e in Il principio di proporzionalità come “giusta misura” del potere nel diritto tributario. Premesse generali, Milano, 2017; M. V. Serranò, Il rispetto del principio di proporzionalità e le garanzie del contribuente, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 871 ss., spec. 873; D. U. Galetta, General Principles of EU Law, da Aa. Vv., General Principles of EU Law as Evidence of the Development of a Common European Legal Thinking: The Example of the Proportionality Principle (from the Italian Perspective), in Aa. Vv., Common European Legal Thinking. Essays in Honour of Albrecht Weber, Cham - Heidelberg - New York - Dordrecht - London, 2015, 221


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giustizia, in base alle “tradizioni costituzionali” degli Stati membri (4) e, segnatamente, a quella tedesca (5). In quanto principio generale, ancorché non recepito ab origine da alcuna disposizione scritta, ha natura di regola precettiva, come tale fonte di diritti e obblighi nei confronti dei destinatari (6).

ss., spec. 227 ss.; P. Boria, Diritto tributario europeo, cit., 283 ss.; Aa. Vv., The Judge and the Proportionate Use of Discretion. A Comparative Study, a cura di S. Ranchordás - B. de Waard, Oxon - New York, 2016; da ultimo, G. Vanz, I principi della proporzionalità e della ragionevolezza nelle attività conoscitive e di controllo dell’amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 2017, 1912 ss. nonché, in precedenza, p.es. in Commento all’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973, in Aa. Vv., Comm. breve leggi trib., Padova, 2011, II, a cura di F. Moschetti, 177 ss., spec. 181 ss. Per una recentissima, perentoria affermazione della riconducibilità del principio di proporzionalità fra quelli “generali” del diritto dell’Unione, v. Corte di giustizia, 17 aprile 2018, causa C-414/16, Egenberger, punto 68. (4) In ordine alle “tradizioni costituzionali” nazionali e all’incidenza di essi sulla definizione dei principi generali del diritto europeo, v., fra i tanti, U. Draetta, Elementi di diritto comunitario. Parte istituzionale. Ordinamento e struttura dell’Unione europea, Milano, 1995, 201 ss.; L. Azzena, Le forme di rilevanza della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Aa. Vv., La difficile Costituzione europea. Ricerca dell’Istituto Luigi Sturzo, a cura di U. De Siervo, Bologna, 2001, 249 ss., spec. 256-257; M. Fioravanti - S. Mannoni, Il “modello costituzionale” europeo: tradizioni e prospettive, in Aa. Vv., Una Costituzione senza Stato, a cura di G. Bonacchi, Bologna, 2001, 25 ss.; G. Gaja - A. Adinolfi, Introduzione al diritto dell’Unione europea, Bari, 2014, 162 ss.; J. Ziller, I diritti fondamentali tra tradizioni costituzionali e “costituzionalizzazione” della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Aa. Vv., Diritti fondamentali e politiche dell’Unione europea dopo Lisbona, a cura di S. Civitarese Matteucci - F. Guarriello - P. Puoti, Rimini, 2013, 61 ss. In recepimento di tale elaborazione, l’art. 6, par. 3 del Trattato UE dispone che “I diritti fondamentali, (…) risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. (5) Cfr. G. Nolte, General Principles of German and European Administrative Law – A Comparison in Historical Perspective, in The Modern Law Review, 1994, 191 ss., spec. 193; N. Marsch - V. Tunsmeyer, The principle of proportionality in German administrative law, in Aa. Vv., The Judge and the Proportionate Use of Discretion, cit., 13 ss. Nella dottrina italiana, v. G. Gaja - A. Adinolfi, Introduzione al diritto dell’Unione europea, cit., 163: fra i tributaristi, G. Moschetti, Il principio di proporzionalità, cit., spec. 108 ss. V. infra nt. 9 del presente contributo. Sulla importanza del ruolo della Corte di giustizia nell’individuazione e rielaborazione dello specifico principio qui in esame, cfr. D. U. Galetta, Le fonti del diritto amministrativo europeo e B. G. Mattarella, Procedimenti e atti amministrativi, in Aa. Vv., Diritto amministrativo europeo, a cura di M. P. Chiti, Milano, 2013, rispettivamente sub 105 e 340. (6) Sulla portata cogente dei principi generali europei, cfr. F. Vanistendael, Le nuove fonti del diritto ed il ruolo dei principi comuni nel diritto tributario; J. Malherbe, L’equo procedimento in materia fiscale: principio generale ovvero garanzia nell’ambito dell’armonizzazione, in Aa. Vv., Per una Costituzione fiscale europea, a cura di A. Di Pietro, Padova, 2008, rispettivamente 111 ss. e 249; F. Bellomo, Manuale, cit., 186; G. Tesauro, Diritto dell’Unione, cit., 105; G. Della Cananea - C. Franchini, I principi dell’amministrazione europea, Torino, 2013, passim.


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Proprio in virtù della primazia dell’ordinamento sovranazionale su quelli interni, è norma di governo dell’azione degli Stati membri quando legiferano e quando amministrano. Nella prospettiva europea, è accentuata la declinazione del principio soprattutto quale divieto di eccesso di mezzi idonei, rispetto al fine perseguito, al lume del canone della “necessarietà” (“Erforderlichkeit”) (7). Ciò comporta che la libertà personale, familiare, domiciliare, etc. del destinatario di controlli fiscali possano essere limitate solo da norme di legge (europee o domestiche), nel rispetto del contenuto essenziale di tali libertà e diritti, ove le misure restrittive siano necessarie ed effettivamente rispondenti a finalità di interesse generale. Così, ora, dispone l’art. 52, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la c.d. “Carta di Nizza”, recependo un consolidato orientamento della Corte di giustizia, risalente almeno alla sentenza Nold del 1974 (8). Ne deriva l’esigenza di individuare lo strumento e l’oggetto di ricerca della “verità” del rapporto giuridico tributario che, fra i vari adeguati e idonei, si rivelino essere i più miti per il destinatario (9).

(7) Fra le più recenti affermazioni, cfr., ex plurimis, Corte di giustizia, 17 aprile 2018, causa C-414/16, Egenberger, cit., punto 68; Corte di giustizia, 12 aprile 2018, causa C-541/16, Commissione c. Regno di Danimarca, punto 50; Corte di giustizia, 7 marzo 2018, causa C-651/16, DW, punto 31; Corte di giustizia, 19 settembre 2017, causa C-552/15, Commissione c. Irlanda, spec. punti 91 ss.; Corte di giustizia, 6 settembre 2017, cause riunite C-643/15 e C-647/15, Repubblica Slovacca e a. c. Consiglio, punto 206; Corte di giustizia, 26 luglio 2017, causa C-560/15, Europa Way e a., punto 63; Corte di giustizia, 5 aprile 2017, causa C-298/15, Borta, punto 51; Corte di giustizia, 29 marzo 2017, causa C-652/15, Tekdemir, punto 43; Corte di giustizia, 22 marzo 2017, cause riunite C-497/15 e C-498/15, Euro-Team e a., punti 39 ss.; Corte di giustizia, 11 gennaio 2017, causa C-128/15, Regno di Spagna c. Consiglio, punto 71; in precedenza, cfr. Corte di giustizia, 18 dicembre 1997, cause C-286/94 e a., Molenheide e a., punti 46 ss., commentata da P. Pistone, Presunzioni assolute, discrezionalità dell’amministrazione fiscale e principio di proporzionalità in materia tributaria secondo la Corte di giustizia, in Riv.dir.trib., 1998, III, 91 ss. (8) Corte di giustizia, 14 maggio 1974, causa C-4/73, Nold, punto 14; per un recente es., cfr. Corte di giustizia, 7 marzo 2018, causa C-651/16, DW, punto 31, cit. Nella prospettiva nazionale, p. es., valorizza particolarmente il pre-requisito della legalità dei poteri (e correlati atti) istruttori, R. Schiavolin, voce Poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria, in Dig. disc. priv., Sez. Comm., Torino, 1995, XI, 193 ss., p. es. sub 195. (9) V. Corte di giustizia, 19 ottobre 2017, causa C-101/16, Paper Consult, rispettivamente ai punti 50 e 49; Corte di giustizia, 22 marzo 2017, cause riunite C-497/15 e C-498/15, EuroTeam e a., cit., punto 40; Corte di giustizia, 11 gennaio 2017, causa C-128/15, Regno di Spagna c. Consiglio, punto 71; Corte di giustizia, 21 dicembre 2016, causa C-593/14, Masco Denmark e a., punto 43; cfr., inoltre, Corte EDU, 23 aprile 1997, nn. 21363/93 e a., Van Mechelen e a. c.


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Come tutti i principi generali dell’Unione, anche quello di proporzionalità assolve alla duplice funzione di strumento ermeneutico cui deve allinearsi l’esegesi delle norme (europee e nazionali) e di parametro di valutazione della legittimità di esse, ove siffatta interpretazione conforme non sia possibile (10). 2. Riflessi sulla discrezionalità amministrativa nella scelta dell’atto istruttorio e del luogo di espletamento del controllo. – L’individuazione dell’atto istruttorio erariale e del luogo del controllo rappresenta una delle più rilevanti espressioni della discrezionalità amministrativa, da intendersi quale potere di scelta fra più “soluzioni diverse ed egualmente legittime” (11) per il fisco. Il principio di proporzionalità entra qui in gioco quale vero e proprio fattore di equilibrio rispetto all’esercizio della discrezionalità (12). La determinazione del punto di mira accertativo si riflette inevitabilmente sulla scelta degli atti d’indagine e della localizzazione del controllo. Si consideri l’ipotesi in cui l’erario si proponga di appurare la correttezza dell’applicazione, da parte di un sub-appaltatore, della disciplina della c.d. “inversione contabile” (“reverse charge”) ai fini IVA, che lo legittima a emettere fatture

Paesi Bassi, punto 58; in ordine ai contatti con l’elaborazione tedesca sul punto, v. soprattutto, G. Nolte, General Principles, cit., ivi, 193; N. Marsch - V. Tunsmeyer, The principle of proportionality, cit., ivi, spec. 33; G. Moschetti, Il principio di proporzionalità, cit., 111 ss.; A. Franco, Presunzioni legali di cessione e di acquisto, principio di proporzionalità e valutazione del giudice nazionale, commento a Corte di giustizia, 5 ottobre 2016, causa C-576/15, MM, in Rass. trib., 2017, 550; per similari considerazioni, v. anche I. Manzoni, Potere di accertamento e tutela del contribuente nelle imposte dirette e nell’IVA, Milano, 1993, passim e, seppur senza evocare expressis verbis il principio di proporzionalità, R. Schiavolin, voce Poteri istruttori, cit., ivi, 195, ove osserva come “una disciplina equilibrata debba contemplare presupposti, modalità e limiti dell’esercizio dei poteri istruttori, per evitare lesioni non necessarie di quegli interessi” (così, riguardo agli “interessi protetti dalla Costituzione”, “pregiudicati dalle indagini”; si tratta, in primis, delle “sfere di riservatezza specialmente tutelate” dalla Legge Fondamentale, quali “le comunicazioni e il domicilio”). (10) Fra le tante affermazioni circa la prioritaria rilevanza del tentativo di interpretazione conforme, v. Corte di giustizia, 8 novembre 2016, causa C-554/14, Ognyanov, punto 59. (11) Così, B. G. Mattarella, voce Discrezionalità amministrativa, in Diz. dir. pubbl., dir. da S. Cassese, Milano, 2006, III, 1993, il quale rileva che “La previsione di un potere, da parte di una norma, implica sempre l’attribuzione al suo titolare di un ruolo di mediazione tra la norma e il suo effetto, che normalmente implica una scelta”; nella dottrina tributaristica, G. Vanz, p. es. in Commento all’art. 32, cit., ivi, 180 ss. e in I principi della proporzionalità e della ragionevolezza, cit., ivi, 1914 ss. (12) Sul punto, sono imprescindibili i contributi di I. Manzoni, p.es. in Potere di accertamento, cit., 244-245 e G. Vanz, di cui v., p. es., Commento all’art. 32, cit., ivi, 181 e da ultimo, I principi della proporzionalità e della ragionevolezza, cit., ivi, 1924.


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senza addebito dell’imposta al proprio sub-committente (13). Rispetto all’obiettivo, è senz’altro conforme a proporzionalità una richiesta di acquisizione del relativo contratto di sub-appalto e/o della corrispondenza inter partes, mediante la notifica di un invito a presentare tali documenti (14) e, perciò, un controllo c.d. “a tavolino” piuttosto che una verifica sui luoghi del contribuente (15). 3. Il contenuto degli atti istruttori e il divieto di “fishing expedition”. – Il principio di proporzionalità concorre con quello generale del rispetto dei diritti della difesa ove esige l’indicazione, nell’atto istruttorio, dei “sospetti che” il pubblico potere “intende verificare”, sui quali calibrare (la puntualizzazione del)l’oggetto della richiesta, onde apprezzarne l’effettiva coerenza rispetto all’obiettivo dell’indagine (16). Sul terreno del diritto amministrativo generale, se ne trae immediata evidenza dalle norme europee derivate, afferenti il procedimento in materia di violazioni alla libera concorrenza (17). In proposito, la giurisprudenza eu-

(13) V., nel diritto italiano, l’art. 17, comma 6, lett. a) (in rapporto al comma 5) del D.P.R. n. 633/1972. (14) In tema di accertamento dell’IVA, v. art. 51, comma 2, n. 2) del D.P.R. n. 633/1972. (15) Cfr., in tal senso, anche I. Manzoni, Potere di accertamento, cit., 244; G. Vanz, Commento all’art. 32, cit., ivi, 181 e in I principi della proporzionalità e della ragionevolezza, cit., ivi, passim e, soprattutto, 1924, ove recte fa leva, nel diritto italiano, sull’art. 12, comma 1 della L. n. 212/2000, secondo il quale “Tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo.”, ictu oculi insussistenti per mere richieste documentali. (16) Tanto non comporta certo una discovery, nelle more dell’indagine, di “tutte le informazioni di cui è in possesso” l’autorità “quanto a presunte infrazioni”, né esige “una rigorosa qualificazione giuridica di tali infrazioni”, ma la “chiara indicazione” dei “sospetti” da “verificare” è imprescindibile nella prospettiva europea: cfr. Corte di giustizia, 10 marzo 2016, cause C 247/14 P, Heidelberg Cement, punti 21 e 27, ult. periodo; C‑268/14 P, Italmobiliare, punti 23 e 29, ult. periodo; C‑267/14 P, Buzzi Unicem, punti 22 e 28, ult. periodo; in precedenza, cfr. Corte di giustizia, 25 giugno 2014, causa C‑37/13 P, Nexans, punti 35 ss.; Corte di giustizia, 17 ottobre 1989, cause riunite C-97/87, C-98/87 e C-99/87, Dow Ibérica e a., punto 45. (17) Così, p. es., l’art. 14, par. 2 del Regolamento n. 17/1962, c.d. “primo regolamento”, disponeva che “Gli agenti incaricati dalla Commissione di procedere ai suddetti accertamenti esercitano i loro poteri su presentazione di un mandato scritto che precisi l’oggetto e lo scopo dell’accertamento”. In termini analoghi, si sono espressi anche gli artt. 17 ss. del Regolamento n. 1/2003; in particolare, l’art. 18, parr. 2 e 3 statuisce che “Nell’inviare una semplice domanda di informazioni ad un’impresa o associazione di imprese, la Commissione indica le basi giuridiche e lo scopo della domanda, precisa le informazioni richieste e stabilisce il termine entro il quale le informazioni devono essere fornite nonché le sanzioni previste dall’articolo 23 nel caso in cui siano fornite informazioni inesatte o fuorvianti.


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ropea ha statuito che tali requisiti contenutistici sono orientati a soddisfare “un’esigenza fondamentale allo scopo non solo di evidenziare il carattere motivato dell’azione prevista all’interno delle imprese interessate, ma anche di consentire ad esse di comprendere la portata del loro dovere di collaborazione pur facendo salvi al contempo i loro diritti di difesa (…)”; l’autorità ha, pertanto, l’onere di definire, “in maniera il più possibile precisa, l’oggetto della ricerca nonché gli elementi in relazione ai quali deve essere svolto l’accertamento (…)”; “una simile prescrizione è atta a tutelare i diritti della difesa delle imprese interessate, in quanto tali diritti sarebbero gravemente compromessi qualora” l’autorità stessa “potesse fondarsi, nei confronti delle imprese, su prove che, conseguite durante un accertamento, siano estranee all’oggetto ed allo scopo di questo (…).” (18). Ne deriva che, per il diritto dell’Unione, è certamente illegittima la prassi della c.d. “fishing expedition”, delle “battute di pesca” e, dunque, delle richieste “a pioggia” di documenti, avulse da elementi indiziari di partenza che stimolino quel controllo, da esigenze accertative palesate nell’atto istruttorio (19). La “fishing expedition” può collocarsi ex ante, come nell’ipotesi in cui, a fronte della totale assenza di indizi di illecito, si adducano generiche finalità investigative o non si menzionino tout court. Tale prassi può altresì ravvisarsi ex post, in una ricerca che deviasse dall’obiettivo di indagine, prefigurato dalla motivazione dell’atto (20).

Quando richiede alle imprese o associazioni di imprese di comunicare informazioni mediante decisione, la Commissione indica le basi giuridiche e lo scopo della domanda, precisa le informazioni richieste e stabilisce un termine entro il quale esse devono essere fornite. Indica altresì le sanzioni previste dall’articolo 23 e indica o commina le sanzioni di cui all’articolo 24. Fa menzione inoltre del diritto di presentare ricorso dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee avverso la decisione.”. (18) Corte di giustizia, 22 ottobre 2002, causa C-94/00, Roquette Freres, punti 47 e 48; per una prima perentoria affermazione in tal senso, Corte di giustizia, 17 ottobre 1989, causa 85/87, Dow Benelux, punto 18: v. anche Corte di giustizia, 15 ottobre 2002, cause riunite C-238/99 P, C-244/99 P, C-245/99 P, C-247/99 P, da C-250/99 P a C-252/99 P, e C-254/99 P, LVM e a., punto 300. (19) Dalla prospettiva italiana, almeno in linea di principio, cfr. i similari approdi ai quali è giunto I. Manzoni, Potere di accertamento, cit., 225 ss. (20) Questa seconda ipotesi è di più frequente riscontro nella giurisprudenza europea, come nell’esemplare caso deciso dalla Corte di giustizia, 18 giugno 2015, causa C 583/13 P, Deutsche Bahn e a., in tema di violazioni alla libera concorrenza, che tratta di una fattispecie di esondazione dell’atto istruttorio dai limiti propri del controllo cui si riferisce. Nelle more di un controllo amministrativo, segnatamente, aveva fatto ingresso una denuncia per un’infrazione supplementare, la quale aveva stimolato approfondimenti d’indagine, sfociati addirittura nel


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I principi europei di governo del procedimento amministrativo in generale non possono non riflettersi anche sulla species di quello (parimenti) amministrativo tributario (21). Si riprenda l’esempio dell’istruttoria coinvolgente un sub-appaltatore, finalizzata ad appurare l’esatta applicazione del regime IVA del “reverse charge”. In rapporto all’obiettivo, concretizzerebbe una illegittima “fishing expe-

sequestro di documenti. Di tale denuncia supplementare, non vi era traccia nell’atto istruttorio originario. La Corte di giustizia ha ritenuto che già solo l’assenza di riferimento a detta denuncia nell’oggetto dell’atto d’indagine avesse violato l’obbligo di motivazione, il principio di proporzionalità e i diritti della difesa del destinatario. Sulla “fishing expedition”, cfr. l’importante contributo di S. Marchese, Attività istruttorie dell’Amministrazione finanziaria e diritti fondamentali europei dei contribuenti, in Dir. prat. trib., 2013, I, 493 ss.; per un es. applicativo, v. A. Contrino - A. Marcheselli, Il procedimento di accertamento dell’abuso: oneri delle parti e possibili vizi, difese e preclusioni processuali, in Corr. trib., 2018, 583, ove affermano che, in caso di atto istruttorio (anteriore alla “richiesta di chiarimenti” che dà adito al contraddittorio di cui all’art. 10-bis, commi 6 ss. della L. n. 212/2000) “nessuna preclusione”, di cui all’art. 32, comma 4 del D.P.R. n. 600/1973 “può in ogni caso scattare in presenza di richieste meramente esplorative, con cui l’Ufficio dovesse chiedere la generica esibizione di ogni dato, notizia o documento rilevante (…)”; su tale preclusione, v. amplius il presente contributo, passim. (21) Cfr., ex multis, Cass., Sez. trib., 18 settembre 2015, n. 18448; nella dottrina italiana, sui rapporti fra procedimento amministrativo in generale e quello tributario ai fini della ricostruzione disciplinare di questo, v., p. es. P. Selicato, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, 269 ss.; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2006, I, 157 ss.; M. Basilavecchia, voce Accertamento (dir.trib.), in Diz. dir. pubbl., cit., I, 45 ss., spec. 50 ss.; L. del Federico, p. es. in I rapporti tra lo Statuto e la legge generale sull’azione amministrativa, in Aa. Vv., Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente. Studi in onore del Prof. G. Marongiu, a cura di A. Bodrito - A. Contrino - A. Marcheselli, Torino, 2012, 230 ss., spec. 232.


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dition” una richiesta afferente tutti i documenti contabili dell’interessato, ictu oculi esorbitante, rispetto ai (confini dei) fatti da accertare (22) (23).

(22) Il divieto della “fishing expedition”, corollario del principio di proporzionalità, presenta addentellati in vari settori disciplinari rilevanti per il diritto tributario e non è certo patrimonio originario ed esclusivo dell’ordinamento dell’Unione. Se ne ragiona, tradizionalmente, nella disciplina della cooperazione amministrativa internazionale e dello scambio di informazioni. L’art. 1, par. 1 della Direttiva n. 2011/16, dedicata alla cooperazione amministrativa nel settore fiscale, circoscrive le richieste alle informazioni “prevedibilmente pertinenti” (“foreseeably relevant”) rispetto all’oggetto dell’istruttoria cui si riferiscono, così riecheggiando lo storico paradigma normativo dell’art. 26 del “Model Tax Convention on Income and on Capital” dell’OCSE, sul quale cfr., da ultimo a questo specifico proposito, OECD, Commentary on article 26 concerning the exchange of information, sub II, par. 1 n. 5, in Model Tax Convention on Income and on Capital: Condensed Version 2017, Paris, 2017, 488-489. Proprio in questo ambito, la recente Corte di giustizia, 16 maggio 2017, causa C-682/15, Berlioz, si è (fra l’altro) occupata della seguente questione: “se l’articolo 1, paragrafo 1, e l’articolo 5 della direttiva 2011/16 debbano essere interpretati nel senso che la ‘prevedibile pertinenza’ delle informazioni richieste da uno Stato membro a un altro Stato membro costituisce una condizione che la richiesta di informazioni deve presentare per essere idonea a innescare l’obbligo in capo allo Stato membro interpellato di rispondervi e, di riflesso, una condizione di legittimità della decisione di ingiunzione rivolta da tale Stato membro a un amministrato.” (punto 60). Questa la risposta dei giudici lussemburghesi: “L’articolo 5 della direttiva 2011/16 si riferisce a tali informazioni disponendo che, su richiesta dell’autorità richiedente, l’autorità interpellata trasmette all’autorità richiedente le informazioni previste al citato articolo 1, paragrafo 1, di cui sia in possesso o che ottenga a seguito di un’indagine amministrativa. Tale articolo 5 impone così un obbligo all’autorità interpellata. Dalla formulazione di tali disposizioni risulta che i termini ‘prevedibilmente pertinenti’ designano la qualità che le informazioni richieste devono presentare. L’obbligo che incombe all’autorità interpellata a norma dell’articolo 5 della direttiva 2011/16 di cooperare con l’autorità richiedente non si estende alla trasmissione di informazioni che siano prive di tale qualità. Pertanto, la qualità di ‘prevedibile pertinenza’ delle informazioni richieste costituisce una condizione della domanda ad esse relativa.” (punti 62-64). In pratica, la sentenza correla l’effetto (i.e.: insorgenza dell’obbligo a rispondere, in capo allo Stato ricevente) alla “prevedibile pertinenza” e, perciò, alla legittimità dell’atto istruttorio. Si tratta, evidentemente, di una visione lontana dalla concezione italiana dell’efficacia del provvedimento amministrativo, quand’anche illegittimo, fino all’eventuale annullamento di esso in sede giurisdizionale o amministrativa (invece, per un approccio accostabile a quello della sentenza, v. I. Manzoni, Potere di accertamento, cit., 234-235 nonché, sostanzialmente, A. Contrino - A. Marcheselli, Il procedimento di accertamento dell’abuso, cit., ivi). Sulla pronuncia, v. P. Mastellone, Una nuova alba per i diritti fondamentali del contribuente europeo: alcuni spunti sistematici a margine della sentenza Berlioz della Corte di giustizia, in Dir. prat. trib. internaz., 2017, 591 ss., spec. 606 quanto alla “fishing expedition”; S. Guarino, Scambio di informazioni, Svizzera e caso Berlioz: il sottile confine tra fishing e group expedition, in Corr. trib., 2017, 3301 ss. (23) Le disposizioni dell’ordinamento tributario italiano si prestano agevolmente a una lettura conforme alle coordinate europee circa l’enunciazione delle ragioni dell’atto istruttorio, la specificità dell’oggetto, la strumentalità della richiesta a dette ragioni. Così, p. es., in materia


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4. (Segue): il contenuto dell’atto istruttorio e il principio di “non ag-

di imposte reddituali, l’art. 32, comma n. 1, nn. 2)-3) del D.P.R. n. 600/1973 prescrive la “indicazione del motivo” della richiesta di dati, notizie, documenti, etc. e l’enunciazione della “rilevanza” di essi ai fini dell’accertamento. In tema di istruttoria c.d. in loco, come appurato, l’art. 12 della L. n. 212/2000, ragiona di “accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali (…) sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo.” (comma 1); inoltre, “Quando viene iniziata la verifica, il contribuente ha diritto di essere informato delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda (…).” (comma 2). L’onere motivazionale, così connotato, non sembrerebbe manifesto ed evidente per tutte le fattispecie di atti istruttori. Si pensi ai questionari di cui all’ art. 32, comma 1, n. 4) del D.P.R. n. 600/1973, riferiti a “dati e notizie di carattere specifico rilevanti ai fini dell’accertamento”. La norma non ragiona apertis verbis di una motivazione dell’atto istruttorio che orienti la richiesta, sul piano teleologico-funzionale. La necessità di essa la si potrebbe desumere dall’illustrazione, nell’atto, della “rilevanza ai fini dell’accertamento”. Per apprezzarla, infatti e a monte, deve giocoforza postularsi l’enunciazione dei “fini” del controllo nella motivazione del provvedimento istruttorio. In ogni caso, si approda sicuramente al risultato di onerare il fisco alla motivazione anche per i questionari attraverso vari, ulteriori percorsi sistematici. In primo luogo, l’enunciato principio europeo di proporzionalità impone una lettura dell’art. 32, comma 1, n. 4) ad esso conforme. In secondo luogo, dal versante interno, l’art. 7, comma 1 della L. n. 212/2000, riferisce la motivazione agli “atti dell’amministrazione finanziaria” in genere e, dunque, pure a quelli istruttori (sull’estesa portata di quest’ultima previsione, cfr. M. Beghin, Commento all’art. 7 della L. n. 212/2000, in Aa. Vv., Comm. breve leggi tributarie, Padova, 2011, I, a cura di G. Falsitta, spec. 519 ss.). Prima ancora, si era sostenuto che pure l’art. 3, comma 1 della L. n. 241/1990 (peraltro richiamato dall’art. 7 della L. n. 212 cit.) esigerebbe la motivazione per i provvedimenti amministrativi fra i quali sarebbero annoverabili anche gli atti istruttori e, perciò, pure i questionari (cfr. I. Manzoni, Potere di accertamento, cit., 229). Non appare dubbio che siano provvedimenti amministrativi, siccome incisivi sulle libertà del destinatario, mercé la costituzione o modificazione di situazioni giuridiche (sulla nozione di “provvedimento amministrativo”, cfr., p. es., le tradizionali elaborazioni di M. S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1988, 671 ss.; E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 1999, 468 ss.). L’art. 3, tuttavia, riferisce la motivazione alla “decisione dell’amministrazione” “in relazione alle risultanze dell’istruttoria” e sembrerebbe così alludere al provvedimento conclusivo, emanato ad esito dell’indagine amministrativa (nel senso, invece, che l’atto istruttorio dovrebbe essere comunque motivato ex art. 3, comma 1, in quanto strumentale alla “decisione” v. lo stesso I. Manzoni, op. ult. cit., ivi). Appare decisamente più convincente l’ancoraggio della enunciazione motivazionale per i questionari anche al principio di imparzialità e buon andamento amministrativo (artt. 41, par. 1 della “Carta di Nizza” e 97, comma 1 Cost.), in stretta correlazione con quello di proporzionalità, giacché non potrebbe “giustificarsi il coinvolgimento di un privato in una attività della pubblica amministrazione (…) se non nei limiti strettamente necessari alla realizzazione dello scopo cui l’atto è dalla legge strumentalmente preordinato.” (così, I. Manzoni, op. ult. cit., 229). Per le ragioni dianzi esposte, la rappresentazione dello scopo accertativo con la motivazione dovrebbe accomunare qualsivoglia atto istruttorio, quand’anche rivolto a un soggetto diverso dall’indagato; non appare, pertanto, condivisibile l’opinione di I. Manzoni, op. ult. cit., 230, che, in simili ipotesi, trasfigura la (invece e anche qui) imprescindibile “giustificazione dell’atto”,


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gravamento” procedimentale. – La proporzionalità influisce altresì sul contenuto dell’atto istruttorio per scongiurare richieste inutili, ove attinenti a dati, notizie, documenti, etc., già acquisiti o acquisibili aliunde dal fisco o da altre amministrazioni. Si tratta del principio del c.d. “non aggravamento”, consacrato, nella disciplina italiana sul procedimento amministrativo, dagli artt. 1, comma 2 e 18 della L. n. 241/1990, rispettivamente in tema di principi generali e di autocertificazione (24). Nella legislazione fiscale nazionale, ne costituisce evidente espressione l’art. 6, comma 4 della L. n. 212/2000 (“Statuto dei diritti del contribuente”), in forza del quale “Al contribuente non possono, in ogni caso, essere richiesti

ritenendola “in re ipsa, cioè insita nell’esigenza stessa di acquisire i dati, notizie o documenti richiesti.”. L’opinione non solo risulta problematica rispetto al principio di proporzionalità, giacché legittimerebbe “battute di pesca” affrancate da ragioni istruttorie, ma sarebbe di dubbia conformità pure rispetto al principio di eguaglianza in sé e per sé considerato, cardinale sia nell’ordinamento europeo (v. già Corte di giustizia, 13 dicembre 1984, causa C-106/83, Sermide e a., punto 28 e, ora, artt. 20 e 21 della “Carta di Nizza”) sia nella nostra Cost. (art. 3, comma 1). La tesi dell’A. cit., infatti, discriminerebbe ingiustificatamente la posizione dei terzi rispetto a quella dell’indagato, appunto. In proposito, fra l’altro, gli esiti dell’A. cit. sono molto più mitigati (se non contraddittorii) rispetto alla precedente affermazione, ove sostiene poi che “non significherebbe (…) che nei confronti del terzo qualsiasi richiesta debba, per ciò stesso, considerarsi legittima. Una richiesta assolutamente priva di rilevanza sotto il profilo delle finalità cui l’atto è per legge preordinato non potrebbe che risultare, per definizione, arbitraria ed illegittima” (così, op. ult. cit., ivi). È chiaro, infatti, che l’apprezzamento circa la “rilevanza” della richiesta non si esplicherebbe senza una motivazione che additasse l’obiettivo dell’attività istruttoria (v. supra nella presente nt., 2° periodo). (24) L’art. 1, comma 2 della L. n. 241/1990 prescrive che “La pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria.”. Ai sensi dell’art. 18, commi 2 e 3 della L. ult. cit.: “I documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi, necessari per l’istruttoria del procedimento, sono acquisiti d’ufficio quando sono in possesso dell’amministrazione procedente, ovvero sono detenuti, istituzionalmente, da altre pubbliche amministrazioni. L’amministrazione procedente può richiedere agli interessati i soli elementi necessari per la ricerca dei documenti. Parimenti sono accertati d’ufficio dal responsabile del procedimento i fatti, gli stati e le qualità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione è tenuta a certificare”.


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documenti ed informazioni già in possesso dell’amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente” (25) (26). La norma è un esempio di attuazione del principio di proporzionalità, senz’altro annoverabile fra quelli “generali dell’ordinamento tributario” (art. 1, comma 1 della L. n. 212/2000) (27), vero e proprio “criterio-guida” cui improntare l’esegesi delle disposizioni legislative domestiche (28). Riferirne la portata a questo (pur importante) profilo sarebbe riduttivo. La norma, infatti, reca un vero e proprio comando precettivo, rivolto all’(attività della) amministrazione. È perentoria nell’escludere “in ogni caso” e, perciò, senza eccezioni, che il fisco possa reiterare la richiesta di elementi “già in” proprio “possesso” (29).

(25) La seconda proposizione dell’art. 6, comma 4 della L. n. 212/2000 precisa che “Tali documenti ed informazioni sono acquisiti ai sensi dell’articolo 18, commi 2 e 3, della legge 7 agosto 1990, n. 241, relativi ai casi di accertamento d’ufficio di fatti, stati e qualità del soggetto interessato dalla azione amministrativa”. (26) Oltre che al principio di proporzionalità, l’art. 6, comma 4 cit. si correla a quello cit. di buon andamento dell’azione amministrativa (artt. 41, par. 1 della “Carta di Nizza” e 97, comma 1 Cost.) nonché al principio di collaborazione (art. 10 della L. n. 212/2000), a propria volta attuativo delle norme fondamentali, testé menzionate (in quest’ultima direzione, v. S. Cannizzaro, Il principio di reciproca collaborazione tra amministrazione finanziaria e contribuente nel procedimento e nel processo, in Aa. Vv., Statuto dei diritti del contribuente, a cura di A. Fantozzi - A. Fedele, Milano, 2005, 242 ss.). (27) La conclusione si impone, per lo meno, alla luce delle numerose pronunce con le quali la Corte cost. ha rilevato che la proporzionalità “è alla base della razionalità che domina il principio di eguaglianza” di cui all’art. 3, comma 1 Cost.: cfr., p. es., Corte cost., ord. 22 dicembre 2006, n. 442; Corte cost., 1° giugno 1995, n. 220; Corte cost., 27 aprile 1993, n. 197; Corte cost., 18 gennaio 1991, n. 16. L’art. 3 Cost. è la prima delle norme fondamentali cui allude l’art. 1, comma 1 della L. n. 212/2000 nell’affermare che ne rappresenterebbero attuazione le “disposizioni della presente legge (…)”, le quali “costituiscono princìpi generali dell’ordinamento tributario”. (28) Per tale affermazione, cfr., ex multis, Cass., Sez. Un., 29 luglio 2013, n. 18184, par. 3.2., in ordine alle garanzie di cui all’art. 12 della L. n. 212/2000; Cass., Sez. Un., 17 febbraio 2010, nn. 3676-3677, sul principio di tutela dell’affidamento, recepito nell’art. 10 della L. n. 212/2000; v. altresì, incidenter, Cass., Sez. trib., 18 gennaio 2012, nn. 636-642; fra gli ess. più recenti, v., inoltre, Cass., Sez. trib., ord. 15 novembre 2017, n. 27016; Cass., Sez. trib., ord. 6 settembre 2017, nn. 20812-20813. Sulla portata della L. n. 212, v. le incisive espressioni di G. Marongiu, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2010, 51 ss.; F. Moschetti - B. Nichetti, Commento all’art. 1 della L. n. 212/2000, in Aa. Vv., Comm. breve, cit., I, 461 ss.; V. Mastroiacovo, Valenza ed efficacia delle disposizioni dello Statuto dei diritti del contribuente, in Aa. Vv., Statuto dei diritti del contribuente, cit., 1 ss. (29) La natura precettiva della norma emerge con chiarezza, p.es., in Ag. entrate, Circ. 6 febbraio 2007, n. 6/E, par. 2.3.1., ult. periodo, con generale riferimento ai poteri istruttori c.d. minori (inviti, questionari, etc.) di cui all’art. 32, comma 1, nn. 2) ss. del D.P.R. n. 600/1973,


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Per l’effetto, non potrebbe domandare fisiologicamente all’amministrato le dichiarazioni tributarie; elementi già acquisiti dall’ufficio procedente o da altri, per esempio, nel corso di controlli afferenti lo stesso soggetto indagato o altri; gli atti registrati (es.: quelli relativi a vendite immobiliari), i quali, proprio con la registrazione, entrano nel patrimonio conoscitivo dell’erario (30).

ove afferma che “Nell’esercizio dei poteri istruttori (…) è necessario tener conto di quanto disposto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, comma 4, (‘Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente’), che impone di non richiedere documenti ed informazioni già in possesso dell’Amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche. In tali casi gli uffici potranno richiedere ai contribuenti i soli elementi necessari per la ricerca dei documenti. Parimenti accerteranno d’ufficio i fatti, gli stati e le qualità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione è tenuta a certificare ai sensi dell’art. 18 della L. 7 agosto 1990, n. 241, commi 2 e 3.”. Per un ulteriore precedente, cfr. Ag. entrate, Circ. 19 marzo 2012, n. 9/E, par. 2.6., la quale, in tema di reclamo-mediazione, ha affermato che “la mancata allegazione di atti o documenti già in possesso dell’Ufficio non” costituisce “motivo di rigetto dell’istanza” di mediazione (così in base all’originaria disciplina dell’istituto, come inserito dall’art. 39, comma 9 del D.L. n. 98/2011, c.d. “Manovra correttiva 2011”, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1 della L. n. 111/2011; l’attuale regime prevede che il ricorso produca anche gli effetti di atto di reclamo e, dunque, di impulso del procedimento amministrativo di mediazione, senza alcuna istanza amministrativa apposita: così l’art. 17bis, comma 1 del D.Lgs. n. 546 cit., come modificato dall’art. 9, comma 1, lett. l), D.Lgs. n. 156/2015; nondimeno, quanto ai documenti da accludere, la conclusione della Circ. ult. cit. si impone sempre, al lume – appunto – dell’art. 6, comma 4 della L. n. 212/2000). (30) Cfr. G. Vanz, Commento all’art. 32, cit., ivi, 183 e in I principi della proporzionalità e della ragionevolezza, cit., ivi, 1921, penult. periodo e 1925-1926. In proposito, è interessante il caso deciso da Cass., Sez, trib., 20 luglio 2018, n. 19366, che ha fatto sostanziale applicazione del principio di proporzionalità e dell’art. 6, comma 4 della L. n. 212/2000, pur senza menzionarli, in tema di contratto di affitto di azienda con clausola di cessione del c.d. “plafond” IVA che consente di non applicare l’imposta sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi agli esportatori abituali ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. c) e 2 del D.P.R. n. 633/1972. Nell’occasione, il fisco recuperava l’imposta, dolendosi di un inadempimento dell’obbligo informativo di cui all’art. 8, comma 4 del D.P.R. n. 633 cit., parte finale, secondo il quale “Nel caso di affitto di azienda, perché possa avere effetto il trasferimento del beneficio di utilizzazione della facoltà di acquistare beni e servizi per cessioni all’esportazione, senza pagamento dell’imposta, (…) è necessario che tale trasferimento sia espressamente previsto nel relativo contratto e che ne sia data comunicazione con lettera raccomandata entro trenta giorni all’ufficio IVA competente per territorio”. La Corte ha osservato che “il contratto” in questione “era regolarmente registrato, pertanto, nel caso di specie l’amministrazione finanziaria aveva tutti i dati necessari per una concreta ed effettiva attività di controllo”. Da qui il condivisibile corollario: la “condotta ascritta al contribuente, seppure formalmente non corretta, si risolve in una mera irregolarità dichiarativa in quanto la volontà di avvalersi del plafond è stata comunque veicolata mediante la registrazione del contratto, sicché la stessa non può concretizzare un effettivo illecito avente ad oggetto il mancato versamento di imposte, occorrendo che esso sussista effettivamente e che abbia causato un concreto danno erariale”. (ivi, parr. 3.2. in fine e 3.4, primo periodo). Per un es. di attuazione normativa dell’art. 6, comma 4 dello Statuto, cfr. l’art. 35, comma 2, lett. f)


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La proporzionalità, invero, qui non tocca solo esigenze di efficienza, economicità amministrativa e di equilibrio fra tempi, contenuti e obiettivi dell’azione pubblica, ma tutela altresì la sfera di libertà del contribuente da atti istruttori evitabili e superflui ab imis. Riecheggia, insomma, il corollario della ricordata concezione della proporzionalità quale criterio di scelta della soluzione, fra le varie possibili e idonee, meno invasiva per il destinatario dell’attività amministrativa (31). 5. Il termine per rispondere nei controlli c.d. “a tavolino”. – Notificato l’atto istruttorio, il fisco deve garantire all’interessato un termine per rispondere, stabilito in base al contenuto della/-e richiesta/-e, veicolata/-e dall’atto stesso. Appare, infatti, di tutta evidenza che domandare centinaia di documenti e/o informazioni esiga più tempo rispetto a una richiesta di dati elementari e/o di incartamenti facilmente reperibili (32). La congruità del termine a rispondere si pone nell’orizzonte della “buona amministrazione” (“good administration”), dell’esercizio “equo e imparziale” dell’azione pubblica (33). Solo un arco temporale coerente con l’oggetto istruttorio permetterebbe quella esatta ricostruzione dei fatti, cui deve mirare l’accertamento.

del D.P.R. n. 633/1972, relativamente al contenuto della dichiarazione di inizio attività ai fini IVA, la quale deve comprendere “ogni (…) elemento richiesto dal modello ad esclusione dei dati che l’Agenzia delle entrate è in grado di acquisire autonomamente.” (v. Ag. entrate, Circ., 28 febbraio 2002, n. 22/E). (31) V. retro, par. 1. Con riferimento al diritto interno, appare qui più evidente il trait d’union anche con il principio di correttezza e buona fede dell’attività amministrativa di cui all’art. 10 della L. n. 212 cit. retro, alla nt. 26. (32) Per un affine ordine di idee, seppure dall’analisi del versante della (im)possibilità dell’oggetto della richiesta istruttoria, cfr. I. Manzoni, Potere di accertamento, cit., 227. (33) Riv. art. 41, par. 1 della “Carta di Nizza”. Sussume il principio di proporzionalità all’art. 41, inteso quale “umbrella-principle” che contemplerebbe anche fattispecie di “buona amministrazione” non espressamente contemplate in modo puntuale (come, invece, il diritto al contraddittorio, all’accesso e alla motivazione degli atti, nel par. 2 della norma), P. Craig, EU Administrative Law, Oxford, 2012, passim e spec. 344 e 482 nonché in Comment. to art. 41, in S. Peers - T. Hervey - J. Kenner - A. Ward, The EU Charter of Fundamental Rights: A Commentary, Oxford, 2014, 1072. In senso apparentemente contrario, G. Vanz, I principi della proporzionalità e della ragionevolezza, cit., ivi, 1918 ove afferma che si tratterebbe di “principi che non costituiscono (…) delle regole di buona amministrazione, afferenti all’opportunità (e quindi al merito) dell’azione amministrativa, ma che integrano gli estremi di veri e propri precetti giuridici, condizionanti come tali la legittimità degli atti posti in essere dall’amministrazione finanziaria”. Un aspetto non risulta escludere l’altro. Il principio di proporzionalità è senz’altro precetto normativo, che incide sul merito delle scelte e del contenuto dell’atto istruttorio ed è perciò funzionale alla (ed espressivo della) “buona amministrazione”, come osservato recte dalla cit. dottrina inglese.


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Per i controlli “a tavolino”, afferenti i principali tributi dell’ordinamento italiano, il destinatario degli atti istruttori gode di un termine non inferiore a quindici giorni, ai sensi degli artt. 32, comma 2 del D.P.R. n. 600/1973 e 51, comma 3 del D.P.R. n. 633/1972 (34). Non è dato, allora, comprendere la frequente prassi operativa degli uffici finanziari nazionali di concepire tale limite quale termine (non minimo, bensì) massimo, con una distorsione dei dati normativi di riferimento, tanto manifesta quanto radicata. In ogni caso, lo stesso termine di quindici giorni potrebbe rivelarsi insufficiente, soprattutto a fronte di richieste di notevole complessità e/o comportanti la necessità di ricercare notizie e/o documenti da terzi. Da questo punto di vista, assume rilievo anche il periodo dell’anno solare in cui è notificato l’atto d’indagine. Si pensi a una società con personale assente durante un periodo festivo, alla quale l’erario recapitasse un invito in prossimità di tale periodo; stante l’assenza di personale, il termine effettivo per la risposta potrebbe rivelarsi inferiore a quello legale, quand’anche formalmente rispettato dall’autorità (35) (36).

(34) L’art. 32 del D.P.R. n. 600 cit. (e, perciò, anche il descritto regime temporale) opera pure ai fini dell’IRAP (per effetto di rinvio alla disciplina dell’accertamento in tema di imposte reddituali: v., quanto alla disciplina transitoria, l’art. 25, comma 1 del D.Lgs. n. 446/1997 e, a regime, la normativa regionale: cfr., p. es., art. 10 della L. reg. Emilia Romagna, n. 48/2001) nonché per le imposte di registro, ipotecaria e catastale (art. 53-bis del D.P.R. n. 131/1986). Quanto al termine nell’ambito delle indagini finanziarie, v. infra alla nt. 37, 2° periodo. (35) Si tratta di un es. ispirato dal caso deciso da Cass., Sez. trib., 10 gennaio 2013, n. 453, che, mutatis mutandis, riguardava una fattispecie di notifica di un atto istruttorio erariale non solo in prossimità delle feste natalizie, ma anche del termine decadenziale dell’accertamento. La sent. è pubblicata in GT-Riv. giur. trib., 2013, 475 ss., con il commento di R. Iaia, Le garanzie del contribuente nel sub-procedimento innestato dal questionario, 478 ss. (36) Si muove nel senso della proporzionalità, il recente art. 7-quater, comma 16 del D.L. n. 193/2016, inserito dalla L. di conversione n. 225/2016, il quale statuisce apertis verbis che “All’articolo 37, comma 11-bis, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: ‘I termini per la trasmissione dei documenti e delle informazioni richiesti ai contribuenti dall’Agenzia delle entrate (…) sono sospesi dal 1º agosto al 4 settembre (…)’. La norma esclude dalla propria orbita i termini “relativi alle richieste effettuate nel corso delle attività di accesso, ispezione e verifica (…)”. Sembra che alla base dell’esclusione possano ravvisarsi motivi di speditezza dell’azione amministrativa, più consoni a un’istruttoria “unilaterale” e “a sorpresa”, fisiologicamente propria delle verifiche in loco, che l’amministrazione, tuttavia, tende ad attivare laddove sarebbero state sufficienti e proporzionate semplici richieste (p.es. di corrispondenza, contabilità, etc.) mediante inviti, questionari, etc. In tali casi, l’anomalo esercizio della discrezionalità amministrativa già nell’individuazione della tipologia dell’attività istruttoria, si traduce pure nell’aggiramento della


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Il principio di proporzionalità, allora, si dispiega per modulare, rendere elastico il lasso di tempo a disposizione dell’amministrato, già al momento della notifica dell’atto istruttorio o mediante la concessione di una o più proroghe del termine originario, se obiettivamente insufficiente (37). Sarebbe, perciò, illegittimo che il fisco invocasse riscontri, senza prevedere un congruo termine per offrirli e, quindi e in fin dei conti, per soddisfare l’interesse pubblico alla veridica ricostruzione dei fatti. Un simile modus operandi esprimerebbe eccesso di potere e risulterebbe contrario a correttezza e buona fede nei confronti dell’interessato (38). La possibilità di una risposta tempestiva, ma sufficientemente ponderata, corretta ed esauriente, lo allontana, invece, dalla prospettiva dell’irrogazione di san-

“proporzionata” disposizione nazionale del 2016 testé ricordata sulla sospensione dei termini (sul punto, v. supra nel testo, passim, spec. al par. 6.). (37) Per un es. di “proporzionata” concezione del termine per rispondere, seppur con riferimento al contraddittorio anteriore all’iscrizione a ruolo, cfr., mutatis mutandis, l’art. 6, comma 5 della L. n. 212/2000, ove prevede che “l’amministrazione finanziaria deve invitare il contribuente, a mezzo del servizio postale o con mezzi telematici, a fornire i chiarimenti necessari o a produrre i documenti mancanti entro un termine congruo e comunque non inferiore a trenta giorni dalla ricezione della richiesta”. In tema di accertamenti finanziari, gli artt. 32, comma 2 del D.P.R. n. 600/1973 e 51, comma 3 del D.P.R. n. 633/1972 prevedono la prorogabilità del termine di venti giorni per rispondere, “su istanza dell’operatore finanziario, per giustificati motivi, dal competente direttore centrale o direttore regionale per l’Agenzia delle entrate, ovvero, per il Corpo della guardia di finanza, dal comandante regionale”. La preferibile esegesi di tali disposizioni conduce a ritenerle meramente attuative del principio di proporzionalità e devono, perciò, essere intese nel senso che non limitino la prorogabilità del termine alla sola ipotesi ivi prevista. Cfr. G. Vanz, Commento all’art. 32, cit., ivi, 183; R. Iaia, Le garanzie del contribuente, cit., ivi, 486. (38) Torna, di nuovo, la correlazione fra la proporzionalità con la buona fede e la correttezza dell’azione accertativa fiscale (artt. 41, par. 1 della “Carta di Nizza”; 97, comma 1 Cost. e 10 della L. n. 212/2000).


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zioni (proprie (39) e improprie (40), quali si ritengono essere le preclusioni istruttorie (41)) e, se imprenditore o lavoratore autonomo, dal metodo accer-

(39) V. l’art. 11, comma 1 del D.Lgs. n. 471/1997 che commina “la sanzione amministrativa da euro 250 a euro 2.000” per “le seguenti violazioni: a) omissione di ogni comunicazione prescritta dalla legge tributaria anche se non richiesta dagli uffici o dalla Guardia di finanza al contribuente o a terzi nell’esercizio dei poteri di verifica ed accertamento in materia di imposte dirette e di imposta sul valore aggiunto o invio di tali comunicazioni con dati incompleti o non veritieri; b) mancata restituzione dei questionari inviati al contribuente o a terzi nell’esercizio dei poteri di cui alla precedente lettera a) o loro restituzione con risposte incomplete o non veritiere; c) inottemperanza all’invito a comparire e a qualsiasi altra richiesta fatta dagli uffici o dalla Guardia di finanza nell’esercizio dei poteri loro conferiti”. In caso di risposte non veritiere, potrebbero emergere profili di rilievo penale ai sensi dell’art. 11 del D.L. n. 201/2011 (c.d. “Decreto Monti”), conv. con modificazioni, dall’art. 1, comma 1 della L. n. 214/2011: “Chiunque, a seguito delle richieste effettuate nell’esercizio dei poteri di cui agli articoli 32 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e agli articoli 51 e 52 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, esibisce o trasmette atti o documenti falsi in tutto o in parte ovvero fornisce dati e notizie non rispondenti al vero è punito ai sensi dell’articolo 76 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. La disposizione di cui al primo periodo, relativamente ai dati e alle notizie non rispondenti al vero, si applica solo se a seguito delle richieste di cui al medesimo periodo si configurano le fattispecie di cui al decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74”, in tema di reati tributari ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA. (40) Sono così definite le “‘situazioni di svantaggio’, (…) non (…) annoverabili tra le sanzioni propriamente dette, in quanto non edittalmente previste quale conseguenza della violazione di una norma tributaria’”, che si traducono in una “penalizzazione del contribuente comunque riconducibile ad una tale violazione (…)”: così, p. es., Cass., Sez. trib., 17 dicembre 2014, n. 26475, che rispecchia la ricostruzione di E. De Mita, p. es. espressa alla voce Capacità contributiva, in Dig. disc. priv., Sez. Comm., Torino, 1987, II, p. 460-461. Per una critica a tale categoria dogmatica, v., p.es., P. Russo, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2002, 403-404; A. Fantozzi, Diritto tributario, Torino, 1998, 485; D. Coppa - S. Sammartino, voce Sanzioni tributarie, in Enc. dir., Milano, 1989, vol. XLI, 425 ss.; F. Fichera, Le penalizzazioni fiscali, in Rass. trib., 2017, 591 ss., spec. 604 ss.; sul tema v. inoltre L. del Federico, p. es. in Le sanzioni improprie nel sistema tributario, in Riv. dir. trib., 2014, I, 693 ss. e in La tipologia delle sanzioni amministrative tributarie, in Corr. trib., 2002, 820 ss. nonché in Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 276 ss.; R. Cordeiro Guerra, Illecito tributario e sanzioni amministrative, Milano, 1996, 340 ss.; S. Riondato, Commento all’art. 1 del D.Lgs. n. 472/1997. Oggetto, in Aa. Vv., Commentario alle disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria, a cura di F. Moschetti L. Tosi, Padova, 74-75; A. Marcheselli, Le attività illecite tra fisco e sanzione, Padova, 2001, 310 ss. (41) Si tratta dell’inutilizzabilità in sede amministrativa o contenziosa a favore del contribuente dei dati, notizie e documenti non tempestivamente addotti o prodotti in risposta alle richieste istruttorie di cui all’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973, in forza del comma 4 dello stesso


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tativo extra-contabile, ad esito del quale il fisco potrebbe muovere addebiti anche facendo esclusivamente leva su presunzioni prive di gravità, precisione e concordanza (42) (43).

precetto, in materia di accertamento delle imposte sui redditi, applicabile anche ai fini IVA ex art. 51, ult. comma del D.P.R. n. 633/1972 per i questionari e gli inviti a “esibire o trasmettere (…) documenti e fatture relativi a determinate cessioni di beni o prestazioni di servizi ricevute ed a fornire ogni informazione relativa alle operazioni stesse”. Sul tema, v. infra, amplius, il par. 7. La giurisprudenza e parte significativa della dottrina ritengono che dette preclusioni avrebbero natura di sanzione impropria: cfr., p. es., Cass., Sez. trib., 10 maggio 2018, n. 11528; Cass., Sez. trib., 10 gennaio 2013, n. 453; Cass., Sez. trib., 17 giugno 2011, nn. 13289 e 13290, la prima commentata da M. Miscali, Ancora controversa l’utilizzabilità dei documenti non esibiti e poi prodotti in giudizio, in Corr. trib., 2011, 958 e ss.; A. M. Gaffuri, La nuova disciplina in tema di documentazione dei “prezzi di trasferimento”, in Rass. trib., 2011, 1457; G. Ingrao, La prova nel processo tributario e la valutazione del contegno delle parti, in Dir. prat. trib., 2006, I, 354; S. Dorigo, Il “diritto al silenzio” del contribuente nel corso di verifiche e controlli e le conseguenze nel processo penale, in Corr. trib., 2018, 388 ss., in part. 389. (42) Così dispone l’art. 39, comma 2, lett. d-bis) del D.P.R. n. 600/1973 con riferimento all’ipotesi in cui “(…) il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli uffici ai sensi dell’articolo 32, primo comma, numeri 3) e 4)” dello stesso D.P.R. n. 600 cit. (relativi agli inviti a “esibire o trasmettere (…) atti e documenti” e ai questionari) “o dell’articolo 51, secondo comma, numeri 3) e 4), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633” (riferiti ai questionari e agli inviti a produrre documenti, fatture e informazioni qualificate). Il precetto non reca una “sanzione impropria”, ma considera l’inottemperanza quale elemento che genera un sospetto di inattendibilità di quella contabilità, cui si riferiscono gli inviti e i questionari; onde, la legittimazione del metodo extra-contabile: cfr. A. Di Pietro, Commento all’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973, in Aa. Vv., Comm. breve, cit., II, 246-247. Quanto, invece, alla “ordinaria” rilevanza di presunzioni “gravi, precise e concordanti” per supportare i fatti accertati, senza la necessità di ulteriori riscontri in sede processuale, v., per le imposte reddituali, gli artt. 37, comma 3; 38, comma 3; 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. n. 600/1973 (al quale deroga il cit. art. 39, comma 2; per un’ulteriore ipotesi, cfr. art. 41 del D.P.R. n. 600 cit., sull’accertamento d’ufficio in relazione all’art. 38, comma 3 cit.), nonché l’art. 54, comma 2 del D.P.R. n. 633/1972, ai fini IVA; in giurisprudenza, v., da ultimo, Cass., Sez. trib., 18 maggio 2018, n. 12285; Cass., Sez. trib., ord. 4 maggio 2018, n. 10692; Cass., Sez. trib., ord. 21 marzo 2018, n. 7022. Nel diritto comune, cfr. l’art. 2729, comma 1 c.c. (43) A fronte dell’irrogazione di una sanzione, il destinatario di un atto istruttorio con termine esiguo per darvi seguito potrebbe invocare a proprio favore (non solo la violazione del principio di proporzionalità, ma anche) l’assenza di colpevolezza di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 472/1997. Sull’applicabilità delle norme del D.Lgs. n. 472 cit. pure alle sanzioni improprie, v., per alcuni ess., con peculiare riferimento al principio del favor rei (ex art. 3 del D.Lgs. n. 472 cit.), Cass., Sez. trib., ord. 30 gennaio 2009, n. 2548; Cass., Sez. trib., 20 luglio 2007, n. 16128; Cass., Sez. trib., 5 febbraio 2002, n. 1528; Cass., Sez. trib., 22 novembre 2000, n. 15088, in ordine all’art. 75, ult. comma del D.P.R. n. 917/1986, che escludeva la deducibilità dei costi d’impresa non contabilizzati, fino all’abrogazione disposta dall’art. 5 del D.P.R. n. 695/1996, ritenuta – appunto – di efficacia retroattiva, in base all’art. 3, comma 3 del cit. D.Lgs. n. 472 (cfr. L. Del Federico, Le sanzioni improprie nel sistema tributario, cit., ivi, spec. 698 ss. e


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6. (Segue): il termine per rispondere nelle verifiche in loco. – Nella cornice della disciplina delle verifiche sui luoghi del contribuente, l’art. 52, comma 5 del D.P.R. n. 633/1972 colpisce il rifiuto di esibizione di “libri, registri, scritture e documenti”, con l’inutilizzabilità di essi in sede amministrativa e giudiziale, se favorevoli all’interessato (44) (45). Non si prevede, invece, alcun termine per ottemperare a richieste siffatte, ma la normativa è comunque integrata “dall’alto”, dal principio di proporzionalità. Si consideri, di nuovo, l’ipotesi di documenti di non agevole reperibilità per il destinatario. Anche in simili eventualità, il principio in esame impone pur sempre la concessione di un termine congruo rispetto al contenuto della richiesta (46).

721 ss.); v., inoltre, Cass., Sez. trib., 17 dicembre 2014, n. 26475; Cass., sez. trib., 27 luglio 2011, n. 16437 quanto all’art. 41, comma 6 del D.P.R. n. 633/1972 che colpiva il cessionario o committente, soggetto a IVA, con pene pecuniarie “oltre al pagamento della imposta” per la mancata regolarizzazione della fattura del proprio cedente o prestatore: la giurisprudenza ha ritenuto che la norma contemplasse una sanzione impropria, ora abrogata ex tunc dalla disciplina sulla corrispondente violazione dell’art. 6, comma 8 del D.Lgs. n. 471/1997 (v. Comm. trib. prov. di Macerata, Sez. III, 2 ottobre 2001, n. 112, commentata da F. Montanari, Brevi note in tema di sanzioni improprie e regime transitorio, in GT-Riv. giur. trib., 2002, 275 ss.). (44) Lo stesso art. 52, comma 5 del D.P.R. n. 633/1972 cit., all’ultima proposizione, precisa che “Per rifiuto d’esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione”; il comma 10 prevede, inoltre, che se “il contribuente dichiara che le scritture contabili o alcune di esse si trovano presso altri soggetti deve esibire una attestazione dei soggetti stessi recante la specificazione delle scritture in loro possesso. Se l’attestazione non è esibita e se il soggetto che l’ha rilasciata si oppone all’accesso o non esibisce in tutto o in parte le scritture si applicano le disposizioni del quinto comma”. Sulla norma, v., fra i tanti, S. Muleo, Commento all’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, in Aa. Vv., Comm. breve, cit., Padova, 2011, IV, a cura di G. Marongiu, 489-490; per un recentissimo es. giurisprudenziale, cfr. Cass., Sez. trib., 21 marzo 2018, n. 7701 che sottolinea la rilevanza della condotta dolosa per innescare la preclusione in esame, almeno nei confronti di chi non è obbligato alla conservazione delle scritture contabili, come già concluso antea dalla fondamentale Cass., Sez. Un., 25 febbraio 2000, n. 45; v. altresì, Cass., Sez. trib. 17 giugno 2011, nn. 13289-13290 citt. e 19 aprile 2006, n. 9127, in Riv. dir. trib., 2006, II, 649 ss., con nota di L. Giaretta, Le preclusioni derivanti dal “rifiuto” di esibire libri, registri e documenti. (45) Non trova, invece, esplicito e puntuale riscontro normativo (nell’art. 51 del D.P.R. n. 633 né aliunde) e appare, perciò, illegittima la diffusa prassi delle “interviste”, degli “interrogatori” nel corso delle verifiche in loco nei confronti dello stesso contribuente verificato, di suoi parenti, dipendenti, consulenti, etc. Il contribuente e i terzi possono, rispettivamente, essere destinatari di richieste di dati, notizie, chiarimenti attraverso, p.es., inviti (artt. 32, comma 1, nn. 2) e 8-bis) del D.P.R. n. 600/1973 per le imposte reddituali e 51, comma 2, nn. 2) e 4) del D.P.R. n. 633/1972, per l’IVA). (46) Per il diritto italiano, cfr. le risposte della G. d. Fin. ai quesiti della stampa specializzata, in ilSole24Ore, 2 febbraio 2018, in http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2018-02-02/ le-risposte-gdf 165536.shtml?uuid=AEyP4atD, ove, al titolo “Verifica, i tempi per le risposte”,


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La lacunosità della normativa italiana ordinaria, piuttosto, è apprezzabile dal crinale della (mancata) fissazione di un (proporzionato) termine minimo, per le richieste formulate in detto contesto, alla stregua di quanto invece sancito dagli artt. 32, comma 2 del D.P.R. n. 600/1973 e 51, comma 3 del D.P.R. n. 633/1972 per i controlli “a tavolino”. Da questo punto di vista, non sarebbe peregrino ventilare un’applicazione analogica di tali disposizioni (siccome espressive dei ricordati principi generali) anche alle verifiche in loco. In proposito, è ravvisabile una eadem ratio legis per accedere a una siffatta integrazione, giacché la previsione di un minimo termine ragionevole è pur sempre funzionale, in primis, a quell’esatto accertamento dei fatti, a quella “buona amministrazione”, (che deve essere) comune a ogni attività accertativa. L’analogia, fra l’altro, è giuridicamente concepibile, stante la natura procedimentale delle regole in esame, che, ut sic, non destano le perplessità suscitate dalle norme sostanziali, per le quali non è configurabile una lacuna disciplinare da colmare (con l’analogia) se una fattispecie non è colpita ex lege da imposizione (47). L’integrazione analogica, fra l’altro, scongiurerebbe disparità di trattamento, ingiustificabili al lume del principio europeo e costituzionale di egua-

si rileva che “in una cornice di leale collaborazione e reciproca fiducia, il termine dovrà essere stabilito caso per caso, ove possibile di concerto con il contribuente, tenendo conto, da un lato, del grado di complessità delle richieste e del tempo ragionevolmente necessario per acquisire ed eventualmente elaborare le informazioni utili alla verifica, dall’altro delle necessità di contenere la permanenza dei verificatori entro il termine di cui all’art. 12, comma 5 della legge 27 luglio 2000, n. 212” ; v., sul punto, anche S. Capolupo, Poteri istruttori della Guardia di Finanza e garanzie difensive del contribuente, in Il fisco, 2018, 807 ss., spec. 808. In realtà, il coordinamento con il limite di permanenza dei verificatori, pari normalmente a trenta giorni, risulta un falso problema. Detto limite è riferito ai giorni di “effettiva presenza”, anche non consecutivi, “presso la sede del contribuente” (art. 12, comma 5, ult. statuizione); stando così le cose, i verificatori potrebbero formulare richieste complesse, concedere un congruo termine per rispondere e ritornare presso i luoghi dell’interessato, dopo la scadenza inutiliter di detto termine o a seguito dell’esame della risposta resa (e pur sempre “nell’arco di non più di un trimestre, in tutti i casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi”: art. 12, comma 5, penult. statuizione della L. n. 212 cit.). (47) In assenza della norma impositiva sostanziale, infatti, si dispiega la libertà del singolo (patrimoniale, di iniziativa economica ex art. 41 Cost., etc.). Cfr., p. es., F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2009, 57 ss., spec. 59; sul punto, cfr. altresì P. Russo, Manuale, cit., Milano, 2002, 104 ss.


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glianza (48), fra destinatari di richieste di identico contenuto, solo perché attinti da controlli in luoghi diversi. L’esito si impone a fortiori alla luce delle assai frequenti e censurabili prassi di verifiche in loco che si risolvono nella formulazione di richieste (ed esame dei relativi riscontri) che avrebbero ben potuto esprimersi con inviti e questionari. Situazioni del genere non autorizzerebbero certo “elusioni” del termine minimo (per i controlli “a tavolino” (49)), evitabili in thesi, assecondando l’applicazione analogica degli artt. 32, comma 2 del D.P.R. n. 600 e 51, comma 3 del D.P.R. n. 633 anche per la disciplina delle verifiche in loco. 7. Preclusioni istruttorie e proporzionalità. – Nell’ordinamento tributario italiano, oltre all’art. 52, comma 5 del D.P.R. n. 633/1972, testé ricordato, l’art. 32, comma 4 del D.P.R. n. 600/1973 inibisce similmente l’utilizzo in sede amministrativa e/o contenziosa, delle notizie, dati, atti, documenti, libri e registri, ove favorevoli al destinatario, se oggetto di inviti o questionari erariali, non tempestivamente riscontrati (50) (51). Previsioni del genere destano interrogativi sul piano sistematico.

(48) Per i relativi riferimenti, giurisprudenziali e normativi, v. retro nt. 23, parte finale. (49) Come osservato, l’alveo proprio nel quale le verifiche in loco dovrebbero dipanarsi (e giustificarsi secondo il principio di proporzionalità) sarebbe, a rigore, quello delle ispezioni “a sorpresa” e, in generale, delle azioni unilaterali e dirette degli accertatori, senza l’apporto del soggetto verificato. Si consideri, su tutti, il caso classico di un controllo mirato al reperimento di contabilità parallela “in nero”, che sarebbe naturalmente infruttuoso richiedere al diretto interessato con un invito. Per un altro es. di “elusione” della disciplina dei controlli “a tavolino”, v. retro nt. 36. (50) Sulla norma, la letteratura è molto ampia; cfr., p. es., R. Lupi, Mancate esibizioni documentali e salvaguardia del diritto di difesa, in Corr. trib., 1999, 911 ss.; G. Vanz, Commento all’art. 32, cit., ivi, 183 ss.; in termini critici sul rapporto fra la disposizione e il diritto di difesa, v. A. Viotto, I poteri d’indagine dell’Amministrazione finanziaria nel quadro dei diritti inviolabili di libertà sanciti dalla Costituzione, Milano, 2002, 211-212; G. Ingrao, La prova nel processo tributario, cit., ivi, 355; M. Trivellin, Mancata o tardiva risposta agli inviti dell’ufficio: limiti della corretta applicazione del metodo induttivo, commento a Cass. Sez. trib., 6 ottobre 2011, n. 20461 in Rass. trib., 2012, 736 ss.; sostanzialmente, anche S. Muleo, Commento all’art. 51 del D.P.R. n. 633/1972, in Aa. Vv., Comm. breve, cit., IV, 479; alla luce della prospettiva europea, R. Iaia, Le garanzie del contribuente, cit., ivi, 479 ss.; più di recente, S. Dorigo, Il “diritto al silenzio”, cit., ivi, 388 ss.; in precedenza, sulla riferibilità della preclusione alle circostanze di fatto, M. Basilavecchia, Tecniche difensive in materia di rettifiche basate su coefficienti, in GTRiv. giur. trib., 2003, 561, commento a Cass., Sez. trib., 27 novembre 2002, n. 16771. (51) Quanto al raggio applicativo della norma, si registrano asimmetrie da almeno quattro versanti. La prima involge lo stesso art. 32, comma 4 che tocca le “notizie ed i dati non addotti e gli


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atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio (…)”, senza alludere ai questionari. Secondo S. Dorigo, Il “diritto al silenzio”, cit., ivi, 388389, “una parte della dottrina” auspicherebbe “un’interpretazione restrittiva di tale termine, legandola ai soli questionari” (ivi, 389 e, alla nt. 3, ove rinvia a F. Farri, Inutilizzabilità in giudizio dei documenti non esibiti in fase istruttoria fra legge e Costituzione, in Riv. dir. trib. on line, 16 maggio 2016, il quale, invero, nulla risulta affermare a questo specifico proposito); in realtà, un’esegesi restrittiva del testo dovrebbe comportarne un’applicazione ai soli “inviti”, giacché l’art. 32, comma 4 – appunto – non menziona tout court i questionari. Lo stesso S. Dorigo, op. ult. cit., 389, afferma, poi, che “la lettera della norma, impiegando una terminologia atecnica, sembra collegare l’operatività del regime in questione a qualsiasi richiesta, anche informale, dell’Ufficio”; l’esito risulta condivisibile quanto alla latitudine, al carattere “atecnico” e impreciso del riferimento, ma non è meritevole di adesione ove estende l’applicabilità della norma preclusiva, anche a richieste “informali”. Tali non sono certamente, almeno, quelle dello stesso art. 32, comma 1, nn. 2) ss. del D.P.R. n. 600/1973, giacché oggetto di veri e propri provvedimenti amministrativi, la cui imperatività è corredata da un apparato sanzionatorio, che include la preclusione. Sarebbe arduo per il fisco dimostrare l’esistenza di una richiesta “informale”, proprio perché tale (si pensi, p. es., a un invito telefonico), ai fini dell’irrogazione delle sanzioni per l’inottemperanza ad essa da parte del destinatario (il tema potrebbe porsi, in astratto, per l’invito di cui all’art. 36-ter, comma 3 del D.P.R. n. 600/1973, ma v. subito infra nella presente nt.). La seconda ipotesi è quella dell’art. 51, ult. comma del D.P.R. n. 633/1972 che, ai fini IVA, rinvia alla preclusione dell’art. 32, comma 4 del D.P.R. n. 600 cit. per gli “inviti di cui al secondo comma, numeri 3) e 4)” ossia per la trasmissione “ai soggetti che esercitano imprese, arti e professioni, con invito a restituirli compilati e firmati” di “questionari relativi a dati e notizie di carattere specifico rilevanti ai fini dell’accertamento, anche nei confronti di loro clienti e fornitori” nonché per l’invito a “qualsiasi soggetto ad esibire o trasmettere, anche in copia fotostatica, documenti e fatture relativi a determinate cessioni di beni o prestazioni di servizi ricevute ed a fornire ogni informazione relativa alle operazioni stesse”. In particolare, non sembra giustificabile che la norma non estenda il rinvio anche all’invito di cui all’art. 51, comma 2, n. 2) del D.P.R. n. 633/1972 destinato ai “soggetti che esercitano imprese, arti o professioni, indicandone il motivo, a comparire di persona o a mezzo di rappresentanti per esibire documenti e scritture, ad esclusione dei libri e dei registri in corso di scritturazione, o per fornire dati, notizie e chiarimenti rilevanti ai fini degli accertamenti nei loro confronti anche relativamente ai rapporti ed alle operazioni, i cui dati, notizie e documenti siano stati acquisiti” nell’ambito di indagini finanziarie. La mancata inclusione di tale ipotesi nell’orbita della preclusione non appare conforme al principio di eguaglianza. Ulteriore fattispecie da analizzare è quella del primo “invito” da cui prende le mosse il procedimento accertativo sintetico (art. 38, comma 7 del D.P.R. n. 600/1973), che rivela ictu oculi un’assonanza con la previsione dell’art. 32, comma 1, n. 2) del D.P.R. n. 600/1973 (evidenziata recte da Ag. Entrate, Circ. 31 luglio 2013, n. 24/E del par. 2.3., 3° periodo; Circ. 14 maggio 2014, n. 10/E, par. 12.3.). Ciò nonostante, l’esegesi amministrativa (cfr. la cit. Circ. 14 maggio 2014, n. 10/E, ivi) ha affermato l’inapplicabilità della preclusione giacché “il settimo comma dell’art. 38 del d.P.R. n. 600/73 prevede un secondo momento obbligatorio di confronto con il contribuente, secondo le modalità dell’art. 5 del d.lgs. n. 218/97, quale ulteriore garanzia per il contribuente” (similmente, F. Tundo, Procedimento tributario e difesa del contribuente,


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Alla sanzione pecuniaria propria dell’art. 11 del D.Lgs. n. 471/1997 (52) e alla legittimazione ad esperire accertamento extra-contabile nei confronti di

Padova, 2013, 322 ss.). Trattasi di argomento erroneo. La preclusione è considerata come una misura afflittiva impropria per l’inadempimento a un dovere (v. retro nt. 41). Anche un invito ex art. 32, comma 1, n. 2) del D.P.R. n. 600/1973 potrebbe (e, dalla prospettiva europea, “dovrebbe sempre”: v., p. es., Corte di giustizia, 22 ottobre 2013, causa C-276/12, Sabou, punto 40) essere seguito da una fase destinata al contraddittorio strictu sensu, se del caso pure attivata dal fisco ex art. 5 del D.Lgs. n. 218/1997; ma non sarebbe comunque dubitabile l’operatività della preclusione in caso, p. es., di mancata risposta al primo invito, pur a fronte del contraddittorio successivo. Al più, forse, si potrebbe immaginare un percorso interpretativo che cercasse di radicalizzare l’inserimento della preclusione in seno all’art. 32 (al comma 2) e, valorizzandone l’indole di sanzione impropria, tentasse di ipotizzarne l’operatività solo per le fattispecie contemplate da quella disposizione, in forza della stretta tipicità delle misure afflittive (desumibile, p. es., dagli artt. 25, comma 2 Cost. e 3, comma 1 del D.Lgs. n. 472/1997). Ma una siffatta operazione ermeneutica non convincerebbe, stante l’evidenziata, palese affinità testuale dell’invito di cui all’art. 38, comma 7, prima parte con quello dell’art. 32, comma 1, n. 2) del D.P.R. n. 600/1973. Sembra, dunque, preferibile sostenere che l’art. 38, comma 7 additi una prima fase istruttoria in senso stretto, di acquisizione di dati e notizie (con l’insorgenza, almeno in generale linea di principio, di un obbligo a rispondere in capo al destinatario del primo invito) e da una seconda, eventuale, più propriamente vocata al contraddittorio su un’ipotesi di addebito preliminare. Fra l’altro, e soprattutto, una lettura che escludesse il primo invito dell’art. 38, comma 7 dall’orbita operativa della preclusione concretizzerebbe una (ulteriore) disparità di trattamento rispetto agli atti di cui all’art. 32, comma 1, nn. 2) ss., disarmonica rispetto al ricordato principio di eguaglianza. Si ritiene, dunque, più esatto concludere per la sussunzione (pure) dell’invito ex art. 38, comma 7 alla preclusione dell’art. 32, comma 4 del D.P.R. n. 600; in questo senso, cfr. R. Lunelli, Accertamento redditometrico tra tutela dell’interesse fiscale e garanzie del contribuente, relazione al seminario “Profili operativi del nuovo redditometro”, Padova, 18 ottobre 2013, 18, nt. 75, su gentile concessione dell’A. Una quarta ipotesi, meritevole di attenzione, è quella dell’invito al contribuente “anche telefonicamente o in forma scritta o telematica, a fornire chiarimenti in ordine ai dati contenuti nella dichiarazione e ad eseguire o trasmettere ricevute di versamento e altri documenti non allegati alla dichiarazione o difformi dai dati forniti da terzi” di cui all’art. 36-ter, comma 3 del D.P.R. n. 600/1973, in tema di controlli c.d. formali. Anche qui sembra potersi ragionare di un atto istruttorio stricto sensu che prelude a una (eventuale) contestazione preliminare degli addebiti, con la comunicazione circa “l’esito del controllo formale” di cui al comma 4 dell’art. ult. cit. Allora, risulta (di nuovo) sistematicamente più corretto affermare l’operatività della norma preclusiva, onde evitare (ancora) patologiche disparità di trattamento, confliggenti con il principio di eguaglianza (sembra aperta all’ipotesi di considerare la preclusione, anche in tale ambito, R. Rinaldi, Commento all’art. 36-ter del D.P.R. n. 600/1973, in Aa. Vv., Comm. breve, cit., I, 212 la quale critica recte a p. 211 la previsione del comma 3 circa la formulabilità dell’invito “anche telefonicamente”, che mal si concilia con un atto istruttorio, correlabile almeno alla sanzione dell’art. 11 del D.Lgs. n. 471/1997, se non anche a quella “impropria” preclusiva, come appare preferibile concludere). (52) V. nt. 39.


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imprenditori e lavori autonomi (53), infatti, si aggiungono misure para-afflittive che incidono sulla libertà dell’interessato a offrire elementi istruttori nel procedimento amministrativo di accertamento e prove nel(l’eventuale) giudizio, funzionali alla corretta ricostruzione dei fatti. Occorre, pertanto, interrogarsi sulla proporzionalità di una simile, multipla reazione ordinamentale (54). In una prospettiva de jure condendo, pare più corretto colpire l’inadempimento del destinatario dell’atto con un incremento dei limiti edittali, particolarmente miti, della norma amministrativa sanzionatoria (propria) oggi in vigore (55) piuttosto che con l’accostamento ad essa di previsioni che ingabbiano le facoltà istruttorie (e, perciò, difensive) dell’interessato nel corso delle indagini tributarie e/o del(l’eventuale) processo, così ostacolando il riscontro della verità (56). 8. Gli atti istruttori da procedimento/processo penale. – Il principio europeo di proporzionalità rileva anche in ordine all’affluenza di risultanze istruttorie penalistiche in seno all’indagine tributaria (57). Con la sentenza Webmind del 2015, la Corte di giustizia le ha dialetticamente apprezzate ove ingerenti sulla sfera di riservatezza dell’interessato, protetta dagli artt. 8 CEDU e 7 della “Carta di Nizza” (58). Il caso di specie, in particolare, ha sollecitato l’individuazione dei confini al ricorso e utilizzo di intercettazioni di telecomunicazioni e del sequestro di

(53) Art. 39, comma 2, lett. d-bis) del D.P.R. n. 600/1973: v. nt. 42. (54) V., sul punto, E. Artuso, La “ghettizzazione” del principio di capacità contributiva nel piano meramente sostanziale del diritto tributario: brevi osservazioni su una recente pronuncia della Corte costituzionale, nota a Corte cost., ord. 7 giugno 2007, n. 181, in Riv. dir. trib., 2008, II, 374. (55) Riv. la cit. nt. 39. (56) La “sanzione impropria” in esame, così congegnata, appare non solo sproporzionata, ma evidentemente contraria a ulteriori, svariati, principi generali sovranazionali e costituzionali, come quello del rispetto dei diritti della difesa anche in sede amministrativa, dell’equo processo, della corretta intercettazione della capacità contributiva del singolo, etc. In ordine a questi profili, anche per i corrispondenti richiami bibliografici e giurisprudenziali, si rinvia a R. Iaia, Le garanzie del contribuente, cit., ivi, passim. (57) Dalla prospettiva nazionale, per l’analisi del tema, v. R. Schiavolin, L’ utilizzazione fiscale delle risultanze penali, Milano, 1994. (58) Corte di giustizia, 17 dicembre 2015, causa C-419/14, Webmind. Sull’art. 8 CEDU, v. anche la sent. cit. all’incipit di nt. 67.


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posta elettronica durante visite domiciliari nei locali professionali o commerciali di una persona fisica o nei locali commerciali di una società. Nell’occasione, i giudici europei hanno evidenziato la concepibilità di simili strumenti in ambito tributario solo se previsti dalla legge (principio di legalità), con adeguati presidi di garanzia contro gli abusi e l’arbitrio e purché non eccedenti quanto necessario all’istruttoria (principio di proporzionalità) (59). Si tratta, dunque, dello stesso apprezzamento additato dalla ricordata sentenza Nold della Corte e, ora, dall’art. 52, par. 1 della “Carta di Nizza”. La particolarità è qui ravvisabile nella circostanza che il duplice sindacato sulla legalità e sulla “necessarietà” degli atti d’indagine tocca ab imis sia l’istruttoria penale a quo sia, e in seconda battuta, quella tributaria ad quem (60). Siamo, dunque, al cospetto di quello che è stato efficacemente definito come un “doppio vaglio ‘al quadrato’” (61), dal cui positivo superamento dipende la fisiologia dell’acquisizione istruttoria. 9. Corollari applicativi. La tutela avverso gli atti istruttori illegittimi (cenni). – A questo punto, occorre soffermarsi brevemente circa gli strumenti

(59) A questo proposito, la sent. Webmind, cit., al punto 82 ricorda le ipotesi di “un semplice controllo nei locali” (ammesso e non concesso che sia – davvero e sempre – meno invasivo di intercettazioni di telecomunicazioni e di un sequestro di posta elettronica) della contribuente “o una richiesta di informazioni o di indagine amministrativa rivolta all’amministrazione (…) in applicazione del regolamento n. 904/2010”, relativo alla cooperazione amministrativa e alla lotta contro la frode in materia di IVA. Si potrebbe pensare che il ricorso alle intercettazioni e al sequestro sia più allineato al principio di proporzionalità ove alternativi e più miti strumenti istruttori non avessero condotto a soddisfacenti esiti per l’autorità procedente (ad es., nel diritto italiano, per mancata risposta a un precedente invito o questionario di cui agli artt. 32, comma 1, nn. 2) ss. del D.P.R. n. 600/1973 e 51, comma 2, nn. 2) ss. del D.P.R. n. 633/1972). (60) Cfr. sent. Webmind, cit., punto 91. (61) Così, S. Tesoriero, Processo penale e prova multidisciplinare europea. Proporzionalità in materia di illeciti finanziari, in Riv.dir.proc., 2016, 1526 ss., par. 4. Per un commento alla pronuncia, con riferimento a tali specifici profili, v. E. Midassi, Costruzione artificiosa ai fini IVA e circolazione interna delle prove, in Rass. trib., 2016, 804 ss., la quale ravvisa, sub 812, la tendenza a una perdita di sistematicità e a soluzioni casistiche che deriverebbero dall’applicazione giudiziale del principio di proporzionalità, in potenziale attrito con il principio di certezza del diritto. In realtà, il vaglio sulla proporzionalità giocoforza non sembra poter agevolmente prescindere dalle peculiarità di ciascun caso. A fronte di un identico oggetto istruttorio, un atto d’indagine potrebbe essere proporzionato o sproporzionato a seconda delle fattispecie concrete. Così, un sequestro di posta elettronica potrebbe essere proporzionato, se esperito dopo un infruttuoso invito a produrre documenti, rimasto senza riscontro e non esserlo ove non preceduto da un invito siffatto: v. retro nt. 59, parte finale.


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di protezione avverso gli atti investigativi, contrari al principio europeo di proporzionalità. In ambito domestico, si ravvisano consolidate tendenze ermeneutiche, estensive del novero degli atti impugnabili dinanzi al giudice tributario, ma non si spingono certo a dilatare l’elenco disegnato dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 fino ad abbracciare quelli istruttori, giacché (e strutturalmente) non recano pretese fiscali (62). Tentativi di individuazione sistematica di strumenti di tutela giurisdizionale immediata avverso atti d’indagine sono senz’altro apprezzabili e mirano a colmare evidenti limitazioni delle garanzie del destinatario di una attività investigativa illegittima (63).

(62) Per alcuni recentissimi ess., ex multis, cfr. Cass., Sez. VI-5, ord. 26 marzo 2018, n. 7497, circa il diniego di accoglimento di istanza d’interpello disapplicativo (di cui al previgente art. 37-bis, comma 8 del D.P.R. n. 600/1973) ove ribadisce l’interpretazione estensiva dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, la quale si spinge fino a ricomprendere “altri atti”, ma pur sempre “ove con gli stessi l’Amministrazione porti a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, esplicitandone le ragioni fattuali e giuridiche (…)”; sullo stesso tema, Cass., Sez. VI-5, ord. 15 marzo 2018, n. 6466; v. già la più risalente Cass., Sez. Un., 24 luglio 2007 n. 16293. In tali atti, la rappresentazione di maggiori oneri tributari, corredata dalle concrete ragioni che le supportano, induce a ravvisare un interesse ad agire in capo al destinatario dell’atto (art. 100 c.p.c., applicabile al rito tributario ex art. 1, comma 2 del D.Lgs. n. 546/1992), il quale non esige di aspettare che essi si rivestano della forma juris degli atti d’imperio di cui all’art. 19. La consolidata opinione giurisprudenziale poggia su “una interpretazione aderente alle norme costituzionali, sia di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 della Costituzione) che (art. 97 della Costituzione) di buon andamento (anche sub specie di evitare il connesso inutile dispendio di energie) dell’attività della Pubblica Amministrazione”; “inutile dispendio di energie” che si determinerebbe ove, ai fini dell’apprezzamento della censurabilità di atti recanti addebiti fiscali, si dovesse necessariamente attendere l’emanazione di quelli (avvisi di accertamento, di liquidazione, etc.) menzionati dall’art. 19. Inoltre, l’esegesi estensiva fa leva anche sull’“allargamento (Cass., SS.UU., 15 maggio 2007, n. 11076 e n. 11077) della giurisdizione del giudice tributario operato” dall’art. 12, comma 2 della L. n. 448/2001 con riferimento all’art. 2, comma 1 del D.Lgs. n. 546/1992, il quale ora investe “tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie” (per simile argomento, cfr., p. es., Cass., Sez. trib., 8 ottobre 2007, n. 21045). Per un inquadramento, v., fra gli altri, R. Schiavolin, Commento all’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, in Aa. Vv., Comm. breve leggi proc. trib., a cura di C. Consolo - C. Glendi, Padova, 2012, 257 ss., spec. 267 ss.; G. Ragucci, Commento all’art. 19, cit., in Aa. Vv., Cod. comm. proc. trib., a cura di F. Tesauro, Milano, 2016, 384 ss., in part. 388 ss.; in senso critico verso la descritta lettura estensiva dell’art. 19, C. Glendi, Atti impugnabili e oggetto del ricorso, in Dir. prat.trib., 2017, II, 2800 ss., il quale ritiene che non poggi su norme giuridiche e risulterebbe, piuttosto, confutata da recenti previsioni quale, p. es., l’art. 6, comma 1 del D.Lgs. n. 156/2015 sulla non autonoma impugnabilità dei dinieghi di interpello, con l’eccezione di quelli disapplicativi. (63) Così, p. es., prospettano una tutela immediata avverso gli atti istruttori illegittimi,


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Un presidio, per certi versi, “immediato” avverso atti sproporzionati potrebbe ravvisarsi nell’autotutela amministrativa, non affatto inconcepibile con riferimento a provvedimenti istruttori tributari (64).

soprattutto con riferimento alla giurisdizione amministrativa, R. Schiavolin, voce Poteri istruttori, cit., ivi, spec. 203, con puntuale riguardo alle “autorizzazione viziate”; A. M. Gaffuri, Appunti sul potere di accesso degli Uffici finanziari, in Rass. trib., 2000, 547 ss., spec. 548; G. Vanz, p. es. alla voce Controlli amministrativi (dir. trib.), in Diz. dir. pubbl., cit., II, 1438 ss., spec. 1445; I. Manzoni - G. Vanz, Il diritto tributario. Profili teorici e sistematici, Torino, 2008, 275 ss.; secondo G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2008, 477 ss., in part. 479, l’esclusione di una tutela immediata confligge con l’art. 113, comma 1, Cost., ove assicura la protezione giurisdizionale contro (tutti) gli atti della pubblica amministrazione; v. anche op. ult. cit., nell’ed. 2012, 495; F. Gallo, L’istruttoria nel sistema tributario, in Rass. trib., 2009, 25; cfr., inoltre, L. del Federico, Tutela del contribuente, cit., 278-279. La tesi che prefigura l’impugnabilità di atti istruttori dinanzi alla giurisdizione amministrativa muove, naturalmente, dalla premessa che si faccia valere un interesse legittimo all’annullamento dell’atto istruttorio patologico. Nell’ipotesi di lesione a un diritto soggettivo, si aprirebbero le porte di un’azione risarcitoria e, se del caso, della tutela cautelare atipica d’urgenza ex art. 700 c.p.c. dinanzi al giudice ordinario: ne accennano, p. es. e sullo sfondo, gli stessi A. M. Gaffuri, op. ult. cit., 549 e G. Vanz, op. ult. cit., 1445; la prospettiva della tutela immediata in sede civilistica è decisamente più accentuata nel pensiero di P. Russo, Manuale, cit., Milano, 1999, 269 ss., per il quale gli atti istruttori illegittimi sono per lo più lesivi di diritti soggettivi di rango costituzionale (quali quelli all’inviolabilità del domicilio, alla segretezza della corrispondenza). Anche dalla prospettiva ordinamentale europea, che non conosce la categoria dogmatica degli interessi legittimi, non appare peregrino interrogarsi circa l’ipotizzabilità di una tutela immediata dinanzi al giudice ordinario a fronte di atti di indagine, lesivi – per esempio – del principio di proporzionalità, come nell’esaminata ipotesi di violazione del divieto della “fishing expedition”. Provvedimenti istruttori generici comprimono ex se il diritto alla difesa, oggetto di un principio generale europeo riconosciuto pure in seno al procedimento amministrativo (v. retro par. 3 nonché, ex pluris, quanto al contenuto degli atti istruttori, Corte di giustizia, 22 ottobre 2002, causa C-94/00, Roquette Freres, cit.) oltre che di guarentigia costituzionale (art. 24, comma 2 Cost., applicabile anche all’attività d’indagine esperita extra litem, giacché “se la legge ordinaria, collocando la formazione delle prove a carico di un soggetto, ad opera di una pubblica autorità, fuori del vero e proprio processo, potesse farne discendere l’inapplicabilità delle garanzie difensive, il principio vigorosamente affermato dall’art. 24 della Costituzione correrebbe il rischio di essere sostanzialmente eluso”: Corte cost., 3 dicembre 1969, n. 149, con riferimento alle “operazioni di prelevamento e di analisi dei campioni” di cui agli artt. 41; 43-46 del R.D.L. n. 2033/1925, conv. in L. n. 562/1926, sulla “repressione delle frodi nella preparazione e nel commercio di sostanze di uso agrario e di prodotti agrari”). (64) In materia di autotutela tributaria, l’art. 2-quater, comma 1 del D.L. 564/1994 (conv., con modificazioni, dalla L. n. 656/1994) ragiona di “annullamento d’ufficio o di revoca (…) degli atti illegittimi o infondati” con una latitudine tale da autorizzare la sussunzione anche di quelli istruttori alla disciplina de qua. Il baricentro della normativa regolamentare di attuazione, oggetto del D.M. n. 37/1997, guarda – invero e soprattutto – agli atti d’imposizione (v. art. 2


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Allo “stato dell’arte”, invece, ben difficilmente una protezione diretta del soggetto, compulsato da atti istruttori sproporzionati (e illegittimi in genere), troverebbe fruttuoso riscontro nelle aule di giustizia italiane, per di più sensibili a una concezione della tutela in via differita, coltivabile (solo) con l’impugnazione dell’atto impositivo e/o sanzionatorio, a indagine amministrativa (tendenzialmente) compiuta (65). Si tratta di una prospettiva non condivisibile, giacché (vuole) riconosce(re) solo sullo sfondo e “in filigrana” la rilevanza primaria di beni fondamentali, (quali, giustappunto, quelli della persona, della famiglia, del domicilio, della

spec.), ma non appare affatto un argomento decisivo per escludere l’esercizio del potere di autoannullamento per quelli di indagine. La lettura è almeno suggerita dalla evidenziata ampiezza della (superiore) norma di legge sia dalla conformità dell’esegesi al principio europeo di buona amministrazione (ora recepito nel cit. art. 41 della “Carta di Nizza”) e a quelli costituzionali di legalità, buon andamento e imparzialità dell’azione pubblica (artt. 23 e 97, comma 1 Cost.), cui l’autotutela è funzionale. Per considerazioni similari, cfr. A. M. Gaffuri, Appunti sul potere di accesso, cit., ivi, 551, in merito al previgente art. 68 del D.P.R. n. 289/1992; fra l’altro, riguardo al D.M. n. 37/1997, l’A. valorizza il carattere puramente esemplificativo della (e tale, perciò, da non escludere le ipotesi non contemplate dalla) casistica considerata dallo stesso regolamento (riv. art. 2, comma 1). L’attrazione (anche) degli atti istruttori all’art. 2-quater del D.L. n. 564 cit. si impone a fortiori movendo dalla prospettiva di P. Russo, Manuale, cit., Milano, 1999, 153, secondo cui la disposizione avrebbe affidato al Ministero delle finanze “il potere non già di emanare un regolamento attuativo/integrativo della disciplina (…), bensì e semplicemente quello di individuare gli organi competenti al suo esercizio, da esplicarsi (…) con un atto (…) amministrativo generale e non normativo”; sicché, il D.M. n. 37/1997 non poggerebbe sulla norma di legge, per il restante contenuto disciplinare (e, dunque, ove il D.M. cit. si riferisce soprattutto agli atti impositivi). In termini più articolati e, in parte, critici sulla configurabilità dell’autotutela per gli atti istruttori tributari, v. D. Stevanato, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria. L’annullamento d’ufficio a favore del contribuente, Padova, 1996, 157 ss. (65) A puro titolo esemplificativo, cfr. Cass., Sez. Un., 8 agosto 1990, n. 8062; Cass., Sez. Un., 16 marzo 2009, n. 6315, in Corr.trib. 2009, 1914 ss., con nota di S. Muleo, Le Sezioni Unite dichiarano non impugnabili dinanzi al TAR gli atti istruttori del procedimento, il quale, tuttavia, segnala alcune aperture della pronuncia a forme di tutela immediata; sulla sent. ult. cit. v. altresì C. Glendi, Indagini tributarie e tutela giurisdizionale, in Corr. trib. 2009, 3616 ss. che inquadra il rapporto fra atti istruttori e consequenziale provvedimento impositivo e sanzionatorio come di “presupposizione” anziché di “derivazione”; Cass., Sez. Un., 7 maggio 2010, n. 11082, con nota di M. Basilavecchia, Il segreto professionale nella verifica fiscale e la tutela giurisdizionale, in GT - Riv. giur. trib., 2010, 762 ss.; Cass., Sez. Un., 2 maggio 2016, n. 8587, in GT-Riv. giur. trib., commentata da L. Trombella, La tutela giurisdizionale avverso gli atti istruttori illegittimi, in Corr.trib., 2016, 2381 ss.; da ultimo, in relazione alla violazione della libertà di domicilio (art. 14 Cost.), Cass., Sez. VI-5, ord. 30 maggio 2018, n. 13711 con riferimento alla illegittimità di un accesso, insuperata da una consegna spontanea di documentazione da parte del contribuente.


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riservatezza, etc.) che invece esigono una sollecita protezione all’avveramento della lesione (66), come da tempo desumibile dall’esperienza giuridica sovranazionale, da ultimo, con la sentenza Brazzi c. Italia della Corte EDU (67).

(66) Nella dottrina italiana, per analoghe considerazioni, cfr., p. es., P. Russo, Manuale, cit., ed. 1999, ivi; A. M. Gaffuri, Appunti sul potere di accesso, cit., 548. (67) Corte EDU, 27 settembre 2018, n. 57278/11, Brazzi c. Italia, riguardo a un ordine di perquisizione e sequestro domiciliare nell’ambito di un procedimento penale (archiviato in meno di tre mesi), incardinato una settimana dopo l’autorizzazione della Procura della Repubblica all’accesso presso l’abitazione dell’indagato, nella cornice di una verifica fiscale amministrativa (art. 52, comma 1 del D.P.R. n. 633/1972), mirata ad acquisire documenti e informazioni che il medesimo, residente in Germania e temporaneamente impossibilitato a tornare in Italia, si era dichiarato disponibile a offrire (punto 10); nella specie, la Corte ha ritenuto violato l’art. 8 CEDU, in tema di “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”, giacché “in assenza di un controllo giurisdizionale preliminare o di un effettivo controllo ex post della misura controversa, le garanzie procedurali previste dalla legge italiana non sono sufficienti a prevenire il rischio di abuso di potere da parte delle autorità investigative penali”; in particolare “la legislazione nazionale non offriva al ricorrente garanzie sufficienti contro l’abuso o l’arbitrarietà prima o dopo la ricerca” (punti 50, 51), pur in presenza della ricordata, previa autorizzazione della Procura all’accesso domiciliare nel contesto dell’indagine fiscale precedente quella penale, evidentemente ritenuta dalla Corte un presidio ex se insufficiente per tutelare la proporzionalità di una misura incisiva sulla sfera giuridica personale dell’interessato. Sul punto, imprescindibile è la celebre sent. della Corte EDU, 21 febbraio 2008, n. 18497/03, Ravon e a. c. Francia, riferita all’art. L16 B del Livre des procédures fiscales dell’ordinamento francese; nell’occasione, i giudici di Strasburgo hanno statuito, in particolare, che non soddisfa i requisiti dell’equo processo di cui all’art. 6, par. 1 CEDU l’esperibilità di un ricorso interno di ultima istanza e di sola legittimità avverso un’ordinanza giurisdizionale di autorizzazione delle ispezioni domiciliari in base alla cit. norma transalpina, giacché il regime francese non sarebbe perciò aperto a un esame circa la base fattuale e di merito dell’autorizzazione contestata. La pronuncia è reperibile, fra l’altro, in GT - Riv. giur. trib. 2008, 743 ss., annotata da A. Marcheselli, Accessi, verifiche fiscali e giusto processo: una importante sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e in Riv. dir. trib., 2008, IV, 181 ss., commentata da S. Muleo, L’applicazione dell’art. 6 CEDU anche all’istruttoria tributaria a seguito della sentenza del 21 febbraio 2008 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso ‘Ravon e altri c. Francia’ e le ricadute sullo schema processuale vigente; sulla decisione, inoltre, v. L. del Federico, Tutela del contribuente, cit., 278-279. La sentenza, in correlazione con il cit. art. L16 B, fra l’altro, è ripresa anche da altre pronunce coeve: Corte EDU, 20 novembre 2008, n. 2058/04, IFB c. Francia; Corte EDU, 16 ottobre 2008, n. 10447/03, Maschino c. Francia; Corte EDU, 18 settembre 2008, n. 18659/05, Kandler e a. c. Francia; Corte EDU, 24 luglio 2008, n. 18603/03, André e a. c. Francia. Nel diritto amministrativo europeo, cfr. il cit. art. 18, par. 3, ult. statuizione del Regolamento n. 1/2003 sull’informativa all’interessato, afferente la diretta impugnabilità dinanzi alla Corte di giustizia dei provvedimenti istruttori in materia di libera concorrenza. Nel senso di una protezione immediata degli atti istruttori, dinanzi al giudice ordinario, (solo) ove rivolti a soggetti diversi dall’indagato, G. Ragucci, Commento all’art. 19, cit., ivi, 409 che riporta l’opinione di F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, ora espressa


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Dal versante di una tutela differita, appare corretto sostenere l’illegittimità (prima e più che l’infondatezza) del provvedimento impositivo e/o sanzionatorio ove palesasse addebiti radicati, già nella motivazione, su risultanze acquisite in violazione del principio di proporzionalità. Tanto, evidentemente, non varrebbe allorché le pretese tributarie fossero comunque sorrette aliunde, da ulteriori elementi, legittimamente acquisiti e/o formati ed enunciati nella motivazione del provvedimento finale (68). 10. Contraddittorio amministrativo ex ante e proporzionalità. – Secondo il diritto dell’Unione, a conclusione dell’indagine stricto sensu, mirata all’acquisizione e/o formazione di elementi istruttori, il pubblico potere ha l’onere di anteporre all’eventuale provvedimento lesivo il contraddittorio con il destinatario, ulteriore esplicazione della “buona amministrazione” e del principio

nell’ed. 2017, 80, il quale, a propria volta, ricorda che analoga soluzione può essere estesa allo stesso indagato, “se l’atto istruttorio lesivo non è seguito da un provvedimento impositivo”, come ritenuto da Cass., Sez. Un., 2 maggio 2016, n. 8587 cit.; nondimeno, come illustrato nel testo, rileva l’immediato effetto lesivo che un atto istruttorio patologico può sortire a carico del destinatario (con riferimento alla vita personale e familiare, all’inviolabilità del domicilio, etc.), a prescindere dalla successiva ed eventuale emanazione del provvedimento finale impositivo e/o sanzionatorio. Valorizza, almeno dinanzi ai giudici tributari, l’operatività di una tutela solo differita, C. Glendi, p.es. in Atti impugnabili, cit., ivi, 2796 ss., al lume dell’art. 19, comma 3, 1° periodo del D.Lgs. n. 546/1992, secondo cui “gli atti diversi da quelli indicati” dalla norma “non sono impugnabili autonomamente”. (68) Per un similare ordine di idee, nella prospettiva italiana, cfr., p. es., L. Salvini, La partecipazione del privato all’accertamento, Padova, 1990, 329. V. anche l’incipit del par. seg. Nondimeno, la sent. Webmind del 2015, al cit. punto 89, sembrerebbe valorizzare l’infondatezza più che l’illegittimità del provvedimento finale; per un similare ordine di idee, cfr. anche P. Russo, Manuale, cit., Il processo tributario, Milano, 2005, 182-183, ove ragiona della “inutilizzabilità” processuale della prova lesiva “di un diritto del contribuente o di (…) un terzo a lui collegato, riconosciuto e garantito come inviolabile dalla costituzione o da una norma di legge ordinaria”.


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generale europeo del rispetto dei diritti della difesa (69), vero e proprio “contenitore omnibus” di eterogenee garanzie per gli amministrati (70). Secondo la giurisprudenza dell’Unione, il provvedimento inaudita altera parte è illegittimo se, “in mancanza di tale irregolarità,” il procedimento istruttorio non “avrebbe potuto comportare un risultato diverso” (71). Si richiede, dunque, una prognosi ex ante, nel giudizio tributario, in ordine a una “non totale esclusione” dell’ipotesi di un “possibile risultato diverso”, “in quanto” l’interessato “avrebbe potuto difendersi più efficacemente in assen-

(69) Fra le innumerevoli sentenze in tal senso, cfr. Corte di giustizia, 12 dicembre 2002, causa C-395/00, Cipriani, punto 51, commentata da F. Cerioni, Si deve sempre riconoscere ai soggetti interessati la facoltà di rappresentare le proprie ragioni, in GT-Riv.giur.trib., 2003, 510 ss.; la notissima Corte di giustizia, 18 dicembre 2008, causa C-349/07, Sopropé, punti 36 ss., commentata da G. Ragucci, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario, in Rass. trib., 2009, 580 ss.; A. Marcheselli, Il diritto al contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario è diritto fondamentale del diritto comunitario, in GTRiv.giur.trib., 2009, 210 ss.; di recente, Corte di giustizia, 20 dicembre 2017, causa C‑276/16, Preqù, punti 45 ss. Il principio, ora, è altresì recepito dal cit. art. 41, par. 2, primo alinea della “Carta di Nizza” in tema di “buona amministrazione”. (70) La Corte di giustizia, infatti, riconduce svariate situazioni giuridiche al principio generale del rispetto dei diritti della difesa dinanzi al pubblico potere, oltre al contraddittorio preliminare. Si considerino il diritto alla puntuale connotazione oggettiva e teleologica degli atti istruttori (cfr., p. es., Corte di giustizia, 22 ottobre 2002, causa C-94/00, Roquette Freres, sulla quale, v. supra par. 3.); il diritto al silenzio e a non auto-accusarsi (Corte di giustizia, 18 ottobre 1989, causa C-374/87, Orkem, punti 33 ss., spec. 35), il diritto di accesso agli atti a conclusione dell’indagine amministrativa (Corte di giustizia, 26 gennaio 2017, causa C‑609/13 P, Duravit e a., punto 99 e, da ultimo, Corte di giustizia, 9 novembre 2017, causa C‑298/16, Ispas e a., punto 39, “a meno che obiettivi di interesse generale giustifichino la restrizione dell’accesso a dette informazioni e a detti documenti”). (71) V. Corte di giustizia, 3 luglio 2014, cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino e a., punto 79, commentata da A. Marcheselli, Il contraddittorio va sempre applicato, ma la sua omissione non può eccepirsi in modo pretestuoso, in Corr. trib., 2014, 2536 ss. e da R. Iaia, I confini di illegittimità del provvedimento lesivo del diritto europeo al contraddittorio preliminare, in GT-Riv. giur. trib., 2014, 838 ss., del quale v., amplius, Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario nell’ordinamento dell’Unione europea. Riflessi nel diritto nazionale, in Dir. prat. trib., 2016, I, 78 ss.; in precedenza, p. es., Corte di giustizia, 10 luglio 1980, causa C-30/78, DCL, punto 26; Corte di giustizia, 1° ottobre 2009, causa C-141/08 P, Foshan, punto 94; di recente, Corte di giustizia, 20 dicembre 2017, causa C‑276/16, Preqù, cit., punto 62. Il principio di conservazione dell’atto, se viziato da patologie non incisive sul risultato, è recepito dall’art. 21-octies, comma 2 della L. n. 241/1990, in tema di annullabilità del provvedimento amministrativo in generale; sull’argomento, v., ex multis, L. del Federico, p. es. in L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva: verso l’amministrazione di risultato, in Riv. trim. dir. trib., 2013, 866 ss. e, quanto alla relazione fra la norma e il diritto europeo, in I rapporti tra lo Statuto e la legge generale sull’azione amministrativa, cit., ivi, 249.


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za dell’irregolarità procedurale” (72). In pratica, non si richiede al giudice, investito della doglianza di violazione del contraddittorio, di apprezzare se l’atto finale “avrebbe avuto un contenuto differente” (73), ma una sorta di delibazione circa la sussistenza di un fumus di “non totale infondatezza” delle difese, se fossero state presentate all’autorità prima dell’atto impositivo e/o sanzionatorio (74). È una delle più significative interrelazioni del principio europeo di proporzionalità con quello del contraddittorio e nega rilievo giuridico a difese pretestuose, tali da “escludere totalmente” l’ipotesi di variazioni degli esiti accertativi, “fotografati” dal provvedimento finale (75). La maggiore incidenza del principio di proporzionalità, tuttavia, la si ravvisa quale contro-limite rispetto a valori, beni, interessi che, se posti in pericolo dal contraddittorio, indurrebbero ad arginarne una piena esplicazione. Si pensi alla comunicazione preliminare degli addebiti al destinatario, imprescindibile articolazione procedimentale mirata ad assicurare l’effettività del contraddittorio, nella concezione sovranazionale (76). La discovery dell’accusa, realizzata dalla comunicazione, potrebbe stimolare l’interessato a ostacolare la ricostruzione di alcuni, ulteriori fatti, correlati all’indagine esperita, ma sfuggiti all’amministrazione fino a quel momento.

(72) Corte di giustizia, sent. Foshan, cit., ivi; similiter, Corte di giustizia, 4 febbraio 2016, cause C‑659/13 e C‑34/14, Clark e a., punto 140. (73) Sent. Foshan, cit., ivi; su questo specifico profilo della sentenza, v. R. Iaia, p. es. in I confini di illegittimità, cit., ivi, 839 e in Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario, cit., ivi, 82; la rilevanza della pronuncia è stata poi colta anche da Cass., Sez. Un., 9 dicembre 2015, n. 24823, punto 3.2. e, in seguito, fra le varie, da Cass., Sez. VI-5, ord. 14 ottobre 2016, n. 20855, punto 5.3.; Cass., Sez. VI-5, ord. 19 settembre 2016, n. 18350, punto 2.4.3.; Cass., Sez. VI-5, 2 settembre 2016, n. 17554, punto 4.3. (74) Cfr. R. Iaia, Il contraddittorio endo-procedimentale nella prospettiva europea, in Neotera, 2017, 22. (75) Valorizzano la correlazione con il principio di proporzionalità, A. Marcheselli, p.es. in Il contraddittorio va sempre applicato, cit., ivi, 2541; R. Iaia, Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario, cit., ivi, 79. (76) Cfr., p. es., la cit. Corte di giustizia, 22 ottobre 2013, causa C-276/12, Sabou, punto 40, sulla quale, v. amplius R. Iaia, p. es. in Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario, cit., ivi, 68 ss.


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Al di là di un eventuale rilievo penalistico di simili condotte (77), occorre seriamente interrogarsi circa la rilevanza di esse anche quale possibile fattore di compressione del diritto al contraddittorio preliminare (78). In proposito, soccorre il ricordato “doppio vaglio” dell’art. 52, par. 1 della “Carta di Nizza” (79). I limiti al(l’esplicazione del) contraddittorio sarebbero concepibili solo ove normativamente sanciti, funzionali a interessi collettivi e circoscritti a quanto necessario, senza alterare il contenuto essenziale della garanzia al confronto preliminare. Nell’esempio testé considerato, ciò parrebbe comportare la proporzionalità di una riduzione del termine per rispondere alla comunicazione degli addebiti (se prevista ex lege), più che la pretermissione tout court della dialettica con il fisco (80) e purché tale contrazione non renda incongruo l’arco temporale, funzionale al dispiegarsi delle difese amministrative dell’interessato. 11. Conclusioni. – Numerosi sono, dunque, gli elementi e gli spunti di riflessione che il principio europeo di proporzionalità sollecita nell’analisi della disciplina degli atti dell’indagine fiscale. Alla luce dell’elaborazione ermeneutica della Corte di giustizia, il principio impone di intercettare, fra le varie possibili, la soluzione meno invasiva per i destinatari di essi.

(77) Quanto alla legislazione italiana, si pensi a fattispecie che, già in sé, potrebbero integrare reati di falso, ove l’interessato, p. es., alterasse il contenuto di scritture private, corroboranti un’accusa di responsabilità per illeciti tributari (art. 485 c.p.) oppure distruggesse, sopprimesse, od occultasse “un atto pubblico o una scrittura privata veri” (art. 490 c.p.). (78) In simile prospettiva, dovrebbe considerarsi l’art. 22, par. 6, comma 2, lett. e) del Reg. n. 952/2013, recante il “Codice doganale dell’Unione”, ove allude alla inoperatività della procedura amministrativa di contraddittorio procedimentale ivi regolata, “se pregiudica indagini avviate per lottare contro le frodi”. (79) Alla “Carta di Nizza”, ricettiva di principi generali ed equiparata ai Trattati (art. 6, par. 1 TUE), deve naturalmente conformarsi l’esegesi della normativa regolamentare derivata dello stesso “Codice doganale dell’Unione”. (80) La soluzione, p. es., dovrebbe seguirsi con riferimento alla “particolare e motivata urgenza” idonea ad abbreviare il termine di sessanta giorni nella disciplina italiana del contraddittorio di cui all’art. 12, comma 7 della L. n. 212/2000. In proposito, cfr. A. Marcheselli, Il contraddittorio va sempre applicato, cit., ivi, 2538; G. Ragucci, L’imminente scadenza del termine non giustifica l’accertamento “ante tempus”, nota a Cass., Sez. trib., 28 marzo 2014, n. 7315, in Corr. trib., 2014, 665; R. Iaia, Il contraddittorio anteriore, cit., ivi, 85-86.


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Ne scaturisce, anzitutto, il divieto di travalicare l’obiettivo istruttorio, (il quale deve essere) “illustrato” dalla motivazione, che delimita l’oggetto degli atti. Non possono, inoltre, toccare dati, notizie, elementi già nella disponibilità dell’autorità procedente o di altre amministrazioni. Il termine assegnato al destinatario, con l’atto investigativo, deve essere idoneo a consentirne il riscontro e sensibile alle peculiarità della fattispecie concreta, qual è, ad esempio, il periodo dell’anno in cui si perfeziona la notifica. Nelle ipotesi di inadempimento del destinatario alle richieste istruttorie, la disciplina delle preclusioni è sproporzionata, giacché le aggiunge a misure sanzionatorie e al possibile avvio di un accertamento extra-contabile nei confronti di imprenditori e lavoratori autonomi, affrancabile da presunzioni gravi, precise e concordanti. Le preclusioni ostacolano la ricostruzione dei fatti e comprimono il diritto dell’interessato all’offerta di elementi istruttori nel procedimento amministrativo e/o di prove nel giudizio. Gli atti di provenienza processual-penalistica sono introducibili nell’istruttoria tributaria solo se conformi alla legge e non eccedenti quanto necessario sia nel contesto (penalistico) di partenza sia in quello (tributaristico) di approdo. Avverso gli atti investigativi (illegittimi siccome) sproporzionati, sarebbe concepibile una tutela immediata, perché lesivi di beni e valori primari (della persona, della famiglia, del domicilio, etc.). In base all’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, tuttavia, la giurisprudenza italiana tende perlopiù a correlarla all’impugnazione del (successivo ed eventuale) provvedimento impositivo e/o sanzionatorio, del quale sarebbe sostenibile l’illegittimità, ove la motivazione poggiasse su acquisizioni istruttorie, distoniche con il principio in esame. La mancata attuazione di un contraddittorio con il destinatario in merito agli esiti dell’indagine, sfocia nella illegittimità degli addebiti che ne derivino solo a fronte della non totale irrilevanza di una sua ipotetica attuazione in rapporto agli esiti istruttori conseguiti. La dialettica ex ante sarebbe comprimibile, qualora confliggesse con interessi generali, purché la limitazione, sancita da norme di legge, non alterasse il nucleo essenziale della garanzia, assicurando comunque un arco di tempo funzionale al confronto con l’amministrato. In ordine al recepimento di tali esiti, l’Italia sconta un ritardo, anzitutto, culturale. L’individuazione di un punto di equilibrio fra interesse erariale e tutela del contribuente sembra, talvolta, un chimerico traguardo da raggiungere con fatica più che l’effetto di una cogente regola giuridica, pienamente operativa per


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gli Stati nazionali, qual è – appunto – il principio di proporzionalità, secondo la (altrettanto) vincolante elaborazione della Corte di giustizia (81). Non è, dunque, possibile ignorarne la portata e gli effetti per gli studiosi e per gli operatori nella vitale, dinamica individuazione e interpretazione delle norme relative all’attività istruttoria tributaria.

Roberto Iaia

(81) In questo senso, v., p. es., le nitide, perentorie statuizioni, di Corte cost., 11 luglio 1989, n. 389: “Poiché ai sensi dell’art. 164 del Trattato (n.d.r., nel testo vigente ratione temporis) spetta alla Corte di giustizia assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del medesimo Trattato, se ne deve dedurre che qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva, l’ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative. Quando questo principio viene riferito a una norma comunitaria avente ‘effetti diretti’ – vale a dire a una norma dalla quale i soggetti operanti all’interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio – non v’è dubbio che la precisazione o l’integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate.”.



Le criticità dell’Iva per le attività di interesse generale nel nuovo Codice del Terzo settore Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il nuovo Codice del Terzo settore: dal non profit

al “mercato non speculativo”. – 3. La difficile linea di demarcazione tra attività di interesse generale imponibili ed esenti. – 4. segue: l’esenzione come modello impositivo naturale nell’ambito della c.d. finanza funzionale attiva. – 5. Segue: l’interpretazione funzionale (ed “estensiva”) adottata dalla Corte di Giustizia. – 6. Il regime Iva delle attività strumentali a quelle di interesse generale. – 7. Conclusioni.

L’articolo è incentrato sui profili Iva delle attività di interesse generale che devono essere esercitate, in via prevalente, dagli enti del terzo settore. Il D.lgs 117/2017 (c.d. Codice del terzo settore), infatti, ha attuato una sostanziale riforma di tale peculiare “mercato”, ma sono stati del tutto trascurati i profili Iva. Tale circostanza determina talune complessità nell’identificare la linea di confine tra attività di interesse generale imponibili ed attività di interesse pubblico che generano operazioni esenti (le quali sono, comunque, quelle più frequenti nell’ambito del terzo settore). Al fine, dunque, di superare tali incertezze, dal punto di vista interpretativo occorre prendere come punto di riferimento il tipo di valori promossi e tutelati. Tale metodologia consente, altresì, di identificare il corretto regime delle attività diverse da quelle di interesse generale ma strumentali ad esse, anche ricorrendo alla nozione di attività connessa contenuta nella Direttiva Iva. La “stella polare”, ovviamente, deve sempre essere la giurisprudenza della Corte di Giustizia la quale ha dettato taluni principi ai quali pare essersi adeguata anche quella nazionale. The article focuses on the VAT treatment of activities in the general interest that have to be mainly carried out by third sector entities. Indeed, the Legislative Decree 117/2017 (the so-called Code of the third sector), realized a significant reform of this peculiar “market”, but the VAT regime have been completely neglected. This circumstance creates certain difficulties in identifying the border between taxable activities in the general interest and exempt activities in public interest (which are, however, the most frequent in the third sector). In order to overcome these uncertainties, from an interpretative point of view it is necessary to take as a reference point the kind of value promoted and protected. This interpretative method also makes it possible to identify the correct regime of activities other than those of general interest but instrumental to them, also resorting to the notion of related activity contained in the VAT Directive. The “polar star”, of course, must always be the case law of the Court of Justice, which set up certain principles to which domestic case law seems to have adapted.


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1. Introduzione. La recente codificazione degli enti del terzo settore (d’ora innanzi, ETS) è di particolare rilievo in quanto il D. lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (in seguito, Codice del Terzo settore) ha previsto, per la prima volta, un corpus normativo organico, sia sotto il profilo della disciplina civilistica, sia di quella tributaria. È, infatti, evidente la finalità del legislatore di configurare il “mercato del sociale” autonomo rispetto a quello in cui operano le società commerciali tradizionali. D’altro canto, gli ETS divengono tali solamente in ragione dell’esercizio delle attività di interesse generale disciplinate dal Codice e, al tempo stesso, perdono tale qualifica nelle ipotesi in cui esercitino, in prevalenza, attività di diversa natura. Il Titolo X, rubricato “Regime fiscale degli enti del terzo settore”, tuttavia, è prevalentemente (per non dire, integralmente) incentrato sulle misure agevolative e di sostegno economico in favore degli ETS dal punto di vista della imposizione diretta essendo, al contrario, del tutto trascurato il settore dell’Iva. La novella si è, infatti, limitata a sostituire nell’art. 10, D.P.R. 633/1972, tra gli enti erogatori le prestazioni di interesse pubblico esentate, la categoria delle “Onlus” con quella degli “Enti del terzo settore di natura non commerciale”. In tale contesto di radicali trasformazioni ci si sarebbe, invece, aspettati una disciplina organica del regime Iva degli ETS ed una chiara presa di posizione su talune questioni centrali, anche al fine di evitare regimi discriminatori tra soggetti diversi che esercitano le medesime tipologie di attività (o, comunque, attività del tutto simili tra loro). È, invece, palese che se, da un lato, le modifiche intervenute in ambito IRES sono assolutamente significative ed innovative (1), dall’altro, il settore dell’Iva è stato volutamente ignorato rimanendo, così, irrisolte molte problematiche superabili solamente (ma necessariamente) in via interpretativa ed applicando, direttamente, i principi enucleati dai Giudici del Lussemburgo. Le principali problematiche tributarie del terzo settore sono, da sempre, collegate, da un lato, all’estrema eterogeneità degli enti in esso operanti e, dall’altro, alla consequenziale difficoltà (o, a volte, alla semplice “diffidenza”) di considerare tali soggetti come imprese esercenti un’attività economica in

(1) Sul punto cfr., in particolare, anche per ampie considerazioni sistematiche, da ultimo, S. Gianoncelli, Regime fiscale del terzo settore e concorso alle spese pubbliche in Riv. dir. fin. Sc. fin., 2017, I, 295.


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senso stretto, seppur caratterizzate dal perseguimento di finalità prevalentemente di interesse pubblico. La (presunta) mancanza di imprenditorialità – nella accezione tradizionale del termine – del terzo settore ha forse indotto il legislatore a ritenere “marginali” i profili dell’Iva, tributo quest’ultimo che “vive e presuppone” il mercato e la concorrenza tra operatori economici. Come si evidenzierà, pur dovendosi accogliere positivamente la riforma nel suo complesso, tale “diffidenza” non è stata completamente superata e rimane sempre sullo sfondo una nozione di “impresa non lucrativa” particolarmente complessa e che, per quanto di nostro interesse, deve essere parametrata ai diversi settori impositivi (2). In tale prospettiva l’Iva è, certamente, il tributo che presenta maggiori problematiche teoriche ed applicative in quanto l’esercizio di attività di interesse generale – così denominate nell’attuale corpus normativo – determina l’emersione, sia di operazioni imponibili, sia (nei casi più rilevanti, quanto meno in termini di “frequenza”) esenti: è, infatti, intuitivo osservare una stretta coincidenza/sovrapponibilità tra le attività elencate nell’art. 5 del Codice del Terzo settore e quelle di interesse pubblico “esentate” dal tributo in virtù dell’art. 132 della Direttiva 2006/112/CE (c.d. Direttiva IVA), nonché, sul piano domestico, dell’art. 10, D. P. R. 633/1972 (vd. infra § III e ss.gg.) La costante prevalenza del regime di esenzione rispetto a quello di imponibilità determina, peraltro, notevoli e ben note complessità (3) in quanto il compimento di operazioni esenti risulta particolarmente penalizzante proprio per l’imprenditore, stante il tipico divieto di detrazione del tributo assolto sugli acquisti. La questione è, dunque, del tutto “rovesciata” rispetto al settore dell’imposizione diretta nel quale, invece, occorre trovare la giustificazione, anche sul piano costituzionale, di regimi agevolativi per il soggetto che eroga la prestazione di interesse pubblico. È, quindi, assolutamente centrale individuare, preliminarmente, quale sia il criterio per ricondurre le diverse categorie di attività di interesse generale tra quelle che generano operazioni ordinariamente imponibili, oppure tra quelle esenti in quanto, per la prima volta, viene disposta una elencazione dettagliata

(2) Tale specifica problematica verrà trattata nell’ambito di un altro lavoro, in corso di pubblicazione, incentrato sui profili soggettivi degli ETS. (3) Sul punto sia concesso un rinvio a F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, Torino, 2013.


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di tali attività dall’esercizio delle quali, come detto, dipende proprio la qualifica di ETS (vd. infra § III-IV-V). Appare, altresì, altrettanto centrale individuare un criterio per definire il regime tributario delle attività diverse da quelle di interesse generale ma, comunque, necessariamente “strumentali” rispetto a queste ultime, così come definite dall’art. 6 del Codice. (vd. infra § VI). La questione più delicata, infatti, è rappresentata dal fatto che, astrattamente, attività pressoché sovrapponibili in termini di valori da promuovere e tutelare (a titolo meramente esemplificativo, la tutela della salute, la promozione della cultura, dell’educazione, della ricerca scientifica, ecc..) possono essere assoggettate a diversi regimi Iva. Ciò può creare, evidentemente, notevoli frizioni in termini di uguaglianza e neutralità (intesa, volutamente, in senso ampio), specie nell’ambito di un mercato ormai del tutto autonomo e peculiare – ma non meno rilevante rispetto a quello tipicamente “lucrativo” – qual è il terzo settore (vd. infra § II – III e ss.gg.) Tanto premesso, la domanda di fondo alla quale si cercherà di dare soluzione nel presente scritto, è se sia possibile o meno, in via interpretativa, dare prevalenza (e attribuire loro una sorta di “forza di attrazione”) alle norme sottrattive di esenzione e, in caso di risposta affermativa, sulla base di quali principi trovi una giustificazione tale prevalenza. In sostanza, l’idea centrale è che, se in ambito tipicamente commerciale i principi che fondano il sistema dell’Iva (primo fra tutti la neutralità) impongono di limitare il più possibile l’applicazione del regime di esenzione, sul terreno delle attività di interesse generale quest’ultimo diviene la regola (vd. infra § IV-V) 2. Il nuovo Codice del Terzo settore: dal non profit al “mercato non speculativo”. L’introduzione del Codice del terzo settore, in attuazione della legge delega 6 giugno 2016, n. 106, rappresenta un’assoluta novità. Soprattutto, è evidente il significativo passo avanti verso una compiuta regolamentazione della c.d. “imprenditoria sociale” sino ad oggi, come accennato, caratterizzata da una macroscopica e dannosa frammentarietà. Sono chiarissime le linee guida pubblicate dal Governo ove si legge che uno degli obiettivi prioritari della riforma è quello di “far decollare davvero l’impresa sociale, per arricchire il panorama delle istituzioni economiche e sociali del nostro Paese dimostrando che capitalismo e solidarietà possono abbracciarsi in modo nuovo attraverso l’affermazione di uno spazio imprenditoriale non residuale per le organizzazioni private che, senza scopo di lucro,


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producono e scambiano in via continuativa beni e servizi per realizzare obiettivi di interesse generale” (4). La recente novella, infatti, si inserisce in un percorso virtuoso, prima ancora di matrice culturale che giuridica (5), il quale trova solide basi negli indirizzi (e nei “moniti”) dell’Unione europea (6) sempre più orientata, quest’ultima, ad incentivare la c.d. economia sociale di mercato (7) (espressione e strumento, a sua volta, della sussidiarietà orizzontale (8)). È noto, infatti, che il perseguimento di interessi collettivi generali può essere attuato seguendo diversi modelli: da una parte, sul mercato mediante l’esercizio di una attività d’impresa (9), dall’altra, in alternativa, tramite

(4) http://presidenza.governo.it/. (5) In tal senso vd., da ultimo, L. Bozzi, Osservazioni a prima lettura su una riforma culturale prima ancora che giuridica in Contratto e impresa, 2017, 1253. (6) Su tali profili cfr., da ultimo, E. Caruso, L’evoluzione dei servizi sociali alla persona nell’ordinamento interno ed europeo in Riv. it. Dir. pub. Comunitario, 2017, 1115. Per interessanti considerazioni, anche in chiave storico-ricostruttiva dei profili europei, cfr. A. Propersi-G. Rossi, Gli enti non profit, Milano, 2007, 51 e ss. (7) Per ampie ed interessanti digressioni su tali tematiche cfr., da ultimo, l’autorevole contributo di P. Sirena, Diritto privato e diritto pubblico in una società basata sulle libertà individuali in Riv. dir. civ., 2017, 101, nonché il fondamentale e sempre attuale saggio di M. Libertini, A “highly competitive social market economy” as a founding element of the European Economic Constitution in Concorrenza e mercato, 2011, 498. Sui fondamenti giuridici, in ambito europeo, della “economia sociale” vd., da ultimo, M. D’Alberti, L’Unione europea e i diritti in Riv. trim. dir. pubb., 2016, 761; L. Principato, Unione europea e diritti costituzionali: ossimoro o sineddoche?, in Giur. Cost., 2016, 815; A. Moliterni, Solidarietà e concorrenza nella disciplina dei servizi sociali in Riv. trim. dir. pubb., 2015, 89. Sul concetto di “economia sociale di mercato” vd. anche l’autorevole contributo di A. Predieri, Economia sociale di mercato nell’Europa di Maastricht, in Dir. comm. int., 1995, 531. Sulla portata di tale nozione nel diritto europeo ma nell’ottica civilistica, vd. S. Mazzamuto, Libertà contrattuale ed economia sociale, in Europa e dir. priv., 2011, 388. Per considerazioni connesse vd. anche E. Longo, Le relazioni giuridiche nel sistema dei diritti sociali, Padova, 2012, 403 e ss. (8) Sul punto la bibliografia è sterminata ma, con particolare riferimento ai profili di nostro interesse, rimane fondamentale il contributo di L. Antonini, Sussidiarietà fiscale: la frontiera della democrazia, Milano, 2005. Sia concesso rinviare, per ampie considerazioni sistematiche ed ulteriori riferimenti, anche di carattere bibliografico, a F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, op. cit., 74 e ss. (9) Sul punto vd. l’approfondita ricostruzione di A. Paci-D. Donati, Sussidiarietà e concorrenza: una nuova prospettiva per la gestione dei beni comuni, Bologna, 2010, nonché L. Berti, Il mercato oltre le ideologie, Milano, 2006. Sul fatto che gli enti del terzo settore possano svolgere una attività oggettivamente lucrativa cfr. anche S. La Porta, L’organizzazione delle libertà sociali, Milano, 2004, 5.


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schemi organizzativo-gestionali meramente volontaristici ed assistenziali, non caratterizzati da logiche imprenditoriali (10). Tale modello “dualistico” emerge, chiaramente, nella Delega la quale, all’art. 1, sintetizza, perfettamente, i diversi possibili modelli gestionali-organizzativi delle attività del terzo settore: in taluni casi le “finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” che devono essere perseguite dagli ETS, vengono attuate secondo modelli marcatamente imprenditoriali (è inequivocabile il riferimento alla produzione o allo scambio di beni e servizi (11), evidentemente sullo specifico mercato del terzo settore), mentre in altri nell’ambito di schemi che esulano dall’esercizio di una attività economica in senso stretto (è, in tale direzione, privo di dubbi il riferimento a forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità) (12). Il fenomeno di maggiore interesse per il diritto tributario – specialmente con riferimento all’Iva – è, evidentemente, quello della progressiva affermazione della “imprenditoria sociale” (13) nella quale non sussiste (ed anzi, non deve sussistere) alcuna contrapposizione tra lucro (oggettivo) ed interesse pubblico (14). È, infatti, evidente che la mancanza di un’attività di natura eco-

(10) Sul fatto che il mercato del terzo settore sia in costante crescita cfr., da ultimo, S. Busso, Quarant’anni (e due crisi). L’equilibrio fragile tra ruolo economico e politico del terzo settore in Autonomie locali e servizi sociali, 2017, 483. (11) È, peraltro, importante evidenziare che in dottrina vi è chi ha ipotizzato che l’impresa non sia più “categoria fondante del diritto commerciale” ma che, al contrario, lo sia l’attività economica quest’ultima “dai confini tipologicamente flessibili, il cui elemento essenziale consiste esclusivamente nella produzione di beni e servizi nella accezione più ampia del termine, con carattere di non occasionalità”. P. Montalenti, Dall’impresa all’attività economica: verso una nuova sistematica? in Analisi giuridica dell’economia, 2014, 52. (12) In tale ambito, sul piano sistematico cfr., per tutti, S. Gianoncelli, Fiscalità d’impresa e utilità sociale, Torino, 2013. (13) Osserva, attentamente, P. Piantavigna, Un modello per la disciplina fiscale dell’impresa sociale: low profit limited liability company, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2011, I, 592 che “il delinearsi di una vera e propria imprenditorialità sociale, informata a logiche di solidarietà e di reciprocità, che concilia comportamenti altruistici ed egoistici, ha permesso di dare nuovo significato ad una categoria anomala per il giurista – in generale – e per il tributarista – in particolare – come l’altruismo”. (14) Sono assai significativi taluni documenti dell’Unione europea nei quali, già a partire dal c.d. “Libro Verde sui servizi di interesse generale”, affiora un nuovo approccio verso modelli di mercato “alternativi”, ove viene valorizzato il ruolo dei privati nella realizzazione di interessi pubblici tramite “l’impresa”, nella accezione di esercizio di un’attività economica oggettivamente lucrativa, ma soggettivamente destinata al soddisfacimento di interessi pubblici. Così Com. (2003) 270 del 21 maggio 2003


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nomica – cioè, se “manca l’impresa” – esclude, ab origine, qualunque rilevanza dal punto di vista dell’Iva. L’obiettivo della Delega era evidentemente quello di dare concreta attuazione alla sussidiarietà orizzontale in una logica di “nuovi modelli di welfare state e welfare work”: come si è efficacemente evidenziato, infatti, appare centrale il tentativo di “superare la distinzione tra attività commerciale e non commerciale e privilegiare, nella logica incentivante del terzo settore, l’utilità sociale concretamente soddisfatta mediante le risorse prodotte o raccolte nello svolgimento di qualunque forma di attività economica, intesa secondo il diritto europeo entro una rigida griglia di vincoli, ad iniziare da quello di non distribuzione egoistica degli utili sotto qualsiasi forma e specie” (15). L’attuale quadro normativo dimostra, quindi, che inizia ad essere pienamente metabolizzata, in quanto dotata di solide basi teoriche ed applicative, la c.d. “impresa non speculativa” (16), paradigma di riferimento di tutto il terzo settore, nell’ambito del quale, come espressamente affermato, a chiare lettere, dalle stesse istituzioni europee, “l’obiettivo sociale o socio-culturale di interesse comune” deve divenire esso stesso la “ragione d’essere della azione commerciale” (17).

(15) Sul punto, in particolare, A. Giovannini, Sul terzo settore e sul disegno di legge delega: il coraggio della svolta in Riv. dir. trib., 2014, I, 726. Il medesimo autore osserva, condivisibilmente, che “in una nuova visione di sistema quel che dovrebbe contare non dovrebbe essere più la tipologia di attività esercitata – commerciale o non commerciale, strumentale o non strumentale agli scopi istituzionali – o la forma giuridica da questa assunta, quanto la finalità ultima perseguita dall’ente o dalla società, finalità ultima intesa come destinazione filantropica e sociale della ricchezza prodotta o raccolta. E ciò indipendentemente, appunto, dalla forma giuridica con la quale si esercita l’attività la cui ricchezza è predestinata a quella finalità”. A. Giovannini, Impresa commerciale e lucro nelle imposte dirette e nell’Iva, in Riv. dir. trib., 2012, I, p. 486. Sul punto vd., ancora, Id., Lucro e impresa commerciale nel sistema impositivo in Aa. Vv., Corrispettività, onerosità e gratuità. Profili tributari (a cura di V. Ficari, V. Mastroiacovo), Torino, 2014, 219. (16) Su tali problematiche, anche per l’ampia bibliografia, cfr., da ultimo, G.D. Mosco, L’impresa non speculativa in Giur. Comm., 2017, 216 nonché, soprattutto con riferimento a modelli societari misti A. Frignani-P. Virano, Le società benefit davvero cambieranno l’economia? In Contratto e impresa, 2017, 503; D. Lenzi, La società benefit in Giur. Comm., 2016, 894. (17) Per un’interessante analisi circa l’evoluzione storica di tale figura v. G. Salatino, L’impresa sociale, in Contratto e impresa, 2011, p. 394, nonché F. Alleva, L’impresa sociale italiana, Milano, 2007, 3 e per l’evoluzione della dottrina, p. 21 ss. Per un’ampia ricostruzione, anche in chiave economica, v., da ultimo, M. Musella-M. Santoro, L’economia sociale nell’era della sussidiarietà orizzontale, Torino, 2012, 90.


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Un punto fermo dal quale occorre prendere le mosse, infatti, è che il lucro (o meglio, lo scopo di lucro) non costituisce, ormai da tempo, un elemento qualificante la categoria “impresa”: secondo gli approdi della dottrina più autorevole, infatti, “la nozione di impresa…include ogni comportamento produttivo (id est, diretto alla produzione o allo scambio di beni o servizi), da chiunque posto in essere e nel quale si manifestano, in modo percepibile dai terzi, i connotati oggettivi dell’organizzazione, dell’economicità e della professionalità, quale che sia la finalità, lucrativa, mutualistica o sociale, perseguita dall’agente” (18). Quindi, il punto centrale della questione diviene la ricerca di un equilibrio tra l’esercizio di attività oggettivamente commerciali ed il perseguimento di interessi generali (o meglio, sociali) attuati tramite la leva imprenditoriale. Il “perno” attorno al quale ruota tale modello è, certamente, l’obbligo di reinvestire gli utili “nella realizzazione di tale obiettivo sociale” che si sostanzia nel “principale obiettivo” di “esercitare un impatto sociale” e non quello esclusivamente speculativo di “generare utili per i suoi proprietari o azionisti” (19). Come si è osservato, infatti, l’elemento comune alle diverse tipologie di imprese non speculative (oggi potremmo anche spingerci a dire, di ETS) dovrebbe essere l’obiettivo di “non perseguire fini di speculazione privata, ma di sostituire la massima creazione egoistica di valore con la produzione di beni e servizi alle condizioni più favorevoli, in termini di responsabilità sociale,

(18) G. Marasà, Impresa, scopo di lucro ed economicità in Analisi giuridica dell’economia, 2014, 35. Osserva, in tal senso, altra dottrina che “la recessione dello scopo lucrativo in favore del principio di economicità (anche nella sua declinazione mutualistica) rappresenta un dato acquisito da decenni nella teoria giuridica dell’impresa” posto che è pacifica “l’irrilevanza della finalità lucrativa nella qualificazione tipologica dell’imprenditore”. G. Meo, Impresa sociale e valori d’impresa in Banca, impresa e società, 2017, 186. (19) Commissione Europea, Com 25 ottobre 2011, Com (2011) 682 sulla Imprenditoria sociale. Su tali profili, anche in chiave evolutiva, vd. Aa.Vv., L’impresa sociale in prospetiva europea: diffusione, evoluzione, caratteristiche e interpretazioni teoriche (a cura di M. Borzaga, J. Defourny), Trento, 2001; M. Maiello, L’impresa sociale in Europa, in Riv. della cooperazione, 2002, 110, nonché, Aa. Vv., Servizi sociali e nuova occupazione: le esperienze delle nuove forme di imprenditorialità sociale (a cura di M. Borzaga, A. Santuari), Trieste, 1998. Per un’interessante analisi interdisciplinare in chiave europea vd. J. Defourny-A. Nyssens, Social enterprise in Europe: At the crossroads of market, public policies and third sector, in Policy and Society, 2010, 231.


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di qualità, di costo, per chi ne fruisce, compatibilmente con l’economicità e l’efficienza della gestione imprenditoriale” (20). In altri termini, sono evocate soluzioni orientate alla salvaguardia (ed alla promozione, nella logica dell’uguaglianza sostanziale (21)) di valori costituzionali generalmente riconosciuti (22) attuate mediante strutture imprenditoriali non “meramente egoistiche” (23): nell’ottica della sussidiarietà orizzontale vengono, quindi, “restituite” (24) al diritto privato figure che, in passato, erano riservate al diritto pubblico (25) in quanto lo Stato (inteso in senso ampio) tende a spogliarsi, totalmente o parzialmente, di funzioni fondamentali a “vantaggio” di soggetti privati (26). Ma ciò non toglie che in tali settori operino vere e proprie imprese oggettivamente “lucrative”, seppur connotate da finalità sociali e, quindi, destinatarie di taluni regimi agevolativi. L’affermazione del mercato del terzo settore e dell’imprenditoria sociale, peraltro, come più volte riconosciuto ancora una volta dalle istituzione eu-

(20) G. Mosco, op. cit., 219. (21) Si condivide, pienamente, il pensiero di S. Dorigo, Fiscalità, mercato e solidarietà: la crisi economica globale ed il ruolo del diritto dell’Unione europea in Riv. it. dir. pubb. com., 2017, I, 1552 e ss. il quale enfatizza il ruolo del diritto tributario come strumento, nella logica dell’uguaglianza sostanziale, per l’attuazione di interessi sociali. (22) Sulla funzione degli enti del terzo settore quali soggetti promotori (e posti a salvaguardia) dei valori costituzionali cfr. A. Pardolesi, voce Associazionismo, in Digesto IV ed., Disc. priv., Sez. civ., I, Torino, 1987, 487. (23) Ad ulteriore conferma di tale rinnovato approccio si legge, testualmente, nel Single Market Act del 2011, nell’ambito delle iniziative intraprese nella strategia “Europa 2020”, che «il mercato interno si fonda su un’economia sociale di mercato altamente competitiva, che riflette l’evoluzione verso una crescita inclusiva, socialmente più giusta. Si affermano nuovi modelli economici in cui tali considerazioni di responsabilità nei confronti della società prevalgono sulle logiche di puro profitto finanziario». (24) L’espressione è di L. Antonini, Sussidiarietà fiscale, cit., 78. (25) «Storicamente, si è assistito ad una vera e propria rivoluzione in tema di servizi socio-assistenziali che ha progressivamente eroso la funzione accentratrice dello Stato per far emergere le realtà del volontariato sociale come soggetto attivo, non solo nella erogazione di tali servizi, ma anche e ancor prima nella programmazione degli interventi». R. Barbanera, La riforma dei servizi sociali in Italia: il ruolo del terzo settore, in Contr. e impresa, 2008, 243. Per un’ampia ricostruzione delle varie figure del terzo settore vd., da ultimo, A. Santuari, Le organizzazioni non profit, Padova, 2012, nonché anche per un’analisi storico-evolutiva M. Capecchi, Evoluzione del terzo settore e disciplina civilistica, Milano, 2005, 25. Con particolare riferimento ai modelli organizzativi, vd. anche l’autorevole lavoro di A. Sandulli, Il sistema nazionale di istruzione, Bologna, 2003, 295 e l’ampia bibliografia citata. (26) Per ampi riferimenti circa i rapporti con la fiscalità cfr., da ultimo, A. Perrone, Sussidiarietà e fiscalità: un nuovo modo di concepire il concorso alle spese pubbliche? In Riv. dir. trib., 2017, I, 437.


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ropee, è comune alla maggior parte degli Stati membri, a prescindere dalla specifica veste giuridica caratterizzante i diversi “attori” operanti nei singoli ordinamenti (27): e tale circostanza appare assolutamente centrale nell’ambito di un’imposta totalmente armonizzata (28), qual è l’Iva, in quanto occorre che non si verifichino distorsioni applicative in seno all’Unione (specialmente in un settore in cui sussiste una frequente “compressione” del diritto di detrazione qual è quello delle esenzioni disciplinato, in ambito UE, dall’art. 132 della Direttiva 2006/112/CE). E ciò è tanto più vero se si considera, come precedentemente accennato, che gli enti del terzo settore operano in concorrenza tra loro, su un vero e proprio mercato che è quello delle attività di interesse generale le quali possono assumere diverse “fisionomie tributarie”. È chiaro, infatti, che il differente regime giuridico nazionale dipende, in gran parte, dalla più o meno accentuata “anima” sociale, o liberale, che caratterizza gli ordinamenti europei (29) i quali hanno una certa libertà di “movimento” in termini di attuazione della disciplina Iva: al tempo stesso, tuttavia, non possono essere tollerate macroscopiche “anomalie” rispetto al modello di riferimento contenuto nella Direttiva Iva e, soprattutto, divergenze significative a parità di interessi tutelati (vd. infra, diffusamente). 3. La difficile linea di demarcazione tra attività di interesse generale imponibili ed esenti. Il Codice del terzo settore non ha previsto uno specifico regime Iva per gli ETS che devono svolgere, in via esclusiva o principale, una o più delle attività di interesse generale elencate nell’art. 5. Come già accennato (vd. retro introduzione), dall’elencazione in esso contenuta emergono stringenti similitudini tra le attività indicate in tale nor-

(27) Osserva, infatti, il Parlamento europeo quanto segue: «l’economia sociale si è sviluppata attraverso forme imprenditoriali organizzative o giuridiche particolari come cooperative, mutue, associazioni, imprese e organizzazioni sociali e fondazioni nonché altre forme esistenti nei vari Stati membri; considerando che l’economia sociale viene indicata con concetti come “economia solidale” e “terzo settore” e che, per quanto tali concetti non siano considerati come facenti parte dell’economia sociale in tutti gli Stati membri, attività simili contraddistinte dalle stesse caratteristiche esistono in tutta l’Unione europea». Risoluzione 19 febbraio 2009, 2008/2250, “Relazione sull’economia sociale”. (28) Sulla necessità di una armonizzazione ben più profonda di quella attuale intesa nel senso di “convergenza” di valori tra gli Stati vd. F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, op. cit., 107. (29) F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, op. cit., 150.


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ma (30) e quelle che generano operazioni Iva esenti, ma la novella del 2017 non ha “impattato”, direttamente, sul contenuto del D.P.R. 633/1972 (se non, come detto, limitatamente al profilo soggettivo di talune tipologie di operazioni esenti). Pur essendo le esenzioni Iva, notoriamente, nozioni autonome del diritto europeo (31), sarebbe stato perfettamente legittima (e forse opportuna) una integrazione dell’attuale art. 10, norma, quest’ultima, di estrema complessità – nonché frutto di diverse e maldestre “stratificazioni” nel tempo – ormai destinata ad essere letta (ed integrata) in rapporto di stretta ed immediata dipendenza dalla Direttiva europea. Non resta, quindi, che affidarsi all’interpretazione conforme al diritto europeo anche al fine di comprendere, preliminarmente, quali tipologie di attività siano annoverabili tra quelle esentate dal tributo, elencate nell’art. 132 della Direttiva, nonché, sul piano domestico, nell’art. 10 del D.P.R. 633/1972. Al di là delle “somiglianze”, infatti, non vi è sempre una perfetta sovrapponibilità tra la categoria delle attività di attività di interesse generale, coniata dal Codice del Terzo settore, e quella delle attività di interesse pubblico prevista dalla Direttiva Iva (32). A ciò consegue che le attività degli ETS possono essere assoggettate ad un duplice regime Iva: di imponibilità ordinaria o di esenzione. È, quindi, evidente che, una volta ravvisata la soggettività passiva dell’ente (cioè l’esercizio d’impresa, anche se “non speculativa”) ed esclusa la riconducibilità delle attività tra quelle esentate dal legislatore, le operazioni da essi effettuate sul mercato del terzo settore devono essere annoverate tra quelle ordinariamente imponibili, anche se riconducibili ad attività di interesse generale. Il sistema dell’Iva, infatti, non tollera una “strada intermedia” tra esenzione ed imponibilità e non consente deviazioni da tali modelli applicativi del tributo. Nelle ipotesi in cui, invece, l’ETS operi al di fuori del mercato – secondo modelli organizzativo-gestionali che esulano dall’esercizio di una attività economica (vd. retro § II) – mancherà, a priori, la rilevanza Iva: se l’esercizio

(30) L’art. 5, peraltro, precisa che si tratta di una elencazione soggetta a mutamenti ed integrazioni. (31) Per un’ampia ricostruzione di tale problematica sia concesso rinviare ancora a F. Montanari, op. loc. cit., 43 e ss. (32) L’art. 10, in particolare, non distingue le operazioni esenti tra quelle di “interesse generale” ed “altre esenzioni” (forse opportunamente), ma è facilmente verificabile che, nella sostanza, tale suddivisione è “interna” alla stessa elencazione in esso contenuta.


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di dette attività di interesse generale avviene al di fuori di una struttura di tipo imprenditoriale – secondo i criteri indicati dallo stesso Codice del terzo settore e validi, esclusivamente, in tale contesto – l’ente assume la qualifica di ETS “non imprenditore”. Conseguentemente, deve essere radicalmente esclusa la soggettività passiva di quest’ultimo (a meno che, ovviamente, il medesimo soggetto non eserciti altre attività di natura commerciale: ma, evidentemente, la questione esula dalla presente trattazione e dallo specifico contesto del terzo settore) (33). Alla luce di quanto precede è, dunque, assolutamente centrale comprendere in quale categoria debba essere ricondotta l’attività svolta dall’ETS e non è, certamente, agevole distinguere, nettamente, il confine tra le attività di interesse generale assoggettate al regime di esenzione e le altre attività “ordinarie”. La distinzione è spesso molto labile e, soprattutto, non è immediato individuare quale sia il criterio discretivo adottato dal legislatore, posto che, sia le une che le altre, sono espressione di valori primari di rango costituzionale ed europeo da salvaguardare e promuovere. Con riferimento a tale problematica, il diritto europeo e la giurisprudenza della Corte di Giustizia paiono, peraltro, inequivocabili in quanto l’elencazione contenuta nell’art. 132 della Direttiva non esaurisce la nozione di “attività di interesse pubblico”, essendo evidente, già dalla semplice lettura delle disposizioni in essa contenute, che la volontà del legislatore è quella di esentare solamente talune tipologie di attività ritenute di preminente interesse generale (posto che, per l’ appunto, trattasi di esenzioni a favore soltanto di “alcune attività”). Tale assunto ha trovato (e trova) piena conferma in una monolitica giurisprudenza dei Giudici del Lussemburgo i quali, sin da pronunce ormai datate, hanno osservato che la Direttiva “non cita affatto tutte le attività di interesse generale, ma solo alcune di esse, che sono elencate accuratamente e descritte in modo particolareggiato”: infatti, “la motivazione della Direttiva indica solo, a questo proposito, che è opportuno redigere un elenco comune di esenzioni per una percezione paragonabile delle risorse proprie in tutti gli Stati membri, ma non fornisce alcuna ragione della scelta effettuata tra le attività di interesse generale (34)”.

(33) Anche il concetto di ente non commerciale e le problematiche connesse sono trattate in un saggio in corso di pubblicazione. (34) Corte di Giustizia UE, 11 luglio 1985, causa C-107/84. Da ultimo, Corte di


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La questione non è di poco conto ed è estremamente delicata in quanto sul medesimo mercato – quello del terzo settore, dotato di caratteristiche peculiari e, soprattutto, spinto da finalità ben diverse da quello nel quale operano le ordinarie imprese commerciali (35) – si possono trovare ad agire gli stessi “attori” della sussidiarietà orizzontale, ma con regimi Iva assolutamente eterogenei. È chiaro, infatti, che nel momento in cui le attività di interesse generale contenute nel codice del terzo settore esauriscono (e delimitano) l’ambito di operatività degli ETS, occorre evitare che in tale “mercato ristretto” si creino differenze significative, sia sul piano oggettivo (cioè, del tipo di attività esercitata), sia soggettivo. Come osservato, ancora una volta, dalle istituzioni europee – ed a conferma di quanto qui si sostiene – “le imprese dell’economia sociale non debbono essere soggette alla applicazione delle stesse regole di concorrenza delle altre imprese, dovendosi riconoscere i lori specifici valori”. Le suddette preoccupazioni sono, altresì, alimentate da un recente orientamento della la Corte di Giustizia (36) la quale ha avuto modo di specificare, ulteriormente, la propria posizione. La Corte, infatti, ha affermato che il riferimento fatto dal menzionato art. 132 a “talune prestazioni di servizi culturali” non implica che gli Stati membri debbano esentare tutte le attività di tale natura. In sostanza, nel pensiero della giurisprudenza, tali disposizioni non avrebbero una efficacia diretta essendo devoluto ai singoli Stati il compito di delineare le caratteristiche delle prestazioni di servizi culturali che intendono esonerare: queste ultime, infatti, possono variare, anche sensibilmente, in ragione – sempre secondo i giudici europei – della “grande varietà di tradizioni culturali e di identità regionali nell’ambito dell’Unione e, talvolta, in seno ad uno stesso Stato membro”. Il caso all’esame della Corte, in particolare, riguardava l’imponibilità (o meno) dei diritti d’ammissione a proiezioni cinematografiche corrisposti ad un ente senza fini di lucro che aveva lo scopo di promuovere il cinema nel Regno Unito ma, al di là del caso specifico, non è affatto semplice delineare, net-

Giustizia UE, 26 ottobre 2017, C.-90/16. Tale giurisprudenza, confermata appare monolitica ed incontestata. Tra le tante, vd. anche Corte di Giustizia UE, 21 febbraio 2013, causa C-18/12, nonché, 28 gennaio 2010, causa C-473/08 ed i casi in esse citati, sulla quale vd. M. Basilavecchia, Lost in traslation: le esenzioni Iva sono riservate al diritto europeo, in Corr. trib., 2010, 987. (35) Così la Risoluzione del Parlamento europeo sull’economia sociale 2008/2250, cit. (36) CGCE 15 febbraio 2017, C-592/15.


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tamente, i confini tra le diverse tipologie di attività (cosa che, come affermato da una monolitica giurisprudenza europea, compete al giudice nazionale). Analizzando, parallelamente, l’elencazione delle attività di interesse generale contenuta nell’art. 5 del Codice del Terzo settore (37) e l’art. 10, D.P.R. 633/1972, è agevole constatare che sono tante le “sovrapposizioni” ma, al tempo stesso, sono altrettanto palesi e rilevanti le difformità e, soprattutto, le “zone grigie”. Gli esempi potrebbero essere molteplici, ma alcuni sono di palmare evidenza e paradigmatici. A titolo meramente esemplificativo, si pensi, da un lato, al caso delle attività di istruzione - perfettamente sovrapponibili e che non prestano il fianco ad alcun dubbio interpretativo – mentre, dall’altro, a quelle di “cura di procedure di adozione internazionale”, non meno rilevanti sul piano dei valori tutelati, ma che non rientrano in nessuna delle categorie di quelle esentate dall’art. 10 (e quindi, astrattamente imponibili). È, certamente, possibile – magari con qualche forzatura – che talune attività di interesse generale siano, a loro volta, ricondotte tra quelle esenti, in una logia di “cerchi concentrici”, ma pare ben più utile e lineare l’adozione di un metodo interpretativo uniforme. È, infatti, chiaro che, come detto, in un mercato in cui non operano imprese commerciali, la priorità è quella di evitare discriminazioni e regimi che si pongano in contrasto con la neutralità intesa, quest’ultima, in termini di uguaglianza tra operatori del mercato sociale (38) e non solamente di “neutralità interna al tributo” garantita dal meccanismo di detrazione di imposta da imposta (vd. infra § IV-V). Inoltre, ciò appare una esigenza imprescindibile se è vero, come si è osservato (39), che l’ordinamento europeo “è sì composto da Stati sovrani”, ma “allo stesso tempo, aspira a realizzarne, seppur parzialmente, una sintesi in nome di valori, interessi e diritti comuni”.

(37) Peraltro, lo stesso art. 5 prevede, espressamente, che l’elenco in esso contenuto possa essere aggiornato. (38) Per un’ampia ricostruzione delle diverse accezioni del principio di neutralità cfr. F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, op. cit., 62. (39) Osserva, da ultimo, S. Dorigo, Fiscalità, mercato e solidarietà: la crisi economica globale ed il ruolo del diritto dell’Unione europea, op. cit. 1534.


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4. segue: l’esenzione come modello impositivo naturale nell’ambito della c.d. finanza funzionale attiva. Al fine di risolvere tali complesse problematiche, occorre porre qualche punto fermo in merito alle esenzioni Iva ed alle ragioni che giustificano una così “drastica” deviazione dal modello (apparentemente) naturale di applicazione del tributo. Come sì è già avuto modo di approfondire (40), infatti, le operazioni esenti costituiscano dei “microsistemi” autonomi e derogatori rispetto al regime di imponibilità ordinario, ma perfettamente inseriti nell’ambito del meccanismo naturale di applicazione del tributo, del quale rappresentano un modello alternativo. Tale alternatività deriva, in particolare, dal fatto che il mercato delle attività di interesse pubblico è, di per sé, “alternativo” rispetto a quello delle imprese speculative (vd. retro § II): in sostanza, le attività di interesse generale volte alla salvaguardia di valori primari (come la salute, l’ambiente, l’istruzione, la ricerca scientifica, ecc.) sono difficilmente comparabili, in assoluto, con quelle tipiche delle imprese commerciali. In ambito Iva, infatti, si “intrecciano”, costantemente, da un lato, esigenze di neutralità concorrenziale (della quale sono diretta espressione e strumento le operazioni imponibili,) e, dall’altro, invece, modelli applicativi del tributo che si collocano nella logica della finanza funzionale attiva: cioè i singoli microsistemi delle operazioni esenti. Queste ultime, infatti, sono espressive di valori che, a volte, trovano diretta menzione nello stesso diritto europeo, mentre, in altri casi, nelle Costituzioni degli Stati membri (41) (od in talune di esse), e che si pongono in posizione di preminenza rispetto alle esigenze del mercato considerato come “fine a sé stante” (o, comunque, devono essere con esse contemperate). La neutralità concorrenziale garantita dal peculiare meccanismo della detrazione di imposta da imposta, dunque, in una logica di bilanciamento e proporzionalità, “cede il passo” ad esigenze di salvaguardia e promozione di valori di rango costituzionale generalmente riconosciuti sul piano europeo e nazionale. In tale contesto, lo strumento adottato dal legislatore europeo (e, di riflesso, da quello nazionale) diviene l’anticipazione del prelievo ad una fase

(40) F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, op. cit, 49-50 e ss. (41) Come si è osservato in dottrina, anche in ambito tributario “i principi europei fondamentali cui deve ispirarsi l’operato interno sono – o quanto meno dovrebbero essere – espressione di quelli costituzionali comuni”. R. Alfano, Tributi ambientali: profili interni ed europei, Torino, 2012, 139.


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precedente rispetto al consumo finale, divenendo l’operatore economico il soggetto inciso dal tributo e, al tempo stesso, il destinatario della prestazione riconducibile alle attività di interesse generale, il fruitore dell’agevolazione. L’impresa, in altri termini, viene sacrificata a fronte di principi e valori superiori al profitto (42). A ciò consegue che il regime Iva “naturale” del mercato del terzo settore non può che essere quello della esenzione: dunque, le limitazioni al diritto di detrazione sono fisiologiche e giustificate in termini di finanza funzionale attiva ed il sistema delle esenzioni Iva, quindi, dà vita ad un “regime ordinario” di tipo promozionale (43). A sostegno di tale impostazione, è assolutamente significativa (ed innovativa) la posizione assunta dalla Corte di Giustizia (44), la quale ha stabilito che l’iva indetraibile è, con riferimento al mercato del terzo settore, un onere che “normalmente grava sul bilancio di un’impresa” (45). In altri termini, da un lato, il regime di indetraibilità del tributo viene qualificato come “ordinario” e, dall’altro, quello della detrazione è considerato, nell’ambito delle operazioni esenti, derogatorio.

(42) Oltre alla bibliografia già citata si rinvia alla suggestiva analisi, nell’ottica dell’economista, di G. Segre, Il profitto capovolto: epistemologia del non profit, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2006, I, p. 638. Sulla evoluzione in altri paesi vd. anche H. Anheier-W. Sabel, The third sector. Comparative studies of non profit organizations, Leiden, 1990, 269 ss. (43) Sul punto vd. F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, op. cit., 47 e ss.gg. (44) Corte di Giustizia UE, 3 marzo 2005, causa C. 172/03, in Riv. giur. trib., 2005, 410 con nota di P. Centore, Costituisce aiuto di Stato la norma che disapplica la rettifica della detrazione. Su tale sentenza vd., in particolare, J. Englisch, Eu State Aid Rules Applied to indirect tax, in Ec Tax Review, 2013, 12. In generale, sui rapporti tra aiuti di stato e Iva cfr. A. Swinkels, State Aid and Vat, in International Vat Monitor, 2005, 311; B. Terra, Value Added Tax and State Aid Law in the Eu, in Intertax, 2012, 101; Id., Value Added Tax and Stae Aid Law in the Eu, in Aa. Vv., Vat in an EU and international perspective. Essays in honour of Han Kogels, cit., 295; W. Schön, State aid in the area of taxation, in Aa. Vv., Eu state aids a cura di Hancher, Ottervanger, Slot), Londra, 2012, 10. (45) Come si è osservato efficacemente, infatti, con riferimento al concetto di esenzione, «the irony of the term is not lost on Vat experts, even if other economic players, particularly final consumers, are misled by the terminology. From the perspective of registered business “exempt” supply in the VAT system is actually a taxable supply, while a taxable supply is actually an exempt supply». R. De La Feria-Krever, Ending Vat Exemptions: Toward a PostModern Vat, in Aa. Vv., Vat Exemptions – Consequences and Design alternatives (a cura di R. De la Feria), Amsterdam, 2013, 11.


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Alla luce di tali considerazioni, dunque, non è da escludersi che anche l’esercizio del diritto di detrazione stesso possa essere qualificato come possibile misura agevolativa per gli ETS (o, comunque, fortemente discriminatoria) nel momento in cui venga concesso a talune tipologie di attività (e di soggetti) e negato in casi del tutto simili nell’ambito dello stesso mercato: pare, infatti, evidente che, nei regimi di esenzione Iva il diritto di detrazione in capo al soggetto che esercita un’attività economica, diviene esso stesso “deroga” al regime ordinario (46). È, quindi, proprio la concessione del diritto di detrazione che può ingenerare una misura di vantaggio per l’impresa, laddove altri operatori che si trovino nella medesima situazione non ne possano godere (47). A ciò consegue che occorre evitare che si configurino situazioni in cui, a parità di attività di interesse generale esercitata, taluni soggetti possano “beneficiare” del regime di imponibilità ordinario (non subendo il peso dell’indetraibilità dell’Iva sugli acquisti), mentre altri risultano gravati da tale onere. Tanto più che ipotetiche asimmetrie hanno un duplice impatto, sia in capo al prestatore (che può subire o meno i limiti al diritto di detrazione), sia al destinatario della prestazione al quale viene addebitato il tributo in via di rivalsa. In altri termini, è necessario che il mercato del terzo settore (e le attività ad esso riconducibili) abbia caratteristiche analoghe in tutti i paesi dell’Unione, ma anche all’interno del medesimo Stato e, a tal fine, occorre fare esclusivo riferimento alle categorie delineate dalla Direttiva così come interpretata dalla giurisprudenza europea. 5. Segue: l’interpretazione funzionale (ed “estensiva”) adottata dalla Corte di Giustizia. I Giudici europei hanno, da sempre, adottato una interpretazione di tipo funzionale che se, da un lato, viene formalmente “etichettata” dalla Corte

(46) Tale assunto trova conferma nel fatto che, mentre le limitazioni al diritto di detrazione derivanti dal compimento di operazioni destinate ad attività “non economiche” (si pensi all’impiego privato di un bene o di un servizio), trova la propria ratio nel mancato impiego prospettico del bene sul mercato, le prestazioni esenti sono sempre, presuntivamente, destinate al mercato (vuoi a quello delle attività “sociali”, vuoi a quello “finanziario”, piuttosto che a quello immobiliare). Tuttavia, solamente per ragioni di natura extra fiscale, non avviene la completa traslazione del carico impositivo “sull’ultimo anello della catena”, ma sul fornitore dei servizi il quale ne rimane, definitivamente, gravato. (47) Autorevole dottrina, quasi trent’anni orsono, aveva già identificato nel diritto di detrazione Iva (e, dunque, nel credito d’imposta) possibili profili agevolativi. M. Ingrosso, Il credito d’imposta, Milano, 1984, 92 ss.


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stessa, come restrittiva, dall’altro, nella sostanza, è palesemente finalizzata ad attribuire la massima espansione ai valori sottesi alle norme di esenzione, in una logica di effettività e proporzione tra mercato ed interessi a esso potenzialmente contrastanti. Secondo un orientamento monolitico, infatti, se, da un lato, “i termini con i quali sono state designate le esenzioni devono essere interpretati restrittivamente”, dall’altro, “l’interpretazione di tali termini deve essere conforme agli obiettivi perseguiti dalle dette esenzioni e rispettare le prescrizioni derivanti dal principio di neutralità fiscale relativo al sistema comune dell’IVA”. Infatti, “questa regola d’interpretazione restrittiva non comporta che i termini utilizzati per specificare le esenzioni, debbano essere interpretati in un modo che priverebbe queste ultime dei loro effetti” (48). L’iter argomentativo sul quale poggia tale consolidato orientamento, infatti, è peculiare ed estremamente eterogeneo (49): la Corte “scardina” gli schemi interpretativi tradizionali, utilizzando una metodologia restrittiva solamente come “incipit” delle proprie sentenze, salvo poi applicare talune metodologie a volte più vicine all’interpretazione analogica, piuttosto che a quella teleologico-funzionale (50). Nel pensiero della giurisprudenza, quindi, l’interpretazione deve, sì essere restrittiva (51), ma “parametrata” e funzionale all’obiettivo che si prefigge il sistema delle esenzioni. Dunque, anche il principio di neutralità viene considerato, non come valore assoluto ed “in assoluto”, ma quale parametro per

(48) Tra le tante, vd., recentemente, Corte di Giustizia UE, 17 gennaio 2013, causa C-543/11. In termini analoghi, 3 marzo 2005, causa C-428/02. (49) Osserva F. Vanistendael, The role of the Court of Justice as the supreme judge in tax cases, in Ec Tax Review, 1996, 121, «the characteristic of the ECJ is that uses various methods of interpretation at the same time without systematically indicating why one method is preferred over the other». Per una compiuta ricostruzione delle diverse metodologie interpretative utilizzate dalla Corte vd. anche C.B. Jespersen, Intermediation of insurance and financial services in European VAT – Eucotax series on European taxation, Amsterdam, 2011, 33 ss.; R. De la Feria, The Eu Vat System and the internal market, Amsterdam, 2009, 261 ss.; A. Amand, The limits of the Eu Vat Exemption for financial services, in Intertax, 2009, 263 ss. (50) Sull’interpretazione teleologica nel diritto europeo vd. la ricostruzione di R. Miceli, Indebito comunitario e sistema tributario interno. Contributo allo studio del rimborso d’imposta secondo il principio di effettività, Milano, 2009, 17 ss. e l’ampia bibliografia di teoria generale citata dall’autrice. Sul fatto che l’interpretazione della Corte di Giustizia sia totalmente “libera da schemi” vd. l’autorevole contributo di G. De Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti, Bologna, 2010, 151 ss. (51) Sul punto vd. A. Comelli, Iva comunitaria e nazionale, Padova, 2000, 373 il quale si focalizza solamente sulla necessità di un’interpretazione restrittiva.


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verificare la corretta interpretazione della fattispecie, così come delineata nei singoli “microsistemi”. In tale prospettiva – e seguendo il pensiero della Corte – non è detto che un’interpretazione restrittiva delle operazioni esenti deponga nel senso di una “maggiore neutralità”. È, invece, chiaro che se si ragionasse in termini di un unico sistema Iva – parametrando, esclusivamente, le operazioni esenti con quelle imponibili – si dovrebbe giungere a conclusioni in senso diametralmente opposto: meno è limitato il diritto di detrazione, più è neutrale il sistema. Al contrario, invece, anche l’applicazione “discriminatoria” di tale diritto può determinare gravi disuguaglianze ed asimmetrie. In sostanza, non vi è un sistema da “idealizzare”, perfetto in assoluto e utilizzabile come parametro di riferimento ma, caso per caso, si tratta di individuare quale sia il termine di confronto, secondo un criterio razionale ed uniforme, nell’ambito del singolo sistema di operazioni esenti. Da quanto precede, l’esigenza diviene, dunque, quella di interpretare le operazioni esenti in modo uniforme, in linea con la ratio che caratterizza il singolo microsistema normativo e prendendo come punto di riferimento e come parametro il regime “ordinario” di esenzione, e non quello di imponibilità. Affinché si possa, dunque, parlare di “parità di trattamento” (che costituisce “il fulcro” del principio di neutralità), sia in senso soggettivo, sia oggettivo, occorre, preliminarmente, individuare il contesto di riferimento e gli obiettivi sottesi al singolo microsistema di operazioni, senza porsi nell’ottica “preconcetta” (influenzata dagli “effetti economici” dell’indetraibilità del tributo (52) e da una visione dell’iva come tributo funzionale ad una mera finanza neutrale) dell’interpretazione meramente restrittiva. Al contrario, anche metodologie interpretative che tendono ad ampliare il campo di applicazione delle esenzioni non sono, necessariamente, contrastanti con il principio di neutralità. In conclusione, al fine di superare le incertezze e le “zone grigie” (vd. retro § III) tra le attività di interesse generale che generano operazioni imponibili e quelle propriamente di interesse pubblico, dalle quali emergono operazioni esenti, occorre porsi nella logica del tipo dei valori promossi e tutelati.

(52) Come osserva J. Englisch, The Eu Perspective of Vat Exemptions in Aa. Vv., Vat Exemptions – Consequences and Design alternatives, a cura di De la Feria, Amsterdam, 2013, 57, sul piano giuridico è indifferente come il regime di esenzione orienti le scelte del consumatore finale essendo, al contrario, da giustificare, giuridicamente, la scelta del regime in termini di principi costituzionali.


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Ovviamente, ad una mancata “sovrapposizione tra principi” della medesima specie dovranno corrispondere divergenti regimi impositivi, ma nell’ipotesi in cui i valori tutelati tendano a coincidere, occorre che vi sia uniformità in termini di trattamento Iva (dovendo prevalere la “strada” dell’esenzione). 6. Il regime Iva delle attività strumentali a quelle di interesse generale. Un ulteriore aspetto di particolare interesse e rilevanza riguarda il regime Iva delle attività diverse da quelle di interesse generale disciplinate, queste ultime, dall’art. 6 del Codice del terzo settore. Tale norma recita, infatti, che “gli enti del Terzo settore possono esercitare attività diverse da quelle di cui all’articolo 5, a condizione che l’atto costitutivo o lo statuto lo consentano e siano secondarie e strumentali rispetto alle attività di interesse generale”. L’art. 6, poi, dispone che le modalità di esercizio di tali attività saranno disciplinate con apposito decreto ministeriale. La caratteristica principale delle attività secondarie degli ETS è, dunque, la strumentalità rispetto a quelle di interesse generale e la questione centrale, in definitiva, è, da un lato, comprendere cosa si intenda per “strumentalità”, e, dall’altro, se le attività strumentali devono “seguire” il medesimo regime Iva di quelle di interesse generale. È, infatti, evidente che il concetto di “strumentalità” implica un giudizio di relazione tra due categorie di attività e diviene indispensabile comprendere il contenuto giuridico di tale nesso. In tale contesto è centrale (e per molti versi risolutivo) il concetto di “operazione connessa” o “strettamente connessa” contenuta nell’art. 132 della Direttiva (ma del tutto ignoto all’ordinamento italiano) (53): si parla, infatti, a titolo meramente esemplificativo, di attività esenti “strettamente connesse alla pratica dello sport”, di “prestazioni di servizi e cessioni di beni strettamente connesse con l’assistenza e la previdenza sociale” piuttosto che di operazioni “connesse alla protezione dell’infanzia e della gioventù, l’insegnamento scolastico o universitario, la formazione o la riqualificazione professionale”. Appare, infatti, evidente che i concetti di “strumentalità” e di “connessione”, nell’ambito delle attività di interesse generale, possono coincidere, quanto meno nella prospettiva dell’Iva. In primo luogo, la “connessione” richiesta dalla Direttiva attiene alla realizzazione immediata ed alla promozione dei valori tutelati, seppur mediante

(53) È, peraltro, significativo osservare che il concetto di connessione, nel sistema della Direttiva, riguarda esclusivamente le esenzioni di interesse pubblico.


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l’esercizio di un’attività diversa da quella esente. Come appare scontato, il “modello” è applicabile anche nell’ambito della disciplina dettata dall’art. 6 del Codice del terzo settore con riferimento al rapporto tra le attività di interesse generale e quelle ad esse strumentali: è, infatti, ammesso che l’ETS eserciti attività secondarie e strumentali rispetto a quelle di interesse generale nella misura in cui tutte “convergano” verso il medesimo obiettivo. Secondo la giurisprudenza europea – la quale, in più occasioni, ha esplicitamente preso atto della mancanza di una definizione nella Direttiva – la prestazione “strettamente connessa” deve essere volta “a garantire che il beneficio” di quella “esentata” (nel caso di specie, l’insegnamento universitario) “non divenga inaccessibile a causa dell’aumento dei costi che si verificherebbe nel caso in cui detto insegnamento – ovvero le prestazioni di servizi e le forniture di beni ad esso strettamente connesse – venisse assoggettato all’IVA” (54). Sul piano nazionale – dove il concetto di operazione connessa, come detto, non trova alcuna menzione – è giunta ad analoghe conclusioni anche la Corte di Cassazione la quale ha adottato un peculiare iter argomentativo, improntato a valori fondamentali di matrice costituzionale. Secondo i Giudici di legittimità, infatti, con riferimento, in particolare, alle esenzioni didattiche, “lo scopo perseguito dal legislatore sta in evidenti finalità di ordine individuale e sociale: ed è quello di agevolare, anche sul piano fiscale, sia il fruitore dell’attività di istruzione (al quale non viene addebitata l’imposta sul valore aggiunto), impartita, nell’esercizio di attività d’impresa, da enti e privati, riconosciuti oggettivamente e soggettivamente idonei dallo Stato, sia la circolazione di libri e di strumenti “lato sensu” didattici, e, in definitiva, di favorire, sul medesimo piano, il promovimento e lo sviluppo della cultura negli innumerevoli settori dell’arte, della scienza e della tecnica, che costituiscono oggetto di insegnamento» (55). È particolarmente significativo un ulteriore passaggio della motivazione in cui i Giudici di legittimità hanno osservato che “la estensione della esenzione anche ad attività commerciali parallele… od estranee alla istruzione ed all’esercizio della didattica…, e svolte da soggetti distinti dagli istituti e dalle scuole, risulta pienamente coerente con lo scopo sociale perseguito laddove tali attività commerciali… rivestano rispetto alla attività di istruzione, carattere strumentale o comunque

(54) Corte di Giustizia UE, 20 giugno 2002, causa C-287/00. (55) Cass. 15 giugno 2011, n. 13069.


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ausiliario alla didattica, carattere evidenziato dalla convergenza finale delle due attività (principale ed ausiliaria) a favore del medesimo destinatario (lo studente)”: ciò in quanto “scopo delle esenzioni è da ravvisarsi nelle finalità sociali della diffusione e sviluppo della istruzione nella collettività ex art. 33 Cost.”. La Corte, dunque, sulla base di tale assunto, ha ritenuto di potere estendere il regime di esenzione anche ad attività tipicamente commerciali, “parallele” rispetto a quelle strictu sensu di insegnamento, valorizzando, al pari della giurisprudenza europea, una modalità interpretativa di tipo funzionale, con un approccio che si discosta, sensibilmente, da quello adottato, seppur in misura “altalenante”, in tema di agevolazioni fiscali, restrittivo e che tende, spesse volte, ad escludere anche l’interpretazione estensiva. Si è già avuto modo di osservare che, pur essendo inequivocabili le somiglianze tra i concetti di “connessione” e “accessorietà” (56), non è possibile identificare una totale sovrapponibilità tra gli stessi. Il secondo, infatti, è dettato da esigenze interne al tributo, mentre nell’ambito delle esenzioni di interesse pubblico prevalgono esigenze di carattere extra-fiscale. Come ha osservato, peraltro, la stessa Corte in realtà, la nozione di prestazioni connesse «non richiede un’interpretazione particolarmente restrittiva» (57) mentre quella di accessorietà impone un ben maggiore rigore in termini di “indispensabilità”. In altri termini, nel settore delle esenzioni di interesse pubblico, occorre ritenere che il grado di “assorbimento” (come emerge, “tra le righe” nella giurisprudenza dei Giudici europei) tra operazioni principali e “secondarie” deve essere valutato con meno severità rispetto a settori in cui non prevalgono esigenze di promozione e tutela di diritti fondamentali ed ineludibili, quali la salute o l’educazione, ma ragioni tecniche interne al tributo. Il medesimo schema interpretativo deve essere adottato per identificare il rapporto tra le attività di interesse generale e quelle ad esse strumentali. Ai fini Iva, dunque, queste ultime devono essere assoggettate al medesimo regime applicabile a quelle di interesse generale nel momento in cui emerga una stretta funzionalità rispetto ai valori tutelati e promossi, a prescindere dalla sussistenza di un rigido vincolo di accessorietà. A ciò consegue che, se l’attività di interesse generale determina l’emersione di operazioni esenti, an-

(56) F. Montanari, op. cit., 149. (57) Corte di Giustizia UE, 11 gennaio 2001, causa C-76/99.


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che l’esercizio di quelle strumentali non può che seguire il medesimo regime impositivo, nel solco dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia. Diversamente, nei limitati casi in cui l’ETS operi in regime di piena imponibilità, è logico ritenere che anche le attività secondarie e strumentali diano vita ad operazioni ordinariamente imponibili, sempre in una logica di funzionalità rispetto agli interessi tutelati. In tale prospettiva, peraltro, appare di notevole rilievo un orientamento della Suprema Corte, proprio in materia di Onlus, dove è stato chiarito il rapporto tra attività istituzionale e connessa (58). Secondo la Corte, infatti, occorre, anche in tal caso, considerare il rapporto “funzionale” che intercorre tra l’attività concretamente svolta dall’ente e lo “scopo sociale” perseguito, sempre in funzione promozionale dei valori contenuti nella Costituzione (59). 7. Conclusioni. L’emergere di una nuova dimensione dell’imprenditoria sociale – sulla quale, come detto, “puntano” le stesse istituzioni europee (vd. retro § II) – rende evidente la necessità di adottare criteri interpretativi e prassi applicative che tendano ad un trattamento omogeneo di soggetti ed attività. Nel momento in cui, infatti, si consolida un “mercato del sociale” nel quale operano imprese a tutti gli effetti a carattere lucrativo (oggettivo), non si pone più solamente il problema dell’inefficienza economica delle esenzioni in termini di “traslazione” del costo dell’Iva indetraibile sui consumatori finali, ma anche di possibile mancanza di neutralità nell’ambito di transazioni tra operatori economici (60). Quindi, eventuali trattamenti discriminatori possono impattare, sia sugli ETS, sia sui fruitori delle prestazioni di interesse generale.

(58) Cass. 19 ottobre 2012, n. 17998, in Enti non profit, 2013, 19, con nota di Pesticcio, Onlus e attività connesse: l’ambigua interpretazione della Cassazione. (59) D’altro canto, tale orientamento si pone in linea anche con quanto indicato nella relazione illustrativa al D.Lgs. 460/1997 ove si legge, a chiare lettere, che le attività connesse sono quelle «attività strutturalmente funzionali, sotto l’aspetto materiale, a quelle istituzionali che si sostanziano in operazioni di completamento o migliore fruibilità delle attività istituzionali». (60) Sul punto già M. Miscali, La fiscalità del terzo settore, in Aa. Vv., La fiscalità del terzo settore (a cura di G. Zizzo, M. Miscali), Milano, 2011, 71, il quale evidenzia che già oggi il problema si presenta nell’ambito delle operazioni business to business effettuate tra enti del terzo settore: l’indetraibilità dell’iva sugli acquisti, infatti, crea un “disincentivo alla collaborazione tra enti del terzo settore”.


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Il sistema dell’Iva è quello che si presta ai maggiori equivoci concettuali in quanto vi è la pressoché unanime tendenza ad esaminare le operazioni esenti nell’ottica dei regimi agevolativi e derogatori, piuttosto che di quelli ordinari/strutturali rispetto ad uno specifico contesto concorrenziale. Una visione “radicale”, che idealizza un unico modello d’imposta sul valore aggiunto svincolato da finalità extra fiscali, infatti, non tiene conto delle peculiarità che caratterizzano i singoli sistemi delle esenzioni, ontologicamente espressione di una finanza funzionale attiva. Non pare, infatti, corretto identificare un unico modello Iva ordinario da prendere come parametro di riferimento, ma diversi microsistemi, a volte caratterizzati da esigenze di finanza neutrale, mentre altre volte da finalità di finanza funzionale attiva (e, quindi, da analizzare autonomamente e secondo principi propri del singolo sotto sistema). Le operazioni esenti di interesse pubblico, infatti, costituiscono dei “microsistemi” autonomi caratterizzati da finalità di promozione e salvaguardia di valori costituzionali ed europei. Ciò che conta, in particolare, ai nostri fini, è che, al di là delle apparenti “divergenze”, vi è una quasi perfetta sovrapponibilità tra i principi ed i valori sottesi alle attività di interesse generale devolute agli ETS nella logica della sussidiarietà orizzontale e quelli promossi e tutelati dalle esenzioni Iva di interesse pubblico. Tale circostanza ha un notevole impatto sul piano interpretativo in quanto, come si è già avuto modo di osservare in altra sede (61), l’unica soluzione è quella di suddividere le attività di interesse pubblico in ragione dei valori costituzionali tutelati ovvero, secondo una diversa “chiave di lettura”, con riferimento alle funzioni pubbliche devolute a soggetti privati in una logica di sussidiarietà orizzontale (62). In tale prospettiva, dunque, le attività di interesse generale contenute nel codice del terzo settore e quelle propriamente di interesse pubblico esentate dal tributo, si pongono sullo stesso piano in termini funzionali. Sono particolarmente significative le parole dell’Avvocato generale (63) laddove esso evi-

(61) F. Montanari, op. loc. cit., 168 e ss. (62) A titolo meramente esemplificativo, secondo tale metodo interpretativo è riconducibile alla. macro area della tutela della salute anche quella dell’assistenza a taluni soggetti “disagiati” dal punto di vista economico (ad es. i “senza fissa dimora”) o per motivi attinenti a condizioni psico-fisiche (ad. es. i disabili o i tossicodipendenti) (63) Conclusioni dell’Avvocato generale del 25 febbraio 2005, C-498/03, par. 25.


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denzia che nelle esenzioni di diritto pubblico “si scorge l’intenzione di esonerare le operazioni che, per le loro strette connessioni con gli obiettivi propri di uno Stato sociale, democratico e di diritto, sono classificate come operazioni di interesse generale e si radicano nel novero delle attività promosse e gestite tradizionalmente dai pubblici poteri in forma diretta o mediante soggetti interposti la sanità, l’istruzione, la sicurezza sociale, la tutela dell’infanzia e della gioventù, l’esercizio della libertà religiosa, l’educazione fisica e lo sport, la promozione della cultura)”. In conclusione, pare corretto attribuire la massima espansione e promozione dei valori contenuti nella Costituzione sociale, la protezione dei quali viene devoluta ai soggetti indicati nell’art. 10, nell’ambito delle funzioni pubbliche ad essi “trasferite”. In tal modo, una volta assodato che, sia il codice del terzo settore, sia le norme di esenzioni poggiano su principi comuni, è possibile comprendere se vi sia una “identità di valori” tra le specifiche attività di interesse generale e quelle esentate in base all’art.10. In tal modo è destinata a prevalere, con ogni probabilità, “la forza di attrazione” delle norme sottrattive di esenzione: dunque, solamente nelle ipotesi in cui risulti palese la estraneità di una specifica attività di interesse generale elencata nell’art. 5 del Codice del terzo settore, rispetto alla finalità sottesa ad una determinata categoria di operazioni esenti, sarà possibile optare per l’imponibilità ordinaria. In conclusione, ponendosi in tale prospettiva è chiaro che i singoli ordinamenti hanno la facoltà di includere/escludere talune specifiche attività tra quelle di interesse pubblico (per utilizzare il gergo della Direttiva). Ma è altrettanto vero che l’interpretazione conforme al diritto europeo implica, comunque, la prevalenza del raggiungimento dello scopo delle norme di esenzione, parametrato al valore costituzionale tutelato e promosso. Ciò non toglie che, proprio in virtù, da un lato, dell’evidente “pesantezza” del regime di esenzione per l’ente erogante la prestazione sociale e, dall’altro, dell’importanza degli ETS anche in termini di attuazione di principi e valori generalmente riconosciuti, sarebbe essenziale ipotizzare sistemi premiali per l’ente (oltre che per il fruitore del servizio) quali, a titolo meramente esemplificativo, la previsione di aliquote “super ridotte” (64) come avviene oggi per

(64) Per ampie considerazioni cfr., da ultimo, R. De La Feira, Blueprint for Reform of VAT Rates in Europe in Intertax, 2015, 155.


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le cooperative sociali (65). Tuttavia, al fine di evitare la emersione di situazioni di dubbia compatibilità europea, “figlie” di interventi unilaterali poco meditati, sarebbe opportuna (come da più parti auspicato) una complessiva rivisitazione delle esenzioni Iva che trova, tuttavia, un ostacolo insormontabile nell’evidente stallo politico delle istituzioni europee. Ad oggi, quindi, non resta che “aggrapparsi” alla giurisprudenza della Corte censurando, anche innanzi ai giudici nazionali, prassi ed interpretazioni in contrasto con il diritto europeo.

Francesco Montanari

(65) Sono assolutamente illuminanti le parole di autorevole dottrina risalenti ad oltre vent’anni fa: “se la detrazione dell’Iva sugli acquisti fosse concessa anche per operazioni esenti, chi effettua tali operazioni sarebbe istituzionalmente a credito e in questo modo i consumi di beni o servizi “esenti” non sarebbero gravati da alcun importo di Iva. Sarebbe erroneo considerare il credito Iva di chi effettua operazioni esenti come un sussidio pubblico: con il rimborso di tale credito a) il fornitore di prestazioni esenti riceverebbe indietro l’imposta che aveva versato ai suoi fornitori e b) lo Stato rimborserebbe imposta che in precedenza aveva percepito dai fornitori suddetti. Questo rimborso non è uno scandalo concettuale, ma la logica conseguenza della scelta politica (immune da vizi o contraddizioni logiche) di detassare completamente un certo tipo di consumo; ciò accade per le operazioni esenti che ammettono la detrazione sugli acquisti e soprattutto per i regimi di esclusione o di “aliquota zero”, che economicamente si equivalgono e corrispondono a una sorta di operazioni esenti con diritto alla detrazione. In realtà è da chiedersi perché tutta la modulazione dei regimi di maggiore o minor favore Iva non abbia utilizzato la diversificazione delle aliquote, invece di affidarsi anche all’esenzione senza diritto alla detrazione dell’imposta sugli acquisti. Operando sulle aliquote, le varie categorie di consumo sarebbero state tassate in un modo che teneva conto esclusivamente dei prezzi praticati al cliente, senza interferenze tra modo di organizzazione della produzione e imposta applicata. R. Lupi, Delega Iva e limiti alla detrazione sugli acquisti: dai criteri forfettari all’imputazione specifica in Rass. Trib., 1997, I, 274.


Limiti alla riferibilità della sanzione alla persona giuridica, principio del beneficio e rilievo dell’autore materiale: considerazioni e prospettive di riforma Sommario: 1. Introduzione. – 2. Società ‘mero schermo’ e risvolti ‘sanzionatori’ nel

diritto vivente nel quadro dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269. – 3. Amministratori di fatto e principio del beneficio in materia sanzionatoria. – 4. La rilevanza della nozione del vantaggio per l’ente nel quadro dell’art. 7, D.L. n. 269/2003. – 5. Critiche de jure condito ad una valorizzazione del principio del beneficio con riguardo all’art. 7, D.L. 269/2003. – 6. Il rilievo della condotta illecita del terzo: la valorizzazione dell’istituto del concorso dell’autore materiale con la società. – 7. Opportunità di riforma nel quadro della Direttiva n. 2017/1371 del 5 luglio 2017: verso una responsabilità della persona giuridica ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231? Il contributo prende in esame la disciplina di cui all’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269, soffermandosi sui limiti all’attingibilità a sanzione tributaria di amministratori di fatto e terzi che si ingeriscono nell’amministrazione dell’ente e si interroga sulla rilevanza del criterio del beneficio nel contesto della disciplina sanzionatoria tributaria. Si formulano, inoltre, brevi cenni in una prospettiva de iure condendo con riguardo all’obbligo di criminalizzazione introdotto dalla Direttiva n. 2017/1371 del 5 luglio 2017 in caso di commissione di reati di frode IVA da parte dell’ente collettivo. In this article the Author focuses on the scope of application of Article 7, Law-Decree No. 269 of September 30, 2003, researching upon the relevance of the benefit principle in connection thereto. In this regard, careful attention is paid to the criteria laid down by the case-law of the Italian Supreme Court for the imposition of tax penalties vis-à-vis de facto managers and other individuals associated with the legal entity. Finally, some brief remarks are made in light of the recently-enacted EU Directive 2017/1371 of the European Parliament and of the Council of 5 July 2017 on the fight against fraud to the Union’s financial interests by means of criminal law, which contains provisions aimed at establishing a criminal liability of legal persons whereas serious offences against VAT are committed on their behalf.


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1. Introduzione.– Come noto, a fianco dei presidi penalistici previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, l’ordinamento sanzionatorio tributario prevede anche una specifica disciplina di matrice amministrativa, i cui principi sono ispirati al diritto penale e sono enucleati nel D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (1). In questo sistema, la coesistenza e la ragionevolezza del complessivo regime punitivo sono garantite, sotto il profilo sostanziale, dall’applicazione del principio di specialità e, sul versante procedurale, grazie all’operare del regime del c.d. ‘doppio binario’ per quanto concerne il meccanismo di irrogazione della sanzione amministrativa in pendenza di procedimento penale (2).

(1) La bibliografia è molto ampia. Per approfondimenti in materia di sanzioni amministrative tributarie si vedano, senza pretesa di completezza, F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2009, pp. 313 ss.; G. Marongiu, Le sanzioni amministrative tributarie: dall’unità al doppio binario, in Riv. d. trib., I, 2004, 373 ss.; A. Giovannini, Sui principi del nuovo sistema sanzionatorio non penale in materia tributaria, in Dir. prat. trib., I, 1997, 1188 ss.; L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993; Id., Introduzione alla riforma delle sanzioni amministrative tributarie: i principi sostanziali del D.Lgs. n. 472/1997, in Riv. d. trib., I, 1999, 107 ss.; L. Tosi, Profili soggettivi della disciplina delle sanzioni tributarie, in Rass. trib., 1999, 1328 ss.; R. Cordeiro Guerra, Illecito tributario e sanzioni amministrative, Milano, 1996; C. Fava, Sanzioni tributarie e persone giuridiche tra modelli penalistici e specificità del settore, Milano, 2006; M. Pierro, Il responsabile per la sanzione amministrativa tributaria, in Riv. dir. fin. sc. finanz., I, 1999, 224 ss. Le considerazioni esposte nei §§ 1-6 sono frutto del lavoro svolto nell’ambito del progetto di ricerca SIR, dal titolo Estimated tax assessments and presumptive taxation: a comparative analysis, coordinato dal Dott. N. Sartori. (2) Cfr. per quanto riguarda la dottrina penalistica, A. Lanzi - P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, Padova, 2014, 95 ss.; E.M. Ambrosetti, I reati tributari, in E.M. Ambrosetti, E. Mezzetti, M. Ronco, Diritto penale dell’impresa, Bologna, 2016, 461-463. Per la dottrina di diritto tributario si vedano F. Gallo, Il ne bis in idem in campo tributario: un esempio per riflettere sul ‘ruolo’ delle alte corti e sugli effetti delle loro pronunce, in Rass. Trib., 2017, 915 segg.; R. Schiavolin, Alcune considerazioni sul contrasto tra CEDU e disciplina italiana dei rapporti tra procedure sanzionatorie amministrative e penali, in Riv. dir. trib., I, 2017, 385; E. Marello, Raddoppio dei termini per l’accertamento e crisi del ‘doppio binario’, in Riv. dir. trib., III, 2010, 95-97; Id., Evanescenza del principio di specialità e dissoluzione del doppio binario: le ragioni per una riforma del sistema punitivo penale tributario, in Riv. dir. trib., III, 2013, 269, in cui si manifestano, però, perplessità circa la capacità di tali principi – specialità e doppio binario – di rappresentare un meccanismo effettivamente in grado di garantire la coerenza tra i due apparati repressivi e lo svolgersi dei paralleli procedimenti. Similmente, anche A. Carinci, Il principio di ne bis in idem, tra opportunità e crisi del sistema sanzionatorio tributario, in Archivio penale, 3, 2016, 2 e 5-6. Tale Autore mette in dubbio l’effettivo funzionamento del principio di specialità nell’ambito del sistema sanzionatorio tributario in quanto “nonostante la sua formale prescrizione, non risulta in concreto in grado di scongiurare l’applicazione sia della sanzione amministrativa sia di quella penale per la medesima condotta” (p. 5). L’Autore


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In tale quadro, l’individuazione dei criteri di riferibilità della sanzione punitiva nei confronti di società ed enti ha tradizionalmente rappresentato un elemento di complessità di non immediata soluzione. Da un lato, l’impostazione tradizionale accolta in sede penale negava la possibilità di addebitare ad un ente collettivo una responsabilità a titolo penale, sulla base del principio societas delinquere non potest, in forza del quale la responsabilità penale può essere ascritta unicamente alla persona fisica in ossequio al precetto dell’art. 27 Cost. (3). Da un altro lato, la disciplina sanzionatoria amministrativa, alla luce del dettato dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269, delinea una strutturale differenziazione tra le società a base capitalistica e le persone giuridiche – nei cui confronti opera una autonoma riferibilità della sanzione amministrativa tributaria – rispetto a tutti gli altri enti collettivi, nei confronti dei quali il meccanismo di attribuzione della sanzione amministrativa rimane improntato, seppure con significativi temperamenti, al principio di personalità della sanzione in capo all’autore della violazione (4). Per tale seconda categoria di

manifesta, a tale riguardo, perplessità circa la compatibilità con il principio del ne bis in idem elaborato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del regime di cui agli artt. 19 e seguenti del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 che, di fatto, depotenzierebbe l’effetto del principio di specialità, dato che legittimerebbe lo svolgimento in parallelo sia del processo penale che di quello sanzionatorio amministrativo. (3) Si veda, ex multis, R. Cordeiro Guerra, Il principio di personalità, in Aa. Vv., Diritto sanzionatorio amministrativo, a cura di A. Giovannini, A. Di Martino, E. Marzaduri, Milano, 2016, 1439 ss. (4) Per un primo approfondimento di tale disposizione si vedano, ex multis, F. Batistoni Ferrara, Sub Art. 7, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, in Aa. Vv., Commentario breve alle leggi tributarie. Accertamento e sanzioni, diretto da G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu, F. Moschetti, Padova, 2011, pp. 809 segg.; C. Fava, Sanzioni tributarie e persone giuridiche tra modelli penalistici e specificità del settore, cit. L. Del Federico, Sanzioni amministrative relative a persone giuridiche e favor libertatis, in Giustizia tributaria, 3, 2007, 4 ss. Va evidenziato che in dottrina è discussa la natura di tale previsione. Secondo una parte della dottrina (A. Giovannini, Per una riforma del sistema sanzionatorio amministrativo, in Aa. Vv., Diritto sanzionatorio amministrativo, cit., p. 1387) tale norma andrebbe intesa come “una speciale obbligazione di stampo civilistico, ovvero e più propriamente una speciale forma di espromissione, che tolta alla disponibilità negoziale delle parti, il legislatore avrebbe preordinato in tutti i suoi elementi e quoad effectum”. Secondo altra dottrina (F. Gallo, L’impresa e la responsabilità per le sanzioni amministrative tributarie, in Rass. trib., 2005, 32-33) tale previsione non negherebbe il principio di personalità della sanzione amministrativa, ma si limiterebbe a elidere il vincolo di solidarietà tra la persona giuridica e l’autore materiale della violazione. Per ulteriori approfondimenti sui diversi approdi dottrinali si rinvia a C. Fava, Sanzioni tributarie e persone giuridiche tra modelli penalistici e specificità del settore, cit., 118-120.


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soggetti, infatti, rimane valido un regime di responsabilità solidale tra l’autore della violazione e l’ente collettivo per le somme dovute a titolo di sanzione qualora gli illeciti siano stati commessi nell’interesse di quest’ultimo (5). 2. Società ‘mero schermo’ e risvolti ‘sanzionatori’ nel diritto vivente nel quadro dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269. – In tale contesto di riferimento merita soffermarsi su alcuni orientamenti recenti della Cassazione che hanno avuto ad oggetto l’interpretazione dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269 (6). La Corte di Cassazione ha affermato che, nel caso in cui la società di capitali o la persona giuridica siano state costituite come mero schermo, artificiosamente e con finalità puramente illecita, la responsabilità per le sanzioni tributarie amministrative non ricade sull’ente, ma direttamente sulla persona fisica che ha beneficiato materialmente delle violazioni contestate (7). In tale

(5) A. Giovannini, Per una riforma del sistema sanzionatorio amministrativo, in Aa. Vv., Diritto sanzionatorio amministrativo, cit., 1386-1388; C. Fava, Sanzioni tributarie e persone giuridiche tra modelli penalistici e specificità del settore, cit., 116. (6) In tale filone giurisprudenziale si collocano, in particolare, due sentenze della Cassazione: la n. 19716 del 28 agosto 2013 e, da ultimo, la n. 5924 dell’8 marzo 2017. Atteso che le vicende di causa descritte nelle due pronunce appaiono similari ed i principi di diritto formulati dalla Cassazione integralmente sovrapponibili, nel prosieguo ci si limiterà unicamente a richiamare la pronuncia, più recente, dell’8 marzo 2017, n. 5924. Analogamente alla pronuncia dell’8 marzo 2017, n. 5924, anche nella sentenza n. 19716 del 28 agosto 2013, l’Amministrazione finanziaria aveva affermato, sulla scorta di molteplici risultanze documentali, come la sanzione tributaria dovesse essere irrogata nei confronti della persona fisica e non in capo alla società di capitali in quanto quest’ultima non svolgeva alcuna effettiva attività d’impresa.
Dai controlli esperiti, infatti, si evinceva come tutta l’attività della società di capitali fosse in realtà gestita direttamente da un altro soggetto, terzo rispetto alla società ed all’amministratore di diritto, che aveva autonomamente ideato e messo in atto le violazioni tributarie contestate in sede di accertamento. (7) Per una prima analisi di tale orientamento giurisprudenziale si vedano, S. Comin, D. Stevanato, La sanzionabilità tributaria dell’“amministratore di fatto”’, in Bollettino tributario, 6, 2017, 427 ss., nonché, anche se con riferimento ad altra pronuncia della Cassazione del 2017, I. Pellecchia, G. Monte, I requisiti probatori per l’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto, in Corr. trib., 2017, 1449 ss. Esulano dalle finalità del presente lavoro – e non risultano peraltro approfondite nelle sentenze menzionate – le conseguenze in punto reddituale di tale statuizione giurisprudenziale. Al riguardo, potrebbe, infatti, validamente sostenersi che, contestualmente ad una qualificazione della persona giuridica come ‘mero schermo’ debba trovare applicazione, sul versante dell’imposizione diretta, l’istituto dell’interposizione ex art. 37, comma 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Si vedano, per un primo approfondimento di tale istituto A. Contrino, Elusione fiscale, evasione e strumenti di contrasto. Profili teorici e problematiche operative, Bologna,


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ipotesi la persona giuridica si riduce ad una “mera fictio” e la persona fisica che ha agito tramite la società – senza esserne amministratore o legale rappresentante – è attinta a sanzione in quanto, contemporaneamente, trasgressore e contribuente. Deriva da ciò l’inoperatività dell’art. 7, D.L. n. 269/2003 – secondo cui a rispondere della sanzione amministrativa tributaria dovrebbe essere unicamente la persona giuridica – atteso che, nell’ipotesi in esame, mancherebbe un’effettiva differenziazione tra trasgressore e contribuente, necessariamente insita nel rapporto di mandato che caratterizza la relazione giuridica tra l’amministratore della persona giuridica e l’ente stesso nell’interesse del quale l’amministratore è legittimato ad operare. Si tratta, occorre subito evidenziarlo, di un orientamento giurisprudenziale che va contestualizzato alla luce dei fatti di causa, da cui si evince una situazione di radicale illiceità dei comportamenti posti in essere da individui, formalmente terzi rispetto all’organo amministrativo della società di capitali tramite cui le condotte illecite erano effettuate, ma che, in realtà, agivano in qualità di veri e propri ‘padroni’ della società stessa (8). Quest’ultima, di conseguenza, si riduceva a rappresentare un mero schermo giuridico eterodiretto ed utilizzato unicamente per porre in essere schemi abusivi ed evasivi a vantaggio di tali soggetti terzi, ancorché formalmente svincolati da rapporti giuridici con l’organo amministrativo o con la compagine societaria (9).

1996, 183 ss.; U. Morello, Il problema della frode alla legge nel diritto tributario, in Dir. prat. trib., I, 1991, 8 ss. (8) Nelle controversie portate all’attenzione della Cassazione lo scopo di procurare un vantaggio a favore dell’ente collettivo era un elemento radicalmente assente nella condotta del ricorrente. Dall’analisi della condotta del contribuente risultava, infatti, come la volontà di agire nell’interesse della società fosse insussistente ed il contribuente stesso dovesse ritenersi come l’unico beneficiario delle operazioni effettuate formalmente a nome della società. Da tali considerazioni è conseguito, allora, il riconoscimento della natura meramente fittizia della società interposta e l’attribuzione in capo alla persona fisica della qualifica di effettivo contribuente del rapporto d’imposta e del carico sanzionatorio irrogato in conseguenza delle violazioni fiscali poste in essere. (9) Come evidenziato nella sentenza della Cassazione dell’8 marzo 2017, n. 5924 – § 6.2. – “ […] la responsabilità personale del ricorrente è stata fondata... sulla circostanza che gli illeciti commessi dalla società erano stati materialmente posti in essere dal contribuente medesimo il quale aveva totalmente strumentalizzato le società stesse alla finalità fraudolenta’), il [ricorrente] si è reso nella specie destinatario del trattamento sanzionatorio, pur non rivestendo alcuna carica formale nell’organigramma delle società coinvolte nella vicenda, in ragione della sua ritenuta qualità di orchestratore della vasta rete di attività illecite imputate alle società anzidette, delle quali egli, a mezzo di compiacenti prestanomi e di un sistema operativo


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Parte prima

La Corte di Cassazione, accogliendo la tesi dell’Amministrazione finanziaria (10), si è soffermata sulla differenziazione tra la configurazione dei rapporti nella vicenda scrutinata, caratterizzata dalla peculiare condotta del ricorrente, e la situazione che si configura nell’ipotesi di amministrazione di fatto, in cui si assiste allo svolgimento di attività gestorie da parte di individui che, pur non facendo parte della compagine societaria stessa, agiscono nell’interesse della società. In entrambe le ipotesi si sarebbe in presenza di un soggetto terzo che agisce come dominus dell’ente collettivo, al di fuori del controllo degli organi amministrativi formalmente preposti alla gestione dell’ente. Tuttavia, le due ipotesi si distinguerebbero tra loro sul presupposto che, soltanto nell’ipotesi di amministrazione di fatto, l’eterodirezione della società da parte del terzo sarebbe volta a realizzare un vantaggio nell’interesse dell’ente stesso. In tal caso andrebbe riconosciuta all’amministratore di fatto una volontà tesa a conseguire comunque, tramite la propria attività di gestione e di amministrazione in via di fatto, un effettivo vantaggio per la società stessa. La sostanziale differenza tra amministratore di diritto e di fatto si sostanzierebbe, allora, nel dato formale circa la mancanza di un rapporto giuridico tipizzato e formalizzato nel cui alveo viene svolta l’attività dell’amministratore di fatto. Tale diversa qualificazione dell’autore materiale della violazione – amministratore di fatto o terzo portatore di un proprio interesse che agisce senza l’intenzione di avvantaggiare la società – assume rilievo determinante sul versante sanzionatorio, atteso che, secondo la Cassazione, l’attività di amministrazione di fatto svolta a vantaggio della persona giuridica non provoca il venire meno dell’operatività dell’art. 7, D.L. n. 269/2003, lasciando così esente da sanzione tributaria l’autore materiale. Diversamente, nell’ipotesi in cui l’agire del trasgressore non sia stato finalizzato ad arrecare un vantaggio nei confronti dell’ente, la sanzione tributaria dovrebbe essere irrogata direttamente in capo alla persona fisica, in deroga al principio di cui al citato art. 7.

imperniato sul largo uso di ‘scatole vuote’ e di mandati fiduciari, risultava essere il dominus incontrastato”. (10) L’Amministrazione finanziaria aveva, infatti, irrogato direttamente in capo alla persona fisica le sanzioni amministrative, disconoscendo la sussistenza di una autonoma rilevanza, quale centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, della società di capitali stessa. Così facendo, in altre parole, l’Agenzia delle Entrate era giunta a denegare l’applicabilità del meccanismo di imputazione delle sanzioni amministrative tributarie enucleato all’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269, sul presupposto di una irrilevanza dello schermo giuridico societario e della necessaria riconduzione di tutte le condotte illecite in capo al contribuente persona fisica che era risultato essere il manovratore occulto della società stessa.


Dottrina

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3. Amministratori di fatto e principio del beneficio in materia sanzionatoria. – Tale orientamento giurisprudenziale presenta più profili di interesse che attengono all’attingibilità a sanzione tributaria di amministratori di fatto e terzi che si ingeriscono nell’amministrazione di enti personificati, nonché alla rilevanza del criterio del beneficio quale principio ‘guida’ per l’irrogazione della sanzione nel sistema sanzionatorio tributario ed alla funzione dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269, quale norma di difficile sistematizzazione nell’ambito della materia delle sanzioni amministrative tributarie. Prendendo, in primo luogo, in esame la nozione dell’amministrazione di fatto in sede di illeciti tributari, occorre sottolineare come tale concetto trovi tradizionale accoglimento nel diritto penale, in cui l’esigenza di contrasto alle forme di patologia della vita giuridica spinge a dare preminenza alla situazione di fatto rispetto alla forma giuridica (11). In tale ambito, l’equiparazione, sorta in giurisprudenza già in epoca risalente con specifico riferimento ai delitti di bancarotta, ha ricevuto una generalizzazione per via legislativa con il novellato articolo 2639, c.c., che, sotto la rubrica “Estensione delle qualifiche soggettive”, ha equiparato, con riferimento a tutti i reati previsti dal titolo XI del Codice civile – Disposizioni penali in materia di società e di consorzi – i soggetti che esercitano di fatto i poteri inerenti alla qualifica o alle funzioni a coloro che ne sono giuridicamente muniti in modo formale (12). Sempre sulla stessa linea, peraltro, la giurisprudenza penale più recente tende a equiparare al pubblico ufficiale e all’incaricato di pubblici servizi, definiti formalmente agli artt. 357 e 358 del Codice penale, coloro che esercitano di fatto le funzioni o gli incarichi relativi ai servizi pubblici (13). Ora, tale tendenza realistica del diritto penale, motivata dall’esigenza di evitare l’elusione dei divieti penali, sembra estendersi anche al diritto punitivo in campo tributario allo scopo di fornire un argine agli abusi della forma giuridica.

(11) Cfr. E. Mezzetti, Soggetti e responsabilità individuale e collettiva, cit., 42, in cui, oltre a descrivere la portata dell’art. 2639, c.c. in campo penale, si sottolinea come con tale disposizione il legislatore abbia inteso recepire il principio secondo cui “il dato fattuale della gestione sociale prevale sulla qualifica formalmente ricoperta”. (12) Cfr. E. Mezzetti, Soggetti e responsabilità individuale e collettiva, cit., 42. (13) A tale riguardo si vedano, ex multis, Cass. pen. 24 aprile 2016, n. 9438; Cass. pen. 5 maggio 2015, n. 41004.


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Parte prima

Da un lato, l’ascrizione della responsabilità penal-tributaria nei confronti degli amministratori di fatto, in mancanza di una previsione analoga all’art. 2639, c.c. contenuta nel D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è avvenuta grazie all’interpretazione estensiva degli artt. 62, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 ed 1, comma quattro, D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322 compiuta dalla giurisprudenza penale. In particolare, la Cassazione ha ritenuto che i riferimenti, contenuti nei predetti articoli della legislazione tributaria, a coloro che svolgono attività di amministrazione in via di fatto debbano trovare applicazione non soltanto in quelle, più limitate, ipotesi in cui sono del tutto assenti amministratori e rappresentanti di diritto della società ed in cui l’amministratore di fatto si pone quale vero e proprio ‘sostituto’ dell’amministratore di diritto nelle attività di gestione e rappresentanza verso i terzi, bensì anche nelle ipotesi in cui, pur risultando formalmente presente un legale rappresentante o un amministratore di diritto dell’ente, il ruolo e l’ingerenza dell’amministratore di fatto nella conduzione, in via diretta o indiretta, dell’ente si appalesano significativi, spesso assumendo i connotati di una vera e propria gestione parallela della società e in cui la funzione dei rappresentanti formali diviene meramente apparente e tipica delle c.d.‘ teste di legno’ (14). Da un altro lato, come anticipato, il quadro circa la sanzionabilità dell’amministratore di fatto risulta più frammentato con riferimento al versante di diritto sanzionatorio amministrativo (15). Ciò in considerazione della ‘creazione’ da parte del legislatore – a seguito dell’introduzione dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269 – di una divaricazione in punto sanzionatorio a seconda che l’ente collettivo assuma o meno i connotati della società a base capitalistica o rientri nell’insieme più ampio delle persone giuridiche.

(14) Cfr. S. Comin - D. Stevanato, La sanzionabilità tributaria dell’“amministratore di fatto”’, cit., p. 429. In particolare, gli Autori mettono in evidenza come la normativa tributaria che fa riferimento all’amministratore di fatto sia stata interpretata in giurisprudenza in chiave estensiva “riferendolo non solo ai veri e propri casi di mancanza ‘fisica’ del rappresentante legale, di sua inabilità o impossibilità a sottoscrivere la dichiarazione, ma altresì a impedimenti di tipo relativo, che si verificano ad esempio quando il rappresentante formale è in realtà una testa di legno e non sia in grado di sottoscrivere la dichiarazione assumendosene consapevolmente la paternità […]”. (15) Si vedano in dottrina, I. Pellecchia - G. Monte, I requisiti probatori per l’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto, cit., 1450 ss.; A. Russo, Sanzioni tributarie applicabili all’amministratore di fatto, in Il Fisco, 2014, 4466 ss.


Dottrina

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Diversamente dalla previsione dell’art. 7, più volte citato, la disciplina introdotta dall’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 per quanto riguarda gli enti collettivi privi di personalità giuridica regola espressamente l’ipotesi della responsabilità a titolo di sanzione amministrativa in capo all’amministratore di fatto, sottoponendo tale soggetto – l’autore materiale dell’illecito – a sanzione e, contestualmente, introducendo un regime di solidarietà per il pagamento della sanzione in capo al contribuente nel cui interesse è stata posta in essere la violazione (16). Ciò si evince dalla formulazione dell’art. 11, primo comma, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, che compie un espresso riferimento alla sanzionabilità dell’illecito commesso dall’amministratore di fatto di ente privo di personalità giuridica e che individua nell’agire “nell’interesse” dell’ente la condizione per l’operare del regime di solidarietà, quale precondizione per l’individuazione di una responsabilità solidale tra contribuente ‘beneficiato’ ed autore materiale della violazione (17). Ebbene, si tratta di una previsione normativa che risulta, invece, del tutto assente nel testo dell’art. 7, D.L. n. 269/2003, dal quale pare evincersi, a contrario, una presunzione di riferibilità assoluta della sanzione tributaria alla persona giuridica per fatti che sono stati commessi in suo nome, indipenden-

(16) In questo senso, si vedano C. Fava, Sanzioni tributarie e persone giuridiche tra modelli penalistici e specificità del settore, cit., p. 120, dove si evidenzia come la previsione di cui all’art. 7, D.L. 269/2003 “pone le sanzioni a carico delle persone giuridiche a prescindere dal fatto che le violazioni da esse commesse diano luogo ad un beneficio loro od altrui”, nonché F. Batistoni Ferrara, Sub Art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu, F. Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo II – Accertamento e sanzioni, cit., 755. (17) Ciò risulta ancora più chiaramente qualora si prenda in esame la previsione enucleata all’art. 11, primo comma, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 che limita la responsabilità solidale dell’autore materiale della violazione al pagamento di una somma massima pari ad euro 50.000,00 a condizione che l’autore materiale non abbia tratto un “diretto vantaggio” dalla violazione contestata e che il trasgressore non abbia posto in essere l’illecito con “dolo o colpa grave”. Peraltro, va notato che anche in tale circostanza in cui non opera la limitazione della responsabilità solidale al di sopra dei 50.000,00 euro a favore del trasgressore, permane il regime di solidarietà tra contribuente beneficiario della violazione ed autore materiale. Cfr. R. Cordeiro Guerra, Il principio di personalità, cit., 1449-1450, in cui si evidenzia come con tali previsioni dell’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 il legislatore “prende atto che chi agisce nell’interesse di un soggetto diverso, pur realizzando la violazione, non ne trae un beneficio proporzionale al tributo evaso e, dunque, introduce nei suoi confronti un meccanismo di limitazione dell’ammontare della sanzione”.


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Parte prima

temente dall’esistenza di un effettivo vantaggio o interesse che consegua alla commissione della violazione da parte dell’autore materiale (18). 4. La rilevanza della nozione del vantaggio per l’ente nel quadro dell’art. 7, D.L. n. 269/2003. – Dalle considerazioni formulate nel paragrafo precedente potrebbe concludersi che, con riferimento a violazioni commesse a beneficio di società a base capitalistica e di persone giuridiche, il legislatore non abbia inteso attribuire rilevanza autonoma all’amministratore di fatto, ritenendo opportuno prevedere che l’irrogazione della sanzione amministrativa colpisca unicamente la società. È indubbio che un tale inquadramento – per quanto comprensibile con riferimento ad una figura, l’amministratore di fatto, la cui unica differenza rispetto all’amministratore di diritto è data dall’assenza di un rapporto giuridico tipizzato e formalizzato nel cui alveo viene svolta l’attività di amministrazione – risulta criticabile in quanto, in buona misura, giunge a depotenziare radicalmente la funzione deterrente ed afflittiva tipica della sanzione nei confronti dell’autore materiale della violazione (19). In primo luogo, un tale esito appare distonico rispetto ai principi di diritto sovranazionale che si vanno sempre più affermando in tema di diritto punitivo, apparendo intrinsecamente irragionevole in quanto fonda una differenziazione in punto sanzionatorio sulla base del mero dato rappresentato dalla forma giuridica prescelta dal contribuente. In secondo luogo, tale risultato interpretativo fatica ad esplicare effetti soddisfacenti e a dispiegare una risposta punitiva ‘effettiva’ nei casi in cui vi sia una strutturale divaricazione tra persona giuridica attingibile a sanzione tributaria nel quadro dell’art. 7, D.L. n. 269/2003 e soggetto ‘beneficiario’ della violazione fiscale, che strumentalmente opera in modo illecito tramite lo ‘schermo giuridico’ societario al fine di godere di una sostanziale impunità sotto il profilo sanzionatorio tributario.

(18) In questi termini R. Cordeiro Guerra, Il principio di personalità, cit., p. 1455, dove si sottolinea come “si delinea […] una sorta di ‘doppio binario’ nella applicazione delle sanzioni amministrative a seguito della novella del 2003”. (19) In questi termini, L. Murciano, La ‘nuova’ responsabilità tributaria delle società e degli enti dotati di personalità giuridica: l’art. 7 del DL n. 269/2003, in Riv. dir. trib., I, 2004, 674. Tale Autore, dopo aver evidenziato che l’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269 configura una ipotesi di responsabilità di tipo oggettivo, “da posizione”, evidenzia che il modello de quo sia “difficilmente conciliabile con l’assetto complessivo del nostro ordinamento punitivo e con la natura afflittiva che generalmente si riconosce alla sanzione amministrativa tributaria”.


Dottrina

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È, perciò, in tale contesto di fondo che si devono ponderare i principi affermati nella giurisprudenza prima richiamata, in forza della quale, come visto, è sancita la legittimità dell’abbandono, in casi limite, del principio di esclusiva riferibilità alla persona giuridica della sanzione amministrative ai sensi dell’art. 7, D.L. n. 269/2003: ciò proprio sul presupposto che l’irrogazione della sanzione amministrativa in capo all’ente può essere giustificata, quale regime di tipo ‘derogatorio’ rispetto al complessivo sistema sanzionatorio, a condizione che la condotta illecita dell’autore materiale sia finalizzata a beneficiare l’ente collettivo responsabile della sanzione. Pare, in altre parole, che la giurisprudenza in commento vada intesa quale risposta pretoria rispetto all’utilizzo abusivo della forma giuridica capitalistica, finalizzata a contrastare nella maniera più ampia possibile forme di abusi conclamati, che si verificano quando lo schermo giuridico sia adoperato come un mezzo per permettere la strutturale commissione di illeciti e rendere più difficoltosa l’individuazione dell’autore delle condotte frodatorie. Una tale linea interpretativa risulta, peraltro, porsi, pur con le dovute cautele, in continuità con quell’orientamento dottrinale secondo cui la ratio dell’art. 7 D.L. n. 269/2003 non sarebbe quella di negare in radice il principio di personalità della responsabilità amministrativa tributaria, “ma solo la sussistenza di un vincolo di solidarietà tra autore materiale dell’illecito e contribuente in ordine all’adempimento di un’obbligazione tributaria” (20). Superata, infatti, la concezione prima richiamata, che qualifica la norma de qua quale vera e propria ipotesi di responsabilità oggettiva “da posizione” – che non lascia in ultima istanza alcun margine per una valorizzazione ponderata del principio di colpevolezza – e che sostiene l’assoluta irrilevanza del criterio del beneficio con riferimento a tale previsione (21), la rivalutazione dell’elemento dell’interesse quale condizione ‘implicita’ del complessivo sistema sanzionatorio amministrativo permette di fondare l’addebito a titolo di responsabilità sanzionatoria ex art. 7 D.L. n. 269/2003 anche per le ipotesi di violazione, particolarmente gravi, rappresentate dall’utilizzo abusivo dello schermo societario da parte di terzi estranei alla società.

(20) F. Gallo, L’impresa e la responsabilità per le sanzioni amministrative tributarie, cit., 33. (21) Cfr. L. Murciano, La ‘nuova’ responsabilità tributaria delle società e degli enti dotati di personalità giuridica: l’art. 7 del DL n. 269/2003, cit., 674.


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Parte prima

Un tale inquadramento, accolto nella giurisprudenza in esame, delinea, in altre parole, una esplicita valorizzazione del criterio del beneficio quale elemento strutturale implicito della fattispecie sanzionatoria dell’art. 7 D.L. n. 269/2003, assente il quale dovrebbero trovare espansione gli ordinari criteri che vedono – in conformità al principio personalistico esplicitato all’art. 2, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 – nella persona fisica, autrice e beneficiaria dell’illecito tributario, il soggetto nei cui confronti comminare la sanzione. Tale impostazione trova, peraltro, conforto in una lettura dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269 nel quadro del dettato dell’art. 2, lett. l), Legge delega del 7 aprile 2003, n. 80, secondo cui la sanzione dovrebbe rivolgersi nei confronti del “soggetto che ha tratto effettivo beneficio dalla violazione”. Tale indicazione della Legge delega parrebbe confermare il rilievo del principio del beneficio quale criterio guida anche della fattispecie ex art. 7 D.L.n. 269/2003, con il risultato di indurre l’interprete a compiere un’indagine improntata ad un’analisi di tipo fattuale, tesa all’individuazione del soggetto che ha tratto beneficio economico dalla violazione (22). In forza di tale interpretazione si avrebbe come risultato ultimo di porre in risalto il ruolo di individui, formalmente terzi rispetto all’amministrazione ed alla compagine societaria, che, tuttavia, agiscono quali ‘padroni’ della società stessa. Di qui l’irrogazione della sanzione tributaria alla persona giuridica solamente quando quest’ultima sia l’effettivo beneficiario della violazione posta in essere dall’autore materiale (23). 5. Critiche de jure condito ad una valorizzazione del principio del beneficio con riguardo all’art. 7, D.L. 269/2003. – L’accoglimento del principio del beneficio quale criterio interpretativo sistematico ai fini dell’individuazione delle condizioni per l’addebito ex art. 7, D.L. n. 269/2003 nei confronti della società di capitali o della persona giuridica potrebbe condurre, qualora non dovesse venire limitato ai soli casi di patologico impiego dello strumento societario con finalità illecita, a risvolti di ampia portata, ingenerando un certo grado di incertezza circa la portata della disposizione de qua, come norma

(22) Cfr. A. Lanzi - P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 100, nota 32. (23) Cfr. S. Comin - D. Stevanato, La sanzionabilità tributaria dell’“amministratore di fatto”, cit., p. 430, dove si evidenzia come, seguendo questa linea interpretativa, si giungerebbe a ritenere che “l’art. 7 possa escludere l’imputabilità dell’autore materiale solo se si dimostra che questi non abbia tratto effettivo beneficio dalla violazione medesima”.


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realmente elidente la responsabilità amministrativa tributaria degli amministratori e dei legali rappresentanti di società di capitali e persone giuridiche. Da un lato, l’interpretazione tradizionale dell’art. 7 citato presenta il pregio, oggi particolarmente sentito, di evitare in radice potenziali profili di ne bis in idem, che, altrimenti, potrebbero insorgere qualora la sanzione tributaria venisse irrogata direttamente nei confronti dell’autore materiale e, ad essa, si accompagnasse anche una contestazione di matrice penal-tributaria (24). Da un altro lato, sempre tale interpretazione della norma citata si iscrive nell’alveo di quelle posizioni teoriche che, muovendo da una valorizzazione del sistema sanzionatorio tributario quale regime improntato a contrastare sotto il profilo economico il contribuente che ha tratto vantaggio dalla violazione tributaria, giungono a legittimare un modello sanzionatorio di tipo sostanzialmente oggettivo. Secondo tali linee interpretative, in altre parole, la norma in questione fonderebbe una ‘presunzione’ assoluta di riferibilità della sanzione tributaria al contribuente che dall’illecito stesso ha tratto vantaggio sul piano economico, svalutando, di converso, i principi di personalità e colpevolezza che rappresentano, invece, l’architrave dell’originario disegno di riforma del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (25). Tali perplessità appaiono ancor più fondate qualora si ponga mente al fatto che il principio del beneficio, per quanto richiamato nell’ambito della Legge Delega, non trova diretto riscontro nell’art. 7, D.L. n. 269/2003. Questa disposizione, infatti, non risulta in alcun modo vincolare la riferibilità della sanzione tributaria in capo alla società sulla base di requisiti quali la sussistenza, o meno, dell’elemento dell’interesse o vantaggio per la persona giuridica stessa (26).

(24) Si tratta di profili che esulano dal presente lavoro. Per un primo approfondimento e senza pretesa di completezza, si vedano A. Giovannini, Il ne bis in idem per la Corte EDU e il sistema sanzionatorio tributario domestico, in Rass. trib., 2014, 1164 ss.; M. D’Avirro - M. Giglioli, La compatibilità del sistema sanzionatorio tributario con il principio del ne bis in idem di matrice europea: un problema ignorato dal legislatore del 2015 e non ancora risolto. La sentenza della Corte EDU (Grande camera), 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, in A. D’Avirro, M. Giglioli, M. D’Avirro, Reati tributari e sistema normativo europeo. La riforma della frode fiscale e della dichiarazione infedele, Milano, 2017, 645 ss.; E.M. Ambrosetti, I reati tributari, cit., 463-465; G. Melis, Gli interessi tutelati, in Aa. Vv., Diritto sanzionatorio amministrativo, cit., 1315; F. Amatucci, Sanzioni amministrative secondo il diritto UE e il diritto internazionale, in Aa. Vv., Diritto sanzionatorio amministrativo, cit., 1376-1379. (25) In questi termini F. Gallo, L’impresa e la responsabilità per le sanzioni amministrative tributarie, cit., 30-31. (26) Cfr. A. Lanzi - P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 100, nota 32.


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In questo senso, quindi, l’innesto del criterio del beneficio quale ratio della norma de qua lascia adito a perplessità anche sotto l’aspetto dell’inaccettabilità di interpretazioni estensive o, comunque, non rispettose del dato testuale di fattispecie punitive. In tale sede, come noto, il principio guida dovrebbe essere quello di valorizzare quanto più possibile il dato letterale della fattispecie sanzionatoria, con l’obiettivo di limitare, in un’ottica improntata al pieno rispetto dei principi di legalità e di prevedibilità della sanzione punitiva, ogni forma di discrezionalità che si possa prestare a censure di arbitrarietà (27). Infatti, soffermandosi sull’elemento del vantaggio per la società quale requisito immanente per il riconoscimento dell’esclusiva riferibilità della sanzione nei confronti della persona giuridica e non in capo alla persona fisica che ha effettivamente posto in essere la condotta illecita, si porrebbe in essere una interpretazione sostanzialmente creativa della norma, tramite l’innesto nel testo normativo di un elemento – il beneficio o vantaggio in capo alla società – che non si evince dalla sua interpretazione letterale. D’altra parte, l’accoglimento di una nozione di interesse o vantaggio per l’ente quale elemento cardine per la riferibilità della sanzione in capo alla persona giuridica oppure all’autore materiale si presterebbe a margini di vaghezza ed indeterminatezza, con il rischio di porre nel nulla la ratio del precetto dell’art. 7. È intuibile, infatti, che, specie nell’ambito delle società di capitali a ristretta base, possa facilmente riscontrarsi una situazione in cui l’autore materiale della violazione, cioè il legale rappresentante e gli amministratori con deleghe operative, siano titolari di una partecipazione significativa nella società e, pertanto, l’eventuale risparmio d’imposta derivante dall’illecito possa condurre ad una maggiore patrimonializzazione della società oppure a una politica di distribuzione di dividendi più elevati. In tali casi, il vantaggio o interesse per l’autore materiale sarebbe in re ipsa e, di conseguenza, si potrebbe giungere ad una sostanziale elisione dell’istituto dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269 (28).

(27) Per una valorizzazione di tali principi si veda, ex multis, l’ordinanza del 26 gennaio 2017, n. 24 della Corte Costituzionale nel caso Taricco. (28) Cfr. S. Comin - D. Stevanato, La sanzionabilità tributaria dell’“amministratore di fatto”, cit., 431, dove si evidenzia come, così argomentando, “la disposizione in commento diventerebbe di fatto sempre inapplicabile, visto che – a ben vedere – un qualche vantaggio e beneficio (diretto o indiretto), per la persona fisica che ha agito in veste di amministratore, è


Dottrina

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Enfatizzando il rilievo dell’elemento del vantaggio ed interesse si potrebbe così postulare una radicale irrilevanza del principio dell’esclusiva riferibilità della sanzione tributaria in capo alla persona giuridica in tutte le ipotesi in cui l’ente collettivo non costituisca una vera e propria public company oppure non abbia introdotto presidi di governance atti a delineare una strutturale autonomia dell’organo gestorio rispetto alla compagine societaria. Peraltro, anche in tale ipotesi la riferibilità della sanzione alla sola società potrebbe essere messa in dubbio qualora si giungesse a ritenere che, in considerazione della tipologia e delle caratteristiche di eventuali strumenti finanziari con cui siano stati concessi dalla società diritti patrimoniali rafforzati a favore degli amministratori o dei dipendenti apicali, sussista un effettivo vantaggio o beneficio direttamente in capo a questi ultimi derivante dalla commissione della violazione tributaria. Ciò potrebbe, ad esempio, verificarsi nei casi in cui l’originario risparmio d’imposta si traduca in una migliore performance della società, permettendole di raggiungere obiettivi al cui ricorrere gli organi apicali si vedano riconoscere particolari benefici di natura economica previsti da strumenti finanziari a loro attribuiti. Un ulteriore profilo di complessità, nei casi prima visti, sarebbe dato dall’incertezza circa il margine di apprezzamento concesso all’Amministrazione finanziaria nell’individuare il soggetto effettivamente beneficiario della violazione. Come si è avuto modo di rilevare in dottrina, infatti, si potrebbe giungere a ritenere beneficiari dell’illecito – e, pertanto, soggetti attinti a sanzione tributaria – anche coloro che non ricoprono ruoli di tipo gestorio nell’ente che ha posto in essere la violazione, come potrebbe essere il caso dei soci che si intromettono nella conduzione di società di capitali a ristretta base. Ma problematiche simili potrebbero delinearsi anche nei gruppi societari qualora l’Agenzia delle Entrate accerti che gli amministratori di diritto di società del gruppo non hanno un effettivo ruolo decisorio e che gli impulsi di alta amministrazione, in realtà, promanano da individui che ricoprono ruoli apicali in società controllanti (29).

quasi sempre presente”. (29) A tale ultimo riguardo si veda S. Comin-D. Stevanato, La sanzionabilità tributaria dell’“amministratore di fatto”, cit., 428, dove si evidenzia come la giurisprudenza penale è giunta, in svariate occasioni, a qualificare come amministratori di fatto quei soggetti che avevano posto in essere contratti in nome e per conto della società o che detenevano documentazione riferibile alla società o ad altre società del gruppo.


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Parte prima

6. Il rilievo della condotta illecita del terzo: la valorizzazione dell’istituto del concorso dell’autore materiale con la società. – Le considerazioni da ultimo formulate inducono a sostenere che l’art. 7, D.L. n. 269/2003 debba essere interpretato, in quanto norma di carattere sanzionatorio, in modo da evitarne un’applicazione in malam partem, passibile di censure in punto di tassatività della fattispecie punitiva. Con questo non si intende sostenere che le ipotesi di utilizzo illecito dello ‘schermo societario’ possano, così, godere di uno status di impunibilità, qualora rientrino in astratto nel regime sanzionatorio dell’art. 7, D.L. n. 269/2003. Si ritiene, infatti, che l’attrazione a sanzione tributaria possa lo stesso verificarsi in queste ipotesi tramite la valorizzazione di altri istituti del sistema sanzionatorio, che potrebbero condurre validamente ad un addebito di responsabilità senza, però, ricorrere a un’interpretazione dell’art. 7, D.L. n. 269/2003 di matrice estensiva e non pienamente fondata su una interpretazione letterale della norma. A tale riguardo, un istituto di derivazione penalistica che potrebbe essere valorizzato è rappresentato dalla disciplina del concorso di persone, enucleato all’art. 9, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, con il quale si prevede che, qualora più persone concorrano a porre in essere una violazione, ciascuna di esse sia attinta alla sanzione per questa disposta (30). La legittimità del ricorso a tale istituto nell’ambito della casistica in esame è confermata dall’Amministrazione finanziaria, che ha evidenziato in documenti di prassi come il perimetro sanzionatorio individuato dall’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269 non escluda che la sanzione tributaria possa essere irrogata, a titolo di concorso, nei confronti di persone fisiche che non ricoprono il ruolo di amministratori, dipendenti o rappresentanti della persona giuridica e che, quindi, risultano estranei all’ente stesso (31).

(30) Cfr., C. Ricci, Il concorso di persone, in Aa. Vv., Diritto sanzionatorio amministrativo, a cura di A. Giovannini, A. Di Martino, E. Marzaduri, Milano, 2016, 1515 ss. (31) Si veda, a tale riguardo, la Circolare n. 28 del 21 giugno 2004, § 4, dove si afferma come il campo di applicazione dell’art. 7, D.L. 269/2003 “riguarda, dunque, solo gli amministratori, i dipendenti ed i rappresentanti di società, associazioni od enti con personalità giuridica. Ne consegue che per i soggetti diversi da quelli appena richiamati, la responsabilità continua ad essere riferita alla persona che ha commesso la violazione, ferma restando la responsabilità solidale del soggetto nel cui interesse è stata commessa - se diverso dall’autore della violazione stessa – ai sensi dell’articolo 11 del d.lgs. n. 472 del 1997”.


Dottrina

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Tale interpretazione è stata avversata dalla dottrina, sul rilievo che l’addebito a titolo di concorso risulterebbe difficoltoso per il fatto che sarebbe comunque necessario individuare un effettivo interesse in capo al terzo, tale da averlo spinto a concorrere con la società nel porre in essere la condotta vietata (32). Tali argomentazioni, per quanto pregevoli, potrebbero essere oggetto di revisione critica qualora si ponesse mente alle considerazioni formulate nel paragrafo precedente ove si era fatto riferimento ad una ampia serie di ipotesi in cui può sussistere un effettivo interesse o vantaggio in capo ad uno o più individui formalmente estranei alla società (33): ipotesi, queste ultime, il cui accertamento non pare impossibile attesa la vastità ed invasività dei poteri a disposizione dell’Amministrazione finanziaria. D’altronde, volendo seguire un approccio più attento alla natura punitiva ed afflittiva della sanzione tributaria in chiave eurounitaria e convenzionalmente orientata, pare auspicabile che l’Amministrazione finanziaria abbandoni la prassi di applicare la sanzione in via ‘automatica’, senza adeguatamente soffermarsi a giustificarne le ragioni alla luce di un’analisi puntuale e specifica della fattispecie scrutinata anche in ordine alla sussistenza dei presupposti di matrice soggettiva. Accertamento che verrebbe reso imprescindibile qualora l’irrogazione della sanzione tributaria venisse, anche con riguardo alle contestazioni condotte nei confronti delle persone giuridiche, preceduta da un effettivo accertamento in ordine all’individuazione del soggetto beneficiato dall’illecito. Sembra in definitiva possibile sostenere che l’istituto del concorso ai sensi dell’art. 9, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 possa costituire un valido presidio per contrastare e sottoporre a sanzione tributaria quegli individui che operano celando le proprie attività illecite dietro ‘lo schermo giuridico’ dell’ente collettivo personificato. D’altronde, tale conclusione sarebbe auspicabile anche in via sistematica, atteso che avrebbe il pregio di colpire l’autore materiale dell’illecito senza per questo giungere ad elidere il principio giuridico che sta a fondamento dell’art. 7, D.L. n. 269/2003, che vede nella persona giuridica un vero e proprio soggetto di diritto, capace di costituire un centro di imputa-

(32) Sempre in questi termini, S. Comin-D. Stevanato, La sanzionabilità tributaria dell’“amministratore di fatto”, cit., 431. (33) D’altra parte, la sussistenza del vantaggio o interesse in capo all’autore materiale può essere riscontrata anche in tutti quei casi in cui il terzo abbia posto in essere la condotta vietata a fronte della corresponsione di utilità e remunerazioni economicamente valutabili.


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zione di obbligazioni giuridiche e, pertanto, anche assoggettabile in via autonoma a sanzione tributaria. 7. Opportunità di riforma nel quadro della Direttiva n. 2017/1371 del 5 luglio 2017: verso una responsabilità della persona giuridica ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231? – Le considerazioni formulate nei paragrafi precedenti hanno permesso di evidenziare la sussistenza di alcune debolezze di fondo nell’impalcatura del sistema sanzionatorio – peraltro già sottolineate in dottrina – insieme con l’auspicio di un intervento di riforma che fornisca un assetto unitario al complessivo regime sanzionatorio (34). Tali aspettative tuttavia, non sono state accolte dal legislatore, neanche nel contesto dell’ultimo intervento di riforma che ha interessato più parti della disciplina sanzionatoria tributaria ad opera del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158: anche in tale sede il legislatore non ha, infatti, preso in esame in maniera esplicita la questione concernente il coordinamento dell’art. 7, D.L. n. 269/2003 con le disposizioni del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (35). In realtà, a ben vedere, le modifiche apportate dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 all’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 pongono una questione di un certo rilievo, che attiene alla perdurante vigenza dell’art. 7, D.L. n. 269/2003. La questione inerisce, in sostanza, alla locuzione dell’art. 11, comma 1, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 - mantenuta immutata anche a seguito dell’introduzione dell’art. 7 citato – secondo cui il regime della responsabilità solidale tra autore materiale e contribuente si applica anche alla “società, associazione od ente, con o senza personalità giuridica”. Se tale riferimento agli enti con personalità giuridica poteva ritenersi implicitamente abrogato a partire dall’entrata in vigore della fattispecie sanzionatoria del D.L. 269/2003 – il cui regime ha disciplinato in maniera esclusiva la responsabilità sanzionatoria in capo alle persone giuridiche – con la successiva interpolazione in più punti dell’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 nel 2015 ci si sarebbe dovuti aspettare la definitiva espunzione del riferimento

(34) Cfr. F. Gallo, L’impresa e la responsabilità per le sanzioni amministrative tributarie, cit.; L. Murciano, La ‘nuova’ responsabilità tributaria delle società e degli enti dotati di personalità giuridica: l’art. 7 del DL n. 269/2003, cit. Si veda altresì A. Giovannini, Persona giuridica e sanzione tributaria: idee per una riforma, in Rass. trib., 2013, 509 ss. (35) Per una panoramica di tale riforma si veda, ex multis, D. Coppa, Questioni attuali in tema di sanzioni amministrative, in Rass. trib., 2016, 1023 ss.


Dottrina

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alla società, associazione od ente, con personalità giuridica dall’alveo dell’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. Ciò non essendo avvenuto, potrebbe, quindi, ora sostenersi che il legislatore abbia inteso abrogare implicitamente la fattispecie dell’art. 7, D.L. n. 269/2003. Si tratta, come evidente, di una tesi ardita che, a quanto consta, non risulta essere stata valorizzata dalla prassi e dalla dottrina a valle dell’entrata in vigore del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 e che, per le sue implicazioni sistematiche, difficilmente potrebbe essere accolta in sede giurisdizionale o in documenti di prassi dell’Amministrazione finanziaria. Rimane, tuttavia, il fatto che la relazione tra il predetto art. 7, D.L. n. 269/2003 e l’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, già tradizionalmente oggetto di perplessità e considerata censurabile in quanto fonte di discriminazione tra tipologie diverse di enti collettivi sulla base della sola forma giuridica prescelta, continua a destare interrogativi di non poco momento. In tale contesto di incertezza va, quindi, salutata con favore l’introduzione della Direttiva n. 2017/1371 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 luglio 2017 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (la ‘Direttiva’) (36). Tale Direttiva, la cui analisi esula dalle finalità del presente lavoro, ha l’obiettivo di definire il perimetro degli obblighi di criminalizzazione cui sono tenuti gli Stati membri dell’Unione Europea allo scopo di assicurare la sanzionabilità, tramite misure effettive e dissuasive, delle frodi gravi in danno degli interessi economici dell’Unione Europea. In sostanza, la Direttiva intende raggiungere un livello ‘minimo’ di armonizzazione (37) con riferimento ad un ampio spettro di ipotesi riconducibili, in sostanza, alle frodi ed alle altre attività illegali che ledono gli interessi fi-

(36) Per un primo commento si vedano E. Basile, Brevi note sulla nuova direttiva PIF. Luci e ombre del processo di integrazione UE in materia penale, in Diritto penale contemporaneo, 12, 2017, 63 ss. Si permetta altresì di rinviare a S.M. Ronco, Frodi ‘gravi’ IVA e tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea: quali ricadute nell’ordinamento interno alla luce della Direttiva 2017/1371 del 5 luglio 2017?”, in Archivio Penale, n. 3, 2017, 1 ss. (37) Il recepimento della Direttiva è previsto da parte degli Stati membri entro il 6 luglio 2019.


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nanziari dell’Unione, impregiudicata la possibilità di mantenere in vigore o introdurre discipline domestiche più rigorose (38). Ebbene, merita sottolineare come tale testo normativo introduca un obbligo di criminalizzazione esteso alle persone giuridiche con riguardo a tutte le ipotesi di reato che rientrano nel campo di applicazione della Direttiva, tra cui viene esplicitamente ricompresa anche l’ipotesi della frode ‘grave’ IVA (39). Ne discende che l’Italia è tenuta, entro il termine per il recepimento della Direttiva, a prevedere una specifica ipotesi di sanzione di tipo penale applicabile nei confronti della persona giuridica. Ciò a condizione che si verta nel quadro di un’ipotesi di reato di frode ‘grave’ dell’IVA, commessa a vantaggio

(38) Cfr. il considerando n. 16 della Direttiva, secondo cui “poiché la presente direttiva detta soltanto norme minime, gli Stati membri hanno facoltà di mantenere in vigore o adottare norme più rigorose per reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione” e come anche indicato all’art. 1 della Direttiva, che prevede che “la presente direttiva stabilisce norme minime riguardo alla definizione di reati e di sanzioni in materia di lotta contro la frode e altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, al fine di rafforzare la protezione contro reati che ledono tali interessi finanziari, in conformità dell’acquis dell’Unione in questo settore”. Va, peraltro, sottolineato che la Direttiva prevede una definizione molto lata di “interesse finanziario dell’Unione”, riconducendolo, all’art. 2, a tutte le “entrate, le spese e i beni” che sono “coperti o acquisiti oppure dovuti” in base al bilancio dell’Unione stessa oppure al bilancio di propri istituzioni, organi ed organismi. Ai successivi artt. 3 e 4 è introdotto un elenco di fattispecie di reato che danno luogo ad una lesione degli interessi finanziari dell’Unione, che devono essere oggetto di criminalizzazione da parte degli Stati membri. (39) Si tratta di una definizione particolarmente importante, disciplinata sia all’art. 3, co. 2, lett. d) - che dispone che requisiti indispensabili per l’integrazione della frode IVA ‘grave’ siano la fraudolenza e la transnazionalità della condotta, che all’art. 2, co. 2, che prevede una soglia quantitativa al ricorrere della quale può presumersi che la frode IVA assuma i connotati della ‘gravità’: tale parametro quantitativo viene, nello specifico, individuato in Euro 10.000.000,00. L’art. 3, comma 2, lett. d) della Direttiva prevede che “in materia di entrate derivanti dalle risorse proprie provenienti dall’IVA, l’azione od omissione commessa in sistemi fraudolenti transfrontalieri in relazione: i) all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti relativi all’IVA, cui consegua la diminuzione di risorse del bilancio dell’Unione; ii) alla mancata comunicazione di un’informazione relativa all’IVA in violazione di un obbligo specifico, cui consegua lo stesso effetto; ovvero iii) alla presentazione di dichiarazioni esatte relative all’IVA per dissimulare in maniera fraudolenta il mancato pagamento o la costituzione illecita di diritti a rimborsi dell’IVA”. L’art. 2, comma 2 della Direttiva prevede che “in materia di entrate derivanti dalle risorse proprie provenienti dall’IVA, la presente direttiva si applica unicamente ai casi di reati gravi contro il sistema comune dell’IVA. Ai fini della presente direttiva, i reati contro il sistema comune dell’IVA sono considerati gravi qualora le azioni od omissioni di carattere intenzionale secondo la definizione di cui all’articolo 3, paragrafo 2, lettera d), siano connesse al territorio di due o più Stati membri dell’Unione e comportino un danno complessivo pari ad almeno 10 000 000 EUR”.


Dottrina

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dell’ente “da qualsiasi soggetto, a titolo individuale o in quanto membro di un organo della persona giuridica, e che detenga una posizione preminente in seno alla persona giuridica basata: a) sul potere di rappresentanza della persona giuridica; b) sul potere di adottare decisioni per conto della persona giuridica; oppure c) sull’autorità di esercitare un controllo in seno alla persona giuridica” (40). La Direttiva prevede tra l’altro, all’art. 9, un elenco di misure sanzionatorie nei confronti della persona giuridica, di tipo sia pecuniario penale che non penale e che possono riguardare anche “l’esclusione dal godimento di un beneficio o di un aiuto pubblico; b) l’esclusione temporanea o permanente dalle procedure di gara pubblica; c) l’interdizione temporanea o permanente di esercitare un’attività commerciale; d) l’assoggettamento a sorveglianza giudiziaria; e) provvedimenti giudiziari di scioglimento; f) la chiusura temporanea o permanente degli stabilimenti che sono stati usati per commettere il reato”. È, allora, evidente come, al momento del recepimento di tale previsione, il legislatore domestico si troverà ‘costretto’ a porre in essere un intervento di innesto importante sull’impianto normativo del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 tramite l’inserimento di tale fattispecie di reato tributario – la frode ‘grave’ IVA – nel catalogo dei reati presupposto. Opportunità, quest’ultima, che dovrebbe così rendere nuovamente attuale il dibattito (41) in ordine all’opportunità di prevedere un autonomo regime sanzionatorio ex D.Lgs. n. 231/2001 nei confronti degli enti anche per violazioni attinenti alla materia tributaria. Non pare, al riguardo, che la soluzione preferibile sia quella di limitarsi ad ‘aggiungere’ il nuovo regime ex D.Lgs. 231/2001 in via ulteriore e parallela al già esistente meccanismo sanzionatorio risultante dal combinato disposto dell’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269. A ciò osterebbe l’esigenza di coordinare il plesso di sanzioni amministrative nei confronti dell’ente ex D.Lgs. n. 231/2001 nel quadro di un doveroso rispetto del divieto di bis in idem e del principio di proporzionali-

(40) Art. 6 della Direttiva. (41) Si vedano, per un primo approfondimento, R. Alagna, I reati tributari ed il regime della responsabilità da reato degli enti, in Riv. trim. dir. pen. econom., 2012, 397 ss.; F. D’Arcangelo, La responsabilità degli enti per i delitti tributari dopo le SS.UU. 1235/2010, in Rivista 231, 2011, 125 ss.; O. Mazza, Il caso Unicredit al vaglio della cassazione: il patrimonio dell’ente non è confiscabile per equivalente in caso di reati tributari commessi dagli amministratori a vantaggio della società, in Diritto penale contemporaneo, 25 gennaio 2013.


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tà (42), atteso che, nella sistematica oggi accolta, già le sanzioni tributarie assumono natura ‘punitiva’ ed il regime sanzionatorio introdotto dalla Direttiva prevede un insieme ampio di misure afflittive e risarcitorie sostanzialmente omnicomprensivo. Se, perciò, un intervento di riforma si renderà improcrastinabile nel contesto della Direttiva, questa potrebbe essere l’occasione per dare una definitiva sistemazione al modello sanzionatorio tributario, superando la dicotomia oggi esistente tra sanzioni tributarie applicate nei confronti degli enti con o senza personalità giuridica ed adottando un uniforme modello sanzionatorio di applicazione generale, atto ad attrarre a sanzione, in egual misura, sia le violazioni commesse a favore degli enti collettivi personificati che degli enti non personificati. Modello sanzionatorio, quello di matrice para-penalistica ex D.Lgs. n. 231/2001, che ha dimostrato in questi anni di rispondere efficacemente alle esigenze di carattere punitivo nei confronti degli enti collettivi, senza per questo palesare criticità significative per quanto concerne il rispetto delle garanzie fondamentali proprie di un regime di matrice afflittiva.

Stefano Maria Ronco

(42) Si veda, in proposito il considerando n. 17 della Direttiva che afferma che “la presente direttiva non preclude l’adeguata ed efficace applicazione di misure disciplinari o di sanzioni diverse da quelle di natura penale. Le sanzioni non assimilabili a sanzioni penali, che sono irrogate nei confronti della stessa persona per la stessa condotta possono essere tenute in considerazione in sede di condanna della persona in questione per un reato definito nella presente direttiva. Per gli altri tipi di sanzione dovrebbe essere pienamente rispettato il principio del divieto di essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato (ne bis in idem)”.


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Cass., Sez. V civ. 4 maggio 2018 - 30 maggio 2018, n. 13626; Pres. Di Iasi - Est. Castorina Trust – Liquidatorio – Imposta sulle successioni e donazioni – Applicabilità – Sussiste – Trasferimento al trustee – Beneficiario finale – Sussiste Il trasferimento a favore del trustee, nell’ambito di un trust istituito per la liquidazione di quote societarie di proprietà del disponente al fine della soddisfazione di suoi creditori, è soggetto all’imposta sulle donazioni con aliquota proporzionale pari all’8%, in considerazione della volontà dei contraenti di determinare il reale trasferimento delle quote e dei relativi diritti al trustee, sia pure ai fini della liquidazione e quindi il reale arricchimento del beneficiario. (1)

(Omissis) Svolgimento del processo. - Con avviso di liquidazione notificato in data 26.5.2009 a M.D. l’Agenzia delle Entrate richiedeva al notaio rogante il pagamento dell’imposta di successione e donazione nella misura dell’8% (in luogo dell’imposta di registro in misura fissa assolta in sede di autoliquidazione) in relazione all’atto istitutivo di trust, ricevuto dallo stesso notaio in data 11.5.2009 e registrato il 12 maggio seguente. Con tale atto la società Green Tuscany s.p.a. in qualità di disponente, costituiva in trust alcune sue quote di partecipazione in società a responsabilità limitata, con lo scopo di alienare tali quote e proporzionalmente provvedere al pagamento dell’esposizione debitoria della disponente medesima. La tassazione operata in autoliquidazione è stata ritenuta scorretta da parte dell’Ufficio, che ha notificato l’avviso giusta il disposto del D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47 e art. 49, lett. c) che sottopone all’imposta di donazione la costituzione di vincoli di destinazione, con applicazione dell’aliquota dell’8%, trattandosi di beni devoluti a soggetti diversi da quelli previsti nelle lettere a), a bis) e b). Impugnato l’avviso la CTP di Firenze, con sentenza n. 126/4/09 respingeva il ricorso. Avverso detta sentenza proponeva appello il Notaio M. e la CTR della Toscana, con sentenza n.94/25/10 lo rigettava sul presupposto che nella specie si vertesse in ipotesi di imposta principale e non complementare, che nell’atto fosse stato indicato un valore netto delle quote trasferite al trustee che legittimava il riferimento di


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tale valore ai fini dell’applicazione dell’imposta di donazione e che con lo strumento adottato fosse stato creato un “vincolo di destinazione” come tale attratto nell’ambito dell’imposta di successione e donazione. Il notaio M.D. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi. Resiste l’Agenzia delle Entrate con controricorso. Motivi della decisione. - 1. Col primo motivo il contribuente denunzia violazione del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 42, 52, 53 e 57 in materia di imposta di registro, nonché del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 463, art. 3-ter per avere ritenuto la CTR che la maggiore imposta richiesta fosse imposta principale e non complementare. 1.a. La censura non è fondata. Questa Corte ha di recente statuito in ordine alla procedura telematica per gli adempimenti in materia di registrazione degli atti relativi a diritti sugli immobili (modificazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 463, da parte del D.Lgs. 18 gennaio 2000, n. 9) (Cass.10215/2016) che la disciplina sopravvenuta “assegna” ai soggetti, obbligati a richiedere la registrazione, di cui all’art. 10, lett. b), del t. u. dell’imposta di registro del 1986 – soggetti fra i quali sono compresi i notai per gli atti redatti – una particolare posizione nella fase di autoliquidazione delle imposte, connessa all’impiego del modello unico informatico recante la richiesta di registrazione; la trasmissione del quale, unitamente a tutta la documentazione necessaria, va eseguita previo pagamento dei tributi dovuti in base ad autoliquidazione. Per un verso viene prevista, nel caso di dolo o colpa grave nell’autoliquidazione delle imposte, la segnalazione, da parte degli uffici finanziari, delle irregolarità agli organi di controllo competenti per l’adozione dei conseguenti provvedimenti disciplinari; per altro verso, “per i notai è ammessa la compensazione di tutte le somme versate in eccesso in sede di autoliquidazione con le imposte dovute per atti di data posteriore, con conseguente esclusione della possibilità di richiedere il rimborso all’Amministrazione finanziaria” (D.Lgs. n. 9 del 2000, artt. 3-bis e 3-ter). All’esito del controllo della regolarità dell’autoliquidazione e del versamento delle imposte, e qualora, sulla base degli elementi desumibili dall’atto, risulti dovuta una maggiore imposta, gli uffici notificano, anche per via telematica, entro trenta giorni dalla presentazione del modello unico informatico, “apposito avviso di liquidazione per l’integrazione dell’imposta versata”. Il pagamento è effettuato, da parte dei soggetti di cui all’art. 10, lett. b) del t. u. dell’imposta di registro del 1986 “entro quindici giorni dalla data della suindicata notifica; trascorso tale termine sono dovuti gli interessi moratori computati dalla scadenza dell’ultimo giorno utile per la richiesta della registrazione e si applica la sanzione di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13 (art. 3-ter cit.)”. Dalla ricostruzione normativa, pertanto, non si evince che il controllo dell’amministrazione finanziaria sulla regolarità dell’autoliquidazione notarile effettuata mediante inoltro del modello unico informatica sia di ordine esclusivamente formale; né si qualifica la maggiore imposta di registro liquidata come “principale” ovvero “complementare”. La disciplina in esame si riferisce al controllo, da ritenersi di natura sia formale sia sostanziale, della “regolarità dell’autoliquidazione e del versamento delle imposte”;


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con conseguente obbligo dell’ufficio di procedere, nel termine indicato, alla notificazione al notaio di apposito avviso di liquidazione per il recupero della “maggiore imposta” dovuta e, dunque, a titolo di “integrazione” di imposta. L’unico presupposto della richiesta telematica di versamento della maggiore imposta – avente natura sostanzialmente accertativo-impositiva – è dalla legge individuato nella circostanza che tale imposta integrativa sia evincibile “sulla base degli elementi desumibili dall’atto”. Il discrimine del potere di liquidazione integrativa non discende dunque dalla natura della maggiore imposta dovuta (principale o complementare), bensì dall’emersione dei suoi presupposti dallo stesso atto presentato telematicamente per la registrazione. Nel caso di specie, la commissione di merito ha positivamente appurato questo requisito, là dove ha ritenuto legittima la maggiore imposizione da parte dell’ufficio sulla base di una determinata interpretazione del contratto; condotta esclusivamente sugli elementi da quest’ultimo desumibili e, segnatamente, dalla tipologia e destinazione economica unitaria dei beni trasferiti. La CTR ha osservato in proposito come l’atto rechi un valore netto delle quote trasferite al Trustee pari a Euro 297.378,64 e quindi richiamando il D.L. n. 262 del 2006, art. 49 convertito in legge 286/2006 andrà necessariamente applicato, ai fini del calcolo dell’imposta, il dichiarato “valore globale” dei beni che si è andato costituendo con vincolo di destinazione. 2. Con il secondo motivo la contribuente deduce l’illegittimità dell’avviso di liquidazione per violazione del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, art. 2, comma 47, convertito in L. 24 novembre 2006, n. 289, del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, artt. 1 e 5, del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20. Lamenta la ricorrente che la CTR abbia erroneamente ritenuto che il trust sia un istituto necessariamente ricompreso tra i vincoli di destinazione, con conseguente applicazione dell’imposta di donazione indipendentemente dall’analisi della sua natura e dei suoi effetti giuridici. 2.a. La censura non è fondata. Con disposizione innovativa, il D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47, come convertito, prescrive che “è istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001, fatto salvo quanto previsto dai commi da 48 a 54”. Nel caso a mano i contraenti vollero un trust finalizzato alla liquidazione di beni nell’interesse dei creditori. L’Agenzia delle Entrate riferisce riproducendo l’art. 38 dell’atto istitutivo che le parti statuirono: il presente trust non rientra nell’ambito applicativo del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 non trattandosi di liberalità; il trasferimento delle quote al trustee è soggetto pertanto alla applicazione dell’imposta di registro in misura fissa, ai sensi dell’art. 11 della Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986; tenuto conto degli obblighi gravanti sul Trustee, che ha l’incarico di alienare le quote al solo fine di pagare i debiti del disponente, l’ammontare della base imponibile è pari a zero. Al solo fine dell’annotazione del presente atto nel repertorio del sottoscritto Notaio, le


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parti dichiarano che il valore netto delle quote trasferite al Trustee è di complessivi Euro 297.378,64. 2.b. Il trust, secondo lo schema tipico emergente dall’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, resa esecutiva in Italia con L. 16 ottobre 1989, n. 364, concretizza un’entità patrimoniale costituita da un insieme di rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente, in rapporto a beni posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato. Nella vigenza della disciplina fiscale anteriore era discusso quale fosse il regime impositivo dell’atto e se l’imposizione dovesse realizzarsi fin dall’inizio ovvero solo al momento delle attribuzioni patrimoniali dal trust fund al beneficiario. Questa Corte ha più volte affermato che l’atto istitutivo di un trust non può essere annoverato nell’alveo degli atti a contenuto patrimoniale per il sol fatto che il consenso prestato riguarda un vincolo su beni muniti di valore economico. Una tale affermazione contrasta sia con le caratteristiche tipiche del trust come istituto giuridico, sia e soprattutto con le caratteristiche del sistema impositivo di registro, in cui l’elemento essenziale cui connettere la nozione di prestazione “a contenuto patrimoniale”, ex art. 9 della tariffa, è l’onerosità. L’art. 9 della tariffa, parte 1, rappresenta una clausola di chiusura finalizzata a disciplinare tutte le fattispecie fiscalmente rilevanti diverse da quelle indicate nelle restanti disposizioni, purché però si tratti di fattispecie onerose, e in questo specifico senso aventi un contenuto patrimoniale. La norma non può essere intesa in modo dissociato dal contesto del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 43, comma 1, che fissa, anche ai fini specifici, la base imponibile dell’imposta. Rileva in particolare la disposizione contigua di cui alla lett. h) di tale ultima previsione, che, quanto appunto alle “prestazioni a contenuto patrimoniale”, indica come base imponibile l’ammontare “dei corrispettivi in denaro pattuiti per l’intera durata del contratto”. Il che rappresenta dimostrazione del fatto che, ai sensi dell’art. 9 della tariffa, la prestazione “a contenuto patrimoniale” è la prestazione onerosa (Cass. N.975/2018; Cass. n. 25478/2015). 2.c. Questa Corte ha manifestato nel tempo diversi orientamenti interpretativi sull’imposta di registro da applicare ad un trust con vincolo di destinazione. In particolare con l’ordinanza n. 3737/2015 la Corte ha affrontato un caso relativo alla costituzione e alla dotazione patrimoniale di un trust di garanzia osservando che “L’imposta sulla costituzione di vincolo di destinazione è un’imposta nuova, accomunata solo per assonanza alla gratuità delle attribuzioni liberali, altrimenti gratuite e successorie; essa riceve disciplina mediante un rinvio, di natura recettizio-materiale, alle disposizioni del D.Lgs. n. 346 del 1990, ma conserva connotati peculiari e disomogenei rispetto a quelli dell’imposta classica sulle successioni e sulle donazioni. Ciò in quanto nell’imposta in esame, a differenza che in quella tradizionale, il presupposto impositivo è correlato alla predisposizione del programma di funzionalizzazione del diritto al perseguimento degli obiettivi voluti; là dove l’oggetto consiste nel valore dell’utilità della quale il disponente, stabilendo che sia sottratta all’ordinario esercizio delle proprie facoltà proprietarie, finisce con l’impoverirsi. Se questa imposta abbisognasse del


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trasferimento e, quindi, dell’arricchimento, essa sarebbe del tutto superflua, risultando sufficiente quella classica sulle successioni e sulle donazioni, nelle quali il presupposto d’imposta è, giustappunto, il trasferimento, quantunque condizionato o a termine, dell’utilità economica ad un beneficiario con riguardo all’imposta in esame, non rileva affatto la mancanza di arricchimento, giacché il contenuto patrimoniale referente di capacità contributiva è ragguagliato all’utilità economica, della quale il costituente, destinando, dispone. Ciò posto, il legislatore, evocando soltanto l’effetto, ha inequivocabilmente attratto nell’area applicativa della norma tutti i regolamenti capaci di produrlo. Tra questi, vanno annoverati anche gli atti di destinazione contemplati dall’art. 2645-ter c.c. In relazione all’aliquota applicabile, la misura dell’8% prevista dalla lettera c) del comma 49 della medesima norma, è imposta dalla sua natura residuale, non rientrando la figura del conferente, che seguita ad essere proprietario dei beni, in alcuna delle altre categorie previste dalla norma, che godono di aliquota inferiore” (nello stesso senso Cass. sez. n. 4482 del 2016; Cass. sez. 6 n. 5322 del 2015; Cass. sez. 6 n. 3886 del 2015; Cass. sez. 6 n. 3737 del 2015; Cass. sez. 6 n. 3735 del 2015). Più recentemente questa Corte ha ritenuto di non condividere l’interpretazione letterale dell’art. 2, commi 47 e ss., D.L. n. 262 cit. adottata dalle rammentate ordinanze di questa Corte sez. 6 al cui avviso sarebbe stata istituita un’autonoma imposta “sulla costituzione dei vincoli di destinazione” disciplinata mercé il rinvio alle regole contenute nel D.Lgs. n. 346 cit. e avente come presupposto la loro mera costituzione. La Corte in proposito ha osservato che l’unica imposta espressamente istituita è stata la reintrodotta imposta sulle successioni e sulle donazioni alla quale per ulteriore espressa disposizione debbono andare anche assoggettati i “vincoli di destinazione”, con la conseguenza che il presupposto dell’imposta rimane quello stabilito dall’art. 1 D.Lgs. n. 346 cit. del reale trasferimento di beni o diritti e quindi del reale arricchimento dei beneficiari......Quella che emerge dal D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47 e ss., è la preoccupazione del legislatore (nei termini di intenzione del legislatore di cui all’art. 12 preleggi, comma 1) di evitare che un’interpretazione restrittiva della istituita nuova legge sulle successioni e donazioni disciplinata mediante richiamo al già abrogato D.Lgs. n. 346 cit. potesse dar luogo a nessuna imposizione anche in caso di reale trasferimento di beni e diritti ai beneficiari quando lo stesso fosse stato collocato all’interno di una fattispecie di “recente” introduzione come quella dei “vincoli di destinazione” e quindi non presa in diretta considerazione dal ridetto “vecchio” D.Lgs. n. 346 cit. (Cass. 21614/2016). 2.c. Il Collegio ritiene di condividere il secondo orientamento sopra riferito. La lettura del dato normativo fiscale, il quale deve tenere in debito conto il sistema fiscale complessivo e le ragioni di ordine costituzionale, legate alla capacità contributiva ex art. 53 Cost. fanno ritenere legittima l’applicazione dell’imposta prevista dal TU n. 346/90 qualora, come nella specie, il trasferimento a favore dell’attuatore faccia emergere la potenziale capacità economica del destinatario (immediato) del trasferimento. Coerentemente con la natura e l’oggetto del tributo, sono rilevanti i vincoli di destinazione in grado di determinare effetti traslativi in vicende non one-


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rose, collegati al trasferimento di beni e diritti, che realizzano un incremento stabile, misurabile in moneta, di un dato patrimonio con correlato decremento di un altro. Il vincolo di destinazione, in tal caso è idoneo a produrre un effetto traslativo funzionale al (successivo ed eventuale) trasferimento della proprietà dei medesimi beni vincolati a favore di soggetti beneficiari diversi dal soggetto disponente senza alcun effetto di segregazione del bene. In tal modo, il vincolo di destinazione assume un rilievo autonomo, rispetto alle altre fattispecie assoggettate al tributo, che hanno solo portata destinatoria con conseguente effetto di segregazione o separazione del bene, il quale rimane però nel patrimonio del disponente (in tal senso si è espressa Cass. 21614/2016 con riferimento all’istituzione di un trust cosiddetto “autodichiarato”). Nella specie i contraenti vollero il reale trasferimento delle quote e dei relativi diritti al trustee, sia pure ai fini della liquidazione e quindi il reale arricchimento del beneficiario. È quindi corretta l’applicazione dell’imposta nella misura dell’8% prevista dalla lett. c) del comma 49 del D.L. n. 262 del 2006 che sottopone all’imposta di donazione la costituzione di vincoli di destinazione con beni devoluti a soggetti diversi da quelli previsti nelle lettere a), a bis) e b). 3. Il ricorso deve essere, pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 3000,00 oltre alle spese prenotate a debito. (Omissis)

(1) Il tentativo di mediazione della Cassazione sul rapporto tra trust e reistituita imposta sulle successioni e donazioni. L’analisi di una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione in materia di assoggettabilità ad imposta sulle successioni e donazioni della istituzione e dotazione di un trust di tipo liquidatorio offre l’occasione per una disamina della posizione su cui il Giudice di legittimità va assestandosi a tale riguardo. La sentenza in commento, quale ultimo approdo, nega l’esistenza di un nuovo tributo dovuto per la semplice costituzione di vincoli di destinazione, confermando che l’unica imposta reistituita dal D.L. n. 262/2006, art. 2, commi 47 e ss. è quella sulle successioni e donazioni, alla quale ritiene soggetta, con aliquota proporzionale massima, la trasmissione di beni ad un trustee, compiuta al fine della loro liquidazione per il pagamento di creditori del disponente, con ciò configurando la mera trasmissione di beni alla stregua di un atto idoneo ad arricchire direttamente il fiduciario. Tale orientamento viene quindi contestualizzato entro i precedenti giurisprudenziali, evidenziando le incongruenze rispetto ai principi cui la sentenza stessa dichiara di aderire, ed offrendo spunti interpretativi per l’adeguata considerazione della grande varietà di scopi che tramite il trust possono essere perseguiti. The analysis of a recent ruling by the Suprema Corte di Cassazione about the applicability of successions and donations tax to a liquidations purpose trust’s institution and endowment act, offers the opportunity for a discussion on the position of the legitimacy


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Judge about this topic. The decision, as a last standing, denies the existence of a new tax, due for the simple settlement of a destination restriction, confirming that the only tax re-estabilished by D.L. n. 262/2006, art. 2, paragraphs. 47 and following, is the one on successions and donations, to which is considered subject, with the maximum proportional rate, the transmission of assets to a trustee for the purpose of their liquidation to pay settlor’s creditors, thereby configuring the mere transmission of goods as an act capable of directly enriching the trustee himself. This orientation is then contextualized within previous jurisprudential cases, highlighting the inconsistencies with the principles to which the ruling states to adhere, and offering insights for the adequate consideration of the great variety of purposed that can be pursued through the trust.

1. In una recente sentenza, la sezione tributaria della Corte di Cassazione (1) è tornata a pronunciarsi sul trattamento del trust nell’ambito delle imposte sui trasferimenti, manifestando un tentativo di mediare tra gli opposti orientamenti formatisi, sul tema, in seno alla medesima Suprema Corte. La vicenda, purtroppo, anche in considerazione degli esiti cui la decisione in commento è pervenuta, sembra lontana dal trovare definitiva soluzione. La sezione tributaria ha infatti nuovamente ribadito, dando seguito al più recente indirizzo emerso (2), l’inesistenza, a seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 262/2006, di una “nuova imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione”, e tuttavia ha considerato applicabile al caso di un trust di tipo c.d. “liquidatorio-solutorio” l’imposta sulle donazioni con aliquota dell’8%, ritenendo, in via che risulta inedita in ambito di legittimità, che la formale intestazione al trustee dei beni destinati al trust configurerebbe proprio il medesimo fiduciario come destinatario di un reale trasferimento, e che dal suo subentro nella titolarità formale di tali beni emergerebbe dunque una potenzialità economica, idonea a giustificare l’applicazione dell’imposta in discorso (3).

(1) Cass., Sez. trib., sentenza 30.05.2018, n. 13626, sulla quale, già, A. Busani, Ulteriore “giravolta” in Cassazione sulla tassazione dell’apporto al trust, in Corr. trib., 2018, 1951 e S. Cannizzaro, Sulla tassazione del trust un passo avanti e uno indietro, in CNN notizie, 2018. (2) Cass., sez. tributaria, sentenza 05.10.2016, n. 21614, su cui: A. Fedele, Vincoli di destinazione: scelte legislative inadeguate determinano un conflitto interpretativo tra le sezioni della Suprema Corte, in Riv. Dir. Trib., 2017, II, 48; C. Scalinci, Dalla “pigra macchina” legislativa al dietrofront della Cassazione sull’esistenza di un’imposta «sulla costituzione di vincoli di destinazione», in Riv. Dir. Trib., 2017, II, 63; S. Cannizzaro, Addio all’imposta proporzionale per la costituzione di trust?, In Riv. Dir. Trib., supplemento online, 2016; T. Tassani, Trust e imposte sui trasferimenti: il “nuovo corso” della Corte di cassazione, in Trusts, 2017, 283. (3) Una manifesta incoerenza della sentenza in commento può identificarsi proprio in questo passaggio logico, posto che la Corte dichiara di non accettare l’orientamento della sez.


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2. È infatti noto che nella Suprema Corte si sono sviluppate due interpretazioni diametralmente opposte dell’intervento legislativo concretatosi nel D.L. n. 262/2006, visto che la sez. Sesta (4) ha ravvisato nel testo con cui è stata reintrodotta l’imposta sulle successioni e donazioni l’intenzione di istituire ex novo un’imposta autonoma, tesa a colpire la pura e semplice costituzione di vincoli di destinazione, tributo la cui esistenza è stata invece negata da successiva giurisprudenza della sezione tributaria (5), a giudizio della quale l’imposta “reistituita” nel 2006, nonostante le innovative formule testuali adoperate, resta la sola imposta sulle successioni e donazioni, della quale mantiene il medesimo presupposto. La decisione in commento, come si è premesso, scaturisce da una controversia insorta in ordine alla tassazione del negozio di dotazione (posto in essere da una società di capitali quale settlor) di un trust di tipo “liquidatoriosolutorio”, nel quale erano state vincolate delle partecipazioni societarie con il dichiarato scopo di alienarle per far fronte alla posizione debitoria della disponente e dunque soddisfare, con il ricavato della liquidazione, i suoi creditori. Risulta dalla narrazione della sentenza che, nello stesso atto sottoposto a registrazione, le parti contraenti e il Notaio avevano cura di evidenziare che: «il presente trust non rientra nell’ambito applicativo del D.Lgs. 31 ottobre

VI, secondo la quale la costituzione di vincoli di destinazione sarebbe tassabile in via autonoma e a prescindere dall’arricchimento del soggetto che a seguito della imposizione del vincolo diviene titolare dei beni, e tuttavia giunge a considerare effettivamente sussistente un trasferimento e un arricchimento direttamente in favore del trustee. Per arrivare a tali conclusioni, devono essere stati disconosciuti i limiti a tutti gli effetti correlati alla posizione del fiduciario, oppure si è applicato proprio il criterio di tassazione della ricchezza “in uscita” propugnato dalla sez. VI, colpendo cioè l’impoverimento del dante causa, anziché l’arricchimento del beneficiario, contrariamente a quanto i principi dell’imposta sulle successioni e donazioni richiederebbero. (4) Il riferimento è alle ben note ordinanze Cass., sez.VI, sottosezione T, 24 febbraio 2015, n. 3735, 24 febbraio 2015, n. 3737, 25 febbraio 2015, n. 3886, e 18 marzo 2015, n. 5322 nonché alla sentenza Cass., Sez. VI, sottosezione T, sent. 7 marzo 2016, n. 4482, sulle quali si segnalano i seguenti interventi in Dottrina: A. Busani - R.A. Papotti, L’imposizione indiretta dei trust: luci e ombre delle recenti pronunce della Corte di cassazione, in Corr. trib., 2015, 1203; A. Contrino, Sulla nuova (ma in realtà inesistente) imposta sui vincoli di destinazione “creata” dalla Suprema Corte: osservazioni critiche, in Rass. trib., 2016, 30; G. Corasaniti, Vincoli di destinazione, trust e imposta sulle successioni e donazioni: la (criticabile) tesi interpretativa della Corte di Cassazione e le Conseguenze, in Dir. prat. trib., 2015, 2, 688; D. Stevanato, Riconfermata la ‘‘nuova imposta’’ sui vincoli di destinazione, in Riv. giur. trib., 2016, 396; L. Salvini, L’imposta sui vincoli di destinazione, in Rass. Trib., 2016, 925; T. Tassani, La Cassazione torna sull’imposta sui vincoli di destinazione, in Trusts, 2016, 341. (5) Sent. n. 21614/2016, cit.


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1990, n. 346 non trattandosi di liberalità; il trasferimento delle quote al trustee è soggetto pertanto alla applicazione dell’imposta di registro in misura fissa, ai sensi dell’art. 11 della Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986; tenuto conto degli obblighi gravanti sul Trustee, che ha l’incarico di alienare le quote al solo fine di pagare i debiti del disponente, l’ammontare della base imponibile è pari a zero. Al solo fine dell’annotazione del presente atto nel repertorio del sottoscritto Notaio, le parti dichiarano che il valore netto delle quote trasferite al Trustee è di complessivi Euro 297.378,64». Nel passo testuale dell’atto registrato sopra riportato risulta evidente l’intenzione delle parti di escludere l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, come pure dell’imposta di registro in misura proporzionale. Secondo i contraenti, per i suoi dichiarati scopi liquidatori, e quindi solutori, il trust andava qualificato “oneroso” (o quantomeno, sicuramente “non liberale”), e, per questo motivo, insuscettibile di rientrare nell’ambito dell’imposta sulle successioni e donazioni (6). Conseguentemente, l’atto sarebbe necessariamente rientrato nel perimetro dell’imposta di registro, in misura fissa ai sensi dell’art. 11 della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986, stante l’oggetto del “trasferimento”, costituito da quote sociali. In via subordinata, probabilmente per porsi al riparo da eventuali richieste di applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale, sembra che le parti abbiano voluto evidenziare la mera strumentalità del negozio, e quindi probabilmente l’assenza di contenuto patrimoniale nella prestazione oggetto dell’atto (7), sottolineando che, stanti gli obblighi imposti al trustee

(6) Autorevole Dottrina ha infatti messo in luce come in un’ottica sistematica l’imposta di registro sia propriamente deputata a colpire le variazioni qualitative del patrimonio e gli assetti tipicamente onerosi, mentre l’imposta sulle successioni e donazioni si rivolge più specificamente alle modificazioni patrimoniali quantitative ed agli assetti non onerosi, e quindi agli atti costituenti liberalità e, laddove ritenuti effettivamente configurabili, a quelli “a titolo gratuito”, con la conseguenza che anche i negozi costitutivi di vincoli andrebbero in ogni caso ricondotti, se atti a determinare assetti inconfutabilmente onerosi, comunque nell’ambito dell’imposta di registro [in questi termini, A. Fedele, Il regime fiscale di successioni e liberalità, in P. Rescigno (a cura di), Trattato breve sulle successioni e donazioni, II, Padova, 2010, 611.; Id., Vincoli di destinazione, cit., 60]. Più di recente, C. Buccico (a cura di), Gli aspetti civilistici e fiscali del trust, Torino, 2015, 28. (7) La prima giurisprudenza di merito formatasi sul punto tendeva effettivamente a riconoscere il negozio di dotazione del trust come assoggettabile ad imposta di registro in misura fissa, ex art. 11 della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986 proprio evidenziando la natura esclusivamente strumentale di tale operazione, e negando il contenuto patrimoniale


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in uno con l’assegnazione ad esso della formale titolarità dei beni destinati al trust (essendo compito del fiduciario quello di “alienare le quote al solo fine di pagare i debiti del disponente”) (8), l’eventuale base imponibile per la determinazione del tributo si sarebbe dovuta considerare comunque “pari a zero” (9), ulteriormente giustificandosi l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa (10). La stessa formula impiegata dalle parti, probabilmente nel riferimento al valore (a soli fini di repertazione) delle “quote trasferite” al trustee, veniva

delle prestazioni che ne formavano oggetto. Si possono citare, sul punto, C.T.R. Lombardia, sez. LXIII, sent. 22.05.2007, n. 130 e C.T.P. di Brescia, sez. I, sent. 11.01.2006, n. 205. (8) Soprattutto l’ultima locuzione inserita nell’atto, ossia quella con cui si esplicitava la necessità di considerare insussistente una base imponibile tassabile, appare interessante, in considerazione, appunto, della esplicitata assenza, stanti i vincoli imposti e la posizione giuridica effettivamente attribuita sui beni, di un qualsiasi arricchimento del trustee, e quindi del ruolo soltanto strumentale del fiduciario, ma anche per la esplicitazione degli scopi dello specifico trust, con la quale si intendeva far emergere l’assenza di qualsiasi intento altruistico da parte del disponente nei confronti del fiduciario, nonché dell’assetto complessivamente solutorio, e per ciò necessariamente oneroso, che mediante il complessivo svolgimento del programma di devoluzione si intendeva realizzare. Ritenuta infatti insussistente una imposta “sulla costituzione di vincoli di destinazione”, l’atto non avrebbe potuto essere ricondotto all’ambito dell’imposta sulle successioni e donazioni bensì, più propriamente, avrebbe dovuto essere collocato entro l’imposta di registro. (9) E questo, o per l’onere imposto al trustee con l’obbligo di devoluzione finale, ai creditori del disponente, dei beni vincolati, oppure per l’insussistenza di un suo arricchimento per effetto del mero subentro nella titolarità dei beni, non quale proprietario, ma a titolo “di trust”. La necessità di considerare pari a zero la base imponibile su cui applicare l’imposta di registro dovuta sul negozio sottoposto a registrazione, nel caso di affidamento di beni al trustee, era stata riconosciuta, proprio per l’esistenza di un obbligo di ritrasferimento di quegli stessi beni imposto al fiduciario all’atto stesso del suo subentro nella titolarità di essi, da C.T.P. di Lodi, sez. II, sent., 04.04.2011, n. 60, in Riv. Dir. Trib., 2012, II, 146, con commento di E.M. Bartolazzi Menchetti, considerazioni su affidamento di beni al trustee e imposte sui trasferimenti di ricchezza, in Riv. Dir. Trib., 2012, II, 150. (10) In questo caso, essendo il risultato della moltiplicazione tra l’aliquota proporzionale eventualmente ritenuta applicabile, in ipotesi, ai sensi dell’art. 9 della Tariffa, parte prima, D.P.R. n. 131/1986, e la base imponibile considerata “pari a zero”, l’imposta di registro sarebbe stata dovuta in misura fissa ai sensi dell’art. 41, co. 2, D.P.R. n. 131/1986, secondo il quale, come noto, «L’ammontare dell’imposta principale non può essere in nessun caso inferiore alla misura fissa indicata nell’articolo 11 della tariffa, parte prima». Le puntuali osservazioni con cui si giunge a determinare la base imponibile dell’atto come “pari a zero” mostrano tuttavia una precisa considerazione della situazione soggettiva trasferita al trustee, e dunque l’evidenziazione dell’assenza della trasmissione in suo favore di una effettiva posizione di dominio su quei beni, in considerazione dei vincoli imposti nella loro gestione e soprattutto del preciso obbligo di trasferire ai creditori del disponente, solvendi causa, la liquidità ottenuta dalla prevista alienazione dei beni destinati al trust.


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invece richiamata dall’Agenzia delle Entrate, al fine di supportare la ritenuta soggezione dell’atto all’imposta sulle successioni e donazioni, con aliquota dell’8% in considerazione del fatto che i beni in oggetto sarebbero stati, secondo l’Amministrazione, «devoluti a soggetti diversi da quelli previsti nelle lettere a), a bis) e b)» (11).

(11) Le riferite lettere sono chiaramente quelle contemplate nel comma 49 dell’art. 2 del D.L. n. 262/2006, ove sono previste, appunto, l’aliquota “ordinaria” dell’8% e quelle inferiori applicabili in caso di attribuzione dei beni o diritti considerati a soggetti aventi con il disponente rapporti familiari o di parentela qualificati. Nel caso esaminato, comunque, il disponente era una società di capitali, sicché l’indagine volta ad appurare se l’aliquota dell’imposta sulle successioni e donazioni applicata sia stata individuata con riferimento ai rapporti tra settlor e beneficiari, o tra disponente e trustee, risulterebbe priva di utilità pratica. Più semplicemente, non poteva ricorrere l’elemento oggettivo del “rapporto di parentela” tra dante e avente causa, considerato nell’art. 2, comma 49, D.L. n. 262/2006. Sulla rilevanza fiscale delle liberalità in ambito di impresa, possono vedersi le considerazioni di A. Fedele, Il regime, cit., 651, che evidenzia come la disciplina dettata nell’ambito delle imposte sui redditi dimostrerebbe che «le liberalità possono incidere sulla determinazione del reddito d’impresa, solo se funzionali al perseguimento del suo oggetto», dovendo quindi ritenersi irrilevanti soltanto le liberalità estranee all’esercizio dell’impresa, ossia quelle volte «a soddisfare interessi “personali” (in quanto diversi ed esterni rispetto al “programma” imprenditoriale)». Su posizioni diverse, viene invece ritenuta la assoluta irrilevanza dell’atto liberale nella determinazione del reddito imponibile del disponente (M. Versiglioni, Profili tributari della cessione gratuita dei beni relativi alle imprese, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1992, I, 481; M. Nussi, Ancora sul regime dei beni d’impresa: trasferimenti gratuiti d’azienda e imposte sui redditi, in Riv. dir. trib., 1997, I, 1092). In termini sistematici, comunque, sembra difficile ipotizzare che nella vicenda l’Ufficio avesse riconosciuto nel trustee un vero e proprio beneficiario della disposizione. La “devoluzione” dei beni ravvisata sembrerebbe più probabilmente essere stata individuata in termini prospettici, ossia considerando la dotazione del trust come negozio immediatamente attuativo della successiva devoluzione dei beni. Su questo punto, infatti, gli insegnamenti “istituzionali” dell’Amministrazione finanziaria - ai quali i verificatori si sono con ogni probabilità attenuti - risultano infatti chiari nel senso di ritenere che la determinazione dell’aliquota differenziata prevista, per l’imposta sulle successioni e donazioni, dall’art. 2, comma 48, del D.L. n. 262/2006, debba avvenire con riferimento «al rapporto intercorrente tra il disponente e il beneficiario (e non a quello tra disponente e trustee)» (Agenzia delle Entrate, circ. n. 48/E-2007, cit., par. 5.2, ma nello stesso senso, circ. n. 3/E-2008, par. 5.4.2). Nella circolare n. 3/E-2008 si rinviene tuttavia un’affermazione equivoca, secondo cui «il soggetto passivo dell’imposta sulle successioni e donazioni è il trust, in quanto immediato destinatario dei beni oggetto della disposizione segregativa», che però probabilmente attiene la diversa questione inerente la soggettività del trust ai fini di tributi diversi dall’IRES, unica imposta per la quale si rinviene disciplina specifica nell’art. 73 TUIR, soggettività comunque decisamente negata dalla sezione tributaria della Cassazione nella sentenza n. 21614/2016, cit.


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3. La Cassazione è stata quindi chiamata a vagliare la legittimità della sentenza di appello, che aveva confermato il rigetto del ricorso deciso dalla Commissione tributaria provinciale, utilizzando, per quanto emerge dalla narrativa, un’argomentazione apparentemente “ibrida” tra le due interpretazioni formatesi sul presupposto dell’imposta di cui all’art. 2, comma 47, D.L. n. 262/2006, stabilendo in particolare che il fatto che nell’atto «fosse stato indicato un valore netto delle quote trasferite al trustee», «legittimava il riferimento di tale valore ai fini dell’applicazione dell’imposta di donazione», e ritenendo inoltre «che con lo strumento adottato fosse stato creato un “vincolo di destinazione” come tale attratto nell’ambito dell’imposta di successione e donazione», in tal modo giustificando l’applicazione dell’imposta in oggetto, con aliquota dell’8%. Ad un primo argomento volto a valorizzare la sussistenza di un trasferimento in favore del trustee, i Giudici di merito ne avevano quindi unito un secondo, con il quale si faceva conseguire la ritenuta applicabilità dell’imposta sulle successioni e donazioni alla mera creazione di un vincolo di destinazione. Risulta sempre dalla narrativa riportata in sentenza, che il Notaio ricorrente avrebbe criticato la decisione della Commissione regionale per aver «erroneamente ritenuto che il trust sia un istituto necessariamente ricompreso tra i vincoli di destinazione, con conseguente applicazione dell’imposta di donazione indipendentemente dall’analisi della sua natura e dei suoi effetti giuridici», contestando pertanto l’interpretazione del D.L. n. 262/2006 come inteso ad introdurre una “nuova imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione”, dovuta per la mera impressione del vincolo di destinazione su determinati beni (12). 4. Si rammenterà che la soggezione dell’atto di dotazione di trust all’imposta di cui all’art. 2, comma 47, D.L. n. 262/2006, per la mera costituzione di un vincolo di destinazione, era stata sostenuta da una serie di ordinanze della Sez. VI (13), emanate tra il febbraio 2015 e il marzo 2016, nelle quali si era

(12) La stessa Corte di Cassazione accredita di una tale interpretazione la decisione di appello anche laddove evidenzia che la CTR avrebbe commisurato il tributo al «dichiarato “valore globale” dei beni che si è andato costituendo con vincolo di destinazione» (sentenza in commento, in conclusione del par. 1.a). (13) Cass., sez.VI, sottosezione T, ordd. nn. 3735, 3737, 3886, e 5322, tutte del 2015, nonché sent. n. 4482/2016, cit., su cui retro, nota n. 4.


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ritenuto che con il richiamato Decreto-legge sarebbe stata introdotta ex novo una “nuova imposta”, considerata applicabile alla pura e semplice “costituzione di vincoli di destinazione”, appunto a prescindere dalla effettiva sussistenza dell’arricchimento di soggetti diversi dall’autore dell’atto destinatorio, o anche solo di un effettivo trasferimento di beni, e perciò autonoma dall’imposta sulle successioni e donazioni, il tutto in contrasto con gli orientamenti ufficiali dell’Agenzia delle Entrate (14). In due delle predette ordinanze (15) la Suprema Corte aveva delineato perfino gli elementi costituitivi di questo nuovo tributo, descrivendo il suo presupposto come «correlato alla predisposizione del programma di funzionalizzazione del diritto al perseguimento degli obiettivi voluti» ed individuandone l’oggetto (16) «nel valore dell’utilità del quale il disponente, stabilendo

(14) L’interpretazione ministeriale non ha mai dato ad intendere che dalla formula testuale del D.L. n. 262/2006, così come convertito dalla legge n. 286/2007, dovesse ricavarsi l’introduzione di una imposta autonoma, distinta da quella sulle successioni e donazioni e dovuta specificamente per la pura e semplice “costituzione di vincoli di destinazione”. È tuttavia stata, probabilmente, l’Agenzia delle Entrate, con la ben nota circolare 06.08.2007, n. 48/E, a gettare le basi per un’interpretazione incentrata sulla considerazione, come autonoma vicenda imponibile, della costituzione di vincoli di destinazione, che tuttavia veniva in ogni caso ricondotta entro l’imposta sulle successioni e donazioni («Attualmente, pertanto, la costituzione dei vincoli di destinazione è soggetta all’imposta sulle successioni e donazioni, secondo le disposizioni stabilite all’art. 2, commi da 47 a 49, del decreto legge n. 262 del 2006» - circ. 48/E-2007, par. 5.2). Verosimilmente fu proprio questa considerazione a determinare la successiva precisazione di tale posizione, come noto compiuta con la circolare 22.01.2008, n. 3/E (su cui: G. Fransoni, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, in Corr. trib., 2008, 646, nonché G. Gaffuri, La nuova manifestazione di pensiero dell’Agenzia delle Entrate sulla tassazione indiretta dei trust, in Trusts, 2008, 12), nella quale si evidenziava, in coerenza con i principi ed il sistema dell’imposta sulle successioni e donazioni, «la necessità di verificare, volta per volta, gli effetti giuridici che la costituzione di un vincolo di destinazione produce, per modo che l’imposta possa essere assolta solo in relazione a vincoli di destinazione costituiti mediante trasferimento di beni» (circ. n. 3/E-2008, par. 5.1). (15) Si tratta, in particolare, delle nn. 3735 e 3886 del 2015, citate. (16) Sembra che la Sez. VI abbia inteso delineare, sotto la dicitura di “oggetto” della “nuova imposta”, in realtà, il suo presupposto e la sua base imponibile, costituiti, in tale visione, dall’impoverimento che al disponente deriverebbe per effetto della semplice costituzione di un vincolo di destinazione. L’oggetto, o la “fattispecie oggettiva” del tributo deve tuttavia essere mantenuto distinto dal presupposto, stante la non necessaria coincidenza tra i due elementi. Molto brevemente, se il presupposto è costituito da «quell’elemento che, nella sintesi complessiva della disciplina dell’istituto, risulta essere la vicenda idonea a permettere la definitiva acquisizione delle somme da parte del soggetto attivo del tributo» (G. Fransoni, Tipologia e struttura della norma tributaria, in A. Fantozzi (a cura di), Diritto tributario, Assago, 2012, 278), la fattispecie indica


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che sia sottratta all’ordinario esercizio delle proprie facoltà proprietarie, finisce con l’impoverirsi» (17). La asistematicità di tale orientamento (18) era stata probabilmente percepita anche dai Giudici della Sezione tributaria della Suprema Corte, che infatti, alla prima occorrenza utile, vollero confutarlo, in maniera neppure tanto celata (19), con una rilevante e nota sentenza (20). Pur dovendo esaminare un caso che atteneva la tassazione del trust sotto l’esclusivo profilo delle imposte ipotecaria e catastale (21), infatti, i Giudici

invece il «complesso di elementi oggetto di valutazione giuridica» (A. Fantozzi, Il Diritto Tributario, Torino, 2003, 175). (17) Circa quest’ultimo aspetto, la Dottrina, attentamente, non ha mancato di rilevare la contraddittorietà degli argomenti utilizzati dalla Corte di Cassazione. Infatti, stabilendo che l’oggetto del tributo, ossia la effettiva manifestazione di capacità contributiva che lo stesso intende colpire, corrisponda al valore dell’utilità del quale il disponente si impoverisce, non sembrerebbe possibile poi computare l’imposta in argomento sic et simpliciter sul valore dei beni sui quali il vincolo insiste. Più correttamente, infatti, si renderebbe necessario “inventare” un sistema per determinare la diminuzione di valore dei beni, appunto conseguente alla istituzione del vincolo, e su tale importo numerico applicare – se del caso – le aliquote di cui all’art. 2, comma 48, D.L. n. 262/2006 (in questi termini sia A. Contrino, Sulla nuova (ma in realtà inesistente) imposta sui vincoli di destinazione “creata dalla Suprema Corte: osservazioni critiche, in Rass. Trib., 2016, 38 che G. Corasaniti, Vincoli di destinazione, cit. (18) La continua conferma che, nonostante le serrate ed unanimi critiche della Dottrina, tale interpretazione aveva ricevuto nelle pronunce della sez. VI della Corte di Cassazione susseguitesi, era infatti sembrata destinata a consolidarsi e far divenire insuperabile tale orientamento, visti anche gli esistenti limiti di natura processual-civilistica, che certamente avrebbero costituito un formidabile ostacolo al tanto auspicato revirement. Si fa riferimento al filtro costituito dalla possibile declaratoria di inammissibilità del ricorso per Cassazione avverso sentenza di merito che abbia deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Suprema Corte, introdotto ex-novo, come noto, nell’art. 360-bis c.p.c. per effetto della L. 18 giugno 2009, n. 69. Invero, il consolidarsi di un determinato orientamento in seno alla c.d. “sezione-filtro” avrebbe potuto impedire, nel caso che ci occupa, qualsiasi “aggiustamento” della giurisprudenza, considerato che i pur rilevanti argomenti fatti valere dai contribuenti nei procedimenti da cui originano le prime ordinanze erano stati considerati dalla VI Sezione tali da far ritenere i ricorsi dell’Agenzia delle Entrate “manifestamente fondati” e dunque da consentire, ai sensi dell’art. 375, comma 1, n. 4), c.p.c., la trattazione della causa da parte della stessa “sezione-filtro”, in camera di consiglio. (19) Lo evidenzia A. Fedele, Vincoli di destinazione, cit., 61, secondo cui «la natura della lite risolta fa pensare che la stessa Sezione V della Suprema Corte avvertisse l’esigenza di intervenire immediatamente, prima che si potesse consolidare il diverso orientamento espresso dalle ordinanze e dalla sentenza della Sezione VI addietro menzionate». (20) Cass., sez. tributaria, sent. n. 21614/2016, cit., su cui retro, nota n. 2. (21) Trattavasi, più specificamente, di una ipotesi di trust autodichiarato, mediante il quale il disponente nominava sé stesso trustee di immobili e quote sociali fino ad un termine o fino alla sua stessa morte, se precedente, momento in cui il fondo costituito in trust sarebbe stato


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avevano voluto ricostruire, in contrasto con le posizioni espresse nelle precedenti pronunce dalla Sez. VI, il sistema dell’imposta sulle successioni e donazioni così come reistituita (22), al fine di chiarire una volta per tutte l’unicità e l’omogeneità del tributo disciplinato nel D.L. n. 262/2006 (23). In quella circostanza, di fronte all’atto di dotazione di un trust “autodichiarato”, nei cui confronti l’Amministrazione finanziaria invocava in via analogica, ai fini delle imposte ipotecarie e catastali, l’interpretazione fino a quel momento consolidatasi in seno alla Sez. VI (24) sull’imposta sulla costi-

devoluto ai discendenti del settlor. Rientrando il valore dei beni nelle franchigie di cui all’art. 2, comma 48, D.L. n. 262/2006, calcolate in base al rapporto di parentela tra disponente e beneficiari, non era stata liquidata imposta sulle successioni e donazioni, tuttavia l’Agenzia delle Entrate aveva agito nei confronti del Notaio rogante per il recupero delle imposte ipotecaria e catastale, in misura proporzionale (22) L. Salvini, L’imposta sui vincoli di destinazione, cit. 931, nota come le premesse teoriche per questo stesso cambiamento di indirizzo sembrassero già poste nella sentenza depositata dalla Sezione V il 18 dicembre 2015, n. 25478, su cui su cui B. Denora, Imposte fisse per il trust liberale, in Riv. Dir. Trib., suppl. online, 2016. (23) Commentando la sentenza n. 21614/2016, cit., A. Fedele, Vincoli di destinazione, cit., 59, pone in luce che con tale decisione viene identificata «l’“unica” imposta “reintrodotta” come imposta sulle successioni e donazioni, avente a presupposto unitario il “reale arricchimento dei beneficiari”». (24) L’analogia che l’Agenzia invocava per considerare immediatamente applicabili le imposte ipotecaria e catastale, nonostante il carattere “autodichiarato” del trust in questione, è per la verità in qualche modo immanente al sistema. La migliore Dottrina ha infatti evidenziato come il presupposto dell’imposta ipotecaria e catastale in relazione a vicende con effetti traslativi viene a coincidere, in definitiva (salvi i casi in cui non sussistano effetti traslativi, nei quali esso andrebbe individuato nella mera esecuzione della formalità, in relazione alla quale la tassa fissa dovuta costituirebbe corrispettivo dell’attività dell’Ufficio) con quello dell’imposta di registro o sulle successioni e donazioni, da individuare nel complesso degli effetti dell’atto o provvedimento o della vicenda successoria, soltanto in quanto manifestino capacità contributiva e, in particolare, secondo l’art. 1, Tariffa allegata al D.Lgs. n. 347/1990, in quanto determinino un «trasferimento di proprietà di beni immobili» (in questi termini A. Fedele, (voce) Ipoteca – Diritto tributario, in Enc. Dir., XXII, 1972, 854; S. Cardarelli, (voce) Ipotecarie (imposte), in Dig. disc. priv., sez. comm., 1992, 559). A. Fedele, Ipoteca, cit., 856, osserva comunque come le imposte ipotecaria e catastale debbano essere considerate tributi in ogni caso autonomi, posto che il presupposto di esse è compiutamente definito dalla legge che le disciplina, e che il rinvio alla normativa inerente le imposte sui trasferimenti “principali” attiene unicamente i criteri per la determinazione della base imponibile. Secondo la più accorta Dottrina, pertanto, una sostanziale e “occasionale” coincidenza tra il presupposto delle imposte “principali” (di registro, o sulle successioni e donazioni) e quello delle imposte ipotecaria e catastale si avrebbe, a ben vedere, nel solo caso delle vicende traslative. In questo caso, infatti, il presupposto dei tributi ipo-catastali va individuato nel complesso degli effetti dell’atto o provvedimento soggetto a trascrizione, o della vicenda successoria (A. Fedele, (voce) Ipoteca, cit., 854), e quindi nell’effetto traslativo che ne consegue. Nel caso


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tuzione di vincoli di destinazione, per farne discendere la soggezione dell’atto alle imposte ipo-catastali in misura proporzionale, stante il vincolo impresso ai beni dal disponente-trustee in funzione della realizzazione del programma devolutivo sotteso al trust (25) (26), la sezione tributaria (27) aveva dettato importanti statuizioni di principio sul sistema dell’imposta sulle successioni e donazioni, come reintrodotta ad opera del D.L. n. 262/2006.

considerato, infatti, ai fini delle imposte ipotecarie e catastali il presupposto è integrato per la formazione dell’atto pubblico, autenticazione della scrittura privata, emissione del provvedimento giudiziario o apertura della successione, senza invece che rilevi, per il completamento della fattispecie impositiva, l’esecuzione della formalità di trascrizione [A. Fedele, (voce) Ipoteca, cit., 855], dal che si desume la rilevanza assolutamente preminente degli effetti giuridici della vicenda a cui le formalità si riferiscono. Per ulteriori note bibliografiche sul tema si rinvia a E.M. Bartolazzi Menchetti, Oggetto dell’imposta (art. 1, D.Lgs. 31.10.1990, n. 347), in A. Fedele - G. Mariconda - V. Mastroiacovo, Codice delle leggi tributarie, Assago, 2014, 807 e ss. (25) Il sillogismo per cui il presupposto dell’imposta ipotecaria e catastale sarebbe sempre coincidente con quello dell’imposta di registro o sulle successioni, per cui all’applicazione delle seconde conseguirebbe indefettibilmente quella delle prime, si rinviene nelle posizioni manifestate dall’Amministrazione finanziaria, e in specie nella circolare n. 48/E-2007, secondo cui all’atto di dotazione del trust sarebbero sempre applicabili le imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale, e ciò individuando nei negozi di dotazione «atti che conferiscono nel trust, con effetti traslativi, i menzionati beni e diritti». Sembra evidente l’equivoco in cui cade detta interpretazione, ove individua nella dotazione un trasferimento di beni e diritti in favore del trust medesimo. La Dottrina ha comunque eccepito l’iniquità di una tale soluzione, in considerazione del fatto che nella complessiva vicenda del trust con beneficiari finali, l’assegnazione iniziale dei beni al trustee deve essere considerata soltanto strumentale allo svolgimento del disegno del disponente (S. Cannizzaro – T. Tassani, La tassazione degli atti di destinazione e dei trust nelle imposte indirette, C.N.N., Studio tributario n. 58-2010/T, approvato dalla Commissione studi tributari il 21.01.2011, in www.notariato.it, 19), e che in ogni caso l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate determinerebbe una forzatura della lettera della legge, laddove non consentirebbe di considerare le componenti negative del diritto trasferito, tra cui l’obbligo di devoluzione gravante sul fiduciario (S. Cardarelli, (voce) Ipotecarie (imposte), cit., p. 568 e T. La Medica, (voce) Ipotecarie e catastali (imposte), in Enc. giur. Treccani, XVII). (26) Sul punto, occorre peraltro osservare che l’orientamento formatosi in seno alla Sez. VI della Corte di Cassazione sembra considerare il rinvio contenuto negli artt. 2 e 10, D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347 alla disciplina dell’imposta di registro o sulle successioni e donazioni quale imposta “principale”, applicata sulla vicenda descritta, come riferito allo stesso presupposto degli ultimi due tributi nominati, la sussistenza del quale andrebbe quindi riscontrata in esito alla semplice possibilità di applicazione della “nuova imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione”, a prescindere dalla verifica della produzione di un effettivo trasferimento di ricchezza. Il predetto rinvio, in realtà, attiene esclusivamente la disciplina della determinazione della base imponibile, che infatti non è dettata in alcun modo nel D.Lgs. n. 347/1990. (27) Sent. n. 21614/2016, cit.


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In particolare, contestando il precedente indirizzo, i Giudici avevano evidenziato che la tesi per cui con il Decreto-legge appena citato, convertito – come noto, con rilevantissime modifiche (28) – in L. 24 novembre 2006, n. 286, il legislatore avrebbe inteso, oltre che reistituire la previgente imposta sulle successioni e donazioni, introdurre un tributo “del tutto nuovo”, proprio “sulla costituzione di vincoli di destinazione”, che in particolare prescinderebbe – a differenza del tributo successorio – dalla sussistenza di un effettivo trasferimento di ricchezza (29), sarebbe basata su un unico argomento, applicato peraltro in maniera fallace, ossia quello letterale (30). La sezione tributaria, infatti, aveva rilevato che la lettura delle nuove disposizioni secondo i criteri interpretativi di cui all’art. 12, comma 1, disp. prel. al c.c., e quindi considerando “il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” impone, al contrario, di giungere alla conclusione che il senso da attribuire alla formula testuale impiegata dal legislatore sarebbe quello per cui «l’unica imposta espressamente istituita è stata la reintrodotta imposta sulle successioni e sulle donazioni alla quale per ulteriore espressa disposizione debbono andare anche assoggettati i “vincoli di destinazione”, con la scontata conseguenza che il presupposto dell’imposta rimane quello stabilito dall’art. 1 d.lgs. n. 346 cit. del reale trasferimento di beni o diritti e quindi del reale arricchimento dei beneficiari» (31).

(28) Come evidenzia A. Fedele, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., 590 e ss., ma anche Id., Vincoli di destinazione, cit. (29) Da intendersi in senso tecnico, come spiega A. Fedele, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., 590 e ss., ossia quale atto idoneo a determinare il prodursi di una attribuzione patrimoniale, su cui R. Nicolò, Attribuzione patrimoniale (voce), in Enc. Dir., IV, 1959. (30) Secondo l’interpretazione della sez. VI (in specie, ord. n. 3735/2015, cit.), ove si ritenesse necessario il prodursi di un «trasferimento e, quindi, dell’arricchimento», la formula testuale “nuova” dell’art. 2, comma 47, D.L. n. 262/2006, esorbitante rispetto al precedete dettato dell’art. 1, D.Lgs. n. 346/1990 diverrebbe oggetto di una interpretatio abrogans, posto che «il vincolo di destinazione ineludibilmente mira a modulare il diritto, non già a trasferirlo». Lo stesso argomento letterale veniva tuttavia utilmente impiegato dalla Dottrina espressasi criticamente sui pronunciamenti della Sez. VI. In particolare, A. Contrino, Sulla nuova (ma in realtà inesistente) imposta, cit., 36, faceva notare come le formule testuali adottate nei commi 48 e 49 dell’art. 2, D.L. n. 262/2006 espressamente presuppongano (come è nello spirito dell’imposta) la presenza di due sfere soggettive, fatto che corrobora l’idea circa la necessaria sussistenza di una attribuzione patrimoniale, intesa come modificazione di segno inverso inerente due sfere patrimoniali. (31) Il reale fondamento della inclusione testuale della formula “e sulla costituzione di vincoli di destinazione” nell’art. 2, comma 47, D.L. n. 262/2006 era stato già spiegato da autorevole Dottrina (A. Fedele, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., 590, con conclu-


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Si era giunti così alla conclusione per cui l’imposta sulle successioni e donazioni (anche così come “reistituita” dal D.L. n. 262/2006) «ha come presupposto l’arricchimento patrimoniale a titolo di liberalità», da intendersi quale «reale arricchimento mediante un reale trasferimento di beni e diritti (art. 1 d.lgs. n. 346 cit.)» (32), con la conseguenza che la dotazione di trust non potrebbe esservi assoggettata in assenza della realizzazione della specifica fattispecie da ultimo menzionata (33).

sioni poi confermate in Id., Vincoli di destinazione: scelte legislative inadeguate determinano un conflitto interpretativo tra le sezioni della Suprema Corte, in Riv. Dir. Trib., 2017, II, 49) come un refuso, una formula della quale non si sarebbe tenuto conto in sede di “ripensamento” circa la precedentemente progettata traslazione dell’imposta sulle successioni e donazioni entro il sistema dell’imposta di registro. Dovendosi chiaramente rifiutare l’interpretatio abrogans della disposizione, il riferimento aggiunto nella predetta formula, che descrive l’oggetto dell’imposta, pare quindi volto ad indicare soltanto l’apprensione del legislatore nel garantire l’inclusione nel perimetro della reistituita imposta anche delle vicende idonee ad integrare il suo storico presupposto, costituito dalle attribuzioni liberali o derivanti da successione, realizzate mediante la costituzione di vincoli di destinazione, ed anticipare il prelievo nei casi in cui ciò risulti possibile, per la già compiuta definizione della fattispecie attributiva, anche di non immediata realizzazione. In conclusione, secondo l’Autore citato, «È appunto il criterio interpretativo dell’adeguamento ai principi costituzionali, dell’“interpretazione conforme”, a fornire l’argomento decisivo a favore dell’opposta tesi, che valorizza gli elementi testuali e sistematici a sostegno di una ricostruzione unitaria dei presupposti del tributo successorio, incentrata sui “trasferimenti gratuiti” come specifico indice di capacità contributiva». La ricostruzione di un tale fondamento teleologico dell’interpretazione adottata è peraltro molto evidente nel passaggio che segue, tratto da pag. 7 dell’originale della sentenza n. 21614/2016, cit.: «Quella che in verità emerge chiara dall’art. 2, comma 47 ss., d.l. n. 262 cit. è la preoccupazione – nei più esatti termini di cui all’art. 12, comma 1, prel. sarebbe “l’intenzione del legislatore” – di evitare che un’interpretazione restrittiva della istituita nuova legge sulle successioni e sonazioni disciplinata mediante richiamo al già abrogato d.lgs. n. 346 cit. potesse dar luogo a nessuna imposizione anche in caso di reale trasferimento di beni e diritti ai beneficiari quando lo stesso fosse stato collocato all’interno di una fattispecie tutto sommato di “recente” introduzione come quella dei “vincoli di destinazione” e quindi per niente affatto presa in diretta considerazione dal ridetto “vecchio” d.lgs. n. 346 cit.». (32) Tale è infatti l’opinione tradizionale della Dottrina, in specie A. Fedele, L’oggetto dell’imposta (art. 1 d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346), in G. Mariconda - A. Fedele - V. Mastroiacovo (a cura di), Codice delle leggi tributarie, Torino, 2014, 600; Id., Il regime fiscale, cit., 595 nonché G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, trust e patti di famiglia, Padova, 2008, 24. Per ulteriori riferimenti, si rinvia a E.M. Bartolazzi Menchetti, Successioni e donazioni [dir. Trib.] (voce), in Diritto Online, 2016. (33) In particolare, la predetta sentenza indicava che nella fattispecie della istituzione con contestuale dotazione di beni immobili di un trust “autodichiarato” con durata predeterminata o fino alla morte del disponente-trustee, nel quale si individuavano quali beneficiari i discendenti di quest’ultimo, la segregazione pur effettivamente realizzata, in considerazione della mera strumentalità al complessivo disegno del disponente, non poteva ritenersi idonea a determi-


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Tale interpretazione, oltre ad essere indicata come quella «logicamente più corretta», era anzi definita «l’unica costituzionalmente orientata», nella considerazione della necessaria incompatibilità con l’art. 53 Cost. di qualsiasi imposta (eccezion fatta, secondo la Corte, per l’imposta di registro, ritenuta «imposta semplicemente d’atto» (34)) priva di relazione con un’idonea capacità contributiva. 5. L’indirizzo espresso dalla Sezione tributaria nella citata sentenza del 2016, anche per la sistematicità della motivazione adottata e per la puntuale confutazione dell’argomento utilizzato in contrario dalla Sezione VI, risulta del tutto condivisibile e consente, ai fini di un puntuale esame della sentenza qui in commento, di precisare come segue il presupposto della reistituita imposta sulle successioni e donazioni.

nare «alcun reale arricchimento di persone, trasferimento e arricchimento che dovrà invece realizzarsi a favore dei beneficiari, i quali saranno perciò nel caso successivamente tenuti al pagamento dell’imposta in misura proporzionale». Non veniva pertanto ritenuto sufficiente a fondare l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni un mero subentro nella titolarità di essi, quale ad ogni effetto si ha nel trust (con l’eccezione, ovviamente, di quello “autodichiarato”), stando anche alla definizione contenuta nell’art. 2 della Convenzione dell’Aja, secondo cui (comma 1), i beni in trust sono «posti sotto il controllo di un trustee e (comma 2, lett. b), «i beni del trust sono intestati a nome del trustee». Come indicato altrove (E.M. Bartolazzi Menchetti, Considerazioni su affidamento di beni al trustee e imposte sui trasferimenti di ricchezza, in Riv. dir. trib., 2012, II, 156), il “trasferimento di beni e diritti” di cui l’art. 2, comma 47, D.L. n. 262/2006 (peraltro comprensivo delle vicende assimilate ai sensi dell’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 346/1990) fa menzione costituisce, unitamente, a quanto pare, alla costituzione di vincoli di destinazione (suscettibili comunque di essere ricondotti alla predetta espressione, secondo A. Fedele, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., 598) semplicemente il veicolo mediante il quale può realizzarsi il presupposto del tributo in discorso, quindi il suo “elemento materiale” o “oggetto”. (34) Tale richiamo, compiuto in termini analoghi anche dalla sez. VI nelle precedenti decisioni, non sembra in realtà pertinente. La qualificazione dell’imposta di registro come “imposta d’atto” non potrebbe infatti valere ad escludere la ricorrenza di un indice di capacità contributiva effettivo, idoneo a fondare la contribuzione alle pubbliche spese, pena altrimenti la incostituzionalità del tributo. La possibilità di configurare l’imposta di registro come “imposta d’atto”, intesa come tributo dovuto per la semplice formazione dell’atto, era già stata argutamente messa in dubbio da V. Uckmar - R. Dominici, Registro (imposta di), in Dig. disc. priv., sez. Comm., i quali osservavano, tra le altre cose, come l’esclusione, ad opera dell’art. 57, comma 6, del D.P.R. n. 131/1986, di una solidarietà di tutte le parti per l’imposta suppletiva e complementare dovute su tutte le disposizioni contenute nell’atto, non potesse che essere prova della intenzione di superare una tale configurazione, tuttavia tralaticiamente mantenuta, come gli stessi Autori osservavano, nella giurisprudenza (Cass., sez. I, 20.09.1991, n. 8754, in Corr. trib., 1992, 2491).


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La fattispecie che giustifica l’applicazione del tributo deve in ogni caso consistere in un “trasferimento e arricchimento”, ossia in una vicenda traslativa che non si configuri semplicemente come trasmissione di beni, ma dalla quale necessariamente derivi un incremento patrimoniale per un soggetto diverso dal disponente (e non soltanto l’impoverimento di quest’ultimo (35)), ottenuto “senza sforzo” (36), ossia quale realizzazione di una attribuzione patrimoniale (37) non onerosa (38).

(35) Paradossalmente, è invece proprio tale elemento, ossia la perdita di disponibilità dei beni da parte del settlor, a giustificare, nelle decisioni emanate dalla sezione VI, l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale (D. Stevanato, La “nuova” imposta su trust e vincoli di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione, in GT – Riv. giur. trib., 2015, 407 parla appunto della creazione, in via giurisprudenziale, di «un’imposta sull’impoverimento»). Sul punto, la dottrina ha evidenziato come la “nuova” imposta di cui la Sezione VI ha riconosciuto la introduzione da parte del D.L. n. 262/2006 lascerebbe in realtà aperti sconcertanti vuoti normativi, che appaiono tali da condurre senza meno – ove effettivamente ritenuto esistente – alla declaratoria di incostituzionalità dello stesso, se non per violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione, quantomeno dell’art. 23 della Carta fondamentale. Rileva infatti L. Salvini, L’imposta sui vincoli, cit., che sarebbe contraddittorio individuare la base imponibile di un simile tributo nel pieno valore dei beni vincolati, ove si ritenga che presupposto di esso sia l’utilità economica di cui, a causa del vincolo, il disponente si è privato. Il trustee non diviene mai titolare della piena proprietà sui beni, sicché la quota di valore che ad esso viene trasmessa, corrispondente, in astratto, ad una qualche in realtà inesistente utilità correlata alla mera titolarità di beni dei quali non può disporre, dovrebbe essere in qualche maniera quantificata, senza che il decreto asseritamente “istitutivo” abbia in realtà dettato alcun criterio, conducendo evidentemente all’inapplicabilità del tributo. (36) G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, Padova, 2008, 99; D. Stevanato, Trusts e imposta sulle successioni e donazioni: prime reazioni giurisprudenziali alle forzature della prassi amministrativa, in GT – Riv. giur. trib., 2009, 534 e ss. (37) Intesa come complesso degli effetti giuridici che dal negozio derivano ai soggetti che ne fanno parte, consistente, in particolare, nell’incremento di un patrimonio con decremento di quello di un altro soggetto. In questo senso R. Nicolò, Attribuzione patrimoniale (voce), in Enc. Dir., IV, 283 e A. Fedele, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., 596. (38) Sul punto, non è possibile operare in questa sede una compiuta analisi, ma in breve, può osservarsi che la qualità dell’apporto che giustifica l’applicazione del tributo in discorso deve essere tale per cui in esito ad esso si determinino attribuzioni patrimoniali tali da determinare l’arricchimento di uno dei due patrimoni esaminati senza che ciò si ponga in alcun modo in legame causale con un suo contestuale, neppure prospettico, impoverimento (G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, Padova, 2008, 25; A. Fedele, Le innovazioni nella legge n. 342 del 2000, in Aa. Vv., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, 69; D. Stevanato, Trusts e imposta sulle donazioni: prime reazioni giurisprudenziali alle forzature della prassi amministrativa, in Riv. giur. trib., 2009, 534). In senso contrario alla prospettata interpretazione si pone quella Dottrina (S. Ghinassi, Imposte di registro e di successione, profili soggettivi e implicazioni costituzionali, Milano, 1996, 84) che per l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni ritiene sufficiente la sussistenza di


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Inoltre, al fine della adeguata collocazione delle vicende oggetto degli atti i cui effetti giuridici vengono esaminati, la Sezione tributaria ha posto in evidenza che lo scopo (39) che il disponente persegue con la istituzione e dotazione del trust deve essere individuato non certo nella immediata volontà di arricchire il trustee, quanto in quella di affidare al medesimo dei beni per la realizzazione – pur con ampia discrezionalità – di un programma predefinito, al cui successo è funzionale anche il principale effetto di tale negozio, ossia la segregazione del trust fund, posto così al riparo da interferenze estranee (40). La necessità di considerare la fattispecie nella sua interezza, e quindi di guardare al trust non solo al momento della sua istituzione e dotazione, ma scorgendo già, in prospettiva, la finalità da ultimo perseguita e quindi, più concretamente, gli effetti giuridici che il negozio è globalmente inteso a produrre, trova adeguata giustificazione anche con la nuova formulazione dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 (41). Si ritiene infatti che, a monte di qualsiasi indagine volta all’applicazione della singola imposta, non si possa prescindere dall’esame dell’assetto finale che il trust mira a perseguire, essendo necessario individuare la tipologia

un trasferimento patrimoniale in favore di un determinato soggetto, a prescindere dalla verifica circa la determinazione di un effettivo arricchimento, elemento che interverrebbe unicamente nella individuazione della base imponibile. Per più ampia bibliografia e trattazione del tema, si rinvia a E.M. Bartolazzi Menchetti, Qualificazione dell’atto di affidamento di beni al trustee nelle imposte sui trasferimenti, in V. Ficari - V. Mastroiacovo (a cura di), Corrispettività, onerosità e gratuità, profili tributari, Torino, 2014, 119 e ss., nonché Id., (voce) Successioni e donazioni [imposte sulle], in Diritto online, 2016. (39) Da intendersi, evidentemente, come risultato atteso, sul piano giuridico, per effetto dello svolgimento del trust delineato dal disponente, in tutti gli atti necessari alla sua realizzazione. (40) La sentenza citata escludeva infatti la possibilità di individuare un trasferimento nel senso sopra precisato, e quindi di applicare l’imposta al caso sottoposto, di trust “autodichiarato” con devoluzione finale di beni «perché la fattispecie si inquadra in quella di una donazione indiretta cui è funzionale la “segregazione” quale effetto naturale del vincolo di destinazione, una “segregazione” da cui non deriva quindi alcun reale arricchimento di persone, trasferimento e arricchimento che dovrà invece realizzarsi a favore dei beneficiari, i quali saranno perciò nel caso successivamente tenuti al pagamento dell’imposta in misura proporzionale». (41) La novella citata, come noto, ha disposto un ampliamento della formula testuale della disposizione in esame, che prevede ora: «L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi». Con la nuova formulazione si sarebbe pertanto inteso precludere di determinare l’imposta dovuta utilizzando elementi diversi da quelli emergenti dall’atto stesso.


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di assetto che si intende realizzare, così da poter adeguatamente collocare le varie fasi in cui il trust si sviluppa nel senso della onerosità o gratuità delle attribuzioni che è volto a produrre (42), e conseguentemente nel sistema dell’imposta di registro o di quella sulle successioni e donazioni (43). A questo scopo, ciò che è necessario valorizzare è probabilmente la “causa fiduciaria” che informa tutto lo svolgimento del trust e diviene causa degli stessi negozi nei quali esso, ed il suo primigenio programma, si sviluppano e trovano materiale manifestazione, determinando una necessaria influenza, non soltanto sul piano dei motivi, ma anche su quello degli effetti giuridici, in relazione ad ogni atto che si pone in tale sequenza. La posizione che il trustee assume sui beni assegnatigli per effetto del negozio di dotazione, e quindi dell’atto sottoposto a registrazione, richiamando l’art. 20, D.P.R. n. 131/1986, è infatti tale per cui il subentro del fiduciario nella titolarità dei beni che vanno a comporre il fondo avviene non quale effettivo proprietario, bensì “a titolo di trust” (44), con tutte le conseguenti limitazioni.

(42) Può osservarsi che se per attribuzione patrimoniale si intende l’incremento stabile e definitivo del patrimonio di un soggetto, con detrimento di quello di un altro (v. retro, nota n. 38), nel trust con beneficiari, a prescindere dai passaggi in cui la vicenda si sviluppi, dovrebbe essere possibile individuare una ed una sola attribuzione patrimoniale, ossia quella data dall’incremento del patrimonio dei beneficiari finali, a scapito di quello del disponente, benché tra il verificarsi dei due citati eventi possa interporsi un lasso di tempo anche considerevole. (43) Si rinvia, sul punto, alle osservazioni di A. Fedele, riportate retro, in nota n. 6), nonché a T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, Pisa, 2012, 151 e C. Buccico, Gli aspetti, cit., 286. (44) Non si intende configurare una nuova tipologia di diritto reale, ma semplicemente indicare la condizione giuridica nella quale il trustee effettivamente subentra, quale formale titolare dei beni, il cui dominio è però limitato dalla causa di tale subentro, ossia il trust stesso, condizione che, proprio per i limiti che pone alla posizione del fiduciario, è ad esempio pacificamente ritenuta passibile di trascrizione nei registri immobiliari. È infatti ormai incontestabile che sia possibile richiedere la trascrizione “del trust” nei registri immobiliari, dando pubblicità legale proprio della particolare situazione giuridica del trustee rispetto ai beni. Resta tuttavia ancora discussa la modalità pratica con cui ciò debba avvenire. La Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985 prevede infatti una mera facoltà, per «il trustee che desidera registrare i beni mobili e immobili», «di richiedere la iscrizione nella sua qualità di trustee o in qualsiasi altro modo che rilevi l’esistenza del trust». In particolare, a seconda delle modalità operative del singolo ufficio di pubblicità immobiliare, destinatario della formalità, la prassi mostra le seguenti possibilità (A. Busani, Il trust immobiliare si può trascrivere, Il Sole 24 ore, Quotidiano del Fisco, 24.07.2014): trascrizione a favore del trustee e, contemporaneamente, contro il trustee e a favore del trust; trascrizione del trust a favore del trustee e contemporaneamente trascrizione di una costituzione di vincolo di destinazione contro lo stesso soggetto, senza soggetti a favore; unica formalità, in favore del trust. Sulla maggiore praticità della trascrizione in favore del trust, pur priva di rilievo teorico idoneo a supportare


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Esclusa l’esistenza di una imposta “sulla costituzione di vincoli di destinazione” in sé, in linea di principio la trasmissione di questa specifica situazione soggettiva risulterebbe pertanto idonea a giustificare l’applicazione dell’imposta di registro, per la variazione nella titolarità dei beni, oltre che per la necessità di dare pubblicità della limitazione nel loro dominio a carico del nuovo titolare, quindi per la modificazione in termini “qualitativi” che sulla condizione giuridica dei beni stessi si realizza. La stessa assegnazione, tuttavia, ove riconducibile ad un disegno di natura gratuita o liberale, dovrebbe essere ricompresa nello svolgimento di quest’ultimo, e quindi valutata secondo i riferimenti del sistema dell’imposta sulle successioni e donazioni, ove non potrebbe che essere considerata come un mero passaggio strumentale alla realizzazione di una attribuzione gratuita o liberale non ancora attuale, e per tale motivo, quindi per l’assenza di qualsiasi arricchimento effettivo del fiduciario, non potrebbe giustificare l’applicazione immediata dell’imposta in discorso, dovuta solo al momento del verificarsi di quel vantaggio patrimoniale definitivo di cui si è detto, e quindi alla definitiva realizzazione dell’assetto perseguito mediante il trust (45). 6. La sentenza qui in commento, dunque, parte dalle premesse gettate dalla Sezione tributaria nel 2016, condividendo con essa la inesistenza di una imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione pura e semplice, e la

un riconoscimento di personalità giuridica in capo al trust stesso, O. Moschetti, Le formalità trascritte a favore e contro il trust, in Trusts, 2014, 487. Tutto quanto sopra meriterebbe tuttavia di essere riconsiderato, sempre in una prospettiva eminentemente pratica, alla luce della più recente interpretazione della giurisprudenza di legittimità, che ha ad esempio censurato la trascrizione di un pignoramento nei confronti del trust stesso, considerato “soggetto inesistente” (Cass., sez. III, sent. 27.01.2017, n. 2043), rendendo quindi preferibile l’esecuzione della trascrizione senza indicazioni, a favore o contro, che abbiano a soggetto il trust stesso, riferendo invece ogni passaggio al trustee, dando evidenza della sua condizione. (45) Anche l’attribuzione di una natura di “imposta d’atto”, che risulta compiuta in via generale con riferimento sia all’imposta di registro che a quella sulle successioni e donazioni, o sulla costituzione di vincoli di destinazione, ad esempio nell’ordinanza della sez. VI n. 3737/2015 (ma limitata alla sola imposta di registro nella sentenza n. 21614/16 della sez. tributaria), dalla quale si vorrebbe far discendere l’applicabilità del tributo per il mero subentro del fiduciario nella formale titolarità dei beni oggetto del trust, appare fuori luogo. Infatti, con la denominazione in discorso si designano tradizionalmente le imposte in relazione alle quali la ricorrenza del presupposto deve essere indagata a partire dal contenuto “astratto” del negozio posto in essere, o del fatto verificatosi, e dagli effetti giuridici che ne discendano, non essendo pertanto in alcun modo preclusa una indagine sulle conseguenze di natura giuridica che l’atto è concretamente idoneo a produrre.


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necessaria sussistenza di un reale trasferimento di beni e diritti per l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, sviluppando tuttavia il suo percorso argomentativo in una differente direzione. Delineato il trust come «un’entità patrimoniale costituita da un insieme di rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente, in rapporto a beni posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato», la Corte, contraddicendo l’interpretazione data dal contribuente, nega infatti per prima cosa che sia possibile, «per il solo fatto che il consenso prestato riguarda un vincolo su beni muniti di valore economico», applicare l’imposta di registro all’atto istitutivo di un trust. Tale affermazione è dichiaratamente fondata su una precedente decisione (46) nella quale, per la verità, il principio era stato affermato in senso diametralmente opposto, visto che, proprio riconoscendo il difetto di onerosità, si era negato che avessero contenuto patrimoniale le prestazioni oggetto di un atto di dotazione di un trust liberale - stipulato anteriormente al D.L. n. 262/2006 - con la conseguenza, però, che lo stesso atto era stato ritenuto insuscettibile di essere assoggettato all’imposta di registro proporzionale “residuale” di cui all’art. 9 tariffa, parte prima, D.P.R. n. 131/1986, per essere ricondotto a quella fissa di cui all’art. 11 della tariffa, parte prima. Il caso qui in commento, quindi, pare essere fondato su una erronea recezione del predetto principio di diritto, tralaticiamente ripreso a partire da una sentenza tornata a confermarlo soltanto pochi mesi fa (47), e qui infine richiamato per giungere alla conclusione per cui l’atto di dotazione del trust non sarebbe tout court riconducibile all’ambito applicativo dell’imposta di registro, a prescindere dagli assetti perseguiti (48).

(46) Uno dei precedenti richiamati dalla Corte è infatti la sentenza della Sez. tributaria, 18.12.2015, n. 25478, cit. (47) Cass., sent. 17.01.2018, n. 975, su cui T. Tassani, La Cassazione conferma il proprio orientamento, in Trusts, 2018, 276, nonché sia consentito il rinvio a quanto osservato in E.M. Bartolazzi Menchetti, Il contributo della Cassazione al chiarimento della disciplina del trust nelle imposte indirette, in Riv. Dir. Trib., suppl. online, 2018. (48) Si segnala, in chiusura della presente nota, l’intervento di una ulteriore e più recente sentenza della stessa Sezione tributaria, n. 15469 del 13.06.2018 (la data della cui camera di consiglio risulta in realtà precedente a quella della decisione in commento), nella quale si è ritenuta la dotazione di un trust – sulle cui caratteristiche difettano tuttavia particolari – soggetta ad imposta di registro in misura fissa ex art. 11 Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986, in quanto il negozio in questione – anche in quel caso, sembrerebbe, stipulato prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 262/2006 – è stato considerato non “oneroso”, stante la mancata previsione di corrispettivi a carico del trustee (dunque identificando la non onerosità con


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Secondo la Corte, pertanto, la destinazione di beni ad un trust, pur istituito e dotato nel perseguimento di una causa dichiaratamente onerosa (quale era il pagamento dei creditori del disponente), dovrebbe sempre essere considerata insuscettibile di scontare l’applicazione dell’imposta di registro, e questo per la mancata previsione di un corrispettivo, da parte del trustee, a fronte di quello che i Giudici considerano come un “reale” (49) trasferimento di beni, attuato proprio in favore del fiduciario, e dunque, in definitiva, per la ritenuta non onerosità dell’atto di dotazione, nel quale ultimo, a tutti gli effetti si è ravvisato un atto gratuito, compiuto dal disponente in favore del gestore (50). Nella decisione qui commentata, la Corte afferma infatti che l’effetto ravvisato nell’atto di affidamento dei beni al fiduciario è considerato proprio quello di determinare un «trasferimento a favore dell’attuatore» (51), ossia direttamente del trustee, effetto la cui tassazione, considerata anche la ritenuta inapplicabilità dell’imposta di registro, deve essere ricondotta nell’ambito applicativo dell’imposta sulle successioni e donazioni. La Cassazione sembra pertanto aver considerato il negozio di dotazione del trust alla stregua di una vera e propria liberalità in favore del fiduciario, sul presupposto (erroneo), per cui sarebbe gratuito tutto ciò che non è corrispettivo (52), individuando lo stesso atto come idoneo a determinare un effettivo

la non corrispettività), e quindi non integrante una “operazione a contenuto patrimoniale”, non essendo a tal fine sufficiente, secondo la Corte, la mera “sucettibilità di valutazione economica” della prestazione, ma dovendo per essa intendersi, ai sensi dell’art. 43, comma 1, lett. h, D.P.R. n. 131/1986, una operazione di carattere corrispettivo. Conseguentemente, in tale ultimo caso non è stata ritenuta applicabile la tassazione “residuale”, con imposta proporzionale al 3%, prevista dall’art. 9 della Tariffa, parte prima, per gli “Atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”. (49) Tale caratteristica del trasferimento appare presupposta dalla Corte, come testimonia l’esplicito riferimento a tale aggettivo compiuto nella ricognizione dei principi espressi dalla precedente giurisprudenza della sezione tributaria, alla quale i Giudici espressamente dichiarano di aderire. (50) La Cassazione non manca di evidenziare come, a suo parere, il predetto “trasferimento” «faccia emergere la potenziale capacità economica del destinatario (immediato) del trasferimento», confermando quindi che la capacità contributiva che giustificherebbe la tassazione della vicenda sarebbe proprio un supposto arricchimento del trustee. (51) Pag. 11 dell’originale della sentenza. (52) Il problema circa l’individuazione della nozione di onerosità, e segnatamente in ordine alla possibilità di individuare assetti di tipo oneroso, non corrispettivo, è ancora fonte di grande dibattito. L’assimilazione tra onerosità e corrispettività, per cui sarebbe gratuito tutto ciò che non è corrispettivo, è sostenuta nei documenti di prassi dell’Agenzia delle Entrate, e tuttavia decisamente respinta da buona parte della dottrina, la quale osserva che l’onerosità si pone


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arricchimento del trustee stesso, realizzato con decremento del patrimonio del disponente (53). Ferma ogni riserva sulla concreta sussistenza, nella fattispecie, di un reale

in rapporto di genere a specie con la corrispettività (essendo specifica soltanto di quest’ultima l’esistenza di una “controprestazione”), e che pertanto la gratuità andrebbe semmai individuata quale opposto dell’onerosità, anziché della corrispettività (A. Fedele, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., 596; G. Fransoni, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, in Corr. trib., 2008, 646). In senso contrario, L’Amministrazione finanziaria descrive infatti gli atti a titolo gratuito come quelli, «che non prevedono a carico del beneficiario alcuna controprestazione, ma sono privi dello spirito di liberalità tipico delle donazioni» (Circ. 22 gennaio 2008, n. 3/E, par. 2), in tal modo estendendo la qualificazione di gratuità a tutti gli assetti non corrispettivi (G. Fransoni, Allargata l’imponibilità, cit., 647). Per quanto riguarda la giurisprudenza, la sentenza in commento dimostra un’adesione della Corte di Cassazione alle tesi dell’Amministrazione finanziaria, di cui si rinviene ulteriore conferma, nel diverso ambito dell’IVA, in Cass., sez. V, sent. 09.06.2017, n. 14407, commentata da G. Fransoni, Promesse “condizionate” a una prestazione, onerosità, contratti di scambio e imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., supplemento online, 2017. Il dibattito nel campo dell’imposta da ultimo menzionata, tuttavia, deve considerarsi tutt’altro che chiuso in ambito europeo, posto che la Corte di Giustizia ha sviluppato una propria nozione di “onerosità” appunto rilevante, in via di principio, e salve le assimilazioni previste per le cessioni prive di tale requisito, ai fini della integrazione del presupposto dell’I.V.A., così come descritto, sia per le cessioni di beni che per le prestazioni di servizi, rispettivamente alle lettere a) e c) del primo paragrafo dell’art. 2 della Direttiva 28.11.2006, n. 112. Un rapido sunto degli approdi giurisprudenziali può essere rinvenuto in P. Centore, L’IVA sui premi ed incentivi ancora alla ribalta della giurisprudenza, in Corr. trib., 2016, 345, il quale nota che l’operazione considerata onerosa dalla Corte di Giustizia è quella in cui sia presente «una controprestazione, intesa “in senso unionale”», ossia si verifichi “uno scambio di reciproche prestazioni, nel quale il compenso ricevuto dal prestatore costituisca il controvalore effettivo del servizio prestato all’utente” (CGE, 3 settembre 2009, causa C-37/08, RCI Europe, punto 24), «e che tale controprestazione sia riferibile alla prestazione, ancorché al difuori di un rapporto tutelato o tutelabile in sede giurisdizionale (sentenza C-498/99, Town & County Factors), anche in forma indiretta». Proprio questa “riferibilità” della “controprestazione” alla prestazione sembra lasciare aperta la possibilità di individuare il nesso in discorso in termini non necessariamente corrispettivi, e dunque anche semplicemente onerosi, per l’assenza di un diretto legame prestazione-controprestazione, e la presenza di un più lato rapporto di contemplazione, anche prospettica, delle reciproche “prestazioni”. Possono vedersi, in tema, le considerazioni formulate in E.M. Bartolazzi Menchetti, Rilevanza ai fini dell’imposta sul valore aggiunto degli sconti commerciali nell’ambito delle cessioni di beni, in V. Ficari - V. Mastroiacovo (a cura di), Corrispettività, onerosità, gratuità. Profili tributari, Torino, 2014., 498. (53) A testimoniarlo sono le indicazioni di principio più generali che la Corte fornisce, laddove indica che la rilevanza della costituzione dei vincoli di destinazione nell’ambito dell’imposta sulle successioni e donazioni è condizionata alla loro idoneità a determinare effetti traslativi, quindi al loro essere «collegati al trasferimento di beni e diritti, che realizzano un incremento stabile, misurabile in moneta, di un dato patrimonio con correlato decremento di un altro», situazione che evidentemente è stata ritenuta sussistente nel caso esaminato.


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trasferimento e dell’arricchimento del trustee (54), non risulta poi chiaro per quale motivo i Giudici giungano ad affermare che il vincolo di destinazione “traslativo” si produrrebbe «senza alcun effetto di segregazione del bene». L’effetto segregativo dovrebbe infatti risultare proprio delle destinazioni in tal modo attuate, ma ancor prima del trust stesso, nel quale la perdita di disponibilità dei beni da parte del disponente e la loro intangibilità per il trustee – ma anche, fino al momento della devoluzione, per gli eventuali beneficiari, e così per i creditori di tutti i soggetti appena richiamati che vantino pretese non riconducibili al trust stesso - costituiscono un requisito essenziale, come previsto dagli artt. 2 e 11 della Convenzione dell’Aja (55). Il discorso così sviluppato porta infine la Corte a concludere che i contraenti volessero effettivamente, proprio come i danti causa di una liberalità, «il reale il trasferimento delle quote e dei diritti al trustee, sia pure ai fini della liquidazione e quindi il reale arricchimento del beneficiario», individuato, come detto, nel trustee stesso. 7. In definitiva, il contenuto della sentenza in commento non appare del tutto soddisfacente, per le conclusioni raggiunte, ma anche per quella che è probabilmente la causa di tali esiti, ovvero la mancata considerazione sistematica dell’istituto del trust, nell’ambito delle imposte sui trasferimenti. La positiva riaffermazione dei principi fondamentali dell’imposta sulle successioni e donazioni, per cui non possono essere assoggettate a tale tributo che vicende nell’ambito delle quali si produca l’arricchimento effettivo di un soggetto, ottenuto con detrimento del patrimonio di un altro, il quale ultimo non riceva equivalenti movimentazioni di segno positivo, è stata infatti riba-

(54) Non può infatti essere ignorato il dato testuale dell’art. 2, comma 47, L. n. 262/2006, che parla di “trasferimenti di beni e diritti [..] a titolo gratuito”, e dunque precluderebbe di considerare rilevante per l’applicazione del tributo la qualificazione in termini gratuiti dell’atto in sé, inteso come mera costituzione di un assetto prospettico. Sulla nozione di “trasferimento” rilevante ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, A. Fedele, Il regime fiscale, cit., 595, che a tal fine si riferisce «all’attitudine a produrre vicende che importano attribuzione di qualsiasi situazione giuridica (ma anche estinzione di situazioni giuridiche soggettive passive”, sinteticamente definibili solo in termini di “incremento patrimoniale”». (55) Convenzione relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento, firmata a L’Aja il 1 luglio 1985. Conseguentemente, il negozio che non rispettasse tali requisiti, e dunque non determinasse una separazione, in particolare, tra il patrimonio personale del trustee ed il fondo destinato al trust, a rigore non dovrebbe essere neppure riconosciuto come trust.


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dita a parole, senza, inspiegabilmente, essere poi messa in pratica, giungendo infatti a considerare il trustee stesso beneficiario di un reale trasferimento, e dunque di un effettivo arricchimento, nonostante i caratteri propri della posizione in cui egli effettivamente subentra, con gli oneri di cui essa è gravata, puntualmente esplicitati, in via cautelativa, dai contraenti. Inoltre, la categorica negazione della possibilità di fare applicazione dell’imposta di registro risulta raggiunta, come visto, mediante acritico richiamo ad una giurisprudenza non attinente al caso, circostanza che ha precluso che fosse posto in essere uno studio – dagli esiti sicuramente interessanti avente ad oggetto la possibilità di applicare alla dotazione di trust l’imposta di registro, e questo nonostante si fosse in presenza di una situazione attinente l’adempimento di un debito preesistente, nella quale, quindi, non ricorrevano in alcun modo assetti liberali, né, in termini più generali, gratuiti. Evidentemente, verificata l’assenza di un assetto corrispettivo per difetto di una controprestazione a carico del trustee, si è giunti alla conclusione per cui la vicenda sarebbe stata senz’altro non onerosa, quindi priva di quell’«elemento essenziale cui connettere la nozione di “prestazione a contenuto patrimoniale”, ex art. 9 della tariffa» (56), senza alcuna indagine circa la possibilità di qualificarne il carattere come oneroso-non corrispettivo, resa probabilmente superflua dall’identificazione, compiuta dalla Corte di Cassazione, tra i concetti di onerosità e corrispettività (57).

(56) Così è indicata l’onerosità nella sentenza in commento. (57) Sembra opportuno evidenziare, al fine di contestare la assimilazione in discorso, che il testo unico dell’imposta di registro prevede l’assoggettamento a tale tributo di atti che determinano assetti semplicemente onerosi, e non corrispettivi. Un esempio si rinviene per il contratto di comodato, testualmente contemplato nell’art. 5, comma 4, della Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986, nel quale gli obblighi di conservazione del bene a carico del comodatario ex art. 1804 c.c. - ove pure non si voglia considerare rilevante la sussistenza di un interesse del comodante alla concessione del bene - dimostrano l’assenza di gratuità, senza che sia configurabile un nesso di corrispettività. Si è inoltre segnalato l’indirizzo della Corte di Cassazione che escluderebbe la corrispettività nei negozi unilaterali (Cass., sez. V, sent. 09.06.2017, n. 14407, su cui G. Fransoni, Promesse “condizionate” a una prestazione, cit.). In proposito, ove dovesse accettarsi che la assenza di corrispettività escluda la possibilità di applicazione dell’imposta di registro, ci si scontrerebbe con il testo del D.P.R. n. 131/1986 e la sua interpretazione anche in relazione al contratto di mutuo, pacificamente ricompreso, ove non riconducibile all’ambito dell’IVA o dell’imposta sostitutiva cui agli artt. 15-20 bis del D.P.R. n. 601/1973, nella previsione di cui all’art. 9 della Tariffa, parte prima, eppure considerato dalla Dottrina, anche in considerazione del suo carattere reale, negozio unilaterale [G. Giampiccolo, (voce) Mutuo (dir. priv.), in Enc. Dir., XXVII, 450], per essere le obbligazioni che seguono la conclusione del contratto a carico


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In questo si concreta probabilmente la maggiore contraddizione della decisione qui in commento, ossia nell’aver censurato l’interpretazione della Sez. VI, che riteneva il trust soggetto in ogni caso alla “nuova imposta” sulla costituzione di vincoli di destinazione, e tuttavia essere giunta alla conclusione di non consentire di applicare ad esso l’imposta di registro neppure allorché esso si ponga manifestamente come strumento per realizzare un’attribuzione onerosa, e questo per la mancata individuazione di un assetto corrispettivo nel particolare dell’atto di dotazione, dal disponente al trustee. L’equivoco trova causa, probabilmente, anche nell’interpretazione dell’Amministrazione finanziaria, secondo la quale il negozio di dotazione di trust dovrebbe comunque intendersi quale “atto a titolo gratuito” (58), pertanto ricomprensibile nell’ambito applicativo dell’imposta sulle successioni e donazioni, secondo la formula testuale di cui all’art. 2, comma 47, D.L. n. 262/2006 (59). Così opinando, si cade, però, nello stesso errore che la sentenza in commento addebita alla giurisprudenza della Sez. VI, poiché se l’indice assunto dal tributo in discorso resta, secondo l’interpretazione della sezione tributaria cui si dichiara di aderire, l’arricchimento del beneficiario dell’atto liberale (o quantomeno gratuito), e comunque non oneroso, nel caso esaminato dovrebbe negarsi l’applicabilità dell’imposta sulle successioni e donazioni, per assenza di un effettivo arricchimento del trustee. È mancata, anche in questo caso, una considerazione complessiva del trust (60), e soprattutto della posizione giuridica che effettivamente si assegna al trustee sui beni nella cui formale titolarità subentra, e di quanto il disponente intendeva suo tramite realizzare. In capo al fiduciario viene espressamente configurata la sussistenza di una capacità economica quale diretto effetto «del trasferimento» ricevuto, corrispondente ad un «reale arricchimento» di tale soggetto – si immagina, stante la base imponibile adottata, pari al valore delle quote nella cui titolarità suben-

del solo mutuatario. (58) In particolare, circ. n. 48/E-2007, cit., nella quale espressamente si indica che «L’atto dispositivo con il quale il settlor vincola i beni in trust è un negozio a titolo gratuito». (59) In questo modo, tuttavia, oltre a considerare erroneamente produttivo di immediate attribuzioni patrimoniali - peraltro gratuite - l’atto con cui i beni vengono strumentalmente assegnati al trustee per la realizzazione del disegno del disponente, viene indebitamente ampliato, mediante un argomento testuale, il presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni. (60) Necessità evidenzitata da G. Gaffuri, L’imposta, cit., 476.


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tra – sul quale cadrebbe addirittura la precisa volontà del disponente, il tutto in contrasto con la finalità stessa – solutoria – per la quale il settlor aveva dato vita al trust (61). La contraddizione è evidente, posto che in questo modo si considera liberalità ciò che per il disponente è un atto dovuto, volto cioè a garantire la soddisfazione dei suoi creditori realizzando, per il tramite del trust e del trustee, la liquidazione del proprio patrimonio solvendi causa, con ciò ponendo l’attenzione soltanto su un singolo passaggio di una vicenda molto più complessa. Nello stesso senso depongono infine le affermazioni secondo cui il negozio di dotazione non determinerebbe l’insorgere di alcun vincolo di destinazione, contrastanti con il contenuto stesso del trust così come individuato nella Convenzione dell’Aja del 1985. 8. Per tutti i motivi appena espressi, se alla sentenza in commento può essere riconosciuto il merito di avere contribuito a confutare le tesi della Sez. VI, tuttavia deve contestarsi che ciò è avvenuto mediante una affermazione di principio rimasta lettera morta. La decisione desta infatti perplessità per aver richiamato, senza neppure una adeguata valutazione di ordine sistematico riferita al tributo che si andava ad individuare come dovuto, alcuni argomenti a favore dell’applicazione immediata dell’imposta sulle successioni e donazioni alla dotazione del trust che si ritenevano ormai superati, alla luce dell’oggetto del dibattito sfociato nelle sentenze di legittimità intervenute precedentemente a quella commentata. In particolare, l’individuazione nella dotazione del trust di un effettivo trasferimento in favore del trustee, tale da concretare un vero e proprio arricchimento di tale ultimo soggetto, e dunque da giustificare la sottoposizione del negozio a imposta proporzionale sulle successioni e donazioni, risulta una soverchia forzatura, funzionale soltanto ad esigenze di certezza di gettito, che in materia di trust portano a colpire con imposta proporzionale tutti gli atti, anche solo propedeutici a veri e propri trasferimenti, sottoposti a registrazione. Questa tendenza mortifica tuttavia l’impianto teorico sviluppatosi in ordi-

(61) Nella sentenza n. 21614/2016, cit., la Sez. tributaria aveva posto in evidenza il fatto che la considerazione della dotazione del trust come un trasferimento, imponibile e definitivo, al trustee, di per sé assoggettabile ad imposta sulle successioni e donazioni, si sarebbe posta in contrasto con il «programma negoziale di donazione indiretta per cui è stato predisposto e che prevede la temporanea preservazione del patrimonio a mezzo della sua segregazione fino al trasferimento vero e proprio a favore dei beneficiari».


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ne all’imposta sulle successioni e donazioni, prima e dopo la sua reistituzione ad opera del D.L. n. 262/2006, con effetti non soltanto di disordine sistematico, ma anche di svilimento del principio costituzionale di capacità contributiva, che in questo modo appare piegato alle esigenze di gettito e relative cautele. L’auspicio è che, al di là delle statuizioni di principio, possa emergere in seno alla Suprema Corte un chiaro indirizzo volto a rivalutare, nel solco tracciato dalla Sezione tributaria con la sentenza n. 21614/2016, un attento studio delle situazioni giuridiche di cui il trust si compone e del sistema dell’imposizione sui trasferimenti, in relazione ad esso. In particolare, sembrerebbe opportuno che, chiarita l’insussistenza di una pretesa imposta “sulla costituzione di vincoli di destinazione”, il trust e le vicende in cui esso si esplica potessero trovare adeguata collocazione all’interno dell’imposta di registro allorché attinenti, come nel caso oggetto della sentenza in commento, assetti di tipo oneroso, a cui l’istituto in discorso, per la sua grande versatilità, si presta particolarmente, e per i quali l’impiego incondizionato dell’imposta sulle donazioni presenta manifesti profili di ingiustizia. Questo, ovviamente, nella sola ipotesi in cui le incertezze delineate non dovessero, – come sarebbe naturalmente preferibile – essere risolte da un intervento specifico del legislatore, da più parti già concordemente sollecitato (62).

Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti

(62) Da ultimo, A. Fedele, Vincoli di destinazione, cit., 62.



Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli

Il risparmio di imposta quale discusso presupposto dell’autoriciclaggio: un problema risolto? Sommario: 1. Questioni suscitate in materia tributaria dal nuovo reato di autoriciclaggio. – 2. Le condotte punibili a titolo di autoriciclaggio. – 3. L’utilizzazione ed il godimento personale. – 4. Le società personali. – 5. La non imputabilità o non punibilità dell’autore del delitto. – 6. La giurisprudenza in materia. – 7. Il trasferimento fraudolento di valori. – 8. La responsabilità amministrativa degli enti. L’introduzione nel codice penale italiano del nuovo reato di “autoriciclaggio” (art. 648 ter 1 c. p.) pone il delicato problema, per lo più risolto in senso affermativo dalla giurisprudenza, dell’applicabilità del reato stesso in materia, dato che la maggior parte dei reati fiscali non si riferisce a denaro (nuovo) entrato nelle casse dell’impresa ma semplicemente consiste in un risparmio di imposta. The insertion of the new crime of “self-laundering” (Article 648 ter 1 of the Criminal Code) in Italian penal code poses the crime applicability problem in this matter, mostly solved in the affirmative sense in the jurisprudence, given that most part of the tax offenses does not refer to money (new) entered into the enterprise coffers but simply consists of a tax saving.

1. Questioni suscitate in materia tributaria dal nuovo reato di autoriciclaggio. – Con L. 186/2014 è stato inserito nel codice penale l’art.648-ter 1 dal titolo “Autoriciclaggio”, che punisce con la reclusione da due a otto anni e la multa da 5.000 a 25.000 euro “chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative il denaro, i beni o le altre attività provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.


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Il c. 2 prevede un’aggravante (reclusione da uno a quattro anni e multa da 2.500 a 12.500 euro) “se il denaro, i beni o le altre utilità provengono dalla commissione di un delitto non colposo punito con la reclusione inferiore nel massimo a cinque anni”. Il c. 3 prevede che “si applicano comunque le pene previste dal primo comma se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da un delitto commesso con le condizioni o le finalità di cui all’art.2 DL 13/5/1991 n. 152 convertito con modificazioni dalla L. 12/7/1991 n. 203 e successive modificazioni”. Senza potersi qui entrare nell’analisi di tutti gli elementi costitutivi di tale nuova fattispecie criminosa (1), merita portare l’attenzione sull’analisi dell’espressione “provenienti dalla commissione” del delitto-base, con specifico riferimento alla questione se i delitti tributari (nella specie quelli di cui al D.Lgs. 74/2000 mod. D.Lgs. 158/2015) possano essere considerati come presupposto del reato in questione. In altre parole occorre chiedersi se possa essere inquadrato in tale categoria un reato tributario che non abbia prodotto l’inserimento di denaro “nuovo” nelle casse dell’autore del fatto, ma semplicemente un “risparmio di imposta”, come normalmente avviene per tutti (o quasi) i reati tributari, il cui effetto normale, com’è facile comprendere, non consiste nell’incameramento di somme (da parte dello Stato o di altro ente pubblico), ma soltanto, appunto, nella conseguenza che determinate somme, che avrebbero dovuto essere versate all’Erario, non sono state invece versate allo stesso. È sufficiente, al riguardo, passare in rassegna i contenuti delle fattispecie criminose di cui alle citate norme penal-tributarie per rendersi conto che il loro effetto consiste unicamente (o quasi sempre) nell’aver risparmiato un “plus” economico che avrebbe dovuto essere versato all’Erario, e quindi appunto in un mero risparmio di imposta.

(1) In argomento v., tra gli altri, S. Capolupo, Autoriciclaggio e reati tributari, in Il Fisco, 2016, 35, 3355; I. Caraccioli Sistema sanzionatorio penale tributario e autoriciclaggio: le criticità secondo Assonime, in Il Fisco, 2017, 2, 162; R. Cordeiro Guerra, Reati fiscali ed autoriciclaggio, in Rass. trib., 2016, 2, 316; B. Ferroni, Responsabilità amministrativa degli enti, reati tributari e autoriciclaggio, in Il Fisco, 2015, 27, 2656; G. Gambogi, Autoriciclaggio e reati fiscali: un rapporto tutt’altro che semplice, in Dir. e giustizia, 2015, Id., Riciclaggio e autoriciclaggio, Milano, 2015; A. Traversi - S. Gennai, Diritto penale commerciale, 3a ed., Milano, 2017, 341 Diritto penale, a cura di G. Marinucci - E. Dolcini, t. III, 3a ed., Milano, 2011, 6574 ss. Per citazioni giurisprudenziali v.G.Lattanzi, Codice penale annotato con la giurisprudenza, 13a ed., 2017, p.2113.


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Per potersi, infatti, individuare delle condotte criminose attraverso le quali, invece, l’Erario è costretto a versare somme di denaro al contribuente, e quindi concretantesi in una vera e propria acquisizione di denaro da parte del contribuente stesso occorre fare riferimento a situazioni particolari non comprese nella serie di reati di cui al D.Lgs. 74 cit. Un esempio può essere quello di una falsa richiesta di rimborso dell’IVA, che lo Stato si vede costretto a versare al contribuente in conseguenza di una mendace dichiarazione o di artifizi o raggiri dallo stesso posti in essere. In questo ultimo senso si è talvolta pronunciata la giurisprudenza di merito nel caso di artifizi o raggiri appunto posti in essere da contribuenti che avevano prodotto come risultato l’induzione in errore dell’A.F. ed il suo conseguente versamento di somme al contribuente ingannatore. Il problema ora indicato è stato, quindi, talvolta esaminato in giurisprudenza con riferimento all’applicabilità dell’art.640 c. p. in relazione alla punibilità di condotte in materia fiscale non specificamente prese in considerazione dal Legislatore, per cui si sono formate due diverse correnti di pensiero: - una che sostiene, in casi di questo genere, l’applicabilità delle norme del codice penale comune (nella specie, quelle sulla truffa aggravata ai danni dello Stato: art. 640 cpv. n. 1 c. p.); - l’altra che sostiene che le materie specialistiche (nella specie, appunto, il diritto penale fiscale) sono da considerare un “hortus conclusus” e quindi non vi si possono applicare le norme generali del codice (2). Il problema era stato esaminato a suo tempo, ad esempio, con riguardo al diritto penale militare (3), che è disciplinato da un codice apposito, la cui presenza dimostrerebbe la volontà del Legislatore di non potersi applicare in questi casi le norme comuni del codice.

(2) I. Caraccioli, Reati tributari ed autoriciclaggio: questioni di compatibilità, in Norme e Tributi Mese, 2017, 7. Sui rapporti tra autoriciclaggio ed illeciti fiscali, in generale, v. C. Santoriello, Il nuovo reato di autoriciclaggio: profili problematici, in Società e Contratti, Bilancio e revisione, 2017, 11, 91; Id., Il rapporto tra reato di autoriciclaggio ed illeciti fiscali, ivi, 109; Id., Difficile contestare il riciclaggio in caso di reimpiego dell’imposta evasa, in Eutekne, 20/8/2018. Sui rapporti tra frode fiscale e in generale tra truffa ed autoriciclaggio, con ampia trattazione v. A. Mereu, La frode Iva tra truffa e frode fiscale: il concorso apparente di norme. Concorso di reati al vaglio delle sanzioni unite della Corte di Cassazione, in Diritto di pratica tributaria, 2011, 2, 20337; C. Santoriello, Niente concorso tra frode fiscale e truffa ai danni dello Stato, Commento, in Il Fisco, 2016, 17, 1692. (3) Sul tema v. la bella monografia di R. Venditti, Il diritto penale militare nel sistema penale italiano, 5a ed., Milano, 1985.


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Orbene, a favore della tesi stessa, quanto al settore del diritto penale militare, si può sostenerne la validità in quanto trattasi di un vero e proprio codice (appunto il codice penale militare), mentre nel caso del diritto penale tributario trattasi soltanto di comuni norme di diritto penale speciale. Pare dunque maggiormente sostenibile la soluzione dell’applicabilità delle comuni norme della parte speciale del diritto penale, tra cui appunto quello tributario, di cui qui si tratta. Accettando le conseguenze sistematiche che precedono non si può, quindi, ritenere strutturalmente inapplicabile l’art.648 ter 1 c. p. alla materia tributaria. Il punto è solo quello di esaminare se, alla luce della descrizione degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa in esame, si possano ritenere punibili le condotte ivi descritte. Il problema, ripetesi, si pone concretamente in quanto ci si deve chiedere se l’oggetto delle attività punibili, descritto come “utilità provenienti dalla commissione” del delitto, possa riguardare, non somme di denaro concretamente introdotte nel patrimonio del contribuente, ma il mero risparmio di imposte derivante dalle condotte poste in essere, nelle quali normalmente (se non quasi sempre) consiste il reato tributario. In dottrina questa tesi è stata sostenuta alla luce di una lettura rigorosa del linguaggio usato dal Legislatore, ma la giurisprudenza, peraltro, attraverso un’interpretazione sistematica e non letterale, ha nella sua stragrande maggioranza aderito alla diversa tesi secondo la quale anche il risparmio di imposta può dare luogo alla fattispecie dell’autoriciclaggio. Sebbene tale più ampia interpretazione possa, in astratto, suscitare parecchie perplessità, si deve comunque prendere atto che la giurisprudenza è, come è noto, comunemente orientata nel senso della punibilità a titolo di autoriciclaggio anche dell’utilizzo, nelle forme prese in considerazione dalla norma, del denaro proveniente dal mancato pagamento, totale o parziale, delle imposte (reddito o IVA). 2. Le condotte punibili a titolo di autoriciclaggio. – Ciò dato occorre allora muovere dall’esame delle condotte specificamente individuate dal Legislatore come punibili a titolo di autoriciclaggio: “impiego”, “sostituzione”, “trasferimento”. Quale prima osservazione si deve fare quella che le formule in esame sono talmente ampie da potersi in esse ricomprendere tutte le condotte ipotizzabili. Rimane fuori solo quella della “distruzione”, ma appare difficile ipotizzare il caso dell’autoriciclatore che, una volta ottenuta la somma, la distrugga e,


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comunque, anche in un caso del genere si può ricondurre tale comportamento alla fattispecie dell’impiego (in concreto sia pure anomalo). Per correttamente rispondere alla domanda si può allora facilmente giungere alla conclusione che le condotte descritte dal Legislatore comprendono, ad esempio, l’utilizzo delle somme in qualsiasi operazione economica diretta a far rientrare le stesse in ogni tipo di acquisto di beni, in qualsiasi modo realizzato; nella trasformazione del bene (denaro o altro) in altra entità economica o patrimoniale; nello spostamento del denaro o della cosa in qualsiasi altra realtà economico-patrimoniale. Gli esempi al riguardo si possono moltiplicare. Quello che in nessun caso può mancare è il risultato (evento) di tali condotte: “in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. Non si tratta, peraltro, di un evento naturalistico che debba effettivamente realizzarsi, essendo sufficiente che la condotta possieda caratteristiche strutturali idonee a produrre il risultato medesimo, sia esso poi effettivamente, oppure no, raggiunto. L’aggiunta alla formula dell’avverbio “concretamente”, a suo tempo oggetto di discussione, vuole significare che il reato si verifica anche se il risultato non sia raggiunto, ma il giudice, in base agli elementi del fatto concreto, possa ritenere che nella condotta esistevano tutte le caratteristiche sufficienti per giungere a tale risultato. Nulla impedisce, in casi di questo genere, che, sussistendone gli estremi, il fatto possa essere punito a titolo di tentativo. Il c. 2 prevede una circostanza attenuante (reclusione da uno a quattro anni e multa da 2.500 a 12.500 euro) “se il denaro, i beni o le altre utilità provengono dalla commissione di un delitto non colposo punito con la reclusione inferiore nel massimo a cinque anni”. Il c. 3 prevede che “si applicano comunque le pene previste dal primo comma se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da un delitto commesso con le condizioni o le finalità di cui all’art.7 DL 152/1991 conv.L. 203/1991” in materia di criminalità organizzata (4). 3. L’utilizzazione ed il godimento personale. – Discussioni interpretative suscita l’analisi della causa di non punibilità di cui al c. 4: “Fuori dei casi di

(4) V. le citazioni dottrinarie e giurisprudenziali su tale fattispecie: in particolare v. Lattanzi, op. loc. cit.


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cui ai commi precedenti non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale”. La causa di non punibilità in esame non suscita particolari problemi interpretativi quando il bene od i denaro provenienti dal reato (ad es. abitazione, autovettura, gioielli, denaro, ecc. ) sono goduti dallo stesso autore del reato. Problemi si pongono, invece, nel caso si tratti di altri soggetti, ad es. familiare o convivente coabitante nell’appartamento, ovviamente consapevoli della provenienza del bene. In materia, comunque, si deve ragionare con il criterio generale per le cause di non punibilità di cui all’art.59 c. p.: il c. 1 dispone che “le circostanze che escludono la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute o da lui per errore ritenute inesistenti”; il c. 4 dispone che “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena queste sono sempre valutate a favore di lui” (5). Nel caso, dunque, ad es., che la convivente dell’autore del reato-base non sappia che l’appartamento nel quale abita è frutto di un autoriciclaggio commesso dal convivente non potrà essere punita per mancanza di dolo. 4. Le società personali. – In relazione a tale disposizione si pone poi un problema particolarmente interessante nel caso che il bene provenga da un’operazione di autoriciclaggio commessa nell’ambito di una società di persone. L’espressione “godimento personale” può riferirsi anche a tale caso ? Si ipotizzi una coppia di coniugi che gestiscono insieme un ristorante, dedicandosi la moglie solo alla cucina ed occupandosi il marito di tutte le questioni gestionali ed amministrative connesse. Può ritenersi applicabile la causa di non punibilità alla donna, sempre che a suo carico sia dimostrata la sussistenza del dolo relativo al reato fiscale (ad es. dichiarazione fraudolenta di cui agli artt.2 e 3 D.Lgs. 74)? A favore di un’interpretazione restrittiva si potrebbe portare l’osservazione che la “personalità” in questione non può riferirsi alle società personali che svolgono comunque attività di tipo economico, dovendo essere pertanto ristretta agli aspetti che non attengono a condotte rientranti nell’ambito imprenditoriale. Peraltro riteniamo preferibile la tesi estensiva, capace di

(5) V. anche, per ampie citazioni dottrinarie e giurisprudenziali, M. Ronco S.Ardizzone, Codice penale ipertestuale, Torino, 2003, 399 ss.


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ricondurre la causa di non punibilità in esame anche a situazioni giuridicamente qualificabili come caratterizzate dalla “personalità”. Non suscita particolari problemi la disposizione del c. 5 dell’articolo in esame, che prevede che “la pena è aumentata quando i fatti sono commessi nell’esercizio di un’attività bancaria o finanziaria o di altra attività professionale”. Per quanto riguarda l’ultima ipotesi l’aggravante è da riferire soltanto all’esercizio lecito di attività professionale, in quanto i c. d. “abusivi” rispondono del reato di esercizio abusivo di attività professionale di cui all’art.348 c. p. Il c. 6 prevede che “la pena è diminuita fino alla metà per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l’individuazione dei beni, del denaro e delle altre utilità provenienti dal delitto”. Trattasi di una circostanza attenuante prevista per favorire il c. d. “pentimento post-delictum”, concretizzato da comportamenti finalizzati alla verificazione di danni ulteriori derivanti dalla condotta posta in essere, come ad es. nel caso che ci si dia da fare per individuare il precedente comportamento che ha reso possibile il nascondimento delle somme oggetto di illecita utilizzazione precedente. 5. La non imputabilità o non punibilità dell’autore del delitto. – Va infine ricordato il rinvio operato dal c. 7 dell’art.648-ter 1 all’ultimo comma dell’art.648 c. p. (ricettazione), secondo il quale “le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando l’autore del delitto da cui il denaro o le cose provengono non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto”. Si pensi al caso, per quanto riguarda la problematica che qui interessa, che il reato-base (ad es. dichiarazione fraudolenta) sia estinto per una causa di punibilità prevista dall’art.13 D.Lgs. 74/2000 mod. D.Lgs. 158/2015 (integrale pagamento degli importi dovuti). Tale speciale causa di estinzione del reato tributario che ha dato luogo alla non punibilità dello stesso non fa venir meno la autonoma responsabilità per autoriciclaggio, che appunto rimane. La particolare struttura del reato in esame rende quindi, per così dire, indipendente la responsabilità di chi commette autoriciclaggio dall’autore precedente del reato-base. La disposizione in esame si riconnette, d’altronde, al principio generale di cui all’art.170 c. 1 c. p., secondo il quale “quando un reato è presupposto di un


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altro reato, la causa che lo estingue non si estende all’altro reato” (6). Se, dunque, ad es., il reato tributario si estingue per intervenuta prescrizione, tale avvenimento non produce l’automatica estinzione del reato di autoriciclaggio di cui vengano riconosciuti i presupposti. 6. La giurisprudenza in materia. – Arrivati a questo punto occorre passare ad esaminare la (scarsa) giurisprudenza formatasi sulla fattispecie criminosa in esame per vedere, al di là dello specifico problema dell’applicabilità della fattispecie in materia penale-tributaria, come la giurisprudenza abbia reagito alla (contrastata) introduzione della fattispecie medesima. Con una sentenza del 2015 è stato affermato che “per configurare il reato previsto dall’art.648-ter 1 c. p. non è necessario che la condotta di reimpiego abbia una concreta idoneità dissimulatoria, essendo la fattispecie orientata in via principale a tutelare il fisiologico sviluppo del mercato che deve essere preservato dall’inquinamento che deriva dalla immissione di capitali illecita” (7). La S.C., in sostanza, ha voluto affermare che l’impiego in qualunque modo delle somme derivanti da un reato-base (tra cui quelli fiscali), e quindi anche determinanti un mero risparmio di imposta, può dare luogo a punibilità per autoriciclaggio. 7. Il trasferimento fraudolento di valori. – Con altra sentenza del 2016 è stato invece sostenuto che “non integra il delitto di autoriciclaggio il versamento del profitto di furto su conto corrente o su carta di credito prepagata, intestati allo stesso autore del reato presupposto”. Nella motivazione la S.C. ha precisato che “tale deposito non può considerarsi, secondo le indicazioni rispettivamente fornite dall’art.2082 c. c. e dall’art.106 T.U. in materia bancaria e creditizia, come attività “economica” o “finanziaria”, e non costituisce comunque, a mente dell’art.649-ter 1 c. p.,attività idonea ad occultare la provenienza delittuosa del denaro oggetto di profitto”. Trattasi, questa, di precisazione interessante in quanto strettamente fondata sul preciso significato delle espressioni “attività economica o finanziaria”, non dilatate sino a comprendervi il mero deposito delle somme oggetto del reato precedente. Con altra interessante decisione la S.C. ha recentemente precisato che “il delitto di trasferimento fraudolento di valori di cui all’art.12-quinquies

(6) Cf. anche per le citazioni, M. Ronco - S. Ardizzone, op. cit, 774 ss. (7) V. G. Lattanzi, op. loc. cit; v. anche la giurisprudenza citata in precedenza.


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D.L. 306/1992 concorre con il delitto previsto dall’art.640-ter 1 c. p., in quanto la condotta di autoriciclaggio non presuppone e non implica che l’autore di essa ponga in essere anche un trasferimento fittizio ad un terzo dei cespiti rivienienti dal reato presupposto”. Nella motivazione si è specificato che “il coinvolgimento necessario di un soggetto prestanome impedisce di ricomprendere tale ulteriore condotta in quelle operazioni idonee ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni, indicate nel predetto art.648-ter 1 e riferibili al solo soggetto agente del reato di autoriciclaggio o a chi si muova per lui senza aver ricevuto autonoma investitura formale” (8). Alla stregua, dunque, dell’intenzione manifestata dal Legislatore con l’introduzione di tale nuova fattispecie criminosa e dei primi orientamenti giurisprudenziali in materia – a parte la specifica problematica della concorrenza del reato con altre e distinte fattispecie criminose, previste nel codice penale ed in leggi speciali antecedenti – risulta evidente che la mera consumazione del reato-base di natura fiscale non impedisce la concorrente responsabilità per autoriciclaggio a carico dello stesso soggetto, o di suoi complici, per quelle ulteriori condotte tendenti al concreto conseguimento del frutto economico dello stesso reato-base. Quanto precede, comunque, non si può negare, dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che il Legislatore non si accontenta di sanzionare penalmente chi commette reati contro il Fisco, ma pretende, sotto pena di ulteriore sanzione penale di sanzionare anche chi, commesso il reato tributario, si adoperi successivamente per impedire il riconoscimento del reato medesimo attraverso condotte rivolte a disperdere o mascherare i beni stessi. Trattasi, in altre parole, com’è evidente, di un orientamento penalistico diverso da quello seguito in generale dal Legislatore (segnatamente dal codice penale) in altri, più generali, settori del diritto penale. Ad es., chi ha commesso un furto e trattiene per sé il maltolto, risponde solo di furto e non anche (perché sarebbe palesemente assurdo) di appropriazione indebita per non avere restituito la cosa rubata. Nella specifica materia che ne occupa, infatti, il comportamento tendente al risultato economico principale risulta essere necessariamente accompagnato (e seguito) anche dalla punibilità della mancata restituzione della cosa o del bene stesso. Siamo, dunque, in presenza di un diverso e più repressivo orientamento

(8) V. n. 7.


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legislativo che, in determinate materie, ritenute di particolare rilevanza sociale, vuole continuare, pur dopo la commissione del reato-base, a perseguirne penalmente gli effetti ulteriori. 8. La responsabilità amministrativa degli enti. – Il delitto di autoriciclaggio è ricompreso tra quelli per i quali è prevista la responsabilità amministrativa degli enti: l’art.25-octies D.Lgs.231/2001 stabilisce che “si applica all’ente la sanzione pecuniaria da 200 a 800 quote” (da 400 a 1000 quote “nel caso in cui il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione superiore nel massimo a cinque anni”). Il c. 2 aggiunge che “nei casi di condanna per uno dei delitti di cui al c. 1 si applicano all’ente le sanzioni interdittive previste dall’art.9 c. 2 per una durata non superiore a due anni”. La previsione della responsabilità amministrativa per il reato di autoriciclaggio, in una con quella penale, ha suscitato osservazioni contrastanti in dottrina, sostenendosi che la mancata possibilità di irrogare tale sanzione per i reati tributari renderebbe meno efficace l’apparato sanzionatorio per il reato-base (appunto quello tributario) rispetto al reato successivamente compiuto. Non va, al riguardo, dimenticato che una forte corrente di pensiero, sostenuta anche dalla giurisprudenza, ritiene che sarebbe opportuno estendere la sanzione extra-penale anche ai reati fiscali. A parere dello scrivente tale mancata previsione, al contrario, si giustifica per il fatto che il reato tributario punisce il versamento delle imposte dovute con riferimento alla specifica responsabilità personale dei soggetti che lo hanno commesso, mentre l’illecito di cui all’art.25-octies cit. mira a sanzionare l’impresa in quanto tale per lo stesso fatto, e quindi il risultato sarebbe una duplicazione ingiustificata di sanzioni. Non ci si può, comunque, nascondere che le pressioni culturali e politiche per tale estensione sono molto forti. Per scendere più profondamente nell’esame dei casi concreti maggiormente verificabili si valuti, in relazione ai reati di cui agli artt.2 e 8 D.Lgs. 74 cit., il comportamento dei contribuenti che, mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, sia in utilizzazione che in emissione, non intendono ottenere un risparmio di imposta, perché in tali ipotesi non si pone la problematica di cui trattasi, ma che al contrario creano un danno per l’Erario mediante apprensione di denaro allo stesso appartenente. È il caso, ad esempio, dell’emittente di fatture da esso stesso confezionate (e relative a soggetto inventato o non più operante) il quale in tal modo si


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fa dare dall’Erario delle somme non dovutegli a titolo di rimborso di crediti inesistenti, in quanto si tratta della stessa persona (o ente) che dovrebbe versare le somme stesse, e quindi con un “surplus” di denaro che dovrebbe uscire dalle casse dello Stato. In tal caso, infatti, non si tratta di “risparmio” di imposta ma di effettiva apprensione di denaro all’Erario stesso. Nel caso degli artt.3 e 4 D.Lgs. 74 mod. D.Lgs. 158, alla stessa conclusione si deve arrivare se con tali comportamenti il contribuente va appunto a credito di imposta. L’ipotesi criminosa di cui all’art.5 stesso D.Lgs. (omessa dichiarazione) può dare luogo al risultato in questione nel caso di una società straniera, ritenuta “esterovestita”, ove, ritenuta invece italiana, risulti creditrice di somme nei confronti dell’Erario italiano, che quindi in tal modo diventa debitore della società. Con riferimento alla tematica da ultimo citata si possono avanzare le seguenti sintetiche osservazioni. Le violazioni a contenuto fiscale non sono solo quelle di carattere penale, essendo l’apparato penalistico ulteriore a quello strettamente tributario ampiamente disciplinato dallo stesso D.Lgs. 158 cit. Pertanto se sussistono gli estremi di una condotta di “autoriciclaggio” si applicano già all’ente le severe sanzioni amministrative di cui all’art.25-octies D.Lgs. 231/2001.Il fatto non rimane quindi privo di adeguata risposta da parte dello Stato. Non si vedono, dunque, le ragioni di applicare le stesse sanzioni nel caso che l’autoriciclaggio sia collegato ad un reato tributario compiuto da un singolo soggetto, al di fuori dell’appartenenza ad un ente, atteso che la norma penale in questione è stata inserita dal Legislatore in un settore del codice penale dedicato alla tutela del patrimonio, e quindi al di fuori di tematiche attinenti alla tutela della collettività, quali sono quelle che riguardano la materia fiscale. L’eventuale paragone che talvolta viene fatto con la confisca, che è misura di sicurezza patrimoniale applicabile per l’autoriciclaggio sulla base di quanto disposto nell’art. 240 bis c. p. non pare, al riguardo, essere rilevante. Il privato che commette autoriciclaggio in danno dell’Erario risulta sicuramente punibile ai sensi della norma relativa. Se l’illecito tributario penalmente rilevante è commesso da contribuente persona fisica gli si applica anche la confisca, come misura di sicurezza che il Legislatore prevede quale ulteriore tipo di sanzione per meglio completare il complessivo trattamento sanzionatorio. Sotto tutt’altro profilo deve invece essere considerata l’applicabilità della sanzione pecuniaria collegata alla responsabilità amministrativa delle persone


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giuridiche, la quale risulta essere stata prevista dal Legislatore per prevenire la commissione di determinati reati da parte delle società e degli enti. Invero, l’applicazione delle connesse sanzioni (sanzione pecuniaria “per quote” con struttura e finalità non comparabile, e comunque non riconducibile a quella essenziale della pena) risponde, non all’esigenza sostanziale di inasprimento del trattamento sanzionatorio, ma alla finalità (peraltro esclusiva) di impedire che la “società” (non la persona) commetta ulteriori reati. Questi concetti sono ampiamente esaminati e sviluppati nella recente dottrina, nella quale si è chiarito che “la funzione della pena prevista per l’ente dal nostro sistema è sicuramente preventiva”, in quanto “quel che viene in rilievo non sia propriamente la pericolosità dell’autore-ente e dunque del soggetto responsabile in quanto tale…nell’ottica dell’incentivo a prevenire l’illecito che meglio si collega semplicemente alla visione politico-penale del ripristino del corretto comportamento…tanto che il sistema prevede l’esclusione della misura interdittiva quando l’ente si sia riorganizzato correttamente consentendo di far valere la circostanza persino in fase esecutiva” (9). Alla stregua di quanto precede appare dunque a chi scrive sicuramente forzata la (pur ampiamente e fortemente) sostenuta tesi (e correlativa speranza) di inserire i reati tributari nel catalogo di quelli suscettibili di realizzazione (anche) da parte degli enti, atteso che la funzione perseguita dalla pena in senso stretto nel campo tributario risulta già ampiamente assorbita dalla sola sanzione penale senza necessità di ulteriori sconfinamenti in altri campi. Il Legislatore, infatti – dal momento che ha abbandonato (nel lontano 1982) l’istituto della “pregiudiziale tributaria”, che sostanzialmente impediva, o comunque rendeva estremamente difficile, in quanto eccessivamente dilazionata nel tempo, l’effettiva applicazione della sanzione penale – ha previsto di colpire la responsabilità (generale) di determinati soggetti collettivi essenzialmente quando la strutturazione interna dell’ente necessita di rimodellamento; laddove, invece, nel caso dei reati fiscali il fine primario della sanzione è quello del perseguimento dei tributi evasi e della connessa pericolosità sociale del contribuente-persona fisica. In tale categoria di reati, invero, permangono esigenze di valorizzazione della figura del soggetto contribuente, come, tra l’altro, si desume dalla

(9) Per tutti v. A. Fiorella, I problemi fondamentali della responsabilità dell’ente: un’introduzione, in Studi in onore di M. Ronco, Torino, 2017, 350.


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specialissima disposizione dell’art.15 D.Lgs. 74,che ne esclude la punibilità quando trattasi di “violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione”; la quale appare essere norma che non rientra in alcun modo nel profilo culturale delle violazioni amministrative le quali, da sole, possono costituire la base dell’applicazione della sanzione connessa alla responsabilità dell’ente in quanto tale. Non senza, sistematicamente, trascurare che per i reati tributari sono previste norme specialissime (come, ad es., gli artt.13 e 13 bis D.Lgs. 74) connesse all’adesione a “speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie”; il che appare strutturalmente in contrasto con la finalità primaria delle sanzioni di cui al D.Lgs. 231/2001 le quali risultano essenzialmente rivolte al miglioramento della struttura organizzativa interna all’ente. Tutto, infatti, si può desiderare e volere in campo penale, ma occorre comunque stare attenti, in linea generale, a sommesso avviso di chi scrive, a non pretendere dalla sanzione penale stessa che essa sia finalizzata a perseguire (esclusivamente o quasi esclusivamente) scopi di mera organizzazione societaria e/o interna degli enti che dovrebbero, sulla base di tale prospettiva “espansiva” del diritto penale, essere destinatari della sanzione stessa.

Ivo Caraccioli



Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte Giust., sez. VII, 20 dicembre 2017 - 9 febbraio 2018, C-276/16; Pres. Toader e Prechel – Rel. Rosas Rinvio pregiudiziale – Principio del rispetto dei diritti della difesa – Diritto di essere ascoltato – Regolamento (CEE) n. 2913/92 – Codice doganale comunitario – Articolo 244 – Recupero di un debito in materia doganale – Mancata previa audizione del destinatario prima dell’emissione di un avviso di rettifica dell’accertamento – Diritto del destinatario di ottenere la sospensione dell’esecuzione dell’avviso di rettifica – Mancata sospensione automatica in caso di proposizione di un ricorso amministrativo – Rinvio alle condizioni previste all’articolo 244 del codice doganale Il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi deve essere interpretato nel senso che i diritti della difesa del destinatario di un avviso di rettifica dell’accertamento, adottato dall’Autorità doganale in mancanza di una previa audizione dell’interessato, non sono violati se la normativa nazionale che consente all’interessato di contestare tale atto nell’ambito di un ricorso amministrativo si limita a prevedere la possibilità di chiederne la sospensione dell’esecuzione fino alla sua eventuale riforma, senza che la proposizione di un ricorso amministrativo sospenda automaticamente l’esecuzione dell’atto impugnato, dal momento che l’applicazione dell’articolo 244, secondo comma, del codice doganale, da parte dell’Autorità non limita la concessione della sospensione dell’esecuzione qualora vi siano motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata alla normativa doganale o vi sia da temere un danno irreparabile per l’interessato. (1)

(Omissis) 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario (GU 1992, L 302, pag. 1), come modificato dal regolamento (CE) n. 2700/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2000 (GU 2000, L 311, pag. 17) (in prosieguo: il «codice doganale»), e del principio del rispetto dei diritti della difesa conformemente al diritto dell’Unione. 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Prequ’Italia Srl e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (Italia) (in prosieguo: l’«Agenzia


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delle Dogane») in merito ad avvisi di accertamento emessi da quest’ultima, per la ripresa a tassazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) all’importazione per il mancato rispetto dell’obbligo di introdurre fisicamente le merci in un deposito fiscale. Contesto normativo Codice doganale 3 L’articolo 243 del codice doganale prevede quanto segue: «1. Chiunque ha il diritto di proporre ricorso contro le decisioni prese dall’autorità doganale, concernenti l’applicazione della normativa doganale, quando esse lo riguardino direttamente e individualmente. (...) Il ricorso è introdotto nello Stato membro in cui la decisione è stata presa o sollecitata.

2. Il ricorso può essere esperito: a) in una prima fase, dinanzi all’autorità doganale designata a tale scopo dagli Stati membri; b) in una seconda fase, dinanzi ad un’istanza indipendente, che può essere un’autorità giudiziaria o un organo specializzato equivalente, in conformità delle disposizioni vigenti negli Stati membri». 4 Ai sensi dell’articolo 244 del codice doganale:

«La presentazione di un ricorso non sospende l’esecuzione della decisione contestata. Tuttavia, l’autorità doganale può sospendere, in tutto o in parte, l’esecuzione della decisione quando abbia fondati motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata alla normativa doganale, o si debba temere un danno irreparabile per l’interessato. Quando la decisione impugnata abbia per effetto l’applicazione di dazi all’importazione o di dazi all’esportazione, la sospensione dell’esecuzione è subordinata all’esistenza o alla costituzione di una garanzia. Tuttavia si può non esigere detta garanzia qualora, a motivo della situazione del debitore, ciò possa provocare gravi difficoltà di carattere economico o sociale». 5 L’articolo 245 del codice doganale recita quanto segue: «Le norme di attuazione della procedura di ricorso sono adottate dagli Stati membri». Diritto italiano 6 Il decreto legislativo dell’8 novembre 1990, n. 374, recante riordinamento degli istituti doganali e revisione delle procedure di accertamento e controllo (GURI n. 291 del 14 dicembre 1990; supplemento ordinario alla GURI n. 80; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 374/1990»), dispone, all’articolo 11, intitolato «Revisione dell’accertamento, attribuzioni e poteri degli uffici [doganali]», nella versione in vigore al momento dei fatti di cui al procedimento principale: «1. L’ufficio doganale può procedere alla revisione dell’accertamento divenuto


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definitivo, ancorché le merci che ne hanno formato l’oggetto siano state lasciate alla libera disponibilità dell’operatore o siano già uscite dal territorio doganale. La revisione è eseguita d’ufficio, ovvero quando l’operatore interessato ne abbia fatta richiesta (...). 2. L’ufficio doganale, ai fini della revisione dell’accertamento, può invitare gli operatori (...) a comparire di persona o a mezzo di rappresentante, ovvero a fornire, entro lo stesso termine, notizie e documenti (...) inerenti le merci che hanno formato oggetto di operazioni doganali. (...) (...) 5. Quando dalla revisione, eseguita sia d’ufficio che su istanza di parte, emergono (...) errori relativi agli elementi presi a base dell’accertamento, l’ufficio procede alla relativa rettifica e ne dà comunicazione all’operatore interessato, notificando apposito avviso. (...) 5-bis. La motivazione dell’atto deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato. (...). L’accertamento è nullo se l’avviso non reca la motivazione di cui al presente comma. (...) 7. La rettifica può essere contestata dall’operatore entro trenta giorni dalla data di notifica dell’avviso. Al momento della contestazione è redatto il relativo verbale, ai fini della eventuale instaurazione dei procedimenti amministrativi per la risoluzione delle controversie previsti dagli articoli 66 e seguenti del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43. 8. Divenuta definitiva la rettifica l’ufficio procede al recupero dei maggiori diritti dovuti dall’operatore ovvero promuove d’ufficio la procedura per il rimborso di quelli pagati in più. La rettifica dell’accertamento comporta, ove ne ricorrano gli estremi, la contestazione delle violazioni per le dichiarazioni infedeli o delle più gravi infrazioni eventualmente rilevate. (...)». 7 La legge del 27 luglio 2000, n. 212, recante disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente, nella versione in vigore al momento dei fatti di cui al procedimento principale (GURI n. 177 del 31 luglio 2000; in prosieguo: la «legge n. 212/2000»), al paragrafo 7 dell’articolo 12, intitolato «Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali», prevede quanto segue: «Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza». 8 Dall’ordinanza di rinvio risulta che, nel 2012, successivamente ai fatti di cui al procedimento principale, il legislatore nazionale ha abrogato il paragrafo 7 dell’arti-


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colo 11 del decreto legislativo n. 374/1990, sostituendo il sistema di ricorso interno con un procedimento analogo a quello previsto all’articolo 12 della legge n. 212/2000. 9 Il decreto del Presidente della Repubblica del 23 gennaio 1973, n. 43, recante approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale (GURI n. 80 del 28 marzo 1973, in prosieguo: il «testo unico delle leggi doganali»), all’articolo 66, intitolato «Procedimento amministrativo di prima istanza per la risoluzione delle controversie», così dispone: «Entro trenta giorni dalla sottoscrizione del verbale di cui al precedente articolo [che constata che il proprietario della merce si oppone alla decisione del capo dell’ufficio doganale], a pena di decadenza, l’operatore può chiedere al capo del compartimento doganale di provvedere alla risoluzione della controversia. A tal fine deve presentare apposita istanza alla competente dogana, producendo i documenti ed indicando i mezzi di prova ritenuti utili. L’istanza – unitamente al verbale (...) ed alle proprie controdeduzioni – è trasmessa dalla dogana entro i successivi dieci giorni al capo del compartimento doganale, che decide sulla controversia con provvedimento motivato (...). Copia delle controdeduzioni della dogana deve essere fatta pervenire all’operatore interessato. Decorso inutilmente il termine indicato nel primo comma, si intende accettata la pretesa della dogana (...)». 10 L’articolo 68 del testo unico delle leggi doganali, intitolato «Procedimento amministrativo di seconda istanza per la risoluzione di controversie», prevede quanto segue: «La decisione del capo del compartimento doganale deve essere emessa nel termine di quattro mesi dalla data di presentazione della formale istanza di cui all’[articolo] 66 e deve essere subito notificata all’interessato dalla competente dogana. Avverso la decisione del capo del compartimento doganale è ammesso ricorso al Ministro per le finanze; (...). Il Ministro decide con provvedimento motivato dopo aver sentito il collegio consultivo centrale dei periti doganali, costituito a norma del successivo articolo. Decorso inutilmente il termine indicato nel secondo comma, si intende accettata la decisione di prima istanza. In tal caso la dogana procede ai sensi dell’[articolo] 61, ultimo comma». 11 La circolare n. 41 D dell’Agenzia delle Dogane, del 17 giugno 2002 ha fornito precisazioni sui procedimenti amministrativi per la risoluzione delle controversie doganali di cui all’articolo 66 e seguenti del testo unico delle leggi doganali. Ne risulta che, qualora l’operatore decida di avviare il procedimento amministrativo per la soluzione della controversia, il termine di sessanta giorni per impugnare l’accertamento dinanzi al giudice tributario inizia a decorrere soltanto al termine di detto procedimento amministrativo, ossia in seguito alla notifica della decisione del Direttore regionale dell’Agenzia delle Dogane competente che rende definitivo l’accertamento. L’operatore può decidere di non avvalersi del procedimento amministrativo previsto dal testo unico delle leggi doganali. In tale caso, l’avviso di rettifica dell’accertamento deve essere impugnato nel termine di sessanta giorni dalla data di notifica di detto avviso.


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12 Rispetto agli avvisi di rettifica dell’accertamento di cui all’articolo 11, paragrafo 5, del decreto legislativo n. 374/1990, detta circolare n. 41 D precisa che: «(...) detti atti impositivi – a norma dell’articolo 244 (...) del codice doganale (...) sono immediatamente esecutivi nei confronti del contribuente e, come tali, autonomamente impugnabili avanti le Commissioni tributarie, nel termine decadenziale sopra citato. A tale riguardo merita rammentare che la contestazione della rettifica dell’accertamento, mediante instaurazione della controversia doganale ovvero proposizione del ricorso alla competente Commissione tributaria provinciale, non ne sospende l’esecuzione ([v.] citato [articolo] 244 del [codice doganale]). Resta salva, tuttavia, la facoltà degli uffici dell’Agenzia [delle Dogane] di concedere – a seguito di apposita istanza dell’Operatore interessato – la sospensione cautelare, in via amministrativa, al ricorrere delle condizioni previste dalla citata norma comunitaria (...)». Procedimento principale e questione pregiudiziale 13 La Prequ’Italia ha effettuato operazioni di importazione di merci in sospensione dell’IVA. Essa si era avvalsa della facoltà di non versare l’IVA nell’espletamento delle formalità doganali impegnandosi, nelle proprie dichiarazioni di importazione, a depositare la merce acquistata in un determinato deposito fiscale. Le merci importate non sono state tuttavia introdotte fisicamente in tale deposito. 14 Dopo aver accertato l’utilizzo meramente virtuale del deposito fiscale da parte della Prequ’Italia, l’Ufficio delle Dogane di Livorno ha emesso nei confronti di quest’ultima, il 13 novembre 2009, dieci avvisi di rettifica per la ripresa a tassazione dell’IVA all’importazione. 15 In ciascuno di tali avvisi veniva precisato che il contribuente poteva esperire, conformemente all’articolo 11, paragrafo 7, del decreto legislativo n. 374/1990, un ricorso amministrativo disciplinato dagli articoli 66 e seguenti del testo unico delle leggi doganali, all’esito del quale il contribuente aveva la facoltà di proporre ricorsi giurisdizionali. 16 Gli stessi avvisi chiarivano che era possibile, laddove ricorrano le condizioni previste dall’articolo 244 del codice doganale, ottenere la sospensione dell’esecuzione dell’avviso di accertamento, presentando istanza al Direttore regionale dell’Agenzia delle Dogane, corredata da idonea garanzia in funzione dei maggiori diritti doganali che erano stati accertati. 17 L’ordinanza di rinvio non precisa se, nel caso di specie, la Prequ’Italia si sia avvalsa della facoltà, riconosciutale dall’articolo 11, paragrafo 7, del decreto legislativo n. 374/1990, di contestare gli avvisi di rettifica dell’accertamento entro i trenta giorni successivi alla data della loro notifica ed abbia avviato un procedimento amministrativo per la risoluzione della controversia doganale ai sensi dell’articolo 66 del testo unico delle leggi doganali. 18 In ogni caso, la Prequ’Italia ha presentato, nel febbraio del 2010, un ricorso giurisdizionale avverso i dieci avvisi di rettifica dell’accertamento dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Livorno, che lo ha respinto con decisione del 24


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febbraio 2011. 19 La Prequ’ Italia ha impugnato tale sentenza dinanzi alla Commissione tributaria regionale di Firenze (Italia), che ha respinto il suo ricorso con decisione del 13 dicembre 2012. 20 Dal fascicolo trasmesso alla Corte risulta che, nell’ambito di tali ricorsi giurisdizionali, la Prequ’Italia ha fatto valere la violazione del suo diritto ad essere ascoltata sostenendo, in sostanza, che gli avvisi di rettifica avrebbero dovuto essere adottati sulla base dell’articolo 12, paragrafo 7, della legge n. 212/2000, e non ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 7, del decreto legislativo n. 374/1990. 21 Sia la Commissione tributaria provinciale di Livorno che la Commissione tributaria regionale di Firenze hanno confermato la decisione dell’autorità doganale applicando una giurisprudenza della Corte suprema di cassazione (Italia) secondo la quale l’articolo 12, paragrafo 7, della legge n. 212/2000 non può essere applicato in materia doganale. 22 La Prequ’Italia ha quindi presentato ricorso dinanzi alla Corte suprema di cassazione. 23 Tra i mezzi sollevati dinanzi alla Corte suprema di cassazione, la Prequ’Italia deduce la violazione dei suoi diritti della difesa, in quanto gli avvisi di rettifica dell’accertamento impugnati sarebbero stati adottati dall’Ufficio doganale in assenza di un preventivo contradditorio amministrativo. Essa sostiene che avrebbe dovuto essere applicato l’articolo 12, paragrafo 7, della legge n. 212/2000, che riconosce al contribuente il diritto al contraddittorio e gli consente l’invio di osservazioni all’amministrazione competente. 24 Nel suo controricorso, l’Agenzia delle Dogane sostiene che i motivi dedotti dalla Prequ’Italia sono privi di fondamento. Per quanto riguarda la questione relativa alla lesione del diritto al contraddittorio in materia doganale, essa sottolinea che, conformemente alla giurisprudenza della Corte suprema di cassazione, l’articolo 12, paragrafo 7, della legge n. 212/2000 non si applica ai procedimenti in materia doganale. Inoltre, la disciplina di cui all’articolo 11, paragrafo 7, del decreto legislativo n. 374/1990 sarebbe idonea a tutelare il diritto al contraddittorio. 25 A tale riguardo, il giudice del rinvio indica, in primo luogo, che, secondo la giurisprudenza, l’articolo 12, paragrafo 7, della legge n. 212/2000, volto a garantire al contribuente il rispetto del principio del contraddittorio, è inapplicabile prima della proposizione di un ricorso giurisdizionale avverso un avviso di accertamento ed è, in ogni caso, inapplicabile in materia doganale. 26 Tale giudice aggiunge di avere ripetutamente dichiarato, in merito alla specificità della materia doganale rispetto al tema del contraddittorio procedimentale, che il rispetto del principio del contraddittorio anche nella fase amministrativa, pur non essendo esplicitamente richiamato dal codice doganale, si evince dalle espresse previsioni dell’articolo 11 del decreto legislativo n. 374/1990 e costituisce un principio generale del diritto dell’Unione che trova applicazione ogni qualvolta l’amministra-


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zione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto che gli arrechi un pregiudizio. 27 Il giudice del rinvio precisa inoltre che, nella sua giurisprudenza, ha ripetutamente dichiarato che il rispetto del principio del contraddittorio è pienamente garantito dai procedimenti amministrativi di cui agli articoli 66 e seguenti del testo unico delle leggi doganali, ai quali rinvia l’articolo 11 del decreto legislativo n. 374/1990. Tali procedimenti consentirebbero di instaurare, in via preventiva, il contraddittorio con il contribuente, in quanto, da un lato, l’articolo 66 del testo unico delle leggi doganali prevede che l’operatore presenti ricorso gerarchico avverso l’avviso di rettifica «producendo i documenti ed indicando i mezzi di prova ritenuti utili» e, dall’altro, è soltanto all’esito del procedimento amministrativo contenzioso, in caso di decisione parzialmente o totalmente sfavorevole al ricorrente gerarchico, che si determina la «definitività» dell’avviso di rettifica e che il contribuente può presentare un ricorso giurisdizionale avverso tale avviso di rettifica. 28 In secondo luogo, il giudice del rinvio fa riferimento alla giurisprudenza della Corte relativa al diritto di essere ascoltato e, in particolare, alla sentenza del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics (C129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041). 29 Nel richiamare i principi stabiliti dalla Corte nell’ambito di una causa nella quale una circolare ministeriale prevedeva la sospensione di un’intimazione di pagamento, adottata senza rispettare il diritto di essere previamente ascoltato, il giudice del rinvio si chiede cosa avvenga quando, come nella presente causa, la normativa interna si limiti a prevedere la sospensione dell’esecuzione di un atto adottato senza previa audizione dell’interessato rinviando solamente alle disposizioni di cui all’articolo 244 del codice doganale, senza prevedere una normativa specifica nell’attuazione di tali disposizioni. 30 Il giudice del rinvio sottolinea, a tale riguardo, che la sospensione di un atto doganale adottato senza la previa audizione del contribuente non è una conseguenza automatica della proposizione del ricorso amministrativo, ma soltanto una misura che l’amministrazione può disporre quando ricorrono le condizioni previste da detto articolo 244. 31 Il giudice del rinvio si chiede, pertanto, se i principi relativi al rispetto del diritto di essere ascoltati in materia doganale, come formulati nella sentenza del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics (C-129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041), ostino ad una normativa nazionale, come quella applicabile alla data dei fatti di cui al procedimento principale, che prevede la possibilità per il destinatario di un avviso di accertamento adottato in assenza di preventivo contraddittorio di ottenere la sospensione dell’esecuzione dell’atto alla data della presentazione del ricorso, rinviando alle condizioni di cui all’articolo 244 del codice doganale e senza prevedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato come conseguenza normale della proposizione di un ricorso amministrativo. 32 In tali circostanze, la Corte suprema di cassazione ha deciso di sospendere il


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procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se contrasta con il principio generale del contraddittorio procedimentale [riconosciuto dal diritto dell’Unione europea] la normativa italiana [di cui al procedimento principale] laddove non prevede, in favore del contribuente che non sia stato ascoltato prima dell’adozione dell’atto fiscale da parte dell’amministrazione doganale, la sospensione dell’atto come conseguenza normale della proposizione dell’impugnazione». Sulla questione pregiudiziale Sulla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale 33 Il governo italiano e la Commissione europea contestano la ricevibilità della questione pregiudiziale. 34 Il governo italiano eccepisce l’irricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale per il motivo che l’argomento della Prequ’Italia relativo alla presunta violazione dei suoi diritti della difesa è privo di fondamento in quanto, prima dell’emissione degli avvisi di rettifica dell’accertamento, tale società è stata informata dell’avvio del procedimento amministrativo e del suo diritto di depositare osservazioni entro il termine di 30 giorni, beneficiando così di un contraddittorio. 35 La Commissione si domanda se il giudice del rinvio abbia sufficientemente definito l’ambito di fatto e di diritto in cui si inserisce la questione sollevata, affinché la Corte disponga degli elementi di fatto e di diritto che devono permetterle di rispondere in modo utile a detta questione. 36 Essa rileva, in tale contesto, che il giudice del rinvio si è limitato ad esporre succintamente i fatti rilevanti e gli elementi di tipo procedurale che hanno dato luogo al rinvio pregiudiziale. Non risulta quindi in modo chiaro se la Prequ’Italia abbia contestato gli avvisi di rettifica dell’accertamento, come le consente l’articolo 11, paragrafo 7, del decreto legislativo n. 374/1990, e se abbia successivamente avviato il procedimento amministrativo di risoluzione della controversia. Non sarebbe inoltre indicato se la Prequ’Italia abbia chiesto la sospensione dell’esecuzione di detti atti e, se del caso, se tale richiesta sia stata accolta o respinta. 37 A tale riguardo, occorre ricordare che, secondo una giurisprudenza consolidata, il procedimento ai sensi dell’articolo 267 TFUE è uno strumento di cooperazione fra la Corte e i giudici nazionali, che conferisce a questi ultimi la responsabilità di valutare, tenendo conto delle peculiarità di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per poter emettere la loro sentenza sia la rilevanza delle questioni che sottopongono alla Corte (sentenza del 12 ottobre 2017, Kubicka, C-218/16, EU:C:2017:755, punto 31 e giurisprudenza ivi citata). 38 Se la decisione di rinvio, a pena di essere dichiarata irricevibile, deve soddisfare i requisiti di cui all’articolo 94 del regolamento di procedura della Corte (v., in tal senso, sentenza del 5 luglio 2016, Ognyanov, C-614/14, EU:C:2016:514, punti 18, 19 e 21), il rifiuto di statuire su una questione pregiudiziale proposta da un giudice nazionale è tuttavia possibile solo qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha alcuna relazione con l’effettività o con l’og-


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getto del procedimento principale, qualora il problema sia di natura ipotetica oppure, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (sentenza del 12 ottobre 2017, Kubicka, C-218/16, EU:C:2017:755, punto 32 e giurisprudenza ivi citata). 39 Nella fattispecie, occorre rilevare che la questione sollevata nella presente causa riguarda chiaramente la possibilità di ottenere, nell’ambito del procedimento amministrativo relativo alla definizione di una controversia in materia doganale e, pertanto, in una fase anteriore alla proposizione di un ricorso giurisdizionale, la sospensione dell’esecuzione di avvisi di accertamento in materia doganale e presenta una connessione con la risposta che la Corte ha fornito alla seconda questione esaminata nella sentenza del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics (C-129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041). 40 Il giudice del rinvio ritiene che i principi enunciati in tale sentenza possano applicarsi alla controversia pendente dinanzi ad esso, pur nutrendo dubbi in merito alla questione se, per poter escludere l’illegittimità di una misura adottata, in materia doganale, senza previa audizione del contribuente, sia necessario che la normativa nazionale garantisca a tale contribuente, da un lato, la facoltà di contestare l’atto in questione nell’ambito di un ricorso amministrativo e, dall’altro, la sospensione di tale atto come conseguenza normale della proposizione di tale ricorso. 41 Di conseguenza, il contesto di fatto e di diritto presentato nell’ordinanza di rinvio fornisce la motivazione che ha indotto il giudice del rinvio ad adire la Corte ed è sufficiente a chiarire la questione posta dal giudice del rinvio, relativa alla compatibilità con il diritto di essere ascoltato di una normativa nazionale in forza della quale il destinatario di un avviso di rettifica dell’accertamento ha la facoltà di contestare tale atto nell’ambito di un ricorso amministrativo e di chiedere la sospensione dell’esecuzione di tale atto, senza che la sospensione di detto atto sia la conseguenza normale e automatica della proposizione di tale ricorso amministrativo. 42 Peraltro, riguardo agli argomenti del governo italiano, occorre osservare che dalla domanda di pronuncia pregiudiziale risulta che l’interpretazione, in materia doganale, del principio del rispetto del diritto di essere ascoltato, è necessaria per il giudice del rinvio. In ogni caso, alla luce dell’ordinanza di rinvio, non sembra che la questione posta non sia rilevante ai fini della definizione della controversia di cui è investito il giudice del rinvio. 43 Alla luce di quanto precede, la questione pregiudiziale deve essere dichiarata ricevibile. Nel merito 44 Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima dell’adozione di una decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi debba essere interpretato nel senso che i diritti della difesa del destinatario di un avviso di rettifica dell’accertamento, adotta-


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to dall’autorità doganale in mancanza di una previa audizione dell’interessato, sono violati se la normativa nazionale che consente all’interessato di contestare tale atto nell’ambito di un ricorso amministrativo si limita a prevedere la possibilità di chiedere la sospensione dell’esecuzione di tale atto fino alla sua eventuale riforma rinviando all’articolo 244 del codice doganale, e non prevede che la presentazione di un ricorso amministrativo sospende automaticamente l’esecuzione di tale atto. 45 A tale riguardo, occorre ricordare che, secondo una costante giurisprudenza, il rispetto dei diritti della difesa è un principio fondamentale del diritto dell’Unione di cui il diritto di essere ascoltato in qualsiasi procedimento costituisce parte integrante (sentenza del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, C-129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041, punto 28 e giurisprudenza ivi citata). 46 In forza di tale principio, che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo, i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione (sentenza del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, C-129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041, punto 30 e giurisprudenza ivi citata). 47 Tale obbligo incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera di applicazione del diritto dell’Unione, quand’anche la normativa applicabile non preveda espressamente siffatta formalità (v., in tal senso, sentenze del 18 dicembre 2008, Sopropé, C-349/07, EU:C:2008:746, punto 38, nonché del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, C-129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041, punto 31). 48 Ebbene, nel procedimento principale, la normativa nazionale in questione non impone all’amministrazione che procede ai controlli doganali l’obbligo di ascoltare i destinatari degli avvisi di rettifica dell’accertamento prima di procedere alla revisione degli accertamenti ed alla loro eventuale rettifica. Essa comporta quindi, in linea di principio, una limitazione al diritto dei destinatari di tali avvisi di rettifica di essere ascoltati, malgrado essi possano fare valere la loro posizione nel corso di una fase di reclamo amministrativo ulteriore. 49 La Corte ha ricordato, a tale riguardo, che la regola secondo cui il destinatario di una decisione ad esso lesiva deve essere messo in condizione di far valere le proprie osservazioni prima che la stessa sia adottata ha lo scopo di rendere l’autorità competente in grado di tenere utilmente conto di tutti gli elementi del caso. Al fine di assicurare una tutela effettiva della persona o dell’impresa coinvolta, detta regola ha in particolare l’obiettivo di consentire a queste ultime di correggere un errore o far valere tali elementi relativi alla loro situazione personale tali da far sì che la decisione sia adottata o non sia adottata, ovvero abbia un contenuto piuttosto che un altro (v., in tal senso, sentenze del 18 dicembre 2008, Sopropé,


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C-349/07, EU:C:2008:746, punto 49, nonché del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, C-129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041, punto 38). 50 Tuttavia, secondo una costante giurisprudenza, il principio generale del diritto dell’Unione del rispetto dei diritti della difesa non si configura come una prerogativa assoluta, ma può soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti (v., in tal senso, sentenze del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, C-129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041, punto 42, nonché del 9 novembre 2017, Ispas, C-298/16, EU:C:2017:843, punto 35). 51 La Corte ha già riconosciuto che l’interesse generale dell’Unione europea, e, in particolare, l’interesse a recuperare tempestivamente le entrate proprie, impone che i controlli possano essere realizzati prontamente ed efficacemente (v., in tal senso, sentenze del 18 dicembre 2008, Sopropé, C-349/07, EU:C:2008:746, punto 41, nonché del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistic, C-129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041, punto 54). 52 È questo il caso delle decisioni delle autorità doganali. 53 Ai sensi dell’articolo 243, paragrafo 1, del codice doganale, chiunque ha il diritto di proporre ricorso contro le decisioni prese dall’autorità doganale, concernenti l’applicazione della normativa doganale, quando esse lo riguardino direttamente e individualmente. Tuttavia, la proposizione di un ricorso, effettuata in applicazione dell’articolo 243 del codice doganale, non è, in linea di principio, sospensiva dell’esecuzione della decisione impugnata, in forza dell’articolo 244, primo comma, di tale codice. Poiché siffatto ricorso è sprovvisto di carattere sospensivo, esso non osta all’immediata esecuzione di tale decisione. Il secondo comma dell’articolo 244 del codice doganale autorizza tuttavia l’autorità doganale a sospendere, in tutto o in parte, l’esecuzione di una decisione doganale quando abbia fondati motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata alla normativa doganale, o si debba temere un danno irreparabile per l’interessato. 54 Nell’ordinanza di rinvio, il giudice nazionale rileva che il procedimento nazionale di reclamo amministrativo avverso gli atti emessi dalle autorità doganali non ha l’effetto di sospendere automaticamente l’esecuzione della decisione lesiva, né di renderla immediatamente inapplicabile. 55 Come risulta dalla giurisprudenza della Corte, tale circostanza può assumere una certa importanza nella valutazione di un’eventuale giustificazione della restrizione del diritto di essere ascoltati prima dell’adozione di una decisione lesiva (sentenza del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, C-129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041, punto 65). 56 Tuttavia, in mancanza di un’audizione prima dell’adozione di un’intimazione


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di pagamento, la proposizione di un reclamo o di un ricorso amministrativo avverso tale intimazione di pagamento non dovrebbe necessariamente avere l’effetto di sospendere automaticamente l’esecuzione di detta intimazione di pagamento al fine di garantire il rispetto del diritto di essere ascoltati nel contesto di siffatto reclamo o ricorso (sentenza del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistic, C-129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041, punto 67). 57 Per contro, occorre che il procedimento nazionale di reclamo amministrativo avverso gli atti emessi dall’autorità doganale garantisca la piena efficacia del diritto dell’Unione e, nel caso di specie, delle disposizioni di cui all’articolo 244 del codice doganale. 58 Per quanto riguarda le decisioni di recupero in materia doganale, è in ragione dell’interesse generale dell’Unione a recuperare tempestivamente le entrate proprie che l’articolo 244, secondo comma, del codice doganale prevede che la presentazione di un ricorso contro un avviso di accertamento ha l’effetto di sospendere l’esecuzione dell’intimazione stessa soltanto quando vi siano motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata alla normativa doganale, o si debba temere un danno irreparabile per l’interessato (v., in tal senso, sentenza del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, C-129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041, punto 68). 59 Poiché le disposizioni del diritto dell’Unione, come quelle del codice doganale, devono essere interpretate alla luce dei diritti fondamentali, che, in base ad una costante giurisprudenza, fanno parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza, le disposizioni nazionali di attuazione delle condizioni previste all’articolo 244, secondo comma, del codice doganale per la concessione di una sospensione dell’esecuzione devono, in mancanza di una previa audizione, garantire che tali condizioni non siano applicate o interpretate restrittivamente (v., in tal senso, sentenza del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, C-129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041, punti 69 e 70). 60 Nel procedimento principale, il giudice del rinvio rileva che la sospensione dell’esecuzione degli avvisi di rettifica dell’accertamento può essere concessa soltanto se ricorrono le condizioni di cui all’articolo 244 del codice doganale, senza precisare i criteri applicati dagli uffici dell’Agenzia delle Dogane per valutare la concessione di tale sospensione. A tale riguardo, nulla si evince anche dal testo della circolare n. 41 D del 17 giugno 2002, la quale si limita a rinviare alle condizioni di cui all’articolo 244 del codice doganale. 61 Nella misura in cui il destinatario di avvisi di rettifica dell’accertamento come quelli di cui trattasi nel procedimento principale ha la possibilità di ottenere la sospensione dell’esecuzione di detti atti fino alla loro eventuale riforma e che, nell’ambito del procedimento amministrativo, le condizioni di cui all’articolo 244 del codice doganale non sono applicate in modo restrittivo, circostanza questa che spetta al giudice nazionale valutare, non è pregiudicato il rispetto dei diritti della difesa del destinatario


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degli avvisi di rettifica dell’accertamento. 62 In ogni caso, occorre sottolineare che l’obbligo che incombe al giudice nazionale di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione non ha sempre come conseguenza l’annullamento di una decisione impugnata, laddove quest’ultima sia stata adottata in violazione dei diritti della difesa. Secondo una costante giurisprudenza, infatti, una violazione dei diritti della difesa, in particolare del diritto di essere ascoltati, determina l’annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso (sentenze del 10 settembre 2013, G. e R., C-383/13-PPU, EU:C:2013:533, punto 38, nonché del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, C-129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041, punti 78 e 79). 63 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla questione sollevata dichiarando che il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi deve essere interpretato nel senso che i diritti della difesa del destinatario di un avviso di rettifica dell’accertamento, adottato dall’autorità doganale in mancanza di una previa audizione dell’interessato, non sono violati se la normativa nazionale che consente all’interessato di contestare tale atto nell’ambito di un ricorso amministrativo si limita a prevedere la possibilità di chiedere la sospensione dell’esecuzione di tale atto fino alla sua eventuale riforma rinviando all’articolo 244 del codice doganale, senza che la proposizione di un ricorso amministrativo sospenda automaticamente l’esecuzione dell’atto impugnato, dal momento che l’applicazione dell’articolo 244, secondo comma, del codice doganale, da parte dell’autorità doganale non limita la concessione della sospensione dell’esecuzione qualora vi siano motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata con la normativa doganale o vi sia da temere un danno irreparabile per l’interessato. Sulle spese 64 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. P.Q.M., la Corte (Settima Sezione) dichiara: il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi deve essere interpretato nel senso che i diritti della difesa del destinatario di un avviso di rettifica dell’accertamento, adottato dall’autorità doganale in mancanza di una previa audizione dell’interessato, non sono violati se la normativa nazionale che consente all’interessato di contestare tale atto nell’ambito di un ricorso amministrativo si limita a prevedere la possibilità di chiedere la sospensione dell’esecuzione di tale atto fino alla sua eventuale riforma rinviando all’articolo 244 del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce


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un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento (CE) n. 2700/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2000, senza che la proposizione di un ricorso amministrativo sospenda automaticamente l’esecuzione dell’atto impugnato, dal momento che l’applicazione dell’articolo 244, secondo comma, di detto regolamento da parte dell’autorità doganale non limita la concessione della sospensione dell’esecuzione qualora vi siano motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata con la normativa doganale o vi sia da temere un danno irreparabile per l’interessato. (Omissis)

(1) La sospensione amministrativa dell’atto nell’accertamento doganale tra tutela europea del contribuente e contraddittorio endo-procedimentale. Sommario: 1. Premessa: l’evoluzione del caso di specie ed il quesito pregiudiziale. – 2.

Il congegno di tutele previsto nell’ambito della disciplina dell’accertamento doganale e le problematiche relative alla facoltatività del contraddittorio ed alla non automaticità della sospensione. – 3. Il quesito pregiudiziale ed il rapporto tra principio del contraddittorio e sospensione dell’atto da parte dell’Autorità doganale. – 4. La pronunzia della Corte: il parallelismo con il caso Kamino ed il problema del contraddittorio come dati fondamentali per l’esito del giudizio. – 5. Le principali ricadute: la mancata attuazione dell’art. 244 del codice doganale ed il rapporto tra normativa interna e tutela cautelare europea alla luce della non obbligatorietà del contraddittorio endo-procedimentale. – 5.1. L’individuazione del margine di applicabilità del principio del contraddittorio e l’individuazione di un parametro alternativo per il giudizio di rinvio pregiudiziale.

Il diritto di difesa del contribuente non risulta violato dalla notifica di un atto di rettifica non preceduto dal contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria, quando la normativa consenta al destinatario di opporsi e preveda la sospensione di tale atto in sede amministrativa, sia pure in modo non automatico. Con questa statuizione la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ponendosi in continuità con la sua precedente giurisprudenza, coordina le norme in materia di contraddittorio endo-procedimentale e quelle in materia di sospensione cautelare dell’atto in via amministrativa, nell’ambito dell’accertamento doganale. Nel presente lavoro si tiene conto, pertanto, sia di tali aspetti sia delle problematiche determinate dalla combinazione tra disciplina europea e disciplina di diritto interno nell’ambito di una controversia relativa ad una risorsa propria dell’Unione. The notification of an assessment without the previous discussion with Customs Authority doesn’t violate the taxpayer’s right of defense when the legislation provides the power to oppose and the administrative suspension, although not automatically. In this decision, the CJEU, as a continuation of the case-law advances, coordinates the legislation on the right to be heard with the legislation on the administrative act suspension as part of the customs debt assessment. The present work shall pass these aspects and the


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difficulties determined by the combination of Union rules and national rules about an EU own resource.

1. Premessa: l’evoluzione del caso di specie ed il quesito pregiudiziale. – Con la sentenza in commento la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ritenuto che il diritto di difesa del destinatario di un avviso di accertamento emesso dall’Autorità Doganale, pur in assenza di un preventivo contraddittorio, non risulta violato qualora la normativa nazionale da un lato consenta al contribuente di contestare l’atto mediante opposizione in sede amministrativa e, dall’altro, si limiti a prevedere la possibilità di richiedere la sospensione dell’esecuzione in tale sede, senza che tale sospensione sia automatica. Tale decisione si colloca nel quadro del ben noto dibattito sulla estensione del principio del contraddittorio, così come elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (1), nell’ambito della materia della sospensione amministrativa dell’atto oggetto di opposizione. Problema peraltro almeno all’apparenza non nuovo, poiché quantomeno la struttura della vicenda appare modellata sul precedente caso Kamino (2), che la Corte mostra, infatti, di seguire pedissequamente nella elaborazione della soluzione dispositiva. Quanto al caso di specie, la società Prequ’Italia risultava destinataria di dieci avvisi di rettifica in materia doganale per aver importato beni in Italia, dichiarando di averli stazionati in un deposito in sospensione Iva (ex art. 50 bis, comma 4, d.l. 30 agosto 1993, n. 331) ma, secondo la ricostruzione dell’Amministrazione, soltanto in via virtuale, poiché tali beni invero circolavano liberamente pur senza sgravio dell’Iva in dogana. Si registrava pertanto un “salto d’imposta” che veniva recuperata con gli atti, impugnati dalla so-

(1) La sensibilità che la Corte di Giustizia ha mostrato nel corso del tempo in merito alla estensione del principio del contraddittorio ha abbracciato un lasso di tempo ormai cinquantennale, risalente sin agli inizi degli anni Sessanta e ha trovato applicazione a controversie tra le più svariate, all’inizio in relazione a rapporti coinvolgenti il privato rispetto alle istituzioni dell’Unione, per poi applicarsi anche ai rapporti tra singolo e Stato membro ogni qualvolta si controvertesse sull’adozione di un atto che ledeva la sfera del primo. Si veda in linea di approssimazione: Corte Giust. 4 luglio 1963, Alvis, C-32/62, in «Racc.» 1963, p. 101; Corte Giust. 1° luglio 1964, Pistoj, C-26/63, in «Racc.» 1964, p. 673; Corte Giust. 11 luglio 1968, Van Eick, C-35/67, in «Racc.» 1968, 481; Corte Giust. 15 luglio 1969, ACF Chemiefarma N.V., C-41/69, in «Racc.» 1970, 661. (2) Cfr. Corte Giust. 3 luglio 2014, Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Worldwide Logistics BV, (cause riunite) C-129/13 e C-130/13.


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cietà in primo ed in secondo grado. La vicenda finiva poi dinanzi la Corte di Cassazione e proprio in questa sede veniva sollevata la questione pregiudiziale. La Suprema Corte chiedeva alla Corte di Giustizia se sussistesse contrasto «con il principio generale del contraddittorio procedimentale la normativa italiana laddove non prevede, in favore del contribuente che non sia stato ascoltato prima dell’adozione dell’atto fiscale da parte dell’amministrazione doganale, la sospensione dell’atto come conseguenza normale della proposizione dell’impugnazione» (3). Il primo dato che emerge, dalla lettura del quesito pregiudiziale, è il riferimento espresso al “principio del contraddittorio” (4) che finisce per assurgere a pieno titolo come parametro per la predisposizione del rinvio pregiudiziale. Tale aspetto, in effetti, seppur all’apparenza peculiare, risulta poi esser pienamente in linea con l’orientamento assunto dal nostro giudice di legittimità. Sotto il primo profilo, la sorpresa potrebbe scaturire dalla considerazione che la Corte, negli ultimi anni, a più riprese è intervenuta, prima al fine

(3) Cfr. Cass. sez. VI-5, ord. 6 maggio 2016, n. 9278, che nel testo verrà più volte breviter richiamata come “ordinanza di rimessione”. (4) Tale principio, elaborato dalla Corte di Giustizia, ha trovato la sua piena applicazione dal momento in cui la Corte ha ritenuto superfluo, nella risoluzione delle singole controversie, scrutinare la presenza o meno nell’ordinamento del singolo Stato membro del riconoscimento di tale principio, considerandolo immanente negli ordinamenti. Ciò dagli anni Settanta in poi e, sul punto, cfr.: Corte Giust. 23 ottobre 1974, Transocean Marine Paint, C-17/74, in «Racc.» 1974, 1063; Corte Giust. 13 febbraio 1979, Hoffmann-La Roche, C-85/76, in «Racc.» 1979, 225. Sul punto, si rinvia alle riflessioni di Bastianon, La tutela del legittimo affidamento nel diritto dell’Unione Europea, Milano, 2012, 28. Orientamento poi di fatto cristallizzatosi negli anni Novanta e, tra le tante, si vedano: Corte Giust. 12 febbraio 1992, Koninklijke PTT Nederland NV e PTT-Bost BV c/ Commissione (cause riunite) C-48/90 e C-66/90, in «Racc.» 1992, I-565; Corte Giust. 29 giugno 1994, Fiskano AB c/ Commissione C-135/92, in «Racc.» 1994, I-2885; Corte Giust. 24 ottobre 1996, Commissione c/ Listreal et alii, C-32/95, in «Racc.» 1996, I-5373. Le premesse erano dunque tracciate perché la garanzia del contraddittorio trovasse agio ad estendersi anche ai rapporti tributari, così, nella successione di circa sei anni, la Corte di Giustizia elaborò le ben note sentenze sul contraddittorio che costituirono, e costituiscono tuttora, il “pomo della discordia” sul riconoscimento di un principio così elaborato, in termini generali, nell’ordinamento italiano. Si allude a: Corte Giust. 18 dicembre 2008, Sopropé – Organizações de Calcado Lda, C-349/07; Corte Giust. 22 ottobre 2013, Jiří Sabou, C-276/12, nonché al corollario, richiamato peraltro più volte nella sentenza in commento, costituito dalla causa Kamino.


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di estendere (5), poi al fine di limitare (6), l’applicazione della garanzia del contraddittorio ai procedimenti tributari istruttori e di accertamento. Proprio tale ultima limitazione sembrerebbe poco conferente con il riferimento ad un “principio”; d’altra parte, tale principio non è (più) inteso come “immanente” nell’ordinamento “interno” ma, appunto, riferito alle sole materie armonizzate e, comunque, di competenza europea, nelle quali rientra la materia doganale. Quindi, il riferimento ad un principio del contraddittorio come justiciable, cioè come idoneo a costituire un parametro di compatibilità ex art. 267 TFUE è, dal punto di vista della Corte, coerente con la considerazione che il caso oggetto del rinvio pregiudiziale rientrava nell’ambito delle materie armonizzate o, più precisamente, nell’ambito delle c.d. risorse proprie dell’Unione, di cui

(5) Per la generalizzazione del principio del contraddittorio e, segnatamente, per l’applicazione della garanzia prevista dall’art. 12, comma 7 dello Statuto del Contribuente anche a fattispecie ivi non previste, cfr. Cass. Cass. SS. UU. 18 settembre 2014, n. 19667 e, in argomento, cfr. F. Tundo, Diritto al contraddittorio endo-procedimentale anche in assenza di previsione normativa, in GT – Riv. Giur. Trib., 12/2014, 937 ss.; A. Marcheselli, Il contraddittorio deve precedere ogni provvedimento tributario, in Corr. Trib., 39/2014, 2536, ss.; E. Fronticelli Baldelli, Obbligo di comunicazione dell’iscrizione di ipoteca a tutela del contraddittorio endoprocedimentale, in il Fisco, 39/2014, 3875; A. Lovisolo, L’osservanza del termine di cui all’art. 12, 7° comma dello Statuto dei Diritti del Contribuente nell’ottica del principio del contraddittorio, in Dir. Prat. Trib., 3/2015, 10405 ss. In merito alle ricadute della violazione del principio, riconosciuto come immanente dalla Cassazione, sulla utilizzabilità delle prove così raccolte nel giudizio penale, si rinvia alle considerazioni di A. Perrone, Vizi dell’azione amministrativa tributaria e loro rilevanza nel processo penale tributario, in Rass. Trib., 6/2015, 1441 ss. Mentre, alla luce di questa sentenza, vi è chi ha finito per concludere che il contraddittorio, divenuto un autentico diritto generalizzato, è “tutt’altro che una gentile concessione del Principe”: cfr. E. Della Valle, Le direttive sui controlli: i grandi contribuenti, le frodi e la fiscalità internazionale, in il Fisco, 39/2014, 3809 ss. (6) Il noto revirement, che ha ristretto i principi sanciti nella sentenza citata nella nota precedente ai soli tributi “armonizzati”, lasciando invece intatta la disciplina per i tributi “non armonizzati”, per i quali, dunque, il contraddittorio resta applicabile soltanto ove previsto ex positivo iure, è contemplato in Cass. SS. UU. 9 dicembre 2015, n. 24823, decisione peraltro oggetto di serrate critiche da larga parte della dottrina. Sull’argomento cfr., tra i molteplici commenti, S. Sammartino, Il diritto al contraddittorio endoprocedimentale, in Rass. Trib., 4/2016, 986 ss.; M. Beghin, Il contraddittorio endoprocedimentale tra disposizioni ignorate e principi generali poco immanenti, in Corr. Trib., 7/2016, 479 ss.; E. De Mita, Sul contraddittorio le Sezioni unite scelgono la soluzione «politica», in Dir. Prat. Trib., 1/2016, 20241; G. Marongiu, Il contraddittorio non è d’obbligo, in Dir. Prat. Trib., 2/2016, 702; G. Ferranti, Cassazione e legislatore “in corto circuito” sull’obbligo del contraddittorio per i controlli a tavolino, in il Fisco, 2/2016, 100 ss.; A. Carinci – D. Deotto, Il contraddittorio tra regola e principio: considerazioni critiche sul revirement della Suprema Corte, in il Fisco, 3/2016, 207 ss.; E.A. Sepe, Contraddittorio endoprocedimentale: le Sezioni Unite fanno un passo indietro sul “giusto procedimento tributario”, in il Fisco, 5/2016, 407 ss.


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la materia doganale ne è una componente (7). 2. Il congegno di tutele previsto nell’ambito della disciplina dell’accertamento doganale e le problematiche relative alla facoltatività del contraddittorio ed alla non automaticità della sospensione. – Passando all’esame del caso di specie, è opportuno riassumere il quadro normativo di riferimento (8) al fine di comprendere lo svolgimento del contenzioso dinanzi la Corte di Giustizia. Con la precisazione che, trattandosi di una controversia sorta precedentemente la riforma del 2012, il congegno normativo ratione temporis vigente è fondamentalmente diverso da quello attuale, anche in ordine alle possibilità di reazione di cui dispone il contribuente a seguito della notifica di un avviso di rettifica. Le norme interessate sono, nell’ordine, il d.lgs. 8 novembre 1990 n. 374 (recante la disciplina di accertamento e controllo in materia doganale), il d.pr. 23 gennaio 1973 n. 43 (Testo Unico Doganale, d’ora in poi richiamato anche breviter come TUD) ed il regolamento comunitario vigente ratione temporis, cioè il reg. (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913 (d’ora innanzi richiamato come codice doganale). L’art. 11, d.lgs. 374/1990, prevede in capo all’Autorità Doganale il potere di rettifica di un accertamento doganale divenuto definitivo: in altri termini, dopo l’accettazione della dichiarazione dell’operatore, mediante apposizione della c.d. bolletta doganale, l’Amministrazione, nell’ipotesi in cui si avveda di un errore, procede alla rettifica. In tal sede, la norma citata dispone che l’Amministrazione “possa” sentire l’operatore prima della notifica dell’atto: il contraddittorio, dunque è puramente eventuale. A fronte della notifica dell’atto in rettifica, il procedimento può articolarsi in diverse fasi, a seconda della scelta dell’operatore. Questi, infatti, da un lato potrà presentare opposizione amministrativa, trovando in tal caso applicazione l’art. 66 del TUD, il quale dispone che l’opposizione si propone prima in via amministrativa, dinanzi agli uffici doganali, in un procedimento che prevede una prima ed una seconda istanza; solo a conclusione di tale proce-

(7) Si veda l’art. 2, par. 1, lett. a) della Decisione del Consiglio dell’Unione 7 giugno 2007, 2007/436/CE. (8) Sul complesso schema normativo, e sulle problematiche relative alla tutela del contribuente, si veda A. Lo Nigro, L’accertamento doganale, in Scuffi – Albenzio – Miccinesi, Diritto doganale, delle accise e dei tributi ambientali, Milano, 2014, 387 ss.; S. Bolis, Accertamento doganale e poteri dell’Agenzia delle Dogane, in il Fisco, 39/2009, 6457 ss.


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dimento l’operatore potrà rivolgersi al giudice tributario, poiché solo in quel momento l’atto diviene impugnabile ai sensi dell’art. 19, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Tale forma di opposizione costituisce una mera facoltà in capo al destinatario dell’accertamento il quale, se non intende procedere in tal senso, potrà sempre rivolgersi direttamente al giudice tributario ricorrendo ex adverso l’originario avviso di rettifica, entro l’ordinario termine di sessanta giorni dalla notifica. La disciplina così esposta è in linea con quanto sancito dall’art. 243 del codice doganale il quale, appunto, dispone, al par. 2, che il ricorso possa esperirsi in una prima fase dinanzi l’Autorità doganale ed in una seconda fase dinanzi l’Autorità giudiziaria, prescrivendo tale duplice scansione, appunto, come una mera facoltà e lasciando quindi aperta la possibilità per il contribuente di ricorrere ad un giudice che in questo caso sarà sempre quello tributario. L’art. 244 del codice completa il quadro disponendo che la presentazione del ricorso (amministrativo) non sospende in automatico l’efficacia dell’avviso di rettifica ma l’autorità doganale può sospendere se “abbia fondati motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata alla normativa doganale, o si debba temere un danno irreparabile per l’interessato” (9). Dunque, la sospensione, pur non essendo automatica, è prevista nell’ipotesi in cui, previa valutazione dell’Autorità doganale, si riscontri un contrasto tra l’atto impugnato e la normativa doganale, cioè una sostanziale illegittimità, ovvero qualora l’atto impugnato possa determinare un danno per il destinatario interessato, e sempre salva l’applicazione di una garanzia (art. 244, par. 3, del codice doganale). Va specificato subito che tra i presupposti previsti per la sospensione, l’art. 244 del codice faccia riferimento espresso alla (non) conformità “della decisione impugnata alla normativa doganale”, senza ulteriori specificazioni. Nel caso di specie, in effetti, l’ordinamento italiano nulla ha previsto in merito all’applicazione di questa condizione, deferendo dunque tout court la disciplina alla disposizione della fonte regolamentare europea: disposizione che va comunque interpretata in ragione di una presunta illegittimità dell’atto emesso dall’Autorità doganale. 3. Il quesito pregiudiziale ed il rapporto tra principio del contraddit-

(9) Sulle problematiche, in generale, relative alla sospensione cautelare dell’atto impugnato si rinvia a F. Del Torchio, La fase cautelare, in Scuffi et alii, Diritto, cit., 1007 ss.


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torio e sospensione dell’atto da parte dell’Autorità doganale. – Il nucleo del problema, come emerge dalla lettura dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale, è appunto costituito dal rapporto tra la portata facoltativa del contraddittorio da instaurarsi precedentemente l’adozione dell’atto di rettifica, da un lato e la non automaticità della sospensione dell’atto oggetto dell’opposizione, dall’altro. In altri termini, quantomeno all’apparenza, si tratta di un problema di coordinamento tra due forme di tutela, che ruotano attorno alla medesima posizione giuridica del contribuente ma poste su due punti di vista opposti: una tutela preventiva, costituita dal contraddittorio antecedente la notifica (anzi: antecedente la predisposizione) dell’atto ed una tutela successiva, costituita dalla sospensione degli effetti di un atto (già perfetto e, quindi) notificato. Sotto tale profilo, in merito alla prima forma di tutela, la Corte di Cassazione nella predisposizione dell’ordinanza dà seguito all’orientamento, adottato già nel giudizio di secondo grado, secondo cui il diritto doganale, essendo da considerarsi “speciale”, è estraneo all’applicazione di talune norme dell’ordinamento interno tra le quali, segnatamente, la garanzia di cui all’art. 12, comma 7, dello Statuto del Contribuente (10). Si tenga presente che per lungo tempo l’Autorità doganale (11) ha ritenuto applicabile tale norma ai procedimenti doganali, quantomeno quando si fossero sostanziati in accessi, ispezioni e verifiche e la Cassazione, seguendo la medesima linea, ha ritenuto di estendere la normativa in questione anche ai c.d. accertamenti “a tavolino”, richiamando i principi sanciti dalla Corte di Giustizia nella sentenza Sopropé (12).

(10) Tale norma dispone che “Dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente” possa “comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori” e sanziona, quindi, una forma di contraddittorio endo-procedimentale obbligatoria il cui corollario è, segnatamente, costituito dal divieto in capo all’Amministrazione finanziaria di notificare l’avviso di accertamento prima del termine dilatorio di sessanta giorni, salvi i casi di particolare urgenza. Si veda, in argomento, R. Miceli, Il diritto del contribuente al contraddittorio nella fase istruttoria, in Riv. Dir. Trib, 5/2001, 371 ss.; F. Tundo, La partecipazione del contribuente alla verifica tributaria, Padova, 2012, 193 ss. (11) Cfr. nota dell’Agenzia delle Dogane, 12 marzo 2010, n. 29694. In argomento si veda A. Amoroso, Revisione dell’accertamento doganale e garanzie partecipative del contribuente, in il Fisco, 1/2011, 37 ss. (12) Si veda in particolar modo Cass. sez. V, 11 giugno 2010, n. 14105, salvo poi verificare se l’efficacia invalidante della violazione dell’obbligo di preventiva audizione del contribuente determinasse ex se ovvero solo previo effettivo pregiudizio in capo a quest’ultimo l’annullamento del provvedimento. Per tali problematiche si veda Cass. sez. V, 21 luglio 2009, n.16874.


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Tuttavia, più di recente si è consolidato un nuovo orientamento (13) volto ad escludere l’applicazione del citato art. 12, comma 7 dello Statuto al procedimento doganale proprio in ragione dell’ultraspecialità di tale diritto rispetto alle regole dell’ordinamento interno sicché, quantomeno in relazione a tale censura, la Corte di Cassazione ha avuto, per così dire, gioco facile nell’escludere la violazione di tale norma. Ciò non toglie, secondo il giudice rimettente, il pericolo di un vuoto di tutela costituito dal fatto che l’ordinamento italiano prevede da un lato una mera facoltatività dell’audizione preventiva dell’operatore e, dall’altro, che la forma di tutela costituita dalla sospensione in sede amministrativa sia pur sempre affidata ad una verifica di legittimità e all’apprezzamento del danno, non potendo quindi assumere carattere di sistema. Infatti, sotto tale secondo profilo, che costituisce il secondo spettro della questione pregiudiziale, l’aspetto rilevante ruota intorno la normativa europea che, all’art. 244 del codice doganale, sancisce le due condizioni idonee a determinare una sospensione che rimane comunque eventuale, essendo condizionata ad una preventiva valutazione da parte dell’Autorità doganale. La combinazione di tali elementi potrebbe determinare, secondo la prospettazione della Cassazione, il cennato vuoto di tutela e per motivare tale ipotetica ricostruzione richiama i principi sanciti nella causa Kamino, in cui la Corte di Giustizia in una fattispecie simile, sebbene non integralmente assimilabile alla controversia a quo, ha ritenuto violati i diritti di difesa del destinatario di un atto nell’ipotesi in cui, in presenza di un contraddittorio non obbligatorio, l’ordinamento interno non prevedesse la possibilità, in capo ai destinatari, di ottenere la sospensione dell’esecuzione del medesimo atto. Costruendo tale parallelismo, a seguito di una digressione sull’applicazione del principio del contraddittorio nell’ordinamento italiano, la Corte di Cassazione ha sollevato questione pregiudiziale. Rilevante appare la considerazione che sia stato proprio un giudice di ultima istanza a sollevare la questione, in presenza di un precedente quale era (o avrebbe potuto essere) il caso Kamino, in attuazione dell’art. 267, par. 3, TFUE, che prevede un obbligo in capo a tali giudici di sollevare il rinvio (14). È rilevante, tale considerazione,

(13) Si vedano, p. es., Cass., sez. V, 5 aprile 2013, n. 8399; Cass. sez. V, 2 luglio 2014, n. 15032; Cass. sez. V, 19 aprile 2017, n. 9814. (14) Proprio al fine di evitare, come la stessa Corte di Giustizia ha chiarito, che nello Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme europee (Corte Giust. 24 maggio 1977, Hoffman-La Roche, C-107/76), ciò che è certamente assai più probabile se una simile decisione venisse adottata da un giudice d’ultima istanza.


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sol se si pensi (15) che tale obbligo venga meno, o possa venir meno, tutte le volte in cui la questione sia “materialmente identica” ad un’altra precedente già decisa dalla Corte di Giustizia. Dunque, sembrerebbe che la Corte rimettente, pur ben conscia, nel caso di specie, di quel precedente, si sia sentita comunque in dovere di adire la Corte di Giustizia poiché perfettamente consapevole che la controversia a quo presentasse delle divergenze non irrilevanti rispetto al precedente di alcuni anni prima e, sotto questo profilo, la “risposta” del giudice europeo appare ancor più peculiare. 4. La pronunzia della Corte: il parallelismo con il caso Kamino ed il problema del contraddittorio come dati fondamentali per l’esito del giudizio. – La Corte di Giustizia conclude infatti ritenendo che il diritto di difesa dell’interessato non risulta vulnerato dalla disciplina così riassunta poiché, pur non essendo prevista sospensione automatica dell’atto, l’art. 244 del codice doganale non limita la concessione della sospensione qualora vi siano motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata con la normativa doganale, o vi sia da temere un danno irreparabile per l’interessato. Sebbene il giudice europeo concluda in senso opposto rispetto le statuizioni contemplate nella sentenza Kamino, la sentenza ha indubbiamente risentito di quel precedente in misura assai robusta, ciò che è dimostrato, se non altro, dal fatto che tale sentenza sia il principale precedente richiamato dalla Corte in motivazione (la citazione ricorre nove volte) e, oltretutto, dal fatto che l’Avvocato Generale ha ritenuto di non presentare conclusioni. Tale ultimo dato non è decisivo (16) ma se si considera che, almeno in via di principio, l’art. 20, par. 5 dello Statuto della Corte di Giustizia prevede la possibilità di escludere la presentazione delle conclusioni dell’Avvocato quando “la causa non sollevi nuove questioni di diritto”, allora tale assimilazione al precedente sembrerebbe confermata.

(15) Come riporta G. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, Padova, 2012, 316-317 e spec. nt. 333 per la giurisprudenza europea rilevante. (16) In effetti le ragioni che possono condurre alla decisione della causa da parte della Corte di Giustizia senza la preventiva presentazione delle conclusioni possono essere molteplici, tutte radicate invero sull’esigenza di ridurre la durata del contenzioso dinanzi la Corte, come emerge dal rapporto “Il futuro del sistema giurisdizionale dell’Unione Europea” presentato alla Conferenza intergovernativa nel gennaio 2000, in relazione alla elaborazione del Trattato di Nizza. Sull’argomento cfr. C. Iannone, L’avvocato generale della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, in Riv. Un. Eur. 1/2002, 123 ss.


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Resta comunque il fatto che la Corte, a seguito di un’ampia premessa in merito all’applicazione del principio del contraddittorio, finisce per ribadire il principio di diritto secondo cui la circostanza che il reclamo non sospenda automaticamente l’esecuzione dell’atto possa assumere rilevanza nella valutazione del diritto ad essere ascoltati. Con l’ulteriore precisazione che una fase di preventiva audizione dell’interessato è, presumibilmente, quella più favorevole per correggere errori da parte della stessa Amministrazione, eventualmente al fine di determinare una modificazione del (potenziale) contenuto dispositivo dell’atto. In ragione di ciò si spiega anche il riferimento alla precondizione dettata dalla sentenza Kamino, secondo cui la violazione dell’obbligo di preventiva audizione dell’interessato determina l’invalidità dell’atto solo qualora l’eventuale instaurazione del contraddittorio avrebbe determinato l’adozione di un atto dal contenuto diverso da quello poi emesso. Tuttavia, in netta contrapposizione con tali passaggi, la Corte precisa come l’obbligo del contraddittorio non sia assoluto, e che possa trovar delle deroghe nelle ipotesi in cui sia necessario bilanciare tale obbligo con altri interessi, quali quello alla piena ed efficiente riscossione delle risorse dell’Unione. D’altro canto, si precisa ancora, l’opposizione avverso l’atto emesso non dovrebbe avere l’effetto di sospenderne l’efficacia ma l’ordinamento interno ha comunque l’obbligo di garantire piena ed effettiva attuazione del diritto doganale. Tali passaggi costituiscono tutti principi ripresi integralmente dal caso Kamino, che determinano però una conclusione opposta a quella presente nel precedente, poiché in questa fattispecie non si registra alcuna incompatibilità, proprio perché l’art. 244 del codice doganale non appare limitato dall’ordinamento interno e, quindi, le condizioni per l’ottenimento della sospensione non appaiono vulnerate. Questa è dunque la norma cardine intorno cui ruota la decisione della Corte di Giustizia: la condizione decisiva, per il giudice europeo, è proprio il fatto che se la sospensione non è automatica, comunque la disciplina interna non si pone in contrasto con il principio del contraddittorio se, e nella misura in cui, l’ordinamento non limiti l’applicazione dell’art. 244 del regolamento doganale, segnatamente nella parte in cui prevede che l’Autorità Doganale possa sospendere qualora abbia fondati motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata alla normativa doganale o si debba temere un danno irreparabile per l’interessato.


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5. Le principali ricadute: la mancata attuazione dell’art. 244 del codice doganale ed il rapporto tra normativa interna e tutela cautelare europea alla luce della non obbligatorietà del contraddittorio endo-procedimentale. – Quest’ultimo punto appare decisivo anche per scrutinare le ricadute sul piano del diritto nazionale, poiché, dopo aver motivato nel senso suesposto, la Corte precisa che l’eventuale limitazione delle condizioni sancite nell’art. 244 del codice doganale costituisce una circostanza che spetterà al giudice di verificare. Una simile statuizione, invero molto comune nella giurisprudenza della Corte (17), rischia di finire per esaurirsi, nel caso di specie, in una petizione di principio solo se si consideri il dato che l’art. 244 del codice doganale non ha trovato alcuna attuazione nell’ordinamento italiano. Non che ciò costituisca di per sé un vizio od una violazione di un obbligo da parte dell’ordinamento in quanto, trattandosi di fonte regolamentare, è ben plausibile che non vi siano state norme attuative od esecutive: ciò, però, non toglie che siano riscontrabili taluni problemi ermeneutici. Infatti, la principale condizione per la sospensione, ai sensi dell’art. 244, è che l’atto emesso vulneri la normativa doganale oppure ne limiti l’attuazione, senza, tuttavia, specificarne le modalità, il che è anche comprensibile vista l’eterogeneità degli ordinamenti degli Stati membri dell’Unione: quindi, una specificazione (anche in via di prassi) delle possibili violazioni dell’art. 244 sarebbe stata, se non obbligatoria, quantomeno opportuna (18). Ciò peraltro fa emergere il netto tratto differenziale tra il caso di specie ed il tanto ridondante caso Kamino dove, al contrario, l’ordinamento olandese aveva previsto, sotto forma di circolare, la disciplina della sospensione cautelare, dando quindi attuazione, quantomeno in via di prassi, alle condizioni

(17) Invero la Corte di Giustizia, una volta enunciato il principio di diritto, rimette al giudice nazionale la valutazione finale sul rispetto delle condizioni proprio in ragione del fatto che questi è l’unico soggetto in grado di conoscere il proprio ordinamento in modo da scrutinare la portata della decisione della Corte. Su tali aspetti, segnatamente in relazione ad un altro principio generale elaborato dalla Corte di Giustizia e sul funzionamento di tale “rimessione” al giudice nazionale, cfr. A. Mondini, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’Iva europea, Pisa, 2013. (18) In effetti, anche qualora un regolamento non preveda espressamente la necessità di una integrazione, da parte degli Stati membri, questa potrebbe comunque costituire un obbligo in capo a costoro, obbligo che potrebbe incardinarsi nell’art. 4, par. 3, TUE. Su tali aspetti si rinvia a R. Adam – A. Tizzano, Lineamenti di diritto dell’Unione Europea, Torino, 2012, 148 e v. note 130 e 131 per riferimenti alla giurisprudenza della Corte di Giustizia.


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sancite nell’art. 244 del codice doganale. E la decisione della Corte, in tal caso, è opposta a quella della sentenza che si annota proprio perché ci si trovava di fronte ad una simile attuazione che, ad avviso della Corte, determinava una inaccettabile interferenza e limitazione all’ordinamento doganale. Invece l’Italia nel non far nulla – non disciplinando, cioè, il procedimento di sospensione – non ha sbagliato, ad avviso della Corte poiché, per quanto il giudice nazionale possa valutare, la sua sarà comunque una valutazione relativa al rispetto delle sole condizioni sancite nell’art. 244 del codice doganale, senza alcun atto normativo o di prassi interna che si interponga rispetto a questa valutazione. Tali considerazioni impongono una ulteriore osservazione, relativa al rapporto tra disciplina europea e la tutela cautelare, amministrativa e giurisdizionale, sancita nel diritto interno. Infatti, va tenuto presente che non sarebbe opportuno, né legittimo, applicare per analogia i principi dell’ordinamento interno in materia di tutela cautelare e, cioè, riconoscendola soltanto qualora ricorrano i presupposti del periculum in mora e del fumus boni iuris. L’art. 244 del regolamento, in effetti, distingue con la congiunzione oppositiva «o» (19) il presupposto della violazione del diritto doganale (cioè il fumus) rispetto a quello del danno irreparabile e, quindi, i due presupposti ben possono ricorrere alternativamente. Ciò è confermato sia dalla Corte (20), sia dalla evoluzione normativa dell’art. 244: nel progetto elaborato dalla Commissione e dal Consiglio, infatti, la norma contemplava solo il primo dei due requisiti e fu soltanto a seguito dell’intervento del Comitato Economico e Sociale che la norma venne, poi, modificata con l’implementazione del riferimento al danno irreparabile. Proprio lungo questa linea sembrerebbe opportuno estendere il disposto dell’art. 244 non solo nella fase di rettifica, ma anche in quella giurisdizionale (derogando ai presupposti “classici” per la sospensione giudiziale di cui all’art. 47, d.lgs. 546/1992), soprattutto in ragione del fatto che la giurisprudenza di merito, in tale ultimo ambito (21), sembra svalutare in assoluto

(19) Peraltro, l’utilizzo di tale congiunzione è confermato anche dalle successive versioni dei codici doganali: così l’art. 24 del codice doganale del 2008 (reg. 450/2008), così l’art. 45 del codice doganale del 2013 (reg. 952/2013). Sulla natura alternativa tra i due presupposti cfr. M. Scuffi, Diritto doganale e delle accise: gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, in Dir. Prat. Trib., 3/2011, 20627 ss. (20) Corte Giust.17 luglio 1997, Bernd Giloy, C-130/95. (21) In cui le Commissioni si sono viste da tempo riconoscere l’incontrastato potere a sospendere gli atti dell’Amministrazione doganale: cfr. sul punto F. Cerioni, Gli atti dell’A-


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il ruolo della concorrenza cumulativa dei due presupposti (22). In effetti, tale precisazione consente di osservare come l’art. 244 del codice potrebbe ritenersi violato ogni qual volta l’ordinamento, cioè l’Autorità o i giudici, ritengano che ai fini della concessione della sospensione siano necessari entrambi i presupposti, cioè sia il periculum che il fumus, piuttosto che l’uno o l’altro, sicché, ogni qualvolta ciò si verifichi, la sospensione dovrebbe essere comunque concessa per la ricorrenza del fumus (possibile violazione della normativa doganale). 5.1. L’individuazione del margine di applicabilità del principio del contraddittorio e l’individuazione di un parametro alternativo per il giudizio di rinvio pregiudiziale. – Lo stimolo per una ulteriore riflessione emerge considerando il parametro utilizzato dal giudice rimettente, prima, e dalla Corte di Giustizia, poi, nello svolgimento del giudizio di rinvio pregiudiziale. Si tenga, prima di tutto, in considerazione che la vicenda oggetto della causa di specie si è svolta prima del 2012, anno in cui la disciplina del procedimento di accertamento doganale è andata incontro a robuste modifiche: può affermarsi, in effetti, che se la controversia fosse sorta all’indomani di questa modifica, presumibilmente gli esiti sarebbero stati diversi e forse più coerenti con il principio del contraddittorio. Infatti, con d.l. 2 marzo 12, n. 16, l’art. 11, d.lgs. 374/1990 è stato modificato e, mentre da un lato è stata abolita la c.d. “controversia doganale” anticipata rispetto all’impugnazione dell’atto (23), dall’altro ad oggi il comma 4-bis dispone che “Nel rispetto del principio di cooperazione stabilito dall’articolo 12 della legge 27 luglio 2000, n. 212 dopo la notifica all’operatore interessato, qualora si tratti di revisione eseguita in ufficio, o nel caso di accessi – ispezioni – verifiche, dopo il rilascio al medesimo della copia del verbale delle operazioni compiute, nel quale devono essere indicati i presupposti di

genzia delle dogane e la giurisdizione tributaria, in Rass. Trib., 2/2004, 2 ss. (22) In base alla c.d. teoria dei “vasi comunicanti”, metafora cui talvolta indulgono le Commissioni Tributarie, potendo l’uno dei due presupposti (il fumus od il periculum) assumere, nella valutazione della ricorrenza delle circostanze per applicare l’art. 47, d.lgs. 546/1992, rilievo preponderante rispetto all’altro. Cfr. per un esempio Comm. Trib. Reg. Lombardia, Milano, sez. I, ord. 11 aprile 2016, n. 495, nonché (ancorché in negativo) Comm. Trib. Reg. Lombardia, Milano, sez. X, ord. 26 settembre 2017, n. 1439. (23) Su tale novella cfr. M. Scuffi, Questioni procedimentali e processuali nel diritto doganale e in tema di accise, in il Fisco, 10/2016, 962 ss.


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fatto e le ragioni giuridiche posti a base delle irregolarità, delle inesattezze, o degli errori relativi agli elementi dell’accertamento riscontrati nel corso del controllo, l’operatore interessato può comunicare osservazioni e richieste, nel termine di 30 giorni decorrenti dalla data di consegna o di avvenuta ricezione del verbale, che sono valutate dall’Ufficio doganale prima della notifica dell’avviso” – quindi, generalizzando il contraddittorio pure nella fase a tavolino, in una prospettiva non diversa da quella cui si muove l’art. 12, comma 7 dello Statuto, quantomeno nel quadro delle materie “armonizzate”. E forse soltanto in presenza di questa norma avrebbe senso l’inciso, della Corte, al penultimo punto, richiamandosi alla precondizione di validità dell’atto nel caso Kamino visto che nel corpo della sentenza di fatto il contraddittorio ha un rilievo essenzialmente marginale. In presenza, invece, della normativa allora vigente, la Corte si è mossa da un lato valorizzando la problematica del contraddittorio ma, dall’altro, non tenendo in debita considerazione che probabilmente la prospettiva da cui partiva ha reso quella decisione inevitabile e quasi ovvia. In effetti, la Corte si è limitata a concludere che la facoltatività del contraddittorio risulta esser di fatto bilanciata dalla possibilità in capo all’interessato di ottenere la sospensione in presenza delle condizioni di cui all’art. 244 del codice doganale, senza tener conto che, in ogni caso, un confronto diretto con l’Amministrazione possa avvenire soltanto in presenza di un atto già perfezionatosi. La Corte, invero, non ha ritenuto di considerare come altro sia un confronto preventivo la formazione di un atto e altro sia, invece, un confronto successivo alla formazione, ed alla notifica dell’atto stesso, in sede giustiziale: in una sede, cioè, in cui o a seguito di opposizione in via amministrativa, o a seguito di ricorso giurisdizionale, un confronto tra le parti è comunque istituzionalizzato ma non in forza del principio del contraddittorio, ma in forza dei principi generali che regolano un procedimento di natura contenziosa. Recuperando le categorie nazionali, infatti, non sarebbe neppur corretto riferirsi al contraddittorio, in tale sede, come inerente al principio del giusto procedimento (24) poiché a livello giustiziale il procedimento si è già concluso, si è di fronte ad un atto formato ed oggetto di opposizione e, quindi, si ricade in una fase pato-

(24) Per il problema della individuazione del principio del giusto procedimento nell’ordinamento italiano e, più in generale, sulle principali problematiche poste dal rapporto tra diritto di difesa e contraddittorio endo-procedimentale, cfr. ampiamente G.M. Cipolla, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005 ed ivi, peraltro per il dibattito sulla “eccezionalità” del contraddittorio (273 ss.).


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logica dove il confronto tra le parti è finalizzato ad ottenere un atto di revoca o di modifica dell’atto opposto oppure, in sede giurisdizionale, all’accoglimento del ricorso. Va da sé che in questo caso il diritto di difesa del contribuente non risulta vulnerato ma proprio perché non si ricade in un contraddittorio inteso come “endo-procedimentale” ma, appunto, come funzionale allo svolgimento del contenzioso. Non vi è margine di applicazione di altre categorie, se non di quelle, appunto, giudiziali, indubbiamente riconnesse al rispetto del diritto di difesa del soggetto che agisce: in effetti, la dottrina amministrativistica (25) ormai configura il “procedimento amministrativo” come fase che anticipa quelle tutele nei confronti dell’Amministrazione che tradizionalmente sono deferite al momento giustiziale (cioè, alla fase giurisdizionale o amministrativo-contenziosa). Momento, quest’ultimo, in cui evidentemente le garanzie sono riconosciute come prius logico e tra queste garanzie vi è senza dubbio quella di essere ascoltati. Sotto il profilo della sospensione, infatti, l’Amministrazione è tenuta a valutare quanto eccepito dal contribuente-opponente nella fase giudiziale ai fini di scrutinare se sussistano o meno le condizioni per adottare il provvedimento cautelare; anche in tal caso, si tratta del corollario di una fase essenzialmente giudiziale, non il frutto di un “contraddittorio” tra contribuente ed Amministrazione finanziaria che, dunque, è assente sia nella fase endo-procedimentale che in quella “cautelare” vera e propria, il cui esito finisce per collocarsi in modo ancillare rispetto alla fase giustiziale vera e propria. L’atto, in altri termini, è stato adottato comunque unilateralmente e solo la strada patologica dell’opposizione (lato sensu intesa) può provocare non tanto un confronto quanto, appunto, un contenzioso. Ciò già induce a porre qualche dubbio sulla correttezza dell’individuazione del principio del contraddittorio come parametro del rinvio. C’è, però, un ulteriore aspetto da considerare. Come ormai dovrebbe apparire chiaro, la causa Kamino poneva infatti una questione fondamentalmente diversa da quella oggetto della presente causa, trattandosi di una fattispecie dove il problema del contraddittorio

(25) M. Calderaro, La partecipazione nel procedimento amministrativo tra potere e rispetto dei diritti di difesa, in Foro Amm., 5/2015, 1312 ss. L.R. Perfetti, Funzione e compito della teoria delle procedure amministrative. Metateoria su procedimento e processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 1/2014, 53 ss., per un riferimento alle riflessioni relative alle diverse funzioni che assumono il procedimento ed il processo e sull’opportunità di un superamento di queste dicotomie.


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emergeva in modo più netto e preciso. In effetti, il caso Prequ’Italia si pone, sotto tale profilo, in una situazione assai più peculiare. La Cassazione, infatti, interrogava la Corte di Giustizia in merito al rapporto tra il principio del contraddittorio ed una disciplina nazionale che, di fatto, rimetteva integralmente l’applicabilità della sospensione amministrativa alla stessa normativa europea. Mancando, dunque, un qualsiasi provvedimento di attuazione delle disposizioni del codice doganale, ancorché mediante un atto di prassi (26), di fatto alla Corte di Giustizia si è posto il problema di scrutinare una normativa nazionale integralmente modellata sulla disciplina europea, alla luce di un parametro, appunto, elaborato in sede europea quale è il principio del contraddittorio. Questo apparente corto-circuito viene risolto dalla Corte di Giustizia nel senso di non riscontrare alcun problema di compatibilità, proprio perché, a conti fatti, mancava un qualsivoglia atto che si ponesse come ostativo all’applicazione dell’art. 244 del codice doganale. Tuttavia, va considerato come i riferimenti continui alla disciplina della sospensione conforme ad una norma di diritto europeo, e non nazionale, sembra più conferente con il principio di effettività (27). E, se posta in tali termini, la soluzione sarebbe potuta essere diversa (28), poiché mentre con il contradditorio la Corte si è mossa con l’arrière-pensée delle regole dettate dalla sentenza Kamino, quando tali regole sembrano applicarsi solo trasversalmente alla fattispecie concreta, il principio di effettività avrebbe richiesto invece una più ampia riflessione sull’opportunità, da parte dell’ordinamento italiano, di non aver recepito nemmeno con

(26) Vero che una circolare, in merito, fa in effetti riferimento alla sospensione amministrativa ma solo per richiamarsi, appunto, alla normativa di diritto europeo (come, del resto, nota la stessa Corte): così circ. Agenzia delle Dogane 41/d/2002 del 17 giugno 2002. (27) Che, quale corollario del principio della certezza del diritto, implica che le modalità di tutela delle libertà del singolo vadano impostate in modo da non rendere impossibile od eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti riconosciuti dall’ordinamento europeo. Sul punto cfr. segnatamente. R. Schiavolin, Il principio di certezza del diritto e la retroattività delle norme impositrici, in Di Pietro – Tassani (a cura di), I principi europei del diritto tributario, Padova, 2013, p. 37. (28) Ancorché imperniata su una fonte di diritto derivato quale un regolamento europeo, che notoriamente ha efficacia diretta e che, quindi, all’apparenza poco avrebbe a che vedere con un problema di effettività. Invero, esiste una differenza ontologica tra effettività ed efficacia e, quindi, tra determinazione del modo di operare del diritto vigente e attribuzione di un particolare effetto ad una norma in un dato contesto storico. Su tale sottile distinzione e, più in generale, sulla individuazione del significato dell’effettività in chiave comunitaria, cfr. N. Lipari, Il problema dell’effettività nel diritto comunitario, Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 3/2009, 887 ss.


circolare le condizioni previste nell’art. 244 del codice, lasciando al giudice un margine valutativo troppo ampio e discrezionale. In altri termini, il problema della tutela del contribuente si sarebbe potuto declinare più correttamente tenendo conto della facoltatività, in questo caso, del principio del contraddittorio e dell’apprezzamento troppo ampio entro cui rientrano le condizioni per la sospensione dell’atto impugnato. Questo anche come corollario della ultraspecialità del diritto doganale rispetto al diritto tributario, cui consegue l’applicabilità di categorie differenziate al primo rispetto al secondo. Qui, invece, come ben noto, il contraddittorio pone problemi del tutto diversi, dipendenti dalla natura armonizzata o meno del tributo accertato, mentre nell’ambito doganale non si tratta tanto di armonizzazione, quanto, appunto, della disciplina di accertamento di una risorsa propria dell’Unione.

Paolo De Quattro


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto

Il ruolo della residenza fiscale delle persone fisiche nell’imposizione sui redditi, e la introduzione di un nuovo discutibile criterio di tassazione per i “neo residenti” Sommario: 1. Premessa. – 1.1. Oggetto della ricerca. – 2. Il rinvio agli istituti civilistici della residenza e del domicilio per individuare la residenza fiscale delle persone fisiche. – 3. Iscrizione anagrafica quale criterio formale costitutivo della residenza fiscale in Italia ovvero della non residenza, ma con diversa efficacia probatoria. – 3.1. La presunzione di residenza dei cittadini italiani trasferiti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato. – 4. Le contestazioni del fisco in merito alla sussistenza del domicilio o della residenza in Italia ai sensi del codice civile: la “sede principale degli affari” e la “dimora abituale”. – 5. Conflitti di residenza, convenzioni internazionali contro la doppia imposizione e tie breaker rules. – 6. L’imposta sostitutiva sui redditi prodotti all’estero realizzati da persone fisiche che trasferiscono la propria residenza in Italia. – 7. Ambito oggettivo di applicazione del regime sostitutivo. – 8. Istanza di interpello, trasferimento della residenza, ed esercizio dell’opzione. – 9. Sui difetti di coordinamento del nuovo regime per i “neo residenti” con la disciplina domestica e convenzionale in materia di residenza fiscale. – 10. Considerazioni in merito all’efficacia ed agli effetti del nuovo regime di tassazione sostitutiva. – 11. Sulla (in) compatibilità costituzionale della tassazione sostitutiva dei redditi esteri dei “neoresidenti”. Nell’articolo si analizza la funzione della residenza fiscale nell’imposizione sui redditi delle persone fisiche, quale criterio di collegamento del soggetto passivo del tributo con l’ordinamento e il territorio dello Stato; nonché per differenziare la tassazione in base alla diversa intensità del legame di appartenenza del soggetto passivo alla sfera di sovranità dello Stato impositore. Le regole interne previste per la individuazione della residenza fiscale delle persone fisiche, che rinviano alle nozioni civilistiche di domicilio e residenza, sono state e sono tutt’ora interpretate in modo non uniforme dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Particolare attenzione deve essere dedicata alla interpretazione ed applicazione dei criteri formali e sostanziali costitutivi della residenza fiscale in Italia, alle presunzioni di residenza fiscale, e alla risoluzione dei conflitti di residenza in ambito internazionale sulla base delle convenzioni contro la doppia imposizione. Lo spunto per le riflessioni proposte nell’articolo deriva dalla recente introduzione di un regime opzionale di imposizione sostitutiva sui redditi prodotti all’estero, applicabile alle persone fisiche che trasferiscono la propria residenza in Italia. Questo intervento legislativo verrà analizzato effettuando una valutazione circa gli effetti e l’efficacia del nuovo regime, la sua compatibilità con il sistema di tassazione dei redditi nel quale si inserisce, la sua ragionevolezza e la sua compatibilità costituzionale.


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This paper concerns the role of tax residence in levying income taxes on natural persons, as a criterion for determining the relationship of the taxable person with the law and the state territory. It may also be a criterion to distinguish taxation on the different levels of relationship between persons and the State which is levying taxes. Internal rules to determine the fiscal residency of natural persons, which refer to the civil concepts of domicile and residence, have been and still are interpreted in a non-uniform way by doctrine and jurisprudence. Particular attention must be paid to the interpretation and application of the formal and substantial criteria that determine tax residence in Italy, to presumptions of tax residence, and to the settlement of conflicts of residence in the international fields, applying international agreements to avoid double taxation (with respect to taxes on income and on capital). The starting point for the considerations proposed in the paper is the recent introduction of an optional system of substitute taxation on income produced abroad, applicable to natural persons who move to Italy. This regulation will be examined by making an assessment of the effects and effectiveness of the new regime, its compatibility with the income tax system to which it refers, its reasonableness and constitutional compatibility.

1. Premessa. – La residenza è l’indice più comunemente utilizzato, nei moderni sistemi tributari, come ‘criterio di collegamento’ di un soggetto (e dei fatti economici ad esso riferibili) al territorio e all’ordinamento statale, e come fondamento del dovere tributario (1). Nelle imposte sul reddito la “residenza fiscale” (2) non è un elemento determinante per individuare i soggetti

(1) Sul rilievo del concetto di territorialità nel diritto tributario si vedano, tra gli altri, R. Lupi, Territorialità del tributo, in Enc. giur. Treccani, XXXI, Roma, 1994, 1 ss.; C. Sacchetto, Territorialità (diritto tributario), in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 303 ss.; Id., L’evoluzione del principio di territorialità e la crisi della tassazione del reddito mondiale nel paese di residenza, in Riv. dir. trib. int., 2001, 35 ss.; R. Baggio, Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà tributaria, Milano, 2009, passim. In particolare si veda G. Fransoni, La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2004, passim, e spec. 267 ss., 291 ss., ove si sottolinea la stretta connessione tra dovere tributario e partecipazione alla comunità statuale, espressa dal concetto di appartenenza, della quale occorre misurare il grado di intensità ai fini del riparto dei carichi pubblici; e 301 ss., 309 ss., sulla rilevanza del principio di territorialità con riferimento al profilo spaziale della disciplina del presupposto del tributo. (2) Tra i principali contributi sul tema si vedano G. Marino, La residenza nel diritto tributario, Padova, 1999, 17 ss., 191 ss.; Id., La residenza, in Diritto tributario internazionale, coordinato da Victor Uckmar, Padova, 2005, 345 ss.; P. Pistone, Aspetti tributari del trasferimento di residenza all’estero, in Riv. dir. fin., 2000, 240 ss.; G. Marini, La residenza fiscale delle persone fisiche nell’imposizione sui redditi, in Dir. prat. trib. int., 2008, 1099 ss.; G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, Milano, 2009; Baggio, Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà tributaria, cit., 270 ss.; R. Piantavigna P., La funzione della nozione di residenza fiscale nell’IRPEF, in Riv. dir. fin., 2013, 275 ss.; E. Marello, Il ruolo degli interessi sociali nella determinazione della residenza delle persone fisiche, in Riv. trim. dir.


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passivi (posto che sono tali sia i residenti che i non residenti), ma un criterio per definire diversi “modelli impositivi”, sulla base di un diverso “ragionevole collegamento tra la capacità contributiva manifestata dal presupposto e l’ordinamento e il territorio dello Stato (3). La residenza (fiscale) costituisce, nel diritto tributario interno e internazionale, “l’unico plausibile termine di raffronto per collegare stabilmente un soggetto ad un territorio, ad uno Stato, e sottoporlo al suo regime impositivo” (4), ed uno dei “criteri suscettibili di individuare un ragionevole collegamento tra la capacità contributiva manifestata dal presupposto e il territorio dello Stato” (5). Essa serve anche per differenziare la tassazione in base alla diversa intensità del legame di appartenenza del soggetto passivo alla sfera di sovranità dello Stato impositore (6), ovvero alla sfera dei consociati tenuti a concorrere alle spese pubbliche (7).

trib., 2015, 1063 ss.; M. Procopio, L’individuazione della residenza fiscale: un problema ancora aperto, in Dir. prat. trib., 2016, 560 ss. (3) Cfr. A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 213 ss., 793 ss.; G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Padova, 2018, 80 ss. Vedi anche G. Puoti, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Trattato di diritto tributario, diretto da Andrea Amatucci, IV, Padova, 1994, 12, nel senso che la residenza esprime “l’inserimento pieno del soggetto nell’ambito della comunità statuale”, e “comporta la massima espansione dei principi di solidarietà e capacità contributiva”, da cui deriva “un obbligo contributivo parametrato alla situazione economica complessiva”. Mancando tale collegamento del soggetto con il territorio, “l’obbligo di contribuzione assume consistenza più limitata, restando parametrato ai redditi prodotti nel detto territorio”. (4) Cfr. M.C. Fregni, La residenza fiscale delle persone fisiche, in Giur. it., 2009, 2565. (5) Cfr. Fantozzi A., Il diritto tributario, cit., 213. Vedi anche G. Fransoni, La territorialità nel diritto tributario, cit., 311 ss., secondo il quale la nozione di «criteri di collegamento» può essere riferita sia al “rapporto (di appartenenza) del soggetto chiamato a concorrere alle pubbliche spese con la collettività alla quale le spese si riferiscono”, sia “come modo di selezione dei fatti indici di capacità contributiva in ragione della loro più o meno esclusiva riferibilità ad un determinato soggetto” (6) È stato, autorevolmente, affermato che “la spiegazione dell’applicazione del principio dell’universalità dell’imposta, nel caso dei residenti, e dell’imposizione su base territoriale, nel caso dei non residenti, potrebbe essere individuata nella maggiore intensità del vincolo dei primi rispetto ai secondi anziché nella diversa giustificazione del prelievo, ossia in base alla titolarità del dovere tributario, per i primi, e del principio del beneficio, per i secondi”. Cfr. G. Fransoni, La territorialità nel diritto tributario, cit., 298. (7) Cfr. M.C. Fregni, La residenza fiscale delle persone fisiche, cit., 2566. La residenza è “un dato basilare, in forza del quale vengono distinti coloro che, in quanto membri a tutti gli effetti di una comunità, debbono concorrere in modo pieno alle pubbliche spese”, “e i non residenti, che, essendo partecipi in misura parziale della vita di una comunità, sono chiamati a


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Nei sistemi tributari moderni la tassazione dei redditi avviene, di regola, in base a criteri di collegamento di tipo “personale” (resident jurisdiction) o di tipo “reale” (source jurisdiction), sui quali si fonda l’esercizio della potestà impositiva dello stato (8). Nel primo caso si applica il principio della tassazione del reddito mondiale (worldwide income taxation), mentre nel secondo si applica un principio di tassazione di tipo territoriale (source taxation) (9). Una ulteriore differenza rilevante è costituita dalla limitazione degli oneri deducibili e delle detrazioni concesse ai contribuenti non residenti, a conferma della natura reale dell’imposizione su tali soggetti alla quale consegue la attenuata rilevanza delle situazioni personali e familiari (10).

contribuire alle spese pubbliche in misura limitata”. Lo status di residente non incide sulla soggettività passiva e sulla qualificazione del reddito, né sulla sua imputazione temporale, ma rileva, in caso di mancanza, nel senso che rende necessaria la verifica di un collegamento reale tra presupposto (possesso del reddito) e territorio, e determina le modalità di tassazione del reddito (applicazione di forme di tassazione sostitutiva, esclusione della spettanza di deduzioni e detrazioni). In tal senso cfr. G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, cit., 257 ss. La residenza assume un rilievo particolare nella imposizione sui redditi perché “assolve il compito di individuare due regimi impositivi … la cui diversità non attiene solo ai modi di determinazione della base imponibile”, ma è data dalla presenza o meno del “carattere di personalità dell’imposizione”. Cfr. G. Fransoni, La territorialità nel diritto tributario, cit., 357 ss. (8) Cfr. M.C. Fregni, La residenza fiscale delle persone fisiche, cit., 2566 ss. Il principio di capacità contributiva dettato dall’art. 53 Cost. che “impone il dovere di concorrere alle spese pubbliche a tutti coloro che hanno un rapporto personale o reale con lo Stato italiano: e quindi a tutti coloro che risiedano nel suo territorio o siano legati ad esso da un vincolo economico che si concreta nell’esercizio in Italia di un’attività o nel possesso di un bene”. (9) La ragionevolezza della tassazione del reddito globale dei soggetti residenti dipende dal fatto che essi si trovano in una “condizione soggettiva, la quale, postula l’inserimento durevole e personale del contribuente nella comunità nazionale”, mentre per i “non residenti, la connessione tra provento e ordinamento è individuabile nel luogo in cui si avvera il fatto imponibile”. Cfr. A.M. Gaffuri, La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero, Milano, 2008, 316 ss. (10) Si accenna soltanto alla categoria dei c.d. non residenti Schumacker, elaborata sulla base della giurisprudenza della Corte di giustizia (C-279/93, Schumacker; C-234/01, Gerritse; C-169/03, Walletin), che pur confermando come “in materia di imposte dirette la situazione dei residenti e quella dei non residenti non sono di regola analoghe”, afferma che in taluni casi si trovano in situazioni comparabili. Ciò accade quando il non residente percepisce la maggior parte del proprio reddito nello stato della fonte e non in quello della residenza. Gli stati hanno introdotto regole specifiche per tener conto di tali principi. In Italia con la l. 30 ottobre 2014, n. 161, è stato introdotto il comma 3-bis nell’art. 24 del Tuir, ove si stabilisce che i contribuenti italiani non residenti che producono la maggior parte del proprio reddito (almeno il 75% del loro reddito mondiale) nel territorio italiano godono del


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Nell’ordinamento tributario italiano viene adottato un “modello ibrido” (11) per definire il potere impositivo in relazione a fattispecie reddituali con caratteri di extraterritorialità (connessi alla fonte del reddito o all’ordinamento di appartenenza del soggetto al il reddito è imputabile). Si attua, quindi, una “imposizione «semiterritoriale» sui redditi, che è caratterizzata da una tassazione mondiale che si trasforma, per alcune fattispecie reddituali, in tassazione territoriale” (12). Nel rispetto del principio di capacità contributiva che costituisce fondamento e limite della tassazione, il criterio di collegamento di tipo personale adottato è quello della residenza (13), poiché si ritiene che la residenza esprima la partecipazione piena del soggetto alla comunità (14), e giustifichi la sua tassazione in base al reddito mondiale. Viceversa il soggetto non residente che partecipa in misura limitata alla vita della comunità deve essere chiamato a contribuire in misura limitata (15).

medesimo regime di deduzioni e detrazioni fiscali previsto per i soggetti residenti. (11) L’applicazione congiunta di criteri di collegamento di tipo territoriale e residenziale, induce parte della dottrina a qualificare i sistemi fiscali come “sistemi ‘ibridi’ da una parte e ‘obsoleti’ dall’altra”, perché “a causa dell’evoluzione del mercato e della globalizzazione dell’economia, sembrano ormai superati in quanto insufficienti a garantire da soli il gettito erariale degli Stati”. Cfr. M. Russo, La territorialità, in Principi di diritto tributario europeo e internazionale, a cura di Claudio Sacchetto, Torino, 2011, 82 ss. (12) Cfr. G. Marino, La residenza nel diritto tributario, cit., 4. (13) Al collegamento personale espresso dalla residenza fiscale è stato associato il concetto di “appartenenza economica” (C. Garbarino, Economic allegiance e dimora nel territorio dello Stato per più di sei mesi nell’anno, in Dir. prat. trib., 1991, II, 537 ss.), valorizzato per affermare l’assoggettabilità del residente al potere tributario di uno stato, e “per l’attribuzione della sovranità tributaria nell’ambito delle imposte dirette sul reddito transnazionale”. Cfr. P. Valente - L. Vinciguerra, Il centro degli interessi vitali nella residenza delle persone fisiche tra redditi “liquidi” e nomadismo fiscale, in Riv. guardia. fin., 2016, 443. (14) Cfr. F. Peddis, Considerazioni sugli effetti dell’iscrizione all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero nel trasferimento della residenza fiscale, in Riv. dir. trib., 2016, 345, nel senso che “soltanto l’appartenenza stabile al ciclo vitale di una comunità nazionale quale risulta espresso dalla residenza è considerato un indice affidabile del grado di coesione etica, politica e sociale rispetto alla comunità medesima”. (15) Si tenga presente l’autorevole opinione secondo la quale “la tassazione dei non residenti, imperniata sul principio di territorialità, deve almeno in alcune ipotesi essere puntellata dal riferimento al principio del beneficio, per l’oggettiva impossibilità di affermare un legame di appartenenza dello straniero alla comunità”. Cfr. D. Stevanato, La giustificazione sociale dell’imposta, Bologna, 2014, 76.


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1.1. Oggetto della ricerca. – Il rilievo dell’istituto della residenza fiscale, con specifico riferimento al suo utilizzo ai fini dell’imposizione sui redditi delle persone fisiche (oltre che, naturalmente, su quelli degli enti collettivi, della quale non ci si occupa nel presente lavoro), è confermato da molteplici interventi della dottrina e da una giurisprudenza non univoca sulla interpretazione dei criteri per determinarla e sulla loro efficacia probatoria, nonché dall’importante ruolo delle convenzioni internazionali. Su tali aspetti si svilupperà l’indagine, ed in particolare sulla tecnica del rinvio intraistituzionale alle nozioni civilistiche di domicilio e residenza, sulla interpretazione ed applicazione dei criteri formali e sostanziali costitutivi della residenza fiscale in Italia, sulle presunzioni di residenza fiscale, e sulla risoluzione dei conflitti di residenza in ambito internazionale. Lo spunto per le riflessioni proposte deriva dalla recente introduzione di differenti regole di determinazione delle imposte sul reddito per le persone fisiche che trasferiscono la propria residenza in Italia. Ci si riferisce alla legge di bilancio per il 2017 (l. n. 232/2016, art. 1, commi da 152 a 159), che introduce nel testo unico delle imposte sui redditi l’articolo 24-bis, con la previsione di un regime opzionale di imposizione sostitutiva dell’Irpef (e delle addizionali locali) sui redditi prodotti all’estero, cui possono accedere le persone fisiche che trasferiscono la propria residenza in Italia (c.d. regime dei “neo residenti”) (16), fermo restando il regime ordinario per i redditi prodotti in Italia. Nella seconda parte del lavoro verrà commentato il recente intervento legislativo, effettuando una valutazione circa la ragionevolezza del nuovo regime e la sua compatibilità con il sistema di tassazione dei redditi nel quale si inserisce, alla luce della analisi sulle regole generali in materia di residenza fiscale delle persone fisiche. 2. Il rinvio agli istituti civilistici della residenza e del domicilio per individuare la residenza fiscale delle persone fisiche. – Non è qui il caso di

(16) Tale regime si aggiunge ad altri già esistenti, con l’intento di creare un sistema di misure volte ad agevolare le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia per svolgervi un’attività di lavoro, per le quali è prevista una tassazione agevolata dei redditi prodotti in Italia, e misure volte ad agevolare le persone fisiche che si trasferiscono in Italia a prescindere dallo svolgimento di una particolare attività lavorativa, per le quali è prevista una tassazione agevolata dei redditi prodotti all’estero”. Su questo sistema di incentivi ed in particolare sul regime opzionale di imposizione sostitutiva per i nuovi residenti, è stata di recente emanata la Circolare del 23 maggio 2017, n. 17/E.


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indugiare sul significato che la nozione di residenza può assumere nei diversi settori dell’ordinamento giuridico (17). La residenza assume rilievo fiscale principalmente ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi, ed è definita, quanto alle persone fisiche, nell’art. 2 del Tuir (18), che contiene un esplicito rinvio agli istituti civilistici del domicilio e della residenza. Com’è noto, domicilio e residenza sono valorizzati nel diritto civile per definire l’ambito spaziale nel quale l’ordinamento giuridico attribuisce rilevanza ai comportamenti dei soggetti, individuando, quindi, la “sede giuridica della persona” (19). Questi luoghi individuano le relazioni tra soggetto e territorio qualificando tale collegamento con diversi criteri che ne esprimono la continuità (20).

(17) Su tale questione vedi, tra gli altri, G. Marino, La residenza nel diritto tributario, cit., 8, il quale osserva che “per quanto la residenza esprima una relazione tra una persona ed un determinato territorio, di essa non è prevista una nozione unitaria nell’ordinamento giuridico italiano”, ed aggiunge che “la residenza nel diritto tributario è più ampia della residenza del codice civile”. (18) La categoria giuridica della “residenza”, intesa come criterio di collegamento tra la pretesa fiscale ed il territorio dello Stato che la impone, viene declinata solo in positivo senza definire il concetto di “non residenza”. Cfr. P. Piantavigna, La funzione della nozione di residenza fiscale nell’IRPEF, cit., 277-8. (19) Difatti, “solo attraverso la collocazione in determinati ambiti spaziali e temporali dei comportamenti umani il soggetto assume una precisa individuazione sociale ed ambientale”. Cfr. M. Esu, Domicilio - Residenza - Dimora, in Trattato di diritto privato, diretto da Pietro Rescigno, II, 2, Torino, 1999, 571-572. Quanto alla rilevanza giuridica attribuita dall’ordinamento alla sede giuridica della persona, si veda, A.D. Candian, Domicilio, residenza, dimora, in Dig. disc. priv., sez. civ., VII, Torino, 1991, 114, che osserva come essa riguardi effetti prevalentemente processuali piuttosto che sostanziali, e che vi sono casi in cui residenza e domicilio hanno un valore paritetico, casi in cui il domicilio ha un valore esclusivo, e casi in cui ha un valore gerarchico superiore rispetto alla residenza. Vedi anche I. Riva, Le sedi della persona fisica: domicilio e residenza, in Studium iuris, 2017, 805 ss. Sugli effetti processuali della residenza in materia tributaria, a proposito della notifica degli atti tributari a contribuenti residenti all’estero, vedi L. Nicotina, In tema di notifica nel procedimento e nel processo tributario, in Riv. dir. trib., 2009, 740 ss.; e più di recente, M. Bruzzone, Garanzie di «conoscenza effettiva» nella notificazione di atti tributari a contribuenti residenti all’estero ed iscritti all’A.I.R.E., in Riv. giur. trib., 2013, 635 ss. Sulle notifiche a cittadini trasferiti in stati a regime fiscale privilegiato vedi A.R. Ciarcia, Analisi ragionata dell’evoluzione giurisprudenziale in tema di trasferimento all’estero della residenza delle persone fisiche tra procedura di notifica e presunzione di residenza, in Dir. prat. trib. int., 2017, 697 ss. (20) Diverso è l’inquadramento del soggetto rispetto allo spazio per le persone fisiche e per le persone giuridiche. Con riferimento a queste ultime, però, il codice civile individua una nozione unitaria di “sede”, mentre per le persone fisiche il fenomeno è più articolato, ed “il legislatore formalizza tre diversi modi di essere del soggetto con lo spazio”, ovvero il domicilio, la residenza e la dimora, che “costituiscono i tre tipi di sede cui il vigente ordinamento attribuisce


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La ricostruzione più tradizionale ravvisa nel domicilio una res iuris, e nella residenza una res facti, affermando che il primo sarebbe qualificato dalla volontà del soggetto di stabilirsi in un dato luogo, mentre la seconda esprimerebbe una situazione di fatto costituita dall’elemento oggettivo della effettiva presenza della persona in un dato luogo. In una visione più moderna dei concetti di domicilio e residenza, però, basare la distinzione solo sul rilievo della componente intenzionale e volontaria non sembra più soddisfacente, posto che in entrambi i casi sono presenti elementi soggettivi e oggettivi, e pertanto, l’autonomia degli istituti deriva dai differenti presupposti materiali che qualificano la relazione tra persona e spazio, la cui sussistenza ha rilievo prevalente rispetto alla componente volontaristica (21). Con riferimento a tali istituti è necessario specificare quale rilievo abbia la “abitualità” della dimora, cosa si intenda per “sede di affari e interessi”, come individuare la “sede principale”, e che valore attribuire alla “stabilità” della sede. Il connotato della “abitualità” conferisce alla dimora rilevanza nei rapporti giuridici, in quanto luogo scelto dalla persona “per trascorrervi la propria vita adibendolo a una funzione abitativa”. Esso attribuisce alla dimora anche il carattere della “unicità”, e viene inteso come stabile permanenza nel luogo di abitazione, evocando una misura temporale o quantitativa, ed un aspetto qualitativo. Tali connotati assumono rilievo entrambi nel momento in cui si tratta di stabilire in quale tra più luoghi frequentati dalla persona, essa abbia stabilito la propria dimora abituale, al fine di individuarne la residenza. Il domicilio è radicato nel luogo ove la persona stabilisce la “sede principale dei suoi affari e interessi”, e su tale fatto materiale si pone l’accento, più che sull’elemento volontario e intenzionale (22), attribuendo al domicilio

rilevanza per finalità diverse nel qualificare l’agire umano in ordine allo spazio”. Cfr. M. Esu, op. loco ult. cit. (21) Su tali questioni, solo brevemente enunciate, si rinvia alla dottrina civilistica. Vedi, tra gli altri, M. Esu, Domicilio - Residenza - Dimora, cit., 576 ss; A.D. Candian, Domicilio, residenza, dimora, cit., 111 ss.; Costanza M., Domicilio, residenza, dimora (dir.civ), in Enc. giur., XII, Roma, 1989, 1 ss.; P. Forchielli, Domicilio, residenza e dimora. a) Diritto privato, in Enc. dir., XII, Milano 1964, 848 ss. (22) La svalutazione del ruolo dell’elemento soggettivo nella definizione del domicilio, è sostenuta affermando che “di fronte al fatto materiale dell’accentramento dei rapporti facenti capo alla persona in un luogo o alla sua presenza abituale nello stesso, la volontà potrà essere interpretata come mero antecedente storico, privo di autonoma rilevanza, esterno alla struttura


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“una connotazione più astratta rispetto alla residenza, non implicando la presenza fisica del soggetto, né un’attività ben caratterizzata dall’abitare” (23). È per questo motivo che risulta più difficile la definizione di tale concetto, come è testimoniato dalla genericità dell’espressione “sede principale degli affari e interessi”, che non è univocamente interpretata dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Secondo un orientamento essa comprenderebbe solo gli interessi di carattere patrimoniale, posto che quelli di natura sociale e personale sono, di regola, concentrati nel luogo di residenza (24). Altra tesi è quella che l’inciso “affari e interessi” andrebbe inteso nel suo significato più ampio esteso a tutti gli interessi che fanno capo alla persona in un dato luogo, sia di natura economica e patrimoniale, sia di natura morale o sociale (25). Il requisito della “principalità”, evoca il carattere della unicità. Così come la residenza, il domicilio è unico, pertanto in presenza di più luoghi nei quali la persona gestisce i propri affari e interessi, occorre individuale una unica “sede principale”. Ciò avviene attraverso un processo comparativo non facile, a causa della variabilità dei criteri utilizzabili, che devono avere un carattere empirico tale per cui non possano sussistere in modo equivalente con riferimento a due luoghi. Fra tali criteri si annovera quello della “stabilità” nel senso di durata nel tempo, che però costituisce solo uno degli indizi e non elemento costitutivo, come avviene per la residenza, in ragione del necessario connotato di abitualità della dimora. La diversa caratteristica e rilevanza giuridica della residenza rispetto al domicilio, emerge anche dalla previsione solo per la prima, di un registro anagrafico tenuto presso ogni comune (26). L’iscrizione in tali registri ha una

del fatto”. Cfr. M. Esu, Domicilio - Residenza - Dimora, cit., 581. (23) Cfr. I. Riva, Le sedi della persona fisica: domicilio e residenza, cit., 810. (24) Si vedano, tra gli altri, M. Esu, Domicilio - Residenza - Dimora, cit., 583 ss., e la dottrina ivi citata; M. Costanza, Domicilio, residenza, dimora (dir.civ), cit., 2, ove si rileva che “la normativa positiva fa riferimento all’istituto del domicilio in fattispecie in cui sono in gioco interessi essenzialmente di natura patrimoniale”, “mentre, nei casi in cui si controverte di interessi di natura non strettamente patrimoniale, si utilizza il concetto di residenza”. (25) Il domicilio sarebbe il luogo nel quale si concentrano “una serie non definibile a priori di elementi – interessi, affetti, passioni, rapporti professionali e sociali – in cui si manifesta l’essenza della persona”. Cfr. I. Riva, Le sedi della persona fisica: domicilio e residenza, cit., 810. (26) La l. 24 dicembre 1954, n. 1228, disciplina l’Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente, unitamente al d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223, contenente l’Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente. Ad essi si aggiunge la l. 27 ottobre 1988, n. 470, che disciplina Anagrafe e censimento degli italiani all’estero.


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mera funzione di pubblicità con effetto dichiarativo, e non vale a determinare in senso sostanziale la residenza della persona che corrisponde a quella reale e non a quella apparente, salvo quanto previsto a tutela dei terzi di buona fede. Il dato formale della “residenza anagrafica” ha un mero valore probatorio, nel senso che ad esso si presume corrisponda il luogo di “dimora abituale”, ma si tratta di una presunzione iuris tantum (collegata alla dichiarazione del soggetto), superabile con ogni mezzo di prova. L’aspetto probatorio viene preso in considerazione dal legislatore prevalentemente con riferimento alla tutela dei terzi di buona fede, prevedendo che ad essi non può essere opposto il trasferimento della residenza “se non è stato denunciato nei modi prescritti dalla legge” (art. 44 c.c.) (27). Pertanto, da un lato è pacificamente riconosciuto che l’iscrizione anagrafica ha un mero valore presuntivo che la dimora abituale reale sia in quella sede, ed i terzi possono sempre dimostrare che quest’ultima non corrisponda all’indicazione anagrafica (28). Dall’altro, e sempre a tutela dei terzi di buona fede, l’interessato non è ammesso a provare “l’esistenza di una residenza effettiva diversa da quella risultante dai registri anagrafici” (29), e la dichiarazione di residenza in un determinato comune fa piena prova della effettività della residenza contro il dichiarante. La definizione del concetto di “residenza fiscale” avviene mediante il rinvio intraistituzionale agli istituti civilistici della residenza e del domicilio (30). Le due nozioni di “residenza fiscale” e di “residenza civile” sono diverse (31)

(27) Tale disciplina “è applicabile solo ai trasferimenti tra due Comuni dello Stato italiano, e non già per il trasferimento all’estero”, Cfr. M. Esu, Domicilio - Residenza - Dimora, cit., 609. (28) Allo stesso modo i terzi possono fornire la prova che il dichiarato mutamento della residenza non si è verificato e che la situazione reale è rimasta immutata, poiché la denuncia di trasferimento ha valore esclusivamente a favore dei terzi e non a loro danno. (29) A.D. Candian, Domicilio, residenza, dimora, cit., 122; nello stesso senso M. Esu, Domicilio - Residenza - Dimora, cit., 614. (30) G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, cit., 122 ss. (31) Non solo “la residenza nel diritto tributario è più ampia della residenza del codice civile”, ma, “nel diritto tributario, con il termine residenza si può intendere un genere di appartenenza”, che “si compone di diverse specie, giuridicamente rilevanti, a seconda del più o meno intenso legame con il territorio”. Cfr. G. Marino, La residenza nel diritto tributario, cit., 8. Vedi anche E. Iascone, Note in tema di residenza delle persone fisiche e connesse problematiche processuali, in Dir. prat. trib., 2004, 1165 ss., il quale afferma che “nel diritto


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e non sovrapponibili (32). Invero il diverso significato non deriva solo dal fatto che la “residenza fiscale” è un contenitore più ampio (33), in quanto è sufficiente anche solo avere il domicilio civilistico nello stato per essere considerati fiscalmente residenti. Vi sono, infatti, delle differenze sostanziali (ad esempio con riferimento all’elemento spaziale e all’elemento temporale), che contribuiscono a marcare la sostanziale diversità di funzione dei due istituti che rispondono a finalità diverse Intanto occorre rilevare che la “residenza fiscale” delle persone è individuata applicando criteri sostanziali alternativi che fanno riferimento alla “sede principale degli affari e interessi” (domicilio civilistico) ovvero alla “dimora abituale” (residenza civilistica), in aggiunta al criterio formale della iscrizione nella anagrafe della popolazione residente, che dovrebbe assumere rilevanza in quanto prova della esistenza del domicilio o della residenza civilistici nello stato (34). Stabilire se la persona è residente o meno nel territorio dello stato ha effetto, in primo luogo, per la determinazione della base imponibile nelle imposte sul reddito, in base al principio della tassazione del reddito mondiale ovvero

tributario, la residenza assume un significato più complesso rispetto a quello ad essa attribuibile ai sensi dell’art. 43 del codice civile”, e richiama l’idea che la “residenza fiscale” costituisca un genus, che contiene al suo interno differenti specie. Questa distinzione è, però, priva di effetti pratici, posto che a tali diverse species di residenza non si riconducono diversi regimi fiscali, come osserva lo stesso Autore concludendo che “l’integrazione da parte di un individuo, di una qualsiasi delle species di cui si compone la residenza fiscale, costituisce elemento sufficiente ad attribuirgli lo status di residente nel territorio dello Stato”. (32) Nel senso della impossibilità di sovrapporre i concetti di residenza “fiscale” e residenza “civilistica”, vedi A. Fazio, L’iscrizione all’Anagrafe della popolazione residente non determina automaticamente la residenza fiscale di un soggetto persona fisica: nota a margine di una peculiare pronuncia di merito, in Dir. prat. trib., 2017, 2212, che ritiene la “residenza fiscale” una “locuzione dai contorni non definibili aprioristicamente”, ed un “contenitore suscettibile di essere «riempito» con molteplici contenuti frutto di valutazioni fattuali e discrezionali”. (33) Cfr. M. Procopio, L’individuazione della residenza fiscale: un problema ancora aperto, cit., 570 ss., il quale afferma che non esiste “alcuna differenza tra i concetti di residenza, così come concepiti dai sistemi civilistico e fiscale”, nel senso che nel primo è compreso, puramente e semplicemente, il secondo. (34) Vedi P. Pistone, Aspetti tributari del trasferimento di residenza all’estero, cit., 253, il quale auspica che il legislatore italiano adotti “logiche impositive capaci di riflettere la prevalenza del legame sostanziale di un soggetto con un determinato Paese”, osservando che “il concetto di residenza ai fini fiscali potrebbe quindi svilupparsi su linee autonome rispetto alla nozione civilistica ed essere incentrato sull’effettiva situazione del contribuente”.


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in base al principio di territorialità. In questa prospettiva non è rilevante quale dei criteri si utilizzi per accertare la residenza, e la verifica effettuata ai fini fiscali produrrà i suoi effetti solo in questo ambito, con la conseguenza che una persona civilisticamente residente all’estero, potrebbe essere considerata, invece, residente in Italia dal punto di vista tributario, e quindi assoggettata al relativo regime di tassazione. In ogni caso, mentre in materia civilistica l’ordinamento individua l’ambito spaziale nel quale collocare la “sede giuridica della persona” (sia nel caso del domicilio che della residenza) con riferimento al territorio comunale quale ripartizione del territorio della Repubblica, in materia tributaria il confine che il legislatore intende tracciare è tra residenti in Italia e residenti all’estero (35), ponendo in secondo piano, senza occuparsene espressamente, la individuazione del comune di domicilio o di residenza all’interno del territorio dello stato (36). Il territorio comunale assume rilievo, in relazione alla applicazione delle imposte sui redditi, sia per i soggetti fiscalmente residenti in Italia, sia per i soggetti fiscalmente residenti all’estero, poiché è con riferimento a tale ambito territoriale che si definiscono il “domicilio fiscale” (37), e la soggettività passiva ai fini delle addizionali regionali e comunali all’Irpef. Ulteriore rilievo assume il territorio comunale ai fini dei tributi locali sugli immobili (Ici/Imu, Tasi). I soggetti passivi vengono individuati in base alla loro relazione con il bene immobile (possesso a titolo di proprietà o di altro diritto reale e possesso o detenzione a qualsiasi titolo) (38), e la residenza ha una limitata rilevanza nella determinazione dell’obbligazione, al solo fine di escludere l’applicazione dell’imposta sull’immobile adibito ad abitazione

(35) Rispetto alle nozioni civilistiche di residenza e domicilio, il concetto di “residenza fiscale” ha “un ambito di applicazione spaziale più ampio, funzionalmente riferito, non più alla circoscrizione comunale, bensì all’intero territorio dello Stato”. Cfr. P. Piantavigna, La funzione della nozione di residenza fiscale nell’IRPEF, cit., 279. (36) A. Fazio, La residenza delle persone fisiche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione ai fini delle imposte sui redditi (2006-2016). Parte prima, in Dir. prat. trib., 2017, 1326, intende che la nozione di residenza e domicilio accolta nel TUIR è “suscettibile di un’applicazione spaziale allargata, non più alla sola circoscrizione comunale, ma all’intero territorio dello Stato”. (37) Vedi art. 58, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600. Il “domicilio fiscale” è, diversamente determinato per le persone fisiche residenti e non residenti: per le prime è nel comune nella cui anagrafe sono iscritte; per le seconde nel comune in cui è prodotto il reddito (o il reddito più elevato). (38) Vedi art. 9 d.lgs. 14/3/2011, n. 23; art, 1, comma 669, l. 27/12/2013, n. 147.


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principale che è considerato quello “nel quale il possessore ed il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente” (art. 13, comma 2, d.l. 6/12/2011, n. 201). Ancor più esplicitamente il legislatore aveva previsto, con riferimento all’imposta comunale sugli immobili, che per abitazione principale si intende “salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica” (art. 8, d.lgs. 30/12/1992, n. 504, come modificato dall’art. 1, comma 173, l. 27/12/2006, n. 296). Con riferimento all’elemento temporale, inteso nel senso di permanenza nel tempo della “sede principale degli affari e interessi” della persona, ovvero della sua “dimora abituale”, sembra che l’ordinamento vi assegni una diversa funzione nei settori civilistico e fiscale. Ai fini civilistici, la misura temporale in termini di durata, ha rilievo costitutivo ai fini della individuazione della “dimora abituale” e quindi della residenza, mentre assume solo valore indiziario e non decisivo ai fini della individuazione della “sede principale degli affari e interessi”, ovvero del domicilio. In materia tributaria, invece, all’elemento temporale viene assegnato un valore preclusivo, nel senso che le condizioni (iscrizione anagrafica, domicilio o residenza) al sussistere delle quali la persona si considera fiscalmente residente devono permanere “per la maggior parte del periodo d’imposta”. In mancanza di tale requisito, che può essere integrato anche in maniera discontinua, alla persona non può, in ogni caso, essere attribuita la “residenza fiscale” (39). 3. Iscrizione anagrafica quale criterio formale costitutivo della residenza fiscale in Italia ovvero della non residenza, ma con diversa efficacia

(39) Il requisito temporale, combinato con il principio della nascita di una obbligazione tributaria autonoma per ogni periodo di imposta, implica che il trasferimento del contribuente all’estero dopo la maturazione del requisito temporale non incide sulla sua qualifica di soggetto residente per l’intero periodo di imposta e viceversa, con quel che ne consegue in ordine ai criteri di determinazione della base imponibile. Cfr. G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, cit., 289 ss., il quale osserva come “da un lato l’acquisto della residenza fiscale nel corso del periodo di imposta retroagirà sin dal suo inizio, e dall’altro la sua perdita nel corso del periodo di imposta estenderà i suoi effetti anche a quei redditi il cui presupposto si verifichi entro il momento della chiusura del periodo di imposta stesso”. L’A. aggiunge ulteriori considerazioni sulla mancata previsione, nel nostro ordinamento, di una ipotesi di “part year residence” (prevista invece in altri stati), e su come ciò possa determinare fenomeni di doppia residenza e doppia imposizione suscettibili di essere risolti solo su base convenzionale.


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probatoria. – Le fattispecie costitutive della residenza fiscale delle persone fisiche nel territorio dello stato sono, in alternativa fra di loro, l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente (criterio formale), e la localizzazione nel territorio dello Stato del domicilio o della residenza ai sensi del codice civile (criterio sostanziale). A questi indici è, come vedremo, attribuita diversa efficacia probatoria. Quanto al valore probatorio dell’iscrizione anagrafica come fattispecie costitutiva della residenza fiscale, in mancanza di un dato normativo esplicito non vi è univocità di interpretazioni. Tale questione va esaminata sia con riferimento alla iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente, sia con riferimento alla iscrizione nelle anagrafi dei cittadini residenti all’estero (AIRE). L’orientamento giurisprudenziale più seguito, assume l’iscrizione nelle anagrafi dei residenti come presunzione assoluta di residenza fiscale, mentre risulta minoritaria, sebbene fondata su pregevoli argomentazioni giuridiche, la tesi secondo la quale la situazione di fatto deve prevalere sul dato formale. Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione costituisce ius receptum il principio secondo il quale l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente è un “dato preclusivo di ogni ulteriore accertamento ai fini della individuazione del soggetto passivo d’imposta, diversamente da quanto avviene ai fini civilistici ove le risultanze anagrafiche sono invece concordemente considerate idonee unicamente a dar luogo a presunzioni relative”, e costituisce, pertanto, presunzione assoluta di residenza fiscale (40). A tale interpretazione la S.C. giunge postulando l’esistenza di un principio secondo il quale “in materia tributaria, a differenza di quanto avviene ai fini civilistici, la forma è destinata a prevalere sulla sostanza nell’ipotesi in cui la residenza venga collegata al presupposto anagrafico” (41). L’iscrizione nella anagrafe comunale dei residenti prescinde dalla citta-

(40) Vedi Cass. 20 aprile 2006, n. 9319, ed in precedenza Cass. 6 febbraio 1998, n. 1215, ove si afferma che “non rileva il trasferimento di residenza all’estero fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano”. Tale orientamento è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità. Di recente vedi Cass. 16 gennaio 2015, n. 677, in Riv. giur. trib., 2015, 288, con nota di F. Roccatagliata, Norme interne e norme internazionali in tema di “residenza fiscale”: una convivenza dagli aspetti solo apparentemente conflittuali; Cass. 28 ottobre 2015, n. 21970; Cass. 20 aprile 2018, n. 16634. (41) Vedi tra le altre Cass. n. 9319/2006. Questa tesi, però, viene ritenuta da parte della dottrina “non solo infondata sul piano giuridico, ma addirittura destabilizzante su quello istituzionale”. Cfr. M. Procopio, L’individuazione della residenza fiscale: un problema ancora aperto, cit., 573, il quale afferma l’esatto contrario, ovvero che il concorso alle spese pubbliche


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dinanza, pertanto anche i cittadini stranieri che si trasferiscono in Italia sono tenuti a farne dichiarazione al comune di nuova residenza (art. 7, d.p.r. n. 233/1989). Diversamente accade per quanto riguarda l’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), nella quale sono tenuti ad iscriversi solo i cittadini al momento del trasferimento della residenza (l. 27/10/1988, n. 470, e d.p.r. 6 settembre 1989, n. 323). Nel caso di soggetti residenti in Italia che si trasferiscono all’estero si riscontra, quindi, una duplice disciplina: i non cittadini sono tenuti alla semplice cancellazione dalle anagrafi dei residenti (e ne hanno interesse al fine di far valere tale fatto nei confronti del Fisco); i cittadini italiani sono tenuti alla cancellazione dalla anagrafe dei residenti ed alla iscrizione in quella dei non residenti. Ebbene, la posizione assunta dall’Amministrazione finanziaria, sul solco della prevalente giurisprudenza di legittimità, in merito al valore probatorio dell’iscrizione all’AIRE, è che essa non costituisce elemento determinante né sufficiente per escludere la residenza fiscale in Italia, ovvero che si è in presenza di un mero indizio di non residenza che lascia inalterata la facoltà dell’Amministrazione di provare la residenza fiscale del contribuente in base alla sussistenza di uno degli indici sostanziali previsti dalla legge (42). Il differente valore probatorio attribuito dalla prassi amministrativa e dalla giurisprudenza alla formale iscrizione nelle anagrafi dei residenti, rispetto a quanto prevede la legge a proposito della iscrizione nella anagrafe dei non residenti (43), se da un lato potrebbe essere giustificato da esigenze di semplificazione e certezza del prelievo, solleva in dottrina fondati dubbi sulla sua

deve “basarsi su presupposti di fatto e non certamente formali”. Sotto il profilo costituzionale, inoltre, l’A. ritiene che l’interpretazione giurisprudenziale comporta un sacrificio di “fondamentali, e quindi irrinunciabili precetti di giustizia sociale, all’altare di elementi di mera natura formale”, con una lesione del principio di capacità contributiva e di uguaglianza tributaria (579). (42) Cfr. Cass. 15 giugno 2010, n. 14434, con nota di G. Marino, Una nuova frontiera giurisprudenziale: la residenza fiscale “obbligatoria”, in Rass. trib., 2010, 1373 ss.; Circ. min. 2/12/1997, n. 304. (43) Sul punto vedi G. Marino, La geometria variabile della residenza fiscale alla luce della più recente giurisprudenza italiana ed europea, in Dir. prat. trib., 2016, 269; A. Fazio, La residenza delle persone fisiche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione ai fini delle imposte sui redditi (2006-2016). Parte prima, cit., 1330 ss., il quale ritiene che “la differente interpretazione data dalla giurisprudenza di legittimità dipende, in realtà, da una vera e propria asimmetria legislativa”. Vedi anche F. Peddis, Considerazioni sugli effetti dell’iscrizione all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero nel trasferimento della residenza fiscale, cit.,


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ragionevolezza e sulla sua legittimità costituzionale. Orbene, è ragionevole l’interpretazione secondo la quale l’iscrizione nell’anagrafe è sufficiente a collocare la residenza fiscale del contribuente in Italia, senza che l’Amministrazione finanziaria sia tenuta ad effettuare ulteriori accertamenti, a conferma del principio di alternatività tra gli indici formali e sostanziali di residenza fiscale fissati dal legislatore, che implica l’autosufficienza di ognuno di essi. Ciò che lascia perplessi è, però, affermare la prevalenza del criterio formale rispetto agli altri, in virtù dell’operare di una presunzione assoluta di residenza fiscale, come se tra di essi fosse previsto un ordine gerarchico. Una volta ammesso che i criteri per identificare la residenza fiscale delle persone fisiche sono tra di loro “alternativi” (44), sicché è sufficiente che si verifichi anche uno solo di essi per considerare il contribuente fiscalmente residente, ciò dovrebbe indurre ad attribuire agli stessi, in mancanza di una espressa previsione legislativa, il medesimo valore probatorio, ed a consentire, in ogni caso, sia all’Amministrazione finanziaria sia al contribuente, di dimostrare che la situazione di fatto è differente da quella che appare formalmente o che viene contestata. Se il contribuente risulta iscritto nella anagrafe della popolazione residente ma non adempie agli obblighi tributari previsti per le persone fisiche residenti, la sussistenza del criterio formale è sufficiente a giustificare un accertamento nei suoi confronti (conseguente alla determinazione della base imponibile secondo il criterio della tassazione del reddito mondiale), ma deve essergli consentito di provare che la situazione di fatto è differente da quella formale (45). Quando il contribuente non risulta iscritto nella anagrafe della popola-

352 ss. Si tratta di una “disciplina singolare”, che prevede “da un lato una presunzione legale assoluta e dall’altro una presunzione legale relativa: due pesi e due misure per un identico presupposto, ovverosia l’iscrizione in una lista anagrafica con finalità statistiche!”. Cfr. G. Melis, Riflessioni intorno alla presunzione di residenza fiscale di cui all’art. 10 della L. 23 dicembre 1998, n. 448, in Rass. trib., 1999, 1083. (44) Per la giurisprudenza cfr., tra le altre, Cass. 7 novembre 2001, n. 13803; Cass. 15 giugno 2010, n. 14434; Cass. 25 marzo 2011, n. 6934. (45) Vedi F. Peddis, Considerazioni sugli effetti dell’iscrizione all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero nel trasferimento della residenza fiscale, cit., 347, il quale osserva che “la norma tributaria assume un concetto di residenza che tende ad allargarsi verso il concetto di domicilio previsto dalla disciplina civilistica, evidentemente con l’obiettivo di far prevalere l’aspetto sostanziale della collocazione dell’individuo rispetto al mero dato formale dell’iscrizione anagrafica”.


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zione residente, è l’Amministrazione finanziaria che ha l’onere di provare l’esistenza del domicilio o della residenza in Italia ai sensi del codice civile, ed al contribuente spetta dimostrare l’infondatezza degli elementi probatori offerti dall’Ufficio (46). Ciò può avvenire in ogni caso in cui un soggetto già fiscalmente residente si trasferisca all’estero (tralasciando per il momento la questione della rilevanza dell’iscrizione all’AIRE, che riguarda solo i cittadini italiani), ma anche nel caso di soggetti che hanno di fatto radicato il centro dei propri affari e interessi ovvero la propria dimora abituale in Italia senza aver perfezionato formalmente il trasferimento della residenza e l’iscrizione all’anagrafe (47). La stessa considerazione si può fare con riferimento alla fattispecie negativa della cancellazione dalla anagrafe dei residenti, eventualmente accompagnata per i cittadini italiani, dalla iscrizione nella anagrafe dei non residenti. Tali condizioni (mera cancellazione o iscrizione all’AIRE) non sono elemento sufficiente ad escludere la residenza fiscale, poiché l’Amministrazione ha sempre la facoltà di provare che il soggetto formalmente trasferito all’estero, ha, invece, il domicilio o la residenza civilistica in Italia (48). Il criterio sostanziale, infatti, così come quello formale, è autonomamente sufficiente a

Vedi anche A. Ravera, La residenza fiscale in bilico fra interessi personali e patrimoniali, in Dir. prat. trib., 2016, 772, nel senso che “la mera iscrizione anagrafica non può, in un contesto caratterizzato da una situazione di fatto diversa da quella formale, rappresentare un collegamento sufficiente”. Secondo A.M. Gaffuri, La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero, cit., 133 ss., l’iscrizione nell’anagrafe dei residenti è “giustificata dal possesso di un legame effettivo con lo Stato, ed è inconcepibile se questo manchi”, pertanto “la stessa formalità non offre alcuna resistenza se ad essa si oppone la prova che non esistono i presupposti della residenza o del domicilio”; ne consegue che “se è carente il possesso della residenza o del domicilio ai sensi del codice civile, mancano … le condizioni per essere ritenuti appartenenti alla comunità statale anche da punto di vista tributario”. (46) Sulla distribuzione dell’onere probatorio, in tale fattispecie, vedi G. Giangrande, Ancora sul concetto di residenza fiscale delle persone fisiche: profili applicativi e aspetti probatori, in Riv. dir. trib., 2015, 266 ss. (47) L’iscrizione nella anagrafe della popolazione residente può essere richiesta dai cittadini non appartenenti all’Unione europea che siano in regola con le disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione (v. d.lgs. 25/7/1998, n. 286). Quanto ai cittadini dell’Unione (v. d.lgs. 6/2/2007, n. 30), al riconoscimento del diritto di ingresso e soggiorno si aggiunge, di regola, nel caso di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi, l’obbligo di richiedere l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente. (48) È oramai consolidato, sia in dottrina che nella giurisprudenza della Corte di cassazione, l’orientamento secondo il quale “l’iscrizione del cittadino nell’anagrafe dei residenti all’estero non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia,


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provare la residenza fiscale (49). Posto che l’iscrizione anagrafica è un dato formale cui potrebbe non corrispondere la realtà di fatto, la presunzione assoluta che tale elemento sia costitutivo della residenza fiscale implicherebbe l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche in base ad una capacità contributiva non effettiva. I criteri di collegamento al territorio “riguardano in genere i presupposti sostanziali di imposizione” (50), e ritenere che l’iscrizione anagrafica comporti una presunzione assoluta di residenza fiscale, con la conseguente applicazione del criterio di tassazione del reddito mondiale (più gravoso per il contribuente), si pone in evidente contrasto con il principio di effettività della capacità contributiva. Giustificare la presunzione in base all’interesse ad applicare un criterio (formale) automatico per identificare la residenza fiscale delle persone fisiche, non è sufficiente a ritenere recessivo e soccombente il principio secondo il quale il concorso alle spese pubbliche deve essere parametrato alla capacità contributiva del soggetto, ed è legittimo a condizione che il soggetto abbia un collegamento con il territorio dello stato che sia espressivo della partecipazione “alla vita di quella collettività alla quale è chiamato a contribuire” (51). Il fondamento solidaristico del dovere di pagare i tributi, implica che il relativo

allorché il soggetto abbia nel territorio dello Stato il proprio domicilio, inteso come sede principale degli affari ed interessi economici, nonché delle proprie relazioni personali”. Cfr. Cass. 15 marzo 2013, n. 6598. In dottrina vedi, tra gli altri, M. Procopio, L’individuazione della residenza fiscale: un problema ancora aperto, cit., 567 ss.; A.R. Ciarcia, Analisi ragionata dell’evoluzione giurisprudenziale in tema di trasferimento all’estero della residenza delle persone fisiche tra procedura di notifica e presunzione di residenza, cit., 688 ss. (49) In realtà, sembra corretto affermare che il cittadino iscritto all’AIRE è a tutti gli effetti un contribuente non residente, che legittimamente uniforma il suo comportamento a tale status nell’adempimento agli obblighi tributari. Ciò che accade è che l’Amministrazione finanziaria non è vincolata dall’elemento formale dell’iscrizione anagrafica, e può far valere gli indici sostanziali di residenza. In questo caso non si ha tecnicamente una inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, in quanto è sempre l’Ufficio a dover provare che il trasferimento di residenza all’estero è fittizio, ed il contribuente può dimostrare l’infondatezza di tali prove. (50) A. Fantozzi, Il diritto tributario, cit., 214. (51) Cfr. G. Melis, Riflessioni intorno alla presunzione di residenza fiscale di cui all’art. 10 della L. 23 dicembre 1998, n. 448, cit., 1081-2, il quale ritiene che tale collegamento non sembra adeguatamente rappresentato dalla “iscrizione anagrafica indipendentemente dalla sussistenza dell’effettiva residenza o dell’effettivo domicilio, che il contribuente non è ammesso a provare”. Più approfonditamente G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, cit., 103 ss., 116 ss., ove si rileva che la residenza civilistica funge


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obbligo (soprattutto se commisurato al reddito mondiale) può essere imposto solo ai soggetti che possono beneficiare pienamente dei pubblici servizi (52). Tali argomentazioni dovrebbero essere sufficienti, anche se non lo sono state per la prevalente giurisprudenza di legittimità, ad assegnare all’iscrizione anagrafica il valore (tutt’al più) di presunzione relativa (con inversione dell’onere della prova). Se è accettabile l’idea che il legislatore abbia voluto consentire all’amministrazione finanziaria di identificare la residenza fiscale del soggetto passivo in base ad un presupposto formale di facile e rapida riscontrabilità (53), quale è l’iscrizione anagrafica, non richiedendo ulteriori accertamenti di fatto, lo è molto meno considerare tale dato formale una presunzione assoluta di residenza fiscale. Una attenta dottrina, che a più riprese ha sollevato dubbi circa la legittimità costituzionale di tale presunzione assoluta, suggerisce, infatti, di attribuire alla “iscrizione anagrafica valore presuntivo della residenza civilistica obbligando il soggetto passivo a fornire la prova contraria sulla base delle risultanze di fatto”, con la conseguenza che a fronte della formale iscrizione anagrafica, spetta al contribuente (ed è sua facoltà) fornire la prova di una situazione di fatto contraria (54).

da “criterio di collegamento effettivo con un determinato territorio, del quale l’iscrizione anagrafica rappresenta la manifestazione solo formale”, che “non rileva in quanto tale, bensì solo e in quanto indice dell’esistenza delle situazioni ad essa tipicamente sottese, id est residenza e domicilio civilistici”. (52) Cfr. G. Melis, La nozione di residenza fiscale delle persone fisiche nell’ordinamento tributario italiano, in Rass. Trib., 1995, 1043 ss., il quale rileva che per essere tenuto a concorrere alle spese pubbliche, un soggetto “deve essere in qualche modo «collegato» con il territorio dello Stato in modo tale da poter astrattamente essere destinatario dei servizi, divisibili e non, in cui tali spese si sostanziano”. (53) Cfr. P. Piantavigna, La funzione della nozione di residenza fiscale nell’IRPEF, cit., 280. (54) Cfr. G. Maisto, Iscrizione anagrafica e residenza fiscale ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Riv. dir. trib., 1998, IV, 222 ss., che osserva come la rilevanza del solo dato formale potrebbe far sorgere dei dubbi di legittimità costituzionale. Ciò perché “chi si trovasse iscritto nei registri anagrafici della popolazione residente senza avere alcun legame di tipo sostanziale con il territorio dello Stato (residenza o domicilio) si troverebbe a concorrere alle spese pubbliche senza fruire di alcun servizio pubblico e/o senza avere alcun legame durevole con il territorio dello Stato, in aperto contrasto con il principio costituzionale di capacità contributiva”. Nello stesso senso G. Melis, La nozione di residenza fiscale delle persone fisiche nell’ordinamento tributario italiano, cit., 1043 ss., il quale solleva il dubbio che la mera iscrizione


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3.1. La presunzione di residenza dei cittadini italiani trasferiti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato. – Si è detto che in caso di iscrizione nell’anagrafe degli italiani residenti all’estero è l’Amministrazione finanziaria a dover provare l’effettiva residenza in Italia del contribuente. L’onere della prova viene, però, invertito nel caso di trasferimento verso un “paradiso fiscale” (55), con la introduzione di una presunzione relativa di residenza fiscale (art. 2, comma 2 bis), che opera a condizione che i soggetti che si trasferiscono all’estero siano “cittadini italiani” e che si siano “cancellati dalle anagrafi della popolazione residente”. A fondamento della presunzione iuris tantum introdotta dal legislatore vi è la valutazione di una “preponderanza di possibilità” che il trasferimento in

anagrafica sia sufficiente a giustificare un prelievo tributario sui redditi ovunque prodotti, da cui deriva, quindi, l’esigenza di ancorare la tassazione ad un parametro di ordine oggettivo, e di “trasformare l’iscrizione anagrafica, da condizione sufficiente (ma non necessaria) per l’integrazione della fattispecie di residenza fiscale quale essa attualmente è, in una presunzione relativa di residenza o domicilio civilistici, ergo di residenza fiscale”. Ancora M.C. Fregni, La residenza fiscale delle persone fisiche, cit., 2568, osserva che “se fosse impedita la prova contraria, un non residente sarebbe tassato in Italia per la totalità dei suoi redditi”, e tale soluzione sarebbe di dubbia costituzionalità” perché il meccanismo impositivo dipenderebbe da un dato formale, privo di significato in termini di capacità contributiva”. L’A. aggiunge che (2569) i concetti domicilio e di residenza da utilizzare ai fini fiscali devono essere conformi ai principi costituzionali che sovraintendono alla materia tributaria. Pertanto, “domicilio e residenza devono essere concepiti come fatti materiali ed economici, che siano tali da giustificare l’inclusione piena di una persona tra i soggetti passivi dell’imposta personale sul reddito, e la tassazione di tale persona secondo il principio del reddito mondiale, alla luce del dettato dell’art. 53 Cost.”. Vedi anche G. Marino, La residenza nel diritto tributario, cit., 32 ss.; Id., Una nuova frontiera giurisprudenziale: la residenza fiscale “obbligatoria”, cit., 1375 ss., il quale considera “bizzarro” che in materia fiscale, diversamente da quanto accade in materia civile, il dato formale dell’iscrizione anagrafica prevalga sull’effettiva localizzazione della persona fisica; ed aggiunge, posto che “la funzione intrinseca del registro dei residenti è quella di determinare, in maniera statistica, una serie di situazioni oggettive (come la nascita) o soggettive (come il trasferimento da un altro comune) da cui si desume un collegamento con il territorio”, sarebbe più opportuno considerare l’iscrizione nel suddetto registro “un elemento di prova iuris tantum della residenza fiscale”, riallineando così i parametri civilistici con quelli fiscali.. (55) Tale disciplina è “espressamente diretta a contrastare il fenomeno della cosiddetta «esterovestizione della persona fisica» la quale consiste, in particolare, nella fittizia localizzazione della residenza fiscale in Paesi o territori diversi dall’Italia (in ambito UE o extra UE), per sottrarsi agli adempimenti tributari previsti dall’ordinamento di reale appartenenza e beneficiare, nel contempo, del regime fiscale più favorevole vigente altrove”. Cfr. G. Corasaniti, Le misure di contrasto ai paradisi fiscali per le imprese e le persone fisiche, in Dir. prat. trib., 2016, 89 ss.


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un c.d. paradiso fiscale sia fittizio e motivato solo dall’interesse ad abbattere il proprio carico fiscale, e che di conseguenza vi sia una dissociazione tra “residenza formale” (fittizia) e “residenza reale” della persona fisica. In ciò starebbe la giustificazione dell’onere di provare la effettività del trasferimento a carico del contribuente (56). La ratio della norma è di utilizzare un elenco statistico (il registro degli italiani residenti all’estero) per agevolare l’Amministrazione finanziaria nella concreta individuazione dei soggetti a rischio al fine di facilitare l’azione di contrasto ai fenomeni di fittizio trasferimento all’estero della residenza delle persone fisiche (57). La condizione della “cancellazione dalla anagrafe della popolazione residente” sembra superflua. Si è detto, infatti, che, secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale, l’iscrizione nell’anagrafe costituisce una presunzione assoluta di residenza fiscale. Se così è, qualsiasi contribuente (a prescindere dalla sua cittadinanza), ovunque abbia inteso trasferire la propria residenza (che si tratti o meno di un paradiso fiscale), se per incuria non provvede alla cancellazione dalla anagrafe della popolazione residente, verrà considerato fiscalmente residente, senza che sia necessario richiamare la disposizione di cui all’art. 2, comma 2 bis, che rimarrebbe assorbita dalla regola generale. Di difficile risoluzione è, poi, la questione delle dimensioni e del contenuto della “prova contraria” richiesta al contribuente per superare la presunzione di residenza (58). Tralasciando il tema della tipologia di prove opponibili dal

(56) Cfr. G. Melis, Riflessioni intorno alla presunzione di residenza fiscale di cui all’art. 10 della L. 23 dicembre 1998, n. 448, cit., 1083-4. In tal senso anche G. Maisto, La residenza fiscale delle persone fisiche emigrate in Stati o territori aventi regime tributario privilegiato, in Riv. dir. trib., 1999, IV, 54, secondo il quale “il trasferimento di una persona fisica avente la cittadinanza italiana evoca un indice di fittizietà”, poiché per il cittadino trasferito all’estero è “probabile che domicilio e residenza ex art. 43 c.c. in Italia continuino a sussistere anche dopo la cancellazione anagrafica”. (57) In dottrina vedi, tra gli altri, G. Marino, La residenza nel diritto tributario, cit., 249; G. Maisto, La residenza fiscale delle persone fisiche emigrate in Stati o territori aventi regime tributario privilegiato, cit., 52; G. Melis, Riflessioni intorno alla presunzione di residenza fiscale di cui all’art. 10 della L. 23 dicembre 1998, n. 448, cit., 1077 ss. (58) Su questo tema vedi M. Pellecchia, La presunzione di residenza fiscale in Italia può essere invocabile anche a favore del contribuente, in Riv. trim. dir. trib., 2015, 783 ss.; e M. Antonini - C. Setti, La presunzione di residenza tra regola di riparto dell’onere probatorio e opponibilità all’Amministrazione finanziaria, in Riv. giur. trib., 2015, 129 ss. Gli autori commentano la sentenza della Cassazione del 10 ottobre 2014, n. 21438, nella quale si afferma


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contribuente, è più rilevante chiedersi cosa il contribuente debba provare. È necessaria (e sufficiente) la prova negativa di non avere più la residenza fiscale in Italia in base ai criteri previsti dall’art. 2, comma 2; o si deve aggiungere la prova di avere effettivamente radicato la propria residenza nel paese di destinazione (applicando la normativa interna di quel paese)? Pur ammettendo che la mancata previsione legislativa di “qualsiasi condizionamento o limite per quanto riguarda sia la predeterminazione che il valore delle varie forme in cui tale prova può esprimersi”, implica il riconoscimento della “più ampia possibilità di esplicazione al concreto esercizio dei diritti di difesa del contribuente” (59), tale compito non sembra per nulla facile. Se da un lato sembra ragionevole ritenere che “la prova non deve essere della residenza all’estero, ma della non residenza in Italia” (60), ovvero che per vincere la presunzione sia necessaria la prova di non avere più il domicilio o la residenza civilistici nel territorio dello Stato, appare sostenibile anche la tesi secondo la quale il contribuente non può limitarsi a fornire la semplice prova negativa di non essere residente in Italia, ma deve fornire anche la prova positiva di essere residente nello Stato di destinazione, poiché “non si può dimostrare di non stare in un luogo se non dimostrando di stare in un altro” (61). In questa direzione sembra orientata la prassi, laddove si afferma che “la residenza fiscale è ritenuta, in via presuntiva, sussistente per coloro che siano anagraficamente emigrati in uno degli anzidetti Stati o territori senza dimostrare la effettività della nuova residenza”, e che la prova contraria deve essere coerente “con l’assunzione di un reale e duraturo rapporto con lo Stato di immigrazione e con l’interruzione di significativi rapporti con lo Stato italiano” (62).

che la presunzione di residenza di cui all’art. 2, comma 2-bis, può essere fatta valere anche dal contribuente a proprio favore ove egli sia interessato ad essere considerato fiscalmente residente in Italia pur essendo ancora iscritto all’AIRE. (59) Cfr. Circ. min. 24/6/1999, n. 140. (60) Cfr. G. Marino, La residenza nel diritto tributario, cit., 249. (61) Cfr. G. Melis, Riflessioni intorno alla presunzione di residenza fiscale di cui all’art. 10 della L. 23 dicembre 1998, n. 448, cit., 1086 ss., il quale aggiunge che mentre a fronte del trasferimento di un contribuente all’estero, all’Amministrazione è sufficiente provare che egli abbia mantenuto in Italia il domicilio o la residenza civilistici, il contribuente che si trasferisce in un paradiso fiscale deve “provare la presenza nell’altro Stato cumulativamente della residenza e del domicilio”. (62) Cfr. Circ. n. 140/1999. Di contrario avviso M. Antonini - P. Piantavigna, Ai fini della residenza fiscale non hanno rilevanza prioritaria le relazioni familiari, in Corr. trib., 2015, 1493 ss., i quali sostengono che “per vincere la presunzione, il contribuente non è chiamato a


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4. Le contestazioni del fisco in merito alla sussistenza del domicilio o della residenza in Italia ai sensi del codice civile: la “sede principale degli affari” e la “dimora abituale”. – A differenza di quanto avviene quando una persona è iscritta nell’anagrafe della popolazione residente (ovvero quando un cittadino si è trasferito in un paradiso fiscale), la prova che la situazione reale non corrisponde a quella formale (di non residenza) grava sull’Amministrazione finanziaria che deve dimostrare che il contribuente ha mantenuto nel territorio dello stato la propria “dimora abituale” (residenza civilistica) o la “sede principale dei propri affari e interessi” (domicilio civilistico). Il primo aspetto da sottolineare è che domicilio e residenza civilistici non hanno ai fini fiscali diversi effetti giuridici, ed è equivalente la sussistenza dell’uno o dell’altra al fine di integrare la residenza fiscale della persona. Di conseguenza, sia l’Amministrazione finanziaria che i giudici effettuano le proprie valutazioni spesso confondendo o sovrapponendo i due istituti. In secondo luogo, l’elemento temporale della permanenza o durata della condizione prevista, che in materia civilistica si atteggia diversamente ai fini dell’accertamento del domicilio o della residenza, in materia tributaria assume sempre un valore costitutivo. Quanto poi all’elemento spaziale, i criteri per individuare il domicilio o la residenza, sono riferiti, ai fini fiscali, non alla circoscrizione comunale bensì all’intero territorio dello stato. Tali criteri pensati per l’accertamento dell’effettivo domicilio o residenza della persona tra più luoghi all’interno del territorio dello stato, devono essere utilizzati per stabilire se la sede principale degli affari ed interessi di una persona è in Italia o all’estero. Ciò che appare meritevole di maggiore attenzione, è la ampiamente dibattuta questione sul bilanciamento tra interessi o rapporti economici e patrimoniali da un lato, e relazioni personali, sociali e familiari dall’altro. Tutti questi interessi vengono soppesati quando si deve stabilire se un soggetto è fiscalmente residente in Italia, dando vita ad una “complicata alchimia che vede il diritto tributario intrecciare le sue categorie di residenza e domicilio con quelle civilistiche, all’interno della quale i suddetti interessi hanno un «peso» diverso, e possono quindi determinare conclusioni differenti” (63).

dimostrare di soddisfare i presupposti di residenzialità ai fini fiscali previsti dalla disciplina dello Stato estero”, ma è sufficiente “fornire la prova di non intrattenere rapporti significativi con lo Stato italiano. Nella prassi, tuttavia, tale prova (“negativa”) si considera raggiunta da parte del contribuente attraverso qualsiasi mezzo di prova (“positiva”)”. (63) Cfr. G. Marino, La geometria variabile della residenza fiscale alla luce della più


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Numerose sono le pronunce della giurisprudenza di merito e di legittimità (64), nelle quali vengono assunte decisioni differenti in merito alle condizioni necessarie per affermare che un contribuente ha mantenuto nel territorio dello stato il domicilio o la residenza civilistici. La residenza corrisponde alla “dimora abituale”, e viene, di solito, individuata nel luogo (rectius nello Stato) dove la persona mantiene il centro delle proprie relazioni sociali e familiari, e dove abita stabilmente (per la maggior parte del periodo d’imposta) (anche a prescindere da una continua presenza fisica) (65). L’elemento che più degli altri sembra avere rilevanza ai fini della individuazione della residenza civilistica e, di conseguenza, della residenza fiscale, è l’avere a disposizione una abitazione, nella quale la persona vive normalmente con la sua famiglia (66). Quanto alla individuazione del domicilio civilistico, la questione è stabilire cosa di intenda per “sede degli affari e interessi”, ed in secondo luogo occorre qualificare il requisito della principalità della sede. L’uso dell’aggettivo “principale” (o “abituale” con riferimento alla dimora) viene pacificamente inteso nel senso che la residenza ed il domicilio sono “unici”, fermo restando il problema di definire i parametri per stabilire quale tra due dimore sia quella abituale e quale tra due sedi sia quella principale. L’accertamento della residenza fiscale crea ulteriori difficoltà rispetto a quelle, già esaminate, che si pongono con riferimento agli istituti civilistici, poiché gli effetti giuridici derivanti dall’essere considerati fiscalmente resi-

recente giurisprudenza italiana ed europea, cit., 265-6. (64) Per una ampia rassegna della giurisprudenza di legittimità in materia si veda A. Fazio, La residenza delle persone fisiche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione ai fini delle imposte sui redditi (2006-2016). Parte prima, cit., 1322 ss.; Id., La residenza delle persone fisiche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione ai fini delle imposte sui redditi (2006-2016). Parte seconda, in Dir. prat. trib., 2017, 1808 ss. (65) Tralasciamo, qui, il dibattito civilistico in merito alla possibilità di individuare la dimora abituale esclusivamente nel luogo in cui si trova l’abitazione, ovvero se la si possa individuare alternativamente nel luogo ove si trovano altri locali che la persona utilizza per lo svolgimento dell’attività professionale o commerciale, fermo restando il requisito della prevalenza ed il necessario carattere di “unicità” della dimora rilevante ai fini dell’individuazione della residenza. Vedi per tutti M. Costanza, Domicilio, residenza, dimora (dir.civ), cit., 3-4; M. Esu, Domicilio - Residenza - Dimora, cit., 603 ss. (66) Cfr. P. Piantavigna, La funzione della nozione di residenza fiscale nell’IRPEF, cit., 298, a parere del quale “il carattere di residenzialità può essere riconosciuto soltanto alla casa di abitazione della persona interessata, perché altrimenti si farebbe difficoltà a comprendere quale differenza sussista, in concreto, tra questo concetto e la nozione di domicilio”.


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denti consistono nella determinazione di un differente carico fiscale, e pertanto non si può non tener conto, nel definire i parametri costitutivi della residenza, del principio costituzionale della capacità contributiva. In ambito tributario la fattispecie paradigmatica è quella di un contribuente che ha trasferito la propria residenza all’estero, al quale si contesta la fittizietà di tale trasferimento, tentando di dimostrare che ha mantenuto in Italia la residenza o il domicilio. L’accertamento della situazione di fatto da opporre all’apparenza formale (cancellazione dall’anagrafe dei residenti ed eventuale iscrizione in quella dei residenti all’estero) non può che essere effettuato comparando la relazione che la persona ha con il territorio dello stato italiano e dello stato estero, in base a parametri riferiti ad aspetti quantitativi e qualitativi (67), applicati in modo ragionevole e rispettoso del sistema nel quale si inquadrano, e dei principi generali dai quali il sistema è regolato. L’individuazione della “sede principale degli affari e interessi” è l’aspetto più controverso, nella contrapposizione e nel necessario bilanciamento (ai fini della integrazione del requisito della “principalità”) tra interessi economico patrimoniali, ed interessi personali sociali e familiari (68). È difficile una presa di posizione generale ed astratta, in merito alla rilevanza esclusiva degli interessi economico patrimoniali o delle relazioni sociali e familiari ai fini della individuazione del domicilio e quindi della residenza

(67) Cfr. G. Melis, La nozione di residenza fiscale delle persone fisiche nell’ordinamento tributario italiano, cit., 1052-3, che riferisce i criteri di carattere quantitativo ai rapporti di tipo economico, ed i criteri di carattere qualitativo ai rapporti di natura non patrimoniale. In tal senso anche P. Piantavigna, La funzione della nozione di residenza fiscale nell’IRPEF, cit., 293. Si pensi alle difficoltà che sorgono quando un contribuente dispone di una abitazione sia in Italia che nello stato nel quale dichiara di essersi trasferito; ovvero quando la situazione familiare è resa più complessa dalla separazione dei coniugi e dalla presenza di figli dati in affidamento. (68) Sulla definizione di “interessi sociali”, utile a comprendere non solo gli interessi familiari in genere, ma “tutti quegli interessi che, in qualche modo, segnano la vita di appartenenza del contribuente alla società, come singolo e come soggetto sociale”, vedi E. Marello, Il ruolo degli interessi sociali nella determinazione della residenza delle persone fisiche, cit., 1066 ss. Vedi anche E. Vitale, La vexata quaestio dell’individuazione del centro degli affari e interessi e l’onere della prova nei trasferimenti di residenza, in Dir. prat. trib., 2017, 295, che riferisce di “una interpretazione dell’istituto che non solo trascende la definizione civilistica, fino ad includervi interessi diversi rispetto a quelli aventi contenuto economico e patrimoniale, ma che si sovrappone anche alla nozione di residenza civilistica allorché si riferisca a situazioni ricollegabili alla sfera sociale e familiare”.


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fiscale della persona (69); né sembra possibile stabilire a priori se dare rilevanza primaria ai primi o alle seconde (70). Va tenuto presente che l’Amministrazione finanziaria interpreta la locuzione “affari e interessi” nel modo più esteso possibile, ritenendo che essa sia comprensiva “non solo di rapporti di natura patrimoniale ed economica ma anche morali, sociali e familiari”, e che “la determinazione del domicilio va desunta alla stregua di tutti gli elementi di fatto che, direttamente o indirettamente, denuncino la presenza in un certo luogo di tale complesso di rapporti e il carattere principale che esso ha nella vita della persona” (71). Mentre è possibile che i rapporti di tipo patrimoniale siano concentrati in due stati in modo tale da rendere difficile stabilire una “univoca” sede “principale” degli affari della persona, ciò è meno frequente con riferimento ai rapporti di tipo personale e familiare. Inoltre non può negarsi che il fatto

(69) Cfr. F. Roccatagliata, Dubbi sulla residenza fiscale?: “Cherchez la femme!”, in Riv. giur. trib., 2016, 774, il quale si chiede “quale rilevanza possono mai avere i legami affettivi nella determinazione della «capacità contributiva» di un individuo e della sua piena rispondenza soggettiva ai principi sanciti dall’art. 53 Cost.?”. Lo stesso autore in altra occasione (F. Roccatagliata, Come liberarsi di moglie e Fisco e vivere felici e contenti per sempre (o almeno, fino al prossimo grado di giudizio), in Riv. giur. trib., 2018, 185), rileva che se pure “ai legami personali e affettivi non viene mai disconosciuta la valenza di elemento rilevante di prova al fine della determinazione della connessione con lo Stato italiano”, “si tratta sempre di elementi a sostegno della corretta individuazione di un «centro degli interessi vitali» nel quale i legami professionali o economici non dovrebbero mai mancare”. (70) In più occasioni la Corte di Cassazione si è pronunziata in merito al ruolo di tali categorie di interessi ai fini dell’accertamento della residenza fiscale, sostenendo più spesso che gli interessi personali prevalgono rispetto agli interessi economici (per una rassegna della giurisprudenza di legittimità in materia si rinvia a A. Fazio, La residenza delle persone fisiche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione ai fini delle imposte sui redditi (2006-2016). Parte prima, cit., 1342 ss.). Non mancano, però, decisioni di segno opposto. Vedi Cass. 31 marzo 2015, n. 6501, nella quale si esclude la rilevanza prioritaria degli interessi personali ai fini della determinazione della residenza fiscale. (71) Cfr. Circ. 2 dicembre 1997, n. 304. È vero, però, che la dottrina tradizionalmente attribuisce notevole importanza alla esatta identificazione degli interessi rilevanti ai fini dell’individuazione del domicilio, in quanto la sua estensione ai rapporti di natura morale “aumenta l’operatività della norma fiscale, divenendo fondamentale in quei casi in cui il soggetto dimori abitualmente e svolga la propria attività all’estero, mantenendo il centro dei propri interessi familiari in Italia”. Cfr. G. Melis, La nozione di residenza fiscale delle persone fisiche nell’ordinamento tributario italiano, cit., 1051-2, il quale aggiunge che resta aperto il problema del requisito della principalità, che “risulta di difficile applicazione a situazioni qualitativamente diverse”. Sulla rilevanza degli interessi familiari, vedi anche G. Giangrande, Ancora sul concetto di residenza fiscale delle persone fisiche: profili applicativi e aspetti probatori, cit., 270 ss.


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di intrattenere in un determinato luogo interessi personali e familiari, implica necessariamente la presenza di rapporti di carattere economico, e viceversa. Difficilmente si può verificare una totale dissociazione tra le due aree degli interessi della persona (72). La questione allora non può che essere risolta applicando il criterio della “prevalenza” (73). Posto che, verosimilmente, nel luogo ove il soggetto coltiva (in prevalenza) i propri interessi economici inevitabilmente intrattiene anche relazioni di tipo personale, e la presenza dei (prevalenti) legami personali e familiari implica anche la presenza di rapporti di tipo economico, la determinazione della “sede principale” (o del “centro degli interessi vitali”) deve avvenire in base ad una valutazione ponderata di tutti i fattori (74), in quanto non è dato evincere, né dalla lettera della legge né dalla sua ratio, la prevalenza di uno di essi sugli altri, ovvero la previsione di una “gerarchia normativa” tra i diversi parametri in base ai quali individuare il “centro degli affari e interessi” (75). Se poi fosse possibile una situazione nella quale la persona intrattiene tutti (e solo) i suoi rapporti economici all’estero, e tutti (e solo) i suoi rapporti sociali in Italia, ciò non consentirebbe di affermare a priori che il contribuente è domiciliato e quindi fiscalmente residente in Italia, ma sarebbe, in ogni caso, necessaria una valutazione comparativa funzionale a stabilire la “prevalenza” dell’una o dell’altra sede (76).

(72) Cfr. E. Marello, Il ruolo degli interessi sociali nella determinazione della residenza delle persone fisiche, cit., 1067. (73) “La natura «composita» della nozione di residenza comporta la necessità di valutare gli elementi che la compongono in maniera unitaria”. Cfr. A. Ravera, La residenza fiscale in bilico fra interessi personali e patrimoniali, cit., 774. (74) È condivisibile l’opinione che ai fini dell’individuazione del domicilio “gli interessi morali e patrimoniali riferibili ad un individuo sono considerati in modo globale ed unitario; se ne valuta l’importanza nel loro insieme e non in modo separato”. Cfr. A.M. Gaffuri, La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero, cit., 139 ss. (75) Cfr. A. Fazio, La residenza delle persone fisiche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione ai fini delle imposte sui redditi (2006-2016). Parte prima, cit., 2017, 1327, il quale ritiene che proprio dalla mancanza di “gerarchia tra rapporti personali e rapporti economici e patrimoniali” possa dipendere la contraddittorietà della giurisprudenza che attribuisce “pesi diversi ai rapporti citati”. Non sembra, però, in alcun modo giustificabile che la giurisprudenza forzi il dettato normativo, come in alcuni casi ha fatto, fino ad affermare un principio di prevalenza dei legami personali su quelli economici. (76) Val la pena ricordare che, “nell’ottica delle convenzioni internazionali gli interessi familiari non devono necessariamente prevalere su quelli economici”, ma bisogna accertare quale di essi abbia “carattere decisivo (o sia maggiormente importante) per il contribuente”.


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Nei casi in cui i giudici attribuiscono prevalenza ai legami personali su quelli economici ai fini della determinazione della residenza fiscale, si potrebbe giungere allo stesso risultato sulla base di un giudizio comparativo che tenga conto di tutti i legami della persona con due luoghi, affermando la “principalità” di uno di essi rispetto agli altri (77). In caso di incertezza nella localizzazione del domicilio, che si verifica quando la persona abbia interessi economici e personali in più stati, ovvero quando il luogo in cui sono concentrati (in misura prevalente) gli interessi economici non coincide con quello in cui sono concentrati (in misura prevalente) gli interessi personali, la questione non si risolve attribuendo una rilevanza prioritaria agli uni o agli altri, ma “ricorrendo ad una valutazione globale che tenga conto del complesso degli affari e interessi della persona che intrattenga rapporti in più Paesi” (78). Se è equivalente, ai fini della residenza fiscale, provare la sussistenza della residenza o del domicilio civilistico in Italia (così come è indifferente in quale comune siano radicate), ciò attenua la rilevanza della distinzione tra interessi economico patrimoniali da un lato ed interessi sociali e familiari dall’altro. Che si segua la tesi della esclusiva rilevanza della sede ove vengono intrattenuti in via principale i rapporti sociali e familiari ai fini della individuazione della residenza civilistica, e dei rapporti economici e patrimoniali ai fini del domicilio, ovvero si abbia riguardo a tutti i rapporti, ciò non determina differenti effetti giuridici ai fini fiscali. 5. Conflitti di residenza, convenzioni internazionali contro la doppia imposizione e tie breaker rules. – La disciplina della residenza fiscale delle persone fisiche deve essere, brevemente, inquadrata anche con riferimento

Cfr. P. Pistone, Aspetti tributari del trasferimento di residenza all’estero, cit., 258. A proposito della individuazione del “centro degli interessi vitali” ai fini convenzionali, la dottrina è concorde nel ritenere che “non esiste nei modelli Convenzionali e nel Commentario alcun elemento che possa far propendere per una prevalenza degli interessi economici o di quelli personali”. Cfr. E. Marello, La residenza fiscale nelle Convenzioni internazionali, cit., 2589. (77) In questo senso vedi Cass. 29 dicembre 2011, n. 29576; Cass. 4 aprile 2012, n. 5382; Cass. 16 gennaio 2015, n. 678; Cass. 15 giugno 2016, n. 12311. In particolare, vedi Cass. 31 marzo 2015, n. 6501, ove si afferma il principio secondo il quale “le relazioni affettive e familiari non hanno una rilevanza prioritaria ai fini probatori della residenza fiscale, venendo in rilievo solo unitamente ad altri probanti criteri che univocamente attestino il luogo col quale il soggetto ha il più stretto collegamento”. (78) Cfr. R. Baboro, La variabilità della residenza delle persone fisiche alla luce delle ultime elaborazioni della Corte di Cassazione, in Riv. dott. comm., 2016, 511.


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all’ambito internazionale (79), con particolare riferimento alla applicazione delle Convenzioni internazionali contro la doppia imposizione basate sul Modello OCSE. Nelle ipotesi di soggetti che svolgono la propria attività lavorativa in ambito internazionale, e che in ragione di essa trasferiscono la propria residenza fiscale da uno stato all’altro, si pone il problema della risoluzione di eventuali conflitti di doppia residenza suscettibili di determinare fenomeni di doppia imposizione internazionale (80). La residenza fiscale delle persone fisiche è sempre determinata applicando la legislazione interna di ogni stato, e casi di doppia residenza fiscale (e di doppia imposizione internazionale) si verificano se due stati considerano entrambi una persona come residente, e la assoggettano ad una tassazione globale sui propri redditi (comprehensive taxation, o full liability to tax). È, quindi, possibile che il soggetto che trasferisce la propria residenza in Italia (ovvero il contribuente italiano residente che si trasferisce all’estero), continui ad essere considerato fiscalmente residente anche nel paese di provenienza (perché vi mantiene un collegamento patrimoniale e/o personale). Diversa è la soluzione quando tra i due stati è in vigore una convenzione rispetto alla ipotesi opposta. In questo secondo caso, ci si limita a ricordare che eventuali rimedi possono essere previsti solo dalla legislazione interna di ciascuno stato al fine di attenuare la doppia imposizione (81). Ormai da molti anni (considerato che la prima versione del Modello

(79) Sul ruolo della residenza fiscale nel diritto internazionale e nei rapporti tra Stati, vedi G. Marino, Osservazioni in tema di residenza nel contesto dello scambio automatico di informazioni, in Dir. prat. trib., 2018, 1 ss., 15. L’A, posto che la residenza è uno dei pilastri della fiscalità internazionale, auspica la “standardizzazione dei criteri di valutazione della relazione con il territorio” per garantire la trasparenza a livello internazionale, e su una “nuova nozione autonoma di residenza fiscale «internazionale» ai soli fini dello scambio di informazioni”, “senza modificare in alcun modo l’applicazione delle tie-breaker rule ai fini dell’allocazione della potestà impositiva”. (80) Sul fenomeno della doppia imposizione internazionale ed i suoi possibili rimedi, si veda A. Fantozzi - K. Vogel, Doppia imposizione internazionale, in Dig. disc. priv., Sez. comm., V, Torino, 1990, 181 ss. (81) Cfr. R. Cordeiro Guerra, Diritto tributario internazionale, Padova, 2012, 322 ss., il quale ricorda i metodi della esenzione dei redditi realizzati all’estero, della deduzione dell’imposta estera dal reddito imponibile, del credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero (utilizzato in prevalenza dagli stati come l’Italia che adottano criteri di collegamento di tipo personale). Più approfonditamente sulla tassazione del reddito di fonte estera dei residenti, vedi P. Pistone, Diritto tributario internazionale, Torino, 2017, 121 ss.


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OCSE è del 1963), però, gli stati avvertono l’esigenza di prevenire, attenuare o eliminare la doppia imposizione internazionale attraverso convenzioni internazionali (82). Il conflitto di residenza viene risolto predisponendo regole convenzionali, definite tie breaker rules (83), che prevalgono sulla legislazione interna (84), idonee a stabilire in quale dei due stati la persona debba considerarsi residente ai fini convenzionali, con l’effetto di attribuire solo a tale stato la potestà impositiva con riferimento ai tributi oggetto della Convenzione stessa (85). Tali criteri, finalizzati alla definizione di una “unica” residenza convenzionale della persona (86), e applicati facendo riferimento al diritto interno degli stati contraenti, sono disposti in un rigoroso ordine gerarchico. Pertanto, per ognuno di essi, si verifica se sia soddisfatto in entrambi gli stati ovvero

(82) La finalità di tali convenzioni è, appunto, “quella di limitare la sovranità tributaria degli Stati contraenti sulle fattispecie transnazionali”. Cfr. P. Pistone, Diritto tributario internazionale, cit., 171. Sulle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni si veda, tra gli altri, C. Sacchetto C., Diritto tributario (convenzioni internazionali), in Enc. dir., Annali, I, Milano, 2007, 517 ss. (83) Tali regole sono contenute nel comma 2 dell’art. 4 del Modello di convenzione OCSE. Cfr., in proposito, E. Marello, La residenza fiscale nelle Convenzioni internazionali, in Giur. it., 2009, 2587, che evidenzia la “difficoltà interpretativa” delle regole convenzionali di risoluzione dei conflitti di residenza, in quanto esse “hanno un proprio autonomo contenuto, perché cercano di risolvere dall’esterno un conflitto che deriva dal rinvio alle legislazioni interne”, ma “evocano concetti che non sono definiti autonomamente dalla Convenzione”. (84) La applicazione delle tie breaker rules “esclude automaticamente la normativa nazionale, attuandone la subordinazione rispetto alla lex superior di fonte convenzionale”. Cfr. P. Pistone, Aspetti tributari del trasferimento di residenza all’estero, cit., 260 ss., (85) “L’unicità della residenza ha una valenza circoscritta alle sole disposizioni del trattato”, e pertanto la persona potrebbe essere considerata formalmente residente in entrambi gli stati ai fini dell’applicazione delle norme in materia di accertamento e riscossione, ovvero ai fini dell’applicazione di tributi non coperti dalla convenzione. Cfr. P. Valente - L. Vinciguerra, Esterovestizione delle persone fisiche, Milano, 2016, 124 ss. (86) In realtà non esiste un autonomo concetto di residenza fiscale nel diritto convenzionale che si sovrappone al concetto di residenza fiscale elaborato nel diritto interno degli stati. Le convenzioni, infatti, forniscono gli strumenti (tie breaker rules) per ripartire la potestà impositiva tra gli stati, e dare la prevalenza al collegamento soggettivo della persona con l’uno o con l’altro. È vero, però, che la funzione delle tie breaker rules “presuppone che a queste venga attribuito un contenuto autonomo, tendenzialmente indipendente rispetto al significato ricavabile dal diritto interno, proprio perché la loro funzione è quella disciogliere una doppia residenza che deriva dal contrasto di norme interne”, e se esse fossero interpretate “sulla base del significato attribuito ai concetti nelle legislazioni interne, tale risultato non potrebbe essere raggiunto e si genererebbero nuovi conflitti”.


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in uno solo; nel primo caso si passa al successivo criterio, nel secondo caso la persona sarà considerata residente solo nello stato nel quale si realizza la condizione. Oltre al criterio della disponibilità di una “abitazione permanente” (permanent home available), sono previsti il criterio del “centro degli interessi vitali” (centre of vital interest) individuato nello stato nel quale le relazioni personali ed economiche della persona sono più strette (criterio che sembra assimilabile a quello del domicilio civilistico previsto nell’ordinamento italiano), e il criterio del luogo ove la persona ha la sua “dimora abituale” (habitual abode) (chiaramente assimilabile a quello della residenza civilistica). In ultima istanza il conflitto è risolto dagli stati di comune accordo (mutual agreement), ricorrendo alla procedura amichevole prevista dall’art. 25 (Mutual agreement procedure) del Modello OCSE. La questione è, a questo punto, come coordinare le disposizioni convenzionali con le norme interne che individuano la residenza delle persone fisiche in base a presunzioni assolute ovvero relative, come nel caso delle persone iscritte nella anagrafe dei residenti e dei cittadini italiani trasferiti in stati o territori a regime fiscale privilegiato ed iscritti nell’anagrafe degli italiani residenti all’estero (87). In questo secondo caso, si deve osservare che la presunzione di residenza non definisce una autonoma fattispecie costitutiva della residenza fiscale (basata sullo status della persona), ma esprime esclusivamente una regola interna di ripartizione dell’onere probatorio (88), e, di conseguenza, non può essere invocata quale criterio (in sede di applicazione delle tie breaker rules) per attribuire la qualifica di residente ai fini della applicazione di una convenzione contro la doppia imposizione. Pertanto il cittadino italiano trasferito in uno stato a regime fiscale privilegiato con il quale l’Italia abbia stipulato una

(87) Su tali questioni vedi S.M. Ronco, “Abitazione permanente” e requisito dell’iscrizione anagrafica all’AIRE: spunti di riflessione alla luce della giurisprudenza di legittimità nel contesto convenzionale, in Dir. prat. trib. int., 2017, 1300 ss. (88) Sul punto è chiara la posizione dell’Amministrazione finanziaria, posto che nella circ. n. 140/1999, si legge che la presunzione in esame “lungi dal creare un ulteriore status di residenza fiscale, i cui presupposti sono già compiutamente contemplati dal comma 2 dello stesso art. 2, introduce soltanto un ulteriore criterio rivelativo ai fini dell’individuazione della residenza stessa”, e che “il legislatore, utilizzando lo strumento delle presunzioni relative, ha diversamente ripartito l’onere probatorio fra le parti, al fine di evitare che risultanze di ordine meramente formale prevalgano sugli aspetti di ordine sostanziale”. Tale interpretazione è ribadita nella recente Circ. n. 17/2017.


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convenzione basata sul Modello OCSE, non sarà considerato fiscalmente residente ai fini convenzionali, a meno che l’Amministrazione finanziaria non provi che egli ha nello stato una abitazione permanente a propria disposizione, ovvero, in subordine, che egli ha mantenuto nello stato il proprio domicilio civilistico (il centro degli interessi vitali espresso dalle proprie relazioni personali ed economiche) o la propria residenza civilistica (dimora abituale). Quanto alla iscrizione nella anagrafe della popolazione residente, che nel diritto interno viene prevalentemente intesa come fattispecie costitutiva di una presunzione assoluta di residenza fiscale, la questione è se possa costituire un criterio utile a considerare la persona residente anche ai fini della applicazione di una convenzione internazionale contro la doppia imposizione (89). In particolare occorre chiarire, al verificarsi di un fenomeno di doppia residenza da risolvere mediante l’applicazione delle tie breaker rules, come può essere inquadrata l’iscrizione anagrafica nella scala di criteri previsti dall’art. 4, comma 2, del Modello OCSE. Se pure si ammettesse che il dato meramente formale della iscrizione anagrafica possa essere considerato un “criterio similare” a quelli del domicilio o della residenza, in che rapporto gerarchico si colloca rispetto alla disponibilità di una abitazione permanente, alla individuazione del centro degli interessi vitali, al luogo di dimora abituale della persona? La risposta non può che essere la stessa data nella ipotesi precedente. La presunzione di residenza non può valere come criterio convenzionale (tie breaker rule) per risolvere i conflitti di doppia residenza, a meno che l’Amministrazione finanziaria non provi che la apparenza formale corrisponde alla situazione reale, ovvero che il contribuente iscritto nella anagrafe dei residenti ha effettivamente la disponibilità di una “abitazione permanente” e quindi la “dimora abituale” nel territorio dello stato (salva, poi, la necessità di applicare le altre tie breaker rules) (90).

(89) Nel caso di controversie in merito all’accertamento della residenza fiscale, parte della dottrina ritiene che il contribuente potrebbe incentrare la propria difesa, più che sulla contestazione della natura di presunzione assoluta del dato anagrafico, sulla richiesta di applicare, ove ne ricorrano i presupposti, la eventuale convenzione internazionale, per risolvere la controversia utilizzando le tie breaker rules. A. Fazio, La residenza delle persone fisiche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione ai fini delle imposte sui redditi (2006-2016). Parte seconda, cit., 1837. (90) Cfr. N. Saccardo, Brevi note in tema di doppia residenza convenzionale e accertamento sintetico, in Riv. dir. trib., 2001, IV, 33, che ritiene inidoneo il mero dato formale dell’iscrizione anagrafica, per “qualificare una persona come residente ai fini dell’applicazione


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In ogni caso, le precedenti osservazioni confermano che sia la presunzione relativa di residenza fiscale prevista dall’art. 2, comma 2-bis, che, a maggior ragione, la presunzione assoluta di residenza conseguente alla mera iscrizione anagrafica, determinano una disparità di trattamento tra contribuenti, dipendente dal fatto che alla specifica fattispecie si applichi o meno una convenzione internazionale. Nel primo caso il conflitto di residenza si risolve in base alle tie breaker rules individuando il luogo di effettiva residenza a prescindere dalle risultanze formali. Nel secondo caso, invece, l’apparenza formale potrebbe, irragionevolmente, prevalere sulla situazione reale (91). 6. L’imposta sostitutiva sui redditi prodotti all’estero realizzati da persone fisiche che trasferiscono la propria residenza fiscale in Italia. – Il regime per i “neo residenti” (92) consiste nella applicazione di una imposta sostitu-

della convenzione, mancando un effettivo collegamento del soggetto con il territorio dello Stato”. Una maggiore apertura si ha da parte di E. Marello, La residenza fiscale nelle Convenzioni internazionali, cit., 2588, che considera la elencazione di criteri contenuta nel Modello OCSE, “una mera esemplificazione che non chiude il sistema, il quale resta aperto ad ogni criterio che – alla luce delle legislazioni nazionali – conduce alla full tax liability”. Sull’opportunità di ricorrere, in tale contesto, alla procedura di risoluzione amichevole prevista in sede convenzionale, vedi S.M. Ronco, “Abitazione permanente” e requisito dell’iscrizione anagrafica all’AIRE: spunti di riflessione alla luce della giurisprudenza di legittimità nel contesto convenzionale, cit., 1307 ss. (91) Cfr. P. Pistone, Aspetti tributari del trasferimento di residenza all’estero, cit., 262, il quale osserva che “gli effetti della lotta all’elusione fiscale propri della norma sull’inversione dell’onere della prova relativamente al trasferimento di residenza verso un regime fiscale privilegiato possono essere conseguiti senza alcuna limitazione quando il Paese di immigrazione non abbia alcuna convenzione internazionale contro la doppia imposizione sul reddito con l’Italia”, poiché in caso contrario la predetta norma sarà inefficace. (92) Tra i primi commenti in dottrina, vedi G. Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (c.d. flat tax per neo – residenti), in Riv. dir. trib., 2018, 53 ss.; A. Saini - P. Mandarino, La “flat tax per i neoresidenti: un regime “non convenzionale”, in Innov. dir., 2017, 314 ss.; E. Tito - G. Giusti, Flat tax italiana per i neo-residenti e remmitance basis taxation inglese a confronto, in Corr. trib., 2017, 2088 ss.; A. Tomassini - A. Martinelli, Il regime dei neo-residenti in dichiarazione dei redditi, in Corr. trib., 2018, 1091 ss.; Id., Il regime italiano dei “neo domiciliati”, in Corr. trib., 2016, 3533 ss.; S. Massarotto - G. Sorci, Il regime speciale per gli high net worth individuals che si trasferiscono in Italia, in Corr. trib., 2017, 1331 ss.; G. Marianetti, Flat tax sui redditi di fonte estera per i neo-residenti, in Corr. trib., 2017, 760 ss.; E. Della Valle - M. Strafile, La nuova imposta sostitutiva sui redditi di fonte estera, in Il fisco, 2016, 4346 ss.; A. Costa, Misure per agevolare il trasferimento della residenza in Italia, in Dir. prat. lav., 2017, 294 ss.; G. Ascoli - M. Pellecchia, Il nuovo regime impositivo per le persone fisiche che trasferiscono la residenza fiscale in Italia, in Il fisco, 2017, 507 ss.


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tiva dell’Irpef (e delle addizionali locali) sui redditi prodotti all’estero, fermo restando il regime ordinario per i redditi prodotti in Italia. Questa modalità di tassazione dei redditi si differenzia nettamente rispetto alle altre fattispecie di imposizione sostitutiva già previste nel nostro ordinamento, in quanto il tributo dovuto non viene determinato applicando una aliquota proporzionale (in luogo delle aliquote progressive), bensì è determinato forfetariamente, applicando l’imposta sostitutiva nella misura forfetaria di 100.000 euro per periodo, a prescindere dall’ammontare del reddito estero. Si tratta di una “imposta sostitutiva” vagamente configurata come flat tax (93) sui redditi esteri dei neoresidenti, della quale occorre valutare la compatibilità con i principi costituzionali e con il sistema dell’imposizione sui redditi. L’intento del legislatore è quello “favorire l’ingresso di significativi investimenti in Italia, anche preordinati ad accrescere i livelli occupazionali” (comma 155), incentivando il trasferimento in Italia di persone con un patrimonio netto individuale particolarmente elevato (i c.d. high net worth individuals), che dovrebbero essere incoraggiate ad effettuare investimenti e consumi in Italia, anche attingendo dai propri redditi di fonte estera colpiti dall’imposta sostitutiva e sottratti alla tassazione progressiva. Tale regime ha qualche elemento di somiglianza con quello esistente in Gran Bretagna per i “residenti non domiciliati” (resident not domicilied) (94). Il regime inglese, però, oltre ad essere caratterizzato da una nozione di domicilio che non corrisponde a quella italiana, esclude la tassazione sui redditi di fonte estera che siano mantenuti all’estero (c.d. remittance basis), fermo restando l’assoggettamento a tassazione dei redditi di fonte interna secondo il regime ordinario, ed è stato successivamente modificato, prevedendo oltre alla remittance basis taxation, anche il pagamento di una imposta forfetaria (remittance basis charge) di importo variabile a seconda del numero di anni in cui la persona sia stata residente nello stato (95).

(93) Vedi infra § 10, e nota 142. (94) Per una approfondita disamina di tale regime, cfr P. Mastellone, Il trattamento impositivo dei “residenti non domiciliati” nel Regno unito e la sua legittimità nel panorama internazionale, in Dir. prat. trib. int., 2009, 1369 ss. (95) Sulle analogie e le differenze tra il regime inglese e quello italiano, si veda E. Tito - G. Giusti, Flat tax italiana per i neo-residenti e remmitance basis taxation inglese a confronto, cit., 2088 ss. Le principali differenze sono costituite dalla nozione di “residente non domiciliato” che non corrisponde ad alcuno dei collegamenti soggettivi previsti in Italia; e dalla struttura del beneficio, posto che il regime agevolato inglese non esclude l’imponibilità secondo i criteri ordinari della quota di reddito estero rimessa nello stato (remittance basis taxation). Ne


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Più marcata è, invece, la differenza rispetto alle disposizioni esistenti nella legislazione di altri stati dell’UE (come la Francia, il Belgio, il Portogallo e la Spagna), che sono finalizzate a “sostenere la localizzazione di attività produttive nel territorio di ciascuno Stato, facilitando l’ingresso del capitale umano, attratto dalle agevolazioni fiscali riguardanti soprattutto il reddito derivante dal lavoro” (96). Il regime agevolato introdotto in Italia si caratterizza, invece, per il fatto di prevedere un eguale trattamento fiscale dei redditi di fonte estera, a prescindere dal fatto che essi vengano mantenuti nello stato di produzione ovvero vengano trasferiti in Italia, e di non condizionare l’accesso al regime all’avvenuto pagamento di imposte nello Stato della fonte del reddito. 7. Ambito oggettivo di applicazione del regime sostitutivo. – Il regime in esame introduce una deroga alla regola generale secondo la quale l’imposta sul reddito delle persone fisiche residenti si applica sul loro reddito complessivo formato da tutti i redditi posseduti ovunque prodotti (c.d. world wide taxation) (97). I redditi sui quali si applica l’imposta sostitutiva sono quelli prodotti all’estero (98), individuati secondo i criteri di cui all’art. 165, comma 2, Tuir (che definisce il credito d’imposta riconosciuto a chi possiede redditi prodotti all’estero), il quale, a sua volta, rinvia ai criteri previsti dall’art. 23 (per la tassazione dei non residenti) da applicarsi in base ad un parametro di reciprocità (99). Quest’ultima disposizione prevede criteri positivi per individuare i redditi che si considerano prodotti nel territorio dello stato dai non residenti, e che di conseguenza sono soggetti a tassazione in Italia. Pertanto, con “criteri reciproci” sono individuati i redditi dei residenti che si considerano prodotti all’estero. Tale regola si applica all’imposizione sostitutiva per i neoresidenti, per i quali

deriva che la disciplina inglese garantisce “un più adeguato livello di equità del prelievo”. (96) Cfr. E. Della Valle - M. Strafile, La nuova imposta sostitutiva sui redditi di fonte estera, cit., 4346 ss. (97) Nella Relazione illustrativa al disegno di legge, si afferma che il nuovo art. 24-bis introduce una “deroga al principio di tassazione mondiale di cui all’art. 3, comma 1, del TUIR”. (98) Sulle problematiche concernenti la localizzazione dei redditi, ed in particolare la qualificazione e la tassazione dei redditi prodotti all’estero, vedi ampiamente, A.M. Gaffuri, La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero, cit., passim. (99) Si procede ad una lettura “a specchio” dei criteri per individuare il luogo di produzione del reddito, funzionale a stabilire con riferimento a quali redditi prodotti all’estero sia da riconoscere il credito d’imposta (Circ. 5 marzo 2015, n. 9/E, punto 2.1).


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l’individuazione dei redditi di fonte estera è funzionale alla loro esclusione dal calcolo della base imponibile ordinaria dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (100). Secondo la disciplina interna un reddito “si considera prodotto all’estero (ai fini dell’attribuzione del foreign tax credit ai residenti) soltanto nelle ipotesi esattamente speculari a quelle previste dai commi 1 e 2 dell’articolo 23, a prescindere dai criteri di collegamento adottati dallo Stato della fonte” (Circ. n. 9/E, cit.). I suddetti criteri, invece, non si applicherebbero se tra i due stati è in vigore una convenzione contro la doppia imposizione, poiché in tal caso prevale la norma convenzionale e “il diritto al credito viene riconosciuto in riferimento a qualsiasi elemento di reddito che lo Stato della fonte ha assoggettato ad imposizione conformemente alla specifica Convenzione applicabile”. Questa precisazione non sembrerebbe avere particolare rilievo con riferimento alla applicazione del regime opzionale ai redditi esteri dei neoresidenti, quanto meno in relazione alla individuazione del luogo di produzione del reddito, poiché l’imposta sostitutiva appare applicabile ai redditi che si considerano prodotti all’estero secondo la legislazione interna, a prescindere dal fatto che nello stato della fonte siano stati assoggettati ad imposizione (101). Su tali profili sembra auspicabile un ulteriore intervento normativo, che definisca in modo certo il perimetro applicativo del nuovo regime, che allo stato sembra poter avere “effetti imprevisti”, ed “agevolare in modo partico-

(100) Quanto alla applicazione (in modo speculare) di questi criteri, l’Agenzia ha precisato che le fattispecie di reddito espressamente considerate dal legislatore non prodotte nel territorio dello Stato (se percepite da non residenti) in deroga al criterio di territorialità (si tratta di alcune fattispecie di redditi di capitale e di redditi diversi di natura finanziaria), per le quali viene comunque riconosciuto il credito di imposta se sottoposte a tassazione nel paese della fonte, nella “situazione rovesciata”, ovvero se percepite da (neo) residenti, si considerano comunque “redditi prodotti all’estero” e rientrano nel perimetro di applicazione dell’imposta sostitutiva. (101) Cfr. E. Della Valle - M. Strafile, La nuova imposta sostitutiva sui redditi di fonte estera, cit., 4346 ss., che proprio da questo fa dipendere la natura agevolativa e non di rimedio contro la doppia imposizione di tale regime. Vedi, però, A. Saini - P. Mandarino, La “flat tax per i neo-residenti: un regime “non convenzionale”, cit., 317 ss., ove, con riferimento alla individuazione del “reddito prodotto all’estero” ai fini dell’applicazione del nuovo regime, si afferma che si intende tale “un reddito previamente sottoposto alla potestà impositiva (esclusiva o concorrente) dello Stato estero della fonte in conformità alle previsioni pattizie, confinando così l’applicazione delle disposizioni dell’art. 23 del T.U.I.R. al solo caso in cui non sia in essere una Convenzione contro le doppie imposizioni tra l’Italia e lo Stato estero della fonte”.


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lare i redditi detenuti in paesi a bassa fiscalità e non trasparenti”, in quanto la flat tax per i neo residenti “determina una rinuncia all’imposizione ordinaria che risulta tanto più conveniente quanto minore è il carico impositivo nello Stato della fonte”, prestandosi a “pianificazioni fiscali aggressive, al fine di avvantaggiarsi di una sostanziale doppia esenzione” (102). Il legislatore, al fine di evitare comportamenti elusivi, stabilisce che l’imposta sostitutiva non si applica alle plusvalenze da cessione di partecipazioni qualificate (articolo 67, comma 1, lettera c, Tuir) realizzate nei primi cinque periodi d’imposta di validità dell’opzione, che pertanto rimangono soggette al regime ordinario di imposizione. L’obiettivo è quello di evitare trasferimenti di residenza mirati esclusivamente ad ottenere una tassazione forfetaria della plusvalenza (103). È vero, però, che questo è uno degli aspetti oggetto di critica, poiché è sempre possibile che l’operazione di cessione venga pianificata ed effettuata immediatamente dopo la scadenza del termine quinquennale. In sede di esercizio dell’opzione si devono indicare il luogo di ultima residenza fiscale, e gli stati esteri i cui redditi saranno soggetti a tale imposta sostitutiva, ed eventualmente si può esercitare la facoltà di non avvalersi dell’imposta sostitutiva con riferimento ai redditi prodotti in uno o più stati esteri. L’esclusione dall’opzione dei redditi prodotti in uno o più stati esteri si configura come una forma di cherry picking, consentendo la scelta del paese con la normativa (fiscale) più conveniente (104). Tale scelta, ad un primo esame, potrebbe apparire non motivata da una convenienza fiscale, posto che l’imposta sostitutiva opzionale è calcolata in misura forfetaria prescindendo dall’ammontare del reddito, bensì giustificata dall’interesse a prevenire una possibile risposta negativa all’istanza di interpello che precede l’esercizio dell’opzione, nel caso di redditi provenienti da giurisdizioni non collaborative (105).

(102) Cfr. A. Saini - P. Mandarino, La “flat tax per i neo-residenti: un regime “non convenzionale”, cit., 326 ss. (103) Il regime agevolato di tassazione sostitutiva si applica, secondo l’Agenzia delle entrate, anche ai dividendi e alle plusvalenze provenienti dal possesso o dalla cessione di partecipazioni in società residenti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato. Cfr. Circ. n. 17/E, p. 57. L’art. 24-bis deroga, quindi, a quanto previsto dagli artt. 47, comma 4, 68, comma 4, e 167, del TUIR. (104) Cfr. E. Tito - G. Giusti, Flat tax italiana per i neo-residenti e remmitance basis taxation inglese a confronto, cit., 2088 ss.; A. Tomassini - A. Martinelli, Il regime italiano dei “neo domiciliati”, cit., 3535 ss. (105) Per i paesi esclusi dall’opzione non si applicano l’esonero dagli obblighi di monitoraggio fiscale, e l’esenzione dalle imposte patrimoniali sulle attività detenute all’estero.


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Secondo l’interpretazione dell’amministrazione, la scelta di escludere dal regime sostitutivo i redditi provenienti da uno stato estero può essere effettuata solo al momento dell’esercizio dell’opzione e non è revocabile (106). Pertanto sui redditi esteri provenienti da tali paesi continueranno ad applicarsi le ordinarie regole di tassazione. È possibile, invece, ampliare il novero delle giurisdizioni alle quali non si applica l’imposta sostitutiva, esercitando tale facoltà nella dichiarazione relativa ad un successivo periodo di imposta. Non è ben chiara la ratio di tale interpretazione, priva di un supporto testuale nel dato legislativo. Il comma 5 dell’art. 24-bis, sembra, anzi, legittimare una lettura diametralmente opposta, in quanto nel consentire al contribuente, per sé o per uno dei suoi familiari compresi nell’opzione, la facoltà di non avvalersi dell’applicazione dell’imposta sostitutiva con riferimento ai redditi prodotti in uno o più stati esteri, precisa che di ciò si deve dare “specifica indicazione in sede di esercizio dell’opzione ovvero con successiva modifica della stessa”. Peraltro, come osservato sopra, l’esercizio della suddetta facoltà non necessariamente determina un minore gettito fiscale posto che l’importo dell’imposta sostitutiva è forfetario (e pertanto non varia al variare del reddito estero), ed implica oltre che l’applicazione dell’imposta sui redditi con le regole ordinarie, anche l’applicazione delle imposte patrimoniali sulle attività detenute all’estero, ed eventualmente dell’imposta sulle successioni e donazioni, con riferimento ai beni esistenti nello stato estero escluso dall’opzione. I soggetti che optano per il regime di tassazione sostitutiva forfetaria (nonché i familiari ai quali viene estesa l’opzione) sono esclusi dagli obblighi di monitoraggio fiscale per le attività patrimoniali e finanziarie detenute all’estero (107), e sono esentati dal pagamento dell’imposta patrimoniale sul valore degli immobili detenuti all’estero (IVIE), e dall’imposta patrimoniale sul va-

Parte della dottrina afferma che tale scelta evita la doppia imposizione internazionale che si verifica quando il neo residente continua ad essere considerato residente anche nello stato di provenienza. Cfr. A. Tomassini - A. Martinelli, Il regime italiano dei “neo domiciliati”, cit., 3537. (106) Nei periodi di imposta successivi al primo non sarebbe consentito, quindi, comprendere nell’opzione un paese precedentemente escluso. Cfr. Circ. n. 17/E, p. 75. (107) Ci si riferisce all’obbligo di compilazione del quadro RW nella dichiarazione, previsto dall’articolo 4 del d.l. n. 167/1990, Effetto indiretto di tale semplificazione è quello di evitare il rischio di sanzioni amministrative connesse ad un inadempimento agli obblighi in materia di monitoraggio fiscale. Sul monitoraggio fiscale dei rapporti finanziari con l’estero, si veda G. Turri, Quadro RW: la disciplina del monitoraggio fiscale, in Dir. prat. trib., 2017, 1991 ss.


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lore delle attività finanziarie detenute all’estero (IVAFE) (art. 19, commi 153 e 158, d.l. n. 201/2011). Sia la semplificazione relativa al monitoraggio fiscale, che le esenzioni dalle imposte patrimoniali, sono limitate ai paesi con riferimento ai quali si applica l’imposizione sostitutiva forfetaria. Pertanto se il richiedente ha esercitato la facoltà di non avvalersi dell’imposizione sostitutiva con riferimento ai redditi prodotti in uno o più stati esteri, egli è tenuto agli ordinari adempimenti di monitoraggio fiscale e di pagamento delle imposte, con riferimento alle attività patrimoniali e finanziarie detenute in tali paesi. Una ulteriore agevolazione è prevista con riferimento all’imposta sulle successioni e donazioni. In seguito all’apertura della successione o alle donazioni effettuate dal neo residente beneficiario principale (o dai suoi familiari ai quali è estesa l’opzione), l’imposta è dovuta limitatamente ai beni e ai diritti esistenti nello Stato in quel momento (108). Anche in questo caso l’agevolazione non spetta per i beni e i diritti situati negli stati per i quali il contribuente ha esercitato la facoltà di non avvalersi dell’imposizione sostitutiva. 8. Istanza di interpello, trasferimento della residenza, ed esercizio dell’opzione. – La prima condizione soggettiva per l’accesso al nuovo regime è che la persona fisica (109) trasferisca la propria residenza in Italia. Sia in questo caso, sia ai fini della verifica della condizione che il richiedente non sia stato residente in Italia per almeno nove dei periodi di imposta precedenti, il legislatore richiama le regole generali in materia di residenza fiscale. Le difficoltà nella determinazione della residenza fiscale delle persone fisiche, dovute ad una certa indeterminatezza dei criteri adottati dal legislatore

(108) Anche in questo caso, come già detto a proposito del regime di imposizione sostitutiva sui redditi esteri, viene introdotta una deroga al principio di territorialità secondo il quale l’imposta sulle successioni e donazioni “è dovuta in relazione a tutti i beni e diritti trasferiti, ancorché esistenti all’estero” (art. 2, d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346), se alla data dell’apertura della successione o a quella della donazione il dante causa o il donante sono residenti nello Stato, mentre in caso di soggetti residenti all’estero l’imposta è dovuta limitatamente ai beni e ai diritti esistenti nel territorio dello stato. (109) Poiché la disposizione fa esplicito riferimento alle “persone fisiche”, ne deriva l’esclusione per qualsiasi altro soggetto. Sebbene la scelta del legislatore “non sembra contrastare di per sé con i principi costituzionali di uguaglianza e di tassazione in base alla capacità contributiva, in quanto la residenza delle persone fisiche è certamente nozione sostanzialmente distinta da quella degli enti”, è stato osservato che “si sarebbe potuto introdurre uno strumento simile anche per società ed enti similari”. Cfr. G. Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (c.d. flat tax per neo – residenti), cit., 58.


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(iscrizione all’anagrafe, residenza civilistica, domicilio civilistico), incidono anche sul nuovo regime e sono suscettibili di generare nuovo contenzioso. È stato, pertanto, osservato, poiché “la residenza effettiva e il domicilio sono due elementi non verificabili in modo oggettivo, ma frutto comunque di una valutazione”, che “sarebbe stato meglio limitare la disciplina al cambiamento di residenza anagrafica, in modo da ancorarla ad un elemento obiettivamente verificabile” (110). L’art. 24-bis stabilisce testualmente che l’opzione per il regime sostitutivo deve essere esercitata dopo aver trasferito la residenza e “dopo aver ottenuto risposta favorevole a specifica istanza di interpello” probatorio (111), presentata ai sensi dell’art. 11, comma 1, lett. b, dello Statuto del contribuente, entro il termine per la dichiarazione relativa al periodo d’imposta nel corso del quale si trasferisce la residenza (112). Una prima lettura della disposizione potrebbe indurre la seguente interpretazione. La presentazione dell’istanza di interpello preventivo è obbligatoria e in sua mancanza l’opzione non è ammessa, così come non può essere esercitata se la risposta all’istanza di interpello è negativa. L’effetto è che se la persona trasferisce comunque la propria residenza in Italia, sarà assoggettata al regime ordinario di tassazione dei redditi, per il semplice fatto di non aver rispettato la procedura. Questa impostazione, però, più che incoraggiare l’accesso al nuovo regime, sembra scoraggiarlo, e, pertanto, appare in contrasto con le intenzioni del legislatore. In una direzione diversa si è mossa l’Agenzia delle entrate, affermando che “la presentazione dell’istanza è una facoltà e non un obbligo del soggetto

(110) Cfr. G. Salanitro, op. loco ult. cit., il quale esclude, poi, che si possa svalutare il riferimento alla residenza ai sensi della normativa domestica, a favore della nozione di residenza frutto della applicazione delle convenzioni basate sul modello OCSE. (111) Nella citata Circ. n. 17/2017, parte III, par. 3, è stato precisato che “si applicano, in quanto compatibili e salvo le eccezioni che saranno dettagliatamente esposte”, le disposizioni generali previste dal d.lgs. 24 settembre 2015, n.156 (in materia di revisione della disciplina degli interpelli), e si deve far riferimento alle regole procedurali stabilite nel provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 4 gennaio 2016 e ai chiarimenti forniti con la Circ. 1 aprile 2016, n. 9/E. La fattispecie prevista rientra nella categoria degli interpelli c.d. probatori, che si ritiene comprenda “ipotesi tassativamente individuate dal legislatore”, essendo utilizzabile solo “nei casi espressamente previsti”. (112) Sulle modalità applicative per l’esercizio, la modifica o la revoca dell’opzione, è già intervenuto un provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate dell’8/3/2017, n. 47060, con il quale si approva il modulo da allegare all’istanza di interpello, e contenente tutti i dati necessari alla verifica del presupposto temporale di residenza all’estero.


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che intende accedere al regime” (113), in coerenza con la revisione della disciplina degli interpelli (114). Del resto sarebbe del tutto irragionevole subordinare la possibilità di esercitare l’opzione alla presentazione dell’istanza di interpello. È più coerente ritenere che sia riconosciuta la facoltà di interpellare l’Amministrazione, al fine di assicurarsi l’esito positivo dell’opzione per il regime sostitutivo, in virtù di un parere favorevole espresso o del formarsi del silenzio assenso, concludendo che a tale parere “il contribuente, a suo rischio e pericolo, può certamente rinunciare” (115). Da quanto detto consegue anche, sempre in conformità con la natura dell’interpello e la funzione consultiva del parere, che la risposta negativa non è vincolante per il contribuente istante, il quale è comunque legittimato ad esercitare l’opzione per il regime sostitutivo, dopo il trasferimento della residenza, se ritiene di essere in grado di dimostrare in altra sede la sussistenza di tutte le condizioni previste dalla legge (116). Restano ampi margini di incertezza per il contribuente anche nel caso di risposta favorevole all’istanza di interpello. Si pensi al possibile revirement dell’Amministrazione che, ferma restando l’efficacia ex nunc, potrebbe esclu-

(113) Sull’apparente contrasto tra il testo della legge e la sua interpretazione di fonte ministeriale, si veda G. Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (c.d. flat tax per neo – residenti), cit., 61 ss. (114) Cfr. Circ. n. 17/2017, parte III, par. 3.1. Anche in precedenza, nel Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, n. 47060/2017 (punto 1.12), si era implicitamente precisato che la presentazione di istanza di interpello è una semplice facoltà e non un obbligo per il neo residente, che può esporre nella dichiarazione, al momento dell’esercizio dell’opzione, tutti gli elementi necessari a valutare la sussistenza dei presupposti di legge per essere ammessi al regime sostitutivo. È utile ricordare che la disciplina degli interpelli è stata revisionata con il d.lgs. del 24/9/2015, n. 156, che ha sostituito l’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente. Tale revisione è avvenuta in base alla delega contenuta nella l. 11/3/2014, n. 23, che tra i criteri prevedeva “l’eliminazione delle forme di interpello obbligatorio nei casi in cui non producano benefici ma solo aggravi per i contribuenti e per l’amministrazione” (art. 6, comma 6). Sulla procedura di interpello si veda anche la Circ. 1/4/2016, n. 9/E. (115) Cfr. G. Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (c.d. flat tax per neoresidenti), cit., 64. (116) Cfr. Circ. n. 17/2017, parte III, par. 3.1, ove si legge che “l’eventuale risposta negativa non pregiudica la fruizione del regime per il contribuente che, ritenendo integrati tutti i presupposti dell’articolo 24-bis del TUIR, decida di dimostrarne la ricorrenza in altra sede”. Naturalmente, in questo caso, il contribuente affronta un maggior rischio, posto che se trasferisce la propria residenza e procede in sede di dichiarazione alla applicazione dell’imposta sostitutiva, anche a fronte di una risposta negativa all’interpello, si espone, quasi certamente, ad una rettifica da parte dell’Amministrazione finanziaria.


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dere l’agevolazione per gli anni successivi (117); ed alla ipotesi in cui emergano nuovi o contrastanti elementi probatori. L’efficacia dell’interpello, infatti, è subordinata alla ammissibilità dell’istanza, e non è escluso un successivo controllo sulla “corrispondenza tra la fattispecie descritta dal contribuente nell’istanza (in particolare, la presenza dei presupposti per l’accesso al regime di cui all’articolo 24-bis) e quella concreta, riscontrabile in sede di verifica” (Circ. n. 17/E, parte III, par. 3.2). Quanto ai tempi di presentazione dell’istanza di interpello, l’art. 24-bis non dispone in modo chiaro, limitandosi a prevedere che la risposta (favorevole) deve precedere l’esercizio dell’opzione. La questione è se sia ammesso presentare una istanza di interpello successivamente al trasferimento della residenza ed all’esercizio dell’opzione. Con riferimento all’aspetto temporale, la disciplina generale dell’istituto sembra confermare il suo carattere preventivo, posto che la regola valevole per tutte le tipologie di interpello è che l’istanza “deve essere presentata prima della scadenza dei termini previsti dalla legge per la presentazione della dichiarazione o per l’assolvimento di altri obblighi tributari aventi ad oggetto o comunque connessi alla fattispecie cui si riferisce l’istanza” (art. 2, comma 2, d.lgs. n. 156/2015) (118). L’eventuale applicazione di tale disposizione all’interpello probatorio finalizzato all’accesso al regime opzionale per i neoresidenti, è rilevante in quanto determina la conseguenza che l’istanza non presentata preventivamente è inammissibile (art. 5, comma 1, lett. b) (119). Sul contenuto dell’istanza, le modalità dell’istruttoria e la risposta, poche specifiche indicazioni sono contenute non nella legge, ma nella Circ. 17/E, e nel Provv. n. 47060/2017. In quest’ultimo si specifica che “nell’istanza il con-

(117) Cfr. G. Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (c.d. flat tax per neo – residenti), cit., 62, che osserva come ciò impedisce al contribuente “una programmazione sicura delle proprie scelte di natura fiscale in ordine al cambio di residenza”. (118) Parte della dottrina ritiene, però, che tale regola non si applica perché superata dalla previsione contenuta nell’art. 24-bis. Cfr. G. Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (c.d. flat tax per neoresidenti), cit., 67. (119) Si ricordi, anche, che la disciplina generale degli interpelli prevede che l’istanza è inammissibile “sia se è in corso un’attività di verifica, sia in caso di accertamento definitivo che attesti la residenza fiscale in Italia del contribuente che pretende di essersi trasferito da un altro Stato”. Cfr. Circ. n. 17/2017, parte III, par. 1; art. 5, comma1, lett. f), d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156.


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tribuente indica la sussistenza degli elementi necessari per il riscontro delle condizioni per l’accesso al regime dell’imposta sostitutiva sui redditi prodotti all’estero, compilando l’apposita check list allegata al presente provvedimento e presentando la relativa documentazione a supporto” (120). In ogni caso, e salvo quanto detto sopra, si dovrebbero applicare le regole generali in materia di contenuto dell’istanza, istruttoria, e inammissibilità (artt. 3, 4, 5, d.lgs. n. 156/2015), posto che i provvedimenti citati non hanno forma regolamentare e non possono prevalere su una norma di legge. Quanto ai criteri in base ai quali l’Amministrazione valuta l’istanza di interpello, sembra ragionevole ritenere che si debbano apprezzare esclusivamente la sussistenza delle condizioni (di natura sostanziale e temporale) per essere ammessi ad esercitare l’opzione, e la effettività del trasferimento di residenza, anche alla luce della eventuale convenzione internazionale esistente tra l’Italia e lo stato di provenienza (121). In base all’interpretazione ministeriale, l’interpello dovrebbe essere finalizzato solo a “verificare la presenza delle condizioni che legittimano l’accesso al regime” (cfr. Circ. 17/E, parte III, par. 3, e 3.2), e pertanto ne sarebbero escluse altre questioni, pur rilevanti ai fini della scelta del contribuente, quali i quesiti sulla fonte dei redditi percepiti dal contribuente. Condizione necessaria per il valido esercizio dell’opzione è quella di non essere stati fiscalmente residenti in Italia “per un tempo almeno pari a nove periodi d’imposta nel corso dei dieci precedenti l’inizio del periodo di validità dell’opzione”. Il richiedente deve, pertanto, essere fiscalmente residente all’estero da almeno nove anni (nove periodi d’imposta nel corso dei dieci precedenti l’inizio del periodo di validità dell’opzione), con la conseguenza che è

(120) Vi è chi ha osservato che non tutti gli elementi richiesti sono coerenti con la verifica della residenza fiscale, e ciò potrebbe “creare un clima di incertezza e compromettere l’attrattività della norma”. Cfr. S. Massarotto - G. Sorci, Il regime speciale per gli high net worth individuals che si trasferiscono in Italia, cit., 1332. (121) Cfr. E. Della Valle - M. Strafile, La nuova imposta sostitutiva sui redditi di fonte estera, cit., 4346 ss., che in caso di giudizio rimesso ad una valutazione discrezionale dell’Amministrazione finanziaria, ipotizza la possibile incompatibilità della disposizione con il principio costituzionale della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. Nello stesso senso G. Ascoli - M. Pellecchia, Il nuovo regime impositivo per le persone fisiche che trasferiscono la residenza fiscale in Italia, cit., 507, osservano che l’interpello di cui all’art. 11, comma 1, lett. b, dello Statuto del contribuente, riguarda “la sussistenza delle condizioni e la valutazione della idoneità degli elementi probatori richiesti dalla legge per l’adozione di specifici regimi fiscali nei casi espressamente previsti”.


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esclusa la possibilità di esercitare l’opzione per quei soggetti che hanno avuto la residenza in Italia per due periodi di imposta nel corso dei dieci precedenti. Questo requisito temporale è configurato in modo tale da consentire l’accesso al regime agevolato anche ai soggetti che nei dieci anni precedenti hanno temporaneamente risieduto in Italia (per non più di un periodo di imposta) (122). L’opzione, che ha una durata massima di quindici periodi di imposta e non è rinnovabile, può essere revocata e i suoi effetti cessano in ogni caso in seguito ad un omesso o parziale versamento dell’imposta sostitutiva (salvi gli effetti prodottisi nei periodi di imposta precedenti), anche in relazione ad uno o più familiari (e in tal caso limitatamente al singolo familiare, senza che vengano meno gli effetti dell’opzione per il soggetto che la ha esercitata). La revoca o la decadenza per il soggetto che esercita l’opzione si estende, invece, a tutti i familiari (123). La distinzione tra “revoca dell’opzione” e “decadenza dal regime” (cessazione degli effetti) non è definita in modo chiaro dal legislatore. La revoca è, evidentemente, un atto di volontà unilaterale del contribuente che ritratta l’opzione già esercitata con effetti ex nunc, ed è “efficace a partire dall’anno d’imposta in relazione al quale è stata effettuata in dichiarazione” (Circ. 17/E, part. III, 6.1) (124). La decadenza opera certamente in caso di omissione o irregolarità nel versamento dell’imposta sostitutiva, ma nulla è previsto come conseguenza di irregolarità riferite al debito d’imposta relativo ai redditi prodotti in Italia. Il legislatore non prevede espressamente la decadenza dal regime connessa

(122) La disposizione viene interpretata dall’Agenzia nel senso che “l’opzione può essere validamente esercitata anche da coloro che sono già residenti in Italia”, previa verifica del requisito di residenza all’estero per i nove anni precedenti. Cfr. Circ. n. 17/E, parte III, par. 1.. (123) È stato chiarito il dubbio sorto in sede di esame del disegno di legge con riferimento al venir meno degli effetti dell’opzione per i familiari in caso di omesso versamento da parte del contribuente principale. Cfr. G. Ascoli - M. Pellecchia, Il nuovo regime impositivo per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia, cit., 507 ss.; A. Tomassini - A. Martinelli, Il regime italiano dei “neo domiciliati”, cit., 3536. (124) Per approfondimenti si veda G. Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (c.d. flat tax per neoresidenti), cit., 73 ss. L’A. non comprende “perché la revoca precluda l’esercizio di una nuova opzione”, ritenendo, invece, tale “sanzione” giustificata nella ipotesi di decadenza. A tal proposito, però, si potrebbe osservare che se l’esercizio dell’opzione è possibile solo da parte dei neoresidenti, nel caso di una nuova opzione (successiva alla revoca della precedente) mancherebbero i presupposti richiesti dalla legge.


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all’accertamento della insussistenza ab origine della condizione della residenza all’estero, ma è ragionevole ipotizzare che in tali casi la rettifica della dichiarazione comporti l’applicazione delle regole ordinarie con esclusione del regime sostitutivo, poiché il contribuente sarà considerato, in ogni caso, fiscalmente residente (125). Lo stesso regime agevolato può essere esteso anche ai familiari del soggetto che esercita l’opzione, su richiesta di quest’ultimo, e per ognuno è dovuto un importo forfetario pari a 25.000 euro, a condizione che anche per essi ricorrano le condizioni temporali di residenza all’estero (126). Questa estensione dell’imposta sostitutiva ai familiari non sembra ben coordinata con il complesso della disciplina, anche in considerazione della consistente riduzione dell’imposta da versare per ciascun familiare. La legge sembra far dipendere l’accesso al regime opzionale per il familiare, alla decisione di un soggetto diverso (il “capo famiglia” o “contribuente principale”), dimenticando che ogni persona fisica è autonomo soggetto di imposta; salvo che nella successiva circolare si specifica che il familiare “deve manifestare la volontà di fruire dell’estensione dell’opzione nella propria dichiarazione dei redditi, riferita al primo periodo d’imposta di validità dell’estensione stessa”. Forse l’intenzione del legislatore era quella di incentivare il trasferimento in Italia prevedendo una sorta di “sconto famiglia” (127), ma ha predisposto un procedimento contorto e contraddittorio, suscettibile di generare incertezze e pertanto contestazioni. A prescindere da queste considerazioni, resta la per-

(125) Qualora il contribuente abbia ottenuto una risposta favorevole all’istanza di interpello, l’amministrazione procede al disconoscimento degli effetti dell’opzione se verifica la non corrispondenza tra la fattispecie descritta dal contribuente nell’istanza e quella concreta, successivamente riscontrata. (126) “In questo modo, il legislatore ha voluto facilitare il trasferimento di interi nuclei familiari, per consentire una più diffusa e agevole fruizione del regime, potenziando la portata attrattiva della norma”. Circ. n. 17/E, p. 48. Coerentemente con questo fine, la disposizione è interpretata nel senso che l’estensione dell’opzione ai familiari può essere effettuata anche in un periodo successivo. La durata dell’opzione (salva la revoca o la decadenza) per i familiari è, però, sempre condizionata a quella del contribuente principale, pertanto gli effetti cessano comunque decorsi quindici anni dal momento di esercizio dell’opzione da parte di quest’ultimo soggetto. (127) Sulle perplessità in merito a tali aspetti della disciplina cfr. G. Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (c.d. flat tax per neoresidenti), cit., 76-7, che esamina anche i dubbi in merito sua applicabilità alle c.d. unioni civili tra persone dello stesso sesso e alle convivenze di fatto. Nel provv. n. 47060/2017, si afferma che la disposizione “intende favorire gli investimenti, i consumi ed il radicamento di nuclei familiari ed individui ad alto potenziale in Italia”.


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plessità sulla ragionevolezza di un livello di tassazione già basso, che viene ulteriormente ridotto con riferimento ai familiari. 9. Sui difetti di coordinamento del nuovo regime per i “neo residenti” con la disciplina domestica e convenzionale in materia di residenza fiscale. – Il collegamento di una presunzione assoluta di residenza fiscale alla mera iscrizione anagrafica, può far sorgere, dei dubbi in relazione alla imposta sostitutiva sui redditi esteri dei “neo residenti”. Si potrebbe verificare, infatti, il paradosso di un soggetto che trasferisce solo formalmente la sua residenza nel territorio italiano, iscrivendosi all’anagrafe della popolazione residente in un dato comune, ma mantiene il centro dei propri interessi vitali nel paese di origine e non produce in Italia alcun reddito. Tale persona, secondo il principio giurisprudenziale della prevalenza della forma sulla sostanza, verrebbe considerata residente (per presunzione assoluta), e, in virtù dell’opzione, sarebbe assoggettata ad un’imposta sostitutiva dell’Irpef per i propri redditi esteri, senza alcuna verifica della effettività del trasferimento di residenza. Un ulteriore dubbio in merito alle modalità di applicazione della nuova disciplina, riguarda l’ipotesi di chi non abbia mai provveduto a cancellarsi dall’anagrafe dei residenti pur essendosi di fatto trasferito all’estero. La questione è se sia possibile provare ex post di avere effettivamente trasferito la propria residenza all’estero e di averla ivi mantenuta per il periodo necessario ad accedere al nuovo regime di tassazione sostitutiva. La risposta positiva a tale quesito consentirebbe l’accesso al regime anche a soggetti che negli anni precedenti al trasferimento della residenza risultavano iscritti all’anagrafe dei residenti, superando la presunzione assoluta che tradizionalmente viene ricollegata a tale condizione formale. Rinviando a quanto già osservato in merito al valore probatorio dell’iscrizione anagrafica ai fini della individuazione della residenza fiscale delle persone fisiche, va annotato che, coerentemente alla posizione già assunta in merito a questo problema, l’Agenzia delle entrate afferma che “tenuto conto della rilevanza del solo dato dell’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente, il soggetto che non si è mai cancellato da tale registro non può essere ammesso alle agevolazioni in esame” (128). È dubbia, poi, la ammissibilità del nuovo regime di imposizione sostitutiva, per i soggetti (cittadini italiani) che risultino formalmente residenti all’e-

(128) Cfr. Circ. n. 17/E, parte I.


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stero, ma per i quali, in virtù del loro trasferimento verso uno stato a regime fiscale privilegiato, opera la presunzione (relativa) di residenza in Italia (art. 2, comma 2-bis). Tali contribuenti, in quanto considerati fiscalmente residenti in Italia nei periodi di imposta precedenti a quello teorico di esercizio dell’opzione, non dovrebbero poter accedere al regime agevolato, tanto è vero che la relazione illustrativa al disegno di legge escludeva la possibilità di esercitare l’opzione per le persone “che sono state considerate residenti ai sensi del comma 2-bis del citato articolo 2”. Su tale questione l’Amministrazione finanziaria ha assunto una posizione più permissiva, affermando che “l’accesso ai regimi agevolativi è consentito, altresì, alle persone fisiche, in grado di vincere la presunzione di residenza in Italia di cui al comma 2-bis dell’articolo 2 del TUIR” (129). La prova della effettiva residenza all’estero, dovrebbe essere fornita “a richiesta degli uffici dell’Agenzia in fase di controllo”, in sede di interpello o nella dichiarazione. Anche se la fattispecie è puramente ipotetica, la soluzione prospettata nella Circolare e nel Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, appare superficiale, e sembra anomalo consentire ad un soggetto che (per anni) è stato (presuntivamente) considerato fiscalmente residente, di accedere ad un regime fiscale privilegiato riservato, invece, ai soggetti (da lungo tempo) residenti all’estero che si trasferiscono in Italia. Innanzitutto sono evidenti le difficoltà di provare l’effettiva residenza all’estero per un periodo di nove anni precedente l’inizio di validità dell’opzione. In secondo luogo, è ragionevole immaginare che l’Amministrazione finanziaria abbia già agito nei confronti di tale contribuente facendo valere la presunzione di cui all’art. 2, comma 2-bis, e che, di conseguenza la questione sia già stata risolta in un senso o nell’altro. Orbene, se il contribuente è già riuscito a dimostrare la effettività del suo trasferimento all’estero, non si pone alcun problema. Al contrario, se il contribuente non è riuscito ad offrire una prova in grado di vincere la presunzione, e pertanto è stato considerato residente in Italia, non sembra esservi spazio per ribaltare la situazione già accertata (130).

(129) Cfr. Circ. min. 23 maggio 2017, n. 17/E, parte III, par. 3.2. La stessa posizione viene ribadita nel Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, n. 47060/2017, punto 1.6, aggiungendo (punto 2.7) che “l’istanza di interpello di cui al punto 1.3 può essere presentata anche nella ipotesi di applicabilità, ai familiari a cui è stata estesa l’opzione, della presunzione di cui all’articolo 2, comma 2-bis del TUIR”. (130) Pensiamo alla ipotesi in cui sulla fattispecie sia intervenuto un atto d’imposizione


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Un cenno, infine, al coordinamento del nuovo regime dei “neo residenti”, con la disciplina di fonte convenzionale in materia di residenza fiscale. Una doppia residenza fiscale non preclude, in teoria, l’accesso al nuovo regime opzionale. Va detto, però, che in presenza di una convenzione OCSE tra l’Italia e lo stato di provenienza della persona fisica, la norma convenzionale prevale su quella domestica, e la questione della (doppia) residenza fiscale deve esser risolta in base alle tie breaker rules. Secondo parte della dottrina il trasferimento in Italia consente di fruire del regime sostitutivo, solo se il soggetto può essere considerato residente in Italia anche in base alle norme convenzionali (131). In caso contrario, ai fini delle imposte sul reddito sempre coperte dalle convenzioni basate sul Modello OCSE, il soggetto continuerà ad essere considerato residente nel paese di provenienza. Appare più convincente, però, la tesi opposta, fondata sulla considerazione che il legislatore disciplina il nuovo regime opzionale, introdotto con l’art. 24-bis, facendo riferimento alla “residenza” ai sensi dell’art. 2, comma 2, Tuir, pertanto, non dovrebbe essere di ostacolo alla applicazione del nuovo regime opzionale che il contribuente “neo residente” mantenga la residenza (fiscale) anche nel paese di origine. Questa impostazione è anche utile ad escludere la possibilità (da ritenersi in contrasto con la ratio della norma) che un soggetto residente in Italia in base alla disciplina interna, ma considerato residente all’estero in base ad una convenzione, possa avvalersi dell’opzione (132).

divenuto definitivo. Si ricordi anche che una istanza di interpello ai sensi dell’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente, è inammissibile se ha ad oggetto “questioni per le quali siano state già avviate attività di controllo alla data di presentazione dell’istanza di cui il contribuente sia formalmente a conoscenza” (art. 5, comma 1, lett. f, del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156). Probabilmente nella interpretazione dell’Amministrazione finanziaria, che ritiene l’interpello facoltativo e non obbligatorio ai fini dell’accesso al nuovo regime (Circ. n. 17/2017, parte III, par 3.1), l’inammissibilità dell’istanza non esclude la possibilità di esercizio dell’opzione, e quindi il superamento della presunzione di residenza al momento dell’esercizio dell’opzione in sede di dichiarazione. (131) In tal senso G. Marianetti, Flat tax sui redditi di fonte estera per i neo-residenti, cit., 760. Vedi anche S. Massarotto - G. Sorci, Il regime speciale per gli high net worth individuals che si trasferiscono in Italia, cit., 1331, che ritengono l’iscrizione all’anagrafe dei residenti condizione sufficiente “per l’accesso al regime opzionale, a prescindere dalla sussistenza della residenza anche nel Paese di provenienza (secondo la normativa locale) e di una eventuale applicazione delle c.d. tie breaker rules convenzionali”. (132) Cfr. G. Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche


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10. Considerazioni in merito all’efficacia ed agli effetti del nuovo regime di tassazione sostitutiva. – Rinviando la valutazione sugli effettivi benefici per l’economia nazionale auspicati dal legislatore, in vista della prima applicazione del regime (che ha efficacia a partire dal periodo d’imposta 2017) ci si chiede quali possano essere i benefici per i contribuenti, e le conseguenze della sua applicazione in termini di gettito per l’erario, al fine di apprezzarne l’efficacia e gli effetti. Una considerazione che potrebbe mettere in dubbio l’opportunità dell’intervento legislativo in esame, è che di esso può beneficiare chiunque abbia, comunque, intenzione di trasferire la propria residenza in Italia, ottenendo il vantaggio di una minore tassazione su tutti i propri redditi esteri, con un effetto certo di perdita di gettito per l’erario, che potrebbe non essere mai bilanciato da nuovi investimenti o consumi effettuati dal neo residente. Al di fuori di questa ipotesi, chi è interessato al nuovo regime dovrà tenere conto delle regole sulla residenza previste nello stato di provenienza, del regime fiscale esistente negli stati della fonte dei propri redditi, e delle eventuali convenzioni internazionali stipulate dall’Italia con lo stato di provenienza e gli stati della fonte del reddito. La convenienza va valutata in base ad una stima del carico fiscale che prevedibilmente il contribuente neo residente dovrà subire con riferimento alla totalità dei propri redditi. Il rischio di una eventuale doppia imposizione internazionale per il sovrapporsi di pretese impositive tra stato della residenza (Italia) e stato della fonte del reddito, è, comunque, ridimensionato dalla predeterminazione dell’imposta sostitutiva in misura forfetaria. È possibile che il trasferimento della residenza sia solo apparente o formale, nel senso che la persona, ad esempio, si iscrive all’anagrafe della popolazione residente, pur mantenendo il centro dei propri interessi vitali all’estero, o, in ogni caso, senza trasferire le proprie attività economiche che continua a svolgere nel paese di origine. Il reddito di tale contribuente sarebbe allora prodotto quasi esclusivamente all’estero, risultando sostanzialmente irrilevante la quota di reddito assoggettata a tassazione progressiva. In questo caso il maggiore gettito per l’Erario sarebbe costituito esclusivamente dalla quota di imposta sostitutiva determinata forfetariamente. La effettuazione di investimenti in Italia da parte del “neo residente”, auspicata dal legislatore, non viene in alcun modo integrata nella disciplina della

che trasferiscono la residenza in Italia (c.d. flat tax per neoresidenti), cit., 58 ss., che evoca la possibilità che si possa verificare, in questi casi, un fenomeno di treaty abuse, in virtù del fatto che “una bassa tassazione è equiparabile a mancata tassazione”.


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nuova imposta sostitutiva, e ciò rende del tutto ipotetico tale effetto economico. La scelta politica non sembra coerente con l’obiettivo di incentivare nuovi investimenti in Italia. In questa prospettiva sarebbe, forse, risultato più efficace predisporre una misura fiscale agevolativa con effetti limitati ai nuovi investimenti, e con efficacia subordinata alla concreta realizzazione di tali investimenti, come si è tentato di fare pochi anni addietro con il c.d. “regime fiscale di attrazione europea” a favore di soggetti collettivi e persone fisiche esteri, che trasferiscono la residenza fiscale o costituiscono stabili organizzazioni o società in Italia, intraprendendo nuove attività economiche (133). Si aggiunga, poi, che le modalità di tassazione del reddito derivante dagli investimenti effettuati in Italia dal “neo residente” non differiscono da quelle che si applicherebbero se gli stessi investimenti fossero effettuati senza trasferire la residenza. Ciò è ben evidenziato, ad esempio, dalla disciplina dei c.d. dividendi transfrontalieri, provenienti da società estere e percepiti da residenti (c.d. dividendi in entrata), ovvero erogati da società italiane a favore di soci esteri non residenti (c.d. dividendi in uscita), la tassazione dei quali deve avvenire nel rispetto del diritto dell’Unione europea, che vieta trattamenti fiscali discriminatori o che ostacolino la libera circolazione dei capitali. La normativa italiana prevede che i “dividendi in entrata” (e le plusvalenze su cessioni di azioni estere) siano assoggettate a tassazione con le stesse regole con cui sono tassati i dividendi (e le plusvalenze) interni. In generale, se il percipiente è una persona fisica, si applica una ritenuta alla fonte a titolo definitivo con l’aliquota del 26%, ovvero si assoggetta a tassazione progressiva una percentuale del reddito (per le partecipazioni detenute nell’ambito di una impresa individuale). Ogni stato, però, tende ad esercitare la propria potestà impositiva sui dividendi in uscita applicando una ritenuta fiscale alla fonte all’atto della erogazione del reddito. Ciò determina una doppia imposizione internazionale attenuata, nel diritto convenzionale, con la generale limitazione dell’ammontare della ritenuta (c.d. ritenuta convenzionale del 15%) (134).

(133) Tale regime, introdotto con il d.l. 31 maggio 2010, n. 78, prevedeva la possibilità di “applicare, in alternativa alla normativa tributaria italiana, la normativa tributaria statale vigente in uno degli Stati membri dell’Unione europea”, per un periodo limitato di tre anni, e solo per le “nuove attività” avviate nel territorio dello Stato. Cfr. A. Buccisano, Attracting new economic activities to Italy and implementation of European tax system, in Aa. Vv., Moving from the crisis to sustainability, a cura di G. Calabrò, A. D’Amico, M. Lanfranchi, G. Moschella, L. Pulejo, R. Salomone, Milano, Milano, 2011, 451. (134) Rimedio alternativo unilaterale alla doppia imposizione è il riconoscimento, da


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Il regime dei “dividendi in uscita” prevede che, a prescindere dalla natura del soggetto che li percepisce (persona fisica o società), si applichi una ritenuta alla fonte a titolo definitivo con l’aliquota del 26%. Ebbene, nel caso di una persona fisica residente all’estero che volesse investire in Italia, quale variazione subisce il prelievo fiscale sul rendimento, a seguito della variazione del suo status da non residente a “neo residente”, e quale è la differenza rispetto al trattamento fiscale che, per gli stessi rendimenti, subisce un residente “ordinario”? Tenendo anche a mente che è difficile immaginare la effettuazione di cospicui investimenti economici in Italia se non per il tramite di una struttura societaria, già esistente o da costituire, il che renderebbe superfluo, dal punto di vista logistico, il trasferimento della persona fisica. Abbiamo detto che ai redditi di natura finanziaria corrisposti da una società residente ad una persona fisica residente, non residente o “neo residente”, si applica una ritenuta a titolo d’imposta con aliquota proporzionale (salva, nel secondo caso, l’applicazione della ritenuta convenzionale). Cambia invece il regime dei redditi esteri percepiti dai “neo residenti”, in quanto è prevista (135) l’applicazione di una imposta sostitutiva non proporzionale ma forfetaria. La misura predefinita dell’imposta sostitutiva determina, quindi, un vantaggio fiscale (ed un conseguente minor gettito per l’Erario) a favore dei contribuenti “neo residenti” già oltre una soglia non particolarmente elevata di redditi finanziari provenienti dall’estero (136), rispetto ai residenti “ordinari” ed ai non residenti. 11. Sulla (in)compatibilità costituzionale della tassazione sostitutiva dei redditi esteri dei “neoresidenti”. – Con riferimento all’imposta sostitutiva in esame sono già stati avanzati dubbi di compatibilità con i principi costituzionali di uguaglianza, capacità contributiva e progressività dell’imposizione (137).

parte dello stato di residenza di chi percepisce il reddito, di un credito per le imposte pagate all’estero. (135) Con l’eccezione delle plusvalenze da cessione di partecipazioni qualificate realizzate nei primi cinque periodi di validità dell’opzione, che sono escluse dal regime sostitutivo. (136) Una imposta fissa di 100.000 euro equivale alla applicazione della ritenuta alla fonte con aliquota proporzionale su redditi pari a circa 400.000 euro, e tutto il maggior reddito risulterebbe di fatto esentato. La soglia si abbassa ulteriormente per i familiari a carico dei quali è prevista una imposta sostitutiva di 25.000 euro. (137) Si veda, ad esempio, A. Saini - P. Mandarino, La “flat tax per i neo-residenti: un regime “non convenzionale”, cit., 329 ss., che osserva come i principi di capacità contributiva


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Di certo il nuovo regime ha le caratteristiche di una agevolazione in quanto prevede un trattamento fiscale differenziato, e prevedibilmente ridotto, rispetto a quello ordinario, ma non per questo deve essere a priori considerato incostituzionale. Occorre allora verificare se le situazioni del contribuente “già residente” e del “neo residente”, che appaiono identiche, presentino differenze sostanziali tali da giustificare una diversa misura dell’obbligo di concorrere alle spese pubbliche. La diversa situazione sostanziale deve, naturalmente, poter essere apprezzata sulla base di principi costituzionali di rango pari a quello di capacità contributiva. Questi elementi non sembrano emergere in modo chiaro né dalla lettura del dato normativo, né dalla sua interpretazione ministeriale, in quanto l’unica ragione, più volte ribadita, per la introduzione del nuovo regime, è quella di attrarre investimenti in Italia, ed essa non pare avere il rilievo richiesto; senza tralasciare, poi, il fatto che, come si è detto, il nuovo regime agevolato non è in alcun modo subordinato o collegato in modo condizionale alla effettiva realizzazione di investimenti in Italia da parte del neo residente. Se in generale una norma che limita l’imposizione di un soggetto residente appare astrattamente in contrasto con i principi costituzionali di solidarietà, eguaglianza e capacità contributiva, quella in esame si potrebbe, forse, salvare “ammettendo che il principio dell’utile mondiale entri in sofferenza nei grandi contribuenti che hanno fuori dal territorio dello stato enormi ricchezze, che vanno ben oltre quel dovere contributivo che li lega al territorio di residenza” (138). Non si vede, però, come sia possibile superare l’eccezione di contrasto di tale regime con il principio di uguaglianza, posto che anche a far valere la precedente considerazione resta la palese disparità di trattamento tra i «già residenti» che scontano la tassazione progressiva sul reddito mondiale, ed i «neo residenti» che invece possono accedere ad regime sostitutivo per tutti i redditi prodotti all’estero e subiscono il prelievo progressivo solo sui redditi prodotti nel territorio dello stato (139); nonché tra più soggetti che trasferiscono la residenza, i quali pur percependo redditi esteri di diverso ammontare

e di uguaglianza vietino di disporre “modelli impositivi differenti in capo a soggetti identici, per situazioni reddituali identiche, senza giustificazioni di carattere economico o sociale”. (138) Cfr. G. Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (c.d. flat tax per neo – residenti), cit., 83-4, il quale osserva che “l’imposizione sembrerebbe spostarsi dalla ricchezza sita o prodotta all’estero ai consumi effettuati direttamente o indirettamente in Italia”. (139) In questo senso vedi F. Farri, Flat-tax per neo-residenti: i dubbi permangono, in Riv. dir. trib., Supplemento online, 22 giugno 2017, che oltre ad esprimere perplessità in ordine


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sono sottoposti alla medesima tassazione (140). Si aggiunga, poi, un ulteriore dubbio di compatibilità con il diritto dell’Unione europea. Gli stati stabiliscono in piena autonomia le condizioni affinché una persona sia considerata fiscalmente residente, e possono legittimamente differenziare il trattamento fiscale dei residenti e dei non residenti, in base ad una diversa valutazione in merito alla loro capacità contributiva ed alla loro relazione con il territorio. Ciò, però, non esclude il rispetto del generale principio di non discriminazione. Se è vero che con riferimento a residenti e non residenti, “una disparità di disciplina tra queste due categorie di contribuenti deve essere ritenuta una discriminazione ingiusta quando non sussiste alcuna obiettiva e apprezzabile diversità tra la situazione degli uni e degli altri” (141), non si vede come possa giustificarsi una disparità di disciplina tra residenti e (neo) residenti. Sulla compatibilità del prelievo sui redditi esteri dei neo residenti con il principio di progressività del sistema tributario, si deve poi osservare che l’imposta sostitutiva di cui si parla è determinata in misura forfetaria acquisendo un carattere «regressivo», tanto che risulta inappropriato parlare di una imposta proporzionale ovvero di flat tax (142). Pur senza entrare nel merito di un tema così complesso quale è il principio

alla legittimità costituzionale della disciplina, osserva che “il regime dei neo-residenti introduce una divaricazione all’interno del concetto di residenza fiscale”, creando “due categorie di residenti trattate diversamente ai fini delle imposte sui redditi, delle imposte sulle successioni e donazioni e delle imposte sui beni patrimoniali all’estero”. (140) Cfr. E. Della Valle - M. Strafile, La nuova imposta sostitutiva sui redditi di fonte estera, cit., 4346 ss., che evidenzia quali profili di criticità di questa “sorta di entry tax di favore”, il fatto che trovi la sua ragion d’essere “in una particolare prospettiva extrafiscale”, e che sia calcolata in misura fissa forfetaria, il che determina anche forme di sperequazione tra i soggetti che esercitano l’opzione, ai quali viene imposto il medesimo sacrificio anche in presenza di una diversa situazione reddituale. (141) Cfr. A.M. Gaffuri, La residenza fiscale nel diritto comunitario, in Giur. it., 2009, 2580, e la giurisprudenza della Corte di Giustizia ivi citata. (142) Tecnicamente non si tratta di una flat tax, poiché non viene prevista l’applicazione di una aliquota unica proporzionale all’intera base imponibile, bensì la applicazione di una imposta sostitutiva su una parte del reddito del contribuente, senza alcun intervento sui meccanismi delle deduzioni e delle detrazioni. Gli elementi di maggiore novità sono due. In primo luogo i redditi ai quali si applica la nuova imposta sostitutiva non sono individuati in base alla loro natura, bensì in base al luogo di produzione, quasi configurando una sorta di «discriminazione qualitativa dei redditi su base territoriale», che non ha precedenti nell’ordinamento. In secondo luogo l’imposta sostitutiva, a differenza di quanto avviene nella generalità dei casi di tassazione sostitutiva già previsti, non è determinata applicando una aliquota proporzionale, bensì è determinata in misura fissa a prescindere dalla entità del reddito.


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costituzionale richiamato, occorre tener presente la natura “evanescente” del vincolo della progressività (143), e la “portata programmatica” del principio che è “rivolto ad indicare una linea di costruzione del sistema tributario e non anche a fornire un parametro univoco del sindacato di legittimità costituzionale sulla disciplina dei tributi” (144). Tanto è vero che anche nella disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, che dovrebbe rappresentare il tributo progressivo per eccellenza, si sono moltiplicati, e sono tollerati, regimi di imposizione sostitutiva che ne hanno messo in crisi il carattere di prelievo sul reddito complessivo (145). Quanto detto, però, non sembra sufficiente a controbilanciare le critiche all’ultimo intervento legislativo, che costituisce l’ennesimo scossone alla struttura dell’imposta progressiva sul reddito delle persone, e che avrebbe meritato una maggiore riflessione e l’adozione di criteri di determinazione più coerenti con il sistema. Andrea Buccisano

In generale, sulla possibile introduzione di una flat tax come rimedio alla crisi della tassazione dei redditi delle persone, e sulla sua compatibilità con i principi di uguaglianza tributaria, capacità contributiva, progressività del sistema tributario, ed equità nell’imposizione, vedi, tra gli altri, R. Schiavolin, Flat tax, equa tassazione del reddito e principio di progressività, in Riv. dir. trib., 2006, 291 ss.; D. Stevanato, La giustificazione sociale dell’imposta, cit., 455 ss., 525 ss.; Id., Tassazione progressiva, equità del prelievo e flat tax, in Econ. soc. reg., 2017, 122 ss.; L. Carpentieri, L’illusione della progressività, Roma, 2012, 156 ss., e passim, che effettua una generale analisi sulla introduzione e l’attuazione del principio di progressività nel sistema fiscale italiano. (143) Cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, 2017, 174. (144) Cfr. P. Boria, I principi costituzionali dell’ordinamento fiscale, in Diritto tributario, a cura di Augusto Fantozzi, Torino, 2012, 111 ss. Vedi anche R. Schiavolin, Flat tax, equa tassazione del reddito e principio di progressività, cit., 301 ss., 306, che nel valutare la compatibilità di un tributo sul reddito ad aliquota unica con il principio di progressività, osserva come la violazione di tale principio è “assai difficile da accertare in concreto, perché appare arduo sia valutare la «globale» progressività dell’intero ordinamento tributario”. “sia riconoscere se una determinata disposizione abbia un effetto così significativo da superare i limiti della discrezionalità del legislatore nell’attuazione del principio, fino al punto di eliminare il carattere progressivo del sistema”. (145) Ciò è ben evidenziato da D. Stevanato, Tassazione progressiva, equità del prelievo e flat tax, cit., 123 ss., 142, che nel valutare la possibilità di passare da una imposta (nominalmente) progressiva sul reddito complessivo delle persone fisiche, ad una flat tax, come rimedio alle disuguaglianze ed alle violazioni del principio di “equità orizzontale” causate dalla attuale sottrazione di molti redditi alla progressività, ritiene superabile l’obiezione che la assume non compatibile con il principio di progressività di cui all’art. 53, comma 2, Cost., posto che il significato di tale principio “è di escludere legittimità a un sistema regressivo, ma non di pretendere un tasso minimo di progressività, anche perché non si saprebbe a quel punto come individuare questo «minimo»”.


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