Vol. XXIX - Ottobre
Rivista di
Diritto Tributario
Fondatori: Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi
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Rivista bimestrale
www.rivistadirittotributario.it
Vol. XXIX - Ottobre 2019
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Direzione scientifica Loredana Carpentieri - Angelo Contrino - Guglielmo Maisto - Franco Paparella Gaetano Ragucci - Roberto Schiavolin
2019
In evidenza: • Abuso del diritto e interpretazione giuridica. Alcune questioni e una proposta
Vito Velluzzi • La prevalenza della sostanza sulla forma come criterio di effettività e di rilevanza nei
rapporti tributari Francesco Montanari • Inerenza nel reddito d’impresa: riflessioni sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità
Alessandro Vicini Ronchetti • Sequestro, confisca e pagamento di tributi
Giovanni Girelli • The EU protection of tax data transferred to third countries
Carlo Garbarino
ISSN 1121-4074
Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016
Rivista di Diritto Tributario
Componenti onorari: Francesco D’Ayala Valva - Andrea Fedele - Piera Filippi Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo
Pacini
Indici DOTTRINA
Giovanni Consolo
Riflessioni in tema di impugnabilità degli atti di diniego espresso di rimborso sopravvenuti al silenzio-rifiuto (nota a Comm. trib. reg. Milano, 18 settembre 2018, n. 3846)........................................................................................................................ II, 174 Adriano Fazio
L’obbligo di consegna del processo verbale di constatazione e il diritto al contraddittorio endoprocedimentale: note critiche ad un recente orientamento giurisprudenziale di legittimità (nota a Cass., 8 maggio 2019, n. 12094)................. II, 199 Carlo Garbarino
The EU protection of tax data transferred to third countries.................................... V, 93 Giovanni Girelli
Sequestro, confisca e pagamento di tributi................................................................ III, 47 Francesco Montanari
La prevalenza della sostanza sulla forma come criterio di effettività e di rilevanza nei rapporti tributari.................................................................................................... I, 517 Piera Santin
La risoluzione per inadempimento di un contratto di leasing finanziario: tra imponibilità degli indennizzi e interpretazione estensiva del mancato pagamento (nota a Corte Giustizia, 3 luglio 2019, causa C-242/18).................................................... IV, 118 Vito Velluzzi
Abuso del diritto e interpretazione giuridica. Alcune questioni e una proposta...... I, 497 Alessandro Vicini Ronchetti
Inerenza nel reddito d’impresa: riflessioni sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità..................................................................................................................... I, 551 Rubrica di diritto penale tributario
a cura di Ivo Caraccioli............................................................................................... III, 47 Rubrica di diritto penale europeo
a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 107 Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato
a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................ V, 93
II
indici
Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna nel rispetto dei criteri stabiliti dall’ANVUR.
INDICE ANALITICO
ACCERTAMENTO Contraddittorio endoprocedimentale - Verbale di operazioni compiute redatto ex art. 24 della l. n. 4 del 1929 – Contenuto – Accesso mirato all’acquisizione di documentazione fiscale del contribuente – Indicazione dei documenti prelevati – Sufficienza – Rilascio di copia – Decorrenza del termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, l. n. 212 del 2000 – Idoneità – Necessità dell’adozione di un successivo verbale di contestazione – Esclusione (Cass. Civ., Sez. V, Ord., 3 ottobre 2018 - 8 maggio 2019, n. 12094, con nota di Adriano Fazio).................................. II, 193
PROCESSO TRIBUTARIO Atti impugnabili - Azioni di rimborso – Silenzio – Provvedimento confermativo inoppugnabile – Ricorso avverso il silenzio – Inammissibilità (Comm. trib. reg. Milano, sez. XIII, 11 luglio 2018 - 18 settembre 2018, n. 3846, con nota di Giovanni Consolo)...................................................................................................... II, 169
IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO Rinvio pregiudiziale - Base imponibile – Riduzione – Principio di neutralità fiscale – Contratto di leasing finanziario risolto per mancato pagamento dei canoni – Avviso di rettifica – Ambito di applicazione – Operazioni imponibili – Cessazione di beni effettuata a titolo oneroso – Pagamento di un “indennizzo” per risoluzione fino al termine del contratto – Competenza della Corte (Corte di Giustizia UE, sentenza 3 luglio 2019, causa C-242/18, con nota di Piera Santin).................................................................................................................... IV, 107
INDICE CRONOLOGICO Corte Giustizia, 3 luglio 2019, C-242/18.............................................................................................. IV, 107 ***
indici
III
Cass. Civ., Sez. V, 3 ottobre 2018 - 8 maggio 2019, n. 12094................................................................. II, 193 *** Comm. trib. reg. Milano, 11 luglio 2018 - 18 settembre 2018, n. 3846............................................................. II, 169
Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Roberto Cordeiro Guerra - Adriano Di Pietro - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Franco Gallo - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Giuseppe Tinelli - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio
Dottrina
Abuso del diritto e interpretazione giuridica. Alcune questioni e una proposta Sommario: 1. L’oggetto e il metodo. – 2. L’abuso del diritto: alcune questioni. – 3. Interpretazione giuridica e abuso del diritto: una proposta. Il concetto di abuso del diritto è particolarmente controverso. Questo scritto discute alcune questioni riguardanti l’interpretazione giuridica sollevate sia dal modo in cui la giurisprudenza di vari settori disciplinari ha costruito (e usato) l’abuso del diritto, sia dal modo in cui il legislatore ha regolato l’abuso del diritto in ambito tributario. Alla fine del saggio si propone un percorso argomentativo per controllare e limitare la discrezionalità interpretativa connessa all’abuso del diritto. The concept of abuse of right is particularly disputed. This paper discusses some issues concerning legal interpretation and abuse of right. These issues deal with the way by which judicial decisions of various areas have built (and used) abuse of right, and deal with the way by which the legislature has regulated abuse of right in tax law. At the end of the essay, an argumentative path is suggested to check and limit the interpretative discretion related to abuse of right.
1. L’oggetto e il metodo. – Per delineare compiutamente l’oggetto e il metodo di questo scritto, è opportuno muovere dalle parole di Riccardo Orestano: “La perfettibilità di ciascuna costruzione consiste appunto nel rendere esplicito, con rigore di svolgimenti, quanto in essa è già compreso e nell’ordinare nelle linee deduttive che ne risultano quanto è compatibile con le premesse” (1). Dell’abuso del diritto si discute da lungo tempo e da molteplici prospettive (2).
(1) R. Orestano, Azione, diritti soggettivi, persone giuridiche, Bologna, 1978, 131. (2) Scrive G. Pino, L’abuso del diritto tra teoria e dogmatica (precauzioni per l’uso), in G. Maniaci (a cura di), Eguaglianza, ragionevolezza e logica giuridica, Milano,
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Parte prima
Dai primi anni del nuovo millennio si è imposto con vigore all’attenzione della filosofia del diritto, della dottrina di molti settori giuridici, del legislatore e ha ricevuto impulso dalla giurisprudenza nazionale ed europea (3). L’abuso del
2006, 115-175: “La formula ‘abuso del diritto’ figura da molto tempo nell’armamentario e nell’immaginario dei giuristi, tanto che si è parlato a questo proposito di uno dei ‘correttivi più noti’ presente negli ordinamenti giuridici contemporanei. In alcuni ordinamenti (Svizzera, Germania, Spagna) esso è stato espressamente codificato o addirittura costituzionalizzato, in altri invece (Italia, Francia) ha conservato lo status di (controversa) creazione dottrinale. In ogni caso, la funzione della figura è di riporre un duttile strumento nelle mani dei giuristi (dei giudici e, con modalità diverse, dei dogmatici) al fine di introdurre un correttivo ‘extra ordinem’ nella trama del diritto puramente legale, e ciò in forza di una delega che viene attribuita all’interprete dal legislatore oppure, a seconda dei casi, che l’interprete si auto-attribuisce. Nella cultura giuridica italiana, l’interesse per la figura dell’abuso del diritto ha seguito l’incerto andamento di un fiume carsico ovvero, se si vuole usare un’immagine ancora più suggestiva, ha assunto le sembianze dell’araba fenice: l’interesse è emerso sporadicamente – probabilmente in maniera non casuale – in alcuni momenti della storia della nostra cultura giuridica, destando adesioni entusiaste e critiche anche aspre, per poi attraversare lunghi periodi di malinconico confino nel ripostiglio in cui il giurista ripone gli attrezzi che non gli servono più” (la citazione è tratta dalle 116-117). Queste vicende dell’abuso del diritto non sorprendono se si considera che “il diritto dei moderni è il diritto dei diritti” (così M. La Torre, Disavventure del diritto soggettivo. Una vicenda teorica, Milano, 1996, 410, corsivi dell’autore); e un “diritto dei diritti” deve pure tener conto del suo possibile rovescio, per dirla di nuovo con le parole di G. Pino, Il diritto e il suo rovescio. Appunti sulla dottrina dell’abuso del diritto, in Riv. crit. dir. priv., 1, 2004, 25-59. (3) Nella (ormai quasi ingestibile) letteratura è indispensabile lo studio di P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1, 1965, 205 ss.; un quadro aggiornato dei contributi civilistici si trova in F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, Torino, 2015, 343-457, e ancor più di recente in C. Amato, Considerazioni a margine della dottrina dell’abuso del diritto, in Europa e dir. priv., 1, 2017, 209 ss.; riflessioni che intersecano teoria del diritto e aspetti più strettamente giusprivatistici si trovano in M. Grondona, Il problema dell’abuso tra tecnica e politica del diritto, in G. Visintini (a cura di), L’abuso del diritto, Esi, Napoli, 2016, 177-200. Per la filosofia del diritto v. il noto volumetto di M. Atienza e J. Ruiz Manero, Illeciti atipici. L’abuso del diritto, la frode alla legge, lo sviamento di potere, trad. it., Bologna, 2004, cap. II, intorno al quale è fiorita una approfondita discussione, l’esito è reperibile su Europa e diritto privato, 3, 2006; si aggiungano gli scritti di G. Zaccaria, L’abuso del diritto nella prospettiva della filosofia del diritto, in Riv. dir. civ., 3, 2016, 744-758; P. Comanducci, Abuso del diritto e interpretazione giuridica, in V. Velluzzi (a cura di), L’abuso del diritto. Teoria, storia e ambiti disciplinari, Pisa, 2012, 19-30; G. Pino, L’esercizio del diritto soggettivo e i suoi limiti. Note a margine della dottrina dell’abuso del diritto, in Ragion pratica, 24, 2005, 169 ss. (dello stesso autore si vedano anche i saggi già citati alla nota precedente); da ultimo M. Pompei, Abuso del diritto. Un approccio tra filosofia e teoria, Torino, 2019. Per la ricostruzione dell’itinerario giurisprudenziale, dogmatico e teorico del divieto di abuso del diritto si raccomanda la lettura di Comm. Trib. Prov. di Trento, n. 8 del 2.2.2009. Davvero numerose sono le riflessioni in campo tributario, v. almeno M. Beghin, La clausola generale antiabuso tra certezza e profili sanzionatori, in Fisco, 2015, 2207 ss.; A. Carinci e D. Deotto, Abuso del diritto ed effettiva utilità della novella: Much A do about nothing?, in Fisco 2015, 3107 ss.; F. Gallo, La nuova
Dottrina
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diritto soggettivo suscita notoriamente appassionate adesioni e profonda avversione (4). Sull’abuso del diritto soggettivo è stato versato davvero molto inchiostro, tuttavia può tornare utile proseguire la riflessione. In particolare, vale la pena soffermarsi sul modo in cui l’abuso è normalmente inteso e impiegato, specialmente nel ragionamento giudiziale. Si tratta, cioè, di evidenziare alcune “criticità” legate ai modi in cui l’abuso del diritto è delineato e utilizzato nei ragionamenti compiuti dai giudici (5).
frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, 1315 ss.; A. Contrino, La trama dei rapporti tra abuso del diritto, evasione fiscale e lecito risparmio d’imposta, in Dir. e pratica trib., 4, 2016, 1407-1432; F. Montanari, Diritto giurisprudenziale, contrasto ai comportamenti abusivi e certezza nei rapporti tributari, in Riv. dir. trib., 2016, I, 211 ss.; G. Falsitta, Unità e pluralità del concetto di abuso del diritto nell’ordinamento interno e nel sistema comunitario, in Riv. dir. trib., 2018, I, 333-350. Per un sintetico raffronto tra l’abuso del diritto nell’ambito del diritto civile e l’abuso del diritto nel settore tributario v. L. Balestra, Rilevanza, utilità (e abuso) dell’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 3, 2017, 541-558. (4) Restare indifferenti innanzi a ciò che viene presentato come un (presunto) abuso è, infatti, difficile. Tra coloro che vedono con favore il divieto di abuso del diritto N. Lipari, L’abuso del diritto e la creatività della giurisprudenza, in Id., Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano, 2017, 193: “Nell’ottica dell’abuso si supera la forza privilegiata della teoria della validità e il diritto riscopre la sua ineludibile connessione ad un tessuto di premesse morali e di valori condivisi, senza del quale l’idea stessa di giuridicità sarebbe priva di senso”; tra i critici (o comunque scettici) R. Sacco, Abuso del diritto, in Dig. disc. priv., Torino, 2012, 31, per il quale l’abuso del diritto è “in qualche caso un medio logico inutile, negli altri casi un doppione inutile. L’inclusione di una categoria parassitaria non vale ad arricchire il sistema del giurista; lo rende più confuso”. (5) Per quanto possa apparire superfluo ribadirlo, va rammentato che l’abuso del diritto ha ricevuto nuova linfa da alcune decisioni giurisprudenziali, in particolare da Cass. civ., n. 20106 del 18.09.2009 (la cosiddetta sentenza Renault); e per il diritto tributario da Cass. civ., Sez. Un., n. 30055, 30056, 30057 del 23.12.2008. Sull’abuso del diritto in campo tributario mi permetto di rinviare, oltre ai contributi già citati, al mio L’abuso del diritto dalla prospettiva della filosofia giuridica, in G. Visintini (a cura di), L’abuso del diritto, cit., 173-176, soprattutto per una prima lettura del Decreto legislativo n. 128 del 2015 e della sua capacità di essere risolutivo rispetto ai problemi sollevati dalla giurisprudenza anteriore; e per un’analisi che mescola opportunamente gli aspetti di diritto positivo con la teoria del ragionamento giuridico v. M. Versiglioni, Abuso del diritto. Logica e Costituzione, Pisa, 2016. La previsione espressa del divieto di abuso del diritto per il settore tributario ha costituito un esempio paradigmatico del “netto mutamento di rapporti tra il diritto vigente, prodotto dal legislatore e il diritto vivente, espresso dalla giurisprudenza. Il diritto vivente, che dovrebbe essere il prodotto, la derivazione, razionalmente argomentata, del diritto vigente, si sta progressivamente emancipando dalla sua matrice. Anzi, quasi si assiste a un’inversione del fisiologico rapporto tra le due sfere, nel senso che è il diritto vigente ad inseguire quello vivente, assumendo a modello e traducendo in legge indirizzi giurisprudenziali di natura più o meno creativa”, sono le efficaci parole espresse da Paolo Ferrua in tutt’altro contesto rispetto a quello qui esaminato, v. P. Ferrua,
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Parte prima
Da qui l’importanza dell’affermazione di Riccardo Orestano: le vicende giurisprudenziali dell’abuso del diritto paiono, sovente, porsi su una linea di sviluppo distante da quella auspicata dall’illustre giurista. Infatti, scorrendo le decisioni giudiziali si trae la sensazione dell’uso carente sul piano argomentativo del divieto di abuso del diritto: una nozione, quella di abuso del diritto, spesso costruita e impiegata per accreditare la conclusione di un ragionamento la cui giustificazione avrebbe richiesto, altrimenti, percorsi argomentativi più articolati e impegnativi. Si tratta, per così dire, dell’uso a mo’ di “maschera” dell’abuso del diritto: una maschera rivolta a coprire il volto delle operazioni discrezionali e poco argomentate compiute dagli interpreti (6). Questo scritto ha obiettivi mirati e limitati rispetto alle molte questioni che l’abuso del diritto porta con sé, si tratta, in particolare, di: a) riassumere i principali impieghi giurisprudenziali dell’abuso del diritto, guardando soprattutto alle tecniche interpretative che caratterizzano l’abuso del diritto e agli scopi perseguiti invocando l’abuso del diritto; b) guardare dietro la maschera dell’abuso del diritto così come utilizzato; c) cercare di comprendere se, e in quale misura, ciò che sta dietro la maschera dell’abuso del diritto soggettivo avrebbe richiesto all’interprete maggiori sforzi argomentativi rispetto a quelli usualmente compiuti (7). Il lavoro non verte, dunque, in via specifica sull’ambito tributario, ma guarda all’abuso del diritto da un’ottica di teoria generale, nella speranza, però, che quanto si dirà e si proporrà possa risultare (almeno parzialmente) interessante e utile per i cultori del diritto tributario (8).
L’inammissibilità del ricorso: a proposito dei rapporti tra diritto vigente e diritto vivente, in F. Alonzi (a cura di), Inammisibilità: sanzione o deflazione?, Milano, 2018, 23, corsivi dell’autore. (6) Si tratta delle riflessioni da me compiute nel saggio Dietro la maschera. Abuso del diritto soggettivo e interpretazione, in A. Ballarini (a cura di), Novecento del diritto, Torino, 2019, 315-340, riflessioni qui in parte riprese e modificate. (7) Bisogna stabilire, cioè, se impiegando l’abuso del diritto si ragiona dando per pacifiche premesse che pacifiche non sono, si omettono passaggi argomentativi importanti considerandoli, invece, superflui, si dà per scontato ciò che va giustificato. Non va dimenticato, infatti, che “Some arguments, however, are good arguments, and some are bad arguments; and one ought to be persuaded only by the good ones” (così M. P. Golding, Legal Reasoning, Peterborough, 2001, V). (8) Nella speranza di assolvere il compito assegnato da Lon Fuller al filosofo del diritto: “Sebbene esistano indubbiamente molti modi legittimi di definire la filosofia del diritto, crediamo che quello più utile consista nel concepirla come quel tentativo d’indirizzare in modo proficuo e soddisfacente l’impiego delle energie umane nel diritto. Visto in quest’ottica, il
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2. L’abuso del diritto: alcune questioni. – Gli ambiti di rilevanza dell’abuso del diritto sono fortemente cresciuti negli ultimi anni. Si è passati dagli atti emulativi e dai contratti, terreni tradizionalmente percorsi dal divieto di abuso del diritto soggettivo, a molti settori, per esempio dei tributi, del diritto dell’energia, della concorrenza, del processo civile, amministrativo e penale (9). La prassi giurisprudenziale degli ultimi dieci, quindici anni, e l’attività normativa recente, paiono aver trasformato l’abuso del diritto da fenomeno carsico a fenomeno stabilmente di superficie, destinato a non inabissarsi più, in costante e inarrestabile diffusione. Se ciò è verosimile, conviene, ad onta dell’affollata (e spesso qualitativamente elevata) letteratura sul tema, guardare ancora all’abuso del diritto. Bisogna farlo prendendo le mosse dagli interrogativi basilari riguardanti l’abuso del diritto e, attraverso le risposte, bisogna
compito del filosofo del diritto è allora quello di decidere quale sia il miglior modo di impiegare la vita professionale, sua e dei suoi colleghi giuristi” (così L. L. Fuller, Il diritto alla ricerca di se stesso, Soveria Mannelli, 2015, 48). (9) Per uno sguardo complessivo si veda G. Visintini (a cura di), L’abuso del diritto, cit. Sull’abuso del processo in particolare v. G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, Napoli, 2015; in giurisprudenza è diffusa la tesi che l’abuso del processo sia una specie del genere abuso del diritto, v. Cass. Civ., n. 5677 del 7.3.2017: “La domanda di concordato preventivo presentata dal debitore non per regolare la crisi d’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento integra gli estremi di abuso del processo. Tale richiesta, specie se reiterata, è meramente dilatoria e costituisce una fattispecie di abuso del diritto del debitore, essendo funzionale ad allungare i tempi tesi a pervenire alla regolazione dello stato di dissesto”; Cons. Stato, n. 5403 del 21.12.2016: “Nel processo amministrativo è inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata in appello dalla stessa parte che aveva adito la medesima giurisdizione con l’atto introduttivo di primo grado, poiché tale regola processuale si basa sul divieto di abuso del diritto”; Cass. pen., Sez. Un., n. 155 del 10.1.2012: “è oramai acquisita una nozione minima comune dell’abuso del processo che riposa sull’altrettanto consolidata e risalente nozione generale dell’abuso del diritto, riconducibile al paradigma dell’utilizzazione per finalità oggettivamente non già solo diverse ma collidenti (‘pregiudizievoli’) rispetto all’interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto. Il carattere generale del principio dipende dal fatto che, come osserva autorevole Dottrina, ogni ordinamento che aspiri a un minimo di ordine e completezza tende a darsi misure, per così dire di autotutela, al fine di evitare che i diritti da esso garantiti siano esercitati o realizzati, pure a mezzo di un intervento giurisdizionale, in maniera abusiva, ovvero eccessiva e distorta”.
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individuare il nucleo concettuale e indagare gli abituali impieghi argomentativi del divieto di abuso del diritto soggettivo. Si può abusare di un diritto soggettivo? Qualora si ritenga di sì, a quali condizioni? Le condizioni variano a seconda dell’ambito disciplinare? Qual è il rapporto tra interpretazione giuridica e abuso del diritto? Nel prosieguo mi propongo di fornire in termini sintetici, ma spero attendibili, percorsi di risposta agli interrogativi, segnalando la provenienza, la base filosofico giuridica a cui si legano le risposte ed evidenziando, principalmente, le implicazioni riguardanti il nesso tra l’esercizio delle situazioni giuridiche soggettive di vantaggio e l’argomentazione interpretativa. Ripetiamo il primo interrogativo: si può abusare di una situazione giuridica soggettiva di vantaggio, di un diritto soggettivo? I critici dell’abuso del diritto reputano l’interrogativo privo di sostanza e, quindi, l’abuso del diritto non configurabile sul piano concettuale: o il comportamento tenuto ricade nel campo dell’esercizio di un diritto soggettivo ed è lecito, oppure il comportamento ricade nella sfera dell’illecito (10). La rilevanza giuridica del comportamento si esaurisce nella coppia liceità/illiceità, non v’è spazio per una nozione rivolta a censurare comportamenti “formalmente leciti” per un verso, ma “sostanzialmente non consentiti” per l’altro verso, o, per dirla con alte parole, a valutare un comportamento “corretto prima facie ma scorretto, abusivo appunto, a un più attento esame” (11). Così ragionando, quella di abuso del diritto soggettivo sarebbe una nozione inopportuna. L’abuso del diritto sarebbe uno strumento costruito ad hoc per rendere “non consentito” ciò che è lecito per il diritto (oggettivo) (12). Ciò varrebbe anche per le disposizioni
(10) Scrive U. Gualazzini, Abuso del diritto (diritto intermedio), in Enc. dir., I, Milano, 1958, 163, che l’abuso del diritto è, in astratto, un assurdo “in quanto se esiste un diritto, il suo uso è sempre lecito, e se il diritto non esiste si ha un comportamento antigiuridico”. Si veda pure G. Zaccaria, L’abuso del diritto nella prospettiva della filosofia del diritto, cit., 744 che rileva “l’intima contraddittorietà e quasi il carattere di ossimoro di una formulazione, peraltro ormai stabilmente acquisita dalla dottrina, che contrappone il diritto, inteso come esercizio di libertà e volontà, al superamento di limiti del diritto, ai quali si allude peraltro in modo vago e sfuggente, dal momento che non è affatto semplice situare sbrigativamente l’abuso nell’area dell’illecito”. (11) Le citazioni sono tratte dal mio L’abuso del diritto in poche parole, in V. Velluzzi, Tra teoria e dogmatica. Sei studi intorno all’interpretazione, Pisa, 2012, 98. (12) Le formule in questione spiegano pure perché altri trattino l’abuso del diritto come il mezzo adatto a individuare comportamenti non solo leciti, bensì anche legittimi, rendendo così non biasimevole “secondo diritto” quel che è legittimo, non tutto ciò che è lecito (in proposito rinvio al volume e alle tesi di Fabrizio Piraino). M. Versiglioni, L’abuso del diritto, cit., 13, scrive, opportunamente, che: “In effetti, molti si chiedono ancora cosa sia in positivo l’abuso
Dottrina
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normative che fanno espresso divieto di abusare del diritto soggettivo. Queste disposizioni sarebbero inutili o, peggio ancora, dannose, in quanto tese ad accreditare un’alternativa alla coppia liceità/illiceità non percorribile, così da conferire agli interpreti elevata discrezionalità, se non addirittura arbitrio, nel modellare (e limitare) le situazioni giuridiche soggettive di vantaggio. Coloro che sostengono le ragioni dell’abuso del diritto soggettivo, ovvero della possibilità di configurarlo sul piano concettuale, al fine, ovviamente, di censurarlo, muovono da un presupposto comune: una ricognizione di tale presupposto coinvolge gli altri interrogativi sollevati concernenti le condizioni dell’abuso del diritto, dell’incidenza dell’ambito disciplinare e del rapporto tra abuso del diritto e interpretazione giuridica. L’ultima questione (il rapporto tra abuso del diritto soggettivo e interpretazione giuridica) è la più rilevante per questo scritto, ma per affrontarla è indispensabile trattare rapidamente anche le altre.
del diritto e, in particolare, dove si trovi l’effettiva, chiara e precisa linea di demarcazione tra il lecito, l’abuso e l’illecito”. Si veda pure il tentativo di “concettualizzazione” dell’abuso del diritto compiuto da V. Giorgianni, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963, 128: “Che un comportamento sia giuridicamente valutato al tempo stesso come permesso e come difforme da uno specifico obbligo normativo è contraddittorio. Tuttavia, se v’è incompatibilità logica a pensare che si abbia diritto a comportarsi in un dato modo, e che si sia, al tempo stesso, normativamente obbligati a non comportarsi in quel modo, non v’è certo incompatibilità logica a pensare che un comportamento sia qualificato come ‘possibile’ o ‘autorizzato’ e che abbia al tempo stesso un limite inerente alla qualificazione normativa in termini di possibilità o autorizzazione”; il tentativo di Giorgianni non è, però, felice. L’autore conduce, infatti, a considerare l’abuso ancorato all’alternativa tra comportamento qualificato come permesso entro certi limiti e comportamento che permesso non è, ossia all’alternativa tra comportamento lecito e illecito. Così ragionando la categoria dell’abuso del diritto risulta superflua. Sulla prassi tributaria anteriore alla novella legislativa è stata evidenziata, da più parti, la confusa (ed eccessiva) applicazione del divieto di abuso del diritto, v. per esempio A. Contrino, La trama dei rapporti tra abuso del diritto, evasione fiscale e lecito risparmio d’imposta, cit., 1409-1410: “vi sono stati molteplici casi di scorretta applicazione dell’abuso del diritto a fattispecie concrete che costituivano chiare ipotesi di lecito risparmio d’imposta; e parimenti, pur non essendo confondibili le condotte in violazione di obblighi o divieti e quelle di mero aggiramento dei medesimi obblighi o divieti, non sono mancati casi di applicazione errata dell’abuso del diritto non scritto ai fenomeni estranei della simulazione, dell’interposizione e dell’evasione perpetrata mediante l’impiego di altri ‘mezzi finzionistici’, finendosi col modellare una nozione di abuso del diritto ‘spuria’, etichettabile come ‘abuso/simulazione’, in contrapposizione ‘all’abuso/elusione’ nella sua forma ‘pura’”; in tema v. anche G. Fransoni, Abuso del diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni, in Corr. trib., 2011, 678 ss.
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Parte prima
Il presupposto per ammettere l’abuso del diritto soggettivo è una caratteristica degli stessi diritti, riguardante, cioè, la giustificazione del conferimento della situazione soggettiva di vantaggio. Si afferma che il diritto soggettivo è attribuito da disposizioni normative per uno o più scopi determinati, più precisamente per soddisfare uno o più interessi (13). Ne segue che se il diritto soggettivo non è esercitato per conseguire lo scopo o gli scopi dell’attribuzione, il comportamento tenuto si tramuta da esercizio del diritto soggettivo consentito a esercizio del diritto non consentito (14). Questo accostamento rivela una concezione “strumentale del diritto soggettivo per la quale le ragioni dell’attribuzione del diritto costituiscono sempre il metro di valutazione dell’esercizio del diritto medesimo. Ciò stabilito non v’è alcuna difficoltà nel ritenere che una modalità di esecuzione del diritto soggettivo conforme a quanto disposto dalla norma intesa in conformità alla sua formulazione linguistica, possa essere considerata difforme dal diritto oggettivo in quanto non riconducibile alle ragioni dell’attribuzione del diritto soggettivo” (15).
(13) Sul diritto soggettivo, in prospettiva filosofico giuridica, v. G. Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Bologna, 2010, 77-96; F. Ferraro, Diritti, in M. Ricciardi, A. Rossetti, V. Velluzzi (a cura di), Filosofia del diritto. Norme, concetti, argomenti, Roma, 2015, 131-144; R. Guastini, Filosofia del diritto positivo. Lezioni, a cura di V. Velluzzi, Torino, 2017, 67-91. Il modo in cui i fautori del divieto dell’abuso del diritto abitualmente argomentano sembra presupporre la teoria dell’interesse quale giustificazione dell’attribuzione dei diritti soggettivi; è noto che per questa teoria “l’attribuzione di un diritto è il riconoscimento dell’importanza di alcuni interessi” (così F. Poggi, Concetti teorici fondamentali. Lezioni di teoria generale del diritto, Pisa, 2013, 79). (14) Afferma M. Orlandi, Abuso e teoria della fonte, in V. Velluzzi (a cura di), L’abuso del diritto, cit., 106: “Questa logica appare prima facie semplice e chiara, e suscita una spontanea adesione nello spirito equitativo e di buon senso che essa suggerisce. Il giurista non tarderà tuttavia ad avvertirne l’insufficienza”. Come ha rilevato A. Gentili, L’abuso del diritto come argomento, in V. Velluzzi (a cura di), L’abuso del diritto, cit., 147-186, l’abuso del diritto altro non è che un uso del diritto soggettivo, ma un uso reputato cattivo. Tutto considerato, una chiave di lettura in linea con quelle che si stanno trattando è quella dell’abuso del diritto come uso eccessivo del diritto: o almeno di quell’eccesso che non conduce fuori dal lecito, ma che non è, comunque, permesso. (15) Citazione tratta dalla mia Introduzione a L’abuso del diritto, cit., 14. Il lettore avrà notato che in questo saggio si accoglie la distinzione tra disposizione e norma: la disposizione è l’enunciato delle fonti oggetto di interpretazione, la norma è l’esito dell’interpretazione; quando si parla di argomentazione interpretativa, carenza argomentativa, uso dell’argomento dell’abuso e via dicendo, ci si riferisce a quell’attività rivolta a giustificare un certo esito interpretativo; quanto si è appena detto nel testo richiama la tradizionale contrapposizione tra significato letterale, inteso qui come insieme dei significati attribuibili alla disposizione normativa sulla base delle regole semantiche e sintattiche della lingua, e interpretazione teleologica, intesa in vario modo (in proposito si rinvia, tra le molte opere disponibili, a V. Velluzzi, Le Preleggi
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La concezione del diritto soggettivo segnalata influisce sull’interpretazione delle disposizioni normative e impone all’interprete di orientarsi, tra i significati ascrivibili alla disposizione attributiva del diritto soggettivo, guardando con favore al significato o ai significati coerenti col fine perseguito. L’abuso del diritto, quindi, entra in gioco ogni volta che la formulazione linguistica della disposizione è considerata sovrainclusiva rispetto allo scopo: alla formulazione linguistica della disposizione sono riconducibili modalità di esercizio del diritto soggettivo “non allineate” con la o con le finalità dell’attribuzione del diritto soggettivo (16). In fin dei conti, si potrebbe dire che questo modo di concepire l’abuso del diritto soggettivo (e il relativo divieto) ha dalla sua parte delle buone ragioni: riconduce l’esercizio dei diritti nell’alveo degli scopi per cui essi sono stati attribuiti; evita che comportamenti abnormi, scorretti, maliziosi, moralmente o socialmente biasimevoli, possano avvalersi della protezione accordata ai diritti soggettivi; riporta il diritto oggettivo a una dimensione di normalità, di ragionevolezza, di adattamento alle mutevoli istanze di giustizia, garantendo soltanto i diritti soggettivi esercitati correttamente, legittimamente e non per-
e l’interpretazione. Un’introduzione critica, Pisa, 2013, 30-44; C. Luzzati, Del giurista interprete. Linguaggio, tecniche e dottrina, Milano, 2016, 134-149 e 261-290; ancor più di recente D. Canale e G. Tuzet, La giustificazione della decisione giudiziale, Torino, 2019, 7786 e 107-114; per l’ambito tributario il riferimento è costituito dal corposo studio di G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003). (16) Quello appena usato è il conosciuto lessico di F. Schauer, Le regole del gioco, Bologna, 2000; rileva a tal proposito A. Sardo, Defettibilità, ideologia e contesto, introduzione a J. L. Rodriguez, Teoria del diritto e analisi logica, Barcellona, 2014, 56: “Nella teoria di Schauer (…) ogni regola (…) comprende due elementi: i) un predicato fattuale che ne specifica la portata (…) ii) un conseguente che prescrive ciò che dovrebbe accadere al verificarsi delle condizioni specificate nel predicato fattuale. Quest’ultimo è: sotto il profilo strutturale, una generalizzazione che intrattiene un rapporto di rilevanza causale con un certo scopo o giustificazione; sotto il profilo funzionale, uno strumento atto a limitare il numero di proprietà rilevanti. Dato che le regole sono caratterizzate da questa funzione di specificare le loro condizioni di applicazione, i predicati fattuali potranno rilevarsi contingentemente sovra- o sotto- inclusivi rispetto a una delle loro giustificazioni soggiacenti a seconda che, rispettivamente, vi siano casi compresi in una regola ma non in una delle sue giustificazioni, o viceversa. Secondo Schauer, in tutti i casi di forte sovra- e sotto- inclusione, il predicato fattuale non potrà essere una condizione sufficiente per l’applicazione del conseguente” (i corsivi sono dell’autore). Il lessico e l’apparato concettuale elaborato da Schauer appaiono particolarmente adatti a catturare i profili principali dell’impiego argomentativo del divieto dell’abuso del diritto.
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mettendo lo sfruttamento dell’ambiguità delle disposizioni e della vaghezza delle norme a scapito di alcuni consociati o della collettività intera (17). Tuttavia, la realizzazione di queste ragioni è lastricata di insidie. Si tratta di insidie legate in gran parte al modo in cui il divieto di abuso del diritto soggettivo viene ricostruito e impiegato dai giudici. Procediamo con ordine. Per ciò che concerne il rapporto tra abuso del diritto soggettivo e interpretazione, va sottolineato che l’abuso mette in campo la riduzione teleologica: classi di casi regolate sulla base dei significati ascrivibili alla disposizione normativa attributiva del diritto vengono ad essa sottratte in ragione della presenza o dell’assenza di uno o più condizioni. Proprio la presenza o l’assenza di queste condizioni determina uno scostamento (giuridicamente intollerabile) tra ragioni dell’attribuzione del diritto e risultato ottenuto con il suo esercizio (18). È necessaria una prima notazione a margine già effettuata in altra sede: il binomio abuso del diritto/riduzione teleologica ci pone innanzi a un (serio) pericolo, vale a dire “che la dilatazione dell’abuso possa portare a riduzioni teleologiche talmente ampie da svuotare del tutto o in gran parte i poteri, le facoltà costitutivi di un particolare diritto soggettivo” (19).
(17) Scrive F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, cit., 363: “il concetto di abuso del diritto, sin dal suo primo apparire, ha tratto alimento da un’aspirazione al contenimento dell’arbitrio dei singoli in vista di un più alto livello di socialità. In seguito è maturata una più spiccata esigenza di giustizia, infine si è posta come una questione di diritto positivo”. (18) La riduzione teleologica “si articola in questo modo: all’interno della classe di casi regolata da una disposizione normativa si distinguono due o più sottoclassi, associando soltanto a una o ad alcune la conseguenza giuridica prevista (…) e tale riduzione avviene sulla base della ratio” (il brano è ripreso dal mio Le Preleggi e l’interpretazione. Un’introduzione critica, cit., 45); è stato ben detto da Enrico Diciotti che la riduzione teleologica crea lacune “effimere”, ossia lacune destinate a essere subito colmate, v. E. Diciotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, Torino, 1999, 454; osserva opportunamente A. Gentili, L’abuso del diritto come argomento, cit., 177: “Quando afferma l’abuso (…) l’interprete (…) Non solo sottrae il caso alla lettera della disposizione permissiva che lo prevede (…) ma lo fa rientrare sotto la ratio di un’altra norma, repressiva (…) scelta da lui”; sul fatto che l’abuso del diritto sia o possa essere uno o il principale dei passaggi del ragionamento e non sia necessariamente e soltanto la conclusione del ragionamento, v. C. Amato, Considerazioni sulla dottrina dell’abuso del diritto, cit., nota 87: “Nella tesi di Gentili, infatti, l’abuso del diritto, lungi dall’essere conclusione dell’itinerario argomentativo dell’interprete, ne è uno dei passaggi (sebbene quello maggiormente rilevante). Conclusione è la disapplicazione della disposizione permissiva e la sua sostituzione con quella repressiva”. (19) Citazione tratta dal mio L’abuso del diritto dalla prospettiva della filosofia giuridica, cit., 173.
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Insomma, ciò che bisogna evitare è che il richiamo alla normalità, alla ragionevolezza, all’uso corretto e non malizioso dei diritti soggettivi che il divieto di abuso del diritto porta con sé, conduca gli interpreti a ritagliare le situazioni giuridiche soggettive con discrezionalità parecchio elevata e con scarso impegno argomentativo, utilizzando una formula istintivamente efficace: è un abuso, non può essere permesso! I pericoli da evitare non sono finiti: usando così l’abuso del diritto si potrebbe giungere, infatti, sino allo svuotamento significativo (se non addirittura completo) delle situazioni giuridiche soggettive di vantaggio (20). Riassumendo: l’esercizio del diritto è abusivo se non rispetta le condizioni che soddisfano le ragioni dell’attribuzione del diritto soggettivo stesso. Un aspetto importante da rammentare è che si può discutere su quali siano le condizioni che soddisfano le ragioni dell’attribuzione. In ragione di ciò va sottolineato che: a) talvolta l’abuso del diritto è regolato da disposizioni espresse dell’ordinamento; che cosa sia biasimevole in termini di abuso del diritto e con quali conseguenze dipende dall’interpretazione della disposizione normativa; b) l’interpretazione della disposizione che espressamente contempla l’abuso del diritto condiziona l’interpretazione della disposizione attributiva del diritto soggettivo, orientandola al soddisfacimento delle ragioni dell’attribuzione del diritto soggettivo; c) sia la disposizione che regola l’abuso, sia le disposizioni che conferiscono diritti soggettivi, si collegano ad altre disposizioni di uno o più ambiti disciplinari, nonché ad eventuali norme di chiusura degli ambiti disciplinari stessi: ciò può variare le “condizioni operative” del divieto di abuso del diritto; d) in assenza di una disposizione o di più disposizioni regolanti espressamente l’abuso del diritto, si pone la questione di trovare al divieto di abuso del diritto soggettivo un ancoraggio normativo
(20) Laddove non sia espressamente previsto, ma ricavato da uno o più indici normativi, il divieto di abuso del diritto opera come uno strumento di defettibilità delle norme attributive delle situazioni giuridiche di vantaggio, ovvero istituisce eccezioni implicite a quelle norme. Infatti, “anche quando il caso individuale considerato è un’occorrenza chiara del caso generico contemplato dalla norma, si dubita che la soluzione da assegnarli sia quella prevista”; l’abuso finisce, cioè, per essere un caso di “anormalità normativa” (le citazioni sono tratte da J. L. Rodriguez, Teoria del diritto e analisi logica, cit., 199). Sul tema importante e multiforme della defettibilità, qui solo accennato, v. J. Ferrer, G. B. Ratti (eds.), The Logic of Legal Requirements. Essays on Defeasibility, Oxford, 2012; e F. Poggi, Defettibilità e interpretazione giuridica. Osservazioni a margine di Riccardo Guastini, in P. Chiassoni, P. Comanducci, G. B. Ratti (a cura di), L’arte della distinzione. Scritti per Riccardo Guastini, Vol. I, Barcellona, 2018, 87-102.
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nell’ordinamento: tutto ciò determina argomentazioni connesse con l’elaborazione di norme inespresse qualificate come principi o con la riconduzione, in qualche guisa, del divieto di abuso del diritto a norme espresse (disposizioni interpretate e qualificate anch’esse, sovente, come principi). Le vicende del sistema giuridico italiano confermano la presenza delle tendenze appena menzionate a seconda degli ambiti considerati: nel diritto tributario è presente una disposizione normativa regolante l’abuso del diritto; mentre per svariati settori del diritto (civile, commerciale, amministrativo, processuale) il divieto di abuso del diritto rimane un principio inespresso di cui molteplici disposizioni normative costituiscono la testimonianza (21); talvolta il divieto di abuso del diritto è, a sua volta, inteso come la manifestazione di un principio (generale) del diritto (22). Insomma, il divieto di abuso del diritto è un principio oppure si fonda su un principio, ma che sia un principio o che sia espressione di un principio, il divieto di abuso del diritto svolge, come si è visto, un ruolo decisivo nell’interpretazione delle disposizioni normative attributive delle posizioni giuridiche soggettive di vantaggio, ed è questo aspetto che va ulteriormente approfondito.
(21) Com’è noto, i metodi di individuazione dei principi inespressi sono tanti, in proposito v. almeno G. B. Ratti, Sistema giuridico e sistemazione del diritto, Torino, 2008, 323 ss; G. Tuzet, L’abduzione dei principi, in Ragion pratica, 33, 2009, 517-539; R. Guastini, Filosofia del diritto positivo. Lezioni, cit., 26-30 e 64-66. (22) Non mancano sentenze in cui il divieto di abuso del diritto è, confusamente, tutte queste cose assieme, v. Tar Bari, n. 205 del 8.3.2017: “Il principio generale del divieto di abuso del diritto, inteso come categoria diffusa nella quale rientra ogni ipotesi in cui un diritto cessa di ricevere tutela, poiché esercitato al di fuori dei limiti stabiliti dalla legge, è legato alla tematica della buona fede, intesa come criterio per stabilire un limite alle pretese e ai poteri del titolare di un diritto. Il dovere di buona fede, previsto dall’art. 1175 c.c., alla luce del parametro di solidarietà sancito dall’art. 2 Cost. e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, si pone, dunque, non più solo come criterio per valutare la condotta delle parti nell’ambito dei rapporti obbligatori, ma anche come canone per individuare un limite alle richieste e ai poteri dei titolari dei diritti, anche sul piano della loro tutela processuale”. Sui principi del diritto e sull’ampio dibattito intorno a essi v. per una sintesi apprezzabile, oltre ai testi citati alla nota precedente H. Avìla, Teoria dei principi, Torino, 2014; G. Pino, Teoria analitica del diritto I. La norma giuridica, Pisa, 2016, cap. IV; F. Poggi, Concetti teorici fondamentali, cit., 187-207; G. B. Ratti, Norme, principi e logica, Roma, 2009, 91-121. La questione del fondamento dell’abuso del diritto si è posta (e continua a porsi) pure nel diritto tributario, v. per differenti percorsi e soluzioni riguardo al ruolo svolto in tal senso dall’art. 53 Cost., M. Versiglioni, Abuso del diritto. Logica e Costituzione, cit.; F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, cit.
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3. Interpretazione giuridica e abuso del diritto: una proposta. – All’inizio di questo saggio si è manifestata l’intenzione di riassumere i principali impieghi giurisprudenziali dell’abuso del diritto, rivolgendo l’attenzione soprattutto alle tecniche interpretative che caratterizzano l’abuso del diritto per guardare dietro la maschera dell’abuso del diritto così come utilizzato (23). Per la giurisprudenza l’abuso del diritto soggettivo si realizza laddove c’è un uso distorto di una posizione giuridica di vantaggio, nonostante la “formale” conformità del comportamento tenuto ai significati ascrivibili alla disposizione normativa attributiva del diritto; di conseguenza l’esercizio del diritto (spesso qualificato come esercizio in concreto) non è giustificato. L’uso è distorto e ingiustificato quando realizza un fine diverso, ulteriore o contrario alla ragione per cui il diritto soggettivo è stato conferito; oppure l’esercizio è distorto e ingiustificato se sproporzionato o se persegue in maniera esclusiva, essenziale, prevalente, il fine di ottenere un vantaggio: pure in questo caso, la ragione o le ragioni dell’attribuzione del diritto soggettivo non vengono soddisfatte (24).
(23) Come scrive F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, cit., 372: “Le ricerche meta-teoriche (…) hanno individuato alcune costanti nei discorsi dei giuristi, teorici e pratici, dedicati all’abuso, isolando così alcuni elementi che si reputano sorretti da un sufficiente grado di condivisione”, si veda anche il mio Dietro la maschera. Abuso del diritto soggettivo e interpretazione, cit., 332 ss. (24) Quest’ultimo aspetto è particolarmente presente nelle decisioni in campo tributario, v. tra le tante Corte di Giustizia CE, 21.2.2006, C-255/02; le già segnalate e notissime Cass. civ., Sez. Un., n. 30055, 30056 e 30057 del 23.12.2008; successivamente alla novella legislativa del 2015 v. Cass. civ., sez. trib., n. 29586 del 16. 11. 2018; Cass. civ., sez. trib., n. 30335 del 23. 11. 2018 e Comm. Trib. Reg. Cagliari, n. 359 del 11. 10. 2017, che con identica massima affermano: “In ambito tributario, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta”. Le ragioni alla base dell’uso distorto della situazione giuridica soggettiva non vengono, di frequente, indicate. Più in generale, sull’abuso del diritto nell’ambito dell’unione europea v. L. Cerioni, The “Abuse of Rights” in EU Company Law and EU Tax Law: A Re-reading of the ECJ Case Law and the Quest for a Unitary Notion, in European Business Law Review, 2010, 783 ss.; G. Alpa, Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito comunitario e sui suoi riflessi negli ordinamenti degli Stati Membri, in Contratto e impresa, 2015, 246, scrive che rispetto al diritto dell’Unione europea è incerto se il divieto di abuso del diritto “sia un principio di nuovo conio, se sia il portato di disposizioni espresse, se sia ricavabile da disposizioni vigenti oppure se discenda dall’abuso del diritto di antica tradizione”; G. Falsitta, Unità e pluralità del concetto di abuso del diritto nell’ordinamento interno e nel sistema comunitario, cit.
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Questa è una sintesi, auspicabilmente corretta e rappresentativa, delle varie ricostruzioni dell’abuso del diritto diffuse in giurisprudenza soprattutto nell’ultimo decennio (o poco più), tenuto conto di talune oscillazioni da un settore disciplinare all’altro. A ulteriore riprova si può rammentare che la notissima sentenza della Cassazione civile del 2009, indicata sovente come la decisione che ha avuto il merito o il demerito di rimettere l’abuso del diritto al centro del dibattito, sostiene che “Gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto (…) sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettosa della cornice attributiva di quale diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto a un criterio di valutazione, giuridico o extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte” (25). A volte si richiama la nozione di uso “improprio” del diritto soggettivo “in forza del disvalore sociale che esso determina” (26); in altre occasioni l’abuso si realizza se si persegue “un fine, in concreto, del tutto incoerente rispetto a quello per il quale la relativa facoltà è attribuita dalla norma” (27); oppure l’abuso del diritto è svelato da “operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio” (28).
(25) Cass. civ., n. 20106 del 18.9.2009. La sentenza ha, per così dire, fatto scuola pure fuori dall’ambito contrattuale e, più in generale, civile v. Tar Milano, n. 1951 del 11.10.2017 che riproduce fedelmente quanto detto dalla Cassazione; Cons. Stato, n. 2857 del 17.5.2012, che richiama espressamente la sentenza 20106 del 2009; interessante Cons. Stato, n. 693 del 2.2.2014, per la quale gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto sono “la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione giuridico o extragiuridico; la circostanza che, a causa di tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte; di conseguenza l’abuso del diritto, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, comporta l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al perseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore”. (26) Trib. Bologna, sez. lavoro, n. 765 del 20.7.2017. (27) Cass. civ., n. 29792 del 12.12.2017. (28) Cass. civ., n. 22508 del 26.10.2011.
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I riferimenti giurisprudenziali potrebbero agevolmente moltiplicarsi e ciò rende questa indagine sommaria, ma la sintesi proposta in apertura del paragrafo non sembra semplificare o ridurre eccessivamente il discorso dei giudici e permette, così, di approfondire alcuni aspetti dell’abuso del diritto affrontati in precedenza. Se consideriamo l’abuso non un principio generale, bensì un criterio espressione di un principio generale in ragione del quale determinare il significato di principi del diritto espressi che contengono termini valutativi, si incappa in alcune questioni da non sottovalutare. Se il divieto di abuso del diritto non è, per esempio, autonomo rispetto alla buona fede oggettiva, bensì espressione del principio di buona fede oggettiva, la determinazione del significato di un sintagma indeterminato, la buona fede appunto, viene affidata a una nozione che sconta lo stesso grado e lo stesso tipo di indeterminatezza (l’abuso del diritto) (29). Questo punto stimola altre considerazioni, conduce verso le modalità operative del divieto di abuso del diritto, ovvero conduce all’esame di come si passi da ciò che è formalmente consentito a prima vista a ciò che è sostanzialmente vietato a un più accorto esame. Se “abuso” è un termine valutativo, l’impiego di differenti criteri per individuarne il significato comporta una variazione delle condizioni di applicazione dell’abuso. Se è abusivo l’esercizio del diritto che non “soddisfa” le ragioni dell’attribuzione del diritto soggettivo, bisogna rammentare che si può controvertere intorno alle condizioni in grado di soddisfare le ragioni dell’attribuzione stessa (30). A questo riguardo
(29) Su questo aspetto e sulla indeterminatezza dei termini valutativi v. i miei Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, 2010 e Come si interpretano le clausole generali? Note intorno ad alcuni aspetti ricorrenti, in Ordines, 2, 2018, 18-37; nel presente scritto, al pari dei due appena ricordati, si assume un rapporto di sinonimia tra clausole generali e termini valutativi (per una impostazione differente riguardo al rapporto tra clausole generali e termini valutativi v. P. Chiassoni, Le clausole generali tra teoria analitica e dogmatica giuridica, in Giurisprudenza Italiana, 7, 2011, c. c. 1692 ss.). Sui caratteri dei termini valutativi v. U. Scarpelli, Filosofia analitica, norme e valori, Milano, 1962, 41: “nei termini di valore c’è qualcosa di diverso o di più dei riferimenti a caratteri empirici delle cose, c’è l’espressione di un apprezzamento, di una scelta, di una presa di posizione”. (30) Per approfondimenti si vedano ancora G. Pino, L’esercizio del diritto e i suoi limiti. Note a margine della dottrina dell’abuso del diritto, cit., e C. Amato, Considerazioni sulla dottrina dell’abuso del diritto, cit. Va ricordato, più in generale, che l’impiego di termini valutativi può garantire l’adeguamento della regolazione giuridica alle mutevoli esigenze sociali, ma ciò accade pagando comunque un prezzo, e una parte del prezzo da pagare è sicuramente la riduzione della prevedibilità in ordine alle conseguenze delle proprie azioni
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è stato ben rilevato e posto in rilievo che “Il richiamo a criteri di etero-integrazione del diritto (…) favorisce una profonda incertezza ed aleatorietà, mentre: a) il richiamo ad altre clausole generali (per esempio: buona fede, correttezza) rischia di fare dell’abuso un’inutile superfetazione, portando peraltro la questione sul piano delle modalità di esercizio del diritto (…) b) non è detto che il richiamo a principi, anche se positivizzati, possa essere risolutivo, là dove le regole che finiscono per essere disapplicate possono essere a loro volta manifestazione di altri principi” (31). Va rammentato anche un altro punto. Il principio generale o ciò che ne è espressione, a seconda dei modi di qualificare il divieto di abuso del diritto, si calano in ambiti disciplinari specifici e ciò determina la necessità o l’opportunità di adattare il modus operandi del divieto di abusare del diritto soggettivo ai differenti contesti tematici e normativi. Il divieto di abusare del diritto soggettivo comporta, come si è già detto, una riduzione teleologica della disposizione normativa attributiva del diritto stesso; le modalità attraverso le quali opera la riduzione teleologica variano, o possono variare, da contesto a contesto, e talvolta pure all’interno del medesimo contesto in tempi diversi. Si badi che quanto appena detto non perde necessariamente di interesse in presenza di una disciplina espressa dell’abuso del diritto, molto dipende, infatti, dalla formulazione della disposizione normativa. Si pensi, per esempio, proprio alla normativa introdotta nel 2015 che indica quali elementi costituivi dell’abuso del diritto: 1) l’assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate (e sono prive di sostanza economica quelle operazioni non idonee “a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”); 2) la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito pur “nel rispetto formale delle norme
(v. F. Schauer, Il ragionamento giuridico. Una nuova introduzione, Roma, 2016, 245-259; su questi aspetti, e su altri, con riguardo al settore tributario v. G. Ragucci, L’etica del legislatore tributario e la certezza del diritto, in Riv. trim. dir. trib., 2016, 441 ss.). Nel caso dell’impiego del divieto di abuso del diritto, ciò che diviene imprevedibile, o meno prevedibile, è la condotta che costituisce un esercizio del diritto privo di controindicazioni: un esercizio del diritto, appunto, non abusivo. (31) G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo, cit., 214. Va ricordato, seppur incidentalmente, che l’intreccio tra abuso del processo e abuso del diritto è dovuto all’abitudine di trattare il primo come una specie del secondo, questa abitudine comporta che: a) si debba definire l’abuso del processo delineandone il rapporto di genere a specie con l’abuso del diritto; b) si debba individuare l’incidenza dell’ambito processuale di volta in volta coinvolto sull’operatività del divieto di abuso del processo; c) si debbano stabilire, in connessione con i due punti precedenti, le conseguenze dell’abuso del processo.
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fiscali”; 3) la circostanza che il vantaggio fiscale indebito costituisca l’effetto essenziale dell’operazione. Constatato l’abuso, i vantaggi fiscali “non sono opponibili all’amministrazione”. V’è, dunque, il riferimento a un vantaggio fiscale indebito, ed è tale quel vantaggio che comporta “benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”. Già da queste scarne indicazioni ci si accorge che la formulazione ripropone parecchie delle questioni riguardanti divieto di abuso del diritto individuate sino a qui: la presenza di termini valutativi; il riferimento, tecnicamente non inappuntabile, al rispetto formale contrapposto, evidentemente, a un rispetto sostanziale delle norme fiscali; la necessità di individuare le ragioni del rispetto sostanziale delle norme fiscali, ovvero l’individuazione delle ragioni dell’attribuzione della situazione giuridica di vantaggio attraverso l’interpretazione teleologica (32). Inoltre, bisogna sottolineare che considerando il divieto di abuso del diritto un principio generale dell’ordinamento e non un principio settoriale (generale per un certo ambito disciplinare) la disposizione normativa ora esaminata diviene espressione del principio generale dell’ordinamento in un particolare settore, più che una disposizione espressa sostitutiva di una norma inespressa. Rispetto a quanto affermato si potrebbe dire: nulla di particolarmente nuovo. Però, se questo è ciò che normalmente avviene quando ci si misura con principi, vaghezza dei significati, ambiguità delle parole e indeterminatezza dei termini valutativi (e ancor più con principi del diritto che contengono termini valutativi), con specifico riguardo al divieto di abuso del diritto “non va dimenticato che per mezzo di usi siffatti del divieto si rischia una grande dilatazione del divieto stesso, con l’individuazione delle condizioni di applicazione del divieto di volta in volta determinate dagli interpreti e con conseguenti riduzioni teleologiche tanto ampie”, variabili da contesto a contesto e
(32) Tutto ciò richiama le questioni già affrontate e le propone sotto la veste delle varie interpretazioni della disposizione normativa in esame. Si pensi, per esempio, al problema dell’autonoma rilevanza o meno della essenzialità del risparmio fiscale indebito (per divergenti opinioni v. A. Contrino e A. Marcheselli, L’obbligo di motivazione “rinforzata” e il riassetto degli oneri probatori nel “nuovo” abuso del diritto, in Corr. trib., 2016, 15 ss.; G. Zizzo, La nuova nozione di abuso del diritto e le raccomandazioni della Commissione europea, in Corr. trib., 2015, 4582). Si pensi anche alla configurazione delle ragioni economiche in grado di giustificare l’operazione altrimenti abusiva (due decisioni recenti e interessanti sono Cass. civ., sez. trib., n. 18633 del 13. 7. 2018 e Cass. civ., sez. trib., n. 2240 del 30. 1. 2018).
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nel tempo, in grado di “svuotare in gran parte, se non addirittura interamente, i contenuti del diritto soggettivo” (33). Esiti siffatti possono giungere a impedire di orientarsi nell’esercizio dei diritti, poiché una valutazione intorno a ciò che è lecito non basta, ma, al contempo, stabilire ciò che è legittimo, e non solo lecito, è davvero complicato. Non va poi dimenticata la questione della conseguenza giuridica, di ciò che consegue dalla violazione del divieto di abuso del diritto. Se per l’ambito tributario la questione è stata affrontata dalla disposizione normativa introdotta nel 2015, per altri ambiti disciplinari la questione è aperta, e il dato prevalente è il seguente: la conseguenza giuridica viene individuata spesso in via generica. La conseguenza del comportamento considerato abusivo è, ovviamente, sfavorevole per il titolare della posizione giuridica di vantaggio, ma variabile (34). Quanto si è detto sino a qui solleva molte questioni, di sicuro fa emergere che dietro l’abuso del diritto si cela un’ampia discrezionalità interpretativa. Infatti, per fare dell’abuso del diritto un buon argomento, è necessario giustificare adeguatamente e non semplicemente asserire la presenza di un esercizio abusivo del diritto. Se ciò che si è messo in luce nelle pagine precedenti è plausibile, allora l’onere argomentativo da assolvere impiegando il divieto di abuso del diritto è piuttosto articolato e non può essere surrogato dalla mera invocazione di un abuso.
(33) Le citazioni sono tratte dal mio L’abuso del diritto dalla prospettiva della filosofia giuridica, cit., 172. Questo aspetto è accuratamente sottolineato anche da P. Comanducci, Abuso del diritto e interpretazione giuridica, cit., 29. (34) Va rammentato che una delle questioni rimproverate ad alcune sentenze in materia tributaria anteriormente alla regolazione espressa, era costituita proprio dall’associare all’abuso del diritto le sanzioni oltre all’inefficacia dell’esercizio del diritto, v. A. Contrino, Sull’ondivaga giurisprudenza in tema di applicabilità delle sanzioni amministrative tributarie nei casi di “elusione codificata” e “abuso/elusione”, in Riv. dir. trib., 3, 2012, 261-280. Per molti altri settori disciplinari va registrata, per l’ennesima volta, un ampio ventaglio di opzioni per gli interpreti nella scelta della conseguenza giuridica. Più in generale, la discrezionalità dipende proprio dal non considerare l’esercizio del diritto abusivo un illecito, per cui vengono escluse o sono di dubbia applicazione le conseguenze tipiche dell’illecito. La discrezionalità nella scelta della conseguenza giuridica è connessa, inoltre, alla qualificazione del divieto di abuso del diritto come principio inespresso del diritto o come espressione di un principio del diritto. Nel primo caso (il divieto di abuso del diritto è un principio inespresso) il principio ricavato è questo: “è vietato abusare del diritto”, ma la conseguenza della violazione del divieto è indeterminata. Nel secondo caso (il divieto di abuso del diritto è espressione di un principio) la conseguenza dell’abuso è quella del principio a cui si lega, e solitamente la conseguenza giuridica è, di nuovo, indeterminata.
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Può apparire banale sottolineare quanto si sta per proporre, ma talvolta le banalità non sono inutili. Quando si discetta di formalmente lecito ma sostanzialmente non consentito o illegittimo, il formalmente lecito è rappresentato, di solito, dall’insieme dei significati attribuibili alla disposizione normativa. All’interno di questo quadro si collocano le sottoclassi del sostanzialmente consentito e del sostanzialmente non consentito (35). Il primo passo per capire come e dove opera il divieto di abuso del diritto è costituito, quindi, dall’individuazione della cornice di significati convenzionali della disposizione attributiva del diritto (36). In secondo luogo, l’interprete è chiamato a compiere l’interpretazione teleologica della disposizione attributiva della situazione giuridica di vantaggio. Anche questa operazione, è acquisito ormai da tempo, ha natura discrezionale, può essere effettuata per strade sensibilmente diverse (soggettiva oppure oggettiva) e manipolando gli strumenti adatti a individuare le finalità perseguite (37). A ciò si aggiunga che in presenza di una disposizione normativa sull’abuso, l’interpretazione di quest’ultima orienta l’interpretazione della disposizione attributiva della situazione giuridica di vantaggio. Ciò detto, bisogna ricordare pure che le finalità dell’attribuzione vanno correttamente impiegate per: a) individuare e specificare le condizioni di esercizio “normale” del diritto soggettivo (area del lecito e del legittimo o del sicuramente lecito); b) individuare, in base a una coerente applicazione delle condizioni di cui al punto a), la sottoclasse dei comportamenti consentiti; c) individuare e specificare le condizioni di esercizio “anormale” del diritto soggettivo (area del lecito ma non legittimo, o del lecito prima facie ma non lecito a un più attento esame); d) individuare, in base a una coerente applicazione delle condizioni di cui al punto c), la sottoclasse dei comportamenti abusivi.
(35) Il lessico è, come già detto, quello tipico della giurisprudenza, insistere su di esso ha il pregio di evidenziarne la poca precisione. (36) Quella che qui si è chiamata cornice dei significati convenzionali, viene sovente indicata dai giudici e dagli studiosi col significato letterale, ma nel caso dell’abuso del diritto il riferimento alla lettera concerne, implicitamente o esplicitamente, non un significato, quanto un insieme di significati all’interno del quale operare una selezione. Sul significato letterale delle disposizioni normative e sui vari modi in cui è inteso rinvio a V. Velluzzi (a cura di), Significato letterale e interpretazione del diritto, Torino, 2000. (37) Sul punto v. R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, 2004, 150-153, oltre ai testi ricordati retro alla nota 15, ai quali si aggiunga D. Canale e F. Poggi, Pragmatic Aspects of Legislative Intent, in The American Journal of Jurisprudence, 2019, 1-14.
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È importante ripetere, poi, che laddove v’è, come per il settore tributario, una disposizione normativa che espressamente regola l’abuso del diritto, il percorso delineato è guidato, per quel settore, dall’interpretazione previamente effettuata della disposizione normativa regolante l’abuso del diritto. Questi passaggi non rendono l’argomentazione necessariamente convincente, però essi evitano che si affermi puramente e semplicemente un abuso del diritto, o che si lascino le condizioni di individuazione dell’abuso del diritto troppo indeterminate e così mutevoli da consentire all’abuso del diritto soggettivo di veicolare in maniera incontrollata le preferenze dell’interprete. I passaggi delineati non sono, forse, risolutivi, permettono, però, di ragionare con e intorno all’abuso del diritto soggettivo, richiamando gli interpreti a un esercizio responsabile della discrezionalità che (inevitabilmente) posseggono. Senza dimenticare, inoltre, che l’abuso del diritto è, nel campo tributario, uno degli specchi che più riflette la delicatezza del rapporto tra imposizione fiscale e libertà (38). Ne consegue che la richiesta di adeguati oneri argomentativi non è un superfluo aggravio per l’interprete, serve, invece, a ricercare il corretto equilibrio, secondo diritto, tra diritti e obblighi del contribuente. Per concludere: rivolgendosi all’abuso del diritto “dal basso”, guardando ai suoi impieghi giurisprudenziali, si può (anzi, si deve) vigilare sulla realizzazione dell’istanza di normalità dell’esercizio dei diritti veicolata dal divieto dell’abuso del diritto soggettivo (39).
Vito Velluzzi
(38) Per riprendere il titolo del volume D. Velodalbrenta (a cura di), Imposizione fiscale e libertà, Torino, 2018. (39) L’invito ad affrontare le questioni filosofico giuridiche dal basso, cioè a partire dalla dottrina e dalla giurisprudenza, richiama il metodo di G. Gavazzi, L’onere. Tra la libertà e l’obbligo, Torino, 1969, 9 ss.
La prevalenza della sostanza sulla forma come criterio di effettività e di rilevanza nei rapporti tributari Sommario: 1. Introduzione – 2. La prevalenza della sostanza sulla forma come criterio di effettività “in chiave biunivoca” – 3. La trasversalità della prevalenza della sostanza sulla forma: dall’effettività alla rilevanza – 4. La “giustiziabilità” della prevalenza della sostanza sulla forma tra (limiti alla) disapplicazione e interpretazione conforme a Costituzione – 5. Segue: la disapplicazione di atti di fonte secondaria in contrasto con i precetti costituzionali – 6. La prevalenza della sostanza sulla forma come criterio di bilanciamento di interessi tra attuazione e disciplina sostanziale – 7. Conclusioni L’articolo è incentrato sulle possibili giustificazioni del principio di prevalenza della sostanza sulla forma il quale ha solide basi in quello costituzionale di capacità contributiva. In particolare, la substance over form, pur non trovando alcuna “menzione” in espresse disposizioni, può essere accettata solamente se declinata in termini di effettività e rilevanza ed in “chiave biunivoca”. In altre parole, se, da un lato, non sono tollerabili comportamenti artificiosi del contribuente, dall’altro, non devono esserlo quelli dell’Autorità fiscale. Nel momento in cui il principio di capacità contributiva viene applicato direttamente dalla giurisprudenza per contrastare i comportamenti abusivi, allo stesso modo esso può essere invocato in proprio favore dal contribuente. Il nodo centrale è, dunque, quello di comprendere quali siano gli “strumenti giuridici” utilizzabili da quest’ultimo per raggiungere tale risultato. This paper focuses on possible justifications of the substance over form principle which has a solid background in the Constitutional ability to pay principle. In particular, the substance over form, even if it does not find any “mention” in express legal rules, can be accepted only if it is declined in terms of effectiveness and relevance and in a “biunivocal key”. In other words, if, on the one hand, artificial behaviours of the taxpayer cannot be tolerated, on the other hand, that of the tax authority must not be tolerated. When the principle of ability to pay is applied directly by case law to combat abusive behaviour, it can also be invoked in its own favour by the taxpayer. The central issue is, therefore, that of understanding what “legal tools” the taxpayer can use to achieve this goal.
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1. Introduzione. – La tematica della prevalenza della sostanza sulla forma è, per natura, poliforme e trasversale, prestandosi ad articolate chiavi di lettura: ciò nonostante tale locuzione è ormai entrata nel “sentire comune” e basti osservare che la Suprema Corte propugna, costantemente, un “basilare criterio della prevalenza della sostanza sulla forma” (1). In altri termini, viene oggi attribuita una sorta di “patente di verità” a tutto ciò che è sostanza, mentre assume una connotazione prevalentemente negativa tutto ciò che è forma (2). La ragione di tale convinzione, nella propria complessità, è di palmare evidenza: la ricerca della sostanza (segnatamente, di una quanto mai evanescente sostanza economica dei fenomeni giuridici (3)) diviene, nel diritto tributario, strumento utilizzato per recuperare materia imponibile e, quindi, per arginare fenomeni ritenuti elusivi dove “non arrivano” gli ordinari strumenti di contrasto previsti dall’ordinamento (si pensi, a titolo esemplificativo, alla simulazione, all’interposizione, ma anche agli ordinari metodi interpretativi). Il menzionato concetto di sostanza economica, anch’esso costantemente evocato (e ampiamente abusato) dalla giurisprudenza “iper-creativa”, altro non è che un sofisticato “grimaldello” per scardinare la tipicità della fattispecie, ma in palese contrasto con la separazione dei poteri e con il principio di legalità (salvaguardato in materia tributaria dalla riserva di legge (4)). La prevalenza della sostanza sulla forma – a volte declinata come principio generale, in altri casi come criterio base, in altri ancora come parametro fondamentale, ecc. – ha, infatti, trovato ampio spazio nell’alveo delle patologie, ma stenta ad affermarsi, quanto meno espressamente, nella fase fisiologica di attuazione del tributo, sia sul versante sostanziale, sia su quello degli adempimenti e del procedimento: non sono, infatti, noti arresti giurispruden-
(1) Tra le tante, Cass., sez. trib., 21 aprile 2017, n. 10113. (2) Si è osservato in dottrina che “pochi giuristi sarebbero disposti…a dichiararsi formalisti, al punto che un uso laudativo di questa parola può sembrare persino un errore lessicale”. S. Civitarese Matteucci, La forma presa sul serio. Formalismo pratico, azione amministrativa e illegalità utile, Torino, 2006, 30. (3) Per la critica alla categoria della “sostanza economica” sia concesso rinviare a F. Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma nel diritto tributario, Padova, 2019 (in particolare, al cap. I), (4) Su tale specifica questione cfr., da ultimo, R. Cordeiro Guerra, Crisi della fattispecie, fonti multilivello e ruolo del giudice: il caso del diritto tributario, in Rass. Trib., 2019, 281.
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ziali (o prassi applicative) dove tale “principio” venga evocato espressamente pro contribuente. Emerge, dunque, uno sbilanciamento in favore delle ragioni erariali, in quanto il superamento della “forma” diviene sovente lo strumento per attuare precise politiche (asseritamente) redistributive, nella direzione della mera salvaguardia dell’interesse fiscale; ed è, evidentemente, paradigmatico il caso dell’abuso del diritto, ormai ampiamente sviscerato dalla dottrina, il quale rappresenta, da oltre un decennio, una “costante” – a memoria, senza eguali – nella giurisprudenza e nella prassi dell’Agenzia delle Entrate. Il fenomeno in esame è, tuttavia, difficilmente giustificabile sul piano strettamente giuridico, in quanto è immediato osservare che non esistono disposizioni specifiche in cui venga affermato, expressis verbis, un principio generale di prevalenza della sostanza sulla forma: anzi, l’ordinamento tributario è caratterizzato da un imperante formalismo, da costanti predeterminazioni normative (ed è paradigmatico in tale senso il caso della fiscalità d’impresa) (5), nonchè da mere convenzioni. Lo stesso art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, che ha trovato “linfa vitale” nella consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, non contiene alcun rinvio alla c.d. substance over form (espressione di uso corrente nell’ambito delle diverse dottrine anti-abuso), affidandosi, anch’esso, a convenzioni e predeterminazioni normative, in netta controtendenza proprio rispetto ad un approccio di stampo sostanzialistico (6). È, al tempo stesso, innegabile che vi siano settori in cui il legislatore tributario ha adottato una visione sostanzialistica (7): tuttavia, dall’immanenza di tale approccio in ambiti ben delimitati, non è possibile far discendere la
(5) In argomento v., per tutti, L. Del Federico, Forma e sostanza nella tassazione del reddito d’impresa: spunti per qualche chiarimento concettuale, in Riv. dir. trib., 2017, I, 168 il quale osserva che “la disciplina tributaria, ponendo al vertice della propria gerarchia assiologica il principio di certezza giuridica e, con esso, l’interesse alla tendenziale stabilità del gettito, è tradizionalmente improntata ad una valorizzazione della forma a discapito della sostanza” (6) Per approfondimenti v., ancora, F. Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma nel diritto tributario, cit. 387 ss. (7) È paradigmatico in tal senso il caso dell’interpretazione degli atti sottoposti a registrazione disciplinato dall’art. 20 del Testo Unico dell’imposta di registro sul quale, tuttavia, non vi è unanimità di vedute. Per le diverse linee interpretative vd., per tutti, G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, Padova, 2017.
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sussistenza di un principio generale senza identificarne, inequivocabilmente, un substrato normativo. In altri termini, non è giuridicamente sostenibile attribuire alla prevalenza della sostanza sulla forma, a “scatola chiusa”, una qualche superiorità solamente perché costantemente evocata come argomento (e, prevalentemente, nella logica di una strenua salvaguardia della ragion fiscale). Occorre, dunque, identificare una diversa chiave di lettura, con la ferma convinzione che proprio la validità di un approccio sostanzialistico meriti il superamento di una concezione della prevalenza della sostanza sulla forma esclusivamente pro fisco, concezione che non fa altro che indebolire la fiducia nell’ordinamento (8) e, al tempo stesso, a rafforzare la contrapposizione tra diritti del contribuente e dovere fiscale (9) che, invece, dovrebbero convergere e non “confliggere” a priori. Anticipando il “cuore del problema”, ciò che si sostiene è che la prevalenza della sostanza sulla forma può essere ricondotta nel novero dei principi generali solo se valorizzata come strumento di bilanciamento tra interessi pubblici e privati, nonché come criterio interpretativo e applicativo delle disposizioni tributarie a “trecentosessanta gradi”: il che significa che essa non può (e non deve) essere associata, esclusivamente, all’abuso del diritto e alle patologie, ma anche all’interpretazione e applicazione (o disapplicazione) di qualunque disposizione tributaria, nel prisma del principio di capacità contributiva e, quindi, dell’effettività e della rilevanza di atti, fatti e comportamenti (vd. infra § 2 e 3). Ciò che non è accettabile è l’equazione secondo cui alla prevalenza della sostanza/effettività corrisponde sempre la superiorità dell’interesse fiscale, mentre, nella situazione opposta, è l’interesse del privato a prevalere. Il citato caso dell’abuso del diritto è, certamente, paradigmatico, ma l’attenzione che gli è stata rivolta pare eccessiva così come, al tempo stesso, sono stati poco approfonditi – e, soprattutto, poco valorizzati – gli effetti “di segno opposto” che devono far seguito al nuovo trend “fuori dagli schemi” (e dirompente) avviato dalla Suprema Corte.
(8) Su tali questioni cfr., da ultimo, P. Boria, Il nuovo patto fiscale tra lo Stato ed i cittadini. Un progetto legislativo, Napoli, 2018. (9) Con riferimento al ruolo della Corte Costituzionale, cfr. G. Bergonzini, Diritti fondamentali del contribuente discrezionalità del legislatore tributario e sindacato di costituzionalità, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2018, I, 327.
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La “stella polare” dovrebbe essere la seguente: il contrasto a rappresentazioni apparenti della mancanza di ricchezza tassabile va coordinata con l’esigenza di non tassare manifestazioni di ricchezza sostanzialmente inesistenti (o che sono considerate tali solamente in ragione dell’eventuale inadempimento di obblighi formali o di situazioni di fatto del tutto slegate dal presupposto del tributo o dalla determinazione della base imponibile). In sostanza, così come è censurabile la sottrazione di materia imponibile derivante da comportamenti artificiosi, lo è altrettanto la creazione artificiosa di una fattispecie impositiva da parte dell’Amministrazione finanziaria e della giurisprudenza (10). Il nodo centrale della questione è, dunque, quello di comprendere, anche sul piano pratico-applicativo e della “giustiziabilità”, quali siano gli strumenti idonei per raggiungere tale delicato equilibrio tra interessi pubblici e privati (vd. infra § 4 e 5). 2. La prevalenza della sostanza sulla forma come criterio di effettività “in chiave biunivoca”. – Un punto di svolta “epocale” è, certamente, individuabile nelle ormai note sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 2008 (11) le quali, introducendo in materia tributaria il principio dell’abuso del diritto, hanno dettato principi clamorosi e, per molti versi, rivoluzionari. La straordinaria novità non riguarda tanto la definizione di detto istituto (ampiamente noto e teorizzato in altri rami dell’ordinamento), quanto il ruolo attribuito al principio di capacità contributiva: i giudici di legittimità, infatti, hanno affermato che quest’ultimo, e quello di progressività, “costituiscono il fondamento, sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla piena attuazione di quei principi”. L’art. 53 Cost., dunque, alla luce dell’orientamento delle Sezioni Unite (e anche di successivi interventi delle sezioni semplici), non costituisce più
(10) È particolarmente significativo in tal senso un orientamento della Suprema Corte, seguito da talune pronunce di merito nel medesimo segno, in cui è affermato espressamente che “se è indubitabile che l’Amministrazione ….non è tenuta ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti…è indubbio che in tale attività riqualificatoria essa non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici”. Così, testualmente Cass., 7 gennaio 2017, n. 2054. (11) Cass. SS. UU, 23 Dicembre 2008, n. 300055, 30056 e 30057
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solamente un parametro ed un limite per il legislatore, ma un complesso normativo aperto - potremmo dire, una clausola generale (12) - che, anche per il tramite dell’intervento giurisprudenziale, attribuisce precisi doveri al contribuente (13). In altri termini l’art. 53 da fonte sulla produzione diviene esso stesso regola, “assurgendo” a complesso normativo in cui è “già fissato il punto di equilibrio tra gli interessi in gioco” (14). D’altro canto, il percorso imboccato dalla giurisprudenza non riguarda solamente l’abuso del diritto, in quanto la diretta precettività è stata evocata
(12) Autorevole dottrina (G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, 377 ss.) parla, in generale, di “elasticità” della Costituzione. Sul dibattito relativo alla qualificazione delle norme costituzionali come clausole generali vd. F. Pedrini, Clausole generali e Costituzione: osservazioni introduttive in Quaderni Cost., 2012, 285. (13) Come si è osservato (seppur in chiave fortemente critica, ma cogliendo, perfettamente, il cuore delle sentenze) l’approccio della giurisprudenza “finisce per attribuire all’art. 53 un ruolo non già di direttiva di larga massima rivolta al legislatore vincolato a progettare tributi soltanto in presenza di indici di capacità economica, bensì di precetto direttamente operante nei rapporti tra Stato e contribuente, di regola immediatamente applicabile ai singoli casi concreti”. D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche. Anatomia di un equivoco, in Dir. prat. Trib., 2015, I. 699. Analogamente vd. F. Gallo, Brevi note sula nozione di abuso del diritto in materia fiscale, in Riv. dir. Trib., 2017, I, 432 ss. il quale, pur contrastando fermamente la natura precettiva dell’art. 53 Cost., ritiene che la posizione della giurisprudenza non possa che deporre in tal senso. Critici sulla diretta precettività del principio di capacità contributiva, ma con riferimento a ben altro contesto storico, S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale, Padova, 1992, 153; S. Fiorentino, L’elusione tributaria, Napoli, 1996, 178; A. Contrino, Elusione fiscale, evasione e strumenti di contrasto, Bologna, 1996, 31. (14) R. Bin, La Costituzione tra testo e applicazione, in Ars Interpretandi, 2009, 115. Su tale profilo vd., da ultimo, F. Astone, Principi costituzionali e post-modernità, in Giur. Cost., 2018, 2792, Si è, ancora, autorevolmente posto in luce che “viviamo in un contesto culturale in cui la Costituzione è inequivocabilmente percepita come fonte del diritto, e come superiore, in qualche senso, alla legge e in generale alle altre fonti. Se così è, i principi in essa contenuta devono trovare diretta applicazione. Tanto più che, essendo i precetti costituzionali norme dell’ordinamento positivo, esse devono essere trattate dal giudice come tutte le altre norme: il giudice dovrà applicarle nel giudizio ogniqualvolta possano fornire la norma del caso”. Così C. Pino, Tre concezioni della Costituzione in Riv. di Teoria e critica della Regolazione sociale, 2015, 31. Analoghe considerazioni in F. Modugno, Sul problema dell’interpretazione conforme a Costituzione: un breve excursus in Giur. It., 2010, 1961. Tale tematica è ormai comune a molti settori dell’ordinamento. Per un’approfondita analisi, anche in termini di teoria generale, con riferimento al diritto del lavoro cfr., da ultimo, V. Speziale, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento extrema ratio o “normale” licenziamento economico? In AA. VV., Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, a cura di A. Perulli, Torino, 2017, 119 nonché Id., Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento tra clausole generali, principi costituzionali e giurisprudenza della Cassazione in Giornale di Diritto del lavoro e delle relazioni industriali, 2018, 127.
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in molti altri settori: così, per esempio, nell’ambito della fiscalità locale (15), nonchè con riferimento alla dibattuta tematica della legittimità dei patti traslativi del tributo, recentemente rinviata alle Sezioni Unite (16). Quanto precede, tuttavia, non dovrebbe stupire in quanto è ormai noto anche in altri rami dell’ordinamento – primo fra tutti, in quello civile dove sono ormai inarrestabili le derive della giurisprudenza “iper-creativa” (17) – il fenomeno della Costituzione che fornisce la regola del caso. In altri termini, l’art. 53, oltre a rappresentare autonomi valori, impone che gli stessi trovino una diretta applicazione a prescindere dall’esistenza, o meno, di disposizioni “attuative” (18) e, quindi, non più (o non solamente) in chiave interpretativa. Le Sezioni Unite hanno aperto la strada ad un orientamento marcatamente anti-formalista (o iper-sostanzialista) – fortemente opinabile alla luce della
(15) Cass., sez. trib., 10 aprile 2018, n. 10234; Cass., sez. trib., 28 marzo 2018, n. 7652 in base alle quali, la “portata precettiva di dette disposizioni costituzionali legittima solo il percorso interpretativo per il quale, ai fini dell’ICI, gli effetti dell’attribuzione della rendita catastale ad un immobile classificato nel gruppo catastale D debbono decorrere dalla data di richiesta di accatastamento e non dalla successiva di messa in atti o di notificazione al contribuente della rendita attribuita”. (16) Cass., sez. trib., 28 novembre 2017 n. 28437, annotata da A. Carinci, Legittimità del patto sull’imposta: la S.c. torna su una questione risalente ma che non sembra trovare pace in Corr. Giur., 2018, 478, nonché da V. Mastroiacovo, Patti sull’imposta: riflessioni a margine di un’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, in Rass. Trib., 2018, 417. Quest’ultima problematica è paradigmatica in quanto, al di là di taluni aspetti specifici che hanno determinato la richiesta di una pronuncia a Sezioni Unite, la diretta vincolatività dell’art. 53 Cost. è data per scontata: “per entrambi gli orientamenti, tanto contrari quanto favorevoli alla legittimità dei patti sull’imposta, detta precettività non può essere….mai messa in discussione né, tanto meno, la sua idoneità a costituire un limite all’autonomia privata”. Sul tema, in generale, F. Paparella, L’accollo del debito d’imposta, Milano, 2008. (17) Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alla censurabile (ed ampiamente criticata) giurisprudenza costituzionale che ha ritenuto direttamente applicabile l’art. 2 Cost. per “sanare” un’asserita lacuna legislativa e, quindi, per integrare, esso stesso, la fattispecie contrattuale. Sui diversi orientamenti della giurisprudenza civile, nonché della dottrina, v. N. Lipari, Ragionare di diritto, oggi, in Riv. trim. dir. proc. Civ., 2019, I, 489 e R. Cordeiro Guerra, cit. 273 e ss., G. D’Amico, Giustizia contrattuale e contratti asimmetrici, in Europa e dir. priv., 2019, 1, e, si consenta ancora il rinvio, F. Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma.., cit., 137 ss. (18) Ritiene che la capacità contributiva non rappresenti autonomi valori, ma esprima “un’esigenza di congruità funzionale delle scelte legislative circa i criteri di riparto dei carichi pubblici”, A. Fedele, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, in AA. VV., Diritto Tributario e Corte Costituzionale, a cura di A. Perrone - A. Berliri, Napoli, 2006,14.
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riserva di legge e del principio di separazione dei poteri, ma del quale non si può che prendere atto (19) e avere contezza - che vede nel principio di prevalenza della sostanza sulla forma una diretta conseguenza (rectius, uno specifico corollario) di quello di capacità contributiva (20). È proprio in ragione di tale principio costituzionale che si giustifica quello della prevalenza della sostanza sulla forma, l’unica in grado di rappresentare, effettivamente, l’idoneità alla contribuzione di un determinato soggetto ma, al tempo stesso, di limitarne la “responsabilità tributaria” e l’attitudine alla contribuzione, se solo formalmente e apparentemente tali. L’obiettivo diviene, dunque, la ricerca degli strumenti per dare concreta attuazione ai precetti costituzionali nella singola situazione giuridico-soggettiva, vuoi in chiave interpretativa (o, in ipotesi limite e limitate, disapplicativa, vd. infra § 6), vuoi, come extrema ratio, affidandosi alla Consulta in sede di incidente di costituzionalità. In conclusione, preso atto del percorso seguito dalla giurisprudenza, occorre cercare di coglierne le opportunità: il mero “muro contro muro” tra le opinioni critiche (la maggioranza e, per molti versi, condivisibili) circa la diretta precettività del dettato costituzionale e le aperture sostanzialistiche, hanno portato infatti a rafforzare il principio dell’abuso del diritto nella direzione della mera prevalenza dell’interesse fiscale (21). D’altro canto, solamente una
(19) Proprio con riferimento al ruolo creativo della giurisprudenza che finisce col superare quanto le è costituzionalmente consentito, è stato autorevolmente osservato che “la critica a tali orientamenti, che rispondono a una scelta di campo della giurisprudenza, serve a poco. È che il ruolo del giudice si è andato modificando nel tempo, così che al cittadino non resta che prenderne atto”. G. Verde, Considerazioni inattuali su giudicato e potere del giudice, in Riv. dir. proc., 2017, 20 al quale si rinvia per ulteriori approfondimenti. (20) Che la prevalenza della sostanza sulla forma sia da intendersi come espressione dell’art. 53 Cost. lo si rinviene, chiaramente ed espressamente, nella stessa giurisprudenza di legittimità in materia di imposta di registro, secondo cui “gli effetti giuridici prodotti dall’atto secondo il basilare criterio della prevalenza della sostanza sulla forma” consentono di “individuare la capacità contributiva di cui l’atto, unitariamente assunto nella complessità della sua configurazione, diviene espressione”: cfr. Cass., sez. trib., 21 aprile 2017, n. 10113. È ancora più significativa in tale direzione una successiva sentenza secondo cui occorre la ricerca della “capacità contributiva secondo il parametro fondamentale di prevalenza della sostanza sulla forma”: v. Cass., sez. trib., 10 ottobre 2018 n. 29148. (21) Prova ne sia che la stragrande maggioranza delle pronunce successive alle sentenze gemelle non arrecano nessuna particolare innovazione, non introducono ulteriori spunti di riflessione circa l’impatto del principio di capacità contributiva sulla posizione giuridicosoggettiva del contribuente e sono, fondamentalmente, appiattite sui principi originari dettati dalle Sezioni Unite (ovviamente, adattati alla specificità delle tematiche trattate).
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visione realistica dell’ordinamento e la valorizzazione del diritto come scienza pratica rappresentano la corretta chiave di lettura dei fenomeni giuridici. Alla luce di quanto osservato, e in ragione del diritto vivente, sono da abbandonare le tesi che tendevano a sminuire l’utilità concreta e la portata applicativa dell’art. 53 (22), in quanto i principi in questione hanno un impatto enorme e una forza espansiva potenzialmente illimitata: soprattutto, la prevalenza della sostanza sulla forma trova una solida giustificazione proprio nel principio di capacità contributiva il quale risulta centrale anche nella diretta regolamentazione dei rapporti tra Stato e contribuente. Ma se così è, la diretta precettività dell’art. 53 Cost. deve svelare la propria forza, non tanto in termini assoluti di una evanescente prevalenza della sostanza sulla forma, quanto di emersione della concreta capacità contributiva individuale e di rilevanza degli effetti dei comportamenti, sia del contribuente, sia dell’Amministrazione finanziaria (vd. infra § 3). D’altro canto, tale assunto appare assolutamente coerente con la filosofia di fondo dell’art. 53 il quale, “in nome di un asserito preminente interesse della comunità alla trasformazione sociale (oggi riproposto sotto il nome di interesse fiscale)”, non “consente che si attenuino la considerazione e la tutela del singolo contribuente” (23). Ed un grande ausilio in tale direzione deriva proprio dall’approccio creativo/sostanzialista delle Sezioni Unite e della successiva giurisprudenza: se l’interesse fiscale, come limite estremo, “può essere utilizzato per identificare la regola applicabile ad un caso non espressamente regolato da una norma legislativa (24)”, il medesimo criterio deve valere per i casi di applicazione del principio di capacità contributiva a vantaggio del contribuente.
(22) Sulle quali cfr., già tre lustri fa, le serrate critiche di G. Falsitta, Il doppio concetto di capacità contributiva in Riv. dir. trib., 2004, I, 823. Per un’ampia ricostruzione delle diverse linee interpretative cfr. anche R. Schiavolin, L’imposta regionale sulle attività produttive. Profili sistematici, Milano, 2007, 484. nonché, da ultimo, R. Miceli, Società di comodo e statuto sociale dell’impresa, Pisa, 2017, 260 ss. (23) F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che inforna il rapporto tra singolo e comunità in AA. VV., Diritto Tributario e Corte Costituzionale, cit., 41. (24) P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002, 448. D’altro canto, il medesimo autore (pag. 223) ritiene che “interesse fiscale e capacità contributiva non costituiscono altro che due facce della medesima medaglia, due prospettive diverse – una presentata dal punto di vista statualista – e l’altra mostrata dal punto di vista individualista – di inquadrare il medesimo fenomeno tributario”.
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Sino ad ora tale aspetto è stato gravemente trascurato e appare evidente che il sistema di valori espressi dalla capacità contributiva “è stato pienamente avvertito … nel suo versante solidaristico, ma non sempre altrettanto nel suo versante garantistico” (25), pur essendo riscontrabili taluni precedenti, tuttavia isolati, in cui viene affermato, expressis verbis, che l’art. 53 Cost. è posto “a tutela dello stesso contribuente” (26). Ed è, certamente, questo il fulcro della questione nel momento in cui la giurisprudenza attribuisce una diretta precettività al principio di capacità contributiva solamente a vantaggio della “parte pubblica” (27) in termini di abuso, di potere illimitato di riqualificazione di atti, fatti, contratti, ecc. Tale marcato squilibrio è, ovviamente, inaccettabile in quanto in contrasto proprio con il fondamento stesso dell’art. 53, ossia con il principio di uguaglianza inteso in senso sostanziale (28). Come infatti osserva autorevole dottrina (29), tale principio, scolpito nell’art. 2 Cost., “richiama istintivamente la
(25) F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità in AA. VV., Diritto tributario e Corte Costituzionale, op. loc. cit., 43. (26) Cfr. Cass. 20 luglio 2018, n. 19381 (27) Si è efficacemente (e condivisibilmente) osservato che “bisogna evitare di cadere nella tentazione di negare o affermare l’efficacia diretta a seconda del punto di vista da cui si vede il 53. Esso pone, indubbiamente, l’obbligo di contribuzione e pone nel contempo il limite…della capacità contributiva. Termine quest’ultimo, che è esso stesso ambivalente perché indica che l’imposizione ci può essere se c’è attitudine alla contribuzione ma, nello stesso tempo, fonda anche un obbligo nel senso che, dove la capacità contributiva c’è, la condizione di appartenenza alla comunità non può giustificare in alcun modo un sottrarsi ad imposizione. Bisogna allora tener presente che l’efficacia diretta incide sui due versanti, se viene negata e/o perlomeno negata e coordinata con il previo intervento del legislatore, questo vale da un lato ma vale anche dall’altro”: cfr. M. Basilavecchia, Efficacia diretta dell’art. 53 Cost. in AA.VV. L’evoluzione del sistema fiscale e l’evoluzione del principio di capacità contributiva, a cura di G. Melis –- L. Salvini, Padova, 2012. 88. (28) Si pone in tale logica, con attente osservazioni sia pur limitate alla fiscalità d’impresa, A. Vignoli, La determinazione differenziale della ricchezza ai fini tributari. Riflessione sulla inerenza nella tassazione attraverso le aziende, Roma, 2012, 8, la quale sembra valorizzare la capacità contributiva sul piano applicativo affermando che “gli atti impositivi devono ispirarsi a valori di giustizia sociale la quale trova la sua più diretta corrispondenza nel fondamentale principio di eguaglianza, secondo cui a situazioni eguali deve corrispondere un pari trattamento e di converso a situazioni differenti deve corrispondere un tratta-mento diverso. E quello dell’uguaglianza rappresenta sicuramente il precetto supremo che sta a fondamento del sistema tributario; il suo rispetto è l’esigenza più importante da tutelare “…se si vuole fare affidamento sulla dedizione e sulla fedeltà del singolo membro della platea contributiva”. (29) G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., 83, nonché Id., Natura e funzione dell’imposta con speciale riguardo al fondamento della sua indisponibilità in AA.
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similitudine della medaglia. Al pari della medaglia, anche l’art. 2 ha il suo retto e il suo verso. Inizia riconoscendo i diritti inviolabili dell’uomo e conclude proclamando i doveri inderogabili. Ma quale è la posizione giusta per leggere l’art. 2, quale il diritto e il rovescio? Bisogna guardarsi dal partito preso evitando di leggere, con paraocchi ideologici, la medaglia dal solo lato dei doveri a scapito dei diritti o viceversa” (30). Il fenomeno della diretta precettività dell’art. 53 va osservato secondo un diverso angolo di visuale, cioè cogliendo le prospettive virtuose che si aprono in seguito all’intervento delle Sezioni Unite in termini di necessarie garanzie, sia sul piano sostanziale, sia su quello procedimentale e degli obblighi formali. Non sono infatti tollerabili schemi attuativi del prelievo fondati su meccanismi che non consentono l’emersione della reale ricchezza tassabile o che rendono eccessivamente difficile la singola ricostruzione dell’effettiva capacità economica: ciò significa, per usare una nota metafora risalente alla Scuola di Pavia, che il tributo deve essere applicato “sull’arrosto” e non “sul fumo” (31). È solo su queste basi che si può prospettare e accettare una sorta di “superiorità assiologica” della prevalenza della sostanza sulla forma di diretta
VV.,, Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, a cura di S. La Rosa, Milano, 2008, 85 ed ID., L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali in AA. VV., Elusione ed abuso del diritto tributario. Orientamenti attuali in materia di elusione ed abuso del diritto ai fini dell’imposizione tributaria, a cura di G. Maisto, Milano, 2009, 21. (30) Su tali profili, proprio con riferimento all’impatto delle sentenze delle Sezioni Unite vd. ancora G. Falsitta, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali in Corr. Giur., 2009, 296 il quale osserva che “nello Stato democratico la imposizione tributaria si sviluppa con una tendenziale parificazione di posizione tra soggetto pubblico e soggetto privato. Il privato ha un dovere inderogabile ma ha altresì un diritto inviolabile, il diritto, si può dire, al rispetto di tutte le limitazioni che la Costituzione ha eretto nei confronti del legislatore ordinario a salvaguardia della “giusta imposta” per proteggerlo da abusi e tirannie. Ciò è scolpito nell’art. 2”. (31) B. Griziotti, Il principio della realtà economica negli artt. 8 e 68 della Legge di registro in Riv. dir. fin. sc. fin., 1939, II, 209. In realtà, tale chiave di lettura è già stata fatta propria dalla Suprema Corte. In talune sentenze ormai datate, rese in sede penale (Cass. pen. 25 gennaio 1992, n. 793) si legge, chiaramente, che “in coerenza con il dettato costituzionale di cui all’art. 53 Cost.”, si rende essenziale “l’indispensabile richiamo al principio di prevalenza della sostanza sulla forma” a cui consegue l’impossibilità di “ipotizzare l’emersione di una redditività solo presunta, in una situazione di comprovata inesistenza materiale della stessa”
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derivazione costituzionale, sia che essa riguardi situazioni fisiologiche, sia, a maggior ragione, patologiche. Se si segue il ragionamento proposto, la conclusione è semplice: l’approccio che, anche sul piano applicativo, predilige la sostanza (in termini di effettività) è conforme al dettato costituzionale, mentre quello “arroccato” sulla forma, a prescindere dal soggetto che trae vantaggio dal formalismo, vi si pone in contrasto. Tale chiave di lettura emerge, con tutta evidenza, da taluni atti dell’Unione europea e, in particolare, dalle linee guida del 2016 per un modello di Codice europeo del contribuente (32) le quali, seppur in termini di soft law, “sintetizzano” i valori che dovrebbero caratterizzare i singoli Stati membri e denotano un ben preciso modo di ragionare. Ciò che è assolutamente significativo, infatti, è che ogni sezione di tale documento (ad esempio, quelle sulla trasparenza, sull’onestà, sugli obblighi di collaborazione, ecc..) è sempre suddivisa, con riferimento ai singoli principi, in una duplice prospettiva: “ciò che i contribuenti possono attendersi” e “ciò che le amministrazioni si attendono”. Sintetizzando, i principi dell’agire amministrativo devono valere in chiave biunivoca, ossia per entrambe le parti del rapporto tributario. Questa impostazione equilibrata e “biunivoca” sembra valorizzata anche dalla Corte Costituzionale (33), laddove, in tempi recenti, ha affermato che “l’annullamento d’ufficio di atti inoppugnabili per vizi sostanziali, cioè che hanno condotto l’amministrazione a percepire somme non dovute, tende infatti a soddisfare ipso jure l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi, che si può considerare una sintesi tra l’interesse fiscale dello Stato-comunità e il principio della capacità contributiva”: inoltre, in tale logica, “l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto acquista specifica valenza e tende in una certa misura a convergere con quello del contribuente”. Al di là del merito della vicenda, il principio espresso a chiare lettere dalla Consulta è di estrema rilevanza: l’interesse pubblico alla corretta riscossione tributaria è garantito solamente dalla sintesi (rectius, dall’equilibrio) tra interesse fiscale e concreta idoneità alla contribuzione. Il fondamentale e innovativo concetto di “sintesi di interessi” denota una rinnovata sensibilità per
(32) Reperibili all’indirizzo https://ec.europa.eu/taxation_customs/business/ tax-cooperation-control/guidelines-model-european-taxpayers-code_en (33) Corte Cost. 13 luglio 2017 n. 181.
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una concezione biunivoca dei rapporti tra fisco e contribuente, i cui interessi dovrebbero convergere e non contrapporsi. La strada è, tuttavia, ancora in salita se si considera che la Suprema Corte utilizza l’iter argomentativo seguito dalla Corte Costituzionale in modo assolutamente “forzato”, affermando, in un solco interpretativo ormai monolitico e censurabile, il seguente principio: il “sindacato giurisdizionale sull’impugnato diniego, espresso o tacito, di procedere ad un annullamento in autotutela può riguardare soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto dell’Amministrazione, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l’esercizio di tale potere, e non la fondatezza della pretesa tributaria, atteso che, altrimenti, si avrebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa o un’inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo” (34). Sfugge, in primo luogo, la ragione per cui non sarebbe di rilevante interesse generale l’annullamento di un atto in palese contrasto con l’art. 53 nel solco, dunque, della massima espansione dei principi e dei valori costituzionali. E ciò che pare ancor più grave è che secondo la Corte (35) “l’interesse a che ciascun cittadino sia soggetto ad una tassazione conforme alla legge e correlata alla propria capacità contributiva è un interesse astratto (coincidente con il ripristino della legalità) laddove invece, per giustificare la doglianza contro il diniego di autotutela occorre che sia dedotto un interesse generale (cioè travalicante quello individuale della parte in causa), concreto e specifico”. È evidente che non si può ignorare l’esigenza di stabilità dei rapporti giuridici salvaguardata dalla disciplina della decadenza e della prescrizione (36) ma, al tempo stesso, è quanto mai singolare che l’ordinamento riconosca (come “vorrebbero” i giudici di legittimità) un interesse a “mantenere in vita” provvedimenti marcatamente illegittimi quando la stessa giurisprudenza, in nome della diretta precettività del principio di capacità contributiva, censura comportamenti non in linea con quest’ultimo.
(34) Cass. 22 febbraio 2019, n. 5332. (35) Cass. 20 febbraio 2019, n. 4937. (36) Nella fattispecie all’esame della citata giurisprudenza costituzionale, la Consulta era chiamata a decidere se la mancanza di un espresso obbligo di “pronuncia” da parte dell’Amministrazione finanziaria sulle istanze di autotutela contrastasse con i precetti costituzionali. La risposta della Corte è stata negativa in quanto il principio della certezza del diritto implica che non possano più essere messi in discussione atti ormai divenuti definitivi a seguito dello scadere dei termini per l’impugnazione dei medesimi.
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Questa giurisprudenza “ad intermittenza” è preoccupante in quanto foriera di gravi incertezze e contribuisce a rafforzare la contrapposizione tra interessi pubblici e privati, i quali – come già detto – dovrebbero invece convergere. Ed è essenziale, contro tali derive in contrasto con l’evoluzione dei valori dell’ordinamento, fare valere, anche sul piano applicativo, proprio le sentenze nella diversa prospettiva dell’effettività e della rilevanza. 3. La trasversalità della prevalenza della sostanza sulla forma: dall’effettività alla rilevanza. – Da un’analisi dell’ordinamento nella propria interezza, emerge un’ulteriore caratteristica del principio in esame che si affianca, integra ed arricchisce il profilo dell’effettività: la prevalenza della sostanza sulla forma, in una logica di ragionevolezza e di bilanciamento tra diversi valori/interessi, diviene un fondamentale parametro per valutare se un determinato comportamento (o uno specifico obbligo giuridico in senso lato) sia, sostanzialmente, utile ed essenziale per salvaguardare l’interesse tutelato dal singolo corpus normativo. Emerge, infatti, un fil rouge tra settori dell’ordinamento apparentemente molto lontani tra loro ma che, in realtà, presentano significativi punti di contatto e, soprattutto, denotano influenze reciproche inequivocabili. Si pensi, in primo luogo, alla nota tematica della cosiddetta amministrazione di risultato (37) la cui più alta espressione è rappresentata dal depotenziamento dei vizi formali del provvedimento (38), nel solco di quella che è stata definita efficacemente in dottrina come la “illegalità utile (39)”. Tale questione, di preminente rilievo nella teoria e nella pratica del diritto amministrativo, è stata affrontata dalla dottrina tributaria soprattutto – per non dire esclusivamente - con riferimento ai vizi dei provvedimenti impositi-
(37) Cioè di quella concezione dell’ordinamento che “suggerisce di valutare l’attività amministrativa in ragione delle conseguenze pratiche che determina nella realtà sociale, piuttosto che sulla base della sua conformità a parametri formali”: così P. Trimarchi, L’invalidità nel pensiero di Antonio Romano Tassone, in Dir. Amm., 2014, 556. (38) In realtà sono moltissime le assonanze con il più generale principio della “conservazione” degli effetti giuridici degli atti solo formalmente viziati che caratterizza il diritto processuale. Sul punto, anche per gli ampi riferimenti bibliografici, v. Tiscini, Prevalenza della sostanza sulla forma e sue recenti applicazioni in Riv. dir. proc., 2018, 465. (39) S. Civitarese Matteucci, La forma presa sul serio. Formalismo pratico, azione amministrativa e illegalità utile, cit. Sui profili dell’invalidità, da ultimo, F. Follieri, Logica del sindacato di legittimità sul provvedimento amministrativo, Padova, 2017.
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vi (40). Al tempo stesso, la giurisprudenza tributaria ha enfatizzato i principi contenuti nella legge 241/1990 giungendo a conclusioni a volte addirittura “ultronee” rispetto al sostanzialismo che caratterizza il novellato art. 21-octies (41): disposizione, quest’ultima, costantemente applicata anche in seno ai procedimenti tributari (42) e che rappresenta, secondo un’opinione diffusa, l’abbandono del formalismo nel procedimento amministrativo (43). Basti pensare alla innovativa giurisprudenza in materia di liquidazione della dichiarazione ex art. 36-bis, D. P.R. 600/1973, ove la Corte ha posto un limite netto ed esplicito tra le “irregolarità gravi” (44) del provvedimento (e, quindi, sanzionabili con l’invalidità dell’iscrizione a ruolo) e quelle “veniali”, o irrilevanti, non comportanti alcuna “sanzione” (45).
(40) Di recente, v. F. Randazzo, In tema di applicabilità dell’art. 21-octies, comma II, Legge n. 241 del 1990 agli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 2018, I, 259, nonché, per una prospettiva di indagine anche in termini processuali, F. Farri, Impugnazione-merito e vizi formali nell’attuale processo tributario, in Riv. dir. trib., 2018, I, 660. (41) Il quale, come è noto, in seguito alle modifiche apportate dalla novella del 2005 dispone che “è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Per una attenta disamina, in chiave critica, di tale norma, G. Mannucci, Il regime dei vizi formali-sostanziali alla prova del diritto europeo in Dir. amm., 2017, 259, a cui si rinvia sia per l’ampio apparato bibliografico, sia per la ricostruzione delle prevalenti teorie; ancora, sempre in chiave critica, F. Saitta, Il principio di giustiziabilità dell’azione amministrativa, in Riv. dir. proc., 2012, 581. Sempre con riferimento ai profili europei delle invalidità v. G. Massari, Il procedimento amministrativo italiano alla luce del diritto europeo, in Riv. it. dir. pubb. Com., 2017, 1499. Sulla distinzione tra le diverse categorie dell’invalidità v., per tutti, A. Police, Annullabilità e annullamento (dir. amm.), in Enc. dir., Annali, I, Milano 2007 (42) Da ultime, tra le tante, Cass., sez. trib.,14 febbraio 2019, n. 4388; Cass., sez. trib., 30 ottobre 2018, n. 27561; Cass., sez. trib., 17 luglio 2018, n. 18987. (43) Per una puntuale ricostruzione del dibattito v. R. Cavallo Perin, La validità dell’atto amministrativo tra legge, principi e pluralità degli ordinamenti giuridici, in Dir. Amm., 2017, 637. Si pone in termini dubitativi auspicando una riflessione nel senso di un ritorno alla “forma”, A. Romeo, Dalla forma al risultato: profili dogmatici ed evolutvivi della decisione amministrativa, in Dir. Amm., 2018, 582. (44) Sul concetto di irregolarità di atti e provvedimenti rimangono fondamentali A. Romano Tassone, Contributo sul tema dell’irregolarità̀ degli atti amministrativi, Torino 1993, nonché, più recentemente, S. Civitarese Matteucci, La forma presa sul serio..., cit., e M. Luciani, l vizio formale nella teoria dell’invalidità amministrativa, Torino, 2003, 289. Per ampie considerazioni sistematiche sulla tematica dell’invalidità e, più in generale, della legittimità/illegittimità dell’azione amministrativa v., di recente, P. Trimarchi, Appunti sulla legittimità in diritto amministrativo: origine, evoluzione e prospettive del concetto, in Dir. Proc. Amm., 2017, 1300 (45) Tra le tante, Cass. 24 gennaio 2018, n. 1711.
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Tali principi assumono un’assoluta centralità in quanto la giurisprudenza, da un lato, sancisce l’invalidità degli atti gravati da vizi caratterizzati da una “non lieve” (rectius, non rilevante) lesione degli interessi del contribuente; dall’altro, sempre secondo un giudizio di effettività e rilevanza, ritiene che solo in base ad una valutazione ex post sia possibile verificare se debba prevalere l’interesse fiscale sulle garanzie statutarie, secondo una logica efficientistica e marcatamente utilitaristica (46). Una perfetta sintesi dell’approccio proposto è costituito da un recente orientamento della Suprema Corte – che conferma, definitivamente, la più volte evocata applicazione biunivoca del principio di effettività, anche in termini di rilevanza – secondo cui “la parte del rapporto tributario, sia essa il contribuente o la pubblica amministrazione, non può lamentare violazioni formali che non abbiano inciso realmente in negativo sulla sua sfera giuridica” (47). Le influenze reciproche tra diritto amministrativo e tributario rappresentano un fenomeno pressoché naturale, ma è importate notare che il più volte evocato “sostanzialismo degli effetti” caratterizza altri settori cruciali: primo fra tutti, il diritto contabile nell’ambito del quale si impone, costantemente, la ricerca di un delicato equlibrio tra esigenze potenzialmente contrapposte (48). È paradigmatico l’art. 2423 c.c. il quale – dopo le modifiche apportate dal D. lgs 139/2015 - recita che “non occorre rispettare gli obblighi in tema di rilevazione, valutazione, presentazione e informativa quando la loro osservanza abbia effetti irrilevanti al fine di dare una rappresentazione veritiera e corretta” (49).
(46) Su tale specifico profilo, e cioè l’innovativo concetto di “utilità”, v. l’attenta analisi di A. Lovisolo, Sulla cosiddetta utilità del previo contraddittorio endoprocedimentale, cit., e A. Colli Vignarelli, Il contraddittorio endoprocedimentale e l’“idea” di una sua “utilità” ai fini dell’invalidità̀ dell’atto impositivo, in Riv. dir. trib., 2017, II, 21. (47) Cass., sez. trib., 9 maggio 2018, n. 11052. Analoghi principi sono stati espressi, a pochi giorni di distanza, da Cass., sez. trib., 11 maggio 2018, n. 11510. (48) È fondamentale notare che il diritto contabile ha una evidente influenza sugli altri rami del diritto dell’impresa inteso in senso ampio, come illustra diffusamente, S. Fortunato, L’evoluzione del diritto contabile in Europa come nuova partizione del sapere giuridico. in Giur. Comm., 2018, 22, che parla di diritto di intersezione nella rappresentazione dell’impresa. (49) Sul quale v., in particolare, S. Fortunato, Gli obiettivi informativi del nuovo bilancio d’esercizio, in Giur. comm., 2017, I, 505; O. Cagnasso, La nuova disciplina del bilancio d’esercizio: i principi generali e i principi di redazione, in Giur. It., 2017, 1243. Su tale principio, prima della sua introduzione nel codice civile, cfr. AA. VV., Il principio di rilevanza nella prassi dei bilanci italiani, a cura di S. Branciari - S. Poli, Torino, 2009.
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Anche in tale ambito, il principio di rilevanza rappresenta, certamente, una diretta espressione di quello della prevalenza della sostanza sulla forma che opera, soprattutto, sul piano della genuinità e delle trasparenza dei rapporti tra diversi portatori di interessi: nel caso del diritto contabile, quello della società, che ha la necessità di non essere chiamata a sostenere costi rilevanti (cioè, eccessivi) per applicare regole che non apporterebbero benefici tangibili alla rappresentazione veritiera e corretta; e, insieme, quello degli stakeholders, che hanno il diritto ad un’informazione completa (50). In una logica giuridica del tutto simile a quella che oggi caratterizza anche il regime dei vizi dell’attività dell’Amministrazione finanziaria (e, più in generale, dei provvedimenti amministrativi), da un lato, le violazioni irrilevanti – in quanto carenti di reale consistenza o meramente formali – non possono condurre all’invalidità delle delibere (anche per la mancanza di interesse all’impugnazione delle medesime) (51) e, dall’altro, le mere irregolarità sono sanabili mediante appositi chiarimenti eventualmente resi in sede di assemblea dei soci (52). Anche l’introduzione di tale nuovo criterio – al pari del depotenziamento dei vizi del provvedimento in ambito amministrativo – denota una trasversale tendenza dell’ordinamento ad evitare l’imposizione di obblighi superflui, se parametrati agli effetti che la “omissione” degli stessi (o la deroga ad uno schema normativo formalmente corretto) può determinare. È immediato il parallelismo con alcuni istituti cardine del diritto tributario (e di altri settori “attigui” in ragione degli interessi pubblici tutelati), che rappresentano un chiaro esempio di un approccio marcatamente sostanzialistico e improntato all’effettività ed alla rilevanza dei comportamenti.
(50) Su tale profilo, e per un’ampia disamina del dibattito teorico e giurisprudenziale, Simone, Il principio di chiarezza e la rilevazione delle irregolarità nella redazione del bilancio d’esercizio, in Giur. Comm., 2009, II, 736, e, più di recente, con riferimento alla giurisprudenza ultima, G. Garesio, La funzione integrativa del principio di chiarezza nella redazione del bilancio d’esercizio, in Giur. Comm., 2018, 83. (51) Cass., sez. civ., 23 marzo 1993, n. 2358; Cass. 2 maggio 2007, n. 10139 Su tali profili cfr., anche con riferimento all’interesse ad impugnare, G. E. Colombo, Illiceità del bilancio per incompletezza informativa in Le società, 1997, 177. (52) Cass. civ. 9 maggio 2008, n. 11554. Sul punto, P. Butturini, La rilevanza dei chiarimenti forniti in assemblea sul bilancio (e alcune questioni correlate), in Contratto e Impresa, 2010, 887
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Il riferimento è, in particolare, sul versante del diritto punitivo, all’irrilevanza delle violazioni formali se prive di concreta offensività (53), nonché all’istituto del lieve inadempimento, in materia di riscossione, oggi espressamente disciplinato dall’art. 15-ter, D. P. R. 602/1973 (54): ma si potrebbe dire, più in generale, a tutte le ipotesi in cui, a fronte della deroga ad un adempimento formale (o alla violazione di un determinato precetto), non si verifica alcuna conseguenza sul piano sostanziale in quanto tale circostanza appare “irrilevante”. D’altro canto, allargando ulteriormente gli “orizzonti” dell’ordinamento, sono straordinarie le assonanze tra il principio di rilevanza e l’apparentemente lontana tematica della tenuità del fatto non punibile nel diritto penale (55). Sempre sul versante penalistico, poi, sono di ulteriore interesse – e confermano quanto sino ad ora sostenuto - le modifiche apportate ai reati di false comunicazioni sociali dalla Legge 4 marzo 2016, n. 69. Infatti, nei novellati artt. 2621 e 2622 c.c. la condotta tipica è proprio quella di esporre od omettere “fatti materiali rilevanti” (56). 4. La “giustiziabilità” della prevalenza della sostanza sulla forma tra (limiti alla) disapplicazione e interpretazione conforme a Costituzione. – Nei paragrafi che precedono si è costantemente enfatizzata la ricerca di un “punto di equilibrio” tra le diverse esigenze degli attori del “rapporto tributario”,
(53) Su tale specifico profilo, F. Montanari, La dimensione multilivello delle sanzioni tributarie e le diverse declinazioni del principio di offensività-proporzione in Riv. dir. trib., 2017, I, 47. (54) Sul quale si rinvia, per approfondimenti, a A. Branca, La nuova tollerabilità del lieve inadempimento. Limiti ed eccessi di una definizione normativa, in Riv. Dir. Trib., 2016, I, 534 il quale valorizza i rapporti con l’art. 131-bis, c.p. (55) Come è noto, mediante l’introduzione dell’art.131-bis, c.p. è stata prevista l’esimente di diritto comune della “particolare tenuità dell’offesa”. Sul punto, G. Cocco, Per un manifesto del neo illuminismo penale, Padova, 2016, 73, nonché, per una completa disamina del contesto in cui è inserita tale disciplina A. Palazzo, Nel dedalo delle riforme recenti e prossime venture (a proposito della Legge 67/2014), in Riv. it. di dir. e proc. pen., 2014, 1693. (56) Su tali tematiche, anche con riferimento ai diversi interventi della giurisprudenza, cfr. C. Cincotti, La rilevanza penale del falso valutativo tra contabilità, valutazioni e stime, in Giur. comm, 2016, II, 1215; A. M. Dell’Osso, Rien ne va plus: le Sezioni Unite confermano la perdurante rilevanza delle valutazioni nei delitti di false comunicazioni sociali, in Giur. Comm., 2016, 1204 e M. Scoletta, La tipicità penale delle false valutazioni nelle comunicazioni sociali alla luce delle Sezioni Unite in Dir. penale e proc., 2017, 35. Per interessanti considerazioni connesse, E. Amati, Il nuovo falso in bilancio quale “eccezionale” veicolo di diritto penale giurisprudenziale in Giur. comm., 2016, II, 472.
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adottando una chiave di lettura dell’ordinamento che predilige la genuinità e la trasparenza. Tuttavia, anche in ragione di una normativa spesso di pessima qualità e improntata a forme e formalismi, la conflittualità tra contribuenti ed Uffici è inevitabile. Il tema diviene, dunque, quello delle “tecniche di attuazione effettiva dei diritti” (57) , e cioè l’individuazione di strumenti adeguati e ragionevoli per dare concretezza e contenuto ai precetti costituzionali, posto che il contribuente, a differenza dell’Amministrazione finanziaria, non è titolare di poteri autoritativi per far valere la diretta precettività delle norme costituzionali. Il punto centrale della questione è che effettività e rilevanza devono essere direttamente opponibili all’Amministrazione finanziaria da parte del contribuente: se, infatti, l’art. 53 Cost. fonda un generale principio di effettività (58) (o di prevalenza della sostanza sulla forma o, ancora meglio, di coincidenza della sostanza con la forma), occorre che tale principio possa essere invocato, direttamente, anche dal contribuente a propria tutela. In questa prospettiva, si aprono diversi scenari e il tradizionale intervento della Consulta, finalizzato a sancire l’incostituzionalità di disposizioni in contrasto con l’art. 53 – secondo lo schema classico del c.d. sindacato accentrato - non pare più soluzione sufficiente in termini di effettività e di concreta “giustiziabilità” (59).
(57) Come si è osservato (G. Fransoni, Giudicato tributario e attività dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2001, 40) “l’effettività sembra essere una qualificazione che attiene e valorizza il profilo oggettivo del diritto. Essa implica…che il diritto alla tutela giurisdizionale debba non solo essere riconosciuto….ma in una direzione ben più pregnante, che esso debba essere conformato in guisa che il suo esercizio sia idoneo a produrre tutti i risultati effettuali cui è preordinata l’attribuzione del diritto stesso”. (58) Per un’ampia ed apprezzabile valorizzazione dei rapporti tra il principio di capacità contributiva e l’effettività, pur con specifico riferimento ai profili reddituali, v. M. Trivellin, Profili sistematici delle perdite su crediti nel reddito d’impresa, Torino, 2017, 212 ss. (59) È, peraltro, nota la “timidezza” con la quale la Consulta affronta le tematiche tributarie (soprattutto quando dalla censura di costituzionalità possono derivare effetti negativi dal punto di vista finanziario) e la connotazione politica di molte pronunce. Come si è osservato (E. De Mita, Introduzione. Una giurisprudenza necessitata in AA. VV., Diritto tributario e Corte Costituzionale, a cura di A. Perrone - C. Berliri, cit., 10, “chi conosce la giurisprudenza costituzionale, anche fuori dal campo tributario, sa che essa è una giurisprudenza realistica, con forti condizionamenti politici. Quella tributaria è forse ancor più necessitata: dalle esigenze di gettito, dalle difficoltà dell’azione di governo e politica in generale”. In argomento, del medesimo autore cfr. Razionalità e fiscalismo nella giurisprudenza costituzionale tributaria in Interesse fiscale e tutela del contribuente – Le garanzie costituzionali, Milano, 2000, 184.
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È, infatti, chiaro che, da sempre, le norme possono essere tacciate di incostituzionalità (e quindi poste al vaglio della Corte Costituzionale, mediante il ben noto incidente di costituzionalità (60)); ma è altrettanto evidente che tale procedimento nasce e si sviluppa in un contesto in cui appariva pacifico che la Costituzione avesse la natura di fonte sulla produzione (e, quindi, nella logica del mero indirizzo e parametro di legittimità). Nel momento in cui, invece, la giurisprudenza applica i principi per la soluzione del caso concreto, passando alla ricerca della “giustizia costituzionale del singolo”, la prospettiva (anche di tutela) non può che mutare radicalmente ed il terreno d’indagine si amplia notevolmente, divenendo fecondo di spunti innovativi. La soluzione più logica e immediata dovrebbe essere la seguente: così come l’art. 53 è, nel pensiero della giurisprudenza, applicabile direttamente, dovrebbero essere nel contempo disapplicabili, in modo altrettanto diretto, le disposizioni che vi si pongono in contrasto: applicazione concreta e disapplicazione dovrebbero, infatti, rappresentare due facce della stessa medaglia, in una logica di equilibrio e di equità. Allo stato del dibattito (61) non è, tuttavia, ipotizzabile – se non aderendo a tesi assolutamente minoritarie (62) – la disapplicazione, tout court, di disposizioni che si pongono in contrasto con l’art. 53 Cost. (63): ciò implicherebbe, infatti, una necessaria apertura verso il cosiddetto sindacato diffuso di costituzionalità che trova limiti insormontabili nell’ordinamento costituzionale. L’approccio limitativo, assolutamente maggioritario e indiscutibile alla luce dell’attuale assetto costituzionale, si basa, in estrema sintesi, da un lato, sull’art. 102 Cost., il quale dispone che il giudice è vincolato dalla legge vigente; e, dall’altro, sull’art. 134 Cost., che attribuisce in via esclusiva alla Corte costituzionale la giurisdizione sulla legittimità delle leggi (64).
(60) Per un’attenta analisi dell’evoluzione, sia della dottrina, sia della giurisprudenza cfr., da ultimo, S. Lieto, Giudizio costituzionale incidentale. Adattamenti, contaminazioni, trasformazioni, Napoli 2018. (61) Per il quale sia consentito rinviare a F. Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma, cit., 214 e ss. (62) Per ampi riferimenti al dibattito, G. Pino, Il costituzionalismo del diritto. Struttura e limiti del costituzionalismo contemporaneo, Bologna, 2017. (63) Sui diversi meccanismi di funzionamento e sulle diverse modalità della disapplicazione cfr., per tutti, C. Pagotto, La disapplicazione della legge, Milano, 2008. (64) Su tali problematiche cfr, in particolare, AA. VV., La forza ragionevole del giurista – Atti della giornata in ricordo di Carlo Mezzanotte, a cura di A. Baldassarre, Padova, 2010.
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In altri termini, ad oggi, l’unico “rimedio” nei confronti di disposizioni che prestano il fianco a possibili conflitti con il disposto costituzionale, è la cosiddetta interpretazione adeguatrice (o conforme a Costituzione), fenomeno che presenta molti punti di contatto con la disapplicazione tout court (65), essendo assai labili e incerti i limiti tra le diverse tecniche interpretative/disapplicative (66): infatti, anche l’interpretazione conforme implica una “rilettura radicalmente innovativa della portata della norma” (67), ma si colloca, comunque, nell’ambito della “normale” interpretazione. 5. Segue: la disapplicazione di atti di fonte secondaria in contrasto con i precetti costituzionali. – Il diritto tributario è, notoriamente, “costellato” da una miriade di norme regolamentari, atti generali di indirizzo e, più in generale, di provvedimenti di rango secondario che sfuggono al sindacato di costituzionalità (68). Tale regolamentazione risulta spesso ben più incisiva rispetto alla normazione primaria rappresentando quella che, quotidianamente, guida i comportamenti dei contribuenti e dei professionisti, ma anche le scelte dell’Amministrazione finanziaria. Le fonti secondarie, generalmente intese (regolamenti, decreti ministeriali, provvedimenti direttoriali, ecc.), oramai si pongono, infatti, in funzione attuativa-integrativa rispetto alla legge e agli atti aventi forza
(65) Come si è evidenziato, infatti, l’interpretazione conforme a Costituzione ha “contribuito ad un avvicinamento del nostro sistema di giustizia costituzionale al sindacato diffuso di origine nord-americana”. F. Silvestri, I problemi della giustizia italiana tra passato e presente, in Dir. pub., 2003., 345. (66) Osserva efficacemente A. Riccio, La giurisprudenza fonte del diritto, in Contratto e impresa, 2017, 862-863 che “assistiamo ad un vero e proprio sindacato diffuso dei giudici comuni sulle leggi, con evidenti creazioni di nuove norme di diritto. La diretta utilizzazione della Costituzione da parte dei Giudici comuni consente a questi ultimi di effettuare, senza la necessaria intermediazione del Giudice delle leggi, la doverosa interpretazione conforme, adeguatrice e costituzionalmente orientata tenendo sempre conto del diritto vivente”. (67) V. Onida, L’attuazione della Costituzione fra magistratura e Corte costituzionale, in Scritti Mortati, IV, Milano, 1977, 537. Sul punto, da ultimo, R. Bin, L’interpretazione conforme: due o tre cose che so di lei, in Rivista AIC, n. 1/2015. (68) Per un’ampia ricostruzione di tale dibattito, soprattutto con riferimento alle diverse categorie di atti, E. Furno, La disapplicazione dei regolamenti alla luce dei più recenti sviluppi dottrinari e giurisprudenziali, in Federalismi.it, 27 novembre 2017. Invece, si ritiene comunemente che non possano essere disapplicati gli atti anche di carattere regolamentare che vengono emanati dal governo in attuazione di una Legge delega, a prescindere dalla forma che essi assumono.
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di legge (69): in altri termini, tali atti “hanno introdotto disposizioni non solo meramente esecutive, ma anche integrative-innovative dell’assetto risultante dalla legislazione” (70). Esclusa, dunque, la possibilità di “affidarsi” al sindacato diffuso di costituzionalità con riferimento alla normativa primaria, rimane ora da analizzare la possibilità di disapplicare la legislazione secondaria che si pone in contrasto con l’art. 53 Cost. declinato in termini di effettività e rilevanza. In buona sostanza, si tratta di verificare l’utilità del tradizionale istituto della disapplicazione letto, quest’ultimo, nel prisma della prevalenza della sostanza sulla forma intesa come strumento per identificare la ricchezza effettiva da assoggettare a tassazione, superando obblighi, formalità e meccanismi presuntivi che spesso ostacolano l’emersione della concreta capacità contributiva individuale (o che “sanzionano” condotte prive di rilevanza). Nel diritto tributario la disapplicazione trova, notoriamente, espressa menzione all’art. 7, comma 5, D. lgs. 546/1992, secondo cui “le Commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, salva l’eventuale impugnazione nella diversa sede competente” (71). Sul piano sistematico, l’attuale ruolo delle Commissioni tributarie ha come antecedente storico e punto di riferimento l’art. 5, legge 20 marzo 1865 n. 2248 All. E (più nota come legge sul contenzioso amministrativo) (72), il quale riconosce al giudice ordinario il potere di disapplicazione dell’atto amministrativo invalido (73).
(69) Per ampie considerazioni, anche sulla casistica applicativa, V. Nucera, I provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate ed i confini della normatività. in Riv. dir. trib., 2011, I, 961. (70) V. Nucera, op. loc. cit., 965. (71) Sul quale G. Fransoni, La disapplicazione dei regolamenti e degli atti generali, in AA.VV., Il processo tributario, Giur. sist. dir. trib., a cura di F. Tesauro, Torino, 1998, 119; A. Comelli, Art. 7, D.Lgs.546/92, AA. VV., Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di C. Consolo - C. Glendi, III ed., Padova, 2012,109; R. Alfano, Il potere di disapplicazione del giudice nel processo tributario in Rass. Trib., 2007, 830. (72) Sui rapporti tra la disapplicazione nel diritto amministrativo e in quello tributario, da ultimo, P. Pozzani, Premesse per uno studio sulla pregiudizialità amministrativa, in Dir. Amm., 2016, 365. (73) In argomento, F. Cintioli, Potere regolamentare e sindacato giurisdizionale. Disapplicazione e ragionevolezza nel processo amministrativo sui regolamenti, 2^ ed., Torino 2007; Id., voce Disapplicazione (dir. amm.), in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2010, 292; Id, La disapplicazione, in AA. VV. Codice della giustizia amministrativa,, a cura di F. Morbidelli,
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La possibilità di disapplicare regolamenti e atti amministrativi generali, poiché in contrasto con la Costituzione, costituisce territorio per molti versi inesplorato, in quanto, tradizionalmente, la disapplicazione “interviene” nell’ambito del rapporto gerarchico tra le norme ordinarie e quelle secondarie, e non in quello intercorrente tra queste ultime e i principi costituzionali. Tuttavia, nel momento in cui la Suprema Corte applica direttamente l’art. 53 come strumento di regolamentazione dei rapporti giuridici, ossia come regola del caso (74), deve riconoscersi la possibilità al giudice di disapplicare gli atti amministrativi generali e regolamentari che conducono a situazioni che vi si pongono in contrasto: tale conclusione dovrebbe essere indiscutibile, in quanto “più si scende nella gerarchia delle fonti, più le norme sono disapplicabili” (75) (e, certamente, è “impari” il confronto tra norme regolamentari e principi costituzionali). La casistica applicativa (76) mostra un utilizzo sporadico dell’istituto limitato alla fiscalità locale, alle liti catastali e ad alcuni strumenti presuntivi – nel solco del classico “schema disapplicativo” fondato sull’illegittimità delle norme secondarie rispetto a quelle di rango superiore, senza riguardare, espressamente, la diretta applicazione dei precetti costituzionali. Solamente in un caso, a quanto consta – e con una motivazione totalmente in linea con quanto qui si sostiene – i giudici di merito hanno espressamente disapplicato i decreti istitutivi del cosiddetto redditometro in quanto pareva “evidente l’incongruenza della spesa prevista dall’Agenzia attraverso il meccanismo di calcolo del redditometro, rispetto a quella reale, effettivamente sostenuta e dimostrata”: infatti, la previsione “di indici di capacità contributiva del D.M. 10 settembre 1992, pedissequamente adottati, conduce a risultati di redditività presunta abnormi, e, come in motivazione argomentato, illegittimi, che implicano la disapplicazione del DM” (77). In tale encomiabile sentenza, passata pressoché inosservata, ancorché di grande spessore giuridico, i giudici di merito – partendo proprio dalla giurisprudenza della Suprema Corte in materia di abuso del diritto (applicata, dunque, in chiave biunivoca) –hanno affermato che “i decreti ministeriali di che
III ed., Milano, 2015, 1428. (74) R. Bin, La Costituzione tra testo e applicazione, cit., 114 (75) V. Italia, La disapplicazione delle leggi, Milano, 2012, 26. (76) Sulla quale, da ultimo, A. Comelli, Art. 7, D.Lgs.546/92, cit., 109. (77) Comm. Trib. Reg. di Trieste, sez. XI, 2 marzo 2015, n. 83.
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trattasi vanno disapplicati, per effetto della applicazione diretta degli artt. 2 e 3 e art. 53 della Costituzione”. Invero, anche la Suprema Corte pone in essere delle vere e proprie disapplicazioni, sotto le “mentite spoglie” dei metodi interpretativi: è emblematico il caso del c.d. credito d’imposta per incentivi alla ricerca scientifica previsto dalla legge 27 dicembre 1997 n. 449 (78). La questione riguarda la mancata indicazione di detto credito nel quadro RU della dichiarazione relativa al periodo d’imposta di riferimento, omissione che impedirebbe al contribuente l’utilizzazione del medesimo in sede di compensazione, in forza di quanto previsto nel D. M. 22 luglio 1998, n. 275, che ha introdotto talune decadenze non previste nel corpus normativo della L. 449/1997: tale regolamento ha stabilito infatti che “il credito di imposta è indicato, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta nel corso del quale il beneficio è concesso”, introducendo dei vincoli formali dalla valenza marcatamente sostanziale. Sebbene la giurisprudenza maggioritaria (79) ritenga del tutto insuperabile la decadenza prevista dal regolamento, è noto un orientamento ben più equilibrato ed improntato a criteri di effettività e rilevanza a mente del quale il menzionato credito d’imposta “può essere opposto dal contribuente in sede giudiziaria anche qualora egli sia incorso nella decadenza di cui al D.M. n. 275 del 1998, art. 6 per non aver indicato il credito nella pertinente dichiarazione dei redditi o in una tempestiva dichiarazione integrativa, sempre che in giudizio i requisiti sostanziali del credito d’imposta siano provati dal contribuente o incontestati dal fisco” (80). In tale caso – al di là del fatto che fosse stata eccepita dalla difesa del contribuente, come si legge nel corpo della sentenza, la violazione e/o falsa applicazione del D. M. 275/1998 – è stata surrettiziamente posta in essere una vera e propria disapplicazione del citato regolamento, e non una mera interpretazione, la quale avrebbe condotto ad una soluzione in senso diametralmente opposto: la questione è stata, infatti, risolta dalla Suprema Corte,
(78) Sul punto v. le considerazioni di A. M. Gaffuri, Il credito d’imposta per ricerca e sviluppo e i connessi obblighi dichiarativi, in Dir. prat. trib., 2018, I, 559 e di A. Renda, Emendabilità della dichiarazione, opzioni e agevolazioni tributarie. Il legislatore supera l’orientamento restrittivo della Cassazione?, in Dir. prat. Trib., 2018, I, 183. (79) Da ultimo Cass., sez. trib., 24 aprile 2018, n. 10029. Conformi, Cass., sez. trib. 12 gennaio 2018, n. 619; Cass., sez. trib., 15 dicembre 2017, n. 30172. (80) Cass., sez. trib., 21 dicembre 2016, n. 26550
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non dichiarando l’illegittimità del provvedimento in per contrasto con citato decreto, ma come se quest’ultimo fosse tamquam non esset. È, d’altro canto, palese che il D.M. 275/1998 non consente diverse interpretazioni: o il regolamento viene disapplicato (e, dunque, nel caso di specie, eliminato come antecedente logico della decisione stessa), oppure deve trovare applicazione il termine decadenziale. Una terza via, in chiave interpretativa, non è percorribile in quanto il testo del decreto non ammette forzature di sorta. È, dunque, evidente che, anche senza spingersi fino a sostenere un sindacato diffuso di costituzionalità, sono notevoli gli spazi di tutela offerti dall’ordinamento, ma, a quanto consta, vi è ancora poca consapevolezza circa le opportunità offerte dalla disapplicazione. 6. La prevalenza della sostanza sulla forma come criterio di bilanciamento di interessi tra attuazione e disciplina sostanziale. – Per sgombrare il campo da possibili equivoci, giova precisare che l’approccio seguito nel presente lavoro non è caratterizzato da una visione ideologica “ultragarantistica” delle ragioni del contribuente. Prendendo le mosse dal profilo dell’attuazione, è, infatti, evidente che il legislatore è obbligato a disciplinare una serie di obblighi di natura formale, contabile e documentale, il rispetto dei quali è assolutamente essenziale per la “sopravvivenza” dello Stato-ordinamento, cioè per dare ordine ad un apparato complesso ed ontologicamente articolato. D’altro canto, in un sistema tributario fondato sull’autoliquidazione dei tributi e, al tempo stesso, su di un’attività di accertamento eventuale (per non dire meramente casuale e ipotetica), l’Amministrazione finanziaria deve avvalersi di “modelli di comportamento” standardizzati, procedure rigide e connotate da vincoli applicativi, modelli dichiarativi uniformi e digitalizzati, ecc. Il punto è che l’adempimento (inteso in senso lato) deve cedere il passo alla “sostanza” nel momento in cui esso pregiudica, in concreto, principi costituzionali ritenuti direttamente precettivi (81).
(81) Va valorizzato, in via interpretativa, anche “il superamento del rigido formalismo che condiziona gli adempimenti dei contribuenti, gli obblighi dichiarativi e strumentali, la modulistica, ecc..; su tali basi va fondato il rifiuto di interpretazioni formalistiche ed il doveroso rispetto dei comportamenti sostanzialmente corretti dei contribuenti, in ossequio alla concezione sostanzialistica della capacità contributiva, che ne richiede la salvaguardia in termini di risultato utile ed effettività”. L. Del Federico, L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva: verso l’amministrazione di risultato, in Riv. trim. dir. trib., 2013, I 886.
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In buona sostanza – e per utilizzare un esempio tratto della quotidianità – così come non è tollerabile che il contribuente possa presentare la dichiarazione annuale senza avvalersi dei mezzi telematici e delle modalità standardizzate predisposte dall’Agenzia, al tempo stesso deve essere garantita la tassazione di una ricchezza effettiva la quale non può dipendere dai menzionati adempimenti e da eventuali mere irregolarità, spesso irrilevanti. Lo stesso potrebbe dirsi nelle ipotesi in cui, sempre a titolo esemplificativo, venisse negato un rimborso in ragione della mera “omessa barratura” di apposite caselle in sede dichiarativa. E tali considerazioni assumono una valenza ancor più risolutiva sul piano sanzionatorio dove, pur essendo espressamente codificata la distinzione tra violazioni formali e violazioni “offensive”, il metodo che qui si propone consente di evitare automatismi applicativi, sempre alla luce della effettività e della rilevanza. In tale prospettiva, il principio di prevalenza della sostanza sulla forma dovrebbe esprimere le proprie massime potenzialità come criterio di bilanciamento e, in particolare, di gradazione tra i diversi interessi in gioco: quelli primari (e prevalenti) del sistema, e quelli secondari che caratterizzano i singoli adempimenti, i quali vanno comunque interpretati nel prisma della già citata amministrazione di risultato (82). È assolutamente centrale, in altre parole, l’adozione di criteri applicativi che, come già visto anche nell’ambito di altri settori dell’ordinamento, valorizzino la rilevanza sostanziale dei comportamenti e, al tempo stesso, svalutino fortemente quelli superflui in quanto irrilevanti sul piano concreto (83) (vd. retro § 3).
(82) Osserva, in tale prospettiva, L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europa, Milano, 2010, 86, che occorre “superare l’opprimente cappa della bieca ragion fiscale, affiancando al primario interesse fiscale ex art. 53 Cost. – concepito come interesse alla percezione dei tributi, pronta e perequata alla capacità contributiva, mediante l’esatto funzionamento del sistema tributario considerato globalmente – gli altri interessi pubblici secondari e gli interessi dei privati, variegatamente coinvolti nell’esercizio dell’azione impositiva, ed il tutto non solo nella ponderazione normativa dei valori, ma anche nella ponderazione amministrativa che caratterizza profili sempre più significativi della fiscalità”. (83) Come si è, infatti, osservato, “per determinare la capacità economica si devono contemperare precisione, semplicità̀ , certezza delle regole, stabilità dei rapporti, cautela contro possibili evasioni, effettività̀ dei controlli; sono esigenze in parte confliggenti, a proposito delle più̀ diverse forme di capacità economica, in relazione alla rispettiva visibilità̀ ”: cfr. A. Vignoli, La determinazione differenziale della ricchezza ai fini tributari. Riflessione sulla inerenza nella tassazione attraverso le aziende, cit., 47
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Occorre, peraltro, sottolineare che la giurisprudenza si muove, in taluni casi, nella direzione corretta. Nella casistica recente (84), i giudici di legittimità superano i formalismi ed interpretano gli obblighi dichiarativi identificando nei principi costituzionali la stella polare da seguire (85). D’altro canto, le Sezioni Unite (86) – a conferma di quanto qui si sostiene – ha affermato, a chiare lettere, che “l’amministrazione finanziaria non può pretendere la restituzione di somme per ragioni di pura forma senza addurre rilievi sulla loro effettiva spettanza”. Come detto, ciò non significa che il contribuente sia libero di agire come meglio crede, senza vincoli decadenziali, formali e procedurali: l’importante è che tali vincoli non siano, nel caso specifico, talmente stringenti da pregiudicare l’emersione della giusta imposizione e, quindi, da far prevalere la forma sulla sostanza. Nel momento in cui l’apparato formale – che risponde, comunque, a finalità meritevoli di tutela – si pone in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento tributario, si crea un “cortocircuito” al quale occorre porre rimedio. Infatti, tutti i fondamentali obblighi strumentali alla determinazione della pretesa (dichiarativi, contabili, ecc..) devono essere funzionali alla rappresentazione e prova di fatti, ma non possono mai creare obblighi e diritti/doveri sostanziali (87). D’altro canto, la stessa Suprema Corte ha chiaramente stabilito che “gli obblighi contabili” (ma lo stesso deve valere per qualunque obbligo documentale) devono essere interpretati “secondo canoni di unicità e organicità del sistema contabile d’impresa” ed alla luce del “principio di effettività del soddisfacimento degli obblighi fiscali sostanziali” (88).
(84) Osserva la Corte che “secondo gli artt. 3 e 53 Cost., la capacità contributiva (quale concretamente individuata, per ciascuna imposta, dal legislatore ordinario, con scelte il giudizio relativo alle quali è rimesso alla corte delle leggi non irrazionali) deve costituire l’unico parametro di riferimento effettivo: il suo senso concreto, quindi, impone di escludere qualsiasi interpretazione da cui possa derivare la soggezione del contribuente ad un prelievo fiscale maggiore o minore di (comunque diverso da) quello effettivamente voluto dal legislatore”. Da ultimo, Cass., sez. trib., 8 giugno 2018, n. 14989; Cass., sez. trib. 28 marzo 2018, n. 7652. (85) Analoghi principi sono stati recentemente esplicitati con riferimento alla possibilità di modificare la dichiarazione di successione anche dopo la scadenza dei termini per la sua presentazione. Cass., sez. trib., 30 maggio 2018, n. 13595 (86) Cass. SS. UU. 8 settembre 2016, n. 17757, sulla quale S. De Marco, La disciplina del riporto delle perdite fiscali tra loss carry back e art. 53 Cost, in Dir. prat. trib., 2018, I, 1057; (87) Su tali profili , C. Pino, Sulla ritrattabilità delle scritture contabili ai fini delle imposte dirette in AA. VV., Studi in onore di Enrico De Mita, cit., 711. (88) Cass., sez. trib., 4 aprile 2014, n. 7978 in Corr. Trib., 2014, 1695, con nota di A.
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Tale conclusione potrebbe e dovrebbe apparire un’ovvietà, ma in realtà, essa rappresenta una (ancora parziale) conquista recente e sono molte le zone grigie che necessitano un mutamento radicale di prospettiva. È, dunque, in tale ambito che dovrebbe “svelare” tutta la propria forza la disapplicazione, in quanto, in molti casi, la disciplina di attuazione del tributo è affidata a fonti di natura regolamentari che, nel singolo caso concreto, potrebbero determinare delle insanabili “frizioni” con la effettività e la rilevanza. Il giudice tributario, senza “alterare” l’equilibrio di una normativa astrattamente legittima (89), può risolvere la questione considerando l’atto regolamentare tamquam non esset. È, infatti, opinione diffusa che tale istituto abbia la funzione di riequilibrare le esigenze di certezza dell’azione amministrativa con quelle di effettività della tutela, in quanto il provvedimento non viene annullato o revocato, ma solo privato di effetti in relazione al caso concreto. Sul piano del diritto sostanziale, il problema è parzialmente diverso e maggiormente complesso in quanto, pacificamente, il legislatore ha un’ampia discrezionalità nell’individuazione degli indici di capacità contributiva ritenuti rilevanti, così come delle modalità di determinazione e quantificazione della base imponibile, dei criteri per l’imputazione a periodo delle componenti reddituali, delle limitazioni alla deducibilità di componenti negativi ed oneri in genere, ecc. Tuttavia, pur essendo le forfettizzazioni, le determinazioni parametriche e convenzionali del reddito, ecc., pressoché necessarie nell’ambito della fiscalità di massa e dell’autoliquidazione, ciò non significa che esse possano essere accettate, tout court, e che non sia necessaria una ponderazione di interessi (90), sempre nel rispetto della diretta precettività del principio di capaci-
Marcheselli, Omessa risposta ai questionari: la sanzione della preclusione probatoria deve essere giustificata e proporzionata. (89) Si è, infatti, efficacemente evidenziato che la mancanza di effetti erga omnes “non crea perturbazioni nel diritto obiettivo, non sconvolge situazioni soggettive dei terzi, non genera problemi collegati alla pubblicazione della sentenza che, invece, è necessaria quando viene dichiarata l’illegittimità della norma”: in quest’ottica si può pensare che la disapplicazione “riesca a soddisfare il bisogno di tutela del singolo con un minor numero di problemi di tipo applicativo”: G. Cocozza, Il ruolo dell’interesse nel sindacato del giudice amministrativo sui regolamenti in Dir. proc. amm., 2015, 111. Sul punto cfr., per le diverse ed autorevoli posizioni teoriche, AA. VV. Impugnazione e “disapplicazione” dei regolamenti, Torino, 1997. (90) Sulle tematiche in questione vd. per tutti, sul piano sistematico, diffusamente, L. Tosi, Le Predeterminazioni normative nell’imposizione reddituali: contributo alla trattazione sistematica dell’imposizione su basi forfettarie, Milano, 1999, 89 ss.
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tà contributiva che, come dovrebbe apparire ormai chiaro, rappresenta anche uno strumento di tutela del singolo. Soprattutto, occorre una netta distinzione tra profili sostanziali, procedimentali e probatori la “sovrapposizione” dei quali può generare soluzioni in netto contrasto con la tassazione di una ricchezza effettiva. In tale solco interpretativo, non sono tollerabili regimi di carattere meramente presuntivo che non ammettano deroghe, nonché, sul piano strettamente probatorio, la possibilità di fornire la prova contraria rispetto alla predeterminazione normativa. Tale fenomeno genera un evidente contrasto con il principio di capacità contributiva in quanto – come osserva la dottrina più autorevole – “è evidente come non esista un interesse del fisco alla riscossione di contribuzioni, ossia di imposte, in assenza degli indici di riparto forniti dei caratteri codificati dalla Costituzione negli artt. 2, 3 e 53” (91). Anche qui la stella polare deve essere quella della ricerca della singola capacità contributiva individuale, che non può soccombere a fronte di esigenze di carattere prettamente amministrativo (come, ad esempio, la semplificazione nei controlli, piuttosto che l’impossibilità di determinare, analiticamente, la ricchezza di ogni singolo contribuente). La casistica applicativa è ampia e complessa. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, al monolitico indirizzo interpretativo della Suprema Corte che attribuisce alla mancata cancellazione del contribuente dall’anagrafe italiana il ruolo di presunzione assoluta di residenza, anche nel caso di inequivocabile trasferimento all’estero (92). Sul punto sarebbe stato sufficiente invocare la prevalenza della sostanza sulla forma per superare qualunque equivoco interpretativo relativo all’art. 2 del TUIR, il quale non contiene, invero, alcuna espressa “presunzione di residenza”, ma solamente alcuni criteri – formali, sostanziali e temporali – per individuare quest’ultima. È, ancora, significativo il caso del regime impositivo degli immobili che formano oggetto di contratto di locazione contenuta nell’art. 26 del TUIR, secondo cui il locatore è, formalmente, tenuto ad adempiere all’obbligazione tributaria nonostante il (sostanziale ed indiscutibile) mancato pagamento del canone da parte del conduttore. Tali disposizioni – opportunamente modificate da un recente intervento normativo, il quale avrà, tuttavia, effetto con riferi-
(91) G. Falsitta, Profili della tutela costituzionale della giustizia tributaria in AA. VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., 105. (92) Sul punto vd. F. Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma, cit., 327.
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mento ai contratti di locazione stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2020 (93) – prevede che, nonostante la “non percezione” di quanto pattuito, il proprietario dell’immobile non è esonerato dal pagamento del tributo fino al “momento della conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore”. È ovvio che, se il conduttore si sottrae al pagamento di quanto contrattualmente dovuto (o adempie al contratto in misura inferiore rispetto al canone pattuito), il mancato assolvimento del tributo sul “non percepito” non può arrecare alcun danno erariale: conseguentemente, non si pone alcun trade off tra le diverse “facce” dell’interesse fiscale, proprio perché non dovrebbe sussistere alcun “interesse alla tassazione” di ricchezze evidentemente inesistenti o, nella sostanza, inferiori al canone effettivamente percepito. In tale ipotesi, come in tanti altri casi ancora, sarebbe stata sufficiente un’interpretazione costituzionalmente orientata per superare la problematica: il principio di prevalenza della sostanza sulla forma, declinato in termini di effettività, impone che al mancato pagamento del canone di locazione non possa corrispondere alcuna tassazione in capo al locatore. Anche in tale ambito, infatti, il problema nasce dalla commistione tra profili probatori e sostanziali e sull’impatto delle rigidità relative ai primi sui secondi. In tutte le ipotesi in cui, invece, non vi siano spazi interpretativi, in quanto le disposizioni sono inequivocabili (94), non resta che affidarsi al sindacato di costituzionalità, con tutti i limiti che caratterizzano tale rimedio e, soprattutto, con il rischio che anche normative palesemente contrastanti con i precetti
(93) Il novellato art. 26 (modificato dal recente artt. 3-quinquies, comma 1, D.L. 30 aprile 2019, n. 34, conv. con mod. dalla L. 28 giugno 2019, n. 58) prevede, infatti, che “i redditi derivanti da contratti di locazione di immobili ad uso abitativo, se non percepiti, non concorrono a formare il reddito, purché la mancata percezione sia comprovata dall’intimazione di sfratto per morosità o dall’ingiunzione di pagamento”. (94) Si è autorevolmente evidenziato (M. Luciani, Le funzioni sistemiche della Corte costituzionale, oggi, e l’interpretazione conforme a Costituzione, in Federalismi, 8 agosto 2007, 7), che non è possibile “leggere nella disposizione quello che non c’è, anche quando la Costituzione vorrebbe che vi fosse”.
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costituzionali (95) rimangano “in vita” per lungo tempo (96). Ciò desta non poche preoccupazioni, in quanto – come si è efficacemente osservato – “la disposizione contraria a Costituzione è un esempio di regola inefficiente perché capace di sollevare il più alto tasso di resistenza da parte degli operatori che sia dato immaginare” e, quindi, “l’accordo che l’ha prodotta non può aspirare alla protezione dell’ordinamento e il processo di espulsione è causa di costi che sono a esclusivo carico della collettività (97)”. È, infatti, chiaro che il grado di tutela e garanzia offerto dai diversi strumenti e rimedi (disapplicazione, interpretazione conforme e incidente di costituzionalità), è radicalmente diverso sotto molteplici profili (tempistica, efficacia, ecc.). Il che può avere un enorme impatto, anche in termini di percezione di una palese “ingiustizia” da parte del contribuente il quale, più che in altri settori in cui prevale il “momento giurisdizionale”, è chiamato ad applicare quotidianamente la magmatica e spesso illogica/irrazionale normativa tributaria sulla base delle indicazioni forniti dagli Uffici stessi. Com’è stato evidenziato, “il giudice non è l’istituzione tipicamente preposta a svolgere in via ordinaria il compito di determinare il tributo. Quest’impostazione dimentica che alla determinazione tributaristica della ricchezza sono storicamente pre-
(95) Volendo estremizzare, si pensi ad un ipotetico prelievo confiscatorio in palese spregio del c.d. minimo vitale, sul quale vi è assoluta concordanza, in dottrina ed in giurisprudenza, circa la sua illegittimità costituzionale. È chiaro che, aderendo alla tesi maggioritaria e, oggi, necessariamente “limitativa” della disapplicazione, laddove non fosse possibile un’interpretazione adeguatrice, il prelievo - sostanzialmente contra legem - sarebbe, formalmente, pienamene legittimo, nonché valido ed efficace fino ad un espresso pronunciamento della Consulta (senza la possibilità di alcun intervento diretto da parte del giudice tributario, con tutte le conseguenze drammatiche che ne possono discendere). Sul punto cfr., per tutti, G. Bergonzini, I limiti costituzionali quantitativi dell’imposizione fiscale, Napoli, 2011, 41 e ss.gg; A. Fedele, Ancora sulla nozione di capacità contributiva nella costituzione italiana e sui limiti costituzionali all’imposizione in AA. VV., L’evoluzione del sistema fiscale e l’evoluzione del principio di capacità contributiva, cit., 15; A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario. Parte seconda. Tra favore e limite del sistema, Torino, 2015, 474 ss.; A. Giovannini, Il limite quantitativo all’imposizione nel principio costituzionale di progressività in Rass. Trib., 2015, 1340. (96) Nell’ordinamento italiano, infatti, come si è autorevolmente osservato, la disapplicazione, tout court, non è tollerata anche nel caso del superamento di “una soglia estrema di ingiustizia, quando da una legge sia violato un diritto dell’uomo in modo evidente e intollerabile da ogni punto di vista etico-razionale”. L. Mengoni, La questione del “diritto giusto” nella società post-liberale, Scritti, I, Milano, 2011, 61 (97) G. Ragucci, L’etica del legislatore tributario e la certezza del diritto in Riv. trim dir. trib., 2016, I,., 459.
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posti altri uffici pubblici e che anche il diritto tributario appartiene alla vasta categoria del diritto non giurisdizionale” (98). 7. Conclusioni. – La prevalenza della sostanza sulla forma, declinata in termini di effettività e di rilevanza, rappresenta un principio di “civiltà giuridica” che dovrebbe trovare ampio riconoscimento in tutti gli ambiti del diritto tributario. Esso, infatti, da un lato, deve essere visto come un fondamentale strumento per evitare derive di giurisprudenza e di prassi nell’unica direzione della salvaguardia dell’interesse fiscale, e, dall’altro, può contribuire ad accrescere la credibilità dell’ordinamento nel solco della “vera” giustizia costituzionale. È solo in tale prospettiva che è possibile attribuire alla prevalenza della sostanza sulla forma una sorta di superiorità assiologica e la valenza di principio generale: esso rappresenta, infatti, una chiave di lettura delle disposizioni tributarie nel prisma dei principi fondamentali dell’ordinamento (e, in particolare, di quello di capacità contributiva). Sul piano degli strumenti per dare concreta ed effettiva attuazione a tale nuovo “modello” di Costituzione, quale fonte di regolamentazione diretta dei rapporti, è chiaro che la disapplicazione di disposizioni che si pongono in contrasto con i principi di effettività e rilevanza non dovrebbe “sconvolgere”: anzi, ciò determinerebbe un enorme salto di qualità in termini di tutela e di considerazione “a tutto tondo” dei valori e potrebbe, altresì, limitare il rischio, per quanto remoto, di “derive politiche” e “finalistiche” della Consulta. Ciò, in specie, per ristabilire quel delicato equilibrio e bilanciamento (99) tra rigore e garanzia che è imprescindibile se si vuole davvero esaltare la prevalenza della sostanza sulla forma in termini di genuinità dei rapporti tra Stato e consociati (100) e di emersione della ricchezza effettiva in chiave biunivoca.
(98) R. Lupi, Delega ancora lontana dal contenzioso amministrativo, in Dialoghi Trib., 2015, 209. (99) Su tale tematica, v. il saggio di A. Cerri, Spunti e riflessioni sulla ragionevolezza nel diritto in Dir. pubb., 2016, 625 e il contributo monografico di A. Morrone, Il bilanciamento nello Stato costituzionale. Teoria e prassi nelle tecniche di giudizio nei conflitti tra diritti e interessi costituzionali, Torino, 2014; Per ampie e connesse considerazioni, Id., Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001. (100) Osserva M. Basilavecchia, Efficacia diretta dell’art. 53, cit., 87 che “il momento è quello che è, è un momento in cui il contrasto all’evasione è particolarmente sentito, direi, forse, anche enfatizzato. Quindi, in questa logica di forte esigenza di contrasto all’evasione, il bilanciamento con le garanzie, con le corrette procedure di individuazione di chi effettivamente
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In altri termini, mal si comprende la ragione per cui, da un lato, dovrebbe essere tollerata una clamorosa dilatazione dei principi costituzionali fino al limite estremo della creazione di apposite figure che nascono e si autoalimentano nella Costituzione; ma, dall’altro, e al tempo stesso, nonostante un’ormai pacifica ed acclarata applicabilità diretta dell’art. 53 alla singola fattispecie, non dovrebbe essere giustificata la disapplicazione di norme con esso palesemente contrastanti. È, infatti, chiaro che risulta quanto mai anacronistico e irrazionale non consentire anche la “disapplicazione diretta”, non essendo accettabile il formalismo a senso unico e il sostanzialismo “a chiamata” proerario. Come si è visto, i margini di tutela e di intervento sono notevoli, sia in termini di interpretazione conforme a Costituzione, sia di disapplicazione di atti generali e regolamenti che si pongano in contrasto con un approccio sostanzialistico in linea con i criteri di effettività e rilevanza. Sarebbe di fondamentale importanza, inoltre, che la ricerca di soluzioni innovative, conformi alla prevalenza della sostanza sulla forma, partisse “dal basso” e che tali soluzioni fossero fatte valere, sia in sede procedimentale, sia innanzi alle Commissioni tributarie. Ciò anche in virtù del fatto che nel diritto tributario il momento “giurisdizionale” è assolutamente marginale rispetto all’applicazione quotidiana, da parte di Uffici finanziari, professionisti e contribuenti, di norme spesso complesse e tecnicamente “evolute” che presuppongono una compiuta definizione dei comportamenti dai quali discendono conseguenze giuridiche (in termini di obblighi strumentali e dichiarativi, sanzioni, divieti, ecc..) (101) e una costante “auto qualificazione”, a monte, di atti, contratti ed operazioni in genere. Se i segnali che giungono dalla giurisprudenza sono parzialmente positivi, non è altrettanto incoraggiante il modus operandi degli Uffici. Stupisce, infatti, negativamente, l’enorme mole di sentenze relative alla violazione di obblighi formali e dichiarativi, sia dal punto di vista sostanziale, sia in ambito prettamente punitivo. Ciò significa che l’Amministrazione finanziaria non ha ancora la piena consapevolezza del proprio ruolo di garante di interessi generali non necessariamente contrapposti (ma che, anzi, per usare le
i sottrae all’obbligo di contribuzione, sembra un argomento assolutamente centrale”. (101) Sul punto cfr. diffusamente R. Lupi, Diritto amministrativo dei tributi, Roma, 2017 il quale riporta, condivisibilmente, al centro del dibattito la “funzione istituzionale tributaria” troppo sminuita rispetto al ruolo assolutamente centrale che ha avuto negli ultimi anni quella giurisdizionale.
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parole della Consulta, dovrebbero convergere), e non solo di mero “esecutore” di disposizioni che, se applicate letteralmente, possono condurre a risultati iniqui. E ciò che appare ancora più grave – ed in palese contrasto proprio con i canoni di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione – è il fatto che gli Uffici resistano, a fronte di pretese impositive chiaramente infondate, sino al giudizio di Cassazione. Come si è acutamente osservato (102), il ruolo dell’Amministrazione finanziaria, in generale, “non è quello di parte che transige per soddisfare un interesse proprio, bensì di autorità che riesamina su istanza del contribuente e in contraddittorio con quest’ultimo la pretesa tributaria”. Contribuisce, certamente, a “deresponsabilizzare” l’Amministrazione finanziaria la consolidata giurisprudenza che sminuisce la doverosità dell’esercizio del potere/dovere di autotutela, limitando la sindacabilità del diniego ai vizi propri di tale atto. Tutti i diversi “attori” del rapporto tributario dovrebbero, in conclusione, sforzarsi nel ricercare soluzioni improntate alla prevalenza della sostanza sulla forma, fenomeno che – per usare le parole di un noto volume – non implica una “rivolta contro il formalismo” (103), quanto una “ribellione” al sostanzialismo a senso unico e a intermittenza.
Francesco Montanari
(102) R. Lupi, Delega ancora lontana dal contenzioso amministrativo, cit., 211 (103) Il riferimento è a M. White, Social Thought in America: Revolt against Formalism, New York, 1947 (edito in Italia per i tipi de Il Mulino, Bologna, 1956, con il titolo Rivolta contro il formalismo).
Inerenza nel reddito d’impresa: riflessioni sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità Sommario: 1. Considerazioni di carattere generale riguardanti l’inerenza. – 2. Fon-
damento legislativo dell’inerenza nel reddito d’impresa. – 3. Il requisito dell’inerenza dell’atto affinché il corrispettivo possa assumere deducibilità ai fini tributari: un profilo di tipo qualitativo. – 3.1. Le posizioni innovative introdotte con l’ordinanza n. 450 del 2018 sul profilo “quantitativo” dell’inerenza. – 4. Considerazioni riguardanti gli elementi atti a dimostrare l’inerenza: riflessioni su onere della prova e dintorni. – 4.1. Un possibile elemento utile al fine di confermare la convenienza e quindi l’inerenza dell’atto: le relazioni predisposte da soggetti terzi.
La Corte di Cassazione ha emesso, di recente, numerose ed importanti pronunzie riguardanti il tema della clausola dell’inerenza nella determinazione del reddito d’impresa. Sono affrontate, nel presente contributo, le novità di interesse maggiore che rappresentano le consuete tematiche che in misura maggiore offrono spunti controversi. In particolare, l’argomento dell’inerenza “quantitativa” e dell’onere della prova. Inoltre, altri spunti emergono, sempre dall’esame delle sentenze dei giudici di legittimità, con riferimento alla potenziale efficacia dimostrativa dell’inerenza di relazioni redatte da parte di soggetti terzi indipendenti. The Supreme Court has recently issued several and important pronouncements concerning the principle of deductibility of expenses sustained in course of business in the direct taxation field. In this article the most interesting innovations are dealt with, which represent the usual themes that to a greater extent offer controversial opinions. In particular, the topic of “quantitative” aspect of expenses and the relevance of the burden of proof on the topic. Furthermore, other ideas emerge, again from the examination of the judgment
* Testo, completato con l’aggiunta delle note e aggiornato con la giurisprudenza di legittimità successiva, della relazione svolta dall’Autore al Convegno “Un problema attuale: gli accertamenti sull’inerenza. Spunti difensivi alla luce della recente giurisprudenza”, organizzato l’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Torino e dalla Fondazione “P. Piccatti e A. Milanese” dell’ODCEC, svoltisi il 12 marzo 2019 a Torino presso la sede dell’ente organizzatore.
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of the Supreme judges, in relation to the potential efficacy of independent third parties formal assessments attesting the coherence of the expense with the business carried out.
1. Considerazioni di carattere generale riguardanti l’inerenza. – Nel corso del 2018 e tutt’ora, nel 2019, la Corte di Cassazione si è pronunciata numerose volte sul requisito dell’inerenza, sia ai fini delle imposte sui redditi sia rispetto della detraibilità dell’imposta sul valore aggiunto. Con il presente scritto – e con riferimento al primo profilo, secondo quindi la prospettiva della tassazione diretta – ci proponiamo di profittare della copiosa giurisprudenza per apprezzare le (eventuali) novità o precisazioni che i giudici di legittimità hanno riservato ad un argomento “cruciale” riguardo la tassazione dell’impresa che si caratterizza per la difficoltà ad essere disciplinato in maniera rigorosa e che, di conseguenza, implica non pochi interventi da parte dei giudici. È noto che la clausola dell’inerenza rappresenta la caratteristica che contraddistingue la modalità con cui è misurata la capacità contributiva di coloro che esercitano attività d’impresa. Difatti, poiché tale capacità è quantificata mediante un criterio “differenziale” (sottrazione delle spese ai proventi conseguiti), il requisito richiesto affinché il componente negativo di reddito possa essere decurtato dai proventi lordi, assume rilevanza cruciale in quanto elemento che permette di ridurre la base imponibile al fine di assoggettare a tassazione la corretta capacità contributiva (1). La decurtazione del reddito imponibile attraverso la deduzione dei costi, sottraendo ricchezza al prelievo tributario, implica che il “costo” derivante dal minore gettito non è sostenuto dall’impresa ma viene, in tal modo, attribuito ai consociati. I profili di carattere generale legati al tema dell’inerenza – oltre a quelli di carattere speciale
(1) Sul tema della tassazione differenziale del reddito d’impresa e quindi, sul tema dell’inerenza, quanto ai lavori monografici, si vedano A. Vicini Ronchetti, La clausola dell’inerenza nel reddito d’impresa, Padova, 2016. A. Vignoli, La determinazione differenziale della ricchezza ai fini tributari, Roma, 2013; M. Procopio, L’inerenza nel sistema delle imposte dirette, Milano, 2009; G. Tinelli, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Milano, 1991; tra i saggi di ampio respiro, ci si limita in questa sede a segnalare quelli, anche di diritto tributario comparato, contenuti nell’opera G. Falsitta - F. Moschetti (a cura di), Il costi di ricerca scientifica, Milano, 1988, 51 ss. (F. Graziani, T. Prandolini, M. Miozzo, G. Zizzo, M. Lentini), che hanno contribuito a segnare un cambio interpretativo, collegando l’inerenza all’attività potenzialmente produttiva di ricavi.
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legati alla quantificazione della base imponibile, sono pertanto di non poco conto (2). Crediamo che l’argomento, nel suo complesso, alla luce anche della giurisprudenza esaminata, possa essere trattato individuando tre temi che giudichiamo salienti e che sono stati, almeno in parte, oggetto di chiarimento da parte dei giudici di ultima istanza. In particolare: (i) il fondamento legislativo dell’inerenza; (ii) la caratteristica “valutativa” dell’inerenza a dispetto di una possibile qualificazione della stessa sotto un profilo “quantitativo”; (iii) gli oneri probatori. 2. Fondamento legislativo dell’inerenza nel reddito d’impresa. – Nel corso degli ultimi anni sono state pubblicate numerose pronunzie da parte della Corte di cassazione in merito al fondamento normativo della clausola dell’inerenza. Con l’ordinanza n. 450 del 2018 si afferma che, a differenza di quanto sinora affermato dalla giurisprudenza e dalla prassi, il fondamento legislativo della clausola dell’inerenza non è riscontrabile nell’art. 109, comma quinto del d.p.r. n. 917/1986 (3). Con tale nuova “lettura” i giudici hanno affermato che “… in proposito va precisato che il principio di inerenza, quale vincolo alla deducibilità di costi, non discende dall’art. 75, 5° c., Tuir (nella attuale formulazione 109, 5° c., n.d.a.), che si riferisce invece al diverso principio dell’indeducibilità
(2) Osserva Alessandro Giovanni, in relazione alla rilevanza del costo sotto il profilo costituzionale, inteso come elemento che riduce il prelievo tributario: “Attribuire spessore giuridico ad un elemento economico è operazione che finisce per trasferire sulla collettività l’onere corrispondente a quell’elemento in ragione della correlata riduzione del debito d’imposta; al contrario, espungerlo dalla dimensione legale, comporta sì un detrimento del profitto individuale, ma non grava la collettività del correlato onere. E questa diversità di conseguenze, percepibile con immediatezza sul terreno concreto, è profilo che non attiene soltanto agli effetti economici dei tributi o alla loro traslazione o alla traslazione economica dei singoli fattori della produzione, alla formazione dei prezzi e alle dinamiche di mercato.” Cfr. A. Giovannini, Principi costituzionali e nozione di costo nelle imposte sui redditi, in Rass. trib., 2011, par 3. (3) Riflessioni di apprezzamento alla citata ordinanza sono state svolte da G. Fransoni, Una bella sorpresa: la nouvelle vague della Corte di Cassazione in tema di inerenza, in Riv. dir. trib. Supplemento online, 19 marzo 2018, M. Procopio, Il principio dell’inerenza ed il suo stretto collegamento con quello della capacità contributiva, in Dir. prat. trib., 2018, 1667 ss. Riflessioni sull’ordinanza, ancorché incidentali, sono svolte da P. Boria, L’inerenza dei costi nella determinazione del reddito d’impresa – la ricostruzione del principio di inerenza nella giurisprudenza della Cassazione, in Giur. trib., 2018, 767 ss; A. Vicini Ronchetti, La sezione tributaria della Cassazione si esprime su inerenza ‘quantitativa’ applicabile nella determinazione del reddito d’impresa: luci ed ombre, in Giur. comm., 2019, II, 333 ss.
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dei costi relativi a ricavi esenti (ferma l’inerenza), cioè alla correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili. Ciò premesso, va disattesa la definizione della nozione dell’inerenza, utilizzata da parte della giurisprudenza di questa Corte, formulata in termini di suscettibilità, anche solo potenziale, di arrecare, direttamente e indirettamente, una utilità all’attività d’impresa, e costituente requisito generale della deducibilità dei costi, con richiamo dal predetto art. 75 (Cass., n. 10914/15). Tale orientamento, se, da un lato, correla l’inerenza al rapporto tra costi e attività d’impresa (non riducibile, perciò, ad una relazione necessaria del costo con il reddito o con i ricavi), dall’altro pone erroneamente un necessario legame tra il costo e l’attività d’impresa secondo un parametro d’utilità, all’interno di una relazione deterministica che sottende rapporti di causalità”. La suprema Corte, con la pronuncia citata, permette di apprezzare che il requisito dell’inerenza trova applicazione ex ante, esso rappresenta una clausola che è espressione della nozione stessa di reddito d’impresa e, pertanto, le regole “particolari” di cui all’art 109, d.p.r. n. 916/1986 influiscono sul calcolo della base imponibile in un secondo momento, ovverosia saranno considerati nei componenti negativi di reddito di cui al citato articolo solo quelli che sono inerenti l’esercizio dell’impresa. Tale novità non ha, a nostro avviso, una esclusiva rilevanza teorico-dogmatica ma presenta importanza anche sotto il profilo applicativo poiché, da un lato, (i) dimostra l’attenzione della giurisprudenza verso le tesi proposte dalla dottrina, dall’altro (ii), implicitamente, conferma che quella dell’inerenza è una clausola di carattere generale e che quindi si sottrae alla regola del “pro rata” di cui al comma quinto, art. 109, d.p.r. n. 917/1986 (4). L’esclusione del citato art. 109 tra le disposizioni riguardanti l’inerenza implica, inoltre, la non applicazione del pro rata ivi disciplinato. Fattispecie, quest’ultima, che non ci risulta essere stata considerata dalla giurisprudenza ma che, soprattutto, alla luce delle modifiche apportate al suddetto rapporto ad opera della legge n. 244/2007, avrebbe dirette conseguenze sulla nozione di inerenza. Come difatti afferma la dottrina, la novella del 2007 “ … ha incluso nel numeratore del pro rata di deducibilità anche i proventi “esclusi”,
(4) Diversamente argomentando, come sostiene la dottrina, sarebbe stato necessario acclarare la rettifica della regola dell’inerenza allorquando il legislatore ha modificato i criteri per quantificare il numeratore del citato rapporto. Cfr. G. Fransoni, Una bella sorpresa …, cit., par. 2.1.
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cosicché, se davvero si fosse dovuto considerare la disposizione citata quale base normativa del principio, si sarebbe dovuto paradossalmente concludere (i) che la nozione di inerenza era stata corrispondentemente modificata e (ii) che il legislatore avrebbe la possibilità di estendere o restringere, sul piano generale, tale nozione, là dove la stessa giurisprudenza tende ad attribuire a questa regola un certo carattere di “immanenza (5)”. Dobbiamo tuttavia constatare che l’apertura della giurisprudenza alle osservazioni da tempo mosse dalla dottrina (la nouvelle vague della Cassazione, come definita sopra citata) non pare essere stata diffusamente seguita nelle successive pronunzie, diversamente da come auspicato dalla citata dottrina (6). Sono difatti numerose le posizioni dei giudici ove permane l’espresso riferimento, avendo riguardo al presupposto normativo dell’inerenza, al comma quinto, art. 109, d.p.r. n. 917/1986 (7). 3. Il requisito dell’inerenza dell’atto affinché il corrispettivo possa assumere deducibilità ai fini tributari: un profilo di tipo qualitativo. 3.1. Le posizioni innovative introdotte con l’ordinanza n. 450 del 2018 sul profilo “quantitativo” dell’inerenza. – Con l’ordinanza n. 450 del 2018 la Cassazione ha affermato che il requisito dell’inerenza non attiene ai profili quantitativi del corrispettivo ma alle caratteristiche qualitative dell’atto (il fatto che i due aggettivi si applichino a due differenti sostantivi è emblematico). Ciò rappresenta una precisazione da tempo auspicata dalla dottrina e che, a nostro avviso, permette di attribuire alla clausola dell’inerenza l’interpretazione che meglio rispetta i criteri generali che attengono alle regole per la
(5) Ibidem. (6) Tale innovazione dottrinale è accolta con toni positivi da P. Boria, L’inerenza dei costi nella determinazione del reddito d’impresa – la ricostruzione del principio di inerenza nella giurisprudenza della Cassazione, in Riv. giur. comm., 2018, par. 2. (7) Si richiamano, al proposito e con solo rifermento al 2018 e 2019, le seguenti pronunzie che, come detto, evocano, come fondamento legislativo dell’inerenza, il comma quinto, art. 109 del d.p.r. n. 917/1986: Cass. civ. Sez. V, Sent., 21 novembre 2018, n. 30030, Cass. civ. Sez. V, Ord., 24 agosto 2018, n. 21131, Cass. civ. Sez. V, Ord. 30 luglio 2018, n. 20113, Cass. civ. Sez. V, Ord., 20 luglio 2018, n. 19430, Cass. civ. Sez. V, Sent. 15 giugno 2018, n. 15856, Cass. civ. Sez. V, Sent. 18 maggio 2018, n. 12285, Cass. civ. Sez. V, Ord., 3 aprile 2019, n. 9252. Tutte le sentenze menzionate nel presente scritto, se non diversamente precisato, sono consultabili sulla Bancadati Ipsoa.
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determinazione del reddito d’impresa e, al tempo stesso, i principi di libera iniziativa delle scelte dell’imprenditore di cui all’art. 41 Cost. I giudici disconoscono, per la prima volta in maniera inequivocabile, la tesi giurisprudenziale finora tracciata in merito alla c.d. “inerenza quantitativa” (8). Essi affermano difatti che l’inerenza è un requisito qualitativo che attiene esclusivamente alla coerenza dell’atto posto in essere (nelle motivazioni si parla di costo connesso all’attività, invero, il raffronto con l’attività deve essere fatto con l’atto che, successivamente, implica il sostenimento del costo) e l’attività dell’impresa. In particolare, riteniamo molto condivisibile la locuzione adottata dai giudici nella parte finale secondo cui “L’antieconomicità e incongruità della spesa sono indici rivelatori della mancanza di inerenza, pur non identificandosi con essa” (9). L’ordinanza citata presenta, a nostro avviso, alcune criticità. In una prima parte il giudice afferma un concetto discutibile. Egli dichiara che “... l’impiego del criterio utilitaristico non giova alla corretta esegesi della nozione di inerenza, in quanto il concetto aziendalistico e quello civilistico di spesa non sono necessariamente legati all’elemento dell’utilità, essendo configurabile quale costo anche ciò che, nel singolo caso, non reca utilità all’attività d’impresa”. Si osserva, in via preliminare, una prima perplessità che emerge dall’ordinanza: parrebbe che il giudice applichi la regola dell’inerenza dei componenti negativi di reddito sia nel contesto civilistico sia in quello tributario, senza alcuna distinzione o precisazione, assumendo – in tal modo – che si tratti di concetti identici. Invero, la nozione di costo secondo il diritto tributario è innervata da principi (costituzionali) differenti rispetto a quelli che caratterizzano il decremento patrimoniale secondo una prospettiva aziendalistica o civilistica (10).
(8) Si sofferma sulla “inerenza qualitativa” ed “inerenza quantitativa” in occasione del commento ad una sentenza ed una ordinanza della Cassazione P. Boria, L’inerenza dei costi nella determinazione del reddito d’impresa – la ricostruzione del principio di inerenza nella giurisprudenza della Cassazione, cit. (9) Ci permettiamo in questo senso il rinvio a A. Vicini Ronchetti, La clausola dell’inerenza nel reddito d’impresa, Padova, 2016, 238-239 ove si afferma: “Pertanto la presunta antieconomicità del corrispettivo o dell’operazione nel suo complesso, potrà rappresentare, semmai, l’indizio di un’operazione fittizia, o un’operazione caratterizzata da liberalità che, conseguentemente, è estranea – in linea di principio - alla disciplina del reddito di impresa”. (10) La dottrina ha espresso in maniera esaustiva i differenti presupposti costituzionali che sono evocabili in caso di costo secondo il codice e civile ovvero secondo il diritto tribu-
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Il giudice osserva che sinora la giurisprudenza avrebbe adottato un criterio “utilitaristico” per scindere le spese inerenti da quelli prive di tale requisito. In base a tale criterio, i componenti negativi di reddito assumerebbero rilevanza tributaria, rectius sarebbero fiscalmente deducibili, limitatamente nella misura in cui arrecano “utilità” per l’impresa. Si legge: “… l’impiego del criterio utilitaristico non giova alla corretta esegesi della nozione di inerenza, in quanto il concetto aziendalistico e quello civilistico di spesa non sono necessariamente legati all’elemento dell’utilità, essendo configurabile quale costo anche ciò che, nel singolo caso, non reca utilità per l’impresa”. Crediamo che l’affermazione sopra riportata meriti una riflessione. In merito a quanto sopra è oramai riconosciuto anche dalla giurisprudenza (11) che, per accertare la sussistenza del requisito dell’inerenza, non deve essere preso in considerazione “il singolo atto”. L’attività d’impresa è difatti costituita da un complesso di atti anche scansionati temporalmente, che non possono essere scissi l’uno dall’altro per valutarne la coerenza con l’oggetto sociale, ma è necessario che ogni atto sia valutato all’interno del complesso programma imprenditoriale; programma che per definizione è realizzato po-
tario, nello specifico nella determinazione del reddito da attività autonoma (che per il rispetto dell’art 53 Cost. deve essere assunto al netto dei costi sostenuti). In particolare, qualora si voglia affrontare la nozione di costo nell’ambito del diritto tributario. Si sofferma in maniera esaustiva sulla necessità di distinguere la disciplina applicabile: se civilistica/aziendale ovvero tributaria A. Giovannini, il quale osserva che un elemento che nella realtà pregiuridica è idoneo a manifestare forza economica di spesa può non costituire oggetto di conforme valutazione sul piano del diritto. Difatti, non tutti i fenomeni sintomatici, in linea di principio, di quella forza possono essere elevati a fattispecie giuridica “… non tutte le variazioni numerarie trovano corrispondenza in conti di natura economica rilevanti per la legge alla stregua di costi. E la divaricazione tra qualificazione economica e qualificazione giuridica non è certo superabile invocando le norme su competenza e inerenza: questi criteri, bensì utilizzabili nel procedimento interpretativo, intervengono soltanto a posteriori, dopo cioè che i singoli componenti economici hanno superato il vaglio di conformità e per questa via sono stati elevati a fattispecie giuridica”. Si veda A. Giovannini, Principi costituzionali e nozione di costo nelle imposte sui redditi, in Rass. trib. , 2011, par. 2. Sempre lo stesso autore è in seguito tornato sull’argomento della individuazione della nozione di costo nella disciplina delle imposte sui redditi – evidenziando, anche in tale sede, le differenze rispetto alle scienze aziendalistiche ed al diritto civile. Invero, l’autore ipotizza, nel caso contestazioni riguardanti il quantum del corrispettivo, non l’eccezione della mancanza di inerenza bensì la sussistenza di una fattispecie disciplinata dall’art. 10 bis della legge n. 212/2000. Cfr. A. Giovannini, Costo e inerenza in diritto tributario, in Rass. trib., 2017, 929 ss. (11) Per una rassegna delle posizioni dottrinali sulla fonte normativa del principio dell’inerenza, si veda anche L. Peverini, Giudizio di fatto e giudizio di diritto in materia di costi non inerenti all’attività d’impresa, in Riv. dir. trib., 2008, I, 894, spec. nota 31
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nendo in essere innumerevoli operazioni tra di loro connesse. È quindi da rifiutare l’affermazione che l’utilità del fattore produttivo acquisito possa essere legata anche ad un singolo caso (12). L’inerenza dell’atto deve essere verificata confrontando l’atto posto in essere rispetto al complesso delle molteplici funzioni imprenditoriali esercitate anche in una prospettiva diacronica (13). Prosegue quindi il giudice affermando, in questo caso in maniera condivisibile, che è erroneo applicare un criterio utilitaristico per individuare la sussistenza del requisito dell’inerenza dell’atto (14). Secondo la ricostruzione della Cassazione “utilità” o “criterio utilitaristico” – che ribadiamo la Cassazione esclude debbano essere evocati per la verifica dell’inerenza – dovrebbero essere intesi come potenzialità dell’atto posto in essere di contribuire, anche solo parzialmente, al realizzo di proventi da parte dell’impresa. In effetti, tale criterio mal si presta per essere applicato nel caso di attività imprenditoriali che, come sopra detto, sono esercitate attraverso numerosi atti ognuno dei quali non sempre è volto a conseguire proventi. Sotto questo profilo, la tesi dei giudici sembra tenere conto delle differenti finalità – non sempre solo rigorosamente utilitaristiche – che le imprese moderne sono tenute a perseguire (15).
(12) Afferma Fransoni: “Si deve, infatti, partire dalla premessa che l’attività (nel nostro caso d’impresa) è per definizione un insieme di atti coordinati rispetto da un fine, nel senso che la coerenza con il fine consente di concepire unitariamente il complesso altrimenti eterogeneo degli atti e di ricondurli alla nozione di attività”. Cfr. G. Fransoni, La Finanziaria 2008 e i concetti di inerenza e congruità, in Quaderni della Riv. dir. trib., 2008, 164. (13) Si veda l’interessante commento a sentenza della Comm. trib. reg. del Piemonte di G. Vanz, Vendita con dote di partecipazione di società in crisi: destinazione di beni a finalità estranee all’esercizio di impresa?”, in Rass trib., 2001, 1708 ss. Per l’atteggiarsi del concetto di inerenza in caso di comodato d’uso di beni d’impresa, v. A. Contrino, Osservazioni in tema di comodato d’uso e regime fiscale dei beni d’impresa, in Riv. dir. trib., 2009, I, 160 ss. e, più di recente, Id., Fiscalità dei beni d’impresa concessi in prestito d’uso nell’ambito dell’attività imprenditoriale: la giurisprudenza di legittimità consolida il proprio (ineccepibile) orientamento, in Riv.dir.trib.-On line, 12.3.2019, a commento di Cass., sez. trib., Ord. , 7 novembre 2018, n. 28375. (14) In passato, peraltro, anche la Cassazione ha negato la necessità che il componente negativo sia dotato del requisito della “utilità” intesa come sopra detto. Cfr. Cass., sez. trib., 30 luglio 2007, n. 16824, secondo cui :”L’inerenza è una relazione tra due concetti – la spesa e l’impresa – che implica un accostamento concettuale tra due circostanze per cui il costo assume rilevanza ai fini della quantificazione della base imponibile, non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività “potenzialmente” idonea a produrre utili”. (15) Si pensi ad esempio agli impegni/obblighi cui le imprese devono fare fronte secondo una logica di Corporate social Responsibility. Cfr. G. Romagnoli, Corporate Governance, Shareholders e Stakeholders: interessi e valori reputazionali, in Giur. comm., I, 2004, 350 ss.
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Il principio affermato nell’ordinanza è stato applicato pressoché in maniera costante nelle successive pronunzie della Cassazione. Potremmo pertanto affermare che si è consolidato l’orientamento secondo il quale l’inerenza sia un requisito di tipo qualitativo, che attiene quindi alla coerenza dell’atto posto in essere rispetto al programma imprenditoriale (16). Sempre nell’ordinanza citata, la Cassazione, dopo aver riconosciuto l’esigenza di abbandonare il parametro quantitativo per giudicare l’inerenza ha affermato – di contro – che nel caso in oggetto la spesa rappresentata dal pagamento di diritti per utilizzo del marchio non aveva i requisiti dell’utilità in quanto l’impresa, avendo in prevalenza ricavi “intragruppo”, non avrebbe tratto vantaggi da tale atto e quindi il giudice, per tale motivazione, ha negato la rilevanza fiscale del corrispettivo. L’uso del marchio (la contestazione mossa dall’Agenzia delle Entrate riguardava la (in)deducibilità delle royalties pagate per l’uso del marchio), secondo i giudici sarebbe “irrelato rispetto all’attività concreta d’impresa”. L’affermazione non ci pare convincente per due ordini di ragioni. Poco più sopra i giudici affermano che “… l’inerenza deve essere apprezzata attraverso un giudizio qualitativo, scevro da riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, afferenti ad un giudizio quantitativo, e deve essere distinta anche dalla nozione di congruità del costo”. Ora, non si riesce a percepire per quale motivo i giudici, da un lato – come detto – affermino che l’inerenza è estranea “a concetti di utilità o vantaggio” e in seguito, al contrario, neghino la deducibilità del costo per uso dal marchio poiché tale spesa sarebbe “insensibile alla efficacia economica”. In seguito, nel luglio del 2018, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18904 ha fornito ulteriori precisazioni riguardanti la clausola dell’inerenza, soprattutto sotto il profilo procedimentale/probatorio. Tale sentenza si distingue, a nostro avviso, per avere meglio precisato il “ruolo” che assume la constatazione di un corrispettivo “non congruo”, sotto il profilo procedimentale. La vicenda riguardava la contestazione della deducibilità ai fini tributari del costo sostenuto dall’impresa relativo a premi e sconti riconosciuti ad una società residente facente parte del gruppo (in particolare le due società, entrambe residenti nel territorio dello Stato, sono partecipate dal medesimo
Oppure agli impegni di carattere extra imprenditoriale che le imprese sai assumono con la sottoscrizione di codici etici e documenti analoghi. Sul tema si veda C. Angelici, Responsabilità sociale dell’impresa, codici etici e autodisciplina, in Giur. comm., 2011, 189 ss. (16) Dobbiamo segnalare una sentenza del 2018 in cui la Cassazione parrebbe discostarsi dall’interpretazione di cui all’ord. n. 450.
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soggetto). La rettifica in aumento del reddito imponibile sancita dalla sentenza del giudice di prime cure per la quale la società ricorrente chiede annullamento, verte sulla non inerenza dei costi suddetti sulla base della asserita antieconomicità del corrispettivo. Le non sintetiche motivazioni dei giudici consentono di meglio chiarire il concetto di inerenza, secondo il parametro quantitativo. I giudici ribadiscono che il presupposto legislativo della clausola dell’inerenza non è riscontrabile tra le righe che compongono il comma quinto dell’art. 109 in particolare, si legge che la nozione di inerenza “… invero, per un diffuso orientamento, non trova una esplicita definizione positiva ancorché, secondo parte della dottrina e della giurisprudenza, possa essere fatta discendere dal vigente art. 109, comma 5 (già 74, comma 5), tuir.”. La Cassazione, precisa inoltre sempre in relazione all’art. 109, condivisibilmente, che “La norma, peraltro, si riferisce, in senso stretto, alla deducibilità dei componenti negativi in quanto riferiti a beni o attività produttive di reddito, con una declinazione proporzionale per i redditi esenti (pro-rata), ovvero affermandone la piena deducibilità se riferibili a redditi esclusi. La disposizione disciplina, dunque, un profilo ulteriore e successivo – le regole di deducibilità dei costi – rispetto all’inerenza, che, anzi, è presupposta (i costi per essere deducibili debbono anche, e necessariamente, essere inerenti) ma non definita dalla norma”. In merito alla vicenda che più attiene al presente paragrafo – i profili quantitativi dell’inerenza – è interessante notare che la Corte dopo aver richiamato le ordinanze n. 450 e 3170 del 2018 precisa che “esula ai fini del giudizio qualitativo di inerenza un apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità”, parametri che non sono espressione dell’inerenza ma “costituiscono meri indici sintomatici dell’inesistenza di tale requisito, ossia dell’esclusione del costo dall’ambito dell’attività d’impresa … il costo attiene o non attiene all’attività d’impresa a prescindere dalla sua entità”. L’interessante “passo in avanti” che compie la Cassazione rispetto alle ordinanze citate, in merito al “criterio quantitativo”, attiene ad una migliore specificazione del ruolo assegnato al giudizio di anti-economicità, secondo la prospettiva probatoria. La Corte conferisce rilevanza al suddetto criterio non tanto per sancire la non inerenza dell’atto, ciò sarebbe una contraddizione delle due precedenti ordinanze che sanciscono l’irrilevanza della anti-economicità al fine di accertare la sussistenza o meno dell’inerenza, ma il giudizio di sproporzione del corrispettivo, come affermato dalla dottrina, “viene col-
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locato su un diverso piano logico in quanto intrecciato con il tema dell’onere della prova … (17)”. La conclusione a cui giunge la Corte, quindi, sulla base della lett. d), art. 39 del d.p.r. n. 600/1973, è adesiva rispetto al fatto che la sproporzione del corrispettivo non è annoverabile tra le possibili “prove” – come abbiamo detto sopra trattandosi di un giudizio non avrebbe la caratteristiche della prova – ma si tratterebbe di un indizio che, insieme ad altri, costituirebbero le presunzioni per mezzo delle quali l’amministrazione finanziaria potrebbe rettificare il reddito imponibile dichiarato. Apprezziamo inoltre l’operato dei giudici ove affermano che la contestazione della deducibilità della spesa, le cui motivazioni poggiano sulla sproporzione del corrispettivo, proprio perché essa rappresenta solo un indice sintomatico del fatto che l’atto non sia integralmente qualificabile come d’impresa, necessitano di ulteriori indizi. Indizi che, dalla lettura delle motivazioni, paiono essere stati rappresentati all’organo accertatore (18). In caso contrario ci troveremmo di fronte ad un’indebita ingerenza dell’Amministrazione nella gestione dell’impresa; fatto quest’ultimo riconosciuto nelle stesse motivazioni (19).
(17) Cfr. P. Boria, L’inerenza dei costi nella determinazione del reddito d’impresa – la ricostruzione del principio di inerenza nella giurisprudenza della Cassazione, cit., par. 4. (18) Al punto 6 delle motivazioni della sentenza si evince l’attività di verifica che, richiamando la sentenza della Commissione tributaria regionale, i giudici svolgono al fine individuare gli ulteriori indizi che, aggiunti alla asserita sproporzione del corrispettivo, permettono di affermare la non inerenza dall’atto connesso. In particolare si legge che “le asserite informazioni sui punti vendita ben potevano essere desunte dalla XL analizzando la tipologia degli acquisti effettuati, i tempi e la loro quantità al fine di verificare gli umori del mercato”, così sottolineando l’oggettivo squilibrio, anche a livello sinallagmatico, tra le prestazioni; l’obbiettivo effettivamente perseguito dalla società era quello di evitare che la Mumble Mumble, che aveva la stessa compagine sociale della XL, non fallisse (“appare rilevante la circostanza ammessa dalla XL che la Mumble e Mumble, senza la nota di credito per 460.000,00 “avrebbe subito una perdita tale da fallire” “tale interessamento... trova il suo fondamento nel fatto che i soci di entrambe le società sono gli stessi”); l’operazione generava una rilevante e inspiegabile perdita (“nel calcolo della marginalità Full Cost... tecnicamente corretto e che questa Commissione condivide e non contestato dalla società... nell’ipotesi della mancanza del cliente... a fronte del venir meno di ricavi per Euro 402,204,00 ci sarebbe stata una diminuzione di costi di produzione per Euro 704.674,23”)”. (19) “… la contestazione dell’ufficio non può tradursi in una mera “non condivisibilità della scelta” perché apparentemente lontana canoni di normalità del mercato, che equivarrebbe ad un sindacato sulle scelte imprenditoriali ma deve consistere nella positiva affermazione che l’operazione sulla base di elementi oggettivi, non si inseriva nell’attività produttiva”.
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Tuttavia, a nostro parere la sentenza presenta anche profili non condivisibili. Crediamo, difatti, che laddove il giudice accerti la mancanza di congruità o squilibrio del corrispettivo, indirettamente ammetta che, l’atto sia comunque inerente (in parte, almeno) e pertanto, la quota del corrispettivo qualificabile “congrua” o “equilibrata” sia anche fiscalmente deducibile. Il rigetto del ricorso senza rinvio al giudice di merito, il quale avrebbe dovuto essere investito del compito di quantificare l’ammontare congruo e quindi deducibile, implica, a nostro avviso, una violazione del principio di capacità contributiva in quanto v’è una tassazione di reddito a cui non è sottratta una quota di costi inerenti l’attività d’impresa. 4. Considerazioni riguardanti gli elementi atti a dimostrare l’inerenza: riflessioni su onere della prova e dintorni. – L ’onere della prova – o meglio le argomentazioni riguardanti la coerenza dell’atto posto in essere rispetto all’attività dell’impresa – costituisce fattispecie che è sovente oggetto di precisazione da parte dei giudici. Dobbiamo premettere che l’argomento non costituisce una vicenda oggetto di contrasti giurisprudenziali. In particolare, soprattutto in occasione delle pronunzie più recenti, la Corte di cassazione ha formato un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale incombe in capo all’impresa l’onere di fornire la dimostrazione all’amministrazione finanziaria, con riferimento all’inerenza, della sussistenza dei presupposti per la deducibilità ai fini tributari dell’onere sostenuto. Dobbiamo osservare che la tesi sostenuta dai giudici di legittimità non trova fondamento in un preciso disposto legislativo ma è affermata sulla base di generiche considerazioni che solitamente adottano, pressappoco, il seguente tenore: “Questa Corte ha infatti da tempo chiarito come “in tema di imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’esistenza di una regolare contabilità impedisce soltanto il ricorso ad accertamento sintetico (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39), ma non impone all’amministrazione finanziaria di riconoscere l’esistenza di costi registrati nelle scritture contabili o la loro inerenza, atteso che l’onere della prova circa l’esistenza dei fatti che danno luogo a oneri e costi deducibili, ivi compresi i requisiti della inerenza e dell’imputazione ad attività produttive di ricavi, non incombe all’amministrazione finanziaria, ma al contribuente che invoca la deducibilità” (Cass. n. 12330 del 2001) (20)”.
(20) In questo modo si esprime, ad esempio, la Corte con la sentenza Cass. civ. Sez. V, 11
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Le conclusioni a cui giungono i giudici non sono fondate su un espresso dato normativo ma deriverebbero, a nostro giudizio, da una non corretta applicazione del contenuto dell’art 2729 c.c. rispetto ai poteri accertativi in capo all’Amministrazione finanziaria in occasione di contestazioni riguardanti la quantificazione di redditi appartenenti alla categoria “redditi d’impresa”. Secondo la ricostruzione della dottrina, la deducibilità fiscale dei costi e delle spese, nella disciplina del reddito d’impresa, non rappresenta un diritto potestativo concesso al contribuente, a differenza di quanto avviene, ad esempio, per gli oneri deducibili e detraibili di cui agli artt. 10, 12 e 13 del d.p.r. n. 917/1986. Invero, l’erronea lettura del fenomeno contabile nella disciplina del reddito d’impresa, è proprio questa: la contabilizzazione di un costo o una spesa nel bilancio esercizio e la sua deduzione a fini tributari non è una concessione (come ad esempio il credito d’imposta concesso per le imprese che svolgono attività di ricerca e sviluppo, la cui dimostrazione di svolgimento oltreché della corretta quantificazione incombe, giustamente, in capo a chi ottiene il beneficio) che comporta una deroga alle regole che caratterizzano il reddito d’impresa ma rappresenta la modalità con cui quantificare il reddito imponibile. Come correttamente ha osservato la dottrina: “Il contribuente il quale abbia sopportato spese per la produzione del reddito finisce per versare minori imposte non già in una prospettiva agevolativa (che è la prospettiva, come detto, del vantaggio), bensì perché egli produce una minore ricchezza in ragione, appunto, dei costi che su di lui gravano. In breve, paga di meno perché guadagna di meno. Tutto qui. È semplicemente “meno ricco” rispetto al contribuente che non abbia sopportato quel costo (21)”. L’imputazione di un componente negativo di reddito non può essere slegata dalla articolata modalità di tassazione dell’impresa che prevede molteplici e differenziate componenti reddituali di segno positivo e negativo il cui concorso di ognuna alla formazione del reddito imponibile è volto alla tassazione della reale capacità contributiva (22).
gennaio 2018, n. 439 (21) M. Beghin, Scritture contabili, controlli incrociati e prova delle deducibilità dei costi sostenuti dall’imprenditore, in Corr. trib., 2017, par. 2. (22) Cfr. G. Tinelli, Il principio di inerenza nella determinazione del reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 2002, 437 ss. In senso analogo G. Zizzo, La prova contabile nel processo tributario, in G. Ragucci (a cura di), Il contributo di Enrico Allorio allo studio del diritto tributario, passim.
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Intendiamo affermare che la struttura impositiva del reddito d’impresa, di per sé, stante quanto previsto dall’art, 39, lett. d) assegna al bilancio d’esercizio (compresa la documentazione di supporto) la presunzione di prova legale controvertibile (23). Invero, sulla base di come sono disciplinate le regole che attengono, in primis la quantificazione del reddito imponibile e, in secondo luogo, le regole di tipo procedimentale che riguardano i poteri di accertamento in capo all’organo accertatore, si intuisce che il bilancio d’esercizio (ed i documenti connessi) rappresenta un “paletto” all’azione dell’Amministrazione finanziaria alla quale incombe l’onere di disconoscere la sussistenza di elementi negativi che concorrono alla formazione del reddito (24). Occorre svolgere inoltre una riflessione per quanto attiene le funzioni e le garanzie che il legislatore tributario conferisce alla regola in base alla quale il reddito imponibile dell’impresa discende dalle risultanze contabili della stessa; risultanze che sono soggette alla disciplina civilistica diversamente declinata a seconda dei principi di natura contabile che l’impresa è tenuta a rispettare. In particolare, i criteri di determinazione della ricchezza “civilistica” posso essere disciplinati da regole europee, qualora l’impresa sia tenuta ad applicare i principi contabili internazionale IAS/IFRS, ovvero da disposizioni domestiche sancite dal codice civile ed integrate con le regole tecniche elaborate dall’Organismo Italiano di Contabilità. Più diffusamente e riguardo al contenuto dell’art. 2697 c.c., la Cassazione afferma che con rifermento al requisito dell’inerenza, l’onere di dimostrare la legittimità della decurtazione dai proventi lordi del costo sostenuto incombe
(23) Sul tema della natura probatoria delle scritture contabili sono numerosi gli scritti di prof. Falsitta, tra cui senza pretesa di esaustività, si veda L’onere della esibizione delle scritture contabili obbligatorie degli ordinari imprenditori commerciali, con speciale riguardo al problema della loro efficacia probatoria nell’accertamento de reddito mobiliare, in Riv. dir. fin., 1962, I, 64; Id., Prova contabile, prova per presunzioni e metodo induttivo nella determinazione del reddito mobiliare a carico degli enti tassabili in base al bilancio, in Dir. prat. trib., 1964, I, 379; Id., In tema di efficacia della prova contabile dei soggetti tassabili in base al bilancio, con speciale riguardo al principio della “omogeneizzazione” dei costi e ricavi nelle plusvalenze da realizzo di immobili, in Riv. dir. trib., 1966, II, 33 (24) Ricordiamo che la dottrina assegna alla disciplina della quantificazione reddito fiscalmente rilevante, la presunzione legale iuris tantum di veridicità delle scritture regolarmente tenute”. Cfr. F. Gallo, Accertamento e garanzie del contribuente: prospettive di riforma, in Dir. prat. trib., 1989, I, 52; F. Moschetti, Evoluzione e prospettiva dell’accertamento dei redditi determinati su base contabile, in C. Preziosi (a cura di), Il nuovo accertamento tributario tra teoria e processo, Roma-Milano, 1996.
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in capo all’impresa, assumendo in tal caso, secondo la ricostruzione dei giudici, la qualifica di soggetto creditore. In occasione di sentenze più risalenti (25) (comunque non senza recenti, seppur isolate, rinnovate pronunzie (26)) si formò un principio giurisprudenziale (anch’esso non statuito dalla legge) in base al quale, in relazione all’inerenza, fosse necessario applicare una bipartizione dei componenti negativi di reddito che avrebbe comportato differenziati oneri probatori. Da un lato vi sarebbero i componenti negativi di reddito qualificabili come “strettamente necessari” per lo svolgimento l’attività dell’impresa per i quali l’onere della prova dell’inerenza incombe in capo all’Amministrazione finanziaria (27). Si pensi, ad esempio all’acquisto di materie prime o di beni strumentali per lo svolgimento dell’attività. Dall’altro, i componenti negativi che, pur coerenti con il programma dell’impresa e quindi funzionali all’esercizio dell’attività, non sono preclusivi allo svolgimento dell’attività e quindi al raggiungimento dell’oggetto sociale (28). Si pensi, ad esempio alle spese sostenute per acquistare mobili e arredi o ai costi connessi a spese promozionali o di pubblicità (29). Occorre una breve premessa. Con riferimento a contestazioni riguardanti la clausola dell’inerenza, il rifermento all’onere della prova è, a nostro avviso, impreciso. Difatti, il requisito dell’inerenza non può essere, di per sé, oggetto di prova. Il convincimento del giudice non deriva da una “prova” intendendo con ciò la dimostrazione che l’atto è stato posto in essere nell’esercizio
(25) Si veda Corte cass. civ., sez. trib., 21 febbraio 2012 - 27 aprile 2012, sent. n. 6548, in Riv. dir. trib., 2012, II, 402 ss. Con nota di M. Beghin, Note critiche a proposito dell’asserita, doppia declinazione della regola dell’inerenza, “inerenza intrinseca” versus “inerenza estrinseca”). (26) Recentemente, si veda, Cass. civ. Sez. V, Ord., 24 agosto 2018, n. 21131 ove la Corte di Cassazione afferma: “il concetto di inerenza è nozione di origine economica, legata all’idea del reddito come entità calcolata al netto dei costi sostenuti per la sua produzione, che, nel campo fiscale, si traduce in un risparmio di imposta e in relazione alla cui sussistenza, ove si abbia riguardo a spese intrinsecamente necessarie alla produzione del reddito dell’impresa, non incombe alcun onere della prova in capo al contribuente”. (27) Trattasi di percorso giurisprudenziale che, a nostro avviso, prende lo spunto da vicende civilistiche. Cfr. V. Calandra-Buonaura, Gli atti estranei all’oggetto sociale, in Trattato delle società per azioni, Torino, 1991, 192 ss. Per una diffusa riflessione sul tema ci si permette di rinviare a A. Vicini Ronchetti, La clausola dell’inerenza nel reddito d’impresa, Padova, 2016, cap. IV, par. 7. (28) Corte Cass. civ., sez. trib. 27 aprile 2012, sent. n. 6548, in il Fisco, 2012, 345. (29) Le spese di rappresentanza sono già destinatarie di regole speciali.
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dell’impresa. La prova può essere fornita se si contesta il mancato sostenimento della spesa: in tal caso, la dimostrazione dell’esistenza del titolo giuridico costituisce la prova del sostenimento del componente negativo di reddito ad esso connesso ma l’inerenza è qualcosa di diverso. Mentre la prova, nella accezione tipica del termine, permette di giungere ad una logica rigorosamente binaria in cui quanto sostiene il contribuente è o vero o falso (30). Nel caso dell’inerenza, siamo invece di fronte a quelli che possono essere qualificati parametri di tipo probabilistico (altrimenti definito “necessario probabilismo delle prove” (31)) ove la prova vera e propria, intesa come “o vero o falso” non possa essere applicata; si tratta, come ha affermato la dottrina, di una relazione logica, e come tale la sua esistenza – quindi la dimostrazione della connessione dell’atto (acquisto di un bene o di un servizio) – deriva dalla persuasività delle argomentazioni adottate dall’amministrazione finanziaria (32). Nel caso di specie, le argomentazioni dovranno basarsi su massime di esperienza, regole conformi alla nozione di senso comune. In questo caso, l’applicazione dell’inferenza induttiva permette di giungere a determinare il fatto principale attraverso un evento che, sulla base delle massime di esperienza, può essere assunto come noto (33). Il giudice che è tenuto a decidere – ma altrettanto vale per l’amministrazione finanziaria che, quand’anche non fosse tenuta all’onere della prova deve comunque motivare adeguatamente il proprio atto d’accertamento – deve va-
(30) In una situazione regolata da una ferrea logica binaria la conclusione “l’ipotesi è falsa” dedotta dalla premessa “carenza di elementi di prova” è ineccepibile. Come sostiene attenta dottrina ciò porterebbe a sostenere che “la sotto-fatturazione di ricavi o la sovrafatturazione di costi accertati dall’amministrazione finanziaria non rispondono al vero (e, quindi, sono false) tutte le volte in cui l’ufficio non è in grado di dimostrare la fondatezza della propria pretesa”. Cfr. G. M. Cipolla, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, 87. (31) S. La Rosa, Caratteri e funzioni dell’accertamento tributario, in Dir. prat. trib., 1992, I, 800. (32) G. Fransoni, La finanziaria 2008 e i concetti di inerenza e congruità, cit., 170. Peraltro, il requisito della persuasività delle argomentazioni su cui l’ufficio fonda le proprie pretese è una caratteristica tipica del diritto tributario, in senso generale. In tal senso A. Vignoli, La determinazione differenziale della ricchezza ai fini tributari, cit., 130, nonché la dottrina citata in nota n. 39. (33) Taruffo menziona la “versione probabilistica” delle massime di esperienza in modo da includere nel concetto di massime d’esperienza anche le regole basate su generalizzazioni incomplete; quelle che sono tratte dal senso comune in quanto ricavate dall’osservazione dei comportamenti tenuti in certe occasioni e non possono, di conseguenza, valere per la generalità dei casi. M. Taruffo, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento giuridico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 684.
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lutare il grado di probabilità attribuibile alla contestazione mossa. Il problema del giudizio di fatto coincide con la giusta determinazione del grado di attendibilità che le interferenze costruite con le massime attribuiscono al fatto contestato. Tale determinazione implica, inevitabilmente, che il fatto è giuridicamente qualificato mediante valutazioni (34). Le contestazioni che muove l’amministrazione finanziaria sull’inerenza rappresentano un giudizio di fatto costituito da una componente oggettiva ed una valutativa (35). La prima può essere oggetto di prova (la prova che dimostra l’effettuazione della transazione da cui è conseguito il corrispettivo); la seconda, di tipo valutativo, non può essere oggetto di prova; essa soggiace al criterio della verosimiglianza, l’attendibilità della quale dipenderà dalla persuasività delle argomentazioni volte a sostenere la tesi dell’organo accertatore. Un conto è provare l’avvenuto verificarsi di un accadimento, altro è valutarlo secondo un certo sistema di valori. Si tratta di quelle che la dottrina tributaristica ha definito enunciazioni complesse ove una volta dimostrato il fatto, affinché tale fatto possa produrre determinate conseguenze giuridiche, è necessario che siano verificati anche gli aspetti di tipo valutativo (36). Appurato che l’inerenza, o la sua assenza, può essere provata mediante un metodo logico-deduttivo tipico delle scienze esatte, nel diritto e, in particolare,
(34) La nozione di valutazione, nell’ambito giuridico, può trovare differenti accezioni. In senso riassuntivo si può sostenere che la valutazione nel campo giuridico consista nella valutazione assiologica dei fatti, nell’apprezzamento di cose o situazioni compiute secondo criteri metagiuridici di natura etica, politica, sociale. Cfr. M. Taruffo, Motivazione della sentenza (diritto processuale civile), in Enc. giur., vol. XX, Roma, 1990, 67. (35) Si esprime a favore della piena discrezionalità nel contestare l’ammontare dei corrispettivi senza precisazioni ulteriori in termini di argomentazione della contestazione mossa, M. Procopio, L’annosa ed irrisolta problematica dei compensi agli amministratori: una possibile soluzione de iure condendo, cit., par. 5.2 “Per i motivi che precedono può fondatamente affermarsi che l’esame della particolare problematica deve essere affrontato, al pari di qualunque altro costo od onere, in termini di congruità e, quindi, con riferimento ai profili «quantitativi» tenendo ciò è conto della loro congruità (oltreché dell’inerenza, della certezza e della competenza economica) la cui dimostrazione non potrà che essere fornita al soggetto attivo del rapporto tributario che abbia fondatamente accertato l’eccessivo costo sostenuto, da parte dell’impresa la quale è tenuta a comprovare che le spese effettuate, oltre ad essere fisiologicamente collegate alla sua attività̀ , sono sostenute con criteri di avvedutezza”. (36) G. M. Cipolla nella sua monografia sulla prova nel diritto tributario afferma che “In presenza, quindi, di un’enunciazione complessa soltanto la parte di essa avente carattere descrittivo costituisce oggetto di prova, mentre la parte avente carattere valutativo resterà fuori dal campo della dimostrazione”. Cfr. G. M. Cipolla, La prova tra procedimento e processo tributario, cit., 108.
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nel diritto tributario, allorché siano oggetto di attenzione aspetti valutativi, l’argomentazione probatoria diviene razionale quando essa è persuasiva (37). Per fare ciò è necessario che l’indagine dell’amministrazione sia indirizzata oltre che alla verifica dell’effettiva connessione dell’atto posto in essere con l’esercizio dell’impresa (attraverso la verifica del reale impiego del bene o del servizio per l’esercizio dell’attività), anche verso la dimostrazione dell’effettiva sproporzione (nel caso di contestazioni che riguardano la supposta entieconomicità dell’operazione) del corrispettivo rispetto a quello mediamente applicato in transazioni relative a beni o servizi analoghi. Oppure, le argomentazioni atte a dimostrare la sproporzione possono essere persuasive qualora sia evidente la mancanza di correlazione tra beneficio fruito e corrispettivo se non, in estrema ipotesi, l’assenza o la difficoltà ad individuare un reale beneficio in capo all’impresa. Tale ultimo aspetto sarà dotato di persuasività quanto più saranno dettagliati i riscontri che l’organo verificatore è tenuto a svolgere (sul tema degli ulteriori indizi atti a fornire una robusta argomentazione della mancanza di inerenza si vedano le riflessioni svolte nel paragrafo dedicato alla recente sentenza della Cassazione n. 18904 del 2018). Analisi, quest’ultima, che dovrà tenere conto di numerosi elementi, non solo la verifica del mero dato numerico ma dovranno anche essere svolte adeguate descrizioni del ragionamento che porta ad affermare la non congruità del corrispettivo sostenuto per la spesa contestata (38). La motivazione dell’avviso di accertamento
(37) Alla logica formale e deduttiva deve essere contrapposta una logica dialettica, propria della teoria dell’argomentazione retorica. (38) Particolarmente esaustiva, nel senso della necessità di valutare ogni elemento al fine di disconoscere o meno la “economicità” del corrispettivo è la sentenza della Comm. trib. reg. Torino, 11 del 9 maggio 2000. Tale sentenza si contraddistingue, come osserva G. Vanz nella sua approfondita annotazione, per l’ampia ed esaustiva motivazione. Il caso di specie riguardava la cessione di una partecipazione ad un prezzo pari a 5 mila lire a fronte di un costo di iscrizione della stessa per 38 miliardi di lire. Senza entrare nel merito della vicenda processuale, per la quale si rimanda al commento di G. Vanz, ci permettiamo solo evidenziare che il giudice nell’argomentare le ragioni per quali ritiene infondato e soprattutto non sufficientemente argomentato l’atto impositivo emesso dall’ufficio, evidenzia che l’ufficio avrebbe dovuto tenere conto non soltanto degli aspetti documentali e contabili ma anche dei valori venali nonché della effettiva capacità del complesso organizzato aziendale alienato (e quindi la capacità di produrre profitti). Si veda Comm. trib. reg. Torino, 9 maggio 2000, n. 11, in Rass. trib., 2001, 1699 segg., con nota di G. Vanz, “Vendita con dote” di partecipazione di società in crisi: destinazione di beni a finalità estranee all’impresa?
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deve contenere tutti gli elementi necessari di conoscenza e di giustificazione di quanto richiesto nell’atto stesso, acquisiti durante la fase istruttoria (39). Al contrario, spesso si prende atto di affermazioni apodittiche con cui, l’amministrazione in sede di motivazione dell’avviso di accertamento prima, e il giudice in sede di redazione delle motivazioni del giudizio poi, richiamando precedenti giurisprudenziali, affermano un generico diritto da parte dell’ufficio di contestare l’eccessivo ammontare del corrispettivo. Inoltre, sovente ciò avviene in assenza di un’esaustiva dimostrazione della “inadeguatezza” dell’importo rispetto, non solo all’ammontare dei ricavi, ma anche ai programmi di investimento dell’impresa, alla disponibilità di beni o servizi analoghi sul mercato, alla previsione di eventuali risparmi che potrebbero derivare della spesa contestata o altri elementi che chiunque avesse sostenuto la spesa contestata avrebbe preso in considerazione (40). Invero, ci pare che l’amministrazione finanziaria dovrebbe abbandonare i consueti controlli di carattere documentale, ai quali sono spesso affidate le conclusioni degli accertamenti. Tali elementi documentali, difatti, possono essere utili per conoscere e valutare fatti che possono essere provati, ma non sono utili al fine di raggiungere la persuasività (41). Il giudizio che deve essere espresso, in primis da parte dell’amministrazione finanziaria in sede di redazione dell’atto impositivo, è di tipo relazionale tra enunciati fattuali: il corrispettivo pattuito e il valore ritenuto “congruo” per l’onere sostenuto. Tale secondo valore, non può essere stimato in ma-
(39) Si veda C. Califano, La motivazione degli atti impositivi, Torino, 2012, 199 ss. (40) Come riportato, la giurisprudenza è copiosa, a mero titolo esemplificativo, si veda Corte cass. civ., sez. trib., 11 febbraio 2013, ord. n. 3243 in Il fisco, 2013, 1332. Le motivazioni del giudice evidenziano che l’amministrazione finanziaria può sindacare la congruità dei compensi corrisposti dalle società agli amministratori, disconoscendone parzialmente la deducibilità, se ritenuti sproporzionati, pur in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi negli atti giuridici d’impresa, non essendo l’Ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti. La Corte Suprema ha altresì rammentato che costituisce ormai suo consolidato orientamento che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, grava sul contribuente l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa. Tuttavia nulla viene detto in merito alle modalità per stimare il valore equo del corrispettivo che dovrebbero invece costituire l’elemento cruciale per il convincimento del giudice. (41) Cfr. M. Beghin, I contratti “programmatici”, le spese fisse e i viaggi degli amministratori in “luoghi d vacanza” in balia della regola generale di inerenza. Commento alla sentenza Comm. trib. prov. Milano, sez. 40, 21 maggio 2012 - 4 giugno 2012, n. 153, in Boll. Trib., 2015, 234 ss.
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niera “asettica”, ma dovrà essere determinato, tenuto conto anche dei poteri ispettivi e di indagine di cui dispone l’amministrazione finanziaria (42), sulla base di un’elaborazione intellettuale di non sempre agevole realizzazione, consistendo in un giudizio di utilità (43). In conclusione, al fine di adempiere all’obbligo di rendere edotto il contribuente in merito alle pretese dell’ufficio, nonché consentire che questi disponga delle necessarie motivazioni al fine di esercitare il legittimo diritto di difesa, l’avviso di accertamento non può non descrivere l’iter logico argomentativo seguito, e quindi l’indicazione delle ragioni di fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto medesimo, ivi comprese le analitiche motivazioni per cui il corrispettivo è giudicabile “non congruo” (44). È quindi forse inappropriato, in tema di inerenza, fare esclusivo riferimento all’onere della prova riguardante i fatti accaduti o, in alternativa, alla persuasività delle argomentazioni riguardanti gli aspetti valutativi. Invero, la dimostrazione dell’inerenza implica un’eterogenea attività probatoria. È necessario, in primo luogo, dare la prova del sostenimento della spesa (evento
(42) Su questo aspetto e, in particolare, sul fatto che le capacità e i poteri ispettivi di cui dispone l’Amministrazione finanziaria potrebbe indurre a considerare in maniera meno importante le c.d. “asimmetrie conoscitive” si esprime G. Zizzo, in La prova contabile nel processo tributario, cit., 125. (43) Ci si dovrebbe attendere che nell’eccepire la non congruità del corrispettivo siano prese in considerazione numerose variabili, quali ad esempio, il corrispettivo medio per fattispecie analoghe sostenute da soggetti comparabili; le politiche commerciali dell’impresa; le valutazioni delle ricadute economico finanziarie connesse al sostenimento del corrispettivo (assunto come antieconomico), etc. (44) Afferma la dottrina che la motivazione dell’avviso di accertamento “[…] non è una semplice elencazione dei fatti. È qualcosa di più. Essa è, in realtà, l’espressione o manifestazione di quel complesso processo di formazione del convincimento dell’ufficio circa la sussistenza in concreto dei presupposti impositivi, di cui l’avvio di accertamento non rappresenta che il risultato finale. Al pari della motivazione di una sentenza, la motivazione dell’accertamento assume rilevanza non di per sé, ma quale esternazione e attestazione di quell’attività decisionale di cui appunto consiste l’esercizio del potere di autotutela che fa capo all’amministrazione finanziaria, e per essa ai competenti uffici delle imposte […]” Cfr. I. Manzoni - G. Vanz, Il diritto tributario, Torino, 2008, 308. Sulle necessità che la motivazione dell’avviso di accertamento rechi l’iter argomentativo seguito dall’ufficio si veda anche P. Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 2007, 207; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2014, 200-201; G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2010, 299-301; G. Melis, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2013, 384. Afferma Melis, in particolare, che la motivazione “rappresenta la garanzia per il contribuente di poter valutare la fondatezza della pretesa dell’amministrazione finanziaria e, conseguentemente, di poterne eventualmente contestare la legittimità attraverso una motivata impugnazione”.
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che è soggetto a prova), in secondo luogo è necessario per l’amministrazione che ne vuole contestare la rilevanza fiscale, fornire le dettagliate e persuasive argomentazioni in base alle quali è verosimile ritenere che l’atto posto in essere non sia coerente rispetto all’attività ed alle finalità proprie dell’impresa. Con riferimento alla isolata giurisprudenza in base alla quale sarebbe prospettabile un differente onere probatorio parametrato sulla “necessarietà” o meno dell’atto, di cui abbiamo fatto cenno, osserviamo in tali casi è evocato – talvolta espressamente (45), talaltra in maniera implicita – il “dogma” della vicinanza della prova (46). Anche in questo caso si tratta di una “costruzione” giurisprudenziale” priva si supporto di diritto positivo. Crediamo che siano posizioni anch’esse criticabili, alla luce delle osservazioni sopra svolte. Con questo non vogliamo negare l’oggettiva difficoltà a produrre elementi di tipo valutativo che, per definizione, provengono dal soggetto che effettua la spesa o che elabora il possibile investimento (47). Proprio perché non sono aspetti che si prestano alla “prova”, non sono quindi “oggettivabili” , in questi casi, il principio della vicinanza potrebbe trovare “terreno fertile”. Restiamo tuttavia critici a tale tesi in quanto: (i) non prevista dal diritto positivo, essa, inoltre, (ii) introdurrebbe una discrezionalità in capo al giudice nello stabilire quali siano gli atti “strettamente necessari” e di conseguenza nell’assegnare l’onere della prova e, infine, non tiene conto di quanto osserva la dottrina secondo la quale “l’attribuzione all’Amministrazione finanziaria di una serie (sempre più estesa ed efficace) di poteri investiga-
(45) Si veda, tra le molte, Cass Cass. civ. Sez. V, Sent., 30 maggio 2018, n. 13588 ove il giudice afferma: “Passando adesso alla questione dell’onere della prova dell’inerenza del costo, la Cassazione ha avuto più volte modo di affermare che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, secondo la disciplina del TUIR, l’onere di dimostrare i presupposti dei costi deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, incombe sul contribuente, anche in base al canone della vicinanza della prova (Cass. 17/09/2014, n. 19600; 8/10/2014, n. 21184; 26/05/2017, n. 13300).” (46) Utilizza il termine “dogma” la Cassazione in una sentenza in relazione ad un’azione di risarcimento del danno ove viene evocato il “principio dogmatico di c.d. vicinanza alla prova”. Cfr. Cass., sent. 20 febbraio 2006, n. 365. (47) Valutazioni queste che devono essere svolte dall’organo di controllo avendo a riferimento la data in cui è stata decisa la spesa o l’investimento e non ex post. Sul fatto che il giudizio di inerenza debba essere formulato ex ante, si veda, a commento della sent Comm. Trib. Prov. Milano, sex. XL, 22 luglio 2016, n. 6443, M. Beghin, Il giudizio di inerenza tra valutazioni ex ante, valutazioni ex post e obblighi contrattuali, in Giur. trib., 2017, 87 ss.
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tivi pienamente idonei a consentire l’accertamento dei fatti rilevanti risolve a monte delle asimmetrie conoscitive che lo innerva (48)”. 4.1. Un possibile elemento utile al fine di confermare la convenienza e quindi l’inerenza dell’atto: le relazioni predisposte da soggetti terzi. – Troviamo meritevole di attenzione una recente sentenza ove i giudici, in materia di onere della prova in relazione all’effettivo sostenimento di una spesa e della sua inerenza hanno disconosciuto la forza probatoria ad una attestazione rilasciata da un ente esterno ed indipendente (49). Il caso riguardava la contestazione della deducibilità fiscale di costi infragruppo – c.d. “spese di regia” – il cui criterio di riparto in capo a tutte le società è stato “revisionato” dall’ente esterno. Osserva la Corte che “la revisione, articolata mediante relazioni sulla corrispondenza dei dati di bilancio e del conto profitti e perdite alle risultanze delle scritture contabili, rende affidabili le relative attestazioni che, assumendo valore di prova decisiva, non possono essere disattese dall’Amministrazione Finanziaria o dal giudice, se non contrastate da prove di eguale portata (Sez. 5, sent. n. 6532 del 2009)” Tuttavia nel caso di specie, secondo i giudici, dalla sentenza oggetto di ricorso per Cassazione non era chiaro se e in quale occasione la società internazionale di revisione avesse formalizzato le sue valutazioni, mentre era necessario comprendere “in che ruolo e in quale veste, anche sul piano delle responsabilità, quella certificazione di esistenza ed inerenza di costi sia stata redatta”. Ne consegue, secondo i giudici, la non chiara autorevolezza delle prove a supporto delle conclusioni raggiunte, oltre al “malgoverno degli elementi indiziari pur a disposizione”. La sentenza può essere apprezzata secondo due differenti prospettive. La prima, secondo quanto affermato nelle conclusioni da parte del giudice: non sono pertanto necessari ulteriori commenti. La seconda leggendola a contrariis, assumendo quindi che nel caso in cui la relazione predisposta dell’ente terzo ed indipendente rispetti i requisiti richiamati dalla sentenza sopra citata – oltre a confermare l’effettiva esigenza commerciale della transazione – rappresenterà un robusto strumento atto a confermare la coerenza dell’atto rispetto al programma imprenditoriale. La rilevanza della attestazione da parte di un organo esterno in merito alla deducibilità tributaria di costi derivanti da ripartizione intra-gruppo (c.d. cost
(48) G. Zizzo, La prova contabile nel processo tributario, cit., 215. (49) Cfr. Cass. civ. Sez. V, Sent. 18 maggio 2018, n. 12285.
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sharing agreement) è stata più volte sancita dalla giurisprudenza. Pertanto, quanto sopra, di per sé, non costituisce una novità. Ciò che invece vorremmo proporre in questa sede è la possibile estensione degli effetti probatori di tali documenti anche in ipotesi – al di fuori di riparti di costi intragruppo – ove il compimento dell’atto o il sostenimento del corrispettivo potrebbero, prima facie, apparire non coerenti con l’attività ma, verosimilmente, a fronte delle analisi di sostenibilità della spesa o a fronte di studi attestanti le conseguenze positive che si riverbererebbero in capo all’impresa qualora procedesse a porre in essere l’operazione, dimostrerebbero l’inerenza dell’operazione. Come acclarato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, gli oneri dimostrativi nel caso di inerenza sono di due tipi: (i) la prova (vera e propria), intesa nel senso della dimostrazione del fatto, è rappresentata dal vincolo giuridico che lega l’impresa al sostenimento dell’onere. In questo caso il contratto di acquisto del bene o del servizio è, di solito, agevolmente dimostrabile. Le problematiche riguardo l’inerenza non insistono però sulla prova di cui sopra bensì sul secondo profilo probatorio, rappresentato dal legame tra il fatto provato (acquisto del bene o del servizio) e l’attività dell’impresa. Nesso, quello citato, che deve essere rappresentato al giudice il quale ne valuterà il grado di persuasività. Quest’ultimo aspetto è senza dubbio quello più soggetto ad aspetti valutativi e quindi arduo da portare all’attenzione dell’organo giudicante. Alla luce delle conclusioni a cui giunge la Cassazione nella sentenza che abbiamo sopra ricordato, si può affermare che per talune tipologie di spese, in particolare quelle a fronte delle quali sono acquisiti beni o servizi che non sono strettamente necessari allo svolgimento dell’attività, la previa predisposizione di relazioni, da parte di soggetti terzi ed indipendenti, atte ad attestare le convenienza della spese e quindi la coerenza con l’attività d’impresa dell’atto posto in essere, potrebbero rappresentare un utile supporto. Si pensi alle non isolate contestazioni riguardanti l’uso – e quindi la deducibilità fiscale dei corrispettivi connessi – di mezzi di traporto aerei privati (50). In tali casi, la predisposizione di relazioni che, con dovizia di particolari, tengano conto
(50) Si veda, per l’uso di un elicottero la Cass. civ. Sez. V, Sent., 9 novembre 2018, n. 28672 o per l’uso di un aeromobile si veda Comm trib. Prov. Milano, con commento di M. Beghin, I contratti “programmatici”, le spese fisse e i viaggi degli amministratori in “luoghi di vacanza” in balìa della regola generale di inerenza, cit., 234 ss. Si veda inoltre G. Fransoni, Il sindacato dell’amministrazione sulla “congruità” dei costi, in Riv. dir. trib. – supplemento online, 9 dicembre 2016.
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di tutti gli elementi (sia quelli economicamente quantificabili (51) sia quelli percepibili sotto altri profili volti ad affermare l’immagine dell’impresa, la sua reputazione, etc. (52)) che permettono dimostrare la convenienza dell’atto, potrebbe rappresentare un elemento che, salvo eventuale confutazione da parte dell’Agenzia delle entrate, difficilmente potrà non essere preso in considerazione da parte del giudice.
Alessandro Vicini Ronchetti
(51) Si pensi, ad esempio, alla convenienza all’uso di elicottero da parte di un imprenditore agricolo. In tal senso la dottrina afferma, esemplificando, che la spesa per l’acquisto e la gestione di un elicottero può essere inerente: (i) tanto per una grande impresa che per le sue dimensioni e per le esigenze relazionali, di sicurezza o privacy dei suoi organi apicali deve dotarsi di un mezzo di locomozione del tutto “privato”, veloce e “rappresentativo”, (ii) quanto per una piccola impresa impegnata nella manutenzione di ponti radar collocati in luoghi distanti fra loro e non facilmente accessibili. È quindi palese che il giudizio sull’inerenza dipende da molteplici fattori in varia combinazione fra loro. Ma se la ratio della subordinazione della deducibilità di un costo all’inerenza (dell’atto) rispetto all’attività è appunto quella di garantire la coerenza fra costi e programma imprenditoriale, allora la decisione dei diversi casi dipende sempre dalla corretta interpretazione della disposizione in base a elementi del tutto “interni” al sistema dei tributi. Cfr. G. Fransoni, “Qual vaghezza?”: considerazioni sui presupposti dell’interpello qualificatorio, in Rass. trib., 2016, par. 6. (52) Difficile negare che, ad esempio, nel caso di una trattativa commerciale rilevante, l’utilizzo di taluni beni possa essere importante. Si pensi ai costi per l’uso di una sede particolarmente prestigiosa per le riunioni o, ad esempio, l’uso di un aereo privato per raggiungere, sempre nell’ambito della trattativa, le eventuali diverse sedi. Tali “comfort” di cui potrà godere la controparte nella supposta trattativa commerciale, verosimilmente avranno un effetto positivo per la proficua conclusione della trattativa.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
Comm. trib. reg. Milano, sez. XIII, 11 luglio 2018 - 18 settembre 2018, n. 3846; Pres. Rel. Giovanni Izzi Azioni di rimborso – Silenzio – Provvedimento confermativo inoppugnabile – Ricorso avverso il silenzio – Inammissibilità In tema di azioni di rimborso, se, dopo la maturazione del silenzio-rifiuto, l’Amministrazione emette un provvedimento confermativo, il contribuente è tenuto a impugnarlo nel termine ordinario di decadenza; l’inoppugnabilità del provvedimento confermativo del silenzio-rifiuto determina l’inammissibilità del ricorso proposto avverso il silenzio-rifiuto per difetto di interesse ad agire. (1)
(Omissis) Svolgimento del processo. – Con ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, la società (omissis) S.p.A. (in seguito, anche (omissis) S.p.A. o società ricorrente) impugnava il silenzio-rifiuto serbato dall’Agenzia delle Entrate in relazione all’istanza di rimborso Irap presentata in data 15 giugno 2015, per complessivi Euro 1.537.206,49. Tale istanza veniva motivata sostenendo l’applicabilità alla società attuale ricorrente delle deduzioni previste per i datori di lavoro che impiegano personale dipendente a tempo indeterminato ex art. 11, comma 1, lett. a), nn. 2 e 4, D.Lgs. n. 446 del 1997. In data 12 dicembre 2016, l’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale della Lombardia notificava alla società (omissis) S.p.A. il provvedimento esplicito di rigetto prot. n. (Omissis) del 30 novembre 2016, con cui si esternavano le ragioni di diniego della spettanza del rimborso, per quanto fosse oramai ampiamente decorso il termine di 90 giorni normativamente previsto per la formazione del silenzio significativo/silenzio-diniego nei confronti dell’originaria istanza di rimborso. Come detto, avverso il (solo) silenzio la società ricorrente presentava il summenzionato ricorso, notificato all’amministrazione finanziari in data 14 marzo 2017, senza contestare invece il provvedimento prot. n. (omissis). Con il ricorso in questione la società ribadiva la spettanza del rimborso, a fronte della piena applicabilità delle deduzioni ex D.Lgs. n. 446 del 1997, essa stessa non ricadendo nei soggetti esclusi da tale beneficio, ossia le imprese operanti in concessione e a tariffa in una serie di settori
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di public utilities, ivi incluso quello dei trasporti. Non assumeva rilevanza, infatti, il rapporto vigente tra (omissis) S.p.A. (controllata di (omissis) S.p.A.) e il Comune di Milano relativo all’erogazione dei servizi inerenti ai trasporti pubblici locali, proprio in considerazione del fatto che a partire dall’anno 2011 (anno fiscale oggetto della controversia), tale rapporto non fosse più direttamente imputabile ad (omissis) S.p.A. ma a un soggetto differente, per quanto controllato. All’assenza materiale di un rapporto di concessione, di per sé sufficiente a negare l’applicabilità dell’esclusione di cui sopra, si sarebbe poi aggiunta l’impossibilità di ravvisare alcuna remunerazione a tariffa in favore di (omissis) S.p.A. in relazione all’attività di gestione del servizio di trasporto pubblico locale. L’Agenzia delle Entrate – D.R. Lombardia si costituiva formulando le proprie controdeduzioni. Se nel merito l’Ufficio affermata la sussistenza dei requisiti per l’applicabilità dell’esclusione ad (omissis) S.p.A., in via preliminare eccepiva l’inammissibilità del ricorso, essendosi la società ricorrente limitata a impugnare il silenzio diniego e non il successivo provvedimento espresso, confermativo del rigetto, che dunque sarebbe divenuto inoppugnabile, rendendo inamovibili gli effetti giuridici prodotti dallo stesso. La Commissione Tributaria Provinciale di Milano respingeva il ricorso. Per quanto non venisse accolta l’eccezione di inammissibilità, i Giudici di primo grado ritenevano pienamente integrati i requisiti per l’operatività dell’esclusione e, dunque, per la non applicabilità dell’agevolazione fiscale de quo. (Omissis) S.p.A. ha così presentato appello innanzi alla presente Commissione, lamentando la nullità/illegittimità della sentenza per carenza di motivazione e per erronea applicazione delle norme di diritto, argomentata sulla base di motivi analoghi a quelli sostenuti in primo grado: la non imputabilità, nemmeno in astratto, di un eventuale contratto di concessione ad (omissis) S.p.A., svolgente dal 2011 il ruolo di mera capo-gruppo, e l’insussistenza di alcuna remunerazione a tariffa in suo favore in relazione alla gestione del servizio di trasporto locale. L’Agenzia delle Entrate – D.R. Lombardia ha presentato controdeduzioni e appello incidentale, in cui ha ribadito la fondatezza nel merito del diniego e ha riproposto il motivo concernente l’inammissibilità del ricorso per mancata impugnazione del diniego esplicito. (Omissis) S.p.A. ha presentato ulteriori memorie illustrative a sostegno delle proprie posizioni di merito e a confutazione del ricorso incidentale. Alla pubblica udienza tenutasi in data 11 luglio 2018 la causa è stata posta in decisione sulle conclusioni rassegnate dalle parti presenti e rappresentate in udienza. Motivi della decisione. Questa Commissione accoglie l’appello incidentale, dichiarando l’inammissibilità del ricorso principale per mancata impugnazione del provvedimento espresso di diniego prot. n. (omissis) i cui effetti, analoghi a quelli del silenzio impugnato, non possono più essere rimossi tramite un’azione giurisdizionale del contribuente.
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Pur rinviando alla giurisprudenza di legittimità già citata nella pronuncia di primo grado – per quanto non seguita nella sua ratio decidendi dai Giudici della Commissione Tributaria Provinciale – il problema da affrontare in questa sede è quello relativo alla possibilità per la pubblica amministrazione di adottare un provvedimento espresso successivamente alla maturazione del silenzio amministrativo, che abbia ad oggetto la medesima fattispecie incisa dal silenzio, riflettendo sulla natura di tale atto e, dunque, sulla necessità di impugnarlo o meno per il soggetto i cui interessi risultino contrastanti con il suo stesso contenuto. Cardine attorno a cui far ruotare le presenti riflessioni è, a ben vedere, la natura stessa della funzione amministrativa. Essa, a differenza di quella legislativa e giurisdizionale, si connota per la propria inesauribilità, non essendo ancorata alla necessità ineludibile di giungere ad un esito definitivo e immodificabile in relazione al perseguimento dell’interesse pubblico che, quanto singole alle fattispecie concrete che connotano la vita all’interno del nostro ordinamento giuridico, è suscettibile di continui cambiamenti. In altre parole, l’emanazione di un provvedimento conclusivo del procedimento (o il compimento di una condotta materiale cui il legislatore riconduce effetti analoghi) costituiscono solo una parentesi nel fluire dell’esercizio della funzione amministrativa, potendo l’amministrazione ridisciplinare una determinata fattispecie tramite l’adozione di un nuovo provvedimento (si pensi, per esempio, agli specifici istituti dell’autotutela amministrativa). Pertanto, l’introduzione di un termine per la conclusione del procedimento, presupposto per l’affermazione dell’istituto del silenzio amministrativo, consente di affermare “l’esauribilità” del procedimento stesso, che deve avere un inizio e una fine, ma non del potere pubblico. Quest’ultimo, nel rispetto delle regole che ne disciplinano il legittimo esercizio, potrà esplicarsi anche attraverso una pluralità di provvedimenti successivi a quello che, in prima battuta, ha disciplinato in concreto una determinata fattispecie. Il termine, dunque, impone all’amministrazione di concludere il singolo procedimento, ma non le impedisce di riesercitare il potere, ritornando sul medesimo rapporto giuridico, aprendo un nuovo procedimento e definendolo con un nuovo provvedimento, espressione di un altrettanto nuovo apprezzamento dell’interesse pubblico. Al di là di queste riflessioni generali, la possibilità delle pubbliche amministrazioni di adottare un provvedimento successivamente alla formazione del silenzio è stata ampiamente dibattuta, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. Minori problemi si sono ravvisati in relazione alle ipotesi in cui la norma di legge non attribuisce alcun significato al silenzio amministrativo (c.d. “silenzio inadempimento”). In questi casi, si è in presenza di un comportamento omissivo che viola l’obbligo di provvedere entro il tempo fissato ex lege. Tale comportamento, dunque, è sicuramente fonte di responsabilità per l’amministrazione, ma non costituisce esercizio della funzione amministrativa. Il provvedimento tardivo, quindi, fissa per la prima
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volta la disciplina del rapporto tra amministrazione e amministrato, costituendo l’esito naturale che avrebbe dovuto raggiungere il procedimento avviato d’ufficio o tramite l’istanza di parte. In queste ipotesi non è in alcun modo dibattuta la permanenza, in capo all’amministrazione, della capacità di esercitare il proprio potere, ad eccezione delle ipotesi in cui la legge non stabilisce diversamente. Maggiori complessità si possono riscontrare nei casi – come quello oggetto della presente controversia – in cui la legge tipizza il silenzio, gli attribuisce un significato, sia esso di assenso, di diniego o di rigetto. In queste ipotesi, dunque, è la norma stessa a dettare la disciplina del rapporto tra soggetto pubblico e privato, sopperendo all’inerzia dell’amministrazione, e riconducendo al silenzio effetti analoghi a quelli di un atto amministrativo. Pertanto, il provvedimento sopravvenuto va ad incidere in queste situazioni su un contesto già caratterizzato da una propria disciplina, scaturita non da un precedente provvedimento, ma da una condotta materiale dell’amministrazione (l’essere rimasta in silenzio) cui il legislatore attribuisce specifici effetti giuridici. In questa chiave assume quindi rilievo la summenzionata inesauribilità del potere amministrativo: nulla vieta all’amministrazione di esercitare nuovamente (rectius, per la prima volta) il potere amministrativo, disciplinando la fattispecie concreta nel modo che ritenga maggiormente soddisfacente per l’interesse pubblico, in conformità o meno agli effetti fatti discendere dal legislatore al silenzio da essa precedentemente serbato. Il provvedimento tardivo, dunque, non è chiamato ad annullare o a revocare un precedente provvedimento – che di fatto manca – ma a confermare o modificare la disciplina del rapporto tra amministrazione e amministrato fatta discendere del legislatore direttamente dalla condotta materiale (il silenzio) originariamente tenuta dalla p.a. Per questo, dunque, il provvedimento tardivo non potrà essere correttamente considerato quale provvedimento di secondo grado (annullamento d’ufficio o revoca), ma risulterà l’esito di un nuovo e autonomo procedimento, frutto di una nuova ponderazione di interessi, che dovrà necessariamente essere oggetto di impugnazione da parte del soggetto in capo al quale produce effetti negativi, qualora quest’ultimo voglia evitare il sopraggiungere dell’inoppugnabilità di tali effetti. D’altro canto, anche il provvedimento tardivo dovrà essere emanato nel rispetto delle norme che fissano i requisiti di legittimità procedimentale e sostanziale, la cui violazione potrà costituire i profili di censura che possono essere mossi dal privato. Concentrandosi ora sul nostro caso, siamo in presenza di un provvedimento sfavorevole emanato tardivamente dall’amministrazione, ma comunque prima della proposizione del ricorso giurisdizionale contro il silenzio-diniego. La natura confermativa di tale atto induce a risolvere il problema circa la sua impugnabilità (rectius, necessaria impugnazione da parte dell’attuale ricorrente) alla luce delle disquisizioni in materia di atti e provvedimenti confermativi, ritenendone
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la disciplina applicabile in via analogica al caso de quo, per quanto il provvedimento adottato a seguito di un silenzio tipizzato – come visto sopra – non costituisce un vero e proprio provvedimento di secondo grado (mancando quello di primo grado), ma un esercizio ex novo della funzione amministrativa. Nota è la distinzione tra provvedimento confermativo e atto meramente confermativo. Nel primo caso l’amministrazione avvia un nuovo procedimento, svolge attività istruttoria, articola una nuova motivazione, pur giungendo a confermare la disciplina regolante il caso concreto, come fissata da precedente provvedimento amministrativo (o, nel caso di specie, giungendo a confermare la disciplina dettata direttamente dalla disposizione di legge che qualifica come silenzio diniego la condotta inerte tenuta dalla p.a.). Con l’atto meramente confermativo, invece, l’amministrazione si limita a ribadire la precedente decisione, senza procedere ad esame alcuno della questione. Quanto all’impugnabilità (o alla necessità di impugnare in aggiunta al silenzio), il provvedimento amministrativo è autonomo esercizio di potere, autonomo provvedimento, capace di produrre effetti giuridici propri che, se non contestati, divengono inoppugnabili; l’atto meramente confermativo, invece, è espressione della semplice volontà dell’amministrazione di non riesaminare la questione, risultando quindi privo di un’effettiva natura provvedimentale e, dunque, di una propria autonomia. L’esito è che se il provvedimento amministrativo può/deve essere impugnato, l’atto confermativo no. Nel caso di specie, non si può che propendere per la natura di provvedimento confermativo (da impugnarsi autonomamente) del diniego prot. n. (...): ciò sia se si ragiona in astratto (costituendo tale provvedimento il primo effettivo esercizio di potere in relazione caso di specie, la prima manifestazione di volontà della pubblica amministrazione, essendo il precedente diniego una condotta materiale produttiva di effetti che non si presta ad essere meramente confermata), sia se si ragiona in concreto (la motivazione del provvedimento mostra come l’amministrazione abbia ponderato ex novo, svolgendo ulteriore attività istruttoria, gli interessi del caso; d’altra parte, in relazione alla sua precedente condotta inerte, non vi è alcuna certezza quanto all’effettivo compimento di attività procedimentale e, dunque, alla formazione di una prima volontà amministrativa suscettibile di conferma). In conclusione, la mancata impugnazione del provvedimento (tardivo e) confermativo del silenzio-diniego determina il venir meno dell’interesse a ricorrere per il contribuente, il quale non potrebbe ottenere alcun vantaggio concreto dalla rimozione degli effetti del silenzi-rifiuto, essendo questi riprodotti autonomamente dal provvedimento tardivo, della cui legittimità non è in ogni caso dato discutere, non essendo in alcun modo stato tempestivamente impugnato. Il ricorso principale, dunque, non può che risultare inammissibile. (Omissis)
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La Commissione accoglie l’appello incidentale e, in riforma della sentenza impugnata, dichiara inammissibile il ricorso principale. (Omissis)
(1) Riflessioni in tema di impugnabilità degli atti di diniego espresso di rimborso sopravvenuti al silenzio-rifiuto. Sommario: 1. La fattispecie vagliata dal giudice di appello milanese, la (condivisibile)
soluzione rassegnata e lo spunto, ricavabile dalla peculiare motivazione, sulla possibile soluzione alternativa. – 2. La soluzione proposta dalla CTR di Milano: il silenzio in materia di rimborso è un’ipotesi di “silenzio diniego” e, conseguentemente, l’atto di diniego di rimborso, sopravvenuto al silenzio, può configurarsi o alla stregua di un “provvedimento confermativo” o alla stregua di un “atto meramente confermativo” del silenzio. – 3. Questioni discendenti dalla soluzione accolta dalla CTR di Milano alla luce delle teorie elaborate dalla dottrina tributaria in merito alla natura da attribuire al silenzio in materia di rimborso. – 4. Gli (ondivaghi) orientamenti della giurisprudenza di legittimità in merito alla natura del silenzio in materia di rimborso, che non ha ancora del tutto respinto la possibile qualificazione del silenzio come “provvedimento reiettivo”. – 5. Conclusioni: non è possibile recepire in materia di rimborso la distinzione tra “provvedimenti confermativi” e “atti meramente confermativi”, in quanto fictio creata dalla giurisprudenza amministrativa per esigenze interne ed estranee al diritto tributario; donde l’onere di impugnare sempre l’atto di diniego sopravvenuto al silenzio, cui non è possibile attribuire natura provvedimentale (anche e proprio) alla luce delle peculiarità del diritto tributario rispetto quello amministrativo.
Nei casi in cui l’Amministrazione emetta un atto di diniego di rimborso dopo la maturazione del silenzio, si pone la questione di stabilire se il contribuente possa limitarsi a proporre ricorso avverso il silenzio, nei modi e nei tempi stabiliti dall’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, o se, invece, sia onerato ad impugnare il diniego di rimborso sopravvenuto nel termine ordinario di decadenza. La CTR di Milano, nella sentenza annotata, accoglie quest’ultima soluzione (pressoché pacifica anche in dottrina), ma attraverso una motivazione del tutto peculiare, che offre lo spunto per evidenziare come la soluzione rassegnata potrebbe essere diversa laddove si qualificasse il silenzio in materia di rimborso alla stregua di un vero e proprio provvedimento reiettivo; qualificazione, quest’ultima, che, se è esclusa dalla quasi totalità della dottrina, non sembra invece ancora del tutto respinta dalla giurisprudenza di legittimità. When the Italian Revenue Agency tacitly denies the reimbursement of a tax credit and, subsequently, issues an administrative deed that confirms such denial, it has to be established whether taxpayers need to challenge the latter administrative deed within the ordinary deadline of 60 days, or if, alternatively, they can challenge the tacit denial within the extended period set forth under article 21, comma 2, of the Decree n. 546/1992. This brief contribution highlights that the solution to this issue depends on whether the Italian Revenue Agency’s tacit denials of reimbursement can be qualified as proper administrative deeds.
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1. La fattispecie vagliata dal giudice di appello milanese, la (condivisibile) soluzione rassegnata e lo spunto, ricavabile dalla peculiare motivazione, sulla possibile soluzione alternativa. – In materia di rimborso, l’attività dell’Amministrazione finanziaria successiva alla maturazione del silenziorifiuto può dare luogo a fattispecie eterogenee: l’atto successivo al silenzio può essere, infatti, sia di accoglimento, sia di rigetto dell’istanza di rimborso presentata dal contribuente; inoltre, esso può intervenire prima o nelle more del giudizio instaurato avverso il silenzio-rifiuto. La sentenza in epigrafe riguarda il seguente caso. Nel giugno 2015, una società presentava al competente Ufficio un’istanza di rimborso in materia Irap. Nel dicembre 2016, quando era già ampiamente decorso il termine di novanta giorni normativamente previsto per la formazione del silenzio-rifiuto, l’Ufficio notificava alla società un atto espresso di diniego di rimborso. Nel marzo 2017, scaduti i termini per impugnare il provvedimento di diniego espresso, la società proponeva ricorso avverso il silenzio-rifiuto. L’Ufficio, in primo grado, eccepiva l’inammissibilità del ricorso introduttivo, sul presupposto – si legge nella sentenza – che la società si era “limitata a impugnare il silenzio diniego e non il successivo provvedimento espresso, confermativo del rigetto, che dunque sarebbe divenuto inoppugnabile, rendendo inamovibili gli effetti giuridici prodotti dallo stesso”. Tale eccezione veniva respinta dai giudici di primo grado e riproposta con appello incidentale dall’Ufficio (vittorioso nel merito) nanti la CTR di Milano. La questione posta dall’Ufficio era, dunque, la seguente: se il contribuente, dopo la maturazione del silenzio-rifiuto, potesse limitarsi a proporre ricorso avverso il silenzio-rifiuto, nei modi e nei tempi stabiliti dall’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, o se, invece, per non perdere il proprio diritto al rimborso, fosse onerato ad impugnare il diniego espresso di rimborso nel termine ordinario di decadenza. La soluzione pacifica in dottrina – e condivisibile senza riserve – è nel senso che “se, anche dopo i novanta giorni, ma prima della proposizione del ricorso, perviene all’istante (…) un atto esplicito di diniego di rimborso, l’impugnativa va allora proposta (…) nel consueto termine di decadenza di sessanta giorni, secondo la regola generale dei ricorsi tributari impugnatori” (1).
(1) Così M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2013, 292, nonché gli Autori, che saranno citati nel prosieguo, che qualificano il silenzio in materia di rim-
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La CTR di Milano giunge alla medesima conclusione (“la mancata impugnazione del provvedimento confermativo del silenzio-diniego determina il venir meno dell’interesse a ricorrere per il contribuente, il quale non potrebbe ottenere alcun vantaggio concreto dalla rimozione degli effetti del silenzio rifiuto”), ma attraverso una motivazione del tutto peculiare, che offre lo spunto per evidenziare come la soluzione rassegnata per il caso vagliato – oggi, come detto, pressoché pacifica – potrebbe essere diversa laddove si qualificasse il silenzio in materia di rimborso alla stregua di un vero e proprio provvedimento reiettivo; qualificazione, quest’ultima, che, se è esclusa dalla quasi totalità della dottrina (2), non sembra invece ancora del tutto respinta dalla giurisprudenza di legittimità. 2. La soluzione proposta dalla CTR di Milano: il silenzio in materia di rimborso è un’ipotesi di “silenzio diniego” e, conseguentemente, l’atto di diniego di rimborso, sopravvenuto al silenzio, può configurarsi o alla stregua di un “provvedimento confermativo” o alla stregua di un “atto meramente confermativo” del silenzio. – La CTR di Milano esamina l’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo del contribuente richiamando la distinzione, propria del diritto amministrativo, tra gli istituti del “silenzio rifiuto” (o “silenzio inadempimento”) e del “silenzio diniego” (o “silenzio significativo”). Il “silenzio rifiuto” si configura quando l’inerzia dell’amministrazione non è qualificata dal legislatore e la sua formazione non costituisce una forma di esercizio della funzione amministrativa, ma un mero inadempimento dell’obbligo di provvedere (3). Esso è, in sostanza, un “mero fatto che consente al privato di chiedere, in via giurisdizionale, quel provvedimento (o più pro-
borso alla stregua di un mero fatto. Nello stesso senso si è espressa anche la dottrina (minoritaria) che rinviene nel silenzio in materia di rimborso un vero e proprio provvedimento reiettivo di rimborso: v., con riguardo al previgente art. 16 del d.P.R. n. 636/1972, C. Glendi, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, 350 (“l’ufficio, qualora il ricorso non sia stato presentato, ha la possibilità di emettere un provvedimento esplicito di rifiuto, facendo così scattare il minor termine di 60 giorni per l’impugnativa”) e, più recentemente, con riguardo all’art. 21 del D.Lgs. n. 546/1992, sempre Id., Atti impugnabili e oggetto del ricorso, in Dir. prat. trib., 2017, 2746 ss.. (2) V. nota precedente. (3) Cfr. B.G. Mattarella, Il provvedimento, in S. Cassese (a cura di), Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 2012, 348.
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priamente, quell’assetto di interessi), invano richiesto con l’istanza (inevasa) rivolta all’amministrazione” (4). Se il silenzio dell’amministrazione finanziaria in materia di rimborso si qualifica come un’ipotesi di “silenzio rifiuto”, non dovrebbe sussistere dubbio alcuno – come non manca di rilevare la stessa CTR – circa la necessità di impugnare il diniego espresso sopravvenuto al silenzio, poiché tale atto fisserebbe, per la prima volta, la disciplina del rapporto tra amministrazione e contribuente (5). La CTR ravvisa, invece, nel silenzio in materia di rimborso una vera e propria ipotesi di “silenzio diniego” (6). Il “silenzio diniego” è un silenzio tipizzato, che acquista un suo valore ad opera del precetto avente forza qualificante (7) e si configura nelle ipotesi in cui il legislatore equipara la condotta, omissiva della P.A. a seguito di un’istanza, al rigetto della stessa (8). Diversamente dal “silenzio inadempimento” (che, come si è visto, non costituisce esercizio della funzione amministrativa), “il silenzio diniego”, “sostituendo ex lege il provvedimento esplicito, chiude il procedimento ed estingue il potere di provvedere, lasciando sussistere soltanto i poteri di autotutela” (9).
(4) Così F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del suo nuovo trattamento processuale, in Dir. proc. amm., 2002, 239 ss., ma si veda anche Id., Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971, 278. (5) Il “silenzio rifiuto” – si legge nella sentenza in esame – “non costituisce esercizio della funzione amministrativa. Il provvedimento tardivo, quindi, fissa per la prima volta la disciplina del rapporto tra amministrazione e amministrato, costituendo l’esito naturale che avrebbe dovuto raggiungere il procedimento avviato d’ufficio o tramite l’istanza di parte”. (6) Nella sentenza si legge che: “Maggiori complessità si possono riscontrare nei casi - come quello oggetto della presente controversia - in cui la legge tipizza il silenzio, gli attribuisce un significato, sia esso di assenso, di diniego o di rigetto. In queste ipotesi, dunque, è la norma stessa a dettare la disciplina del rapporto tra soggetto pubblico e privato, sopperendo all’inerzia dell’amministrazione, e riconducendo al silenzio effetti analoghi a quelli di un atto amministrativo”. (7) Cfr. M.S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1993, 337. Le ipotesi di silenzio diniego non sono molte; gli esempi più rilevanti sono: (i) l’inerzia prevista dall’art. 25, comma 4, L. n. 241/1990, sull’istanza di accesso ai documenti amministrativi; (ii) l’inerzia prevista dall’art. 53, comma 10, D.Lgs. n. 165/2001 (T.U. sul pubblico impiego), sulla richiesta degli impiegati pubblici a svolgere incarichi conferiti da soggetti diversi dalla P.A.; (iii) l’inerzia prevista dall’art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380/2001 (T.U. edilizia), sulla c.d. richiesta di permesso in sanatoria. (8) V., sul punto, R. Rolli, La voce del diritto attraverso i suoi silenzi, Milano, 2012, 155. (9) Cfr. F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del suo nuovo
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Dopo aver ricondotto il silenzio in materia di rimborso al “silenzio diniego”, la CTR di Milano risolve la questione circa l’impugnabilità (rectius, la necessaria impugnazione) dell’atto di diniego sopravvenuto al silenzio “alla luce delle disquisizioni in materia di atti e provvedimenti confermativi”: in particolare, secondo la CTR, nei casi in cui – dopo la maturazione del silenzio con valore legale tipico di rifiuto – sopravviene un atto di diniego espresso, occorre verificare – seguendo i principi del diritto amministrativo – se quest’ultimo atto sia un “provvedimento confermativo” oppure un “atto meramente confermativo” del silenzio. Il “provvedimento confermativo” è un provvedimento di secondo grado con cui l’Amministrazione riapre un procedimento, ripercorre l’iter formativo della decisione e conclude nel senso della piena validità del proprio precedente provvedimento (10). L’“atto meramente confermativo” è, invece, un atto con cui l’Amministrazione, senza aprire un nuovo procedimento, si limita a ribadire che non vi sono ragioni per ritornare sulle proprie decisioni, ossia a manifestare la propria volontà di non sottoporre a riesame il precedente provvedimento (11). La distinzione tra i due atti – certamente non agevole, poiché si sostanzia in “un problema di interpretazione dell’atto o del comportamento dell’autorità amministrativa” (12) – è rilevante, perché, mentre il provvedimento di con-
trattamento processuale, cit., 239 ss. (10) Così, quasi testualmente, R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2006, 621. (11) Così, R. Villata, M. Ramajoli, loc. ult. cit. Sul discrimen tra “atti” e “provvedimenti” confermativi nella giurisprudenza amministrativa v., ex multis, Cons. di Stato, sez. IV, 14 aprile 2014, n. 1805; Id, sez. IV, 12 febbraio 2015, n. 758; Id., sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 812; Id., sez. III, 30 maggio 2017, n. 2564, ove è stato stabilito che: “Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l’atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria o una nuova ponderazione degli interessi” e, in particolare, ricorre “l’atto meramente confermativo quando l’amministrazione, a fronte di un’istanza di riesame, si limita a dichiarare l’esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione”. (12) Così M.S. Giannini, op. cit., 564. Sulla difficoltà di tracciare la linea di confine tra i due tipi di atti v., inoltre, E. Cannada Bartoli, Conferma (dir. amm.), in Enc. dir., VIII, 1961, 856 ss., spec. par. 5: “Un problema delicato riguarda stabilire quale specie di conferma si tratti in concreto […] per risolvere il problema, giurisprudenza e dottrina hanno formulato il criterio secondo il quale, se l’amministrazione ha riaperto il procedimento, considerato nuove risultanze e confermato il precedente atto, tale conferma è provvedimento impugnabile; se non risulta
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ferma è un atto impugnabile, in quanto è un vero e proprio provvedimento, l’atto meramente confermativo non è suscettibile di impugnazione, in quanto non contiene una autonoma determinazione provvedimentale, ma una mera manifestazione della volontà della Amministrazione di non ritornare su scelte già effettuate (13). Da tale sequenza argomentativa dovrebbe logicamente discendere che: (i) nei casi in cui l’atto di diniego di rimborso, sopravvenuto al silenzio, sia qualificabile alla stregua di un “provvedimento confermativo” (impugnabile), il contribuente – al fine di scongiurare la cristallizzazione nei suoi confronti del provvedimento confermativo di rigetto e la susseguente perdita definitiva del diritto al rimborso – deve necessariamente impugnare tale atto nei termini ordinari di sessanta giorni (14); (ii) nei casi in cui, invece, l’atto di diniego di rimborso, sopravvenuto al silenzio, sia qualificabile alla stregua di un “atto meramente confermativo”, il contribuente può limitarsi a impugnare il solo silenzio nel più ampio termine stabilito dall’art. 21 del D.Lgs n. 546/1992. Tanto brevemente evidenziato, occorre ora soffermarsi su un passaggio della sentenza annotata, ove la CTR di Milano afferma che “il provvedimento a seguito di un silenzio tipizzato (…) non costituisce un vero e proprio provvedimento di secondo grado (mancando quello di primo grado)”, ma “il primo esercizio di potere in relazione al caso di specie, la prima manifestazione di volontà della pubblica amministrazione”: così argomentando, la CTR esclude che il silenzio in materia di rimborso equivalga ad un provvedimento reiettivo
un riesame e l’amministrazione respinge la domanda di ritiro, questa reiezione costituisce mero atto di conferma. Il principio sembra ovvio; senonché occorre indagare secondo quali criteri possa ritenersi che l’amministrazione abbia proceduto al riesame (l’espressione «riapertura del procedimento» è puramente di comodo, priva di rigore tecnico)”. (13) V. R. Chieppa, Provvedimenti di secondo grado (dir. amm.), in Enc. Dir., Annali, II, Milano, 2008, par. 19, secondo cui “la distinzione tra i due provvedimenti riguarda, principalmente, le loro conseguenze sul piano processuale: secondo la giurisprudenza, infatti, mentre la conferma si sostituisce integralmente al precedente provvedimento, e risulta autonomamente impugnabile da parte dell’interessato, l’atto meramente confermativo non sarebbe affatto impugnabile, risultando privo di reale efficacia lesiva”. Per un’analoga impostazione in tema di autotutela, v. F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2017, 81-84. (14) V., in senso conforme, M.S. Giannini, op. cit., 562 e 563: “se l’atto confermato è impugnato ed è annullato, ma non è stata impugnata la conferma, questa conserva validità ed efficacia: occorreva apposita impugnativa per rimuoverla. Se invece è impugnata e annullata la conferma (ma non è impugnato l’atto confermato), l’annullamento della conferma comporta l’annullamento anche dell’atto confermato. Si trae da ciò che la conferma (…) è una rinnovazione dell’atto, che si distingue dalle rinnovazioni comuni per essere in funzione di riesame”.
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dell’istanza di rimborso, pur se riconducibile – secondo la stessa CTR – a un’ipotesi di “silenzio diniego”. Ancorché esigenze di brevità non consentano di soffermarsi sulla questione della natura provvedimentale o non provvedimentale del “silenzio diniego” (15), è opportuno in merito osservare quanto segue. Se, da un lato, si esclude che il silenzio in materia di rimborso sia un provvedimento, allora sembra un mero esercizio di stile interrogarsi – come si interrogano i giudici della CTR nella sentenza in epigrafe (16) – se l’atto espresso di diniego di rimborso sopravvenuto al silenzio sia un “provvedimento confermativo” o un “atto meramente confermativo” del silenzio: come si dirà meglio infra, non può, infatti, concepirsi un provvedimento di secondo grado rispetto a un mero fatto. Se, dall’altro lato, si qualifica – come qualificano i giudici della CTR nella sentenza in epigrafe (17) – il silenzio in materia di rimborso alla stregua di un’ipotesi di “silenzio diniego”, allora bisognerebbe forse tenere conto della giurisprudenza amministrativa più recente, che, oggi, sembra consolidata sia nell’attribuire natura provvedimentale al “silenzio diniego” (18), sia nell’ammettere, quale corollario, la configurabi-
(15) Circa la natura giuridica del “silenzio diniego” si prospettano tesi alternative tanto in dottrina, quanto in giurisprudenza, e la sua natura provvedimentale non può, perciò, dirsi pacifica. In senso conforme – se non si è frainteso – a quanto statuito dalla CTR di Milano nella sentenza annotata, si veda, ad esempio, C. Guacci, La tutela avverso l’inerzia della pubblica amministrazione secondo il Codice del processo amministrativo, Torino, 2012, 212, secondo cui “In caso di inerzia legalmente tipizzata, difetta non solo l’esito del procedimento di primo grado, ma lo stesso procedimento, che il legislatore presuppone non essersi svolto per ricollegare, in via suppletiva, al rapporto una disciplina legale tipica. […] In presenza di una fattispecie siffatta […] lo strumento per provvedere su un rapporto giuridico oggetto di disciplina legale è rappresentato dal procedimento, all’esito del quale emanare l’eventuale provvedimento. Non si tratta di un provvedimento di secondo grado, perché l’amministrazione non ha mai provveduto in precedenza”. La giurisprudenza più recente, tuttavia, sembra ferma nel qualificare il “silenzio diniego” alla stregua di un vero provvedimento negativo: al riguardo, oltre alle pronunce che saranno citate nelle note successive, si veda R. Galli, Nuovo corso di diritto amministrativo, Milano, 2016, vol. I, 789-790. (16) Nella sentenza annotata si legge, in particolare, che: “La natura confermativa di tale atto induce a risolvere il problema circa la sua impugnabilità (…) alla luce delle disquisizioni in materia di atti e provvedimenti confermativi, ritenendone la disciplina applicabile in via analogica al caso de quo, per quanto il provvedimento adottato a seguito di un silenzio tipizzato – come visto sopra – non costituisce un vero e proprio provvedimento di secondo grado (mancando quello di primo grado), ma un esercizio ex novo della funzione amministrativa”. (17) V. retro nota 5. (18) Ad esempio, con riguardo al silenzio disciplinato dall’art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380/2001 (T.U. edilizia), v. Cons. di Stato, sez. IV, 1 febbraio 2017, n. 410, ove è stato statuito
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lità tanto di “provvedimenti confermativi” (19), quanto di “atti meramente confermativi” (20) di silenzi con valore tipico. 3. Questioni discendenti dalla soluzione accolta dalla CTR di Milano alla luce delle teorie elaborate dalla dottrina tributaria in merito alla natura da attribuire al silenzio in materia di rimborso. – La questione relativa alla natura da attribuire al silenzio in materia di rimborso è stata (ampiamente) dibattuta dalla più autorevole dottrina tributaria (21).
che “il silenzio dell’Amministrazione sulla richiesta di concessione in sanatoria e sulla istanza di accertamento di conformità di cui all’art. 36 del testo unico sull’edilizia ha un valore legale tipico di rigetto e cioè costituisce una ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego” e che “l’inutile decorso del predetto termine comporta la reiezione della domanda de qua e quindi si invera un vero e proprio provvedimento tacito di diniego” (in senso sostanzialmente analogo, cfr. Cons. di Stato, n. 2691/2008; Id. 1710/2006; Id. 706/2003). Nella giurisprudenza di merito v., ex multis, T.A.R. Milano, sez. I, 1 giugno 2017, n. 1231, ove si afferma che il “silenzio serbato dall’Amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (…) pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di procedura o la mancanza di motivazione, con la conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile non per difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto di rigetto”. (19) Per un’ipotesi di “provvedimento confermativo” di un “silenzio diniego” v. Cons. di Stato, sez. V, 25 febbraio 2009, n. 1115, nonché , nella giurisprudenza di merito, T.A.R. Genova, sez. I, 11 giugno 2016, n. 564: “la mancata tempestiva impugnazione di un provvedimento tacito di diniego all’accoglimento di un’istanza del privato non determina l’inammissibilità del ricorso proposto avverso il diniego sopravvenuto che, laddove fondato su una motivazione espressa, in esito all’istruttoria compiuta e alla valutazione effettuata, non può assumere le caratteristiche di un atto meramente confermativo del precedente silenzio, ma costituisce atto di conferma a carattere rinnovativo che modifica la realtà giuridica e riapre i termini per la proposizione del ricorso giurisdizionale”. (20) Per un’ipotesi di “atto meramente confermativo” di un “silenzio diniego” v., ad esempio, Cons. di Stato, sez. V, 23 gennaio 2018, n. 423: “La mancata impugnazione del diniego, espresso o tacito, nel termine non consente la reiterabilità dell’istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego laddove questo abbia carattere meramente confermativo del primo. Ne consegue che, nella fattispecie in esame, il ricorso avverso i dinieghi dell’agosto 2015 doveva ritenersi inammissibile, essendo gli atti impugnati meramente confermativi di un precedente silenzio significativo non fatto oggetto di gravame”. (21) V., per tutti, anche per diversi orientamenti emersi in dottrina, M. Basilavecchia, Rimborso d’imposta, in Treccani – Diritto Online, 2014; M. Miscali, Il diritto di restituzione, Milano, 2004, 236-244; M.C. Fregni, Rimborso dei tributi, in Dig. disc. priv. sez. comm., XII, Torino, 1996, 498 ss.; G. Tabet, Rimborso di tributi, in Enc. Giur. Trecc., XXVII, Roma, 1991;
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In particolare, secondo l’orientamento maggioritario, oramai consolidato, l’inerzia dell’Amministrazione finanziaria di fronte alla domanda di rimborso va qualificata come “un limite temporale (uno spatium deliberandi accordato all’amministrazione), prima del quale il ricorso non può essere presentato” (22). A tale conclusione si giunge perché: (a) non vi è alcuna disposizione che consenta di equiparare il rifiuto di rimborso a un provvedimento (23); (b) la lettera dell’art. 21 del D.Lgs. n. 546/1992 suggerisce che il termine per la proposizione del ricorso avverso il silenzio non è un termine decadenziale, ma un termine prescrizionale (24); (c) dopo la formazione del silenzio, lo stesso art.
e, meno di recente, ancora G. Tabet, Contributo allo studio dei rimborsi d’imposta, Roma, 1985 e F. Tesauro, Il rimborso dell’imposta, Torino, 1975. (22) Così F. Tesauro, Lineamenti del processo tributario, Rimini, 1991, 108. La dottrina tributaria – pur se divisa, come noto, in merito all’individuazione dell’oggetto del processo tributario – è concorde nel qualificare il silenzio dell’Amministrazione come un mero “fatto” e nel ritenere che il ricorso contro il silenzio sia esercizio non di un’azione di impugnazione, ma di un’azione diretta a far accertare il diritto di credito del ricorrente: v., senza pretesa di completezza, F. Gallo, Il silenzio nel diritto tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1983, I, 81 ss.; G. Tabet, Le azioni di rimborso nella nuova disciplina del processo tributario, in Riv. dir. trib., 1993, 763; Id., Le azioni di rimborso, in AA.VV., Il processo tributario, collana Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da F. Tesauro, Torino, 1998, 412-413; P. Russo, voce Silenzio della Pubblica Amministrazione (dir. trib.), in Enc. giur., XXVIII, Roma, 1992, 2; F. Batistoni Ferrara, Appunti sul processo tributario, Padova, 1995, 56; M.C. Fregni, voce Rimborso dei tributi, in Dig. disc. priv., sez. comm., vol. XII, Torino, 1996, 510-511; A. Giovannini, Il ricorso e gli atti impugnabili, in AA.VV. Il processo tributario, cit., 399401; M. Basilavecchia, La funzione impositiva, cit., 59, 291-292; A. E. La Scala, Il silenzio dell’Amministrazione finanziaria, Torino, 2012, 227-232. Nella manualistica cfr. A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino 2003, 581-584; P. Russo, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2013, 131-132; F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2014, 116 e G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Milano, 2015, 620-621. (23) Così F. Tesauro, Lineamenti, cit., 108, e, più recentemente, Id., Manuale del processo tributario, Torino, 2014, 116; conclusione, quest’ultima, che risulterebbe avvalorata anche dall’analisi, in successione diacronica, dei dati legislativi in materia di rimborso, atteso che nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 (e, ancor prima, nell’art. 16 del d.P.R. n. 636/1972, nella formulazione risultante dalle modifiche operate dal d.P.R. n. 739/1981) il legislatore non ha più mantenuto l’equiparazione del silenzio a un “atto di imposizione”, che era presente, invece, nella formulazione originaria dell’art. 16 del d.P.R. n. 636/1972: cfr. P. Russo, voce Silenzio della Pubblica Amministrazione (dir. trib.), cit., 2, e, sulla qualificazione, come “silenzio atto” del silenzio previsto nella formulazione originaria dell’art. 16 del d.P.R. n. 636/1972, F. Tesauro, Il rimborso dell’imposta, cit., 224-228. (24) Cfr., per tutti, M. Basilavecchia, La funzione impositiva, cit., 2912-292 e G. Tabet, Le azioni di rimborso, cit., 412. Anche questa conclusione risulterebbe avvalorata dall’analisi, in successione diacronica, dei dati legislativi in materia di rimborso. La formulazione originaria
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21 del D.Lgs. n. 546/1992 non vieta all’Amministrazione di provvedere, per la prima volta, sull’istanza presentata dal contribuente, ciò che, secondo i principi del diritto amministrativo, sarebbe impossibile se il silenzio fosse equiparato ad un vero atto di diniego, idoneo cioè a realizzare una consumazione del potere di intervento dell’ente, se non nell’esercizio dell’autotutela (25). Secondo l’orientamento minoritario, invece, il silenzio dell’Amministrazione configurerebbe una vera e propria ipotesi di diniego tipizzato, avente natura provvedimentale e da ricondurre all’istituto, sopra brevemente descritto, del “silenzio diniego” (26). A sostegno di tale conclusione si è osservato che: (a) l’art. 19, comma 1, lett. g), del D.Lgs. n. 546/1992 include tra gli atti impugnabili il rifiuto tacito alla restituzione dei tributi, equiparandolo, espressamente, al rifiuto espresso di rimborso (27); (b) il termine per l’impugnativa del silenzio, pur se coincidente con il termine di prescrizione del diritto al rimborso, sarebbe in realtà un termine decadenziale, la cui procrastinazione rispetto al termine ordinario trova la sua ragion d’essere nell’intenzione del legislatore di evitare “un aumento della litigiosità e delle pendenze” (28); (c) il contribuente avrebbe un interesse
dell’art. 21, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, infatti, stabiliva che il ricorso avverso il rifiuto tacito previsto dal comma 1, lett. g) dell’art. 19 “non può essere proposto prima del novantesimo giorno dalla domanda di restituzione presentata entro i termini previsti da ciascuna legge d’ imposta”, senza prevedere null’altro; ne conseguiva che il ricorso contro il rifiuto-tacito doveva essere proposto nel termine ordinario di 60 giorni dalla formazione del silenzio e che, pertanto, il regime di impugnazione del silenzio era identico a quello di un qualsiasi altro atto. Sennonché il legislatore ha poi notevolmente differenziato i due regimi con il D.L. n. 331/1993 (conv. in L. n. 427/1993), specificando, nel comma 2 dell’art. 21, che il ricorso può essere proposto (dopo il novantesimo giorno dalla domanda di restituzione) “fino a quando il diritto alla restituzione non è prescritto”: cfr. A. Giovannini, op. ult. cit., 399-400. (25) Cfr. P. Russo, Manuale, cit., 131. (26) La tesi in esame è autorevolmente sostenuta da: C. Glendi, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, 328-354; Id., Processo tributario, in Enc. giur. Treccani, vol. Aggiornamento XIII, Roma, 2005, 7 ss.; Id., Atti impugnabili e oggetto del ricorso, in Dir. prat. trib., 2017, 2746 ss.; G. Gaffuri, Diritto tributario, Padova, 2009, 257 – 260; M. Polano, sub Art. 16, in C. Glendi (a cura di), Commentario delle leggi sul contenzioso tributario, Milano, 1990, 313-325; seguendo la tesi per cui il silenzio non è mero fatto, ma costituisce un provvedimento di segno negativo, il ricorso avverso il silenzio è un’azione di impugnazione, volta ad ottenere l’annullamento del provvedimento-silenzio. (27) Osservandosi, altresì, che “il rifiuto tacito”, in quanto ricompreso negli atti autonomamente impugnabili, è soggetto alle regole dettate dal comma 3 dell’art. 19: cfr. C. Glendi, Atti impugnabili, cit., 2746 ss. (28) In particolare, secondo C. Glendi, Atti impugnabili, cit., 2746 ss., la ratio dell’estensione del termine previsto per l’impugnazione del silenzio sarebbe da rinvenire nella relazione
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pretensivo alla restituzione di quanto indebitamente versato (29), sicché al silenzio dell’Amministrazione dovrebbe essere necessariamente attribuito un valore legale tipico (30). Come anticipato alla fine del precedente paragrafo, l’indagine compiuta dalla CTR di Milano circa la qualificazione – in termini di “provvedimento confermativo” o di “atto meramente confermativo” del silenzio – dell’atto di rifiuto sopravvenuto alla maturazione del silenzio non ha ragione di porsi laddove si aderisca alla tesi dottrinale maggioritaria che individua nel silenzio dell’Amministrazione finanziaria un mero fatto, privo di qualsiasi connotato provvedimentale: infatti, se si esclude che il silenzio è un provvedimento reiettivo tacito, non potrebbe nemmeno ipotizzarsi l’esistenza di un provvedimento confermativo, poiché è evidentemente impossibile concepire un provvedimento di secondo grado confermativo di un mero fatto, anziché di un precedente provvedimento (31). L’indagine qualificatoria compiuta dalla CTR di Milano ha, invece, un senso qualora si aderisca alla tesi dottrinale minoritaria che equipara il silen-
illustrativa al d.P.R. n. 739/1981 con cui il legislatore aveva modificato l’art. 16 del previgente d.P.R. n. 636/1972 (la cui formulazione originaria stabiliva che il ricorso avverso il silenzio doveva essere proposto nel termine ordinario di sessanta giorni, decorrente dalla maturazione del silenzio), introducendo, nel comma 7, un termine identico a quello oggi stabilito dall’art. 21, comma 2 (il citato comma 7 dell’art. 16 stabiliva infatti che: “trascorsi novanta giorni dalla presentazione dell’istanza di rimborso (…) il ricorso può essere proposto fino a quando il diritto al rimborso non è prescritto”). Invero, nella citata relazione illustrativa al d.P.R. n. 739/1981, il legislatore aveva espressamente stabilito che il “nuovo” comma 7 “mira (…) ad evitare che il decorso dei termini [per la formazione del silenzio] (…) sia di per sé una causa di aumento della litigiosità e delle pendenze”. Anche secondo G. Gaffuri, op. cit., 258-259, il termine in esame sarebbe un termine di decadenza, dovendosi però rinvenire la sua ratio nell’intento del legislatore di “ridurre i rischi di errori irreparabili per il contribuente (che può essere tecnicamente impreparato), in un caso anomalo nel quale esso non è, per così dire, sollecitato ad opporsi per la difesa dei propri interessi”. (29) Cfr. C. Glendi, Atti impugnabili, cit., 2746 ss. (30) Cfr. A.M. Sandulli, Sul regime attuale del silenzio inadempimento della pubblica amministrazione, in Riv. dir. proc., 1977, 169 ss.: “nei casi in cui l’Amministrazione sia tenuta a pronunciarsi su una istanza di chi sia interessato ad ottenere un provvedimento condizionante l’esercizio di un diritto (uno di quelli che chiamo “diritti in attesa di espansione” appunto perché l’esercizio ne è condizionato da una previa pronuncia dell’autorità), al silenzio dell’autorità dovrebbe essere necessariamente attribuito un valore legale tipico. Laddove non sia opportuno attribuirgli valore di accoglimento dell’istanza dell’interessato (…) non potrebbe mancarsi di attribuirgli quello di reiezione; sì da consentire all’istante la possibilità di far valere immediatamente davanti a un giudice l’illegittimità del rifiuto”. (31) Cfr., in tale senso, C. Glendi, L’oggetto, cit., 353, nota 315.
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zio dell’amministrazione a un provvedimento reiettivo dell’istanza di rimborso presentata dal contribuente: infatti, aderendo a questa tesi, l’atto di rifiuto sopravvenuto al silenzio con valore legale tipico non potrebbe che assumere, a seconda dei casi, o la veste di un provvedimento confermativo di secondo grado (impugnabile), oppure la veste di un “atto meramente confermativo” (non impugnabile) (32). Con riguardo alla fattispecie qui considerata, la linea di confine – in termini, lo si sottolinea, meramente pratici (33) – tra le due teorie elaborate dalla dottrina tributaria pare estremamente sfumata, poiché i casi in cui può davvero ipotizzarsi che un atto di rifiuto espresso sia “meramente confermativo” del silenzio serbato dall’Amministrazione sono piuttosto rari, ancorché possano presentarsi in concreto. Pare, comunque, opportuno soffermarsi brevemente su un caso in cui un atto di rifiuto espresso di rimborso potrebbe effettivamente essere un “atto di mera conferma” di un precedente silenzio, valutando le differenze che potrebbero derivare dall’accoglimento dell’una o dell’altra delle due teorie elaborate in dottrina con riguardo alla natura del silenzio in materia di rimborso. L’ipotesi è quella di un contribuente che presenti istanza di rimborso e che, decorsi novanta giorni dalla presentazione dell’istanza, maturi il rifiuto tacito ai sensi dell’art. 21, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992. Si supponga che il contribuente, anziché presentare immediatamente ricorso avverso il silenzio, notifichi all’ente impositore una lettera di sollecito ad erogare il rimborso asseritamente spettante. E che, una volta ricevuta, l’Ufficio provveda a notificare al contribuente un atto in risposta a tale lettera sollecito, e non all’originaria istanza di rimborso, ove si limiti, espressamente,
(32) V., però, C. Glendi, L’oggetto, cit., 350, 353, e ivi nota 315, il quale afferma che nel caso in cui il rifiuto sopravvenuto intervenga prima della proposizione del ricorso avverso il silenzio rifiuto, il rifiuto tacito di rimborso si convertirebbe automaticamente in un rifiuto espresso, “facendo così scattare il minor termine di 60 giorni per l’impugnativa” (più recentemente, nello stesso senso, v. sempre Id., Atti impugnabili, cit., 2746 ss.). (33) In aggiunta a quanto già esposto nel testo, in merito alla differente concezione del “processo da rimborso” cui conduce l’accoglimento dell’una o dell’altra delle due teorie elaborate dalla dottrina tributaria sulla natura del silenzio, va evidenziata un’importante differenza, sul piano più strettamente “pratico”, tra le due teorie: se si equipara il silenzio a un provvedimento, si deve concludere che l’azione impugnatoria è condizionata da un termine di decadenza insuscettibile di interruzione, onde il contribuente può impedirne la decorrenza solo con la proposizione del ricorso; se, invece, si equipara il silenzio a un mero fatto, si deve concludere che l’azione di accertamento avverso il silenzio è soggetta a un termine di prescrizione che può essere interrotto, ai sensi dell’art. 2943 c.c., anche mediante atti di messa in mora.
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a “confermare” la precedente determinazione tacita di rigetto, adottata in occasione di un precedente procedimento di cui il contribuente è rimasto ignaro. Ebbene, in questo caso l’atto sopravvenuto potrebbe effettivamente atteggiarsi alla stregua di un atto “meramente confermativo”, in quanto si sostanzierebbe in una semplice dichiarazione da parte dell’Amministrazione di non sottoporre a riesame il precedente provvedimento. Utili indizi in tale senso potrebbero ritrarsi, ad esempio, dalla forma dell’atto sopravvenuto qualora non sia rubricato come “provvedimento” (ma, magari, come semplice “comunicazione”) o non rispetti i requisiti prescritti per tutti gli atti (provvedimentali) dell’Amministrazione finanziaria (34). In relazione al caso prospettato, aderendo alla tesi che attribuisce natura provvedimentale al silenzio, si dovrebbe concludere che il contribuente possa impugnare il solo silenzio nel termine di cui all’art. 21, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, ancorché l’atto sopravvenuto, in quanto “meramente confermativo” del silenzio, sia divenuto inoppugnabile (35). Viceversa, aderendo alla tesi prevalente secondo cui il silenzio non ha natura provvedimentale, si dovrebbe concludere che il contribuente è onerato ad impugnare l’atto sopravvenuto, indipendentemente dal suo contenuto “meramente confermativo” e dal fatto che rispetti, o meno, i requisiti formali e sostanziali previsti per tutti gli atti provvedimentali dell’Amministrazione finanziaria (36).
(34) V., ad esempio, i requisiti formali prescritti dall’art. 7, comma 2, L. n. 212/2000. (35) Si precisa che, seguendo la tesi in esame, il contribuente – dopo la formazione del silenzio – ha la seguente alternativa: impugnare il diniego tacito ai sensi dell’art. 21, D.Lgs. n. 546/1992 o sollecitarne un riesame in via di autotutela. Dovrebbe, invece, ritenersi preclusa per il contribuente, proprio in ragione della natura provvedimentale del silenzio, la possibilità di proporre una seconda volta istanza di rimborso. Conseguentemente, nei casi analoghi a quello qui prospettato, ove l’atto sopravvenuto viene reso in seguito a una “lettera di sollecito” e non all’originaria istanza di rimborso, si dovrebbe concludere che la “lettera di sollecito” è un’istanza di riesame in autotutela del silenzio-provvedimento, e non, invece, una reiterazione dell’originaria istanza di rimborso. (36) V. M. Basilavecchia, op. cit., 294, il quale rileva che, avverso il diniego espresso, sono sempre “rilevabili vizi propri della funzione impositiva che si esprime nel diniego”, compresi, dunque, quelli che riguardano i “requisiti di legittimità formale del provvedimento, che, anche se non rinvenibili in disposizioni di legge specifiche, debbono sempre rispettare l’apparato formale proprio di un provvedimento amministrativo”; contra (se non si è frainteso) A. E. La Scala, op. cit., 238: “Qualora il diniego espresso manchi dei requisiti formali e sostanziali essenziali degli atti tributari, non sussisterà l’onere di impugnarlo”.
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4. Gli (ondivaghi) orientamenti della giurisprudenza di legittimità in merito alla natura del silenzio in materia di rimborso, che non ha ancora del tutto respinto la possibile qualificazione del silenzio come “provvedimento reiettivo”. – Nella giurisprudenza di legittimità sembrano rinvenibili pronunce che confermano sia l’orientamento dottrinale maggioritario, secondo cui il silenzio in materia di rimborso è un mero fatto, sia l’orientamento dottrinale minoritario, secondo cui il silenzio equivale a un vero e proprio provvedimento reiettivo tacito di rimborso. Una conferma della prima tesi è rintracciabile in quelle pronunce della Suprema Corte (relative al caso in cui l’Ufficio emetta un diniego espresso di rimborso dopo la proposizione del ricorso avverso il silenzio) ove si è stabilito l’onere del contribuente di impugnare l’atto esplicito di rigetto adottato dopo la formazione del silenzio rifiuto, ammonendosi che egli “non può limitarsi a portare avanti il giudizio già iniziato con l’impugnazione del silenzio rifiuto” (37). In effetti, seguendo la tesi prevalente, è corretto concludere – come conclude la Suprema Corte nelle richiamate pronunce – che il processo eventualmente incardinato avverso il silenzio debba ricominciare daccapo nel caso in cui l’Amministrazione dovesse poi emanare un esplicito provvedimento di rimborso, non potendosi “sostenere che il sopraggiungere di quest’ultimo a processo iniziato non determini una nuova situazione” (38); dall’altro lato, seguendo la tesi minoritaria, sarebbe invece più corretto concludere che il rifiuto espresso sopravvenuto al silenzio è inutiliter datum, in quanto meramente confermativo e reiterativo, in tutto e per tutto, del “silenzio diniego” (39). Una conferma della natura non provvedimentale del silenzio può, invece, ricavarsi da tutte quelle pronunce della Suprema Corte (relative al caso – con-
(37) Cass., sez. trib., 13 marzo 2015, n. 5065; nello stesso senso v. anche Cass., sez. VI-T, 6 giugno 2014, n. 12791. Contra, invece, Cass., sez. trib., 7 dicembre 2004, n. 22943. (38) Così M. Polano, op. cit., 320. (39) Così C. Glendi, L’oggetto, cit., 350, nota 308. Alla luce di quanto esposto nei precedenti paragrafi, si potrebbe, tuttavia, giungere alla medesima conclusione cui perviene la Suprema Corte nelle richiamate pronunce anche seguendo l’impostazione della dottrina minoritaria, quando, in particolare, l’atto espresso sopravvenuto sia qualificabile alla stregua di un “provvedimento confermativo” (impugnabile, nonostante l’impugnazione del silenzio) e non alla stregua di un “atto meramente confermativo” (da ritenersi sempre inutiliter datum). In ogni caso, a quanto risulta, l’indagine qualificatoria appena prospettata non è mai stata compiuta in alcuna delle sentenze di legittimità appena richiamate, donde la conferma, in tali sentenze, della tesi dottrinale maggioritaria.
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nesso al precedente – in cui l’Ufficio emette un provvedimento di rimborso parziale dopo la proposizione del ricorso avverso il silenzio) ove si è escluso che il contribuente possa, “pure dopo l’intervento del rimborso parziale, (…) proseguire la controversia introdotta con l’impugnazione del silenzio-rifiuto in ordine all’istanza di rimborso (sia pure riducendo l’originaria domanda) senza impugnare il rifiuto implicitamente contenuto nell’atto di rimborso parziale” (40).. Alcuni Autori censurano quest’ultimo orientamento di legittimità, e in particolare il presupposto da cui muove, ossia che un atto di rimborso parziale può esplicitare, per la parte relativa all’importo non rimborsato, un atto di rigetto, richiamando la tesi maggioritaria della dottrina secondo cui il silenzio in materia di rimborso è un mero fatto, non equiparabile a un provvedimento (41). Tale impostazione invero non convince. La questione relativa alla possibilità che un atto di rimborso parziale espliciti, al suo interno, un provvedimento di diniego per l’importo non rimborsato va, infatti, tenuta distinta da quella che investe la natura (provvedimentale o non provvedimentale) del silenzio in materia di rimborso. La prima questione, in particolare, sembra più propriamente riguardare il profilo della motivazione degli atti e, in ispecie, l’ammissibilità nel nostro ordinamento (alla luce dei principi di chiarezza e di tipicità degli atti) di “provvedimenti amministrativi impliciti”, ossia di atti in cui la volontà provvedimentale non è manifestata in modo diretto, ma in modo mediato ed indiretto da un altro atto che la esplicita. E invero, quando un provvedimento (nel nostro caso, il rifiuto di rimborso) risulta per implicito da un altro provvedimento (nel nostro caso, l’atto di
(40) Così, ex multis, Cass., sez. trib., 5 giugno 2008, n. 14846. In queste pronunce la Suprema Corte richiama il proprio orientamento secondo cui l’atto di rimborso parziale “si configura, per la parte relativa all’importo non rimborsato, come atto di rigetto sia pure implicito, della richiesta di rimborso originariamente presentata dal contribuente”: v., ex multis, Cass., sez. trib., 10 giugno 2005, n. 12336; Cass., sez. trib., 21 gennaio 2008, n. 1154; contra, ma in modo isolato, Cass., sez. trib., 6 luglio 2004, n. 12382, con nota di M. Basilavecchia, Il diniego di rimborso e la sua riconoscibilità, in GT – Riv. giur. trib., 2005, 142 ss. (41) V., se non si è frainteso, A. E. La Scala, op. cit., 213-214, ove si esamina la “rilevanza giuridica del silenzio sulla parte di credito non riconosciuta” e si afferma che “adottando (…) la tesi che qualifica il silenzio come un fatto di per sé non equiparabile (anche in quanto ad effetti preclusivi) alla notifica di un atto tributario, riteniamo preferibile la soluzione che consenta la contribuente di rivolgersi al giudice tributario, entro il termine di prescrizione del proprio diritto di credito per la parte rimasta insoddisfatta”.
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rimborso parziale), l’atto implicito viene pur sempre esteriorizzato, anche se soltanto in forma diretta, e tanto basta per differenziare l’atto implicito rispetto alle ipotesi in cui si ha una manifestazione tacita di volontà (silenzio), ove manca del tutto un comportamento positivo (42). Una conferma alla tesi dottrinale minoritaria si potrebbe, invece, evincere in quella giurisprudenza consolidata di legittimità secondo cui il ricorso proposto avverso il silenzio, prima che siano decorsi novanta giorni dalla proposizione dell’istanza di rimborso, è da ritenersi inammissibile (“per difetto dell’atto impugnabile” (43), e non improcedibile. Invero, come autorevolmente rilevato, se si attribuisce al silenzio dell’Amministrazione “valore di mero comportamento fattuale, perdurando il quale per oltre novanta giorni (cosidetto spatium deliberandi riservato all’amministrazione finanziaria) la pretesa di rimborso diventa azionabile; l’inosservanza di detto termine determina non già l’inammissibilità bensì soltanto la temporanea improcedibilità del ricorso presentato anzitempo (rispetto ai novanta giorni)” (44). 5. Conclusioni: non è possibile recepire in materia di rimborso la distinzione tra “provvedimenti confermativi” e “atti meramente confermativi”, in quanto fictio creata dalla giurisprudenza amministrativa per esigenze interne
(42) In tale senso, nella dottrina amministrativistica, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2005, 501; conforme M. Basilavecchia, La funzione impositiva, op. cit., 288 e Id. Il diniego di rimborso, cit., 2005, 142, il quale, proprio alla luce dei principi di “chiarezza” e di “tipicità” degli atti, di “informazione del contribuente” e, finanche, “di affidamento”, rileva come “per ravvisare il diniego parziale espresso, l’atto favorevole debba comunque avere una sua evidenza formale negativa”. (43) Cfr., per tutte, Cass., sez. trib., 12 marzo 2008, n. 6724, ove, tra l’altro, il silenzio è espressamente qualificato come “provvedimento” e la Suprema Corte ha cassato la sentenza di secondo grado proprio perché aveva qualificato il decorso del termine di novanta giorni per la formazione del silenzio come una mera condizione di procedibilità. (44) Così P. Russo, Manuale, cit., 132. Nello stesso senso, F. Tesauro, Lineamenti, cit., 108: se “il silenzio è soltanto un limite temporale (uno spatium deliberandi accordato all’amministrazione), prima del quale il ricorso non può essere presentato”, il ricorso presentato prima dei novanta giorni dev’essere dichiarato “soltanto improcedibile, e quindi può essere deciso nel merito se il silenzio sussiste al momento in cui viene adottata la decisione”. Cfr., infine, A. Giovannini, op. cit., 400 - 401: “Orbene, ricondurre l’azione di rimborso tra quelle di accertamento e di condanna consente di affermare (…) che, mentre l’istanza amministrativa assurge (…) a presupposto processuale indefettibile, il ricorso proposto nelle more del procedimento amministrativo e quindi prima del decorso dei novanta giorni è temporaneamente improcedibile e non già inammissibile”.
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ed estranee al diritto tributario; donde l’onere di impugnare sempre l’atto di diniego sopravvenuto al silenzio, cui non è possibile attribuire natura provvedimentale (anche e proprio) alla luce delle peculiarità del diritto tributario rispetto quello amministrativo. – Nei casi in cui l’Amministrazione emetta un atto di diniego di rimborso dopo la maturazione del silenzio, si pone la questione di stabilire se il contribuente possa limitarsi a proporre ricorso avverso il silenzio, nei modi e nei tempi stabiliti dall’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, o se invece sia onerato ad impugnare il diniego di rimborso sopravvenuto nel termine ordinario di decadenza. Quest’ultima soluzione è l’unica prospettabile se si aderisce alla tesi della dottrina maggioritaria che esclude la natura provvedimentale del silenzio (45). Se, invece, si segue la tesi della dottrina minoritaria, che ravvisa nel silenzio in materia di rimborso un vero e proprio provvedimento reiettivo, si potrebbero prospettare entrambe le soluzioni, a seconda che l’atto di diniego sopravvenuto sia configurabile alla stregua di un “provvedimento confermativo” o di un “atto meramente confermativo” del silenzio. In particolare, nel primo caso, la soluzione sarebbe identica a quella cui si perviene seguendo l’opposta teoria: il contribuente, per non perdere il diritto al rimborso, deve impugnare l’atto sopravvenuto nel termine ordinario di decadenza; nel secondo caso si potrebbe, forse, concludere che il contribuente possa limitarsi a proporre ricorso avverso il silenzio, nei modi e nei tempi stabiliti dall’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, senza anche impugnare il diniego sopravvenuto. La giurisprudenza di legittimità non offre utili indicazioni per risolvere la questione, in quanto sembrano rinvenibili sia pronunce che attribuiscono al silenzio la valenza di un mero fatto, sia pronunce che equiparano il silenzio a un vero e proprio provvedimento reiettivo di rimborso. Ci si chiede, tuttavia, se la disciplina amministrativa in materia di “provvedimenti confermativi” e “atti meramente confermativi” sia effettivamente applicabile – come affermano i giudici della CTR di Milano nella sentenza annotata – “in via analogica” ai casi in cui l’amministrazione finanziaria, dopo la formazione del silenzio e prima della proposizione del ricorso avverso lo stesso silenzio, adotta un diniego espresso di rimborso.
(45) V., per tutti, F. Gallo, op. cit., 93, secondo cui il silenzio “in quanto non significativo non può che cedere rispetto alla successiva emissione di un atto di rifiuto espresso”.
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Il dubbio sorge alla luce del fatto che, in relazione agli atti di diniego di rimborso sopravvenuti a un silenzio, la distinzione tra “provvedimenti confermativi” (impugnabili) e “atti meramente confermativi” (non impugnabili) è volta a soddisfare un’“esigenza pratica” che pare del tutto diversa da quella per cui tale dicotomia è comparsa nel diritto amministrativo. Nel diritto amministrativo, invero, la distinzione tra “conferma propria” e “conferma impropria” è una creazione della giurisprudenza ed è nata da una ragione pratica: di impedire l’elusione dell’inoppugnabilità del provvedimento amministrativo quando, ad esempio, “un privato che si ritenga leso dal provvedimento amministrativo, perduto il termine per il possibile ricorso, tenti di recuperarlo proponendo domanda di riesame del provvedimento, onde poter poi impugnare il provvedimento di conferma” (46); ossia, più brevemente, per scongiurare la possibilità che i privati potessero eludere (i) l’inoppugnabilità di un primo atto, (ii) attraverso l’impugnazione di un provvedimento sopravvenuto, confermativo del primo, dagli stessi richiesto dopo che il primo atto è divenuto inoppugnabile. In materia di rimborso tributario, atteso che i termini per impugnare il silenzio sono ben più lunghi dei termini ordinari di impugnazione, la distinzione in esame pone una questione diversa e opposta: se, dopo l’adozione di un primo provvedimento (rectius, il silenzio-rifiuto), il contribuente possa “eludere” (i) l’inoppugnabilità di un atto sopravvenuto confermativo (rectius, il rifiuto espresso di rimborso), non necessariamente emesso in seguito a un’istanza del contribuente, (ii) attraverso l’impugnazione del primo provvedimento. Alla luce di quanto evidenziato nei precedenti paragrafi, laddove si escluda la possibilità di recepire in materia di rimborso la distinzione tra “provvedimenti confermativi” e “atti meramente confermativi”, in quanto fictio creata dalla giurisprudenza amministrativa per esigenze di coerenza di sistema che sono del tutto assenti nel diritto tributario, si dovrebbe concludere che l’atto di diniego sopravvenuto deve sempre essere impugnato dai contribuenti, non avendo il silenzio dell’amministrazione natura provvedimentale (anche e proprio) alla luce delle peculiarità del diritto tributario rispetto al diritto amministrativo: come autorevolmente affermato, “l’equiparazione del silen-
(46) Così M.S. Giannini, op. cit., 562 e 563. Nel diritto amministrativo, infatti, la distinzione tra provvedimenti o atti confermativi sembra solitamente porsi con riguardo agli atti emessi in risposta (i) ad una specifica istanza del privato, (ii) con cui viene segnalata la presunta invalidità di un provvedimento già emanato, che (iii) non è stato impugnato e per il quale è già scaduto il termine di impugnazione.
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zio ad un provvedimento espresso è avvenuta, nel processo amministrativo, per dar modo (…) di adire il giudice anche a chi ha da lamentarsi dell’inerzia dell’amministrazione; si è, perciò, dato valore di provvedimento (con una fictio) al silenzio. Dove però l’accesso al giudizio è espressamente previsto anche in caso di silenzio, l’equiparazione del silenzio ad un provvedimento è un artificio” (47).
Giovanni Consolo
(47) Così, F. Tesauro, Manuale, cit. (ed. 2014), 116, nota 43.
Cass. Civ., Sez. V, Ord., 3 ottobre 2018 - 8 maggio 2019, n. 12094; Pres. Virgilio - Rel. Triscari Accertamento tributario (nozione) – Verbale di operazioni compiute redatto ex art. 24 della l. n. 4 del 1929 – Contenuto – Accesso mirato all’acquisizione di documentazione fiscale del contribuente – Indicazione dei documenti prelevati – Sufficienza – Rilascio di copia – Decorrenza del termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, l. n. 212 del 2000 – Idoneità – Necessità dell’adozione di un successivo verbale di contestazione – Esclusione In materia di garanzie del soggetto sottoposto a verifiche fiscali, il processo verbale, redatto ai sensi dell’art. 24 della l. n. 4 del 1929, deve attestare le operazioni compiute dall’Amministrazione, sicché, nel caso di accesso mirato all’acquisizione di documentazione fiscale, è sufficiente l’indicazione, in esso, dei documenti prelevati, ferma restando la decorrenza del termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 dal rilascio di copia del predetto verbale, senza che sia necessaria l’adozione di un’ulteriore verbale di contestazione delle violazioni successivamente riscontrate. (1)
(Omissis) Svolgimento del processo. – L’Agenzia delle entrate aveva notificato alla società contribuente un avviso di accertamento con il quale erano stati ripresi a tassazione costi non inerenti relativi all’anno di imposta 2002; il suddetto accertamento conseguiva ad un accesso mirato eseguito dall’ufficio finanziario presso i locali della contribuente; avverso il suddetto atto impositivo la contribuente aveva proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Lecco che lo aveva accolto; avverso la suddetta pronuncia aveva proposto appello l’Agenzia delle entrate. La CTR della Lombardia ha accolto l’appello; in particolare ha ritenuto che: l’amministrazione finanziaria aveva eseguito un accesso mirato presso i locali della contribuente non finalizzato al controllo, pertanto ad esso non doveva fare seguito un verbale di chiusura delle indagini, non essendo stata compiuta alcuna ispezione o verifica, sicché non vi era alcuna violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 4; il successivo avviso di accertamento era stato notificato dopo il termine di sessanta giorni decorrenti dalla chiusura del verbale di accesso; con riferimento al merito, le fatture non indicavano la natura dei servizi og-
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getto di ogni singola operazione, non consentendo, in tal modo, la verifica dell’inerenza dei costi, e le prove documentali prodotte dalla ricorrente non potevano consentire una valutazione di inerenza delle operazioni. Avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso dinanzi a questa Corte la contribuente affidato a tre motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso; la contribuente ha, altresì, depositato memoria. Motivi della decisione. – Vanno esaminati prioritariamente il primo e il terzo motivo di censura, attesa la connessione fra gli stessi, relativi alla ritenuta violazione del principio del contraddittorio. Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione del principio del contraddittorio endoprocedimentale prima dell’adozione dell’atto contenente la pretesa impositiva in materia di tributi armonizzati. In particolare, la ricorrente censura la sentenza per avere ritenuto che, nel caso di accesso mirato, il termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, decorre dalla redazione del verbale di chiusura dell’accesso, senza necessità di adozione di un successivo processo verbale di constatazione, non avendo l’amministrazione finanziaria compiuto alcuna verifica presso i locali, ma unicamente l’acquisizione della documentazione, successivamente utilizzata ai fini dell’adozione della successiva pretesa impositiva; ritiene, sotto tale profilo, che i principi comunitari richiedono necessariamente il previo contraddittorio con il contribuente ogni qualvolta l’amministrazione adotti decisioni che rientrano nell’applicazione del diritto comunitario, come nella fattispecie, in cui la pretesa ha riguardato anche l’Iva e che, inoltre, l’esigenza dell’effettività del contraddittorio presuppone che la parte sia messa nelle condizioni di offrire elementi di valutazione contrarie alla possibile adozione di una pretesa tributaria, circostanza che rende necessaria la previa conoscenza delle violazioni contestate; evidenzia, infine, che, nella fattispecie, l’accesso era diretto non all’acquisizione di un singolo documento, ma a una verifica generale ai fini Iva, con l’unica particolarità che la stessa era stata, poi, eseguita presso la sede dell’Ufficio e non presso i locali aziendali, sicché ad esso doveva far seguito un processo verbale di constatazione a conclusione delle verifiche effettuate. Con il terzo motivo si censura la sentenza per violazione del principio comunitario della tutela del legittimo affidamento, in quanto la espressa indicazione, nel verbale di accesso, della facoltà della parte di formulare osservazioni e richiedere chiarimenti, fornire delucidazioni e dichiarazioni, aveva ingenerato nella contribuente il legittimo convincimento che l’ufficio finanziario stava procedendo ad eseguire una verifica generale ai fini Iva e che quindi, al termine della suddetta verifica, la stessa avrebbe dovuto ricevere la notifica di un verbale di constatazione di eventuali violazioni, sicché, solo a seguito della ricezione, sarebbero dovuti decorrere i sessanta giorni di tempo per formulare eventuali osservazioni I motivi sono infondati.
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La questione prospettata con i motivi in esame ha riguardo alla necessità o meno dell’adozione di un successivo avviso di constatazione a seguito dell’attività di accesso compiuta presso la sede della contribuente e, più in particolare, delle modalità con le quali deve essere assicurato il rispetto del principio del contraddittorio endoprocedimentale in favore del contribuente nei cui confronti è stato eseguito l’accesso con acquisizione della documentazione fiscale. Va, in primo luogo, evidenziato che questa Suprema Corte ha precisato (Cass. civ. Sez. V, 22 giugno 2018, n. 16546) che l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria non deve necessariamente concludersi con la redazione di un processo verbale di constatazione, essendo sufficiente un verbale attestante le operazioni compiute. Si è, altresì, precisato che in tema di violazione di norme finanziarie (nella specie, in materia di IVA), il processo verbale di constatazione, redatto dagli organi accertatori in occasione di verifiche presso il contribuente e previsto dalla L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 24, non deve necessariamente contenere le contestazioni, potendo avere una molteplicità di contenuti, valutativi o meramente ricognitivi di fatti o di dichiarazioni, che, per la libera valutazione dell’amministrazione finanziaria prima e dell’autorità giudiziaria poi, possono comunque dare luogo alla emissione di avvisi di accertamento (Cass. civ. Sez. V, 29 dicembre 2017, n. 31120). Ne consegue, quindi, che non può assumere rilevanza la considerazione di parte ricorrente secondo cui la previsione di cui alla L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 24 imporrebbe sempre l’adozione di un processo verbale con il quale siano contestate le violazioni finanziarie e che, poiché il contenuto del processo verbale deve avere riguardo alla specifica attività compiuta dall’amministrazione finanziaria, in caso di accesso mirato, come nel caso di specie, correttamente è stato redatto il verbale di accesso con il quale sono stati indicati i documenti che, in quella occasione, erano stati prelevati dalla sede della contribuente. In questo contesto, non può neppure assumere rilevanza la linea difensiva di parte ricorrente secondo cui, nella fattispecie, non si era trattato di un accesso mirato ma di un accesso finalizzato ad una verifica fiscale, in quanto quel che rileva è l’attività svolta dall’amministrazione finanziaria e, segnatamente, la mera acquisizione della documentazione presso la contribuente. In secondo luogo, la medesima pronuncia sopra indicata (Cass. civ., n. 16546/2018) ha, altresì, espresso il principio secondo cui dal rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni decorre il termine di sessanta giorni entro il quale il contribuente può comunicare osservazioni e richieste che sono valutate dagli Uffici impositori, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7. Va precisato che il suddetto principio è stato espresso in relazione all’orientamento della Corte, secondo cui: “Il termine dilatorio di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, decorre da tutte le possibili tipologie di verbali che concludono le operazioni di accesso, verifica o ispezione, indipendentemente dal loro contenuto e denominazione formale, essendo finalizzato a garantire il contraddittorio anche a seguito di un verbale meramente istruttorio e descrittivo”(Cass. 2 luglio 2014, n. 15010). Invero, l’impiego di una locuzione generica come “verbale di chiusura delle
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operazioni” contenuta nel comma 7, della norma in esame, difatti, comprende tutte le possibili tipologie di verbali che concludano le operazioni di accesso, verifica o ispezione nei locali, indipendentemente dal loro contenuto, e ciò consegue dall’impiego nello Statuto dei diritti del contribuente, art. 12, comma 7 pure a fronte di più tipologie di verbali, di una locuzione meramente descrittiva, che ascrive rilievo, di per sé, alla circostanza che il verbale concluda la fase istruttoria di accesso, verifica o ispezione nei locali. Una tale scelta è d’altronde coerente con l’evoluzione del sistema tributario verso moduli partecipativi, in cui le situazioni soggettive dell’erario possono esaurirsi nell’esercizio imparziale di un potere ad imperatività mitigata, che si arresta all’acquisizione delle informazioni utilizzabili ed al mero controllo dell’osservanza degli obblighi strumentali dei contribuenti; si è, inoltre, precisato che riconoscere l’esercizio del diritto al contraddittorio anche a seguito di un verbale meramente istruttorio che chiuda le operazioni di accesso, verifica o ispezione significa, appunto, determinare le condizioni affinché l’amministrazione possa valutare il proprio interesse non soltanto alla luce degli elementi raccolti, ma anche in base alle osservazioni su di essi rese dal contribuente. La circostanza che, nel caso in esame, sia stato redatto un verbale di accesso in data 11 maggio 2009 e che l’avviso di accertamento sia stato notificato alla società il 10 settembre 2009 (vd. ricorso, pag. 10) oltre il termine di cui all’art. 12, comma 7 citato, a seguito dell’esame della documentazione in tale fase acquisita, porta ad escludere la sussistenza dell’assunta violazione, pur in assenza di un successivo processo verbale di constatazione. Si è peraltro precisato che le garanzie statutarie operano già in fase di accesso, concludendosi anche tale attività con la sottoscrizione e consegna del processo verbale di chiusura delle operazioni svolte, e ciò alla stregua delle prescrizioni dell’art. 52, comma 6 decreto IVA ovvero dell’art. 33 decreto sull’accertamento; siffatte garanzie si applicano anche agli atti di accesso istantanei finalizzati all’acquisizione di documentazione, sia perché la citata disposizione non prevede alcuna distinzione in ordine alla durata dell’accesso, ed è comunque necessario, anche in caso di accesso breve, redigere un verbale di chiusura delle operazioni (in senso conf. Cass. 2593/14 e Cass. 15624/14), sia perché, anche in caso di “accesso breve”, si verifica quella peculiarità che, secondo Cass. sez. unite n. 24823/2015, giustifica, quale controbilanciamento, le garanzie di cui al cit. art. 12, peculiarità consistente nella “autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca di elementi valutati a lui sfavorevoli” (Cass. sent. n. 11471/2017; cfr. anche n. 18110/16; n. 25265/17; n. 1007/17; n. 8246/18). Pertanto, si è ritenuto che “in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, impone la redazione del processo verbale di chiusura delle operazioni in ogni caso di accesso o ispezione nei locali dell’impresa, ivi compresi gli atti di accesso finalizzati alla raccolta di documentazio-
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ne, e solo dal rilascio di copia del predetto verbale decorre il termine di sessanta giorni trascorso il quale può essere emesso l’avviso di accertamento ai sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7” (Sez. 5, Sentenza n. 7843 del 17 aprile 2015). Ne consegue che, in caso di accesso mirato, la garanzia al contraddittorio endoprocedimentale per il contribuente è assicurata dalla concessione del termine dilatorio di sessanta giorni decorrente dal rilascio del verbale di consegna, senza che possa, invece, ritenersi che lo stesso debba ricevere un successivo verbale di chiusura delle operazioni di verifica ove le stesse non siano state compiute presso la sede del contribuente, ma presso gli uffici finanziari. Sotto tale profilo, non correttamente parte ricorrente, nella memoria, richiama, a proprio favore, il precedente di questa Suprema Corte n. 3060/2018, posto che con la stessa si è ribadito il principio, sopra indicato, secondo cui, anche in caso di accesso mirato deve essere garantito al contribuente il decorso del termine dilatorio di sessanta giorni prima di adottare la pretesa impositiva e che, in tali ipotesi, il termine decorre dalla redazione del verbale di consegna della documentazione, avendo precisato che solo dal rilascio di copia del predetto verbale (di chiusura dell’attività di accesso) decorre il termine di sessanta giorni trascorso il quale può essere emesso l’avviso di accertamento ai sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7. Va peraltro precisato che, differentemente da quanto sostenuto dalla ricorrente, il suddetto orientamento è in linea con la giurisprudenza unionale in materia di tutela del contraddittorio endoprocedimentale nel caso, come quello di specie, di pretese relative anche a tributi c.d. armonizzati. La sentenza della Corte di giustizia CE, 12 dicembre 2008, (causa C-349/07 Sopropè), citata dalla ricorrente, ha affermato il principio secondo cui i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizioni di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’Amministrazione intende fondare la sua decisione e che grava sulle Amministrazioni degli Stati membri l’obbligo di instaurare il previo contraddittorio ogni qualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera di applicazione del diritto comunitario; ma, proprio in relazione all’adozione dell’atto impositivo e nella prospettiva di tutela del diritto di difesa del contribuente, il legislatore interno, secondo i principi interpretativi delle norme di riferimento espressi con gli arresti giurisprudenziali sopra citati, ha ritenuto che il contraddittorio endoprocedimentale è assicurato, in caso di accesso mirato, con il riconoscimento di un termine dilatorio in favore del contribuente nei cui confronti è stata operata l’attività di acquisizione della documentazione, non essendo necessario, come detto, in questo caso, l’adozione di un successivo atto di constatazione delle violazioni finanziarie, e tale specifica previsione costituisce la modalità con la quale, anche nella materia dei tributi “armonizzati”, il legislatore interno ha ritenuto di dare attuazione alla normativa comunitaria ed ai principi espressi dalla giurisprudenza comunitaria.
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Né sussiste, inoltre, alcuna violazione al principio di tutela del legittimo affidamento, come invece prospettato dalla ricorrente con il terzo motivo di censura. In particolare, parte ricorrente ritiene che lo stesso sia maturato in considerazione del fatto che, in sede di redazione del verbale di accesso, era stato espressamente precisato che la parte avrebbe potuto formulare osservazioni e chiarimenti, fornire delucidazioni e dichiarazioni, sicché si era in essa ingenerato il legittimo convincimento che l’amministrazione finanziaria, al termine della verifica conseguente all’accesso, avrebbe notificato un verbale di constatazione di eventuali violazioni e che solo dalla suddetta notifica sarebbero decorsi i termini per l’instaurazione del contraddittorio. Ciò in quanto quel che rileva, nella fattispecie, è la circostanza che, comunque, è stata assicurata alla contribuente la garanzia al contraddittorio endoprocedimentale, senza che possa ritenersi che la stessa dovesse ricevere un successivo verbale di chiusura delle operazioni di verifica, non potendosi ritenere che, dalla indicazione della possibilità della parte di formulare osservazioni e chiarimenti, fornire delucidazioni e dichiarazioni, dovesse conseguire l’adozione di una successiva notifica, essendo stato chiarito, nel medesimo atto, che si trattava di un accesso mirato finalizzato alla mera acquisizione della documentazione contabile. Infine, poiché l’interpretazione delle previsioni normative in esame, come detto, è in linea con la giurisprudenza unionale, non sussistono i presupposti, come invece richiesto dalla contribuente, per un rinvio della questione pregiudiziale alla Corte di giustizia; con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per la controversia, per non avere adeguatamente valutato che, nella fattispecie, l’accesso non era finalizzato alla mera acquisizione della documentazione, ma ad una vera e propria verifica fiscale ai fini Iva. Il motivo è infondato. Il giudice del gravame ha specificato le ragioni per le quali, nella fattispecie, si trattava di un accesso mirato, facendo riferimento alle risultanze del verbale di consegna dell’11 maggio 2009, ed ha precisato che doveva essere così qualificato in quanto finalizzato alla mera acquisizione di documentazione. La contribuente, in realtà, sembra volere distinguere, a fondamento del proprio motivo di ricorso, tra accesso mirato finalizzato all’acquisizione di uno o più documenti specifici e quello finalizzato all’acquisizione dell’intera contabilità, ma tale circostanza non può essere ritenuta di rilievo, in quanto l’accesso finalizzato all’acquisizione della documentazione è tale anche nel caso, come di specie, in cui l’acquisizione ha riguardo all’intera documentazione contabile relativa all’anno di imposta 2002. In conclusione, i motivi sono infondati, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese di lite. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio in favore della controricorrente.
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(Omissis)
(1) L’obbligo di consegna del processo verbale di constatazione e il diritto al contraddittorio endoprocedimentale: note critiche ad un recente orientamento giurisprudenziale di legittimità. Sommario: 1. Introduzione. – 2. I precedenti giurisprudenziali su cui si basa l’ordinanza n. 12094 del 2019. – 3. Breve inquadramento degli istituti esaminati dalla Suprema Corte. – 3.1. Il “contraddittorio” endoprocedimentale nella recente giurisprudenza nazionale ed euro-unitaria. – 3.2. Obbligo di consegna del “verbale di chiusura delle operazioni” e contraddittorio endoprocedimentale. – 4. Profili di criticità della tesi sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità. – 5. Prime riflessioni sull’art. 4-octies, d.l. 30 aprile 2019, n. 34, convertito con modificazioni dalla l. 28 giugno 2019, n. 58. Non è condivisibile il ragionamento svolto dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 12094 del 2019 che, in continuità con alcuni (opinabili) precedenti giurisprudenziali di legittimità, giunge ad equiparare il verbale di accesso con il processo verbale di constatazione, e secondo il quale nessuna disposizione di legge imporrebbe in capo all’Ufficio l’obbligo di redazione, al termine delle verifiche fiscali presso il contribuente, di un verbale in cui risultino puntualmente formulati “addebiti” e “rilievi”. È evidente la fragilità delle argomentazioni su cui si basa il dictum della Suprema Corte: il processo verbale di constatazione, come limpidamente inquadrato dall’art. 24, l. n. 4 del 1929, non va assolutamente confuso con altri atti redatti dagli organi preposti alle attività di controllo, in quanto rappresenta l’unico atto istruttorio indefettibile perché il contribuente possa esercitare le proprie prerogative di difesa, presentando, ai sensi dell’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, le osservazioni difensive che ritiene più opportune.
It doesn’t seem to be possible to share the reasoning undertaken by the Italian Supreme Court in the order n. 12094 of 2019 which, in continuity with some (questionable) precedent case law, comes to equate the report of access with the report of verification, and according to which no provision of law would impose on the Tax Authorities the obligation of drafting, at the end of the tax audit at the tax payer’s, of a report in which “charges” and “findings” are duly formulated. The fragility of the arguments on which the dictum of the Supreme Court is based seems to be quite evident: the report of verification, as clearly framed by art. 24 law n. 4 of 1929, must not be confused with other documents which have been drawn up by the bodies which are in charge of the inspection activities, as it represents the only indefectible preliminary act which is needed in order to enable the tax payer to exercise its defensive prerogatives, by presenting the defensive observations that he considers most appropriate, pursuant to art. 12, paragraph 7, of the Taxpayers’ Statute.
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1. Introduzione. – L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 12094 dell’8 maggio 2019 (1) ha confermato il non condivisibile orientamento giurisprudenziale che sostiene l’insussistenza di un obbligo in capo all’Amministrazione finanziaria di rilasciare al contribuente, al termine di una verifica fiscale, una copia del processo verbale di constatazione (breviter, “PVC”) di cui all’art. 24 della l. n. 4 del 1929, essendo di converso sufficiente il rilascio di qualsivoglia tipologia di verbale, anche dal carattere meramente istruttorio e descrittivo. A tal riguardo, è necessario chiarire fin dalla premessa che le considerazioni che seguiranno si incentreranno sulla differenza tra il PVC, unico atto istruttorio ritenuto idoneo ad attivare il contraddittorio endoprocedimentale, e gli altri (differenti) verbali istruttori (i.e., verbali di accesso, verbali di richiesta documentazione, mere richieste di informazioni) di cui può essere destinatario il contribuente sottoposto ad attività di controllo da parte degli Uffici, i quali, come si dimostrerà, non possono assolvere alle funzioni tipiche del PVC. In questa cornice concettuale, gli effetti derivanti dall’omessa redazione e consegna del PVC al contribuente saranno indagate sotto un duplice profilo: i) un primo profilo riguarderà la potenziale lesione dell’art. 12, co. 7, l. 27 luglio 2000, n. 212 (d’ora in avanti, “Statuto dei diritti del contribuente”) (2), essendo il PVC propedeutico all’attivazione del contraddittorio endoprocedimentale ivi disciplinato; ii) un secondo profilo alla possibile lesione dell’art. 6, co. 2, dello Statuto dei diritti del contribuente, che, come noto, impone all’Amministrazione finanziaria l’obbligo di rendere noti al contribuente ogni “fatto o circostanza”, emersi durante l’attività di controllo, dai quali possano derivare provvedimenti per lui pregiudizievoli. Ciò premesso, e dopo aver ricostruito la fattispecie sottostante all’ordinanza in esame e i precedenti giurisprudenziali su cui essa si basa, si approfondiranno i profili di criticità che emergono dal principio di diritto affermato dalla Suprema Corte, al fine di mettere in luce le plurime violazioni delle regole poste a tutela dei contribuenti sottoposti a verifica che, soprattutto di recente, gli Uffici fiscali (con l’avallo, ormai costante, della Suprema Corte) pongono in essere, la cui rilevanza non pare venuta meno con l’introduzione
(1) Vale sin d’ora precisare che, laddove non specificamente indicato, tutte le sentenze e i documenti di prassi citati sono reperibili nella banca dati online IPSOA – BigSuite. (2) Per una disamina delle disposizioni che compongono lo Statuto dei diritti del contribuente e che saranno richiamate nel presente contributo, si rinvia a G. Marongiu, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008.
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della clausola di garanzia contenuta nell’art. 4-octies, d.l. 30 aprile 2019, n. 34, convertito con modificazioni dalla l. 28 giugno 2019, n. 58. 2. I precedenti giurisprudenziali su cui si basa l’ordinanza n. 12094 del 2019. – Come detto, l’ordinanza in esame ha confermato il principio di diritto secondo cui, in caso di verifiche fiscali, il rilascio di un mero verbale di accesso, avente contenuto descrittivo e privo di qualsivoglia constatazione di violazioni tributarie, individua il dies a quo dal quale computare il termine dilatorio di sessanta giorni, di cui all’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, entro cui il contribuente può fornire eventuali osservazioni difensive. L’orientamento giurisprudenziale di legittimità che tende a superare, in via interpretativa, le disposizioni di legge che puntualmente sanciscono l’obbligo per gli Uffici fiscali di rilasciare al contribuente sottoposto a verifica fiscale un PVC, rappresenta ormai un dato preoccupante perché non più isolato (3). E invero, l’orientamento espresso dalla Suprema Corte con l’ordinanza in esame si innesta in un non condivisibile filone giurisprudenziale che consta di diverse pronunce già intervenute sul punto (4). In primo luogo, la Suprema Corte, conformandosi esplicitamente ai principi di diritto già espressi dallo stesso Consesso, prende posizione sul fatto che l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria non deve necessariamente concludersi con la redazione di un PVC, essendo sufficiente, per adeguatamente garantire al contribuente soggetto ad una verifica fiscale la possibilità di attivare il contraddittorio endoprocedimentale ex art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, il rilascio di un verbale attestante le operazioni compiute, anche laddove queste si compendino in mere attività ricognitive o valutative di fatti o dichiarazioni (5). Un simile orientamento sarebbe pienamente conforme, secondo la Suprema Corte, alle disposizioni di legge che regolano l’attività di controllo
(3) Ciò è viepiù confermato dall’adozione del provvedimento dell’ordinanza nel caso in esame, circostanza, questa, che denota come la Suprema Corte abbia ritenuto di accogliere il ricorso dell’Ufficio per manifesta fondatezza dello stesso. Per un approfondimento si rinvia a M. De Cristofaro, Commento all’art. 375 c.p.c., in Codice di Procedura Civile Commentato, diretto da C. Consolo, tomo II, 2010, 1052 ss.; P. Vittoria, in Commentario alle riforme del processo civile, a cura di A. Briguglio – B Capponi, vol III, tomo I, Ricorso per cassazione, Padova, 2009. (4) Cfr. Cass., 2 luglio 2014, n. 15010; Cass., 29 dicembre 2017, n. 31120; Cass., 22 giugno 2018, n. 16546; Cass., 10 maggio 2017, n. 11471; Cass., 14 settembre 2016, n. 18110; Cass., 25 ottobre 2017, n. 25265; Cass., 17 gennaio 2017, n. 1007; Cass., 4 aprile 2018, n. 8246. (5) Così, Cass., 2 luglio 2014, n. 15010 e Cass., 22 giugno 2018, n. 16546.
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dell’Amministrazione finanziaria e, segnatamente, alle procedure sottostanti l’espletamento delle verifiche fiscali. In tal senso, è stato difatti sostenuto che il PVC, redatto dai funzionari verificatori in occasione di verifiche fiscali presso il contribuente e previsto dall’art. 24, n. 4, l. 7 gennaio 1929, n. 4, non deve necessariamente contenere le contestazioni, ben potendo avere una molteplicità di contenuti valutativi o meramente descrittivi di fatti e dichiarazioni, di talché, all’esito di una verifica fiscale, compendiatasi nella sola consegna di documentazione da parte del contribuente, potrebbe ben mancare il formale rilascio di un PVC, elevandosi a tale rango anche il mero verbale di consegna della predetta documentazione. Da quanto detto deriva che il termine dilatorio di sessanta giorni previsto dall’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, decorre dal rilascio di qualsivoglia verbale, anche dal contenuto meramente descrittivo e istruttorio, in quanto tale norma, utilizzando la locuzione generica “verbale di chiusura delle operazioni”, non impone affatto che venga portato necessariamente a conoscenza del contribuente un verbale contenente le contestazioni formulate (6). Su tali basi si fonda la tesi della giurisprudenza di legittimità, ormai affermata in diverse pronunce ravvicinate nel tempo, secondo cui, in caso di accesso mirato presso i locali del contribuente, la garanzia al contraddittorio endoprocedimentale è assicurata dalla concessione del termine dilatorio di sessanta giorni decorrente dal rilascio del verbale di consegna della documentazione, senza che possa, invece, ritenersi che lo stesso debba ricevere un successivo verbale di chiusura delle operazioni di verifica ove le stesse non siano state compiute interamente presso la sede del contribuente, ma presso gli uffici finanziari (7). Come si nota, ci si trova innanzi a una deriva giurisprudenziale che, superando il contenuto di talune disposizioni di diritto positivo poste a garanzia del contribuente sottoposto a verifica fiscale, giunge, pur celandosi dietro ad un apparente velo garantista, a ridurre il contraddittorio endoprocedimentale a mera formalità, priva di qualsivoglia utilità per il contribuente stesso. Ed infatti, come si illustrerà meglio infra, la tesi della giurisprudenza di legittimità (8) secondo cui il termine dilatorio per l’utile esercizio da parte del
(6) Così sempre Cass., 2 luglio 2014, n. 15010. (7) Così, da ultimo, Cass., 8 maggio 2019, n. 12094, qui in commento. (8) Cfr, ex multis, Cass., 31 luglio 2018, n. 20290.
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contribuente del diritto al contraddittorio decorrerebbe dal rilascio di qualsiasi verbale stilato in sede di verifica fiscale, oltre a prestare il fianco a diverse critiche, può essere letta – a sommesso parere di chi scrive – come tentativo, di facciata, di manifestare un’apertura volta ad assicurare a tutti i costi il contraddittorio endoprocedimentale tra Uffici e contribuente, senza tuttavia poi preoccuparsi dell’effettiva possibilità per quest’ultimo di utilmente esercitare le facoltà connesse. 3. Breve inquadramento degli istituti esaminati dalla Suprema Corte. – Prima di entrare in medias res ed esaminare, pertanto, i profili di criticità che l’ordinanza in esame inequivocabilmente suscita, pare opportuno inquadrare, seppur sinteticamente, le disposizioni, i principi e, più in generale, le tematiche con cui si è dovuta confrontare la Suprema Corte. E invero, sono sostanzialmente due gli istituti o principi rispetto ai quali la Suprema Corte ha fornito una (dubbia) lettura interpretativa delle disposizioni che li disciplinano, e segnatamente: i) l’istituto del contraddittorio endoprocedimentale regolato dall’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, e successive elaborazioni giurisprudenziali nazionali ed euro-unitarie, nella sua peculiare prospettiva di obbligo procedimentale strettamente collegato al dovere di informazione ex art. 6 del citato Statuto; ii) il principio del legittimo affidamento di cui all’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, nella sua declinazione, nel caso che qui ci occupa, di legittima aspettativa da parte del contribuente sottoposto a verifica fiscale di ricevere, a conclusione della stessa, un PVC come previsto dall’art. 24, n. 4, l. n. 4 del 1929. Come si nota, l’ordinanza qui in commento, in realtà, si limita a lambire il (complesso) tema del contraddittorio endoprocedimentale, inducendo invece a riflettere in merito al diritto del contribuente a una compiuta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto che stanno alla base di una contestazione, in difetto della quale il diritto al contraddittorio, come espressione del diritto di difesa anticipato al procedimento, non può essere utilmente esercitato. Per questa ragione, non potendo trattare con compiutezza tutte le problematiche derivanti dalla materia del contraddittorio, si procederà, dapprima, a fornire una veloce rassegna delle ultime pronunzie giurisprudenziali sul tema, per poi passare alla disamina del tema centrale della presente nota, ossia il diritto del contribuente (cui corrisponde un obbligo, in capo all’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 6 dello Statuto dei diritti del contribuente) a ricevere una compiuta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto su cui si fondano le contestazioni rilevate all’esito dell’attività di controllo svolta da
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parte degli Uffici, quale condizione necessaria per l’utile esercizio del diritto al contraddittorio. 3.1. Il “contraddittorio” endoprocedimentale nella recente giurisprudenza nazionale ed euro-unitaria. – L’archè del dibattito in merito alla sussistenza, in ambito tributario, di un generalizzato obbligo per l’Amministrazione finanziaria di attivare il contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente, prima dell’emissione del provvedimento amministrativo idoneo ad incidere nella sfera giuridico – patrimoniale di quest’ultimo, è da ricercarsi nella mancanza di una norma di diritto positivo che, al pari del procedimento amministrativo, sancisca un siffatto obbligo (9). Come noto, la l. 7 agosto 1990, n. 241 (“Legge sul procedimento amministrativo”) descrive in maniera chiara e puntuale le fasi attraverso cui si snoda il procedimento amministrativo, esaltando la dimensione partecipativa dello stesso attraverso talune significative disposizioni (10); nel diritto tributario,
(9) Per un approfondimento del tema del contraddittorio nei procedimenti tributari si rinvia al lavoro monografico di G. Ragucci, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, passim. Si vedano altresì i contributi di: F. Gallo, Contraddittorio procedimentale e attività istruttoria, in Dir. prat. trib., 2011, 467 ss.; Id., L’istruttoria nel sistema tributario, in Rass. trib., 2009, 25 ss.; Id., La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, 1315 ss.; G. Gaffuri, Aspetti critici della motivazione relativa agli atti d’imposizione e l’esecutività degli avvisi di accertamento, in Rass. trib., 2011, 597 ss.; S. Sammartino, Il diritto al contraddittorio endoprocedimentale, in Rass. trib., 2015, 986 ss.; G. Marongiu, Diritto al contraddittorio e Statuto del contribuente, in Dir. prat. trib., 2012, 613 ss.; G. Corasaniti, Le garanzie procedimentali in tema di abuso del diritto: spunti di riflessione per un’estensione ad altre forme di accertamento, in Dir. prat. trib., 2016, 1838 ss., e bibliografia ivi citata; Id., Il principio del contraddittorio nella giurisprudenza nazionale e dell’Unione Europea, in Dir. prat. trib., 2016, 1575 ss.; A. Marcheselli, Le mille contraddizioni del principio del contraddittorio, in Corr. trib., 2018, 176 ss.; A. Giovannini, Il contraddittorio endoprocedimentale, in Rass. trib., 2017, 11 ss.; A. Lovisolo, La necessaria “utilità” e la “ampiezza” del previo contraddittorio endoprocedimentale anche al fine dell’accertamento di tributi armonizzati emessi a seguito di “verifica”, in Dir. prat. trib., 2018, 1632, ss.; A. Colli Vignarelli, Il contraddittorio endoprocedimentale e l’“idea” di una sua “utilità” ai fini dell’invalidità dell’atto impositivo, in Riv. dir. trib., 2017, 21 ss.; A. Perrone, Dalla Corte Costituzionale una possibile soluzione alla tormentata questione del contraddittorio endoprocedimentale tributario, in Dir. prat. trib., 2017, 930 ss.; S. Cociani, Il contraddittorio preventivo e la favola di Fedro della volpe e della maschera da tragedia, in Riv. dir. trib., 2018, 89 ss.; R. Miceli, Il contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie: un principio generale senza disciplina di attuazione, in Riv. dir. trib., 2016, 345 ss.; A. Fantozzi, Violazioni del contraddittorio e invalidità degli atti tributari, in Riv. dir. trib., 2011, 137 ss. (10) Il riferimento è alle disposizioni che vanno dall’art. 7 all’art. 13 della l. n. 241 del 1990, contenenti la disciplina della partecipazione e dell’intervento di estranei nella procedura.
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invece, nonostante negli ultimi anni si sia assistito al moltiplicarsi di disposizioni normative che prevedono forme, più o meno diverse tra loro, di partecipazione del contribuente ai procedimenti tributari, non si può non convenire con l’affermazione che si tratti invero di previsioni episodiche, frammentarie e, comunque, settoriali (11). Poste le difficoltà con cui deve confrontarsi l’interprete per ammettere un’estensione delle norme poste a tutela del “giusto procedimento” amministrativo anche ai procedimenti tributari (12), le quali “difficoltà”, tuttavia, sembrano - a ragione - superabili sulla base di alcune previsioni di diritto interno come “euro-unitariamente” interpretate (13), occorre ragionare par-
Come sottolineato dalla dottrina amministrativistica, il Legislatore ha voluto, attraverso l’emanazione della l. n. 241 del 1990 e successive modifiche, attribuire progressivamente al privato la possibilità di accedere alla funzione amministrativa e di partecipare in maniera effettiva alla formazione della volontà provvedimentale. Sul punto, si v. V. Cerulli Irelli, Lineamenti di diritto amministrativo, Torino, 2014, passim; A. Andreani, Principi costituzionali ed “europeizzazione” dell’Amministrazione, in Dir. amm., 1997, 540 ss. (11) Tra gli interventi che maggiormente rimarcano il contraddittorio quale occasione difensiva del contribuente, si ricordano: i) la partecipazione prevista nel contesto dell’accertamento sintetico di cui all’art. 38, co. 4, d.p.r. n. 600 del 1973; ii) il procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative di cui all’art. 16, d.lgs. n. 472 del 1997; iii) l’attività prevista dagli artt. 36-bis e 36-ter, d.p.r. n. 600 del 1973. (12) A tal riguardo, va ricordato come l’art. 13, l. n. 241 del 1990, stabilisce che le disposizioni sulla partecipazione in ambito amministrativo non trovano applicazione con riferimento ai procedimenti tributari. Sul punto, L. Salvini, La partecipazione del privato all’accertamento nell’imposta sui redditi e sull’Iva, Milano, 1990, 27 ss.; Id., La “nuova” partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo Statuto del contribuente ed oltre), in Riv. dir. trib., 2000, 25 ss., ha sostenuto che l’esclusione della materia fiscale «sia frutto non già della peculiarità del sistema (…) quanto piuttosto di una sorta di timor reverentialis (…) privo di qualsiasi giustificazione concreta». (13) Significativa, in questo senso, è la posizione di L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010, 233, il quale, pur cercando di giungere ad una soluzione mediana tra esclusioni espresse e normativa di settore, afferma che l’art. 1, co. 1, l. n. 241 del 1990, consente «l’ingresso nel nostro ordinamento di tutti i principi dell’ordinamento comunitario (…) nonché di quel principio del contraddittorio, ampiamente recepito, sin dal 1990, nel Capo III della legge, ma oggi rilevante per l’intera azione amministrativa anche a prescindere dagli artt. 7-12 di cui al cit. Capo III». Sulla base di tale tesi, secondo l’Autore, anche per la materia tributaria deve essere osservato dall’Amministrazione finanziaria il dovere di informare il contribuente destinatario di un provvedimento lesivo della sua sfera giuridica e di ascoltarlo prima della relativa adozione laddove sia necessario, «sia pure senza i formalismi e le minuziose disposizioni legislative degli artt. 7-12». Di qui il tentativo di A. Fedele, L’accertamento tributario e i principi costituzionali, in L’accertamento tributario. Principi, metodi, funzioni, Milano, 1994, 29 ss., di assicurare il contraddittorio attraverso l’applicazione diretta dei principi costituzionali e dello stesso Legislatore di ampliare i casi e le aree di partecipazione
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tendo da una premessa: ad oggi, malgrado anche i più recenti interventi legislativi su cui si verrà più avanti, in ambito tributario non esiste, a differenza dell’ordinamento amministrativo, «una norma generale la quale sancisca l’obbligo, per l’Ufficio, di sentire sempre il contribuente prima di procedere all’accertamento» (14), e questo nonostante la Corte di Giustizia dell’Unione Europea abbia in più occasioni attribuito al diritto al contraddittorio valore di principio fondamentale dell’ordinamento giuridico euro-unitario (15). Ciò premesso, si tratta di esaminare la giurisprudenza di legittimità e costituzionale che si è pronunciata con riferimento al tema del contraddittorio endoprocedimentale, soprattutto in merito alla latitudine applicativa dell’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, il quale stabilisce un termine dilatorio di sessanta giorni tra la consegna del PVC e l’emissione dell’avviso di accertamento, pena, in difetto del rispetto del predetto termine, la nullità dello stesso (16). Ebbene, la Suprema Corte, dopo un lungo dibattito (17), ha offerto un primo rilevante contributo alla pregnanza e al significato da attribuire al carattere partecipativo dello spatium deliberandi di sessanta giorni previsto dall’art. 12, co. 7, andando anche oltre tale disposizione, per giungere, in un primo
del privato all’attività d’accertamento. Sull’argomento si v. altresì L. Del Federico, La rilevanza della legge generale sull’azione amministrativa in materia tributaria e l’invalidità degli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 2010, 729 ss. (14) In questi termini, per tutti, S. La Rosa, Principi di diritto tributario, Torino, 2012, 240; A. Fantozzi, Violazioni del contraddittorio e invalidità degli atti tributari, cit., 137 ss. (15) Il riferimento è alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 18 dicembre 2008, causa C-349/07, Sopropè, in Rass. trib., 2009, 570, con nota di G. Ragucci, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario; Corte di Giustizia, 3 luglio 2014, cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino, in Corr. trib., 2014, 2536 ss., con nota di A. Marcheselli, Il contraddittorio va sempre applicato, ma la sua omissione non può eccepirsi in modo pretestuoso, e in GT, 2014, 838 ss., con nota di R. Iaia, I confini di illegittimità del provvedimento lesivo del diritto europeo al contraddittorio preliminare. (16) A. Colli Vignarelli, La violazione dell’art. 12 dello Statuto e la illegittimità dell’accertamento alla luce dei principi di collaborazione e di buona fede, in Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente, a cura di A. Bodrito – A. Contrino – A. Marcheselli, Torino, 2012, 499 ss.; M. Basilavecchia, Quando le ragioni di urgenza possono giustificare l’anticipazione dell’accertamento?, in Corr. trib., 2010, 3969 ss.; L. Salvini, La “nuova” partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo Statuto del contribuente ed oltre), cit., 13 ss. Tale tesi era stata oltremodo sostenuta dalla Cass., SS.UU., 29 luglio 2013, n. 18184. (17) Ricostruito efficacemente da P. Accordino, Problematiche applicative del “contraddittorio” nei procedimenti tributari, Milano, 2018, 94 ss., cui si rinvia anche per gli approfonditi riferimenti bibliografici.
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momento (18), ad elevare il contraddittorio endoprocedimentale, in forza anche dei principi euro-unitari esistenti in materia, a principio immanente del sistema tributario. In particolare, il pieno riconoscimento del diritto al contraddittorio preventivo al contribuente coinvolto in un qualsivoglia procedimento tributario è stato affermato sulla base dell’art. 24 della Costituzione, sulla base degli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (19), nonché dell’art. 41 di tale Carta, che, garantendo il diritto ad una buona amministrazione (20), da intendere, fra gli altri, quale «diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio», trova ingresso nel sistema nazionale tramite il “passante legislativo” (21) dell’art. 1, l. n. 241 del 1990, il quale richiama i principi dell’ordinamento comunitario tra i criteri che reggono l’attività amministrativa. Non si è in errore affermando che la sentenza n. 19667 del 2014 abbia rappresentato un arresto fondamentale nel panorama della giurisprudenza di legittimità italiana, anche per la piena comprensione dimostrata dal Supremo Consesso del rilievo garantistico dell’obbligo di informazione, obbligo, questo, contenuto in una norma, l’art. 6 dello Statuto dei diritti del contribuente, per lungo tempo ignorata dalla giurisprudenza, o, più semplicemente, oggetto di un’interpretazione svalutativa (22).
(18) Il riferimento è alla sentenza n. 19667 del 18 settembre 2014 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Dir. prat. trib., 2015, 20593 ss, con nota di A. Renda, Il contraddittorio quale nucleo insopprimibile di rilievo sostanziale nell’ambito del procedimento tributario: le conferme della giurisprudenza comunitaria e di legittimità. Sull’argomento si v. F. Tundo, Diritto al contraddittorio endoprocedimentale anche in assenza di previsione normativa, in GT, 2014, 937 ss. Dello stesso avviso è Cass., 12 febbraio 2016, n. 2879; Cass., 5 settembre 2016, n. 17612; Cass., 10 gennaio 2017, n. 380; Cass., 3 aprile 2018, n. 8101; Cass., 4 aprile 2018, n. 8323; Cass., 4 aprile 2018, n. 8324; Cass., 9 aprile 2018, n. 8617. (19) Si ricorda che tale Carta, in forza del disposto di cui all’art. 6 del Trattato di Lisbona del 2009, ha “lo stesso valore giuridico dei trattati”. (20) Sul punto, M. C. Pierro, Il dovere di informazione dell’Amministrazione Finanziaria, Torino, 2013, sottolinea come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sia fonte di rango primario e contiene disposizioni che hanno efficacia giuridicamente vincolante sia per le Istituzioni comunitarie – amministrative e/o giudiziarie -, sia per quelle degli Stati nazionali che sono tenute ad applicarle negli ordinamenti interni, contestualmente alla disciplina domestica. (21) Tale locuzione è stata coniata da L. Del Federico, I rapporti tra lo Statuto e la legge generale sull’azione amministrativa, in Rass. trib., 2011, 1393 ss. (22) Così M. C. Pierro, Il dovere di informazione dell’amministrazione finanziaria e il
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Tale orientamento giurisprudenziale, che sembrava aver acquisito carattere di definitività anche a seguito dell’autorevole avallo della Corte Costituzionale con la sentenza n. 132 del 2015 (23), è stato tuttavia sconfessato dalla successiva sentenza n. 24823, resa dalle stesse Sezioni Unite della Suprema Corte il 9 dicembre 2015 (24), nella quale è stato sostenuto (contraddicendo anche l’orientamento manifestato con la sent. n. 18184 del 2013) che, a differenza del diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione finanziaria che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo della sfera giuridica del contribuente un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Con la sentenza n. 24823 del 2015 (25) le Sezioni Unite della Corte di Cassazione negano l’esistenza di un principio generale di contraddittorio endoprocedimentale, non potendo assolvere a tale funzione l’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, il quale trova applicazione solo con riferimento agli accertamenti di tributi “non armonizzati” conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente.
diritto al contraddittorio preventivo, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2016, 193 ss.; E. La Scala, L’effettiva applicazione del contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario tra svolte, ripensamenti e attese, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2015, 394 ss. (23) Cfr. G. Ragucci, Il principio del contraddittorio nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Rass. trib., 2015, 1217 ss.; Id., Contraddittorio e “giusto procedimento” nella giurisprudenza costituzionale, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2016, 474 ss.; G. Marongiu, Una stella cometa a guida dell’abuso da “diritto vivente”, in Rass. trib., 2015, 1213 ss.; M. Basilavecchia, Anche su abuso ed elusione garanzie ineludibili, in GT, 2015, 741 ss.; A. Giovannini, Note controcorrente su nullità dell’avviso senza contraddittorio e non rilevabilità d’ufficio dell’abuso, in Corr. trib., 2015, 4506 ss.; Id., Contraddittorio anticipato, invalidità dell’atto impositivo e rilevabilità d’ufficio dell’abuso del diritto, in Giur. cost., 2015, 1182 ss. (24) Cfr. Cass., SS.UU., 9 dicembre 2015, n. 24823, in Corr. trib., 2016, 479 ss., con nota fortemente critica di M. Beghin, Il contraddittorio endoprocedimentale tra disposizioni ignorate e principi generali poco immanenti; in Dial. trib., 2015, 383 ss., con nota di D. Stevanato - R. Lupi, Sul contraddittorio endoprocedimentale la Cassazione decide (forse bene), ma non spiega; in Dir. prat. trib., 2016, 719 ss., con nota di A. Lovisolo, Sulla c.d. “utilità” del previo contraddittorio endoprocedimentale; in Dir. prat. trib., 2016, 732 ss., con nota di A. Renda, Il contraddittorio preventivo tra speranze (deluse), rassegnazione e prospettive. (25) G. Ragucci, Contraddittorio e “giusto procedimento” nella giurisprudenza costituzionale, cit., 479, sottolinea la valenza marcatamente regressiva di tale pronuncia rispetto alla sentenza n. 132 del 2015 della Corte Costituzionale.
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Si è giunti così ad un risultato definito dalla dottrina “strabiliante” nella misura in cui è stato ipotizzato un doppio binario, in considerazione della tipologia dei tributi ai quali la contestazione, di volta in volta, si riferisce. Da una parte, «le garanzie previste nel campo dei tributi non armonizzati, come l’Irpef o l’Ires; dall’altra, le garanzie operanti per i tributi armonizzati, che, come l’Iva, sono sferzati dal vento del diritto tributario europeo» (26). Le conclusioni spiazzanti cui è giunto il Supremo Collegio hanno indotto la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con ordinanza n. 736 del 10 gennaio 2016, a sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, per violazione degli artt. 3, 24, 53, 111 e 117, Cost, «nella parte in cui riconosce al contribuente il diritto a ricevere copia del verbale con cui si concludano le operazioni di accertamento e di disporre di un termine di 60 giorni per eventuali controdeduzioni, nelle sole ipotesi in cui l’Amministrazione abbia effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività” del contribuente». Ebbene, la Corte Costituzionale, con tre ordinanze del 13 luglio 2017 (27), dichiarando manifestamente inammissibili le questioni di legittimità sollevate con riferimento alla ritenuta incostituzionalità dell’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, ha omesso di pronunciarsi sul ruolo del contraddittorio endoprocedimentale nei casi dei c.d. “accertamenti a tavolino”, lasciando ancora aperto il dibattito sul tema e un «condiviso rammarico per non avere essa potuto (o voluto?) sfruttare questa occasione» (28). Il risultato dell’illustrato iter giurisprudenziale è riassumibile nella previsione, nel quadro legislativo dato, di un obbligo preventivo di contraddittorio endoprocedimentale a “tre velocità” (29) e cioè: i) con riferimento ai tributi “armonizzati” il predetto obbligo sarebbe correlato alla sua “utilità”, da accertare in sede giudiziale a seguito della c.d. “prova di resistenza”; ii) per i
(26) Così M. Beghin, Il contraddittorio endoprocedimentale tra disposizioni ignorate e principi generali poco immanenti, cit., 479. (27) La Corte Costituzionale si è pronunciata, oltre che con riferimento alla questione rimessale dalla CTR della Toscana con l’ordinanza n. 736 del 2016, anche con riferimento alle questioni sollevate dalla CTP di Siracusa con ordinanza n. 235 del 17 giugno 2016 e dalla CTR Campania con ordinanza n. 261 del 6 maggio 2016. (28) In questi termini, P. Accordino, op. cit., 115. (29) Espressione, questa, utilizzata da A. Lovisolo, La necessaria “utilità” e la “ampiezza” del previo contraddittorio endoprocedimentale anche al fine dell’accertamento di tributi armonizzati emessi a seguito di “verifica”, cit., 1630.
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tributi “non armonizzati” accertati a seguito di accessi, ispezioni e verifiche, l’obbligo del contraddittorio preventivo sussisterebbe secondo le condizioni e i termini stabiliti dall’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente; iii) esistono, infine, procedure di accertamento (ad. es., accertamenti standardizzati, accertamenti sintetici, etc.) per le quali l’obbligo di contraddittorio preventivo è stabilito dalle singole disposizioni che li regolamentano (30). Ai fini che qui interessano, la giurisprudenza di legittimità più recente (ivi inclusa l’ordinanza qui in commento) - sovvertendo (i corretti) esiti ermeneutici raggiunti dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 19667 del 2014, che aveva collegato l’obbligo di attivazione del contraddittorio endoprocedimentale in tutti i procedimenti tributari al dovere di informazione stabilito dall’art. 6 dello Statuto dei diritti del contribuente, in termini di effettiva utilità del predetto contraddittorio solo in seguito all’assolvimento, da parte degli Uffici, dell’obbligo di rendere noto al contribuente, attraverso la consegna di un formale PVC e indipendentemente dalla tipologia di attività istruttoria posta in essere, tutte le ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento dell’eventuale contestazione - finisce per fornire una lettura svalutativa di due disposizioni fondamentali dello Statuto, ossia l’art. 6 e l’art. 12, co. 7., le quali, come si vedrà, vanno peraltro lette congiuntamente ad un’altra disposizione, ossia l’art. 24, n. 4, l. n. 4 del 1929. 3.2. Obbligo di consegna del “verbale di chiusura delle operazioni” e contraddittorio endoprocedimentale. – Ora occorre esaminare il principio del legittimo affidamento di cui all’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, nella sua declinazione, nel caso che qui ci occupa, di legittima aspettativa da parte del contribuente sottoposto a verifica fiscale di ricevere, a conclusione della stessa, un processo verbale di constatazione come previsto dall’art. 24, n. 4, l. n. 4 del 1929, dalla cui consegna computare l’effettivo termine entro cui esercitare utilmente il diritto al contraddittorio. Come detto in premessa, l’ordinanza qui in commento introduce un ulteriore argomento di riflessione, attinente all’obbligo vigente in capo all’Amministrazione finanziaria, e, in particolare, in capo ai funzionari verificatori,
(30) In dottrina, si v. S. Zagà, Le discipline del contraddittorio nei procedimenti di «controllo cartolare» delle dichiarazioni, in Dir. prat. trib., 2015, 845 ss.
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di redigere il processo verbale di constatazione al termine dell’attività di controllo (31). Non è usuale, difatti, che una pronuncia del Supremo Collegio si soffermi nella disamina della natura e della rilevanza del suddetto atto istruttorio quale atto necessario, da un punto di vista procedimentale, per garantire al contribuente sottoposto a verifica l’adeguata conoscenza dei rilievi mossi nei suoi confronti. Tuttavia, ancora una volta, il Supremo Collegio giunge, adeguandosi a un non condivisibile orientamento già espresso dal medesimo, a conclusioni connotate da significativi profili di criticità. Per meglio comprenderle, è utile inquadrare l’istituto. Anzitutto, va ricordato come il suddetto atto istruttorio sia disciplinato dall’art. 24, l. n. 4 del 1929, che, nella sua formulazione cristallina e inequivocabile, così dispone: “Le violazioni delle norme contenute nelle leggi finanziarie sono constatate mediante processo verbale”. Tale disposizione, nonostante la datazione, non è mai stata abrogata o superata da alcuna disposizione successiva, di talché essa è da considerarsi, non solo (ancora) di sicura attualità, ma anche quale unica norma idonea a chiarire la funzione svolta dal PVC nell’ambito del procedimento tributario. Ciò posto, il PVC rappresenta un atto dell’istruttoria attraverso il quale i funzionari verificatori procedono a compendiare le risultanze delle operazioni svolte nei confronti del contribuente, nel pieno rispetto del fondamentale principio di trasparenza dei rapporti tra Amministrazione finanziaria e contribuente. Per utilizzare le parole della Suprema Corte, esso è «atto che si inserisce nell’attività istruttoria espletata dall’Amministrazione finanziaria, con cui viene dato conto delle prove che giustificano l’emissione dell’avviso di accertamento (o di rettifica) che conclude il procedimento di imposizione» (32). La necessaria e obbligatoria scansione degli atti (i.e., prima il PVC e solo successivamente l’avviso di accertamento o di rettifica) pare avere assunto ancora maggiore rilevanza a seguito dell’adozione dello Statuto dei diritti del contribuente, e, in particolare, dell’art. 12, co. 7, del citato Statuto, il quale distingue nettamente la fase del controllo (culminante necessariamente con
(31) In dottrina, si v. D. Stevanato, Il ruolo del verbale di constatazione nell’accertamento dei tributi, in Rass. trib., 1990, 458 ss.; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Parte Generale, Milano, 2016, 195 ss. (32) Cfr. Cass., 28 aprile 1998, n. 4312.
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un processo verbale di constatazione) dalla fase impositiva (culminante con l’avviso di accertamento o di rettifica). Le prime riflessioni che possono svolgersi con riferimento ai parametri normativi di riferimento sembrerebbero piuttosto agevoli e lineari: il contribuente, dopo aver ricevuto un processo verbale di constatazione al termine dell’attività ispettiva, che contenga un esauriente descrizione degli elementi di fatto venuti a conoscenza dell’autorità procedente, nonché delle ragioni di diritto da essa ritenute rilevanti, ha la facoltà di presentare, entro il termine dilatorio stabilito dall’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, le osservazioni difensive che ritiene opportune, le quali possono andare dall’integrazione del materiale istruttorio alla mera esposizione delle proprie ragioni (33). In altri termini, il processo verbale di constatazione, la cui consegna al contribuente è obbligatoria (34) – si sottolinea – non sulla base dell’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, bensì sulla base di un’altra disposizione, ossia l’art. 24 della l. n. 4 del 1929, è deputato ad esercitare una duplice funzione che gli è propria e connaturata, ossia “informare” il contribuente degli addebiti contestategli e “innescare” il contraddittorio endoprocedimentale tra questi e l’Amministrazione finanziaria. Dunque, la consegna del PVC al contribuente, rappresentando un momento di partecipazione dello stesso al procedimento tributario che lo vede coinvolto, è da definire alla stregua di un diritto (35) dello stesso, riconosciuto dall’art. 12, co 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, nel «rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione finanziaria e contribuente», cui corrisponde un obbligo in capo agli organi verificatori di rilasciarlo, pena l’invalidità dell’avviso di accertamento emesso in violazione del predetto obbligo (36).
(33) G. Ragucci, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, cit., 66, precisa che l’illustrato rapporto che si instaura tra Amministrazione finanziaria e contribuente va ricondotto nell’alveo del principio di “cooperazione”. Secondo l’A «la regola espressa dall’art. 12, L. n. 212/2000, perciò opera, se non all’interno di un procedimento, certo come raccordo tra due sequenze coordinate di atti (l’istruttoria e l’accertamento), perché pone l’amministrazione e il contribuente nelle condizioni di perseguire il medesimo fine – il prelievo conforme alla legge – pur partendo da difformi rappresentazioni del presupposto». (34) Sostiene l’obbligatorietà della redazione del verbale di chiusura delle operazioni di controllo F. Gallo, Contraddittorio procedimentale e attività istruttoria, cit., 468 e 477. (35) Sul punto, L. Del Federico, Statuto e legge generale su azione amministrativa, in Rass. trib., 2011, 1393 ss. (36) Cfr. M.C. Pierro, Omissione del processo verbale di constatazione e invalidità
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Ecco come la consegna del PVC al contribuente, prima di essere inquadrato quale unico evento idoneo ad innescare il contraddittorio endoprocedimentale tra gli Uffici e il contribuente medesimo, rappresenta “a monte” il primo momento in cui quest’ultimo viene messo nella condizione di conoscere tutte le ragioni di fatto e di diritto che stanno alla base di un’eventuale contestazione, consentendogli di preventivare gli effetti pregiudizievoli eventualmente scaturenti da tale atto istruttorio e, di conseguenza, di scegliere la strategia difensiva che ritiene più opportuna. In questa cornice concettuale, attenta dottrina (37) ha efficacemente inquadrato la natura e la funzione del PVC nell’ambito dell’attività di controllo svolta dall’Amministrazione finanziaria, affermando che la redazione e la consegna di tale atto istruttorio al contribuente al termine delle operazioni di controllo siano da inquadrare quale “atto dovuto” da parte degli Uffici, in quanto attuazione del più generale dovere di informazione dell’Amministrazione (38), sancito dall’art. 6, commi 1 e 2, dello Statuto dei diritti del contribuente. In forza di tale norma, l’Amministrazione finanziaria non solo «è tenuta ad assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati», ma è altresì obbligata ad informare il contribuente «di ogni fatto o circostanza dai quali possa derivare il mancato riconoscimento di un credito ovvero l’irrogazione di una sanzione», di talché ben si comprende quale rilievo assuma il rilascio del processo verbale di constatazione, dato che da questo momento il contribuente è posto nella condizione di attivarsi e di confrontarsi utilmente con gli uffici finanziari, per prevenire l’emissione del provvedimento impositivo o, più in generale, per espletare tutte le attività difensive che ritiene opportune per la sua tutela. Ecco dunque come il PVC, oltre a qualificarsi, in forza del disposto di cui all’art. 24, l. n. 4 del 1929, quale atto istruttorio necessario per individuare e constatare le violazioni delle norme contenute nelle leggi finanziarie da eventualmente segnalare alle autorità amministrative e giudiziarie, assolve altresì alla funzione di certificare le attività istruttorie e i conseguenti rilievi operati durante l’attività di controllo, identificandosi, dunque, quale «atto di sintesi
dell’atto impositivo, in Giur. it., 2014, 956 ss. (37) M.C. Pierro, Rilevanza procedimentale del processo verbale di constatazione e tutela del contribuente, in Rass. trib., 2013, 115 ss. (38) Sul punto, M. C. Pierro, Il dovere di informazione dell’Amministrazione Finanziaria, cit., passim; Id., Il dovere di informazione dell’amministrazione finanziaria e il diritto al contraddittorio preventivo, cit., 193 ss.
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della fase istruttoria, atto di accesso all’interlocuzione difensiva del contribuente con l’Amministrazione fiscale qualora questa abbia condotto una verifica fiscale o un controllo in Ufficio» (39). Riprendendo il pensiero dell’Autore, «(…) il progressivo incremento delle funzioni svolte dal processo verbale depone, quindi, in modo sempre più evidente, a favore del riconoscimento di un imprescindibile obbligo degli effettivi titolari della funzione impositiva di attivazione del contraddittorio derivante dalla estensione a tutti i soggetti sottoposti ad istruttoria del diritto di ricevere il processo verbale di constatazione» (40), non potendo di converso assolvere a tale funzione nessuno degli altri atti che gli organi preposti alla verifica sono legittimati a stilare, quali, ad esempio, processi verbali di verifica, verbali di accesso, verbali di acquisizione di documentazione, etc (41). Come visto, la dottrina ha profuso significativi sforzi per inquadrare la natura e la funzione svolta dal processo verbale di constatazione nell’ambito del complesso delle garanzie che assistono il contribuente nei suoi rapporti con gli organi verificatori, giungendo alla (condivisibile) conclusione che l’unico atto dalla cui consegna decorre il termine dilatorio di sessanta giorni entro cui il contribuente, ai sensi dell’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, può espletare tutte le attività più opportune per la sua tutela è esclusivamente il PVC, da intendersi quale documento di sintesi di tutti i dati rilevati nel corso delle indagini (natura dell’attività del contribuente, scopo dell’accesso, struttura produttiva, documenti esaminati, violazioni riscontrate) (42). Al rigore ricostruttivo e metodologico degli studi della dottrina non si è tuttavia affiancato, nel corso degli anni, un (quantomeno) simile approccio da parte della giurisprudenza di legittimità che, ad onor del vero, è pervenuta (da
(39) Così, testualmente, M.C. Pierro, Rilevanza procedimentale del processo verbale di constatazione e tutela del contribuente, cit., 140. (40) M.C. Pierro, Rilevanza procedimentale del processo verbale di constatazione e tutela del contribuente, ibidem. (41) Ed infatti, M.C. Pierro, op. loc. cit., ibidem, nota 83, sottolinea come questa tipologia di atti assumano carattere meramente prodromico alla successiva compilazione del processo verbale di constatazione. Sul punto, F. Tundo, Il processo verbale di verifica a garanzia del contraddittorio nella fase di verifica, in Corr. trib., 2011, 2089 ss., che ha criticato la sentenza della Corte di Cassazione n. 10381 del 2011, nella quale è stato sostenuto che qualunque atto (nel caso di specie un semplice verbale di accesso) redatto al termine di una verifica, a prescindere dal suo contenuto, acquisisce valore di processo verbale di constatazione dal quale decorrono i termini per la presentazione di eventuali osservazioni del soggetto verificato e per la successiva emanazione dell’atto impositivo. (42) Cfr. F. Tesauro, , Istituzioni di diritto tributario, cit., 195.
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ultimo, con l’ordinanza in commento) a soluzioni interpretative non perfettamente aderenti alle disposizioni normative vigenti. A tal riguardo, merita di essere segnalato un orientamento del Giudice di legittimità particolarmente significativo ed esemplificativo della tendenza in seno a tale giurisprudenza a confondere inopportunamente il processo verbale di constatazione con altri atti redatti dagli organi preposti alle attività di controllo. E infatti, in taluni casi è ritenuto che qualunque atto, anche un mero verbale di accesso non contenente alcun rilievo o addebito nei confronti del contribuente sottoposto a verifica fiscale, purché sottoscritto dal contribuente o da chi lo rappresenta, potesse acquisire valore di processo verbale di constatazione dal quale computare i sessanta giorni per la presentazione di osservazioni difensive e per la successiva emanazione dell’atto impositivo (43). In altre occasioni (44), con un ragionamento più articolato, la Suprema Corte ha sostenuto che l’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, riferendosi, con una locuzione generica, ai “verbali” di chiusura delle operazioni di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività commerciale del contribuente, muove nella direzione dell’ampliamento e del potenziamento del diritto al contraddittorio nella fase di indagine. In tal senso, dunque, non assumerebbe rilievo la denominazione “formale” del verbale rilasciato al contribuente, ben potendo consistere, indifferentemente, in un “tradizionale” processo verbale di constatazione ovvero in un mero verbale descrittivo delle operazioni. Proseguendo nell’analisi delle pronunce della giurisprudenza di legittimità, è necessario oltremodo segnalare che, con riferimento al tema dell’obbligatorietà della redazione del PVC ex art. 24, l. n. 4 del 1929, è stato affermato (45) che «la redazione di un processo verbale di constatazione non è necessaria per rendere legittimo un successivo avviso di accertamento», con la precisazione che «in tema di violazione di norme finanziarie (…), il processo verbale di constatazione, redatto dagli organi accertatori in occasione di verifiche presso il contribuente e previsto dalla L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 24, non deve necessariamente contenere le contestazioni, potendo avere una molteplicità di contenuti, valutativi o meramente ricognitivi di fatti o di dichiarazioni(…)».
(43) Cfr. Cass., 12 maggio 2011, n. 10381. (44) Cfr. Cass., 7 marzo 2014, n. 5374; Cass., 2 luglio 2014, n. 15010. (45) Cass., 11 dicembre 2013, n. 27711; Cass., 29 dicembre 2017, n. 31120.
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L’orientamento giurisprudenziale segnalato sembra ormai consolidato, come l’ordinanza oggetto del presente commento conferma. 4. Profili di criticità della tesi sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità. – L’ordinanza qui in commento, da inquadrare quale sintesi di tutti gli orientamenti giurisprudenziali poc’anzi segnalati, contiene talune statuizioni non condivisibili e criticabili, anche alla luce delle illustrate rigorose soluzioni interpretative cui sono pervenute la dottrina e, talvolta, la più avveduta giurisprudenza di merito. Procediamo con ordine. In primo luogo, ha statuito che l’attività di controllo avviata dagli organi verificatori nei confronti del contribuente non deve necessariamente concludersi con la redazione di un processo verbale di constatazione ex art. 24, l. n. 4 del 1929, essendo sufficiente, ai fini dell’attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, il mero rilascio di un verbale qualsiasi, purché sottoscritto dal contribuente o da chi lo rappresenta. Ciò sarebbe giustificabile anche alla luce del disposto normativo di cui all’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, in quanto la locuzione “verbale di chiusura delle operazioni”, contenuta nel citato comma 7, comprenderebbe tutte le possibili tipologie di verbali, non necessariamente i processi verbali di constatazione stricto sensu intesi. Tale statuizione non è condivisibile. Difatti, sembra di essere innanzi ad un tentativo della giurisprudenza di legittimità di estendere, in nome di una superiore funzione partecipativa che si intende implementare, il contraddittorio endoprocedimentale anche ai casi in cui non venga rilasciato un formale PVC, con la conseguenza, però, di un effettivo svuotamento di garanzie nei confronti del contribuente sottoposto a verifica fiscale. E invero, se il fine ultimo della consegna del processo verbale di constatazione, contenente rilievi e addebiti formulati nei confronti del contribuente, è di consentire al contribuente di proporre tutte le osservazioni difensive che ritiene più opportune per scongiurare la successiva emanazione dell’avviso di accertamento, non si comprende quali osservazioni questo potrebbe proporre a seguito della consegna di un mero verbale di accesso o di acquisizione di documentazione, se non, in limine, mettere in luce alcune violazioni formali commesse dagli organi verificatori. Così facendo, si giunge, all’ombra del velo garantista rappresentato dal riconoscimento dell’attivazione del contraddittorio endoprocedimentale “a tutti i costi”, a scalfire la ratio sottostante quest’ultimo, che è di assicurare al
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contribuente un adeguato lasso temporale per contestare e “demolire” i rilievi formulati dagli organi verificatori. Se in ogni possibile verbale ricognitivo delle attività svolte fosse possibile rintracciare il fattore di innesco dell’inizio del decorso del termine dilatorio di cui all’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, è evidente come divenga assolutamente difficile (se non impossibile) per il contribuente comprendere quando (e, soprattutto, con riguardo a quale verbale, in quanto, a fronte di un primo verbale, il contribuente potrebbe essere ancora soggetto ad ulteriore attività di verifica) presentare le proprie osservazioni difensive. Inoltre, la statuizione secondo cui la redazione di un formale processo verbale di constatazione al termine di un’attività di controllo non sarebbe obbligatoria è contraria ad una disposizione dell’ordinamento nazionale, ossia l’art. 24, l. n. 4 del 1929, che, a quanto consta, non è mai stata abrogata. Tale disposizione, difatti, nella sua formulazione perentoria e cristallina, obbligando gli Uffici finanziari a constatare, mediante processo verbale, le “violazioni delle norme contenute nelle leggi finanziarie”, va letta in combinato disposto con l’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, perché il contraddittorio endoprocedimentale ivi disciplinato rappresenta uno strumento di garanzia per il contribuente nei cui confronti siano stati formulati rilievi e addebiti, non assumendo lo stesso alcuna utilità con riferimento a verbali che non manifestano alcuna “pericolosità” per lo stesso (46). L’errore è di confondere il processo verbale di constatazione con gli altri atti che gli organi verificatori possono stilare nel corso di una verifica, al solo fine di individuare un dies a quo cui ancorare l’inizio del decorso del termine dilatorio di cui all’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente. Così facendo, però, non ci si avvede che l’effetto prodotto dalle proprie conclusioni è opposto a quello perseguito: l’equiparazione del PVC agli altri verbali istruttori rilasciati al contribuente nel corso della verifica, i quali possono caratterizzarsi per il loro contenuto generico e meramente descrittivo, rischia di divenire un viatico per il sostanziale aggiramento del contraddittorio, come potrebbe accadere nel caso in cui al contribuente venisse data la possibilità di presentare osservazioni a fronte di un verbale di consegna di
(46) M. Beghin, Aspetti critici della recente proposta di legge riguardante l’invito al contraddittorio endoprocedimentale, in il fisco, 2018, 4007 ss., sostiene da anni l’esigenza di “saldare” l’art. 24, l. n. 4 del 1929, con il disposto di cui all’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, per rendere in questo modo obbligatorio il contraddittorio endoprocedimentale.
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documentazione. In questo caso, ci troveremmo di fronte a verbalizzazioni inutili che, peraltro, non consentirebbero poi al giudice di valutare se l’espletamento del contraddittorio abbia realmente posto il contribuente nella posizione di produrre osservazioni e, soprattutto, se le stesse siano state prese in considerazione dall’Ufficio ai fini dell’emissione dell’avviso di accertamento. In altre parole, la mancata consegna al contribuente sottoposto a verifica di un PVC, contenente la formulazione dei rilievi e degli addebiti emersi in sede di verifica, rappresenta, da un lato, una violazione dell’art. 24, l. n. 4 del 1929, e, dall’altro, una violazione dell’art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, in quanto non viene riconosciuta al contribuente la possibilità di individuare, tra le diverse possibilità di difesa, quella a suo avviso più adeguata per far valere le sue ragioni (47), e determina, quale effetto delle predette violazioni, l’invalidità del successivo provvedimento impositivo (48). Peraltro, se si considera che la consegna del PVC rappresenta anche uno strumento attraverso il quale l’Amministrazione finanziaria assolve, in forza dell’art. 6, co. 2, dello Statuto dei diritti del contribuente, al proprio obbligo di informare il soggetto sottoposto a controllo “di ogni fatto o circostanza” dai quali possano derivare provvedimenti per lui pregiudizievoli, ben si comprende come la mera consegna di un verbale ricognitivo e descrittivo si ponga in contrasto anche con il citato art. 6, co. 2, dello Statuto, nella misura in cui un siffatto verbale, dalla consegna del quale la giurisprudenza di legittimità intende far decorrere il termine dilatorio di sessanta giorni per l’espletamento del contraddittorio endoprocedimentale, non contiene alcuna informazione circa i “fatti o circostanze” potenzialmente pregiudizievoli, con conseguente assoluta compressione delle facoltà (49) altrimenti garantite al contribuente a seguito della consegna di un formale PVC.
(47) Cfr. M. C. Pierro, Omissione del processo verbale di constatazione e invalidità dell’atto impositivo, cit., 956 ss., la quale sottolinea che, oltre all’art. 12, co. 7, dello Statuto, vi sono poi altre norme che confermano implicitamente l’obbligo di consegnare il processo verbale al contribuente, tra cui le disposizioni in tema di accertamento parziale (art. 41-bis, d.p.r. n. 600 del 1973) e tutte le norme di settore che impongono ai soggetti preposti all’istruttoria l’obbligo di consegnare il verbale di constatazione. (48) M. C. Pierro, op. ult. cit., 956 ss., sottolinea che l’invalidità, nel caso in esame, deve essere affermata “quale effetto del vizio del relativo procedimento”, in base al combinato disposto dell’art. 12, co. 7, dello Statuto e dell’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990. (49) M. C. Pierro, op. ult. cit., 956 ss., chiarisce che solo a seguito della consegna del processo verbale di constatazione e prima che venga adottato un provvedimento che gli rechi pregiudizio, il contribuente può: i) presentare osservazioni e richieste; ii) rimanere silente; iii) se vi sono le condizioni, definire in via anticipata il rapporto tributario.
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Ciò posto, un ultimo passaggio dell’ordinanza qui in commento merita qualche riflessione critica. Ci si riferisce, in particolare, al passo in cui il Giudice di legittimità ritiene, in maniera sbrigativa, che nel caso di specie nessuna lesione del principio del legittimo affidamento fosse intervenuta, nonostante al contribuente (sembra di comprendere dagli, invero, scarni passaggi della motivazione) fosse stato comunicato che, a seguito della consegna del verbale di accesso, gli sarebbe comunque stato consegnato, al termine della verifica fiscale, un formale processo verbale di constatazione contenente l’indicazione delle violazioni riscontrate a seguito dell’attività istruttoria, dalla quale consegna sarebbero poi decorsi i termini per l’instaurazione del contraddittorio. Sul punto, la Suprema Corte afferma che, essendo stata assicurata al contribuente la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale, i cui termini per l’attivazione sono iniziati a decorrere dal rilascio del primo e unico verbale (in cui si attestava la sola consegna di documentazione), e, non sussistendo in capo all’Ufficio alcun obbligo di consegna di un processo verbale di constatazione successivo, nessuna lesione del principio del legittimo affidamento sarebbe configurabile nel caso di specie, essendo stato in ogni caso assicurato al contribuente un adeguato spatium deliberandi per presentare osservazioni e richieste. Ebbene, tale affermazione, ancora una volta, non è condivisibile. In primo luogo, non pare possibile prescindere da una lettura congiunta della disposizione di cui all’art. 12, co. 7, e dell’art. 10, dello Statuto dei diritti del contribuente, in quanto la forma di contraddittorio disciplinata nel primo costituisce un’espressione del principio di cooperazione tra Amministrazione finanziaria e contribuente, il quale è strettamente collegato a quelli di collaborazione, affidamento e buona fede di cui al comma 1 dell’art. 10 (50). Come noto, per buona fede si intende lo stato psicologico di chi ritiene di aver agito (buona fede soggettiva) o la regola di correttezza che impone atteggiamenti non capziosi, vietando il c.d. “venire contra factum proprium” (buona fede oggettiva).
(50) Così S. Sammartino, I diritti del contribuente nella fase delle verifiche fiscali, in G. Marongiu (a cura di), Lo Statuto dei diritti del contribuente, 2004, 130. Sulla tutela dell’affidamento e la buona fede si v. E. Della Valle, Affidamento e certezza del diritto tributario, Milano, 2001; M. Trivellin, Il principio di collaborazione e buona fede nel rapporto tributario, Milano, 2009; A. Marcheselli, Affidamento e buona fede come principi generali del diritto, in Dir. prat. trib., 2009, 447 ss.
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Con l’espressione affidamento si possono individuare una serie di fenomeni più eterogenei, fra i quali l’erronea opinione di un certo soggetto intorno ad una determinata situazione di fatto o diritto, l’ingannevole appartenenza di una situazione di fatto o di diritto, etc. Con l’espressione “principio dell’affidamento” si intende quella norma secondo cui una data situazione di fatto o di diritto non produce effetti se non è nota ad un determinato soggetto, o se è contrastata da una opposta apparenza (51). In ambito tributario, la tutela della buona fede e del legittimo affidamento trova il suo riferimento costituzionale nell’art. 97 Cost. ed è disciplinato dall’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, nonché negli artt. 5, 6 e 7 dello stesso Statuto, i quali, nel prevedere chiarezza, conoscenza e informazione, garantiscono l’attuazione del principio costituzionale di buona fede e buon andamento dell’attività svolta dall’Amministrazione finanziaria (52). In questo contesto, «la tutela dell’affidamento svolge un’importante funzione limitativa essendo in grado di arginare ogni tentativo da parte del Legislatore e dell’Amministrazione finanziaria di arbitrarietà ed è volta a garantire, in un sistema complesso e farraginoso come quello fiscale, la coerenza e la certezza del diritto» (53). Ricostruito in questi termini il principio di tutela del legittimo affidamento, è agevole concludere per una violazione dello stesso tutte quelle volte in cui nel contribuente venga ingenerata dall’Amministrazione finanziaria l’aspettativa di un determinato comportamento - come, nel caso di specie, l’aspettativa di ricevere al termine della verifica fiscale un processo verbale di constatazione di violazioni rilevate nel corso dell’attività istruttoria - poi, successivamente, “tradita”. Aspettativa, questa, assolutamente legittima, perché è proprio una norma dell’ordinamento positivo, ossia l’art. 24, l. n. 4 del 1929, a sancire l’obbligo di consegna di un siffatto processo verbale, e, soprattutto, perché è un’altra norma del medesimo ordinamento, ossia l’art. 12, co. 7, dello Statuto (da leg-
(51) Sul punto, R. Sacco, voce Affidamento, in Enc. dir., vol. I., 1958, 661. (52) Ed invero, con riferimento al principio della tutela dell’affidamento, la Suprema Corte, nella sentenza del 10 dicembre 2002, n. 17576, ha affermato che tale principio, lungi dall’essere stato introdotto per la prima volta in materia fiscale con l’art. 10, era già presente nell’ordinamento tributario prima dell’entrata in vigore dello Statuto dei diritti del contribuente. Sul punto, il Supremo Collegio ha espressamente sancito che il principio della tutela dell’affidamento «è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico – e, quindi, anche in quelli tributari – e costituisce un preciso limite all’esercizio sia dell’attività legislativa, sia dell’attività amministrativa, e tributaria in particolare». (53) F. Amatucci, Principi e nozioni di diritto tributario, Torino, 2016, 47.
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gere in combinato disposto con il citato art. 24), a stabilire che la predetta consegna rappresenti il dies a quo dal quale decorrono i termini per l’esercizio del diritto al contraddittorio endoprocedimentale. È evidente che nel caso di specie sia stata perpetrata una violazione del principio del legittimo affidamento da parte dell’Amministrazione finanziaria, di talché si sarebbe quantomeno dovuta accogliere, ai sensi dell’art. 10, co. 2, dello Statuto dei diritti del contribuente, la (presumibile) richiesta del contribuente di disapplicare le sanzioni irrogate (54); cosa che, tuttavia, non è avvenuta, e che, ancora una volta, espone l’ordinanza qui in commento a valutazioni critiche. 5. Prime riflessioni sull’art. 4-octies, d.l. 30 aprile 2019, n. 34, convertito con modificazioni dalla l. 28 giugno 2019, n. 58 – Come visto, il dibattito sul diritto al contraddittorio endoprocedimentale e, più in particolare, in merito al riconoscimento dello stesso quale canone immanente nel procedimento tributario, è stato alimentato, negli ultimi anni, sia dalla giurisprudenza (costituzionale, di legittimità e di merito) sia dalla dottrina. A partire dalla nota sentenza n. 24823 del 2015, la Corte di Cassazione ha progressivamente scalfito le basi delle acquisizioni così raggiunte, sostenendo l’applicazione del principio solo nei casi espressamente previsti dalle norme di settore ovvero a seguito di verifiche fiscali svolte presso i locali del contribuente, e ammettendone l’applicazione generalizzata solo con riferimento ai “tributi armonizzati” e, comunque, anche in tal caso, solo a seguito dell’esperimento della c.d. “prova di resistenza”. Si è così giunti, con l’ordinanza qui in commento, all’affermazione secondo cui non sussisterebbe alcun obbligo di consegna di un formale processo
(54) M. C. Pierro, Il dovere di informazione dell’amministrazione finanziaria, cit., 76, ritiene di poter «ragionevolmente affermare che i provvedimenti lesivi della posizione giuridica del contribuente, tali perché assunti in conseguenza della violazione dell’obbligo di comunicare un atto endoprocedimentale, potrebbero essere annullati in sede amministrativa o giudiziale. Naturalmente solo se il contribuente riuscisse a dimostrare che l’osservanza del dovere di informazione avrebbe condotto l’Amministrazione finanziaria ad assumere una decisione non lesiva, o meno lesiva per il contribuente rispetto a quella che è stata adottata, e che si reputa viziata». Secondo S. Zagà, Le invalidità degli atti impositivi, Milano, 2012, 339, «un’ipotesi di invalidità dell’atto impositivo per violazione delle regole di contraddittorio (…) è configurabile anche nelle ipotesi in cui l’Ufficio (…) non metta il contribuente nelle condizioni di poter partecipare al procedimento di accertamento avendo omesso di comunicargli l’esito delle operazioni di controllo, perché non gli è stata rilasciata alcuna copia del processo verbale di chiusura delle operazioni di controllo ovvero non gli è stato in alcun modo comunicato (…) l’esito dei controlli, recante l’indicazione delle violazioni tributarie constatate in sede di indagine».
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verbale di constatazione in caso di accesso presso i locali del contribuente, essendo sufficiente, ai fini dell’attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, la consegna di un mero verbale ricognitivo delle attività svolte (anche privo di rilievi o addebiti). Come si nota, il principio di diritto statuito con l’ordinanza in commento rappresenta solo l’ultima fase di un non condivisibile orientamento giurisprudenziale che sembra ignorare, o quantomeno interpretare in chiave svalutativa, il principio del contraddittorio endoprocedimentale e la sua utilità nell’ambito del procedimento tributario. Ed infatti, ancorare il dies a quo di decorrenza del termine di sessanta giorni per presentare osservazioni al momento della consegna di un verbale meramente descrittivo e ricognitivo, non significa solo restringere ulteriormente le maglie del contraddittorio endoprocedimentale, ma significa spingersi sino a ridurre un tale momento di confronto a semplice formalità, senza utilità alcuna per il contribuente che, al momento della consegna del suddetto verbale, non è verosimilmente in grado di presentare alcuna osservazione in grado di minare, in tutto o in parte, i presupposti di fatto e di diritto che saranno posti alla base del futuro provvedimento impositivo. A queste incomprensibili prese di posizione hanno fermamente risposto sia la giurisprudenza di merito (55), la quale, in diverse occasioni, ha dimostrato una particolare sensibilità giuridica nell’inquadrare il principio del contraddittorio endoprocedimentale, sia la dottrina, che, lucidamente, è riuscita ad individuare il substrato normativo di quest’ultimo, come si ritiene di avere dato sia pure sinteticamente conto. In questo contesto, il Legislatore è intervenuto per (tentare di) risolvere definitivamente il problema, introducendo, con l’art. 4-octies, d.l. 30 aprile 2019, n. 34, convertito con modificazioni dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, un obbligo generalizzato di invito al contraddittorio prima dell’emissione dell’avviso di accertamento (56). Come si nota, la nuova disposizione, nella sua formulazione, rappresenterebbe la risposta legislativa allo stato di incertezza alimentato dal dibattito giurisprudenziale degli ultimi anni: a partire dal 1° luglio 2020 il contraddit-
(55) Cfr., ex multis, CTR Emilia Romagna, 14 febbraio 2019, n. 317. (56) Per un primo commento (critico) alla nuova disciplina del contraddittorio endoprocedimentale si vedano: F. Farri, Considerazioni “a caldo” circa l’obbligo di invito al contraddittorio introdotto dal Decreto Crescita, in Riv. dir. trib. suppl. on-line, 4 luglio 2019.
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torio endoprocedimentale va garantito anche nei casi di verifiche “a tavolino” (ossia nei casi in cui non sia stato rilasciato un formale PVC), così definitivamente colmandosi le lacune, in termini di prerogative difensive, esistenti sino al momento dell’entrata in vigore di tale disposizione (57). Quindi? Dibattito definitivamente chiuso con il pieno riconoscimento nel nostro ordinamento tributario di un obbligo generalizzato di contraddittorio endoprocedimentale tra Fisco e contribuente? Non sembra affatto così. Come, peraltro, spesso accade, il legislatore tributario è riuscito ad introdurre una disposizione dall’indubbio impatto mediatico ma, si ritiene, dalle potenzialità applicative, allo stato, piuttosto limitate; una disposizione che, nella sua sintetica formulazione, è in grado di sancire un importante principio, ossia quello del generalizzato obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, e, al tempo stesso, di limitarlo sino a rischiare di pregiudicarne la sua effettiva applicazione. Anzitutto, la nuova disposizione non risolve le criticità sollevate dalla ordinanza in commento, che, dunque, permangono, nella misura in cui l’ambito applicativo dell’art. 5-ter, d.lgs. n. 218 del 1997, è limitato ai soli casi in cui non sia stata rilasciata una copia del PVC, ossia ai casi dei cc.dd. “accertamenti a tavolino”; pertanto, come si nota, continua a sussistere la problematica dell’obbligo in capo agli Uffici di rilasciare un PVC ex art. 24, l. n. 4 del 1929, al termine di qualsiasi attività ispettiva condotta presso i locali del contribuente, non assolvendo alla medesima funzione un qualsiasi verbale di chiusura. In secondo luogo, quasi a fare da contraltare all’introduzione del suddetto generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, è stata introdotta un’ampia estensione dei termini di decadenza del potere accertativo degli Uffici, secondo cui «qualora tra la data di comparizione, di cui al comma 1, lettera b), e quella di decadenza dell’amministrazione dal potere di notificazione dell’atto impositivo intercorrano meno di novanta giorni, il termine di decadenza per la notificazione dell’atto impositivo è automaticamente prorogato di centoventi giorni, in deroga al termine ordinario (58). In terzo luogo, l’obbligo generalizzato di contraddittorio endoprocedimentale è stato introdotto solo con riferimento a tutti quei casi in cui l’attività di con-
(57) Nella Relazione illustrativa al d.l. n. 34 del 2019 si parla espressamente di introduzione nell’ordinamento di “un obbligo generalizzato del contraddittorio prima dell’emissione dell’avviso di accertamento”. (58) Cfr. Così art. 5, co. 3-bis, d.lgs. n. 217 del 1998, come modificato dall’art. 4-octies, d.l. n. 34 del 2019.
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trollo non si concluda con la consegna di un processo verbale di constatazione, con ciò venendosi a delineare una sorta di contraddittorio a “due velocità”: se il contribuente subisce un accesso, ispezione o verifica e al termine dell’attività di controllo riceve un formale PVC, allora potrà presentare osservazioni difensive ex art. 12, co. 7, dello Statuto dei diritti del contribuente; invece, laddove il contribuente subisca una verifica “a tavolino”, potrà solo confrontarsi nell’ambito della sola procedura di accertamento con adesione attivata dall’Ufficio. In ultimo, il nuovo obbligo generalizzato di contraddittorio endoprocedimentale è escluso nel caso di avvisi di accertamento parziale ex art. 41-bis, d.p.r. n. 600 del 1973, e nel caso di avvisi di rettifica parziale ex art. 54, co. 3 e 4, d.p.r. n. 633 del 1972. Questa limitazione rappresenta l’elemento più opinabile della “riforma”, se solo si considera che, nella prassi accertativa, la notifica di avvisi di accertamento parziali da eccezione è ormai divenuta una regola, per di più con l’avallo della Suprema Corte che ritiene detti avvisi espressione di una diversa modalità procedimentale e non un autonomo metodo accertativo, soggetto a particolari limitazioni e requisiti (59). Nel complesso, quindi, non si può che constatare come la nuova disposizione che disciplina l’“obbligo generalizzato di contraddittorio endoprocedimentale” non sia, allo stato, idonea a porre fine al lungo dibattito di cui si è dato conto nel presente contributo, né tantomeno ad inquadrare il rapporto tra Amministrazione finanziaria e contribuenti in nuovo contesto, maggiormente collaborativo e fondato sul dialogo. L’auspicio è che il Legislatore possa nuovamente intervenire, magari prima del 1° luglio 2020, data da cui troverà applicazione il nuovo art. 5-ter, d.lgs. n. 217 del 1998, per definitivamente affermare il generalizzato principio del contraddittorio endoprocedimentale, a prescindere dalle modalità di controllo e dagli strumenti accertativi utilizzati.
Adriano Fazio
(59) Cfr, ex multis, Cass., 4 aprile 2018, n. 8406.
Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli
Sequestro, confisca e pagamento di tributi Sommario: 1. Premessa. – 2. Il sequestro preventivo e la confisca. – 3. La confisca per i reati tributari. – 4. Il sequestro disposto per i reati tributari e l’adempimento delle obbligazioni fiscali del contribuente. – 5. La destinazione delle somme sequestrate a causa di reati tributari all’estinzione del debito del contribuente. – 6. L’utilizzo delle somme sequestrate in relazione ad ipotesi di reato comune. Il sequestro e la confisca previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000 si lasciano apprezzare quali idonee misure cautelari funzionali al recupero di quanto dovuto dal contribuente all’Erario. La loro disciplina, però, non appare ben coesa con i precetti normativi in tema di accertamento e riscossione dei tributi tanto da stimolare alcune considerazioni critiche tese ad individuare la via interpretativa da percorrere in modo da assicurare sia la doverosa applicazione di tali misure cautelari, sia, però, la soggezione del privato a prelievi pari a quanto da esso evaso e non eccedenti tale misura. Le riflessioni svolte riguardano i provvedimenti giudiziari disposti a causa della commissione di reati fiscali ed anche quelli ordinati per i reati di matrice comune. The seizure and confiscation provided by Legislative Decree no. 74 of 2000 allow themselves to be appreciated as suitable precautionary measures functional to the recovery of the amount due to the tax authorities from the tax payer. The legislation, however, does not appear to be well cohesive with the regulation concerning the assessment and collection of taxes so as to stimulate some critical considerations aimed at identifying the interpretative path to be followed in order to ensure both the due application of these precautionary measures and the subjection of the private citizen to withdrawals equal to what he has evaded and not exceeding this measure. The considerations carried out concern the requisitions arranged following the commission of tax crimes and also those ordered for common crimes.
1. Premessa. – L’art. 12 bis del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, introdotto in sede di revisione del sistema sanzionatorio penale tributario dall’art. 10, comma 1, del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, disciplina una ipotesi particolare di confisca collegata specificamente ai delitti tributari. Il complessivo disposto normativo dell’art. 12 bis, essendo condivisibilmente
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teso a garantire la percezione da parte dello Stato delle somme sottratte alla collettività grazie al compimento di reati fiscali da parte dell’indagato/imputato, non può essere interpretato senza tenere anche conto del parallelo obbligo di assolvimento del debito fiscale in sede amministrativa. L’art. 12 bis suscita, dunque, una serie di interrogativi circa la corretta modulazione delle attività di sequestro preventivo prodromiche alla confisca che potrebbero rendere al contribuente particolarmente difficile, se non impossibile, l’adempimento della obbligazione tributaria contestata anche dall’Agenzia delle Entrate in sede amministrativa oltre che dall’Autorità Giudiziaria in ambito penale. Infatti il sequestro preventivo e, poi, la confisca vengono ad assorbire risorse del contribuente senza, però, incidere sulla estinzione totale o parziale dell’obbligazione tributaria elevata dall’Ente impositore. Pertanto qualora la confisca si perfezioni prima dell’assolvimento in sede amministrativa del debito fiscale, l’indagato/imputato è sottoposto ad una duplice decurtazione patrimoniale in relazione allo stesso fatto seppur, naturalmente, contestato in base a presupposti giuridici di ordine differente. Se è ragionevole per la confisca “fiscale” porre in secondo piano l’aspetto sanzionatorio, proprio della confisca “generalista” di cui all’art. 240 c.p., e, invece, enfatizzare il profilo di mezzo forzoso di incasso per lo Stato in relazione ai tributi evasi, finalità che pare pervadere non solo la detta confisca “fiscale” ma l’intero nuovo sistema penale tributario, allora l’interprete deve interrogarsi se sussista sostanzialmente un conflitto, pur da escludersi dal punto di vista formale normativo, con il principio secondo cui il privato deve contribuire alle pubbliche spese in base alla propria capacità contributiva e non in misura superiore. Infatti l’art. 12 bis affronta in maniera imperfetta il rapporto tra confisca e debenza del tributo in sede amministrativa in quanto il secondo comma della norma risolve solo parzialmente l’esposto possibile conflitto. Viene, appunto, ivi disposto esclusivamente che la confisca non opera qualora il contribuente si impegni a versare all’Erario le somme dovute a seguito del compimento dell’illecito tributario a rilevanza penale. L’art. 12 bis, comma 2, prevede, quindi, che l’assolvimento del debito fiscale da parte del contribuente impedisca alla confisca di operare ma non dispone dell’ipotesi inversa, ossia dell’estinzione del debito tributario in sede amministrativa seguita al provvedimento definitivo di confisca applicato al privato. Inoltre ulteriori perplessità sulla sistematicità della disposizione paiono emergere se si raffronta il precetto dell’art. 12 bis con i successivi artt. 13 e 13 bis, rispettivamente regolanti le cause di non punibilità e le circostanze attenuanti speciali ottenute grazie all’assolvimento del debito tributario. Se, difatti, l’assolvimento del
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debito tributario in sede amministrativa è assunto dal legislatore a causa di non punibilità o di circostanza attenuante dei delitti commessi dall’indagato/ imputato, pare doveroso interrogarsi se sia da considerarsi legittimo che il raggiungimento di tali effetti possa essere di fatto escluso o reso assai difficile da altre disposizioni, quale è l’art. 12 bis. Essendo, invero, la confisca solitamente sempre preceduta dal sequestro preventivo, quest’ultimo è indubbiamente mezzo che assorbe risorse del privato che potrebbero essere da costui destinate all’assolvimento del tributo dovuto e dei relativi accessori. Quindi anche qui l’interprete deve indagare su ciò che è oggetto di maggior tutela nelle intenzioni legislative: ossia il sequestro e la confisca “fiscali” ovvero il più agevole accesso da parte del reo alla causa di non punibilità o alla circostanza attenuante. Appare, pertanto, necessario riflettere se l’art. 12 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 vada interpretato nel senso di ritenere intimamente connesse le attività di sequestro/confisca alle modalità di estinzione del debito tributario in sede amministrativa e se tali considerazioni debbano rimanere limitate al novero dei sequestri e alle confische compiuti per i delitti tributari o possano assumere rilevanza anche in materia di reati non tributari da cui discenda comunque l’insorgenza di un debito fiscale. Dette riflessioni devono essere, comunque, anche accompagnate da una attenta preventiva analisi della natura giuridica del sequestro preventivo e della confisca in modo da verificare se le perplessità qui appena sollevate in via preliminare trovino adeguata conferma una volta assodata la natura di tali istituti. 2. Il sequestro preventivo e la confisca. – Il sequestro preventivo, al di là di ipotesi particolari disposte da norme di leggi speciali (1), trova la propria disciplina generale all’art. 321 c.p.p.. Più precisamente, ai fini che qui interessano è rilevante l’ipotesi di sequestro prevista dal comma 2 del citato articolo, il quale statuisce che può essere disposto il sequestro dei beni di cui è consentita la confisca. In quest’ultimo caso, a differenza di quello cosiddetto “impeditivo” di cui al comma 1, il sequestro è giustificato dalla
(1) Tra cui si ricorda l’art. 1, D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni con L. 15 marzo 1991, n. 82, ai sensi del quale, nel caso in cui si proceda per sequestro di persona a scopo di estorsione, è disposto, su richiesta del Pubblico Ministero, il sequestro dei beni della vittima, dei familiari e di altre persone quando vi è fondato motivo di ritenere che tali beni possano essere utilizzati per far conseguire agli autori del delitto il prezzo della liberazione della vittima.
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pericolosità intrinseca del bene, di cui è appunto consentita o, a maggior ragione, è obbligatoria la confisca. Detta norma, tuttavia, non brilla certamente per chiarezza, in quanto, a causa della sua genericità, lascia all’interprete il compito di enucleare i presupposti della misura in questione. Il sequestro preventivo in argomento assume carattere funzionale rispetto alla confisca (2), e siccome questa norma fa riferimento genericamente ad essa (3), la misura cautelare provvisoria può essere disposta non solo in relazione all’ipotesi generale di cui all’art. 240 c.p. (4) ma anche a tutte le ipotesi di confisca previste dalle norme speciali (5). Posto allora che l’art. 321, comma 2, c.p.p., in virtù del suddetto rinvio, si combina con le innumerevoli figure di confisca previste tanto dal codice penale che dalla legislazione complementare ad
(2) Proprio in virtù di tale rapporto strumentale, la Corte di Cassazione ha più volte specificato che detto sequestro preventivo è caratterizzato anche dal cosiddetto principio di proporzionalità, nel senso che con siffatta misura cautelare non sarebbe possibile ottenere più di quanto si potrebbe conseguire con l’eventuale e successiva misura ablatoria finale. Sul punto, tra le altre: sentenze Corte di Cassazione, Sez. VI, 27 gennaio 2015, n. 12515 e Sez. II, 27 novembre 2014, n. 2488. Per ulteriori approfondimenti, si rinvia a G. Marra, Sequestri e principio di proporzionalità, in Cassazione penale, 2018, 4 (supplemento a), 305-307. Tale principio ha avuto riflessi considerevoli nell’ambito penale tributario, dove, come si argomenterà più diffusamente nel proseguo, i beni confiscabili in qualità di profitto del reato coincidono con l’imposta evasa. A tale riguardo, infatti, la Suprema Corte ha ulteriormente specificato che non è possibile mantenere il sequestro sull’intero ammontare evaso ma, al contrario, esso deve essere ridotto in misura corrispondente ai ratei versati dal contribuente in virtù di un piano di rateizzazione stipulato tra quest’ultimo e l’Amministrazione finanziaria. In questo senso, sentenze Corte di Cassazione, Sez. III, 6 ottobre 2016, n. 42087; Sez. III, 11 febbraio 2016, n. 5728; Sez. III, 19 gennaio 2016, n. 4097; Sez. III, 15 aprile 2015, n. 20887. In dottrina, P. Molino, I reati tributari e l’incidenza delle riforme legislative del 2015, in Cassazione penale, 2016, 6 (supplemento), 154 e la nota del Dott. G. Amato, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento, in Diritto penale contemporaneo, 2015, www.penalecontemporaneo.it, il quale sottolinea la doverosità della progressiva riduzione del sequestro preventivo al fine di evitare un’inammissibile duplicazione sanzionatoria in capo al contribuente per la parte del debito tributario che sia stato già assolto. (3) G. Varraso, Il sequestro preventivo a fini di confisca: dalle scelte del codice del 1988 alla legge n. 161 del 2017, in Diritto penale contemporaneo, 2018, www.penalecontemporaneo. it. (4) Il quale disciplina la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto, il profitto o il prezzo. (5) Si pensi, a titolo esemplificativo, alla cosiddetta confisca allargata di cui all’art. 12 sexies del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modifiche dalla L. 7 agosto 1992, n. 356, finalizzata a colpire i patrimoni della criminalità organizzata. Per ulteriori approfondimenti sulla varietà delle diverse ipotesi di confisca presenti nel nostro ordinamento, si rinvia a A. Macchia, Le diverse forme di confisca: personaggi (ancora) in cerca d’autore, in Cassazione penale, 2016, 7-8, 2719-2736.
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esso, ne consegue che non vi è un unico modello di sequestro preventivo (6), coerentemente con la ormai diffusa opinione che la confisca penale presenti oggi una natura “camaleontica”, in ragione della difficoltà di ricondurla ad univoco schema giuridico (7). Peraltro, questa rilevante espansione non è avvenuta secondo un ordine logico; anzi, proprio la mancanza di coerenza sistematica sarebbe la causa dei diversi contrasti e oscillazioni interpretative che hanno caratterizzato, a livello giurisprudenziale, l’applicazione pratica di tale misura cautelare (8). In buona sostanza, dunque, la confisca ha assunto carattere multifunzionale, nel senso che essa si presta tanto a finalità sanzionatorie quanto a scopi di natura chiaramente preventiva. Per tale ragione, la confisca non ha oggi un’unica natura, dipendendo quest’ultima dal contesto normativo nel quale detta misura è stata inserita dal legislatore, nonché dalle funzioni a cui è stata
(6) P. Gualtieri, Rapporti tra sequestro preventivo e confisca. Principi generali, in A. Bargi - A. Cisterna (a cura di), La giustizia patrimoniale penale, II, Torino, 2011, 604 ss. (7) Cfr. in motivazione sentenza Corte di Cassazione, SS.UU., 2 febbraio 2015, n. 4880, secondo la quale la confisca è, di per sé, istituto “neutro”, capace appunto di assumere natura e fisionomia diverse, a seconda del regime normativo che la contempli. La Suprema Corte ha definito esplicitamente detto istituto come “camaleontico”, al fine di sottolinearne la capacità della confisca di adattarsi all’apparato normativo di riferimento e di recepirne le peculiari finalità. Peraltro, questo aumento del ricorso alla confisca da parte del legislatore è stato oggetto dei rilievi critici di V. Manes, L’ultimo imperativo della politica criminale: nullum crimen sine confiscatione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 3, 1262-1265, 1281, il quale ha osservato come attraverso la suddetta vis espansiva di detto istituto stia avvenendo gradualmente una transazione da uno “Stato di diritto” ad un “diritto penale preventivo” o ad uno “stato di polizia patrimoniale”. L’Autore, infatti, sottolinea che il legislatore in ambito penale, al fine di raggiungere l’obiettivo di neutralizzazione delle conseguenze economiche del reato, si è orientato verso scelte che privilegiano più l’efficienza del sistema che il rispetto dei diritti del soggetto. Il ricorso alla confisca, infatti, se da un lato rappresenta una risposta celere al compimento di reati, dall’altro prescinde dagli ordinari presidi garantistici del diritto penale, quale ad esempio l’accertamento del nesso di derivazione tra bene e reato-fonte, tanto che, continua Manes, se nell’originario sistema del codice penale la confisca era una conseguenza solo eventuale e non sempre obbligatoria, oggi è oramai divenuta una conseguenza constante e indefettibile, tanto da assumere i caratteri di una vera e propria sanzione accessoria. Ebbene, siffatto punto di arrivo dell’attuale ordinamento penale, secondo l’Autore, non può essere condiviso, posto che l’intenzione, seppur nobile, del contrasto al compimento dei reati economici non è certamente sufficiente a giustificare la creazione di una sorta di “diritto penale della prevenzione patrimoniale” che possa prescindere dagli stringenti canoni dell’accertamento penale “oltre ogni ragionevole dubbio”. (8) Il riferimento è a A. Toppan - L. Tosi, Lineamenti di diritto penale dell’impresa, Milano, 2017, 300-301.
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destinata (9), trovando, ad oggi, particolare fortuna nell’ambito dei reati di matrice economico-finanziaria in quanto impedisce agli autori di consolidare e godere dei profitti ottenuti tramite il compimento dei reati in questione assumendo, invero, così anche funzione disincentivante. 3. La confisca per i reati tributari. – In riferimento al settore penale tributario, accanto alla disciplina generale di cui all’art. 240 c.p. di cui si è argomentato, era stata già da tempo introdotta una speciale ipotesi di confisca per equivalente, in riferimento a taluni reati tributari, dall’art. 1, comma 143, L. 24 dicembre 2007, n. 244 (10). Siffatta disposizione, costituiva specifica risposta al fenomeno dell’evasione fiscale, di fronte al quale le ordinarie ipotesi di confisca ex art. 240 c.p. risultavano, nella prassi, piuttosto inefficaci (11). Queste ultime infatti ai fini della loro applicazione necessitano di un rapporto di pertinenzialità tra la cosa, costituente il prodotto, prezzo o profitto del reato, e il reato medesimo. Ebbene, il profitto dei reati di natura tributaria presenta la peculiarità di consistere non in un bene di tangibile rilievo patrimoniale ma in un dato meramente concettuale, ovvero nel risparmio di spesa. Più precisamente, relativamente ai reati tributari, il profitto si identifica nel risparmio economico derivante dall’illegittima sottrazione degli importi alla loro destinazione fiscale. Tale risparmio, infatti, costituisce un vantaggio patrimoniale di diretta derivazione dalla condotta illecita (12). Trattandosi di
(9) Tale questione non ha, peraltro, rilievo meramente teorico, posto che dalla natura del singolo provvedimento di confisca dipenderà l’applicazione del principio di irretroattività. Difatti, qualora detta misura assuma natura di sanzione penale, questa non potrà essere applicata relativamente a fatti compiuti prima che per essi fosse prevista la confisca. Di contro, qualora essa abbia natura di misura di sicurezza o di prevenzione, troverà applicazione anche per fatti anteriori all’entrata in vigore della norma che la prevede. (10) Cosiddetta Legge Finanziaria 2008. Tale norma disponeva, infatti, che nei casi di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11 del D.Lgs. n. 74/2000, si osservassero, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’art. 322 ter del codice penale. Rimaneva escluso da tale disposizione solamente il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili di cui all’art. 10 del medesimo D.Lgs. 74/2000 che oggi, invece, va ricompreso tra le fattispecie per le quali, a norma dell’art. 12 bis del D.Lgs. n. 74/2000, è attivabile la cautela reale in quanto tale ultimo articolo si riferisce indistintamente ai delitti di cui allo stesso D.Lgs. n. 74/2000. (11) In particolare, E. Musco - F. Ardito, Diritto penale tributario, 2010, 71 ss. (12) Ex multis, si citano le sentenze Corte di Cassazione, Sez. III, 21 settembre 2016, n. 19994 e SS.UU., 5 marzo 2014, n. 10561 con nota di G. Varraso, Punti fermi, disorientamenti interpretativi e motivazioni “inespresse” delle Sezioni Unite in tema di sequestro a fini di confisca e reati tributari, in Cassazione penale, 2014, 9, 2809.
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un risparmio, ovvero di un importo non versato all’Erario, ne consegue che tali somme sono già presenti nel patrimonio del reo e, quindi, preesistono al reato, il cui compimento produce, a ben vedere, solo l’effetto di mantenere, illegittimamente, quel denaro nella disponibilità dell’autore. Il profitto, dunque, non deriva causalmente dal reato tributario ma si conserva per il tramite di quest’ultimo (13). Pertanto, la confisca trovava un limite, relativamente ai reati di natura tributaria, proprio nella mancata individuazione di un rapporto pertinenziale tra di essi e le somme da sottoporre a detta misura. Tale assenza, difatti, era stata inizialmente valorizzata anche dalla giurisprudenza di legittimità sebbene quest’ultima abbia poi decisamente esteso il perimetro ontologico della confisca diretta così da renderla legittima anche per i reati fiscali (14). Al fine di ovviare a tale problematica, il legislatore era, comunque, ricorso all’introduzione della normativa suddetta in materia di confisca per equivalente, successivamente abrogata dall’art. 10, D.Lgs. n. 158 del 2015, il quale ha sostanzialmente fatto confluire il disposto dell’art. 1, comma 143, L. 244/2007 nell’attuale art. 12 bis del D.Lgs. 74/2000, estendendo l’applicabilità di siffatta misura a tutte le figure di delitto previste nel predetto D.Lgs. n. 74/2000 (15).
(13) Sul punto, O. Mazza, Sequestro e confisca, in Rass. Trib., 2016, 1014. (14) La Corte di Cassazione, difatti, più volte (cfr. in termini sentenza SS.UU., 9 luglio 2004, n. 29951) specificò che il nesso pertinenziale anzidetto era requisito indispensabile ai fini dell’applicazione della confisca, dandosi altrimenti spazio a collegamenti meramente ipotetici tra denaro e reato tributario. Successivamente, la giurisprudenza di legittimità si è proiettata ad una progressiva dilazione del rapporto pertinenziale tra profitto e reato così da estendere parallelamente le ipotesi in cui la confisca diretta poteva considerarsi legittima e, dunque, non vedere preclusa tale misura per i reati tributari (sulla progressiva dilazione in giurisprudenza di legittimità del rapporto pertinenziale tra profitto e reato, si rimanda a L. Fimiani, L’onere dimostrativo dell’impossibilità di reperire il profitto del reato nei confronti dell’ente, nota alla sentenza Corte di Cassazione, Sez. III, 6 luglio 2016, n. 40362, in Cassazione penale, 2017, 9, 3342-3351. Al riguardo, deve comunque osservarsi che recentemente la stessa Corte di Cassazione ha cercato di tornare all’ “antico” ponendo limiti alla crescente estensione della nozione di profitto confiscabile a fini penali; con la sentenza della Sez. VI, 16 gennaio 2018, n. 1754, infatti, la Suprema Corte ha specificato che il concetto di profitto non può estendersi fino a ricomprendere un vantaggio che non si sia materializzato in termini economico-patrimoniali ma sia solo eventuale o comunque futuro, pur derivando dal reato per il quale si procede). In tema cfr. pure T. Tassani, Confisca e recupero dell’imposta evasa: profili procedimentali e processuali, in Rass. Trib., 2015, 1406-1407. (15) Peraltro facendo sorgere più di un sospetto di illegittimità costituzionale per eccesso di delega. Sul punto, P. Veneziani, La confisca obbligatoria nel settore penale tributario, in Cassazione penale, 2017, 4, 1694.
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La normativa odierna, quindi, dispone la confisca obbligatoria dei beni che costituiscono il prezzo o profitto del reato tributario per il quale è sopraggiunta la condanna, anche su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. oppure, in via subordinata, di altri beni di cui il reo ha comunque la disponibilità, fino ad un valore corrispondente a detto prezzo o profitto (16). Circa poi lo scopo della confisca penal-tributaria, tale istituto è volto evidentemente a privare il reo delle conseguenze patrimoniali favorevoli ottenute a mezzo dell’evasione fiscale, con la precisazione che, nel caso della confisca per equivalente, si prescinde dalla pericolosità in sé del bene confiscato. Oltre alla finalità general-preventiva nei confronti dell’insieme dei consociati/contribuenti, potenziali autori di reati tributari (17), tale misura assume dunque anche funzioni di stampo restitutorio. Attraverso l’ablazione in capo al colpevole degli importi illecitamente conseguiti, la confisca, sia diretta (18) che per
(16) Sulla portata dell’oggetto della confisca per equivalente, che è stato ed è uno degli aspetti problematici dell’istituto, v. di recente, A. Contrino - A. Marcheselli, Sul perimetro oggettivo di applicazione della “confisca per equivalente” nei delitti penaltributari, in Riv. dir. trib. – On line, 8 luglio 2019, a commento di Cass., Sez. III, 24 aprile 2019, n. 17535, la quale – mutando rispetto all’orientamento giurisprudenziale prevalente, che è stato storicamente nel senso che nell’importo risparmiato, e costituente il profitto del reato, debbano sempre essere ricompresi anche gli accessori del tributo, ossia anche gli interessi e le sanzioni – ha esteso ai reati di omesso versamento quanto già statuito per i reati connotati da evasione di imposta (Cass., Sez. III, 7 giugno 2017, n. 28047), ossia l’esclusione delle sanzioni dall’oggetto della confisca per equivalente. Quanto agli interessi, su cui queste ultime sentenze non si sono espresse, per gli Autori citati “la confisca – a differenza delle sanzioni amministrative – è ipotizzabile in astratto. Ciò non perché egli ne abbia risparmiato il pagamento al Fisco. In effetti, non pagando le imposte si risparmia il tributo, mentre l’interesse moratorio non è un importo risparmiato non pagando, ma, semmai e quasi all’opposto, esso consegue al mancato pagamento. L’ammontare degli interessi può ritenersi concorrere a determinare il valore da confiscare attraverso un altro percorso: se ed in quanto esso possa dirsi costituire la misura forfetaria del vantaggio finanziario ottenuto dal reo, potendosi, in effetti, assumere che, non pagando tempestivamente il tributo, si sia avvantaggiato del protratto possesso dei valori che ha conservato, valori che possono presumersi fruttiferi nella misura dell’interesse; tale circostanza deve, tuttavia, essere oggetto di argomentazione e prova (anche indiziaria) e, comunque, deve essere possibile provare il contrario. E’ solo per tale via che questa voce accessoria del tributo si può collocare nella sfera del vantaggio economico ricavato in via immediata dal reato”. (17) In questo senso, cfr. L. Della Ragione, La Confisca per equivalente nel diritto penale tributario, in Diritto penale contemporaneo, 2010, www.penalecontemporaneo.it e C. Sanvito, Il denaro, bene d’equivalente valore del profitto del reato tributario e il rispristino dell’ordine economico perturbato, nota alla sentenza Corte di Cassazione, Sez. III, 11 febbraio 2015, n. 6205, in Riv. dir. trib., 2016, II, 23-24. (18) Sul punto, S.M. Ronco, Profili di interrelazione tra tassazione dei proventi di origine illecita e disciplina penale in materia di confisca, in Dir. prat. trib., 2017, II, 587-582,
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equivalente (19), è infatti volta a ripristinare l’ordine giuridico e finanziario che risulta violato (20). 4. Il sequestro disposto per i reati tributari e l’adempimento delle obbligazioni fiscali del contribuente. – Per quanto riguarda gli importi sottoposti a sequestro in relazione alle ipotesi di reato di natura tributaria, si deve ricordare che il comma 2 dell’art. 12 bis del D.Lgs. 74/2000 costituisce disposizione assai peculiare in tema di rapporti tra debito tributario e confisca. Essa, infatti, prevede la non operatività di quest’ultima, anche in presenza di sequestro, per la parte della somma evasa che il contribuente si impegna a versare all’Erario. Evidentemente il legislatore ha previsto, in relazione alle fattispecie che integrano reati di natura fiscale, una particolare disciplina volta più al recupero di quanto evaso, in funzione della tutela all’interesse fiscale violato, così da far assumere connotati marcatamente riscossivi all’attuale sistema di incriminazione per condotte di evasione, piuttosto che a sanzionare penalmente l’autore dell’illecito (21). In altre parole, la previsione
il quale richiama a sua volta l’orientamento in questo senso della giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di responsabilità degli enti da reato, sentenza SS. UU., 21 luglio 2015, n. 31617. (19) G. Vinciguerra, Brevi riflessioni sulla confisca penal-tributaria per equivalente, in Dir. prat. trib., 2017, I, 268-271, sottolinea come la stessa Suprema Corte abbia evidenziato che la confisca penal-tributaria per equivalente costituisce anche una forma di prelievo pubblico a compensazione di quanto illecitamente trattenuto dal privato. Cfr. al riguardo la sentenza Corte di Cassazione, Sez. II, 14 giugno 2006, n. 31988. (20) Sull’identica finalità ripristinatoria dello status quo ante, cfr. O. Mazza, Sequestro e confisca, ibidem, 1021. (21) Tale convinzione, ossia che per il legislatore l’obiettivo primario sia il recupero delle imposte evase e dei relativi accessori più che infliggere una condanna al reo, non nasce solo dall’analisi dell’art. 12 bis del D.lgs. n. 74/2000 ma pare emergere da diversi articoli del decreto in esame. A tale proposito occorre richiamare l’art. 13 che prevede che il pagamento del dovuto possa costituire causa di non punibilità; allo stesso modo va ricordato l’art. 13 bis che assicura la circostanza attenuante speciale, al di fuori dei casi di non punibilità, per chi adempia all’obbligo fiscale ovvero subordini l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. alla preventiva estinzione del debito tributario e dei relativi accessori. Infine anche l’art. 14 disciplina l’ulteriore circostanza attenuate del pagamento di una somma determinata dal reo quando il debito tributario è estinto per prescrizione o decadenza. Concordano sulla funzione recuperatoria dell’intero attuale impianto del D.Lgs. n. 74/2000 anche T. Tassani, Confisca e recupero dell’imposta evasa: profili procedimentali e processuali, cit., 1408-1409; V. Mastroiacovo, Riflessi penali delle definizioni consensuali tributarie e riflessi fiscali delle definizioni bonarie delle vertenze penali, in Riv. dir. trib., 2015, I, 168, 178; G. Melis, La nuova disciplina degli effetti penali dell’estinzione del debito tributario, in Rass. Trib., 2016, 600.
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in argomento esprime un generale principio di alternatività tra l’avvenuto recupero del tributo da parte dell’Amministrazione Finanziaria e la confisca penale, secondo una visione di tale istituto, quale misura residuale, che trova peraltro già applicazione nel nostro ordinamento all’art. 19, comma 1, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 in tema di responsabilità da reato degli enti (22). Tale lettura, inoltre, conferma ulteriormente quanto sopra argomentato circa le finalità ripristinatorie della confisca in relazione ai reati tributari. Sembra corretto (se non ovvio) osservare, dunque, che nel momento in cui l’autore dell’illecito sana la propria posizione debitoria nei confronti dell’Erario, viene meno qualsiasi indebito vantaggio patrimoniale in capo al contribuente e, conseguentemente, la necessità di applicazione della confisca o del sequestro preventivo ad essa finalizzato (23). Ciò posto, la condizione legislativamente prevista affinché possa operare la norma in argomento, come già accennato, è l’impegno del contribuente al versamento di quanto dovuto. Sul significato di tale espressione, si ritiene
(22) Tale norma infatti prevede espressamente la confisca salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato. Alle stesse conclusioni, inoltre, è giunto anche l’Ufficio del Massimario presso la Corte di Cassazione, il quale, in sede di commento alle novità introdotte dal su citato D.Lgs. 158/2015, ha osservato come la ratio del comma 2 dell’art. 12-bis D.Lgs. 74/2000 sia quella di far prevalere le pretese dell’Erario su quelle statuali, in linea con quanto previsto in tema di responsabilità degli enti. Cfr. Corte di Cassazione – Ufficio del Massimario – Settore Penale, Relazione n. III/05/2015, www.cortedicassazione.it, 39. (23) Sul punto cfr. anche, E. Bozheku, Osservazioni a Cass. Pen., Sez. II, 6 dicembre 2013, n. 11777, in Cassazione penale, 2014, 6, 2281, e S. Finocchiaro, La riforma dei reati tributari: un primo sguardo al D.Lgs. 158/2015 appena pubblicato, in Diritto penale contemporaneo, 2015, www.penalecontemporaneo.it, 3. Per la giurisprudenza di legittimità si ricordano, inoltre, ex multis, le sentenze Sez. III, 15 aprile 2015, n. 20887; Sez. III, 16 maggio 2012, n. 30140; Sez. III, 3 dicembre 2012, n. 46726, in Corr. trib., 2013, 7, 591, con nota di A. Iorio - S. Mecca, Il tardivo pagamento dei tributi evasi esclude la confisca per equivalente; Sez. III, 1 dicembre 2010, n. 10120. In posizione interpretativa differente si pone, invece, A. Giovannini, Identità di oggetto dell’obbligazione d’imposta e della confisca nei reati di evasione, in Rass. trib., 2014, 1255 ss., in quanto sposta il piano di attenzione dall’assolvimento del debito tributario e, dunque, dell’adempimento a favore dell’Erario di quanto non assolto dall’indagato/imputato, a quello della mera sussistenza delle due obbligazioni, quella di fonte tributaria e quella di fonte penale. Tali obbligazioni, secondo l’Autore, non possono coesistere attesa l’identità di oggetto delle stesse. L’intervenuta definitività dell’obbligazione in sede tributaria, che rende così certo il debito del privato ed autorizza l’Amministrazione Finanziaria all’esercizio del proprio potere esecutivo, impedirebbe, a prescindere dall’adempimento della stessa, il permanere in capo all’indagato/imputato del vantaggio economico quale elemento oggettivo della fattispecie confiscatoria. La certezza del debito, in buona sostanza, andrebbe ad elidere il vantaggio economico del contribuente/indagato/imputato.
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che debba trattarsi comunque di un impegno “formale”. L’impegno assunto, cioè, potrà essere valorizzato ai fini della non operatività della confisca, o del sequestro ad essa finalizzato, solamente se sarà tra quelli così giuridicamente qualificati da una specifica disposizione normativa (24). Il mero impegno “informale”, al di fuori dalle fattispecie normativamente individuate, si atteggia, difatti, a strumento non adeguato al sistema di riscossione dei tributi che segue precise regole dettate dalla disciplina di settore. Appare invero assai ragionevole ritenere non rilevanti eventuali impegni di versamento non collegati a procedure formali di incasso per l’Erario sia perché la riscossione delle somme dovute al Fisco avviene solo attraverso apposite procedure normativamente predeterminate, sia perché il contribuente ha preventivamente adottato dei comportamenti gravemente illeciti sotto il punto di vista tributario, tanto ché è sottoposto a procedimento penale per essi e, dunque, in questi casi, appare doverosa la massima prudenza da parte della Amministrazione pubblica. Pertanto l’impegno del privato deve derivare direttamente dall’applicazione di una disposizione sull’adempimento dei debiti fiscali contestati al contribuente. Si pensi al caso in cui il contribuente effettui acquiescenza all’avviso di accertamento e a tal fine versi la prima rata del piano di dilazione (ad esempio in caso di delitto di dichiarazione infedele), ovvero quando il privato inizi a versare secondo un piano rateale quanto richiesto dai c.d. avvisi bonari seguiti alle procedure liquidatorie di cui all’art. 36 bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (l’ipotesi è al reato di omesso versamento di ritenute certificate) o di cui all’art. 54 bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (reato di omesso versamento dell’IVA) o proceda al
(24) Cfr. in merito, S. Finocchiaro, L’impegno a pagare il debito tributario e i suoi effetti su confisca e sequestro, in Diritto penale contemporaneo, 2015, www.penalecontemporaneo. it., 11; A. Perini, La riforma dei reati tributari, in Diritto penale e processo, 2016, 1, 31, L. D’Agostino, L’operatività della confisca e le sorti del sequestro preventivo in presenza di impegno al pagamento del debito tributario: in dubio pro reo?, in Riv. trim. dir. trib., 2017, II, 373 e D. Potetti, Il nuovo art. 12-bis, comma 2, D.Lgs. 74 del 2000: un enigma in materia di confisca tributaria, nota alla sentenza Corte di Cassazione, Sez. III, 30 luglio 2015, n. 33602, in Cassazione penale, 2016, 6, 2583-2584. Per quanto attiene alla giurisprudenza, si ricorda la sentenza Corte di Cassazione, Sez. III, 6 ottobre 2016, n. 42087, la quale ha specificato l’applicabilità della previsione in argomento ai soli casi di obblighi assunti in maniera formale dal contribuente secondo le disposizioni tributarie vigenti in materia, escludendo invece le mere esternazioni unilaterali provenienti da quest’ultimo. In senso conforme, anche la sentenza Corte di Cassazione, Sez. III, 14 gennaio 2016, n. 5728, con nota di M. Grande, L’inoperatività della confisca in caso di impegno al versamento del debito tributario, in Cassazione penale, 2016, 9, 3370-3372.
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versamento rateale delle somme iscritte in base al piano di rateazione disposto dall’Agenzia delle Entrate - Riscossione, oppure, infine, all’ipotesi ove il privato proceda al pagamento della prima rata per la definizione dell’avviso di accertamento, del processo verbale di constatazione o della controversia così come previsto dal recente D.L. 23 ottobre 2018, n. 119 in materia di “pace fiscale” (25). Esaminata la natura dell’impegno che deve assumere il privato, giova ora evidenziare che dalla lettura dell’art. 12 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 appare chiaro che laddove sia in essere il sequestro e il contribuente si assuma il detto impegno non possa essere disposta la confisca di quanto già sequestrato. Si è, infatti, sopra già evidenziato che il sequestro è sempre finalizzato alla confisca e, quindi, se quest’ultima non deve operare per quanto il privato si impegni a versare all’Erario, anche in pendenza di sequestro, fino a quando il contribuente rispetti l’impegno assunto, il sequestro non potrà essere tramutato in confisca. Completato il pagamento all’Ente erariale indubbiamente l’Autorità Giudiziaria competente dovrà disporre il dissequestro ai sensi dell’art. 12 bis, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000. Meno immediata è, invece, la conclusione circa l’operare del provvedimento di sequestro qualora, appunto, il contribuente si sia impegnato nei termini detti per un piano di pagamento del debito tributario ma non abbia ancora estinto la propria obbligazione tributaria. Il dubbio, difatti, investe la legittimità dell’inizio e della permanenza dell’azione cautelare per l’ammontare delle somme residue che il privato si è impegnato a versare ma che ancora non ha pagato. Può accadere, infatti, che il termine per il pagamento non sia ancora scaduto ovvero l’impegno sia calibrato su versamento rateale e il piano di dilazione preveda rate che al momento del sequestro non siano ancora scadute (26). Il contribuente, dunque, sta adempiendo regolarmente al proprio impegno assunto col Fisco ma non ha terminato di assolverlo. Il tenore dell’art. 12 bis in esame non impedisce, invero, il sequestro nei confronti del
(25) Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 17 dicembre 2018, n. 136. (26) L’impegno assunto dal contribuente secondo i canoni prefissati dal legislatore tributario ad assolvere il tributo secondo T. Tassani, Confisca e recupero dell’imposta evasa: profili procedimentali e processuali, ibidem, 1392-1395, impedirebbe all’Autorità Giudiziaria di disporre il sequestro, e se la misura cautelare fosse già in essere dovrebbe essere revocata. L’effetto ostativo, infatti, all’adozione dei provvedimenti cautelari si perfezionerebbe ai sensi dell’art. 12 bis già al momento dell’impegno al pagamento.
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contribuente che si sia impegnato con l’Erario a versare quanto dovuto ma che non abbia estinto completamente la posizione debitoria. Si è visto, difatti, che la funzione del sequestro è di assicurare poi l’esecuzione della confisca che si atteggia obbligatoria per i reati tributari e, dunque, persistendo il debito, il sequestro dovrà essere eseguito. Indubbiamente tale conclusione viene a rendere particolarmente difficile per il privato l’adempimento dell’obbligo fiscale in quanto si trova a subire il sequestro e contemporaneamente è chiamato a versare le somme dovute all’Agenzia delle Entrate. Dal punto di vista finanziario, pertanto, il patrimonio del contribuente è impegnato per ben di più di quanto dovuto atteso che il sequestro sarà già pari alle somme che devono essere ancora versate. Il privato solo quando avrà estinto il debito vedrà, poi, dissequestrate e restituite le somme ovvero, in pendenza di pagamento rateale, il privato è onerato di chiedere, ogni volta che abbia versato la singola rata, il dissequestro parziale pari all’importo della detta singola rata pagata (tale operazione è peraltro possibile solo se oggetto di sequestro sia una somma di denaro e non beni infungibili). La necessaria tutela del buon esito della confisca deve essere anche, dunque, bilanciata con il diritto di salvaguardia del patrimonio del contribuente che non va inciso in maniera superiore al debito fiscale. Il verificarsi di tale ultima circostanza stride con il principio di capacità contributiva e, dunque, necessariamente si deve cercare una soluzione ragionevole che permetta alla Parte pubblica, e quindi all’intera collettività, di non rischiare di perdere l’incasso del tributo e dei relativi accessori dovuti dal contribuente, ma che al contempo assicuri a quest’ultimo di non dover essere chiamato, seppur in via provvisoria, ad un onere superiore a quello rispondente alla propria capacità contributiva e alle sanzioni amministrative dovute. A tale proposito va anche, invero, considerato che l’avvio del sequestro o il permanere di esso, nel caso in cui il contribuente si impegni ad estinguere il debito fiscale, potrebbe essere ritenuto non in sintonia con quanto previsto dagli artt. 13 e 13 bis in materia di cause di non punibilità e di circostanze attenuanti del reato. Se, difatti, il legislatore ha deciso che l’assolvimento dell’obbligo tributario vada a costituire, a seconda dei casi, causa di non punibilità o, comunque, circostanza attenuante, potrebbe affermarsi la legittima aspettativa da parte del reo di non vedersi frapposti ostacoli da parte della Pubblica Autorità all’adempimento – e il sequestro indubbiamente lo è in quanto assorbe risorse che sarebbero destinate al pagamento del tributo –. In assenza di sequestro, difatti, il contribuente potrebbe più agevolmente onorare il debito e, dunque, riuscire ad ottenere i benefici in sede penale indicati
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dalle norme appena richiamate. Si deve in tema, però, specificare che quanto disposto dall’art. 13 e dall’art. 13 bis del D.Lgs. n. 74/2000 trovi la sua propria ratio non in una funzione premiale per l’indagato/imputato; le norme dette mirano esclusivamente ad indurre il contribuente a pagare quanto dovuto, ma non a disporre clausole di vera e propria premialità per il reo che si sia dimostrato “pentito e collaborativo” con lo Stato. In buona sostanza l’art. 13 e l’art. 13 bis introducono un’opportunità per il reo, ma questa opportunità non può essere privilegiata alle necessarie tutele preposte all’esigenza pubblica di assicurarsi, in ogni caso, quanto spettante alla collettività grazie ai diversi sistemi di garanzia patrimoniale previsti dall’ordinamento. Dunque, anche sotto tale ulteriore profilo, il sequestro va ritenuto legittimamente disposto o mantenuto anche qualora il privato avvii piani di assolvimento del proprio debito tributario. 5. La destinazione delle somme sequestrate a causa di reati tributari all’estinzione del debito del contribuente. – Da quanto esposto emerge, pertanto, un quadro normativo piuttosto composito ove appare difficile contemperare le esigenze di rendere l’Erario sicuro di incassare le somme dovute ed al contempo non appesantire eccessivamente l’onere per il contribuente che si potrebbe trovare inciso, seppur provvisoriamente, in misura superiore al debito da estinguere. Una soluzione a tale situazione di impasse va rinvenuta interpretando il disposto dell’art. 12 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 nel senso sia di consentire al contribuente di impiegare le somme sottoposte a sequestro per assolvere il debito tributario, sia di individuare una modalità di diretto impiego di dette somme ai fini erariali, cosicché venga preclusa qualsivoglia possibile distrazione delle somme sequestrate a destinazioni diverse da quelle dell’incasso a favore dell’Ente impositore. In effetti, questa appare l’unica via percorribile in quanto, come già sopra evidenziato, la revoca della suddetta misura cautelare, a fronte del mero impegno ad adempiere, farebbe venire meno la garanzia che l’indagato/imputato non compia atti idonei a disperdere i beni sequestrati e nel contempo adempia effettivamente ai propri debiti tributari. In altre parole, essendo lo scopo del sequestro preventivo quello di sottrarre all’indagato/imputato la disponibilità di ciò che potrà essergli poi definitivamente confiscato, qualora sopraggiunga una sentenza di condanna senza che il privato abbia versato le somme dovute all’Erario, sarebbe del tutto in contrasto con tale ratio revocare il sequestro preventivo in assenza
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del pagamento integrale del debito tributario (27). Non a caso il legislatore delegato all’art. 12 bis citato, in caso di impegno da parte dell’indagato/ imputato ad adempiere ai propri debiti tributari, non ha statuito l’impossibilità per il giudice di disporre la confisca ma solo che essa “non opera” (28). Dunque, rimanendo doverosa la misura confiscatoria finale, a maggior ragione sarà legittimo il mantenimento di quella cautelare strumentale ad essa, a nulla ostando l’esistenza di un accordo di pagamento del debito fiscale (29).
(27) A tale riguardo, deve osservarsi che la giurisprudenza della Corte di Cassazione nega in generale la possibilità di revocare il sequestro preventivo solo sulla base dell’assunzione dell’impegno a pagare, in virtù di un’interpretazione della norma fortemente ancorata allo scopo cautelare del sequestro preventivo ex art. 321, comma 2, c.p.p.. Si citano, tra le altre, le sentenze Sez. III, 20 luglio 2017, n. 35781; Sez. III, 7 ottobre 2016, n. 42470; Sez. III, 22 agosto 2016, n. 35246; Sez. III, 11 febbraio 2016, n. 5728, nonché la già sopra citata Relazione n. III/05/2015 dell’Ufficio del Massimario presso la Corte di Cassazione, avente ad oggetto le novità legislative introdotte con il D.Lgs. 158/2015. In essa, infatti, viene affermato (cfr. pag. 41) che solo il pagamento integrale del debito tributario impone la revoca del sequestro preventivo precedentemente disposto. In senso conforme, anche la nota del Dott. G. Amato, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento, in Diritto penale contemporaneo, 2015, www. penalecontemporaneo.it., 17. Peraltro, sulla generale possibilità di disporre la revoca del sequestro preventivo a fronte dell’intervenuto accordo tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria di un piano di pagamento rateale, la Suprema Corte si era espressa negativamente, anche a fronte del pagamento di alcune rate, ancora prima dell’entrata in vigore della normativa in argomento. Ex multis, si ricordano le sentenze Corte di Cassazione, Sez. III, 20 maggio 2015, n. 20887; Sez. III, 12 febbraio 2014, n. 6635; Sez. III, 24 luglio 2012, n. 30140. (28) La Suprema Corte ha, peraltro, fornito un’interpretazione dell’art. 12 bis nel senso che, in caso di condanna, il giudice dovrebbe comunque disporre la confisca, la quale però non produrrà effetti, ovvero rimarrà “condizionalmente sospesa”, fintantoché il reo mantenga l’impegno preso di versare quanto dovuto all’Erario. Di contro, in caso di mancato pagamento del debito, la confisca riacquisterà tutta la sua efficacia. Si citano in particolare le sentenze Corte di Cassazione, Sez. III, 7 ottobre 2016, n. 42470; Sez. III, 6 ottobre 2016, n. 42087; Sez. III, 11 febbraio 2016, n. 5728 con note di S. Finocchiaro, La Cassazione sul sequestro e la confisca del profitto in presenza dell’impegno a pagare il debito tributario, in Diritto penale contemporaneo, 2016, www.penalecontemporaneo.it e di M. Grande, L’inoperatività della confisca in caso di impegno al versamento del debito tributario, ibidem, 3370-3372. (29) In argomento si veda anche S. Finocchiaro, La confisca “condizionalmente sospesa” in caso di impegno a pagare il debito tributario e la permanenza del sequestro preventivo anche dopo la condanna, nota alla sentenza Corte di Cassazione, Sez. III, 13 luglio 2016, n. 42470, in Diritto penale contemporaneo, 2016, www.penalecontemporaneo.it, 7; E. Fassi, Le prime indicazioni della Corte di Cassazione sulla interpretazione dell’art. 12-bis recentemente introdotto nel tessuto del D.Lgs. n. 74 del 2000, nonché sulla sua efficacia con riguardo a provvedimenti di sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca, nota alla sentenza Corte di Cassazione, Sez. III, 22 febbraio 2016, n. 5728, in Cassazione penale, 2016, 7-8, 2950-2967. Quest’ultimo, in particolare, osserva che, secondo i giudici della Suprema Corte, la permanenza del sequestro preventivo, pur a fronte dell’impegno a corrispondere all’Erario
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Ferma tale convinzione, dettata, come detto, dal voler tutelare il credito di fonte pubblica, vi sono comunque considerazioni che decisamente inducono a voler individuare una posizione meno rigida nei confronti dell’indagato/ imputato i cui beni siano stati sequestrati a causa del compimento di reati tributari pensando ad un impiego “controllato” delle risorse finanziare sequestrate così da agevolare l’adempimento del debito fiscale oggetto di impegno nei confronti dell’Agenzia delle Entrate. Infatti, la negazione della possibilità per l’indagato/imputato di utilizzare le somme di denaro a lui sequestrate per il pagamento dei propri debiti tributari si pone pure in contrasto con quanto è stato indicato nella Relazione illustrativa al D.Lgs. 158/2015, ove viene chiaramente specificato che la previsione di cui all’art. 12 bis, comma 2, è stata formulata anche al fine di consentire al contribuente di utilizzare quanto in sequestro per provvedere al credito erariale (30). La peculiarità dell’art. 12 bis, comma 2, è proprio di aver reso la misura cautelare funzionale al recupero delle somme evase da parte dell’Amministrazione Finanziaria (31). Il rapporto, dunque, tra pagamento del debito tributario e confisca penale appare proprio la dimostrazione che la funzione principale di tale misura, nel settore dei reati tributari, è di tipo recuperatorio più che sanzionatorio (32). Infatti, in caso contrario, il legislatore avrebbe previsto il cumulo tra la confisca penale e il pagamento delle imposte. Il fatto che sia disposta la rinuncia alla confisca a fronte del versamento di quanto dovuto costituisce, invece, indice del carattere sostanzialmente recuperatorio di detto provvedimento giudiziario. La ricostruzione della natura giuridica della confisca di cui all’art. 12 bis in termini di strumento forzoso all’adempimento del tributo più che di misura afflittiva appare preferibile anche perché maggiormente in sintonia rispetto a quanto disposto dagli artt. 13 e 13 bis del
quanto dovuto, sarebbe giustificata dalla funzione di siffatta misura cautelare, ovvero quella di garantire l’efficacia della confisca nel caso in cui il versamento promesso non si verifichi. (30) Sul punto cfr. Relazione illustrativa a D.Lgs. 158/2015, in www.documenti.camera. it, 10. (31) Si veda A. Ingrassia, Ragione fiscale vs “Illecito penale personale” – Il sistema penale tributario dopo il D.Lgs. 158/2015, Roma, 2016, 163 ss. L’Autore, invero, sostiene la forte funzione premiale di tale norma, in combinato disposto con i successivi artt. 13 e 13 bis, che si concretizza in un incentivo per il contribuente alla liquidazione spontanea di quanto dovuto all’Amministrazione finanziaria. (32) Cfr. in tema anche D. Potetti, Confisca tributaria e sequestro preventivo alla luce del nuovo art. 12-bis, comma 2 del D.Lgs. 74/2000, nota alla sentenza Corte di Cassazione, Sez. III, 15 aprile 2015, n. 20887, in Cassazione penale, 2016, 4, 1686-1688.
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D.Lgs. 74/2000. Tali norme prevedono, come sopra già evidenziato, cause di non punibilità e circostanze attenuanti che vengono subordinate all’estinzione integrale del debito tributario, costituendo pertanto dei forti incentivi per il reo al pagamento di quanto dovuto all’Erario (33). Ebbene, in questa prospettiva anche quanto previsto dall’art. 12 bis, comma 2, può essere letto in maniera funzionale al perfezionamento del debito fiscale che appare, dunque, obiettivo, se non primario, comunque di centrale interesse anche da un punto di vista generale della legislazione penal-tributaria. In conclusione deve ritenersi che la preclusione per l’indagato/imputato di utilizzare quanto sottoposto a sequestro preventivo per assolvere ai propri debiti tributari non appare in linea con il vigente impianto logico-sistematico voluto dal legislatore da cui traspare centrale attenzione per il recupero di quanto evaso. Infatti, come già sottolineato, in una tale ipotesi il reo riscontrerà, evidentemente, maggiori difficoltà ad adempiere alle proprie obbligazioni tributarie e, dunque, la Pubblica Amministrazione non sempre potrà trovare soddisfazione economicamente analoga con la confisca in quanto essa richiede la condanna dell’indagato/imputato che, ovviamente, è risultato incerto per lo Stato. Inoltre, la detta preclusione rischia di creare profonde disuguaglianze tra coloro che sono destinatari di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca. In caso di mancata revoca di tale misura, infatti, solo coloro in possesso di beni economici ulteriori potranno versare il dovuto all’Erario e quindi poter godere dei suddetti istituti di non punibilità o di attenuazione della pena mentre gli indagati/imputati con carenza di mezzi si vedranno, di contro, preclusa siffatta possibilità (34). A tale proposito, è stato invero qui evidenziato che l’esigenza di voler ottenere i benefici di cui agli artt. 13 e 13 bis non può andare a sacrificare la sussistenza delle garanzie del credito erariale che si estrinsecano nel sequestro e nella confisca, ma questo non vuol dire che
(33) Per approfondimenti ulteriori sulle norme citate nel testo, si rinvia a A. Termine, Il nuovo art. 13 D.Lgs. 74/2000: una norma di favore “ibrida”?, nota alla sentenza Corte di Cassazione, Sez. III, 15 giugno 2017, n. 30139, in Diritto penale contemporaneo, www. penalecontemporaneo.it, 2017, 7, 250 ss. (34) Sul punto anche L. D’Agostino, L’operatività della confisca e le sorti del sequestro preventivo in presenza di impegno al pagamento del debito tributario: in dubio pro reo?, ibidem, 385. Poi G. Melis, La nuova disciplina degli effetti penali dell’estinzione del debito tributario, cit., 621, da un punto di vista più generale evidenzia che l’accesso ai regimi previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, tra cui quelli dell’art. 13 e 13 bis, non deve determinare un sistema discriminatorio tra chi sia dotato di risorse finanziarie e chi no.
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l’interprete non debba ricercare la soluzione che possa rendere conciliabili le apparentemente opposte esigenze del privato e del Fisco. L’utilizzo dei beni sequestrati per il pagamento dei debiti tributari non è, poi, da ritenersi neanche in conflitto con gli stessi principi generali in materia di misure cautelari reali. Al riguardo, pare opportuno rilevare che l’art. 85 delle disposizioni attuative del codice di procedura penale dispone chiaramente che i beni sequestrati possano essere restituiti previa osservanza di specifiche prescrizioni (35). Nel momento, infatti, in cui le esigenze cautelari possano venire meno attraverso l’esecuzione di specifiche prescrizioni impartite dal Giudice competente, i beni sequestrati dovranno essere restituiti subordinando la restituzione, per quanto concerne i reati tributari, a quelle prescrizioni che tutelino il diritto dell’Erario ad essere soddisfatto. Ne consegue, dunque, che l’Autorità Giudiziaria, a fronte dell’impegno formale assunto dal reo con l’Amministrazione Finanziaria, ben potrà disporre il dissequestro delle somme sottoposte a detta misura, affinché possano essere versate all’Erario, vincolando però tale restituzione alle misure che lo stesso Giudice riterrà più opportune (36). In questo modo sarebbe garantito l’effettivo utilizzo degli importi dissequestrati per il pagamento integrale dei debiti tributari, realizzando
(35) L. D’Agostino, L’operatività della confisca e le sorti del sequestro preventivo in presenza di impegno al pagamento del debito tributario: in dubio pro reo?, ibidem, 385, richiama l’applicabilità dell’art. 85 c.p.p. affinché il contribuente ottenga la revoca del sequestro per pagare i tributi sottoponendo detta revoca al rilascio di apposita cauzione o fideiussione. Tale suggerimento, invero, pur formalmente corretto difficilmente può trovare pratica applicazione in quanto se l’indagato/imputato è in grado di prestare la cauzione probabilmente ha risorse sufficienti per pagare direttamente il tributo evaso e, all’opposto, assai raramente in casi simili il reo è in grado di ottenere una fideiussione da parte di un terzo per assenza di garanzie da rilasciare al fideiussore. (36) Pare suggerire tale soluzione anche Corte di Cassazione, Sez. III, 5 febbraio 2019, n. 18034 mentre più decisa è la posizione favorevolmente espressa in sede di merito da Procura della Repubblica di Palmi, Decreto 28 marzo 2018. In argomento cfr. anche G. Melis, La nuova disciplina degli effetti penali dell’estinzione del debito tributario, cit., 624-625, che ipotizza una risoluzione della problematica analoga a quella suggerita nel testo indicando, al fine di garantire l’effettivo rispetto dell’impegno assunto dall’indagato/imputato, che il pagamento sia ordinato dal Giudice direttamente al custode giudiziario. S. Delsignore, Commento all’art. 12-bis, in C. Nocerino - S. Putinati (a cura di), La riforma dei reati tributari – Le novità del d.lgs. 158/2015, Torino, 2015, 318 ss., e E. Fassi, Le prime indicazioni della Corte di Cassazione sulla interpretazione dell’art. 12-bis recentemente introdotto nel tessuto del D.Lgs. n. 74 del 2000, nonché sulla sua efficacia con riguardo a provvedimenti di sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca, ibidem, 2965, si esprimono nel senso che il provvedimento di dissequestro possa essere accompagnato da un termine per l’adempimento, e laddove necessario, da una idonea cauzione (peraltro già prevista dal su citato art. 85 disp. att. c.p.p.).
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così lo scopo proprio della confisca (e quindi del sequestro preventivo ad essa finalizzato). In buona sostanza, per tali fattispecie appare ragionevole che l’Autorità Giudiziaria, a seguito di apposita richiesta in tal senso da parte dell’indagato/imputato, disponga la revoca del sequestro delle somme e, al fine di evitare che esse possano eventualmente essere utilizzate per finalità diverse dall’estinzione del debito tributario, al contempo preveda anche che l’importo così dissequestrato venga solo figurativamente restituito al reo, il quale così non ne torni materialmente in possesso, ma venga direttamente trasferito all’Agenzia delle Entrate mediante il versamento, senza soluzione di continuità, da parte del competente Ufficio del Fondo Unico di Garanzia ove le somme sono depositate o, comunque, secondo le modalità stabilite da tali enti pubblici, rimanendo invece preclusa qualsiasi altra destinazione. Solo tale soluzione, infatti, appare in linea con la esposta ratio dell’impianto legislativo vigente in materia di reati tributari in quanto è da considerarsi rispettosa dell’esigenza erariale di non perdere la propria garanzia ma anche di non rendere particolarmente difficile al privato l’adempimento della propria obbligazione tributaria e di fruire delle conseguenti cause di non punibilità o riduzioni di pena previste dal D.Lgs. n. 74 del 2000. Ragionando in questi termini, infine, si riuscirebbe a superare anche l’ulteriore criticità causata dalla non pienamente soddisfacente formulazione dell’art. 12 bis di cui si è detto in premessa: il consolidarsi della confisca prima dell’adempimento del debito tributario che espone il contribuente due volte al prelievo da parte dello Stato. In tale ipotesi il reo ha subito la confisca in sede penale ma rimane debitore del Fisco in quanto l’obbligazione tributaria non può considerarsi estinta grazie all’avvenuta confisca. Nonostante, infatti, lo Stato abbia da un punto di vista sostanziale recuperato quanto evaso dal privato, non vi è alcuna norma che permetta di considerare l’avvenuta ablazione in sede penale quale causa di estinzione dell’obbligazione in sede amministrativa (37). Sebbene tale ipotesi appaia invero del tutto teorica in
(37) Naturalmente qui non è pertinente la disposizione dell’art. 14, comma 4, L. 24 dicembre 1993, n. 537, che prevede che il sequestro o la confisca di proventi illeciti determini il venire meno della rilevanza impositiva dei detti elementi reddituali in quanto per quanto disposto dal citato art. 14 (di cui peraltro la Corte di Cassazione ha fornito interpretazione estremamente restrittiva: cfr. ex multis Cass., Sez. III, 4 luglio 2017, n. 31957; Cass. Civ., Sez. Trib., 8 ottobre 2014, n. 21195) le misure acquisitive provvisorie o definitive incidono direttamente a livello di presupposto impositivo (il possesso del reddito) che se già oggetto di tali misure non può essere oggetto di accertamento dell’Agenzia delle Entrate in quanto –
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quanto – almeno ad oggi – la definizione del giudizio penale è assai più lenta di quella del procedimento tributario, non si può escludere astrattamente che il contribuente già inciso dalla definitiva confisca debba anche ottemperare l’obbligazione tributaria tout court vantata dall’Agenzia delle Entrate. Viene, qui, in luce con solare evidenza il distonico principio del c.d. doppio binario cristallizzato nell’art. 20 del D.Lgs. n. 74 del 2000 che non trova, sul piano obbligatorio sostanziale, ormai più ragionevole motivo di esistere attesa la sopra esposta evoluzione del sistema penale-tributario in senso più “recuperatorio” che “sanzionatorio”. Se, dunque, alla confisca “fiscale” si è riconosciuta la funzione di voler assicurare allo Stato quanto illecitamente trattenuto dal privato che ha omesso di corrispondere il tributo alla collettività, allora appare decisamente iniquo permettere all’Agenzia delle Entrate di richiedere al contribuente l’adempimento di un’obbligazione che – di fatto (ma non di diritto) – ha già trovato soddisfazione grazie all’intervento dell’Autorità Giudiziaria. Il problema è che, come detto, ad oggi non vi è alcuna disposizione che possa impedire all’Agenzia delle Entrate di coltivare il suo credito e, dunque, le azioni di accertamento e riscossione erariali devono considerarsi, anche in caso di perfezionata confisca, formalmente legittime. L’Amministrazione Finanziaria riterrà, pertanto, infondate eventuali istanze di annullamento in autotutela tese alla cancellazione dell’atto impositivo che richiedesse – ai fini fiscali – somme già versate dal privato in sede penale. Il contribuente potrebbe, invero, impugnare l’atto impositivo riproduttivo – dal punto di vista sostanziale – della misura economica adottata con la confisca ma anche qui la giurisprudenza si troverebbe priva di una disposizione da richiamare per accogliere le ragioni del privato. Il giudice tributario adito potrebbe, invero, spingersi ad una interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del principio di capacità contributiva, così da leggere il disposto dell’art. 12 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 quale norma non solo impeditiva della confisca in caso di avvenuto adempimento dell’obbligazione fiscale, ma anche in senso inverso. In mancanza di tale coraggio, sempre la giurisprudenza tributaria, potrebbe sollevare questione di costituzionalità del citato art. 12 bis attesa la esposta deficienza contenutistica dello stesso articolo che porta, come
ovviamente – alcuna imposta può essere richiesta se lo stesso presupposto del tributo è venuto meno. Il sequestro e la confisca previsti dall’art. 12 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 operano in riferimento a diversa ipotesi. Qui il presupposto si è pienamente realizzato ed è rimasto in capo al contribuente: l’Autorità Giudiziaria, dunque, procede a sequestrare e, poi, a confiscare l’imposta evasa.
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visto, a decisi contrasti con il principio di capacità contributiva. Queste, però, sono possibili rimedi dagli esiti del tutto incerti e, comunque, rimessi alla sensibilità giuridica dell’organo giudicante già nella scelta di essere adottati o meno. Essi non riescono a costituire un punto di riferimento certo per il privato per fargli superare la propria situazione pregiudizievole. Sul punto, quindi, è necessario l’intervento del legislatore che riformuli l’art. 12 bis in maniera da far sì che la misura di quanto definitivamente confiscato al privato valga per quest’ultimo quale titolo estintivo dell’obbligazione tributaria avanzata dall’Agenzia delle Entrate. Vanno, infatti, completamente superate le criticità evidenziate nel rapporto tra misure cautelari previste per i reati fiscali e l’obbligo di adempimento del tributo in ambito amministrativo per non determinare situazioni di frontale scontro, sotto il profilo sostanziale, con il principio di capacita contributiva. Costituiscono, infatti, necessità di assoluta rilevanza sia per lo Stato la sicura apprensione di quanto illecitamente trattenuto dal privato, sia per il contribuente il vedere inciso il proprio patrimonio in misura conforme all’illecito realizzato senza essere esposto al moltiplicarsi delle proprie posizioni debitorie. Esse allora indubbiamente meritano inequivocabili precetti legislativi così da evitare qualsivoglia distonia interpretativa. Sino al momento dell’auspicata novella, la via maestra da percorrere è quella dianzi suggerita, ossia non far perfezionare la confisca destinando quanto sequestrato in sede penale all’estinzione dell’obbligazione tributaria. In caso di condanna dell’imputato, ai sensi dell’art. 12 bis la confisca non opererebbe proprio perché il debito tributario è ormai estinto, ovvero è in fase di estinzione da parte del privato. 6. L’utilizzo delle somme sequestrate in relazione ad ipotesi di reato comune. – Un ulteriore tema da approfondire per completare l’analisi delle relazioni tra sequestro/confisca e l’adempimento dell’obbligazione tributaria scaturente da illeciti aventi rilevanza anche penalistica è verificare se quanto appena esposto in tema di delitti fiscali possa essere condiviso altresì in relazione al sequestro/confisca disposti a seguito del compimento di reati extratributari. Accade, invero, di sovente che la contestazione del reato fiscale sia accompagnata dalla contestazione del reato di associazione per delinquere ex art. 416 c.p. ovvero che il reato di dichiarazione infedele sia strettamente collegato a reati di natura patrimoniale, quale ad esempio l’appropriazione indebita ex art. 646 c.p.., ovvero che il reato di corruzione, nelle sue diverse accezioni, sia connesso al delitto di dichiarazione infedele ma anche al delitto
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di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e a quello di dichiarazione fraudolenta. In tali ipotesi, l’indagato/imputato potrà essere sottoposto a sequestro/confisca in forma cumulativa sia per il reato comune, sia per quello fiscale. Dunque pare legittimo interrogarsi se sia corretta una applicazione interpretativa dell’art. 12 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 tesa a far sì che il reo richieda alla Autorità Giudiziaria competente di destinare le somme sequestrate a seguito della contestazione del reato comune all’assolvimento del debito tributario, così come dovrebbe avvenire per le somme sequestrate in seguito all’affermato compimento del delitto fiscale. Peraltro indagare intorno a tali ipotesi serve anche a pensare de iure condendo a un più razionale quadro normativo rispetto a quello attuale. A tale proposito va, comunque, ricordato in primo luogo che l’art. 12 bis è stata introdotto dall’art. 10 del D.Lgs. 158/2015, il cui titolo I, nel quale è collocato l’articolo in argomento, è dedicato alla revisione dei soli reati tributari, in attuazione dell’art. 8 della L. 11 marzo 2014, n. 23, ai sensi del quale era stata conferita delega al Governo a procedere alla revisione del sistema penale tributario. Come specificato anche dalla stessa Relazione illustrativa di siffatto Decreto, il legislatore ha voluto, con tale normativa, dare stabilità al quadro giuridico di riferimento, al fine di una puntuale predeterminazione delle condotte illecite, della certezza della misura sanzionatoria e della percezione della pena da parte dei contribuenti come giusta e non avente carattere vessatorio. Per tale ragione, si è voluto riservare l’ambito applicativo della sanzione penale ai soli casi connotati da un particolare disvalore giuridico e, contemporaneamente, attribuire rilevanza all’adesione a forme di cooperazione rafforzata (38). L’introduzione dell’art. 12 bis rientra dunque in questo disegno legislativo e, pertanto, il suo ambito di applicazione dovrebbe essere riservato al solo ambito dei reati di natura tributaria. Un secondo argomento che conferma tale conclusione sembra evincersi dallo stesso tenore letterale di detta normativa. Si deve infatti ricordare che il comma 1 dell’art. 12 bis dispone, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei reati previsti dal D.Lgs. 74/2000, la confisca obbligatoria dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo o, in subordine, di beni per un valore corrispondente a detto profitto o prezzo. Il successivo comma 2, invece, prevede la non operatività della confisca per la parte di detto profitto o prezzo che il contribuente si impegna a versare,
(38) Cfr. Relazione illustrativa a D.Lgs. 158/2015, ibidem, 1-2.
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anche in presenza di sequestro. Ebbene, come si è avuto modo di esporre ampiamente in precedenza, con tale norma è stata introdotta una speciale ipotesi di confisca, diretta e per equivalente, la quale presenta dunque dei caratteri peculiari rispetto all’istituto generale disciplinato dall’art. 240 c.p.. Pertanto, appare corretto affermare che la previsione di non operatività della confisca di cui al comma 2 dell’art. 12 bis, a fronte dell’impegno dell’indagato/ imputato di onorare i propri debiti tributari, va riferita unicamente a siffatta ipotesi speciale così come regolata dal comma 1. Di conseguenza, l’ambito di applicazione dell’art. 12 bis, comma 2, è limitato alle sole ipotesi di confisca, e del relativo sequestro ad essa finalizzato, relativi a siffatti reati, rimanendo invece esclusi quelli altrove disciplinati, tra cui, ad esempio, il citato reato di appropriazione indebita. A delle conclusioni, invece, differenti si ritiene di pervenire per il reato di associazione per delinquere, previsto dall’art. 416 c.p., qualora le somme oggetto della misura cautelare siano riferibili ai reati-fine di natura fiscale e non all’ipotesi associativa in quanto tale. A norma dell’art. 416, comma 1, c.p., infatti, l’associazione per delinquere, nonostante sia preordinata al compimento di altri delitti, cosiddetti reati-fine, costituisce comunque una figura autonoma di reato. Il motivo di tale previsione, come specificato dalla giurisprudenza pacifica e immutata della Corte di Cassazione (39), risiede nel fatto che la sola esistenza di un vincolo associativo a fini criminosi costituisce, di per sé, fonte di pericolo per l’interesse tutelato, rappresentato dall’ordine pubblico (40). Ciò posto, si deve osservare che, in merito alla configurabilità di un profitto generato dall’associazione per delinquere in quanto tale, ovvero indipendentemente da quello eventualmente derivante dai reati di scopo, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è divisa in due orientamenti contrastanti. Secondo un primo indirizzo interpretativo, il reato di associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p., cosiddetto reato-mezzo, non sarebbe idoneo, di per sé, a generare in maniera autonoma, rispetto ai reati-fine, dei vantaggi economici tali da costituire un prodotto o profitto illecito
(39) Già si vedano le sentenze Corte di Cassazione, Sez. I, 18 aprile 1983, n. 3283; Sez. I, 9 marzo 1981, n. 1906; Sez. I, 20 aprile 1979, n. 3838. (40) Anche riguardo a questo punto, la giurisprudenza della Suprema Corte risulta pacifica. Ex multis, si citano le sentenze Corte di Cassazione, Sez. VI, 17 luglio 2013, n. 30791; Sez. III, 27 gennaio 2011, n. 5869; Sez. I, 9 maggio 2005, n. 33662; Sez. III, 13 aprile 1992, n. 9725.
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immediatamente riconducibile al sodalizio criminale (41). In altre parole, il mero fatto di associarsi al fine di commettere più e diversi delitti sarebbe improduttivo di ricchezze illecite suscettibili di confisca, le quali potranno dunque essere individuate con esclusivo riferimento ai reati-fine (42). Alla base di tale conclusione, la giurisprudenza in argomento ribadisce quanto già osservato, precedentemente, dalla medesima Corte nella sua più alta composizione (43) circa la differenza ontologica tra l’associazione per delinquere cosiddetta “semplice” ex art. 416 c.p. e quella di stampo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p.. Quest’ultima, infatti, avrebbe una caratterizzazione più imprenditoriale, potendo essere finalizzata, a differenza dell’associazione per delinquere “semplice”, non solo al compimento di ulteriori reati ma anche a trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo, appunto, del metodo mafioso. Anzi, l’associazione per delinquere di stampo mafioso potrebbe esistere anche senza essere finalizzata al compimento di alcun ulteriore reato, potendo avere quale “oggetto sociale” esclusivamente l’esecuzione di attività di per sé lecite ma che assumono carattere di illegittimità perché compiute avvalendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo (44). Per tali ragioni, solo l’organismo associativo di cui all’art. 416-bis c.p. sarebbe idoneo, secondo tale posizione interpretativa, a generare un profitto proprio, indipendente rispetto a quello riferibile agli eventuali reati-fine. Un diverso e opposto orientamento, ad oggi maggioritario, ritiene invece che il delitto di associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p. sarebbe idoneo di per sé a generare un profitto, sequestrabile ai fini della successiva confisca, autonomo rispetto a quello generato dai diversi e ulteriori reati di scopo (45). Secondo detta linea interpretativa, infatti, il reato associativo si
(41) C. Rossi, Sequestro e confisca dei prodotti generati dal delitto di associazione per delinquere: autonomi rispetto a quelli prodotti dai reati-fine, esaminando tale posizione definisce radicale questo indirizzo giurisprudenziale: si veda la nota alla sentenza Corte di Cassazione, Sez. III, 25 giugno 2015, n. 26721, in Cassazione penale, 2016, 2, 594. (42) Sentenza Corte di Cassazione, Sez. I, 20 gennaio 2015, n. 7860. (43) Trattasi della sentenza Corte di Cassazione, SS.UU., 27 febbraio 2014, n. 25191. In senso conforme, sentenza Corte di Cassazione, Sez. I, 27 luglio 2008, n. 1025. (44) A. Cano, Problemi evolutivi e nuove prospettive in tema di riciclaggio di denaro, beni o altre utilità, in Cassazione penale, 2014, 6, 2335. Per completezza, si deve osservare che, ad opinione dello stesso Autore, un’associazione per delinquere di tipo mafioso non votata al compimento di ulteriori reati è un’eventualità puramente teorica, posto che, nella prassi, la realizzazione di dette fattispecie rientra nella normale essenza del sodalizio criminale. (45) Si citano, ex multis, le sentenze Corte di Cassazione, Sez. VI, 11 aprile 2019, n. 23219; Sez. III, 12 dicembre 2017, n. 14044; Sez. II, 3 marzo 2017, n. 30255; Sez. III, 7 aprile
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configurerebbe quale mezzo per perseguire il compimento di altri reati, allo scopo di trarne un profitto economico da ripartire tra i membri della compagine criminale. L’istituzione dell’associazione per delinquere sarebbe funzionale, pertanto, proprio alla ripartizione degli “utili” concretamente e periodicamente conseguiti, derivanti come detto dalla realizzazione del programma criminoso. Ebbene, in virtù di siffatto rapporto tra il reato-mezzo e i reati-fine, il suddetto orientamento ritiene pertanto possibile individuare un profitto generato in via autonoma dal delitto associativo, sequestrabile ai fini della successiva confisca. Tale profitto sarebbe costituito appunto dal complesso dei vantaggi che l’associazione in quanto tale consegue con il compimento dell’insieme dei reati di scopo, la cui esecuzione sarebbe agevolata dall’esistenza di una stabile struttura organizzativa e da un comune progetto delinquenziale (46). Anche, dunque, i benefici economici apparentemente frutto dei reati-fine sarebbero in realtà ricollegabili alla violazione dell’art. 416 c.p., in quanto posti in essere in esecuzione dell’accordo criminoso alla base della compagine associativa (47). Dalla globalità dei reati di scopo, insomma, scaturirebbe un insieme di vantaggi di cui godrebbe l’associazione nella sua complessità e, attraverso la divisione degli utili, i suoi componenti; non si potrebbe pertanto dubitare circa l’idoneità del reato associativo a generare un profitto autonomo e distinto da quello dei reati-fine (48).
2016, n. 44912; Sez. V, 25 febbraio 2016, n. 15205; Sez. III, 25 giugno 2015, n. 26721. (46) Siffatto orientamento specifica, infatti, che la determinazione del quantum sequestrabile a fini di confisca, riferibile al delitto di associazione per delinquere, corrisponderebbe alla sommatoria dei profitti conseguiti dalla compagine criminale per effetto della consumazione dei singoli reati-fine, i quali devono dunque essere accertati e attribuiti, sia pure in via provvisoria, trattandosi di misura cautelare, ad uno o più indagati/associati. Tale convinzione è stata condivisa anche da parte della dottrina, tra cui si ricordano A. Uricchio D. Pirrò, Il reato tributario transnazionale, in Rass. trib., 2015, 2, 380. (47) Sul punto, C. Santoriello, Reati transnazionali, confisca per equivalente ed illeciti fiscali in una decisione della Corte di Cassazione, nota alla sentenza Corte di Cassazione, Sez. III, 24 febbraio 2011, n. 11969, in Riv. dir. trib., 2011, III, 109. In ragione di tale considerazione, l’Autore osserva che non sarebbe dunque possibile distinguere il profitto ricollegabile ai singoli reati di scopo rispetto a quello riferibile all’attività della compagine criminosa. Pertanto, la relativa confisca dovrebbe necessariamente avere ad oggetto l’intero profitto economico ottenuto dagli associati per mezzo delle singole condotte criminose poste in essere e complessivamente considerate. (48) Così G. Bono, Confisca di valore in materia di reati transnazionali: le criticità di un’interpretazione proposta dalla Corte di Cassazione, nota alla sentenza Corte di Cassazione, Sez. III, 27 gennaio 2011, n. 5869, in Cassazione Penale, 2012, 4, 1314-1315.
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Sotto diverso angolo visuale, tuttavia, possono essere mossi dei rilievi critici alla soluzione oggi maggioritaria presso la Suprema Corte. In particolare, pare non correttamente inquadrato il rapporto intercorrente tra il reato-mezzo, ossia l’associazione per delinquere, e i reati-fine. Da un punto di vista logico e criminologico infatti, prima ancora che giuridico, si deve ritenere che l’associazione sia il mezzo attraverso il quale i correi pongono in essere gli ulteriori delitti, ai quali la stessa entità associativa è preordinata, dai quali si ricavano i profitti e non il contrario. Il profitto, anche qualora lo si volesse configurare come riferibile alla compagine criminale, deriverebbe comunque in via immediata e diretta dall’esecuzione dei singoli delitti di scopo e non dal reato associativo in sé considerato; pertanto, non appare condivisibile che l’associazione per delinquere sia il fine ultimo a cui tenderebbero i reatifine, ridotti, a dispetto del nome, a mero mezzo attraverso il quale realizzare i profitti dell’associazione medesima (49). Ciò posto, sembra corretto osservare che se si ritiene che, come qui da ultimo argomentato, il profitto derivi dall’esecuzione dei singoli delitti di scopo e non dal reato associativo in sé considerato e qualora l’associazione posta in essere sarebbe stata finalizzata alla commissione di reati (esclusivamente o tra gli altri) di natura tributaria, l’indagato/imputato potrà utilizzare gli importi a lui sequestrati in relazione all’ipotesi di reato di cui all’art. 416 c.p. (limitatamente alla parte di quelle somme che siano riferibili ai reati di natura tributaria commessi in attuazione del programma associativo) al fine di estinguere i debiti tributari che siano derivati dal compimento dei delitti fiscali medesimi. Tale conclusione risulta peraltro avvalorata dalle considerazioni ampiamente argomentate nei paragrafi precedenti. Si ricorda ulteriormente, infatti, che la confisca (50), nel settore dei reati tributari, dimostra finalità più di tipo recuperatorio che sanzionatorio e che, sempre in linea con detta finalità, il disposto di cui all’art. 12 bis, comma 2, del D.Lgs. 74/2000 svolge funzione di incentivo per il contribuente a provvedere al pagamento di quanto illegittimamente sottratto all’Erario. Pertanto, coerentemente con l’interpretazione logico-sistematica dell’attuale assetto normativo in materia, va consentita l’applicazione dell’art. 12 bis qualora il reo abbia posto in
(49) In questo senso anche M. Panzarasa, In tema di confisca per equivalente e associazione per delinquere transnazionale, nota alla sentenza Corte di Cassazione, Sez. III, 17 febbraio 2011, n. 173, in Diritto penale contemporaneo, 2011, www.penalecontemporaneo.it. (50) E quindi il relativo sequestro ad essa finalizzato, in ragione del già esposto rapporto strumentale tra le due misure.
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essere i reati disciplinati dal D.Lgs. 74 del 2000 in attuazione del programma criminoso dell’associazione a delinquere “semplice” di cui il contribuente fa parte, qualora i relativi profitti siano considerati riferibili a detti reati-fine e non alla compagine associativa in quanto tale. Un ragionamento parzialmente diverso, invece, deve essere compiuto se si intende aderire all’orientamento maggioritario della Corte di Cassazione circa il rapporto tra reato associativo e reati-fine. Come si è avuto modo di evidenziare, infatti, la giurisprudenza ad oggi prevalente della Suprema Corte qualifica il fenomeno dell’associazione a delinquere come una sorta di centro di raccolta degli associati, i quali agiscono nella piena consapevolezza di fornire un contributo fattuale alla realizzazione del programma criminoso, al fine di far conseguire vantaggi di natura patrimoniale non ai singoli ma alla compagine medesima, salvo poi la divisione, tra i membri di essa, degli “utili” così realizzati, secondo una logica tipicamente imprenditoriale. Da quanto osservato, ne deriva allora che condizione imprescindibile perché un’associazione per delinquere “semplice” possa produrre un profitto autonomo è che il profitto dei singoli reati-fine si traduca in un vantaggio per l’organizzazione criminale nel suo complesso, generando così “utili” da distribuire tra i componenti della compagine medesima (51). Dunque, in questo caso, ai fini che qui interessano, ossia verificare se le somme sequestrate possano essere destinate al pagamento del debito tributario, emerge la necessità di verificare in concreto il modus essendi dell’associazione ex art. 416 c.p. al fine di riscontrare l’attitudine imprenditoriale di quest’ultima perché, comunque, non si può ritenere che il fenomeno associativo in argomento generi in maniera automatica un profitto ma è richiesto, a tal fine, la dimostrazione che i vantaggi conseguiti dalla commissione dei singoli reati-fine facciano ingresso nel circuito associativo e siano finalizzati ad una logica spartitoria tra i membri della compagine. Se l’ipotesi associativa contestata avesse siffatte caratteristiche imprenditoriali, allora non si riuscirebbe a sostenere il collegamento tra il profitto del reato e i reati-fine fiscali e, dunque, verrebbe meno, indubbiamente la possibilità di invocare l’art. 12 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000. Se, al contrario, da un punto di vista fattuale/operativo l’associazione fosse sprovvista del carattere
(51) La Suprema Corte, difatti, specifica proprio che la creazione dell’associazione delittuosa è funzionale alla ripartizione degli utili derivanti dalla realizzazione del programma criminoso. Cfr. sentenza Corte di Cassazione, Sez. II, 3 marzo 2017, n. 30255, la quale richiama e aderisce all’ordinanza della medesima Corte, Sez. III, 25 giugno 2015, n. 26721. In senso ulteriormente conforme già sentenza Corte di Cassazione, 17 febbraio 2011, n. 5869.
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imprenditoriale richiesto dall’orientamento oggi prevalente della Corte di Cassazione e, dunque, si riuscisse da un punto di vista concreto a riferire dette somme al reato fiscale e non a quello associativo di per sé considerato, come nel caso ad esempio in cui a godere dei vantaggi economici conseguiti dalla commissione dei reati a cui sarebbe finalizzata l’associazione per delinquere sia solo un membro del sodalizio criminale, ovvero solo alcuni di essi ma non tutti, allora ne consegue che l’associazione per delinquere difetterebbe del requisito dell’imprenditorialità e, in questo caso, risulterebbe corretto affermare che le somme sottoposte a sequestro debbano essere collegate non al delitto di associazione per delinquere ma ai reati-fine compiuti dai singoli associati che hanno tratto il profitto in attuazione del programma criminoso della compagine medesima. Costoro, in conclusione, allora sì saranno legittimati a richiedere la destinazione delle somme sequestrate al pagamento dei rispettivi debiti tributari.
Giovanni Girelli
Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi
Corte di Giustizia. UE, sentenza 3 luglio 2019, causa C-242/18 – Pres. Bonichot, rel. Bonichot Rinvio pregiudiziale – Sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (IVA) – Base imponibile – Riduzione – Principio di neutralità fiscale – Contratto di leasing finanziario risolto per mancato pagamento dei canoni – Avviso di rettifica – Ambito di applicazione – Operazioni imponibili – Cessazione di beni effettuata a titolo oneroso – Pagamento di un “indennizzo” per risoluzione fino al termine del contratto – Competenza della Corte In caso di risoluzione di un contratto di leasing finanziario l’indennizzo previsto dal contratto, pari alla somma di tutti i canoni non versati fino al termine del contratto medesimo, dev’essere considerato quale remunerazione dell’operazione oggetto del contratto di leasing finanziario e, in quanto tale, soggetto ad IVA. L’art. art. 90 paragrafo 2 della direttiva 2006/112/CE deve essere interpretato nel senso che, anche in presenza di un avviso di rettifica relativo a tali somme, è comunque possibile, ex, ridurre la base imponibile di una somma pari all’ammontare dell’indennizzo e dei canoni non versati prima della risoluzione quando vi sia una ragionevole probabilità che il debito non sia onorato, a fronte della mancata riscossione delle somme dovute per una decina di anni. (1)
(Omissis) 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 90 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva IVA»). 2 La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia sorta tra l’«UniCredit Leasing» EAD (in prosieguo: l’«Unicredit») e il Direktor na Direktsia «Obzhlavane i danachno-osiguritelna praktika» – Sofia pri Tsentralno upravlenie na Natsionalnata agentsia za prihodite (NAP) [direttore della direzione «Ricorsi e prassi in materia tributaria e previdenziale» della città di Sofia, presso l’Agenzia nazionale delle entrate (NAP), Bulgaria] (in prosieguo: il «Direktor») in merito al diniego, opposto dal medesimo, di concedere alla controparte una regolarizzazione dell’importo dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) versata e relativa ai canoni non versati di un contratto di leasing finanziario.
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Contesto normativo – Omissis – 8 Il successivo articolo 90 così recita: «1. In caso di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione, la base imponibile è debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri. 2. In caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare al paragrafo 1». – Omissis – Diritto bulgaro 10 Ai sensi dell’articolo 6 della Zakon za danak varhu dobavenata stoynost (legge relativa all’imposta sul valore aggiunto), (DV n. 63, del 4 agosto 2006, in vigore dal 1º gennaio 2007, in prosieguo: lo «ZDDS»): «(1) Per “cessione di beni” ai sensi della presente legge si intende il trasferimento del diritto di proprietà o di un altro diritto reale sui beni. (2) Ai fini della presente legge, è parimenti considerata “cessione di beni”: (...) 3. (modificato al DV n. 101 del 2013, in vigore dal 1º gennaio 2014) La messa a disposizione effettiva dei beni in esecuzione di un contratto di leasing finanziario che preveda espressamente il trasferimento del diritto di proprietà su tali beni; la presente disposizione si applica anche quando il contratto di leasing finanziario prevede soltanto un’opzione di trasferimento della proprietà sui beni e la somma dei canoni dovuti in forza del suddetto contratto, senza gli interessi ai sensi dell’articolo 46, paragrafo 1, punto 1, è identica al normale prezzo dei beni alla data della messa a disposizione (...)». – Omissis – Procedimento principale e questioni pregiudiziali 20 Il 6 febbraio 2006, la società «BA Kreditanstalt Bulus» EOOD (in prosieguo: la «Bulus» o «il concedente»), cui è succeduta l’Unicredit, concludeva con la «Vizatel» OOD (in prosieguo: l’«utilizzatore») un contratto di leasing finanziario con opzione d’acquisto, in forza del quale il concedente si impegnava ad acquisire un terreno designato dall’utilizzatore, a costruirvi un edificio e a mettere entrambi a disposizione dell’utilizzatore. 21 Tale contratto era concluso per una durata di undici anni decorrenti dall’inizio del mese successivo alla consegna materiale del bene oggetto del contratto, dietro versamento di un canone mensile. Il contratto prevedeva che il concedente poteva procedere alla sua risoluzione in caso di mancato pagamento di almeno tre canoni da parte dell’utilizzatore e richiedere il pagamento di un indennizzo pari alla somma di tutti i canoni non versati per tutta la durata del leasing finanziario. 22 Il 5 dicembre 2006, l’oggetto del contratto veniva consegnato all’utilizzatore e, il 28 dicembre seguente, il concedente emetteva una fattura con IVA a titolo del pri-
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mo canone. Con avviso di rettifica del 14 febbraio 2008, l’amministrazione finanziaria bulgara accertava un debito IVA della Bulus, calcolato su una base imponibile pari alla somma complessiva dei canoni dovuti per tutta la durata del contratto, portandolo successivamente in compensazione con un credito d’imposta che la medesima vantava nei confronti dell’Erario. 23 Sebbene il concedente abbia continuato ad emettere fatture con IVA fino al 29 ottobre 2010 e poi dal 4 agosto 2011 al 31 agosto 2012, l’utilizzatore cessava di versare i canoni dovuti dal mese di aprile 2009. A fronte dell’inadempimento colposo dei propri obblighi da parte dell’utilizzatore, la Bulus risolveva unilateralmente il contratto di leasing finanziario a decorrere dal 6 giugno 2015. 24 Ciò premesso, la Bulus chiedeva all’amministrazione finanziaria bulgara il rimborso dell’IVA calcolata nell’avviso di rettifica del 14 febbraio 2008. La domanda veniva tuttavia respinta con decisione del servizio tributario competente, successivamente confermata dal Direktor. 25 Avverso tale decisione la Bulus proponeva ricorso dinanzi all’Administrativen sad Sofia (Tribunale amministrativo di Sofia, Bulgaria),il quale lo respingeva. 26 L’Unicredit, succeduta alla Bulus, impugnava quindi la sentenza dinanzi al Varhoven administrativen sad (Corte suprema amministrativa, Bulgaria).A suo parere, segnatamente, l’Administrativen sad Sofia (Tribunale amministrativo di Sofia) avrebbe violato il diritto alla riduzione della base imponibile dell’IVA previsto in caso di risoluzione di un contratto, garantito dall’articolo 90 della direttiva IVA. 27 Il giudice del rinvio ritiene che il diritto alla rettifica della base imponibile dell’IVA, qualora tale base imponibile sia determinata mediante avviso di rettifica divenuto definitivo, e non mediante fattura, non sia applicabile, trattandosi di un atto amministrativo con cui viene accertato un debito d’imposta. Inoltre e anche ammettendo che tale diritto alla rettifica sia applicabile, occorrerebbe distinguere, da un lato, il periodo in cui i canoni sono stati versati dall’utilizzatore e per il quale non occorre procedere a rettifica della base imponibile dell’IVA e, dall’altro, il periodo in cui i canoni non sono stati più versati dall’utilizzatore fino alla risoluzione per mancato pagamento parziale e per il quale il ripristino della situazione anteriore alla conclusione del contratto, secondo il diritto nazionale, è impossibile. Pertanto, anche ammettendo di essere in presenza di un caso di mancato pagamento parziale, e non di risoluzione, ai sensi dell’articolo 90 della direttiva IVA, il giudice del rinvio sottolinea che nessuna disposizione del diritto bulgaro disciplina le modalità di riduzione della base imponibile fissata mediante avviso di rettifica in caso di mancato pagamento parziale o totale. 28 Infine, il giudice del rinvio si interroga sulla rettifica della base imponibile dell’IVA per il periodo compreso tra la risoluzione del contratto e il termine previsto da quest’ultimo, non essendo dimostrato, da un lato, che l’oggetto del contratto sia stato restituito al concedente prima del termine di tale contratto e, dall’altro, che i debiti dell’utilizzatore siano stati definitivamente saldati tenuto conto della clausola
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di tale contratto che prevede il versamento al concedente di un indennizzo in caso di risoluzione per inadempimento colposo. 29 In tale contesto, il Varhoven administrativen sad (Corte suprema amministrativa) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se la disposizione di cui all’articolo 90, paragrafo 1, della [direttiva IVA] consenta, in caso di risoluzione di un contratto di leasing finanziario, la riduzione della base imponibile ed il rimborso dell’IVA già determinata, in considerazione della durata complessiva del contratto, con avviso di accertamento definitivo, su una base imponibile costituita dalla somma dei canoni mensili di locazione. 2) In caso di risposta affermativa alla prima questione: quali delle fattispecie menzionate all’articolo 90, paragrafo 1, della [direttiva IVA] possa essere invocata, nei confronti di uno Stato membro, dal concedente in caso di risoluzione di un contratto di leasing per parziale mancato versamento dei canoni dovuti, al fine di ottenere la riduzione della base imponibile IVA nella misura dei canoni dovuti ma non versati per il periodo intercorrente tra la sospensione dei pagamenti e la data di risoluzione del contratto, considerato che, come confermato da una clausola contenuta nel contratto medesimo, la risoluzione non è retroattiva. 3) Se l’interpretazione dell’articolo 90, paragrafo 2, della direttiva IVA consenta di ritenere che, in una fattispecie come quella in esame, sussista una deroga all’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva IVA. 4) Se l’interpretazione dell’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva IVA consenta di ritenere che la nozione di recesso utilizzata in tale disposizione comprenda l’ipotesi in cui, nel contesto di un contratto di leasing finanziario con trasmissione definitiva della proprietà, il concedente non possa più richiedere finanziario, avendo già proceduto alla risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, ma in cui, in base al contratto stesso, abbia diritto ad un indennizzo pari all’importo totale dei canoni non corrisposti in scadenza fino al termine della durata del leasing». – Omissis – Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione 36 Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva IVA debba essere interpretato nel senso che consente, in caso di risoluzione di un contratto di leasing finanziario, la riduzione della base imponibile dell’IVA determinata forfettariamente mediante avviso di rettifica sull’insieme dei canoni dovuti per tutta la durata del contratto, sebbene tale avviso di rettifica non sia più impugnabile e costituisca pertanto un «atto amministrativo definitivo» che accerti un debito d’imposta. 37 A tal riguardo, occorre ricordare che l’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva de qua, che riguarda i casi di annullamento, di recesso, di risoluzione, di non pagamento totale o parziale o di riduzione del prezzo successiva al momento in cui l’o-
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perazione viene effettuata, obbliga gli Stati membri a provvedere alla riduzione della base imponibile dell’IVA e, quindi, dell’importo dell’IVA dovuta dal soggetto passivo ogni qualvolta che, successivamente alla conclusione di un’operazione, una parte o la totalità del corrispettivo non venga percepita dal soggetto passivo. Tale disposizione costituisce l’espressione di un principio fondamentale della direttiva IVA, secondo cui la base imponibile è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto e il cui corollario consiste nel fatto che l’amministrazione finanziaria non può riscuotere a titolo di IVA un importo superiore a quello percepito dal soggetto passivo (sentenza del 6 dicembre 2018, Tratave, C‑672/17, EU:C:2018:989 punto 29 e giurisprudenza ivi citata). 38 Si deve altresì ricordare che, sebbene gli Stati membri possano prevedere, in forza dell’articolo 273 della direttiva IVA, gli obblighi che essi ritengono necessari per assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e per evitare l’evasione, tali misure, in linea di principio, possono derogare al rispetto delle norme relative alla base imponibile solo nei limiti strettamente necessari per raggiungere tale specifico obiettivo. Essi devono, infatti, pregiudicare il meno possibile gli obiettivi e i principi della direttiva IVA e, pertanto, non possono essere utilizzati in modo da rimettere in discussione la neutralità dell’IVA (sentenza del 6 dicembre 2018, Tratave, C‑672/17, EU:C:2018:989, punti 31 e 33). 39 Di conseguenza, occorre che le formalità che i soggetti d’imposta devono adempiere per esercitare, dinanzi all’amministrazione finanziaria, il diritto di effettuare una riduzione della base imponibile dell’IVA siano limitate a quelle che consentono di dimostrare che, successivamente alla conclusione dell’operazione, una parte o la totalità del corrispettivo non sarà definitivamente percepita. Spetta al riguardo ai giudici nazionali verificare che ciò accada riguardo alle formalità richieste dallo Stato membro interessato (sentenza del 6 dicembre 2018, Tratave, C‑672/17, EU:C:2018:989, punto 34). 40 Orbene, l’emissione di un avviso di rettifica, come quello oggetto del procedimento principale, non può costituire una formalità diretta a garantire l’esatta riscossione dell’IVA e ad evitare l’evasione ai sensi dell’articolo 273 della direttiva IVA. 41 Pertanto, l’emissione di un avviso di rettifica, come quello oggetto nel procedimento principale non può, di per sé, giustificare il fatto che il soggetto passivo non possa più far successivamente valere il proprio diritto alla riduzione della base imponibile dell’IVA in caso di risoluzione del contratto. 42 Ciò vale, tenuto conto dei principi sopra ricordati, anche nell’ipotesi in cui, come sottolineato dal giudice del rinvio, l’avviso di rettifica, in applicazione delle norme nazionali, abbia acquisito un carattere «definitivo», vale a dire non sia più impugnabile. 43 Ne consegue che occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva IVA dev’essere interpretato nel senso che consente, in caso di risoluzione di un contratto di leasing finanziario, la riduzione della base imponibile dell’IVA determinata forfettariamente mediante avviso di rettifica
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sull’insieme dei canoni dovuti per tutta la durata del contratto, sebbene tale avviso di rettifica non sia più impugnabile e costituisca quindi un «atto amministrativo definitivo» che accerta un debito d’imposta ai sensi del diritto nazionale. Sulle questioni seconda, terza e quarta – Omissis – Nel merito 52 Con le questioni seconda, terza e quarta, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede se l’articolo 90 della direttiva IVA debba essere interpretato nel senso che, in una fattispecie come quella oggetto del procedimento principale, sussista una «risoluzione» o un «non pagamento» eventualmente ricompreso nella deroga all’obbligo di riduzione della base imponibile dell’IVA, di cui al paragrafo 2 dello stesso articolo, da un lato, in caso di mancato versamento di una parte dei canoni dovuti di un contratto di leasing finanziario per il periodo compreso tra la cessazione dei pagamenti e la risoluzione del contratto, atteso che tale risoluzione non ha effetto retroattivo e, dall’altro, in caso di mancato versamento di un indennizzo dovuto in caso di risoluzione anticipata del contratto e corrispondente alla somma di tutti i canoni non versati sino al termine di tale contratto. 53 L’articolo 90, paragrafo 2, della direttiva IVA consente agli Stati membri, in caso di non pagamento totale o parziale del prezzo, di derogare alla regola ricordata supra al punto 37, secondo la quale la base imponibile dev’essere ridotta ogni qualvolta che, successivamente alla conclusione di un’operazione, una parte o la totalità del corrispettivo non venga percepita dal soggetto passivo. 54 Come la Corte ha già avuto modo di affermare, tale facoltà di deroga, strettamente limitata ai casi di non pagamento totale o parziale, si fonda sull’assunto che, in presenza di determinate circostanze e in considerazione della situazione giuridica esistente nello Stato membro interessato, il mancato pagamento del corrispettivo può essere difficile da accertare o essere solamente provvisorio (sentenza del 23 novembre 2017, Di Maura, C‑246/16, EU:C:2017:887, punto 17). 55 Infatti, il mancato pagamento del prezzo di acquisto non ricolloca le parti nel loro stato anteriore alla conclusione del contratto. Da un lato, l’acquirente resta, quantomeno, debitore dell’intero prezzo inizialmente convenuto in caso di mancato pagamento totale o, in caso di mancato pagamento parziale, della parte del prezzo ancora dovuta. Dall’altro, il venditore dispone sempre, in linea di principio, del proprio credito e può farlo valere in giudizio (v., in tal senso, sentenza del 12 ottobre 2017, Lombard Ingatlan Lízing, C‑404/16, EU:C:2017:759, punto 29). 56 Ciò posto, sebbene i termini «annullamento», «recesso» e «risoluzione» si riferiscano a situazioni nelle quali l’obbligo del debitore di saldare il suo debito è completamente estinto o bloccato ad un livello definitivamente determinato, il mancato pagamento è caratterizzato dall’incertezza inerente alla sua natura non definitiva (v., in tal senso, sentenza del 12 ottobre 2017, Lombard Ingatlan Lízing, C‑404/16, EU:C:2017:759, punti 30 e 31).
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57 Per quanto riguarda, in primo luogo, i canoni dovuti per il periodo compreso tra la cessazione dei pagamenti e la risoluzione del contratto di leasing in esame, occorre rilevare che, nel caso di specie, il concedente ha risolto il contratto con decorrenza dal 6 giugno 2015. Tuttavia, poiché la risoluzione vale solo pro futuro, in applicazione dell’articolo 88 dello ZZD, i canoni del contratto di leasing non corrisposti dall’utilizzatore anteriormente alla data della sua risoluzione restano dovuti e il concedente, in linea di principio, dispone sempre del proprio credito, con la possibilità di farlo valere in giudizio. 58 Pertanto, la riduzione, nella misura dovuta, della base imponibile dell’IVA in caso di risoluzione ex articolo 90, paragrafo 1, della direttiva IVA non può applicarsi a un credito di tal genere, il quale non è rimesso in discussione dalla risoluzione del contratto di leasing finanziario. 59 Ne consegue che il mancato versamento di una parte dei canoni dovuti per il periodo anteriore alla risoluzione del contratto costituisce un caso di non pagamento parziale, ai sensi dell’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva IVA, in base al quale lo Stato membro interessato può, come emerge dai punti 53 e 54 supra, esercitare la propria facoltà di deroga all’obbligo di riduzione della base imponibile di cui al paragrafo 2 di tale articolo. 60 A tal riguardo, la Corte ha già affermato che una disposizione nazionale che, nell’enumerazione delle situazioni in cui la base imponibile viene ridotta, non contempli quella del mancato pagamento del prezzo dell’operazione, dev’essere considerata come risultato dell’esercizio, da parte dello Stato membro, della facoltà di deroga concessagli in forza dell’articolo 90, paragrafo 2, della direttiva IVA (sentenza del 15 maggio 2014, Almos Agrárkülkereskedelmi, C‑337/13, EU:C:2014:328, punto 24). 61 Orbene, il giudice del rinvio afferma che il diritto bulgaro non contiene disposizioni che consentano la riduzione della base imponibile dell’IVA in caso di mancato pagamento, in quanto l’articolo 115 dello ZDDS prevede tale rettifica solo in caso di annullamento o di risoluzione. Pertanto, si deve ritenere che la Repubblica di Bulgaria abbia esercitato la propria facoltà di deroga all’obbligo di riduzione della base imponibile in caso di mancato pagamento, sicché il concedente non può avvalersi di tale diritto. 62 Ciò premesso, dell’incertezza di recuperare le somme dovute può tenersi conto, conformemente al principio di neutralità fiscale, privando il soggetto passivo del proprio diritto alla riduzione della base imponibile finché il credito non presenti un carattere definitivamente irrecuperabile. Se ne può però tener conto anche concedendo la riduzione allorché il soggetto passivo segnali una probabilità ragionevole che il debito non sia onorato, fatta salva la possibilità che la base imponibile sia rivalutata in aumento nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque. Spetterebbe quindi alle autorità nazionali stabilire, nel rispetto del principio di proporzionalità e sotto il controllo del giudice, quali siano le prove della probabile prolungata durata del mancato pagamento che il soggetto passivo deve fornire in funzione delle specificità del diritto
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nazionale applicabile. Una simile modalità sarebbe ugualmente efficace per raggiungere l’obiettivo previsto ma, al contempo, meno gravosa per il soggetto passivo, il quale assicura l’anticipo dell’IVA riscuotendola per conto dello Stato (v., in tal senso, sentenza del 23 novembre 2017, Di Maura, C 246/16, EU:C:2017:887, punto 27). 63 A tal riguardo, è stato dichiarato che tale rilievo vale a maggior ragione nel contesto di una normativa nazionale in applicazione della quale la certezza del carattere definitivamente irrecuperabile del credito può essere acquisita, in pratica, solo al termine di una decina d’anni. Un termine simile è, in ogni caso, tale da far sopportare agli imprenditori, nei casi di mancato pagamento di una fattura, uno svantaggio in termini di liquidità rispetto ai loro concorrenti di altri Stati membri manifestamente in grado di compromettere l’obiettivo di armonizzazione fiscale perseguito dalla direttiva IVA (sentenza del 23 novembre 2017, Di Maura, C‑246/16, EU:C:2017:887, punto 28). 64 Nel caso di specie, dalla decisione di rinvio risulta che l’utilizzatore ha cessato di versare i canoni dovuti a partire dall’aprile 2009, ossia da circa nove anni alla data della decisione di rinvio. Orbene, da quanto precede discende che la mancata riscossione, da parte del soggetto passivo, delle somme dovutegli per un termine prolungato induce a ritenere che egli segnali una probabilità ragionevole che il debito non venga onorato e incombe alle autorità nazionali, sotto il controllo del giudice, assicurarsi che ciò si verifichi effettivamente alla luce degli elementi di prova forniti a tal fine. 65 Ciò detto, poiché la facoltà di deroga prevista all’articolo 90, paragrafo 2, della direttiva IVA è volta solo a porre rimedio all’incertezza relativa alla riscossione delle somme dovute, essa non può trovare applicazione in una fattispecie come quella oggetto del procedimento principale, fatta salva la possibilità che la base imponibile sia rivalutata in aumento nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque. 66 Per quanto riguarda, in secondo luogo, l’indennizzo dovuto in caso di risoluzione anticipata del contratto, dalla decisione di rinvio emerge che, a termini del contratto di leasing finanziario, il concedente poteva richiedere all’utilizzatore, in caso di risoluzione per inadempimento colposo, il pagamento di un indennizzo pari alla somma di tutti i canoni non versati per tutta la durata del contratto, previa deduzione del valore residuo del bene e del canone annuo calcolato sulla base del tasso di interesse applicabile per il finanziamento dell’operazione. Ne consegue che i canoni del contratto di leasing finanziario possono essere considerati come dovuti dopo la data della sua risoluzione, fatta salva l’applicazione di disposizioni nazionali contrastanti. 67 A tal riguardo, il Direktor, il governo bulgaro e la Commissione europea osservano che il pagamento convenuto a titolo di indennizzo non costituisce un vero e proprio indennizzo per risoluzione del contratto, bensì la remunerazione dell’operazione che costituisce l’oggetto del contratto e che, in quanto tale, è soggetta all’IVA. 68 Va anche ricordato che, in base all’articolo 2, paragrafo 1, lettere a) e c), della direttiva IVA, sono soggette all’IVA le cessioni di beni e le prestazioni di servizi ef-
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fettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale. 69 A tale titolo, la Corte ha dichiarato che la qualificazione come «operazione a titolo oneroso» presuppone unicamente la sussistenza di un nesso diretto fra la cessione di beni o la prestazione di servizi e un corrispettivo effettivamente percepito dal soggetto passivo. Tale nesso diretto esiste qualora tra il prestatore e il beneficiario intercorra un rapporto giuridico nell’ambito del quale avvenga uno scambio sinallagmatico di prestazioni e il corrispettivo percepito dal prestatore costituisca il controvalore effettivo del servizio fornito al beneficiario (sentenza del 10 gennaio 2019, A, C‑ 410/17, EU:C:2019:12, punto 31). 70 Più particolarmente, è stato affermato che l’importo predeterminato percepito da un operatore economico in caso di risoluzione anticipata da parte del proprio cliente, o per un motivo al medesimo imputabile, di un contratto di prestazione di servizi che preveda un periodo minimo di vincolo – importo corrispondente a quello che tale operatore avrebbe percepito durante il resto di detto periodo in assenza di risoluzione – dev’essere considerato quale remunerazione di una prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso e, in quanto tale, soggetta all’IVA, sebbene tale risoluzione implichi la disattivazione dei prodotti e servizi previsti dal contratto prima della fine del periodo minimo di vincolo convenuto (v., in tal senso, sentenza del 22 novembre 2018, MEO – Serviços de Comunicações e Multimédia, C‑295/17, EU:C:2018:942, punti 12, 45 e 57). 71 Nel caso di specie, per quanto riguarda, anzitutto, la condizione relativa all’esistenza di prestazioni reciproche che stabiliscono un nesso diretto tra il servizio prestato e il corrispettivo ricevuto, occorre rilevare che il versamento, a titolo di indennizzo per risoluzione del contratto, dei canoni di cui trattasi è un elemento costitutivo del contratto, in quanto l’esistenza del rapporto giuridico che unisce le parti dipende dal versamento di detti canoni. 72 Infatti, dagli elementi a disposizione della Corte emerge che, nell’ambito del contratto di leasing finanziario in questione, il concedente si era impegnato ad acquistare un terreno designato dall’utilizzatore, a costruirvi un edificio e a mettere entrambi a disposizione dell’utilizzatore. Come corrispettivo, l’utilizzatore doveva versare un canone mensile di importo pari a EUR 833,78 per 132 mesi, ossia undici anni, in modo da finanziare l’operazione conformemente al piano di ammortamento allegato al contratto stesso. Con accordo del 29 ottobre 2010 le parti hanno peraltro dato atto che la costruzione del bene dato in locazione era ultimata. 73 Inoltre, l’importo dovuto in caso di risoluzione del contratto prima del termine convenuto corrisponde unicamente, come precisato supra al punto 66, alla somma di tutti i canoni non versati dovuti per tutta la durata del contratto. Ne sono quindi esclusi sia il canone annuo calcolato sulla base del tasso d’interesse applicabile per il finanziamento dell’operazione, sia il valore residuo del bene che sarebbe stato esigibile solo in caso di revoca dell’opzione. Pertanto, il versamento dell’importo dovuto
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in caso di risoluzione anticipata del contratto consente al concedente di percepire gli stessi redditi che avrebbe percepito in sua assenza. Ne consegue che, nell’ambito di un contratto del genere di quello in esame nel procedimento principale, la risoluzione non muta la realtà economica del rapporto contrattuale. 74 Pertanto, si deve ritenere che, in un contratto come quello oggetto del procedimento principale, il corrispettivo dell’importo pagato dall’utilizzatore al concedente sia costituito dal diritto dell’utilizzatore di beneficiare dell’esecuzione, da parte dell’operatore stesso, degli obblighi specifici derivanti dal contratto, ancorché l’utilizzatore non intenda o non possa avvalersi di tale diritto per un motivo al medesimo imputabile. Di fatto, resta irrilevante che l’utilizzatore abbia o non abbia più disposto del bene a decorrere dalla data di risoluzione del contratto, dal momento che il concedente ha posto l’utilizzatore in condizione di fruire delle prestazioni derivanti dal contratto, non essendogli imputabile la loro cessazione. 75 Per quanto riguarda, poi, la condizione relativa al fatto che le somme versate costituiscano il corrispettivo effettivo di un servizio individualizzabile, occorre ricordare che, in una fattispecie come quella oggetto del procedimento principale, gli obblighi incombenti al concedente e l’importo fatturato all’utilizzatore in caso di risoluzione anticipata del contratto sono stati determinati al momento della conclusione del contratto stesso. Inoltre, l’importo dovuto in caso di risoluzione anticipata corrisponde all’importo totale dei canoni mensili in scadenza, che diventano immediatamente esigibili senza che la realtà economica del rapporto contrattuale ne risulti modificata. 76 Ne consegue che l’importo dovuto in caso di risoluzione anticipata dev’essere considerato parte integrante dell’importo totale che l’utilizzatore si era impegnato a versare per l’adempimento, da parte del concedente, dei propri obblighi contrattuali. 77 Il fatto che l’amministrazione finanziaria bulgara abbia calcolato l’IVA su una base imponibile pari alla somma dell’insieme dei canoni dovuti per tutta la durata del contratto, circostanza che non risulta contestata dalla Bulus, conferma peraltro che gli importi in questione costituiscono il corrispettivo di una prestazione autonoma e individualizzabile. 78 Di conseguenza, un indennizzo per risoluzione del contratto, come quello in esame nel procedimento principale, dev’essere considerato quale remunerazione dell’operazione oggetto del contratto di leasing finanziario e, in quanto tale, soggetto all’IVA. 79 Pertanto, occorre determinare se, in caso di mancato versamento dei canoni corrispondenti alla somma di tutti i canoni non versati dalla risoluzione fino al termine del contratto sussista una «risoluzione» o un «non pagamento», ai sensi dell’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva IVA. 80 Come emerge dal punto 66 supra, tali somme possono essere considerate come dovute, sicché il concedente dispone, in linea di principio, sempre del proprio credito con la possibilità di farlo valere in giudizio. Di fatto, la riscossione dei canoni dovuti per il periodo successivo alla risoluzione del contratto è, prima facie, incerta.
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81 Del resto, atteso che il soggetto passivo segnala una ragionevole probabilità che il debito corrispondente ai canoni anteriori alla risoluzione del contratto non sia onorato, a fronte della mancata riscossione delle somme dovute per quasi nove anni, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, occorre considerare, in una controversia come quella in esame nel procedimento principale, che tale probabilità valga anche per i canoni successivi alla risoluzione del contratto. 82 Ciò detto, la facoltà di deroga, prevista all’articolo 90, paragrafo 2, della direttiva IVA, non può neppure essere applicata per il periodo successivo alla risoluzione del contratto, fatta salva la possibilità che la base imponibile sia rivalutata in aumento nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque. 83 Ne consegue che occorre rispondere alle questioni seconda, terza e quarta dichiarando che l’articolo 90 della direttiva IVA dev’essere interpretato nel senso che, in una fattispecie come quella in esame nel procedimento principale, il mancato versamento di una parte dei canoni dovuti di un contratto di leasing finanziario per il periodo compreso tra la cessazione dei pagamenti e la risoluzione non retroattiva del contratto, da un lato, e il mancato versamento di un indennizzo dovuto in caso di risoluzione anticipata del contratto e corrispondente alla somma di tutti i canoni non versati fino al termine del contratto medesimo, dall’altro, costituiscono un caso di mancato pagamento che può ricadere nella deroga all’obbligo di riduzione della base imponibile dell’IVA, prevista al paragrafo 2 di tale articolo, a meno che il soggetto passivo non segnali una ragionevole probabilità che il debito non venga onorato, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Sulle spese 84 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. P.Q.M. La Corte (Prima Sezione) dichiara: 1) L’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, dev’essere interpretato nel senso che consente, in caso di risoluzione di un contratto di leasing finanziario, la riduzione della base imponibile dell’imposta sul valore aggiunto determinata forfettariamente mediante avviso di rettifica sull’insieme dei canoni dovuti per tutta la durata del contratto, sebbene tale avviso di rettifica non sia più impugnabile e costituisca quindi un «atto amministrativo definitivo» che accerti un debito d’imposta ai sensi del diritto nazionale. 2) L’articolo 90 della direttiva 2006/112 dev’essere interpretato nel senso che, in una fattispecie come quella in esame nel procedimento principale, il mancato versamento di una parte dei canoni dovuti di un contratto di leasing finanziario per il periodo compreso tra la cessazione dei pagamenti e la risoluzione non retroattiva del
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contratto, da un lato, e il mancato versamento di un indennizzo dovuto in caso di risoluzione anticipata del contratto e corrispondente alla somma di tutti i canoni non versati fino al termine del contratto medesimo, dall’altro, costituiscono un caso di mancato pagamento che può ricadere nella deroga all’obbligo di riduzione della base imponibile dell’imposta sul valore aggiunto, prevista al paragrafo 2 di tale articolo, a meno che il soggetto passivo non segnali una ragionevole probabilità che il debito non venga onorato, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
(1) La risoluzione per inadempimento di un contratto di leasing finanziario: tra imponibilità degli indennizzi e interpretazione estensiva del mancato pagamento. Sommario: 1. La posizione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea tra incertezze
qualificatorie e ricadute fiscali – 2. Conseguenze ai fini IVA della risoluzione per inadempimento: il leasing finanziario come cessione di beni – 3. … e come prestazione di servizi – 4. I quesiti sottoposti alla Corte e il dubbio sul diritto alla riduzione della base imponibile. – 5. La superabilità dell’atto impositivo definitivo e il ripristino della neutralità – 6. La base imponibile forfetaria: la ricerca del precedente giurisprudenziale per affermare l’imponibilità dell’indennizzo. – 7. La situazione italiana tra regime IVA delle penali e obbligo di vendita del bene. – 8. La vis espansiva della nozione di mancato pagamento quale bilanciamento alla piena imponibilità dell’indennizzo.
Il contributo analizza gli effetti prodotti sull’IVA della risoluzione di un contratto di leasing finanziario per inadempimento dell’utilizzatore, sullo sfondo delle incertezze relative alla ricostruzione dell’operazione come cessione di beni o prestazione di servizi, alla luce dell’evoluzione interpretativa europea. In quest’ottica si analizzano anche gli effetti della pronuncia sulla disciplina IVA applicabile al leasing finanziario per come disciplinato dalla Legge sulla Concorrenza del 2017. The manuscript analyses how the termination for non-performance of a leasing contract impacts on VAT. It takes into account also the uncertainty, which arose within the ECJ interpretation, about the qualification of leasing as supply of goods or services for VAT purpose. Accordingly, under this same point of view the Author analyses also the VAT applicable to the contract of leasing as regulated by the 2017 Italian Competition Law.
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1. La posizione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea tra incertezze qualificatorie e ricadute fiscali. – La sentenza Unicredit in commento torna ad impegnare la Corte di Giustizia in relazione a problemi di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto a contratti di leasing finanziario (1). In questo caso supera, apparentemente, il tema ricorrente della qualificazione dell’operazione come cessione di beni o prestazione di servizi (2), per concentrarsi sugli effetti prodotti dalla risoluzione di tale contratto prima che ne sia completata l’esecuzione. Il caso muove dall’esigenza, manifestata nel giudizio di rimessione, di contemperare le previsioni relative all’art. 90 della direttiva IVA, relativo alla modifica della base imponibile per cause sopravvenute, con l’esistenza di un atto impositivo dell’Amministrazione finanziaria che sia divenuto definitivo ben prima della conclusione dell’esecuzione del contratto. Accertamento che ha ad oggetto l’anticipo della pretesa impositiva sull’intero valore del contratto e che, con ogni evidenza (3), affonda le sue radici nella
(1) Si pensi a Corte di Giustizia, 2 luglio 2015, causa C-209/14, NLB Leasing; Corte di Giustizia, 16 febbraio 2012, causa C-118/11, Eon Aset Menidjmunt; Corte di Giustizia, 4 ottobre 2017, causa C-164/16, Mercedes-Benz Financial Services, con nota di A. Fidelangeli, Il contratto di leasing, come cessione di beni ai fini IVA, in Giur. Comm., 2018, II, 610; nonché alla preoccupazione già espressa dalla Commissione che aveva proposto di inserire nella Sesta Direttiva una norma, in realtà mai introdotta, che qualificava il leasing come cessione di beni, al riguardo COM (73) 950, 20 giugno 1973, Bullettin of European Communities Supplement, 11/73, 10. Tutte le sentenze citate sono reperibili gratuitamente sul sito della Corte di Giustizia: www. curia.eu (2) La dottrina italiana maggioritaria è piuttosto concorde nella qualificazione del leasing come prestazione di servizi. È stato piuttosto oggetto di dibattito la possibilità di considerare tale operazione come imponibile, in ragione della prevalenza delle cause di finanziamento o piuttosto esente, in quanto locazione mobiliare o immobiliare. Sul punto si leggano P. Boria, La qualificazione del leasing tra diritto tributario e diritto civile, in Analisi di leggi-campione. Problemi di tecnica legislativa, a cura di G. Visentini, Padova 1995; Id., Il leasing del diritto tributario, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1991; A. Fantozzi, Leasing (diritto tributario), in Nss. D.I., Appendice, IV, Torino, 1983, 816 e, più di recente, F. Saponaro, Leasing finanziario immobiliare, in Rass. Trib., 2018, 59 e, per la qualificazione come contratto di locazione, G. Tabet, La locazione di beni strumentali (leasing), in Banca, borsa e tit. cred., 1973, II, 287. In diritto civile è stata proposta l’assimilazione col regime della vendita con riserva di proprietà, per cui si vedano B. De Nova, Contratto di leasing e controllo delle condizioni generali del contratto, in Riv. dir. comm., 1973, II, 329; L. Mirabelli, Leasing e il diritto italiano, in Banca borsa e titoli di credito, 1974, II, 247. (3) Punto 10 della sentenza in commento, in cui si riporta l’art. 6 della legge bulgara relativa all’imposta sul valore aggiunto, a mente del quale «è considerata “cessione di beni” la messa a disposizione effettiva dei beni in esecuzione di un contratto di leasing finanziario che preveda […] un’opzione di trasferimento della proprietà sui beni e la somma dei canoni dovuti in forza del suddetto contratto, senza gli interessi […] è identica al normale prezzo dei beni alla
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qualificazione dell’operazione come cessione di beni (4). Emergono, quindi, un tema espresso – quello degli effetti della risoluzione – e uno inespresso, quello classico della corretta qualificazione delle operazioni di leasing finanziario (5). Il primo, poi, è influenzato in modo essenziale dal secondo, poiché incide su alcuni aspetti non secondari, quali l’esigibilità dell’imposta e la corretta definizione degli effetti della risoluzione. Per questa ragione, allo scopo di poter correttamente valutare le conclusioni raggiunte dal giudice in materia di riduzione della base imponibile, è opportuno prima verificare come questi effetti incidano sull’operazione configurata come cessione di beni e prestazione di servizi. Si tratta, infatti, di un leasing finanziario avente ad oggetto l’acquisto di un terreno e la costruzione di un immobile ad uso non abitativo (6), concluso con una banca (Unicredit) nel ruolo di concedente, che viene risolto anticipatamente per inadempimento dell’utilizzatore. Il contratto prevedeva, poi, che, in caso di risoluzione per inadempimento, il conduttore fosse tenuto a versare a titolo di indennizzo al concedente una somma pari all’ammontare dei canoni non corrisposti in scadenza fino al termine della durata del leasing. Il tema, inoltre, è di particolare interesse – anche dal punto di vista qualificatorio – perché la situazione realizzatasi nella vicenda bulgara che ha dato luogo al rinvio pregiudiziale in commento, ricalca molto da vicino la fattispecie descritta dai commi 136 e seguenti della legge del 4 agosto 2017, n.
data della messa a disposizione». (4) Si veda il punto 22 della sentenza: «con avviso di rettifica del 14 febbraio 2008 l’Amministrazione finanziaria bulgara accertava un debito IVA della Bufas, calcolato su una base imponibile pari alla somma complessiva dei canoni dovuti per tutta la durata del contratto». (5) Quello della qualificazione ai fini IVA dei contratti di leasing finanziario è un tema ricorrente nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, soprattutto più recente. Nel senso di una qualificazione come cessione di beni qualora il contratto di leasing relativo ad un bene preveda o il trasferimento di proprietà al conduttore alla scadenza di tale contratto o che il conduttore disponga delle caratteristiche essenziali della proprietà di detto immobile, segnatamente che gli venga trasferita la maggior parte dei rischi e benefici inerenti alla proprietà legale di quest’ultimo e che la somma delle rate, interessi inclusi, sia praticamente identica al valore venale del bene si vedano Corte Giust., 2 luglio 2015, NLB Leasing. cit.; Corte Giust. 16 febbraio 2012, Eon Aset Menidjmunt, cit. (6) Sull’importanza della destinazione del bene immobile oggetto del leasing per la corretta qualificazione dell’operazione imponibile ai fini dell’iva si legga F. Saponaro, Leasing finanziario immobiliare, cit., 97.
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124 (7) (cosiddetta Legge sulla Concorrenza) (8), che, per la prima volta nel nostro ordinamento, introduce una disciplina positiva del leasing. La disciplina del 2017, oltretutto, non risolve, nel diritto interno, il problema della corretta qualificazione ai fini tributari di tale operazione. Per quanto l’assunzione di tutti i rischi, compresa la perenzione, debba essere a carico dell’utilizzatore, così come la previsione per cui la somma dei canoni debba essere almeno pari al valore di mercato del bene (9), lascino immaginare che tale contratto possa essere qualificato come cessione di beni, pur in presenza di un’opzione (10),
(7) Per completezza si riporta di seguito il testo dei commi 136, 137 e 138 della citata legge n. 124 del 4 agosto 2017 – rispettivamente relativi alla qualificazione della fattispecie, alla risoluzione per inadempimento e ai suoi effetti. «136. Per locazione finanziaria si intende il contratto con il quale la banca o l’intermediario finanziario iscritto nell’albo di cui all’articolo 106 del testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di perimento, e lo fa mettere a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto. Alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, l’obbligo di restituirlo. 137. Costituisce grave inadempimento dell’utilizzatore il mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per il leasing immobiliari, ovvero di quattro canoni mensili anche non consecutivi o un importo equivalente per gli altri contratti di locazione finanziaria. 138. In caso di risoluzione del contratto per l’inadempimento dell’utilizzatore ai sensi del comma 137, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed e’ tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, nonché le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita. Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell’utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all’ammontare dell’importo dovuto dall’utilizzatore a norma del periodo precedente». (8) Per una ricostruzione critica e sistematica delle nuove norme, sotto il profilo giuscommercialistico, si legga C. Tranquillo, La nuova disciplina del leasing nella legge n. 124 del 2017, in Europa e Diritto Privato, 2018, 123. (9) Entrambi criteri coerenti con la definizione di leasing finanziario come cessione di beni prospettata dalla sentenza della Corte di Giustizia Mercedes-Benz Financial Services Ltd del 4 ottobre 2017, cit. (10) Una simile soluzione, certo più influenzata dalla giurisprudenza europea che non dal quadro interpretativo nazionale sembra poter trovare conforto in una recente pronuncia della Corte di Cassazione (ordinanza n. 12457 del 10 maggio 2019) in cui, si riconosce all’utilizzatore il diritto al rimborso dell’eccedenza detraibile d’importo superiore ad euro 2.582,28, assolta relativamente a beni ammortizzabili detenuti in virtù di contratto di leasing, trattandosi
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non esiste alcuna indicazione espressa in questo senso. Al contrario, il leasing finanziario, soprattutto in presenza del diritto di opzione, è stato tradizionalmente qualificato (11) come prestazioni di servizi. Tale incertezza interpretativa è presente anche nel caso in commento. Unicredit è destinataria di un avviso di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria bulgara, emanato due anni dopo la conclusione del contratto di leasing, ma sei anni prima del termine per il pagamento dell’ultimo canone, con cui si chiede il versamento dell’ammontare dell’IVA su tutta l’operazione. Secondo i criteri di diritto bulgaro, infatti, il leasing finanziario che preveda il trasferimento della proprietà sui beni, sebbene dietro opzione, è da considerarsi come una cessione di beni tutte le volte in cui la somma dei canoni sia pari al valore di mercato del bene (12). È questa, evidentemente, l’interpretazione che l’Amministrazione finanziaria bulgara ha dato del contratto oggetto del procedimento principale. La contestazione, quindi, si fonda sulla diversa, e asseritamente corretta, identificazione del momento in cui l’imposta diviene esigibile, come conseguenza della corretta qualificazione dell’operazione. Ciò che appare, infatti, è che Unicredit avesse considerato il leasing finanziario come una prestazione di servizi e che, coerentemente, avesse applicato l’imposta al pagamento di ciascun canone. È comunque importante sottolineare che il prelievo viene qualificato come definitivo; sembra, quindi, doversi escludere qualsiasi contestazione sul punto da parte del soggetto passivo. La riqualificazione dell’operazione come cessione di beni non viene espressamente evocata nel corso del procedimento davanti alla Corte di Giustizia, né i quesiti posti hanno ad oggetto la natura dell’operazione. Ciò, probabilmente, perché, nonostante la condotta originaria fosse da interpretare altrimenti, la mancata contestazione dell’accertamento vale a far considerare la qualifica-
di operazione equiparabile, per detto utilizzatore, all’acquisto di un “bene d’investimento” anche prima dell’esercizio del diritto di riscatto. In senso conforme si veda Cass., 16 ottobre 2015, n. 20591; in senso contrario, invece, Cass., 24 settembre 2014, n. 20072. (11) Per una ricostruzione critica della giurisprudenza ed in particolare per quel che concerne la distinzione tra leasing traslativo e leasing di godimento V. Viti, Le problematiche qualificatorie del leasing finanziario e l’irrisolta questione della disciplina applicabile alla risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, in Europa e Diritto Privato, 2016, 803 e, in particolare, 817 e seguenti e nota 29. (12) Si tratta, di fatto, dell’inserimento all’interno di una norma di diritto positivo dello standard di qualificazione del leasing finanziario come cessione di beni introdotta dalla sentenza Eon Aset, cit., punto 40;
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zione condivisa dalle parti (13). Tuttavia, questa soluzione non sembra così pacifica e sicuramente non è accolta come tale dal Collegio giudicante. Pur senza mai esporsi in maniera diretta, infatti, il Collegio afferma di considerare l’operazione come una prestazione di servizi di leasing finanziario (14) e, di conseguenza, argomenta nel merito. Questa confusione incrementa i dubbi interpretativi che, in ogni caso, colpiscono la corretta gestione degli effetti fiscali prodotti dal venir meno dell’operazione a causa della risoluzione unilaterale per inadempimento di un contratto ad esecuzione continuata. La pronuncia è quindi peculiare per due ordini di ragioni. In primo luogo, perché tutto il ragionamento dei giudici s’incentra sul leasing finanziario come prestazione di servizi, con le conseguenze che ne derivano in ordine alla qualificazione degli obblighi reciproci, alla natura corrispettiva o meno delle somme versate, nonché all’esigibilità dell’imposta. Questo senza considerare che le questioni relative alla riduzione dell’imponibile dipendono proprio dalla qualificazione dell’operazione come cessione di beni e dall’applicazione delle relative regole per l’esigibilità dell’imposta. In secondo luogo, nella parte in cui si occupa della qualificazione delle diverse somme versate o da versare, nonché degli effetti della risoluzione sull’imponibilità e sulla rideterminazione della base imponibile ex art. 90 la sentenza – forse anche influenzata da questa confusione interpretativa – introduce dei principi di diritto innovativi e a tratti asistematici, la cui analisi è di particolare interesse alla luce della nuova normativa italiana, priva di specificazioni tributarie.
(13) Il procedimento principale, infatti, prende le mosse dall’impugnazione del diniego di rimborso presentato dalla ricorrente dopo la risoluzione del contratto per ottenere la restituzione dell’IVA versata a seguito di avviso di accertamento nel 2009. (14) In realtà la Corte, con una certa raffinatezza, riesce ad evitare di dare una qualificazione dell’operazione in ogni punto della sentenza, utilizzando sempre la formula generica “operazione imponibile”. La qualificazione come prestazione di servizi, tuttavia, emerge da una serie di espressioni “il corrispettivo dell’importo pagato dall’utilizzatore al concedente sia costituito dal diritto dell’utilizzatore a beneficiare dell’esecuzione […] degli obblighi specifici derivanti dal contratto” (punto 74); più esplicitamente, al punto 70, si afferma che l’importo predeterminato percepito da un operatore economico in caso di risoluzione anticipata da parte del proprio cliente […] dev’essere considerata quale remunerazione di una prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso.
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2. Conseguenze ai fini IVA della risoluzione per inadempimento: il leasing finanziario come cessione di beni L’assimilazione di un contratto di leasing finanziario che abbia le caratteristiche sopra ricordate alle cessioni di beni è espressamente prevista dal diritto bulgaro, che infatti viene richiamato dalla sentenza (15). Dal punto di vista interpretativo, quindi, non è determinante che la qualificazione derivi dall’esercizio non contestato del potere impositivo o dalla qualificazione del contribuente. Infatti, se quest’ultimo avesse originariamente qualificato il contratto come cessione di beni, coerentemente con quanto previsto dal diritto interno, il problema del regime IVA applicabile dopo la risoluzione del contratto si sarebbe probabilmente posto in maniera identica (16). Per garantire una certa coerenza applicativa della disciplina IVA, è opportuno verificare cosa accada nell’ipotesi in cui un contratto di leasing finanziario di un bene immobile, qualificato come cessione di beni, si risolva per inadempimento del compratore. Quest’analisi si rende necessaria se non altro perché questa è la classificazione che, pare, sia stata data nell’ordinamento nazionale di rimessione, e a cui il contribuente non si sia opposto in sede di giudizio di rinvio. La risposta al quesito potrebbe e dovrebbe essere piuttosto semplice: quello che accade a seguito della risoluzione di un qualsiasi contratto di cessione di beni, ivi compresa la risoluzione per inadempimento (17). Si dovrà procedere
(15) Punto 10 della sentenza in commento. (16) Gli effetti della classificazione del leasing finanziario come cessione di beni o come prestazione di servizi, infatti, produce effetti sul piano dell’iva con riferimento all’esigibilità dell’imposta ma non solo, poiché dalla corretta qualificazione dipendono anche le scelte relative alla territorialità e al regime specifico applicabile. È però certo che se le parti avessero qualificato il rapporto come cessione di beni l’imposta relativa sarebbe divenuta esigibile al momento della stipula. Il che, indubbiamente, crea quel problema di anticipo di cassa ben spiegato da F. Saponaro, Il leasing immobiliare, cit., 97. (17) Esiste, peraltro, un precedente della Corte di Giustizia in questo senso (Lombard, del 19 giugno 2016, causa C-404/16), specificamente riferito alla risoluzione per inadempimento di un contratto di leasing finanziario con passaggio automatico di proprietà, in cui la Corte ha affermato che «le nozioni di «annullamento», «recesso» e «risoluzione» di cui all’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, devono essere interpretate nel senso che esse comprendono l’ipotesi in cui, nel contesto di un contratto di leasing finanziario con trasmissione definitiva della proprietà, il concedente non possa più richiedere all’utilizzatore il pagamento del canone di leasing giacché ha risolto detto contratto a causa dell’inadempimento contrattuale dell’utilizzatore» (punto 34); nonché che «nell’ipotesi in cui sia stato posto definitivamente fine ad un contratto di leasing a seguito del mancato pagamento dei canoni dovuti dall’utilizzatore,
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alla riduzione della base imponibile, se necessario anche riferendosi alla possibilità di dare applicazione diretta alla direttiva IVA (18). Il fatto che il contratto preveda delle peculiari modalità di esecuzione è irrilevante, così come è (dovrebbe essere) irrilevante il fatto che sia o meno possibile la restitutio in integrum a favore del cedente (19), ovvero che questa non sia possibile e, dunque, il cedente abbia diritto ad un indennizzo oltre che alla remunerazione per l’uso goduto prima della risoluzione. Come la Corte aveva precedentemente chiarito, nulla di tutto ciò rileva, poiché viene meno il rapporto giuridico che lega le parti e, con esso, il diritto di credito del cedente relativo al pagamento del prezzo come remunerazione del bene ceduto. Astrattamente la risoluzione del contratto, facendo venir meno l’oggetto del rapporto, cioè il trasferimento della capacità di godere del bene come proprietario, produce l’effetto, ai fini dell’iva, di riportare le parti nella stessa situazione in cui si trovavano prima della sua conclusione. Per pacifica giurisprudenza europea, il venir meno del rapporto giuridico produce il venir meno della base imponibile. È chiaro che, per tutelare l’effettività della risoluzione, è necessario che non solo il contratto si dichiari risolto ma che questo comporti l’obbligo per il cessionario di restituire il bene al cedente. Con lo scioglimento del rapporto il cessionario perde, infatti, il diritto di disporre del bene come proprietario, dunque deve restituirlo o, qualora gli fosse impossibile farlo, risarcire il cedente per la perdita subita. L’imposta applicabile a quell’operazione (cessione di beni tra Tizio e Caio, avente ad oggetto un certo bene dietro pagamento di un dato corrispettivo) non è più dovuta perché l’operazione non esiste più per ragioni sopravvenute. Il che significa, ai soli fini dell’imposta sul valore aggiunto, che si dovrà immaginare una riduzione della base imponibile pari all’intero ammontare dell’operazione, tesa a neutralizzare gli effetti della risoluzione e a ripristinare le condizioni tra le parti.
il concedente può sollevare l’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva 2006/112 nei confronti di uno Stato membro per ottenere la riduzione della base imponibile dell’imposta sul valore aggiunto nonostante il diritto nazionale applicabile, da un lato, qualifichi una siffatta ipotesi come «non pagamento» ai sensi del paragrafo 2 di tale articolo e, dall’altro, non consenta alcuna riduzione della base imponibile in caso di mancato pagamento» (punto 45). (18) Sulla immediata applicabilità dell’art. 90 della direttiva IVA nei casi di annullamento, risoluzione e rescissione si è più volte pronunciata la Corte: Almos, Di Maura, Lombard (19) Sebbene sia pratica comune nella contrattualistica in materia di leasing introdurre l’obbligo di riconsegna del bene a seguito della risoluzione per inadempimento del contratto.
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Ciò non significa che, nel frattempo, o come conseguenza della risoluzione, possa essere sorto un autonomo rapporto giuridico tra le parti il quale possa, a sua volta, dare origine ad una nuova operazione autonomamente imponibile. Si faccia l’ipotesi del diritto – contrattualmente previsto – al trattenimento delle somme già versate al concedente (20), a titolo di remunerazione per l’uso del bene (21). Questa previsione contrattuale potrà determinare il venire in essere di una diversa operazione imponibile, specificamente una prestazione di servizi (22), destinata ad essere autonomamente contabilizzata. Tale operazione, però, assume la diversa natura di prestazione di servizi, sorta proprio per il venir meno della cessione di beni e dovrà essere registrata come tale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. In questo caso la doppia contabilizzazione produrrà un effetto perfettamente neutrale per il cedente: la variazione in diminuzione per l’intero ammontare dell’imposta sarà – in parte - compensata dalla somma iscritta a debito per la prestazione di servizi venuta in essere come conseguenza della risoluzione. Residuerebbe, potenzialmente, un credito, per il cedente, pari alla differenza tra l’imposta versata
(20) La dottrina giuscommercialistica si è interrogata sulla legittimità di una simile previsione, paventando il rischio che si traduca in un indebito arricchimento del locatore, che non solo rientra in possesso del bene ma percepisce anche una parte del corrispettivo che ne avrebbe costituito il prezzo di cessione: sul punto si vedano P. Schlesinger, Leasing: la risoluzione non investe i canoni già pagati, in Corr. giur., 1986, 858; D. Valentino, Leasing e risoluzione per inadempimento, Napoli, 1990, 55. (21) Esiste una vastissima letteratura civilistica, nonché una consolidata giurisprudenza, sulla sorte dei canoni già versati al momento della risoluzione del contratto di leasing per inadempimento. L’oggetto principale del dibattito è stata proprio la possibilità di applicare tout court al leasing traslativo le disposizioni relative alla vendita con riserva di proprietà, con specifico riferimento alla ripetizione dei canoni già versati. Per una ricostruzione del dibattito in materia si legga V. Viti, Le problematiche qualificatorie del Leasing, cit., 826. (22) Tipicamente, nel contratto di leasing la scelta del bene da acquistare viene effettuata dal conduttore, mentre il locatore non ha alcun interesse al bene che viene acquistato. Per questa ragione, come sottolinea Cass. Cass. 17-1-2014, n. 888: « Trattandosi di leasing traslativo immobiliare, ove i canoni costituiscono non il corrispettivo del mero godimento del bene, ma il versamento rateale del prezzo, in previsione dell’esercizio finale dell’opzione di acquisto, l’interesse del concedente è quello di ottenere l’integrale restituzione della somma erogata a titolo di finanziamento, con gli interessi, il rimborso delle spese e gli utili dell’operazione; non quello di ottenere la restituzione dell’immobile, che normalmente non rientrava fra i beni di sua proprietà alla data della conclusione del contratto, né costituiva oggetto della sua attività commerciale; è stato scelto e acquistato presso terzi dall’utilizzatrice in funzione delle sue personali esigenze e solo pagato dalla società di leasing, che se ne è intestata la proprietà esclusivamente in funzione di garanzia della restituzione del finanziamento».
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sulla somma dei canoni, poi oggetto della variazione in diminuzione, e quella addebitata sulle somme già versate come corrispettivo per l’uso del bene (23). Da questa ricostruzione, rimane necessariamente esclusa ogni somma versata a titolo di risarcimento del danno la cui non imponibilità ai fini dell’iva rimane pacifica nel diritto interno (24). Una simile soluzione, seppure contabilmente complessa, ha il pregio di garantire la neutralità dell’operazione e, al contempo, la coerenza tra il contenuto dei rapporti giuridici a cui le parti sono via via vincolate e la loro qualificazione ai fini fiscali. Coerentemente, questa avrebbe dovuto essere la risposta anche a fronte di una vicenda come quella rappresentata nella sentenza in commento, dove, pur con qualche complessità formale, la soluzione deriva dalla sistematica applicazione della disciplina dell’iva relativa alle cessioni di beni. Oltretutto, considerando le due operazioni come operazioni distinte, con l’azzeramento della base imponibile relativa alla cessione di beni e la registrazione di una nuova prestazione di servizi, si sarebbero risolti anche gli altri dubbi posti dal giudice rimettente. Se i due importi sono indipendenti, poiché corrispondono ad operazioni distinte e la loro neutralizzazione avviene grazie al meccanismo applicativo dell’imposta, viene meno ogni dubbio relativo al regime applicabile alle rate dovute – prima della risoluzione – ma non versate. 3. … e come prestazione di servizi La stessa coerenza si sarebbe potuta garantire qualificando da principio l’operazione come prestazione di servizi e mantenendo tale qualificazione inalterata (25). Se – in spregio al diritto interno, nonché in forte opposizione con quanto precedentemente affermato dalla giurisprudenza europea – si fosse considerata
(23) Che poi, ciò che accade pacificamente con riferimento alla contrattualistica in materia di leasing, come spiegano V. Viti, ibid. e C. Tranquillo, La nuova disciplina del leasing, cit., note 2 e 7. (24) In questo senso, si veda l’art. 15 del dPR 633 del 1972 così come interpretato dalle risoluzioni dell’Agenzia delle Entrate 3 giugno 2005, n. 73/E, 23 aprile 2004, n. 64/E nonché dalla recente risposta ad interpello n. 74 del 2019 in cui, proprio con riferimento a un indennizzo dovuto a seguito di inadempimento, si afferma che le « somme abbiano “natura risarcitoria” e debbano, pertanto, considerarsi escluse dal computo della base imponibile ai sensi dell’articolo 15, primo comma, n. 1), del d.P.R. n. 633 del 1972». (25) Interpretazione che, peraltro, è quella che viene affermata come generale nelle citate sentenze EON Aset e Mindjet, fatta salva la presenza di quei peculiari caratteri, nel contratto di leasing, che conducano alla diversa qualificazione come cessione di beni.
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l’operazione come una prestazione di servizi per il solo fatto che prevedesse l’opzione (26), allora non avrebbe mai dovuto essere richiesto il versamento anticipato dell’imposta sull’intero ammontare. Al contrario, coerentemente con quanto previsto dalla direttiva e dal diritto interno per le prestazioni di servizi periodiche e pluriennali, l’imposta avrebbe dovuto essere addebitata e versata al momento del pagamento di ciascuna rata. Di conseguenza, qualora il contratto fosse stato risolto prima della sua naturale conclusione, nulla avrebbe dovuto essere versato per i canoni futuri, mentre quelli già versati si sarebbero dovuti considerare come definitivi. Al contempo, qualora la risoluzione fosse intervenuta per inadempimento del committente, sarebbe stato legittimo il dubbio relativo al regime da applicare ai canoni non versati ma sempre astrattamente dovuti, per cui – quindi – fosse già sorto in capo al prestatore l’obbligo di versamento dell’imposta. È chiaro che, in Italia, quest’ultimo problema non si sarebbe posto, essendo l’esigibilità collegata col pagamento (27). Sempre seguendo l’ipotesi della classificazione dell’operazione come prestazione di servizi si può porre il problema della presenza o meno di un obbligo di restituzione del bene al momento della cessione. Se il bene, per il cui uso si intendono versati i canoni, viene restituito al momento della risoluzione il pagamento di ogni altra somma, prevista dal contratto a titolo di penale dovrebbe essere considerata estranea al campo di applicazione dell’iva, in quanto non rappresenta la remunerazione di un bene ceduto o di un servizio prestato (28). Diversa, o parzialmente diversa, potrebbe essere l’ipotesi per cui il contratto preveda, in caso di risoluzione per inadempimento o per altra causa imputabile all’utilizzatore, l’obbligo in capo a quest’ultimo di versare una somma per remunerare la perdita di valore del bene patito dal proprietario a seguito dell’utilizzo del bene. In questo caso, quindi, si potrebbe qualificare
(26) Sul problema del limite incerto tra le due categorie, nonché sull’introduzione del criterio della “razionalità economica”, si veda A. Fidelangeli, Il contratto di leasing con opzione come cessione di beni ai fini IVA, cit., 616 (27) Sull’esigibilità nell’iva, in termini generali, si veda il recente contributo di G. Fransoni, Il momento impositivo nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2019 nonché, più risalenti, A. Comelli, Sul momento di effettuazione delle prestazioni di servizi ai fini dell’IVA, in Dir. Prat. Trib., 1998, 218; R. Cordeiro Guerra, Fatto generatore, esigibilità dell’IVA ed incasso del prezzo secondo la Corte di Giustizia: spunti per una revisione della disciplina italiana, in Riv. Dir. Trib., 1996, II, 454. (28) Sulla nozione di corrispettivo come remunerazione del bene ceduto o del servizio prestato si veda la sentenza della Corte di Giustizia del 6 dicembre 2018, Tratave, C-672/17, EU:C:2018:989 punto 29 e giurisprudenza ivi citata.
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la nuova operazione come una autonoma operazione imponibile, tesa a remunerare il prestatore per il suo servizio di messa a disposizione del bene. 4. I quesiti sottoposti alla Corte e il dubbio sul diritto alla riduzione della base imponibile Queste le soluzioni a cui si sarebbe potuti arrivare optando per la qualificazione del contratto di leasing come cessione di beni o come prestazione di servizi e portando il ragionamento alle sue naturali conseguenze. Oltretutto con risultati fiscalmente omogenei a parità di contenuto giuridico del rapporto. In questo senso la risoluzione, sancendo la fine del vincolo giuridico e obbligando alla chiusura di tutti i rapporti creditori pendenti, consente il superamento delle differenze interpretative e applicative derivanti dalla qualificazione dell’operazione come cessione di beni o prestazioni di servizi. A patto che la qualificazione dell’operazione sia coerente al momento del perfezionamento del contratto e in quello della sua risoluzione. Ciò che è accaduto nella sentenza, invece, è altro – almeno in parte – ed è frutto di una peculiare discrasia interpretativa per cui, muovendo da una situazione di fatto (l’Amministrazione finanziaria che qualifica l’operazione come una cessione di beni) che non viene mai messa in discussione si svolge tutta l’argomentazione trattando l’operazione come fosse pacificamente una prestazione di servizi. Il che comporta una confusione, sia nella qualificazione sia nella soluzione, che conduce ad un risultato parzialmente estraneo a quello cui si sarebbe arrivati facendo una scelta interpretativa univoca e che, soprattutto, è decisamente più asistematico. La sentenza, infatti, si articola attorno a due questioni, la prima, trattata separatamente relativa alla possibilità di modificare la base imponibile anche dopo l’intervento di un avviso di accertamento definitivo dell’Amministrazione finanziaria (29); la seconda – in cui emergono le divergenze interpretative tra giudice propornente e Corte di Giustizia – relativa alla applicabilità dell’art. 90 della Direttiva ai canoni non versati prima della risoluzione (30), anche in presenza di una clausola contrattuale che riconosca al cedente un diritto all’indennizzo pari al totale dei canoni non corrisposti in scadenza fino al termine della durata del leasing.
(29) Punto 29 della sentenza in commento, numero 1). (30) Punto 29, numero 2) della sentenza in commento.
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5. La superabilità dell’atto impositivo definitivo e il ripristino della neutralità La prima questione, come non rileva la sentenza, dipende strettamente dalla diversa qualificazione dell’operazione. L’atto impositivo dell’Amministrazione interviene ben prima del termine dell’esecuzione del contratto proprio perché l’operazione viene riqualificata come cessione di beni. Coerentemente, nell’ipotesi in cui – successivamente – venga meno il rapporto giuridico che aveva determinato il venire in essere dell’operazione imponibile, si dovrà riconoscere al contribuente la possibilità di ridurre la base imponibile e la relativa imposta, sulla base del principio generale dell’art. 90 (31). È pienamente condivisibile sotto questo aspetto il ragionamento svolto nella sentenza quando si asserisce che impedire la revisione, pur successiva, dell’imponibile e dell’imposta rappresenterebbe una violazione dei principi di neutralità e di effettività del corrispettivo. In effetti il venir meno dell’operazione imponibile, pur a causa di vicende giuridiche sopravvenute, rende priva di fondamento la pretesa impositiva esercitata dall’Amministrazione finanziaria. Nell’ordinamento italiano l’incertezza potrebbe piuttosto derivare dalla corretta individuazione dello strumento, riconosciuto al contribuente, per esercitare il suo diritto alla riduzione della base imponibile e alla contestuale riduzione dell’imposta. Ci si potrebbe chiedere se, a fronte di una somma accertata in via definitiva dall’Amministrazione in relazione ad un contratto poi risolto, si possa procedere alla variazione ex art. 26 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. In linea generale non sembra esservi una ragione ostativa all’utilizzo dello strumento delle variazioni (32), pur dopo l’intervento della potestà impositiva dell’Amministrazione. Tecnicamente, la variazione rientra nell’ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 26 citato che non solo non conosce limiti di tempo,
(31) Tale principio viene posto a tutela del principio di effettività del corrispettivo la cui a migliore definizione si trova nelle pronunce della Corte di Giustizia che hanno ad oggetto i caratteri dell’imposta come limite esterno per la valutazione di compatibilità di altre imposte nazionali: in particolare Corte di Giustizia, 1 aprile 1982, causa C-89/81, Hong Kong Trade, punto 7, che si riferisce esclusivamente al carattere della proporzionalità, Corte di Giustizia, 27 novembre 1985, causa C-295/84, Rousseau Wilmot / Organic, punto 15; Corte di Giustizia, 13 luglio 1989, causa C-93/88, Wisselink , punto 18; Corte di Giustizia, 19 marzo 1991, causa C-109/90, Giant/Oversije, punto 11. (32) Non vi sono limiti espressi nel testo di legge, mentre si sottolinea come, nel caso opposto della necessità di addebitare l’imposta ex art. 60 del medesimo d.P.R. IVA, sia la stessa Amministrazione finanziaria ad individuare come strumento utile quello della nota di variazione in aumento (si veda Circolare 35/E del 17 dicembre 2013, in particolare al quesito 4.1).
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se non quello ordinario per l’esercizio del diritto a detrazione, ma nemmeno restrizioni in relazione agli effetti dell’intervento, medio tempore, di un atto impositivo autoritativo (33). In ogni caso, poiché deve essere rispettato il principio generale di neutralità, si può immaginare che, in alternativa, il soggetto passivo possa procedere alla richiesta di restituzione ex art. 30 ter del dpr IVA (34) in materia di restituzione dell’imposta non dovuta, decorrendo il termine biennale per la presentazione della richiesta dal momento in cui il contratto è stato risolto. Qui si versa nella situazione opposta rispetto a quella regolata al comma 2 del citato articolo 30 ter (l’accertamento relativo al versamento di una somma non dovuta, di cui può essere chiesta la restituzione solo dopo che sia stata dimostrata la restituzione della rivalsa). Quest’ipotesi è quella per cui una somma accertata non sia più dovuta, in conseguenza ad una vicenda sopravvenuta del contratto. Si tratta, comunque, di un’ipotesi che può rientrare nella definizione generale del comma 1 (35). D’altronde non potrebbe essere altrimenti, poiché ogni altra soluzione rappresenterebbe una inaccettabile violazione del principio di neutralità dell’IVA (36). Sotto questo aspetto, quindi, la soluzione prospettata dalla sentenza (37) è coerente, poiché riconosce il diritto a modificare la base imponibile e rimette al giudice nazionale la scelta relativa all’individuazione degli strumenti più adatti. Il problema è, piuttosto, nella qualificazione data dai giudici europei
(33) Per una ricostruzione in termini generali della disciplina delle variazioni ex art. 26 del dpr IVA si leggano M. Basilavecchia, Le note di variazione, in F. Tesauro (a cura di) Giurisprudenza sistematica di diritto tributario – L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 2001, 644; A. Carinci, Le variazioni iva: profili sostanziali e formali, in Riv. Dir. Trib, 2000, I, 725; G. Tabet, Riflessioni in tema di note di variazione Iva per fatture insolute, in Rass. Trib. 2015, 785. (34) Sull’ambito di applicazione dell’art. 30 ter si legga L. Salvini, IVA non dovuta:una nuova disciplina poco meditata, in Corr. Trib., 2018, 1607. (35) Cioè quello a mente del quale Il soggetto passivo presenta domanda di restituzione dell’imposta non dovuta, a pena di decadenza, entro il termine di due anni dalla data del versamento della medesima ovvero, se successivo, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione. (36) Sulla neutralità nell’imposta sul valore aggiunto si veda Bel - A. Papke, A closer look at the Value Added Tax: propositions and implication, in Proceedings of the 60th National Tax Assosiationa Conference, 1969; W. Missorten, Some problems in implementing a tax on Added Value, in National tax journal, 1969; C. Campet, Le regime fiscal du chiffre d’affaires e son incidence sul la productivité, OCSE, Parigi, 1967; A. Mondini, Il principio di neutralità dell’iva, tra “mito” e (perfettibile) realtà, in A. Di Pietro - T. Tassani, I principi europei, cit., 269. (37) Punto 43 e primo dispositivo.
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della ricostruzione dell’avviso di accertamento come fondato su di una base imponibile determinata forfettariamente (38), quando invece è chiaro dalla ricostruzione del fatto che il parametro utilizzato è quello della somma di tutti i canoni come previsto dal diritto bulgaro per leasing finanziari qualificati come cessione di beni. L’avviso di accertamento, quindi, si fonda su di una ricostruzione coerente con la qualificazione dell’operazione. Va detto che l’elemento della forfetarietà, introdotto dalla sentenza, non conduce, in questo caso, ad una soluzione interpretativa divergente. Tuttavia, rappresenta il primo segnale del mancato coordinamento tra la qualificazione nazionale dell’operazione, non contestata dal ricorrente, di cui i quesiti sottoposti alla Corte rappresentano una conseguenza e l’interpretazione del giudice europeo. 6. La base imponibile forfettaria la ricerca del precedente giurisprudenziale per affermare l’imponibilità dell’indennizzo Quello della asserita forfetarietà della base imponibile presa a riferimento dall’Amministrazione finanziaria bulgara per procedere alla contestazione è un dettaglio essenziale per comprendere quale sia il ragionamento svolto dalla Corte con riferimento alle somme previste dal contratto a titolo di indennizzo. La questione che appare più complessa, sicuramente quella cui viene dedicata maggiore attenzione nel merito, è quella relativa alla possibilità di assoggettare o meno ad imposta le somme dovute a titolo di indennizzo dal conduttore, a fronte di una risoluzione per causa a lui imputabile. La ricostruzione fatta al riguardo da parte della Corte è piuttosto articolata e a tratti immaginifica. Si afferma, infatti, che il versamento a titolo di indennizzo per la risoluzione del contratto dei canoni non versati fino alla scadenza sia un elemento costitutivo del contratto (risolto) in quanto l’esistenza del rapporto giuridico che unisce le parti dipende dal versamento di detti canoni (39). Di conseguenza il versamento delle somme, al netto della rata finale post-opzione e degli interessi finanziari annuali, rappresenterebbe per il concedente la percezione degli stessi redditi che avrebbe percepito in assenza della risoluzione e del conseguente obbligo di pagare l’indennizzo (40). Questa somma, quindi, rappresenterebbe il corrispettivo dell’importo pagato dall’utilizzatore al concedente per il diritto di beneficiare dell’esecuzione de-
(38) Punto 36 della sentenza in commento. (39) Punto 71. (40) Punto 73.
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gli obblighi specifici derivanti dal contratto (sic (41)), ancorché l’utilizzatore non possa avvalersene. Pertanto, la somma deve essere considerata come corrispettivo relativo all’operazione originaria e, in quanto tale, imponibile. I punti sono due. Il primo è che si tratta di un indennizzo e che gli indennizzi destinati a risarcire la mancata esecuzione del contratto non dovrebbero essere imponibili, poiché non rappresentano un corrispettivo (42). Il secondo è che il giudice disattende completamente l’intervenuta risoluzione, concedendo al contratto un’efficacia ultrattiva che nessuno, le parti in primis, intendevano far valere. Non esiste un vincolo giuridico contrattuale a versare canoni per remunerare il diritto a godere di un bene che, per effetto dell’intervenuta risoluzione, non può più essere goduto. Né vale a supportare questa posizione affermare che l’Amministrazione finanziaria bulgara abbia calcolato l’iva sulla base ella somma dei canoni e che questi costituiscano il corrispettivo di una prestazione autonoma e individualizzabile. Dal punto di vista dell’Amministrazione bulgara questi rappresentano, a contratto valido ed efficace, il corrispettivo della cessione di beni, cioè il valore soggettivo dell’operazione, cioè la sua base imponibile ritraibile dal contratto. Non si tratta, infatti, di una forfetizazione, come pure affermato in sentenza per trovare appoggio e precedente all’affermazione relativa all’imponibilità dell’indennizzo (43). Il precedente richiamato è, infatti, quello relativo al caso del periodo minimo di permanenza nei contratti di servizi per le telecomunicazioni. In questo caso, il cliente che avesse abbandonato unilateralmente e volontariamente il contratto sottoscritto prima del tempo previsto sarebbe stato tenuto al pagamento di una cifra forfetaria, tendenzialmente pari al numero di canoni da pagare prima della scadenza del periodo minimo di permanenza. Il giudice europeo, in quel caso, ha considerato la somma imponibile perché tesa a remunerare un servizio che, comunque, il prestatore si impegnava ad erogare
(41) Punto 74. (42) Il concetto è chiarito dalla Corte di Giustizia nella pronuncia Société thermale d’Eugénie-Les-Bains del 16 luglio 2007 (con nota di E. Adobati, La caparra trattenuta in caso di disdetta della prenotazione alberghiera da parte del cliente non è soggetta ad imposta, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali 2007 pp. 755-756) che, pur riferita all’erogazione di prestazioni alberghiere, afferma un criterio ermeneutico generale a lungo sostenuto anche in seguito. (43) Il riferimento è alla sentenza Corte di Giustizia, 22 novembre 2018, causa C-295/17, MEO – Servicos de Comunicacoes e Multimédia, citata al punto 70 della presente sentenza.
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per il periodo minimo, il cui mancato godimento dipendeva esclusivamente dalla volontà di recesso del cliente (44). In altri termini si individuava il valore complessivo del servizio e lo si considerava come un servizio unitario, non suscettibile di suddivisione in sotto-periodi di validità, la cui remunerazione era quindi da considerarsi complessivamente e in cui la riduzione per recesso a seguito di causa non imputabile al prestatore avrebbe comportato una disparità di trattamento tra i recedenti e i non recedenti. Questa interpretazione, già di per sé piuttosto opinabile, diventa ancor più insostenibile se applicata, come accade oggi, ad un contratto in cui la risoluzione, peraltro voluta dal prestatore – seppure a causa dell’inadempimento dell’utilizzatore – comporta l’effetto dello spossessamento del bene, che deve tornare nella disponibilità materiale del prestatore. Non si tratta, quindi, di una componente della remunerazione, vincolata ad un effetto temporale e meno che mai della sopravvivente remunerazione per il servizio relativo alla disponibilità del bene, non fosse altro che per la ragione, banale, che il bene non è più disponibile. 7. La situazione italiana tra regime IVA delle penali e obbligo di vendita del bene Per quel che riguarda il regime interno la disciplina di diritto commerciale è quella prevista dal comma 138 della legge sulla concorrenza, a mente della quale «in caso di risoluzione del contratto per l’inadempimento dell’utilizzatore ai sensi del comma 137, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, nonché le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita.» La situazione, dunque, si complica. La formula introdotta dal legislatore del 2017 richiama da vicino quella presente nella contrattualistica precedente in materia e tali somme erano considerate come penali (45). La penale pagata
(44) Sentenza MEO, punto 45. (45) Sul punto Tranquillo, op. cit. e in particolare nota 16.
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dall’utilizzatore al prestatore sarebbe una somma pari ai canoni che questi avrebbe dovuto versare al netto della rata finale di conguaglio e degli interessi (46). Le penali, in forza dell’art. 15 del dpr IVA e della costante interpretazione della prassi, non concorrono alla formazione della base imponibile. Nessun problema, sotto questo aspetto, se non fosse per il fatto che oggi esiste un obbligo legislativamente previsto in capo all’originario proprietario, che non è mai stato privato del suo diritto reale di proprietà, di alienare il bene a terzi per poi retrocedere all’originario fruitore il maggior valore tra il prezzo di cessione e i canoni non pagati. La situazione applicabile ai fini IVA a queste operazioni non è definita. Sembra, comunque, doversi ritenere che la cessione del bene a terzi ad opera del proprietario-concedente debba potersi qualificare come operazione imponibile, dunque debba essere assoggettata ad IVA (47). Al contrario, il differenziale versato all’originale committente, essendo giustificato solo sulla base di una previsione normativa in tal senso e non rappresentando la remunerazione di alcun servizio potrà essere qualificato come trasferimento di danaro, dunque operazione non imponibile. Nella formulazione normativa odierna, quindi, non si pone il problema che deve affrontare il giudice bulgaro dopo la pronuncia della Corte di Giustizia sebbene, alla luce della ricostruzione in diritto, l’esito non sia poi diverso. Obbligare il proprietario-concedente ad una vendita (o comunque ad una collocazione a mercato) del bene oggetto del contratto di leasing risolto per inadempimento significa, dal punto di vista dell’imposta sul valore aggiunto, obbligarlo a realizzare un’operazione imponibile. Ora, se si considera che nella somma realizzata dovranno rientrare anche le somme tese a garantire il risarcimento del danno subito a seguito della anticipata risoluzione, ecco che – di fatto – quella stessa somma diviene imponibile. Nella diversa ipotesi in cui, invece, il differenziale sia negativo e, quindi, sopravviva un diritto di credito del concedente questa somma dovrebbe essere considerata come penale, dunque non imponibile ex art. 15 del dpr IVA. Tuttavia, poiché rientra nella fattispecie descritta dalla sentenza in commento, se ne potrebbe contestare l’imponibilità, anche per garantire che non vi sia una disparità di trattamento ai fini dell’iva tra le operazioni in cui la vendita ha
(46) Oltre alla prassi richiamata alla nota 25 su tema analogo, seppure non identico, si legga M. Merlo, Iva: la risoluzione del contratto nella vendita con riserva di proprietà, ne ilfisco, n. 9 del 5 marzo 2007. (47) Poiché si tratta della vendita di un bene mobile realizzata dal soggetto passivo nell’esercizio della sua attività commerciale.
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successo (o comunque il valore di mercato del bene è superiore a quello dei canoni da riscuotere) e quella in cui il mancato guadagno non viene bilanciato dalla cessione del bene. 8. La vis espansiva della nozione di mancato pagamento come bilanciamento alla piena imponibilità dell’indennizzo La conclusione cui arriva la sentenza – dopo aver affermato l’imponibilità degli indennizzi a fronte della possibilità astratta di godere di un servizio pur in assenza del bene oggetto del servizio; dopo aver sorvolato sull’annosa questione della qualificazione del leasing; dopo aver escluso che la risoluzione del contratto possa condurre alla riduzione della base imponibile ex art. 90 della Direttiva; – è la più inaspettata. I canoni non pagati, tutti i canoni non pagati, precedenti e successivi alla risoluzione del contratto, possono essere portati in riduzione della base imponibile per mancato pagamento, essendo passati svariati anni (sebbene non ancora dieci, ma diventa evidente che la decennalità è un modo per dire molto tempo, con buona pace della certezza del diritto) dal momento in cui avrebbero dovuto essere pagati e non lo sono (48). La sentenza, infatti, prende atto del fatto che il fruitore abbia smesso di pagare i canoni nel 2009 e che, dunque, essendo il giudizio di rinvio del 2018, e non avendo lui mai provveduto al pagamento delle somme in parola, si possa considerare verificata la condizione del mancato pagamento in modo sufficientemente certo e, dunque, sia possibile riconoscere il diritto alla corrispettiva riduzione della base imponibile (49). Questa interpretazione è certo coerente con la posizione assunta dalla Corte più di recente (50) e rafforza l’interpretazione per cui la derogabilità
(48) Questa la conclusione riportata al punto 83 della sentenza, nonché nel secondo dispositivo (49) Si vedano al riguardo i punti 63, in cui si afferma che la certezza del carattere definitivamente irrecuperabile del credito può essere acquisita, in pratica, solo al termine di una decina d’anni, e il punto 64, che ricostruisce la cronistoria dell’inadempimento. (50) Il riferimento è alla pronuncia della Corte di Giustizia del De Maura 23 novembre 2017, C-246/16, con nota di B. De Nora, Dopo dieci anni di mancato pagamento una variazione in diminuzione IVA non si nega a nessuno, pubblicata nel Supplemento online di questa rivista il 19 dicembre 2017; sul tema si vedano anche G. Andreani - A. Tubelli, Note di variazione in diminuzione a seguito di procedure concorsuali: una disciplina da ripensare, in Corr. Trib., 2018, 189; F. Gallio, È illegittimo l’obbligo di aspettare di emettere la nota di credito al termine di procedura concorsuale con durata superiore ai dieci anni, in ilfisco.it, 2018, 1-171; P. Santin, Variazioni IVA da mancato pagamento e procedure concorsuali: il regime interno al vaglio della compatibilità europea, in Giur. Comm., 2018, II, 795.
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dell’art. 90 in tema di mancato pagamento debba essere interpretata restrittivamente, come limitata alle condizioni di oggettiva incertezza sulla possibilità di ottenere il pagamento. Rappresenta, anzi, un ulteriore tassello verso quella neutralità di cassa che la Corte va affermando con crescente convinzione proprio con riferimento alle ipotesi di mancato pagamento (51). In particolare, in questo caso, la sentenza enfatizza l’esistenza di un credito suscettibile di essere tutelato giudizialmente come criterio per stabilire che l’indennizzo abbia natura di corrispettivo (52), ciò nonostante configura la fattispecie come di mancato pagamento (53) per il solo fatto del trascorrere del tempo. Torna così a valorizzare l’interesse alla neutralità di cassa del soggetto passivo, che non può essere lesa da una legislazione nazionale che imponga vincoli eccessivamente rigorosi alla possibilità di ridurre l’imponibile per il mancato pagamento del corrispettivo (54). Maggior forza al concetto di neutralità di cassa viene, quindi, dalla scelta di calcolare il decorso della decina d’anni (sic) non dal momento in cui il concedente ha chiesto la risoluzione del contratto per inadempimento, che ci viene detto essere il 2015, bensì dal momento in cui l’utilizzatore ha effettivamente smesso di pagare i canoni, asseritamente il 2009. Il mancato pagamento, quindi, diviene sempre più a pieno titolo una norma di portata generale (55), la cui tutela prescinde sempre più dal rispetto dei principi che regolano l’applicazione dell’imposta nel suo complesso.
(51) Intesa come neutralità tutelata con riferimento ai flussi di cassa che interessano il soggetto passivo e non alla presenza di un credito per il corrispettivo, suscettibile di tutela. Si esprime in questo senso la ricordata sentenza Di Maura al punto 23 ove afferma che per gli Stati membri escludere qualsiasi riduzione della base imponibile dell’IVA sarebbe contrario al principio di neutralità dell’IVA, da cui deriva in particolare che, nella sua qualità di collettore dell’imposta da parte dello Stato, l’imprenditore dev’essere sgravato interamente dell’onere dell’imposta dovuta o pagata nell’ambito delle sue attività economiche a loro volta soggette a IVA. In questo senso ancor più esplicite sono le conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott alla sentenza in parola, per cui si veda Santin, Regime nazionale e disciplina europea delle variazioni IVA da mancato pagamento tra esigibilità ed effettività, in Giur. Imp., 2/2016, 122. (52) Punto 80. (53) Punto 82. (54) Punti 62 e 63. (55) Sotto questo aspetto è interessante lo scivolamento in corso nella giurisprudenza della Corte di Giustizia a partire dalla sentenza Almos del 2015, in cui si afferma il principio della piena disponibilità, da parte degli Stati, della possibililtà di introdurre o meno le modifiche dell’imponibile a seguito di mancato pagamento, a quella odierna, in cui l’esercizio di questa facoltà è limitato all’individuazione di condizioni utili a superare l’incertezza della fattispecie e, comunque, mai tese ad escludere del tutto questa possibilità quando il mancato pagamento sia sufficientemente certo.
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La soluzione, faticosamente ricostruita, di un’ampia imponibilità, viene così superata da un’esigenza di tutela che, per l’ordinamento europeo e a maggior ragione per quelli nazionali, è relativamente nuova ma sempre più capace di affermarsi e consolidarsi, forse fino a farsi principio generale in futuro. Da ultimo si può rilevare come, nel diritto italiano, questo problema non si ponga, proprio perché l’imponibilità delle somme corrispondenti alla penale, non vengono versate dall’utilizzatore inadempiente poiché sono (o dovrebbero essere) assorbite nel corrispettivo di rivendita del bene. Questa operazione, del tutto autonoma, dovrà essere assoggettata a imposizione, a nulla rilevando l’eventuale condizione di inadempimento del debitore originario. La somma, pari al corrispettivo percepito dal creditore per la nuova operazione imponibile, non potrà essere colpita dall’inadempimento del debitore originario, portando quindi ad escludere la possibilità di ridurre l’imponibile per mancato pagamento (56).
Piera Santin
(56) Rimangono le considerazioni, in questo caso inconferenti, sugli effetti sistematici di questa espansione sempre maggiore della nozione di mancato pagamento e, dunque, della sua applicabilità all’interno degli ordinamenti nazionali. Il principio dello scorrere del tempo, già affermato nella sentenza De Maura che, peraltro, era riferita proprio al diritto interno, unitamente all’affermazione – contenuta nella sentenza in commento – della necessità di interpretare l’art. 90 co. 2 in termini restrittivi, come è proprio di ogni norma derogatoria, obbliga ad interrogarsi sulla sostenibilità di una disciplina nazionale che vincola il riconoscimento del mancato pagamento a procedure giudiziali molto lunghe e, per quel che concerne l’esecuzione individuale, potenzialmente diseconomiche.
Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto
The EU protection of tax data transferred to third countries* Sommario: 1. The co-evolution of exchange of information and FATCA. – 2. FATCA and the intergovernmental agreements in the EU. – 3. The guidelines of the European Data Protection Supervisor. – 4. The right of FATCA data protection under the GDPR. – 4.1. General overview. – 4.2. FATCA implies restrictions to the right of data protection. – 4.3. Transfers of data to third countries while the EDPD guidelines are pending. – 5. Conclusions. This article analyzes FATCA legislation and its application at international and EU level in light of recent developments concerning the protection of tax information transferred to non-EU countries, in light of the recent General Data Protection Regulation (GDPR) and other guidelines issued by EU Authorities. It first provides a global overview on exchange of tax information and of the FATCA mechanisms applied through intergovernmental agreements. The study then describes the extraterritorial nature and negative externalities of FATCA, in particular the potential conflicts with EU law, with specific attention to the right of FATCA data protection under the GDPR. It concludes with suggestions for bilateral and unilateral EU-U.S. policies, with final remarks on a multilateral approach. L’articolo ha ad oggetto la protezione a livello comunitario dei dati fiscali trasferiti a paesi terzi. La problematica è da inquadrarsi nella evoluzione delle modalità di scambio automatico di informazioni. Inizialmente nel 2004 l’OCSE ha attivato una campagna volta a facilitare tale scambio. Al contempo – ed a seguito della crisi finanziaria 2008 – gli Stati Uniti hanno fortemente incrementato le politiche volte a raccogliere dati fiscali di residenti per attività svolte all’estero e nel 2010 hanno approvato il FATCA, una normativa in base alla quale gli intermediari finanziari esteri sono soggetti a una ritenuta d’imposta pari al 30% per tutti i loro redditi provenienti dagli Stati Uniti, salvo che non si adeguino agli obblighi di reporting previsti dal FATCA stesso con riguardo a soggetti residenti negli Stati Uniti e relativi a redditi di fonte estera. Nel contempo la comunità internazionale ha adottato il Common Reporting Standard, uno strUmento tecnico per lo scambio multilaterale ed automatico delle informazioni. La normativa FATCA è applicata nell’UE mediante
* This paper builds on a study prepared in 2018 by the Author and requested by the Policy Department for Economic, Scientific and Quality of Life Policies of the European Parliament.
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intergovernmental agreements (denominati “IGAs”), vale a dire accordi tra governi. Vi sono due modelli di questi accordi. Nel primo modello gli intermediari finanziari situati nei diversi Stati Membri devono trasmettere i dati alle proprie amministrazioni fiscali nazionali, le quali a loro volta trasmettono i dati al Treasury negli Stati Uniti, cosicchè non vi è nessun diretto rapporto tra il contribuente e il Treasury. Nel secondo modello di questi accordi, invece, i dati vengono trasmessi dagli intermediari finanziari direttamente al Treasury. Questo secondo modello, in particolare, non richiede la reciprocità in quanto gli Stati Uniti non sono obbligati a trasmettere alcun dato a Stati Membri della UE. In conclusione la normativa FATCA si applica anche al di fuori del territorio degli Stati Uniti e per di più in via unilaterale, sovente senza effettiva reciprocità. Queste peculiari caratteristiche fanno sì che si determinino una serie di problematiche: in primo luogo gli intermediari finanziari sostengono costi maggiori in quanto hanno importanti obblighi addizionali di reporting; in secondo luogo si determinano problematiche per cittadini americani per nascita (i cd. “Accidental Americans”) che però vivono nella UE, essendo questi costretti a trasmettere dati agli Stati Uniti stessi pur non avendo alcun contatto economico e sociale con tale Paese. Ma la questione più importante è che il trasferimento di dati fiscali a un paese terzo quali gli Stati Uniti determina una serie di problematiche che sono state individuate da diverse autorità europee di protezione dei dati: in ispecie le garanzie di protezione sancite dall’ordinamento comunitario non necessariamente trovano una corrispondenza nell’ordinamento degli Stati Uniti. Il Parlamento Europeo nel luglio del 2018 ha fornito una serie di indicazioni per affrontare questo problema. Inoltre nel maggio del 2018 è stato adottato a livello UE il Regolamento generale per la protezione dei dati. Da ultimo il European Data Protection Supervisor ha annunciato che emanerà guidelines da utilizzare per la modificazione degli IGAs in un senso di reciprocità e di rispetto della normativa europea della protezione dei dati. Inoltre numerose disposizioni del Regolamento generale per la protezione dei dati sono suscettibili di essere applicate direttamente al trasferimento di dati fiscali a paesi terzi onde garantirne una protezione equivalente a quella comunitaria. In conclusione la situazione si presenta in continua evoluzione: certamente le guidelines annunciate colmeranno una lacuna ed al contempo le norme del regolamento troveranno più concreta e diretta applicazione anche ai dati fiscali, oltre a dati di altra natura. Sono inoltre auspicabili interventi unilaterali da parte della UE nei confronti degli Statti Uniti riguardo al FATCA e nei confronti in generale di Paesi terzi nel senso di limitare il trasferimento fuori dalla UE soltanto dei dati fiscali che siano oggetto di una adeguata protezione anche nei Paesi di destinazione. Al contempo si auspica che le politiche multilaterali che avevano animato le iniziali negoziazioni e applicazioni del FATCA nella UE siano oggetto di un ravvivato sforzo da entrambe le parti dell’Atlantico al fine di ristabilire una completa reciprocità sia del flusso dei dati che dei livelli di protezione di essi.
1. The co-evolution of exchange of information and FATCA. – Exchange of information is interwoven with the worldwide income taxation principle. Residence-countries taxing their residents on income produced both domestically and abroad need the cooperation of source-countries to obtain information about income produced by their residents in those countries. By neutralising the more advantageous effect of no or low taxation in the foreign jurisdiction, a residence-country actually is in a position to claim to subject
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foreign income to control through exchange of information and administrative cooperation. Residence taxation operates correctly as long as residence-countries are actually capable to acquire information from source-countries about income produced in those countries, and therefore one of the main concerns of the tax authorities of OECD countries is tax evasion realised by resident taxpayers by not reporting or underreporting their income produced abroad. The interdependence of high-tax residence-countries and low-tax source-countries is the natural backdrop to understand the novel concepts of ‘transparency’ and ‘exchange of information’, that have become pivotal in the current international tax situation. The foundational rules of exchange of information are found in Article 26 of the OECD Model Convention (hereinafter ‘Article 26’), which is reflected in the double tax treaties which are aimed at the prevention of tax evasion and tax avoidance. The practical issues involved in these types of exchange of information have been addressed by the OECD Global Forum Working Group on Effective Exchange of Information, which started to work on a project of a Tax Information Exchange Agreement (‘TIEA’) with a view to promoting actual methods of international cooperation in tax matters through exchange of information. From 2001 onwards the Global Forum on Taxation was established and the OECD project began to focus on improving transparency and increasing effective access to exchange of information (1). In April 2002 the OECD released a Model of Tax Information Exchange Agreement (‘Model TIEA’), which is a non-binding instrument that serves as a model for assisting contracting States in their bilateral or multilateral negotiations aimed at finalizing actual TIEAs. The U.S. at that time had already activated its own policies that essentially relied on the cooperation of financial institutions. Starting in 2001, foreign financial institutions could considered as Qualifies Intermediaries (“QI”) upon entering specific agreements with the U.S. QIs agreed to determine the identity of their clients, but they did not have to report the identities of non-U.S. clients, including corporations, to the I.R.S. (2) as long as QIs concluded that the proper amount of U.S. tax was withheld on U.S.-source payments to the non-U.S. clients. The operation of the QI system represents the first significant
(1) See OECD, “OECD Pursues a Global Dialogue on International Taxation” (Paris: OECD, 1/10/2001). (2) Internal Revenue Service.
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example of a system of “cross-border anonymous withholding regime”, where financial institutions served as intermediaries required to directly obtain information on their clients. In 2004 explicit relevance was then given by the OECD to the criteria of transparency and exchange of information for identifying the jurisdictions that were the purported recipients of its policies, and such jurisdictions were openly identified as ‘un-cooperative jurisdictions’. The entire OECD campaign then shifted its focus from tax avoidance on geographically mobile activities to tax evasion on passive investment income (3) and this shift was endorsed by the G-20 Finance Ministers at the end of 2004 (4). The turmoil provoked by the 2008 financial crisis boosted the need of governments to raise revenues by curtailing international tax evasion, and thus un-cooperative jurisdictions became a very hot topic in the OECD political agenda (5). Tax transparency was the focus of the G-20 Summits in Washington, London, Pittsburgh and Toronto. On April 2, 2009, at the time of the G-20 summit in London claiming for a list of tax havens, the OECD’s Secretary-General issued a new Progress Report on jurisdictions surveyed by the OECD Global Forum in implementing the internationally agreed standards on transparency and exchange of information for tax purposes. The game changer in the U.S. was in 2008-9 the case of Bradley Birkenfeld, a former UBS employee which revealed that UBS advised U.S. individuals to open offshore accounts connected to foreign entities which would receive payments with no withholding tax even though beneficial owners were U.S. residents. UBS agreed to pay a fine of $780 million, release (through the Swiss government) the names of 250 U.S. holders of offshore UBS accounts, and cease its illegal banking and brokerage activities in the U.S. Under a separate agreement, UBS also agreed to disclose the names of a vast number of U.S. holders of offshore accounts at UBS.
(3) A. Easson, “Harmful Tax Competition: An Evaluation of the OECD Initiative”, (2004) 10 Tax Notes International 1038. In this sense, see also C.E. McLure Jr., ‘Will the OECD Initiative on Harmful Tax Competition Help Developing and Transition Countries?’, (2005) 59 Bulletin for International Fiscal Documentation 90. (4) G-20, Meeting of Finance Ministers and Central Bank Governors: Communiqué, November 21, 2004. (5) See J. Owens, “Moving Towards Better Transparency and Exchange of Information on Tax Matters”, (2009) 63 Bulletin for International Taxation 557.
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In 2009 under an offshore voluntary compliance program almost 15,000 U.S. taxpayers disclosed to the I.R.S. that they held funds in previously unreported offshore accounts and thereafter the U.S. moved to a system aimed at the compulsory disclosure of U.S. taxpayers. Historically, these evasion strategies have been ineffective because of other jurisdictions’ strong bank secrecy rules. (6) On March 18, 2010, the Obama Administration signed into law the “Hiring Incentives to Restore Employment Act” (the “HIRE Act”), which included the “Foreign Account Tax Compliance Act” (“FATCA”) and was aimed at to overcoming the lack of cooperation from other jurisdictions. FATCA established a basic principle: a foreign financial institution (“FFI”) is subject a 30-percent withholding tax on all its income deriving from the U.S. unless it complies with the FATCA reporting duties in respect to information related to “U.S. Persons” who are account-holders of that institution (“FATCA Data”). So FATCA imposes an extensive third-party monitoring and disclosure regime on FFIs wherever located outside the U.S. in an effort to expose their undeclared foreign assets to the U.S. I.R.S. More specifically FATCA introduced unilaterally a complex mechanism of information gathering managed by financial intermediaries based on four components: 1) the identification of the participating FFI, 2) the requirement of reporting by such FFI on certain U.S. and non-U.S. account-holders, 3) the threat of a withholding tax on U.S. sourced payment in case of non-compliance, and 4) the duty by U.S. Persons to specifically report to the I.R.S. their foreign financial assets At the same time of FATCA the OECD campaign focused on the standards of transparency and exchange of information with a view to achieving a thorough application of Article 26 and the Model TIEA (7). As a result of that campaign, ‘internationally agreed standards’ emerged in the context of
(6) The U.S. government has estimated that the U.S. suffer a loss in tax revenue of approximately $345 billion each year as a consequence of offshore tax evasion. See: U.S. Senate, Permanent Subcommittee on Investigations, Committee on Homeland Security and Governmental Affairs, “Tax Haven Banks and U.S. Tax Compliance”, Staff Report (Washington: U.S. Senate, 2008); U.S. Treasury Department, “Update on Reducing the Federal Tax Gap and Improving Voluntary Compliance” (Washington: U.S. Treasury Department, 2009) (7) Paragraph 13 of the OECD Report, “Promoting Transparency and Exchange of Information for Tax Purposes” (Paris: OECD, 3 September 2010).
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the OECD’s Global Forum on Taxation (8). In 2013, 16 EU Member States called for a ‘‘new global standard for automatic exchange of information to tackle tax evasion, based on the U.S. FATCA legislation,’ and in 2014 the OECD released a global framework for the exchange of financial information based denominated as the “Common Reporting Standard” (“CRS”). The CRS established a multilateral framework for countries to exchange information automatically, and over seventy countries have pledged to adopt it. Under the technological framework of the CRS tax information is not only exchanged multilaterally, but also automatically, i. e. without the need of a specific request. This phenomenon is denominated “automatic exchange of information” (“AEOI”). The OECD describes the CRS as drawing ‘‘extensively on the intergovernmental approach to implementing FATCA with a view of maximizing efficiency and reducing cost for financial institutions.’’ FATCA thus initially facilitated efforts at multilateral information exchange. (9) For example, the G-5 announced that they would have exchanged information multilaterally based on the U.S. model IGA. Likewise, official statements from the EU considered FATCA as providing a unique opportunity to move from a series of bilateral agreements to a multilateral system. The EU has actively participated in the development of AEOI, being a precursor in its multilateral dimension. Already in 2001 the EU introduced the legal basis for tax information exchange between Member States with Directive 2011/16/EU on Administrative Cooperation (DAC1) (10) which superseded the Mutual Assistance Directive (77/799/EEC). DAC1 introduced AEOI as the standard of tax information exchange within the EU. In fact DAC1 pro-
(8) On the OECD campaign see: X. Oberson, “The OECD Model Agreement on Exchange of Information – A Shift to the Applicant State”, (2003) 57 Bulletin for International Taxation 14; D. Spencer, “International tax cooperation: centrifugal vs. centripetal forces (part 1)”, (2010) 21 Journal of international taxation 38; D. Spencer, “International tax cooperation: centrifugal vs. centripetal forces (part 2)”, (2010) 22 Journal of international taxation 46. See M. Stewart, “Transnational Tax Information Exchange Networks: Steps Towards a Globalized, Legitimate Tax Administration”, (2012) 4 World Tax Journal 161. (9) J. Heiberg, “FATCA: Toward a Multilateral Automatic Information Reporting Regime”, (2012) 69 Washington & Lee Law Review 1685; M. Stewart, “Transnational Tax Information Exchange Networks: Steps Towards A Globalized, Legitimate Tax Administration”, (2012) 4 World tax Journal 152. (10) Council Directive 2011/16/EU of 15 February 2011 on administrative cooperation in the field of taxation and repealing Directive 77/799/EEC, (2011) OJ L 64/1
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vides three types of exchange of information: 1. on request: a requesting State requests specific information from a requested State in a specific case, Article 3(8); 2. automatic: a State is bound to systematically exchange predefined tax information (in bulk) with any other State at pre-established regular intervals, Article 3(9); and 3. spontaneous: a sending State exchanges information at any time and on a non-systematic basis with a recipient State without prior request, Article 3(10). Directive 2014/107/EU (DAC2) amended Directive 2011/16/EU and committed Member States to automatic exchange of financial account information (11). Directive 2015/2376/EU (DAC3) further amended existing provisions and included advance cross-border rulings and advance pricing arrangements to the list of data subject to AEOI. (12) The Council then adopted DAC4 during the ECOFIN meeting of 25 May 2016 which extended AEOI to country-by-country reports in 2016 (13). DAC 5 covered the theme of accessing to anti-money-laundering information by tax authorities. (14) Finally DAC6 imposed on intermediaries monitoring tasks on aggressive crossborder transactions having certain “hallmarks� (15) The EU developments described above have adopted AEOI as the standard by which Member States exchange tax information. to identify and block tax evasion and avoidance. Through numerous updates, DAC 1-6 expanded to cover areas considered important in achieving this goal, namely tax rulings, country-by-country reports and intermediaries tax planning schemes.
(11) Council Directive 2014/107/EU of 9 December 2014 amending Directive 2011/16/ EU as regards mandatory automatic exchange of information in the field of taxation, (2014) OJ L 359/1 (12) Council Directive 2015/2376/EU of 8 December 2015 amending Directive 2011/16/ EU as regards mandatory automatic exchange of information in the field of taxation, (2015) OJ L 332/1 (13) Council Directive (EU) 2016/881 of 25 May 2016 amending Directive 2011/16/EU as regards mandatory automatic exchange of information in the field of taxation, (2016) OJ L 146/8 (14) Council Directive (EU) 2016/2258 of 6 December 2016 amending Directive 2011/16/ EU as regards access to anti-money-laundering information by tax authorities, (2016) OJ L 432/1 (15) Council Directive (EU) 2018/822 of 25 May 2018 amending Directive 2011/16/EU as regards mandatory automatic exchange of information in the field of taxation in relation to reportable cross-border arrangements (2018) OJ L 139/1
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2. Fatca and the intergovernmental agreements in the EU. – In this scenario, a mechanism to apply FATCA in the EU was needed. to address this problem the I.R.S. issued the “proposed regulations to implement FATCA” in february 2012, (16) and it was apparent that ffis would have encountered problems in directly implementing the required due diligence procedures, in particular considering constraints posed by local national laws. So, the I.R.S. developed the idea that FATCA should be implemented through intergovernmental agreements (“IGAS”). on January 17, 2013, the I.R.S. issued the final FATCA Regulations (17) (the “final regulations”) which confirmed IGAs as the preferred mode towards the multilateral adoption of FATCA. According to the preamble of the Final Regulations: “the Treasury Department and the I.R.S. believe that IGAs represent efficient and effective ways of implementing the requirements of FATCA and will continue to conclude bilateral agreements based on the two models with interested jurisdictions. In addition, the Treasury Department and the I.R.S. continue to receive comments strongly supporting the approach to FATCA implementation embodied in the IGAs. The Treasury Department and the I.R.S. remain committed to working cooperatively with foreign jurisdictions on multilateral efforts to improve transparency and information exchange on a global basis.” In 2012, the U.S. government reported that it was negotiating with EU Member States a model through which IGAs would have been subsequently drafted, for an efficient implementation of FATCA (hereinafter “Joint Statement”). (18) This Joint Statement was signed by France, Germany, Italy, Spain, the United Kingdom and the U.S., and its purpose was to “address (...) legal impediments to compliance, simplify practical implementation, and reduce FFI costs.” Furthermore, the statement provided that the participating countries would facilitate the implementation of FATCA by amending their existing legislation, eliminating the barriers that opposed FFIs from proper-
(16) See: REG-121647-10, 77 Fed. Reg. 9022 (Feb. 15, 2012), available at: http://www. irs.gov/pub/newsroom/reg-121647-10.pdf. (17) TD 9610 (Jan. 17, 2013), 78 Fed. Reg. 7874 (Jan. 28, 2013), available at: http://www. irs.gov/PUP/businesses/corporations/TD9610.pdf. (18) See: U.S. Treasury Department, “Joint Statement from the United States, France, Germany, Italy, Spain and The United Kingdom Regarding an Intergovernmental Approach to Improving International Tax Compliance and Implementing FATCA”, Press Release (Washington: U.S. Treasury Department, 2012), available at: http://www.treasury.gov/resource-center/ taxpolicy/treaties/Documents/FATCA-Joint-Statement-US-Fr-Ger-It-Sp-UK-02-07-2012.pdf.
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ly complying with the due diligence requirements and from being unable to transfer the required data to the U.S.” The framework that derived from the Joint Statement is denominated as the Model 1 Intergovernmental Agreement (“Model 1 IGA”). According to Model 1 IGA, financial entities willing to comply with FATCA report the required data to the country where they reside (“FATCA Partner”) which has the duty to provide the data to the U.S. regarding accounts held by U.S. Persons or by foreign entities controlled by U.S. Persons, including the U.S. taxpayer identification numbers of such persons, and payments made to non-participating FFIs. Moreover, according to the Joint Statement, the six participating countries agreed to: “a. Commit to develop a practical and effective alternative approach to achieve the policy objectives of pass through payment withholding that minimizes burden; b. commit to working with other FATCA partners, the OECD, and where appropriate the EU, on adapting FATCA in the medium term to a common model for automatic exchange of information, including the development of reporting and due diligence standards.” Under Model 1 IGAs, FFIs report the personal financial information required by FATCA to their national governments, rather than directly to the I.R.S. This increases efficiency by use of one national IGA versus many IGAs with many same-country FFIs and prevents the problem of national FFIs reporting their clients’ personal information directly to the U.S., a foreign government. FFIs located in Model 1 IGAs partner jurisdictions need not enter into separate FFI agreements with the U.S. in order to avoid the withholding tax. The U.S. entered into the first Model 1 IGA with the United Kingdom, and several more have followed. Under Model 1 IGA the enforcement of the IGA provisions is guaranteed by the FATCA Partner’s own law, which essentially imposes that FFIs comply through the enforcement of sanctions. After a first warning, non-complying FFIs are given up to 18 months to solve the problem and abide to the IGA provisions. After that the I.R.S. may deem the FFI as noncompliant and list it among the non-participating financial entities. Model 1 IGAs can be either reciprocal or non-reciprocal. Reciprocal Model 1 IGAs require a dual exchange of information between the FATCA Partner and the U.S. Under such agreement there is reciprocal automatic exchange of information because the U.S. administration is expected to obtain and share with the FATCA Partner the information equivalent to that required by the
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U.S. under FATCA. (19) This mutual exchange of financial information under reciprocal Model 1 IGAs went into effect October 2015. Non-reciprocal Model 1 IGAs do not contemplate this kind of reciprocity. Reciprocal Model 1 IGAs are reserved to countries that have an existing TIEA or a tax treaty with the U.S., and for which the Treasury Department and the I.R.S. have determined the government has sufficient protections to ensure the information remains confidential and is used solely for tax purposes. France, Germany, Italy, Spain, and the United Kingdom and the European Commission cooperated with the U.S. to develop the Model 1 IGA. On November 14, 2012, the Treasury Department issued a second model of IGA, referred to as Model 2 Intergovernmental Agreement (“Model 2 IGA”). (20) Under such model, the FATCA Partner agrees to amend its laws so that FFIs willing to become participating FFIs are able to “register and comply with the requirements of an FFI Agreement, including due diligence, reporting, and withholding.” Model 2 IGA does not entail information gathering and reporting by the FATCA Partner, but requires complying FFIs to stipulate reporting agreements directly with the I.R.S. Therefore, such system allows financial entities to enter into an an agreement directly with the I.R.S. to comply with the FATCA reporting, without the intervention of the FATCA Partner contemplated by the Model 1 IGA. This non-reciprocal IGA can be applied irrespectively from the fact that the relevant countries have an existing TIEA or a tax treaty with the U.S. The exchange of information under Model 2 IGA is more complex than the exchange under Model 1 IGA (21) essentially because a FFI must seek the consent of the account-holder or non-participating FFI to disclose the reportable information to the I.R.S. For persons that fail to provide their consent (‘Non-consenting Persons’), the FFI is required to report aggregate account
(19) See: U.S. Treasury Department, “Reciprocal Model 1 IGA”, available at: http:// www.treasury.gov/resource-center/tax-policy/treaties/Documents/FATCA-Reciprocal-Model1AAgreement-Preexisting-TIEA-or-DTC-8-19-13.pdf. (20) See: U.S. Department of Treasury, “Model 2 IGA”, available at: http://www.treasury. gov/resourcecenter/tax-policy/treaties/Documents/FATCA-Model-2-Agreement-PreexistingTIEA-or-DTC-8-19-13.pdf. (21) See: P. M. Schmidt and M. W. Nydegger, “FATCA Intergovernmental Agreements – The Model 2 Agreement and Final Regulation”, (2013) 30 Journal of Taxation of Investments 25; R. J. Holst, J. Lee-Lim and W. Lu, “Intergovernmental Agreements Under FATCA: Comparing the Two Models”, (2013) Latham and Watkins LLP. Available at: http://www.lw.com/ thoughtLeadership/intergovernmental-agreements-under.
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information. The I.R.S. can then make a group request about such Non-consenting Persons from the FATCA Partner under an income tax treaty or a TIEA. A FFI generally will be prohibited from opening a new account or entering into a new obligation with a Non-consenting Person. Model 2 IGA provisions are enforced through direct cooperation between the I.R.S. and the FFI. Model 2 IGAs require agreements with each individual FFI, do not require reciprocal exchange of information like reciprocal Model 1 IGAs, and do not contemplate the handling of personal information by the FATCA Partner, i.e. the local governments. However if the I.R.S. needs additional information about a taxpayer, it can request that the FATCA Partner in question take action to enforce the reporting of this information and this lead to the rise of administrative costs. Moreover the I.R.S. reports the possible non-compliance of the FFI to the foreign country and then the FFI will be granted 12 months to rectify the reporting. Model 1 and Model 2 IGA share common features. Both models have an Annex II, which is a list of financial institutions and products that are generally exempt from FATCA reporting because they represent a low risk of tax evasion for U.S. Persons. Under both IGAs Model 1 and 2, the due diligence procedures imposed on FFIs are indicated in the first Annex to the agreement. These annexes include detailed explanations on the procedures that financial institutions willing to comply with the reporting requirements imposed by FATCA need to perform. Under both types of agreements, FFIs may choose to submit to the due diligence requirements imposed by the Final Regulations issued by the Treasury Department instead of submitting to the requirements listed in Annex I and mentioned above. Finally, under both models, FFIs that respect the provisions of the IGA are exempted from the FATCA withholding on payments. An FFI that does not comply with the reporting requirements of the IGA can be subject to the withholding only if it has been comprised by the U.S. administration in a list of the non-complying financial entities. A relevant issue is whether the IGAs truly are international agreements, because in such case, through implementation at national level they formally become part of the law of Member States and subject to EU law. The IGAs are “executive agreements” which do not require in the U.S. the normal process of ratification for international agreements, (22) so once
(22) Article II, section 2, clause 2 of the U.S. Constitution provides: “He the President shall have power, by and with the advice and consent of the Senate, to make treaties, provided
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the domestic proceedings in each country have been accomplished a written notice replaces the exchange of ratifications. Under the IGAs the information required by FATCA is provided from the FATCA Partner to the U.S. through the existing tax treaty (Article 26) or TIEA which provide the legal basis for the information exchange. This implies that the treaty limits to the exchange of information under these instruments must be respected (e.g., that the information is exchanged to the extent this is “foreseeable relevant” or the general prohibition to make fishing expeditions, and so on). Accordingly, the position of the I.R.S. is that IGAs are not sole executive agreements but rather treaty-based agreements (23) The U.S. characterization of IGAs is actually debated. There has been no official pronouncements by the U.S. Treasury Department about the nature of international agreements of these instruments. The constitutionality of FATCA IGAs was one of the issues of the case of Crawford v. U.S. (the other main issue being whether FATCA violated an individual’s right to privacy). The case was dismissed because the Court found that several of the plaintiffs lacked standing and a preliminary injunction would be too harmful to FATCA’s fight against tax evasion. (24) As a general principle in the U.S. executive agreements are not technically treaties because they are not established with the advice and consent of the Senate (U.S. Const. Article II. § 2, cl. II) and should be used only when the President conducts administrative routine matters such enforcement of FATCA for administrative purposes. (25) What in practice has occurred in the U.S. is that IGAs have been approved avoiding the first step in the normal treaty process in the U.S., which is the review by the Senate Foreign Relations Committee. This practice however
two thirds of the Senators present concur …”. (23) A. Christians, “I.R.S. Brushes Aside the Constitution to Make Way for FATCA”, (2013) available at http://www.lexisnexis.com/legalnewsroom/tax-law/b/fatcacentml/archive/2013/03/05/irs-brushes-aside-the-constitution-to-make-way-for-fatca.aspx. (24) Crawford v. United States, No. 3:15-CV-00250 (S.D. Ohio Apr. 25, 2016). See U.S. Court Flatly Denies Claims of Injury Under FATCA, “TAX-EXPATRIATION” (2015), available at http://tax-expatriation.com/2015/10/01/u-s-district-court-flatly-denies-claims-ofinjury-under-fatca-and-title-31-fbar-reporting-requirements-upholds-fatca-igas-and-the-fbarrequirements-to-encourge-tax-complianceand- combat-tax-eva/ (25) For a full discussion on why IGAs cannot be considered treaty-based agreements, see A. Christians, “The Dubious Legal Pedigree of IGAs (And Why It Matters)”, (2013) 69 Tax Notes International 565
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does not necessarily imply that IGAs are not international agreements: in the U.S the power to “lay and collect taxes” is a power of Congress, not the President (U.S. Const. Article I, § 8), while the power to make treaties is a power of the President, but can only be validated by a two-thirds concurrence of the Senate (U.S. Const. Article II. § 2, cl. II). IGAs touch on both of these powers because facilitates the collection of taxes through the existing tax treaties and certainly exceed routine administrative matters, so IGAs cannot be sole executive agreements. On the EU side the FATCA Partners recognize the IGAs as truly international agreements, as they predominantly have adopted them through normal formal proceedings of approval. This means that IGAs become part of the domestic laws of the Member States, that is they derogate conflicting domestic law, effective at the moment of their implementation. A relevant question is whether FATCA provisions, which legally are statutory provisions of a non-EU sovereign State that are effectively applied within the EU by FFIs and their account-holders, are subject to EU law also when there is no IGA. Here one should note that even when there is no IGA the FFI located in the EU concludes with the I.R.S. a FFI agreement, pursuant to which the FFI registers with the I.R.S. and commits to report FATCA information regarding; such an agreement, in respect to relevant “public order” issues and fundamental rights such as data protection, is subject to the law of EU Member States and therefore to EU law as well, if relevant. FATCA is an instance of so the called “extraterritorial prescriptive/legislative jurisdiction”. In very general terms “jurisdiction” is the power of a State to exercise authority over all persons and entities within its territory and is closely related to State sovereignty. A State can exercise it legislative powers, and in doing so a State has in theory unlimited prescriptive jurisdiction so that its legislative branch can create, amend or repeal legislation covering any subject or any person, irrespective of the person’s nationality or location. The ICJ stated that “In these circumstances all that can be required of a State is that it should not overstep the limits which international law places upon its jurisdiction; within these limits, its title to exercise jurisdiction rests in its sovereignty (para 47 of the Lotus case).” At the same time, international law does not allow a State to enforce its legislation outside its territory without an international agreement or a rule of customary international law permitting the State to do so. So, the legitimacy of extraterritorial prescriptive jurisdiction relies on a genuine link established by the State that exercises that jurisdiction which
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does not exceeds the “limits of international law”, while effective enforcement requires cooperation by other States. In the case of FATCA the U.S., on the basis of its national interest, imposes obligations on FFIs around the world requiring them to report data for each account-holder that is a U.S. Person, and to withhold 30 percent on certain payments to recalcitrant account-holders and other financial institutions that do not comply with FATCA. So correctly the FATCA system has been referred to as “the most extensive extraterritorial reach of U.S. tax enforcement in history.” (26) In addition, FATCA has a “unilateral nature” because it is the result of a strategy originally conceived by the U.S. and only subsequently reflected in bilateral IGAs between the U.S. and other countries. FATCA is a unilateral strategy because its main goal is to make available to the I.R.S. information about U.S. taxpayers, through third parties (FFIs), without the cost of offering them incentives as it occurred in the QI system, but simply relying on the threat of a withholding tax enforceable in the U.S. Under FATCA the U.S. administration is unilaterally demanding information from FFIs irrespectively from the operation of local laws and is placing the costs on them. (27) FATCA allows the U.S. to: 1. force FFIs to act as reporting agents for the U.S. I.R.S.; 2. obtain extensive financial and personal information in respect of non-U.S. resident taxpayers (including persons who have no tax payment obligations to the U.S.); 3. enforce the extraterritorial U.S. taxation of citizens on their worldwide income. Finally, FATCA is not effectively based on “reciprocity”. FATCA is implemented through Model 1 or Model 2 IGAs. Model 2 IGAs are non-reciprocal because FFIs willing to comply with the FATCA are able to conclude directly with the I.R.S. an FFI Agreement to comply with the required reporting, without the intervention of the FATCA Partner, while there is no equivalent obligation on the U.S. Also Model 1 IGAs can be concluded in a non-reciprocal form. Finally, Model 1 IGAs even when are formally concluded in a reciprocal form are effectively non-reciprocal. A detailed analysis of text of the Model 1 Agreement in fact shows that the task imposed by the U.S. on
(26) See: S. D. Michel and H. D. Rosenbloom, “FATCA and Foreign Bank Accounts: Has the U.S Overreached?”, (2011) 62 Tax Notes International 709. (27) See: D. Mitchell and B. Garst, “Die Zwei Gesichter Amerikanischer Steuerpolitik”, (2013) Schweizer Monat. Available at: http://www.schweizermonat.ch/artikel/die-zweigesichter-amerikanischersteuerpolitik.
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the IGA Partner are not reciprocal because only in a few instances the flow of information goes both ways. (28) Moreover, in certain cases IGAs include an Enabling Clause that forces the IGA Partner to enact a new law that allows its financial institutions to legally breach domestic laws (such as the banking secrecy principle) without encountering penalties, or an Inconsistency Clause that provides that the IGA provisions prevail on domestic laws the IGA Partner in case of conflicts. The Enabling Clause and Inconsistency Clause generally do not impose similar obligations (if applicable) on the U.S. and so represent an example of a lack of reciprocity. In practice IGA Partners get nothing in return for their concessions, other than relief of the threatened 30% withholding tax under FATCA. Finally, the U.S. announced that it will not be joining the CRS, an instrument that acknowledges reciprocal AEOI on a multilateral basis. This contingent non-reciprocal nature of IGAs conflicts with the initial position of the U.S.: when EU Member States negotiated their IGAs with the U.S. expressed concerns about extraterritorial overreach, and the U.S. promised to work towards reciprocal information sharing under FATCA. So, there are arguments to consider that the IGAs lack a serious level of reciprocity, imposing more liabilities for the IGA Partners than for the U.S. in the exchange of information, while IGAs should be genuinely based on reciprocity in ensuring that both contracting parties gain mutual benefits through cooperation. In the absence of reciprocity, the U.S. can position itself to gain from the very behaviour (the resistance to share information with other countries) it seeks to eliminate in other jurisdictions. In conclusion, IGAs FATCA amounts to the unilateral exercise of extraterritorial legislative jurisdiction in most cases not based on reciprocity. 3. The guidelines of the European Data Protection Supervisor. – The unilateral extraterritorial reach FATCA through IGAs and the lack of reciprocity tend to create systemic negative externalities in the form of costs for the financial industry combined with a disincentive towards foreign investments in the U.S.. Other negative externalities are those that affect certain U.S. citizens who have been denominated “Accidental Americans”. These individuals are
(28) A. Christians, “What You Give and What You Get: Reciprocity Under a Model 1 Intergovernmental Agreement on FATCA”, (2013) 31 Cayman Fin. Rev. Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=2292645
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currently citizens and/or tax-residents of EU countries, but had automatically acquired U.S. citizenship at birth by being born on U.S. soil, and who retain no ties to the U.S. Two main FATCA problems arise for these individuals: first they were denied banking services by financial institution in the EU because of FATCA-based costs; second, they were subject to U.S. onerous compliance which is not proportionate to their actual situation of EU law-abiding citizens. The most important negative externalities are however those that impact not only on national laws of EU Member States but also on certain aspects of EU law itself. The flow of information from EU financial institutions directly to the I.R.S. that is required by FATCA in fact violates a number of laws (especially banking laws) in the EU. The U.S. has requested changes to these laws and EU Member States sought to accommodate these requests in the form of a IGAs. But the problem is that IGAs are international agreements and therefore they become part of the domestic laws of the Member States, and so are indirectly are subject to EU law constraints. As a consequence, the extraterritorial nature of FATCA, in addition to conflict with local laws, also triggers systemic conflicts with different levels of EU law. There are two main instances in which FATCA via IGAs conflicts with EU law: in the former situation FATCA Data are retained and transmitted by FFIs and create an issue of procedural safeguards and data protection, while in the latter situation data are not acquired by FFIs who refuse to provide services, and in this situation the FATCA impact may directly infringe on substantive rights of individuals such as Accidental Americans. The focus of the analysis that follows here is on the former situation and on issues of data protection from an EU perspective. European data protection authorities have long been attentive to the data protection issues raised by the automatic exchange of personal data for tax purposes. The Article 29 Working Party (“WP29�), (29) which preceded the European Data Protection Board, has taken several actions in the past with regards to the automatic exchange of personal data for tax purposes and more
(29) The Article 29 Working Party is an advisory body made up of a representative from the data protection authority of each EU Member State, the European Data Protection Supervisor and the European Commission.
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specifically with regard to the FATCA in two letters published on 21 June 2012 (30) and on 1 October 2012 (31). The remark that FATCA restrictions do not constitute “necessary and proportionate measures” were already advanced by the WP29 in the letter of 21 June 2012 addressed to the European Commission, in which the WP29 stated: “… FATCA must be mutually recognized as necessary from an EU perspective. This requires … a careful assessment of how FATCA’s goals balance with that of … the right to a private and family life, i.e. by demonstrating necessity by proving that the required data are the minimum necessary in relation to the purpose A bulk transfer and the screening of all these data is not the best way to achieve such a goal”. In 2012 the WP29 advised that “more selective, less broad measures should be considered in order to respect the privacy of law-abiding citizens, particularly; an examination of alternative, less privacy-intrusive means must to be carried out to demonstrate FATCA’s necessity” and highlighted that the legitimate goal of the U.S. government to ensure tax compliance, “must be done in accordance with the Directive, respect for Article 8 of the Charter of Fundamental Rights and Convention for the protection of individuals with regard to automatic processing of personal data” and that “in the absence of a lawful basis to legitimise the processing required, WP29 does not see how compliance of FATCA and the Directive could be simultaneously achieved”. The WP29 in that occasion concluded that “without an appropriate legal basis justifying both sets of obligations imposed on European FFIs would result in the unlawful processing of personal data”, and that “since EU/national data protection laws do not allow for FFIs to process the personal data required under FATCA and transmit them to the U.S., a solution is required that will provide a legal basis for the processing and subsequent transfer from the EU to the U.S., whilst avoiding legal uncertainty for data controllers. The WP29 also stressed that “only a binding agreement can be considered as providing the appropriate legal framework for allowing data controllers to collect and transfer the data referred to in the FATCA.”
(30) Letter of the Chair of the ART 29 WP to the Director General of Taxation and Customs Union 01 October 2012 (31) Letter of the Chair of the ART 29 WP to the Director General of Taxation and Customs Union 01 October 2012
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In conclusion, the letter made the argument that the personal data processing required by FATCA had no legal basis within EU or national law of a Member State and that this absence could lead to national data protection authorities prohibiting the data processing in question. Similarly, in a letter of 18 September 2014, the WP29 underlined that: “… it is necessary to demonstrably prove the necessity of the foreseen processing and that the required data are the minimum necessary for attaining the stated purpose”. It also observed that: “The practical roll-out of CRS in Europe based on existing FATCA solutions currently lacks adequate data protection safeguards, notwithstanding the EU proposed to amend the Directive 2011/16/EU regarding mandatory automatic exchange of information in the field of taxation. This Directive – which could be considered as transposition of the U.S. FATCA and CRS in EU law – so far falls short of data protection safeguards” Subsequently the WP 29 in the letter of 1 October 2012 clarified that whilst the provisions in the Model I IGA are welcome, the WP 29 is not in a position to advise the Commission on whether the provisions in the tax treaties or the Model I IGA is of the highest standard, best practice or even sufficient. In 2015 the WP29 issued a statement on automatic inter-state exchanges of personal data for tax purposes (WP 230 - 4 February 2015) and guidelines for Member States on the criteria to ensure compliance with data protection requirements in the context of the automatic exchange of personal data for tax purposes (WP 234 - 16 December 2015). The situation further escalated because of the situation of Accidental Americans who have beed active on this matter. In 2018 the WP29 addressed a letter to the Association of Accidental Americans (8 February 2018) with regards to the scope of application of the FATCA legislation and relevant data protection issues (32). Topical developments further occurred in 2018. First at the beginning of May the Committee on Petitions of the European Parliament was seized with a petition from a collective of European citizens raising concerns about the adverse effects of FATCA, IGAs and the extraterritorial impact of citizenship-based taxation (CBT). Second the Regulation (EU) 2016/679 of the European Parliament and of the Council of 27 April 2016 (General Data Protection Regulation, the “GDPR”) entered into force on May 25, 2018 repealing
(32) Letter of the Chair of the ART 29 WP to collective of European “Accidental Americans” 08 February 2018
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the pre-existing Data Protection Directive and providing that references to that repealed Directive will be construed as references to the GDPR once the latter comes into force (33). Third, further to the position expressed by the Committee on Petition of the European Parliament and in light of the GDPR, the European Parliament adopted a resolution of 5 July 2018 in which – in addition to addressing substantial rights of Accidental Americans – essentially advised five actions in relation to FATCA data. First, the Parliament stressed the importance of providing an adequate level of protection for personal data transferred to the U.S. under FATCA, in full compliance with national and EU data protection law; called on the Member States to review their IGAs and to amend them, if necessary, in order to align them with the rights and principles of the GDPR; urged the Commission and the European Data Protection Board to investigate without delay any infringement of EU data protection rules by Member States whose legislation authorises the transfer of personal data to the I.R.S. for the purposes of FATCA, and to initiate infringement procedures against Member States that fail to adequately enforce EU data protection rules. Second, the Parliament called on the Commission to conduct a full assessment of the impact of FATCA and the U.S. extraterritorial practice on EU citizens, EU financial institutions and EU economies, taking into account ongoing efforts in France and other Member States, and to explain if a serious discrepancy exists between EU citizens and/or residents in different Member States, especially as regards EU data protection rules and fundamental rights standards as a result of FATCA and ‘U.S. indicia’. The Parliament also called on the Commission to conduct a comprehensive assessment of the status of FATCA reciprocity, or the lack thereof, across the EU, and compliance by the U.S. with its obligations under the various IGAs signed with Member States. Third, the Parliament called on the Commission to assess and, if necessary, take action to ensure that the EU fundamental rights and values enshrined in the Charter of Fundamental Rights and the European Convention on Human Rights, such as the right to privacy and the principle of non-discrimination, as
(33) Article 94 - Repeal of Directive 95/46/EC - 1. Directive 95/46/EC is repealed with effect from 25 May 2018. 2. References to the repealed Directive shall be construed as references to this Regulation. References to the Working Party on the Protection of Individuals with regard to the Processing of Personal Data established by Article 29 of Directive 95/46/EC shall be construed as references to the European Data Protection Board established by this Regulation.
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well as EU data protection rules, are respected in the context of FATCA and the AEOI with the U.S.. An additional important political dimension of the resolution of 5 July 2018 is that the Parliament regretted the inherent lack of reciprocity of IGAs signed by Member States, especially in terms of the scope of information to be exchanged, which is broader for Member States than it is for the U.S. and called on all Member States to collectively suspend the application of their IGAs (or the sharing of all information other than that in respect of accounts held in the EU by U.S. citizens resident in the U.S.) until such time as the U.S. agrees to a multilateral approach to AEOI, by either repealing FATCA and joining the CRS or renegotiating FATCA on an EU-wide basis and with identical reciprocal sharing obligations on both sides of the Atlantic. Consequently the Parliament (i) called on the Commission and the Council to present a joint EU approach to FATCA in order to adequately protect the rights of European citizens (in particular ‘Accidental Americans’) and improve equal reciprocity in the AEOI by the U.S., and (ii) called on the Council to mandate the Commission to open negotiations with the U.S. on an EU-U.S. FATCA agreement, with a view to ensuring the full reciprocal exchange of information, upholding the fundamental principles of EU law, as well as the Payment Accounts Directive, and allowing EU ‘Accidental Americans’ to relinquish their unwanted U.S. citizenship on a no-fees, no-filings, no-penalties basis. The last chapter of the evolution of the FATCA saga was the Statement 01/2019 on the U.S. FATCA adopted by the European Data Protection Supervisor (“EDPS”) (34). The EDPB made reference to the European Parliament resolution of 5 July 2018, and took charge of the call made to it to review the existing data protection safeguards under the legislation authorising the transfer of personal data to the I.R.S. for the purposes of the FATCA, informing the public that it has initiated work on the preparation of guidelines that will provide information to interested stakeholders on the elaboration of transfer tools based on Articles 46 (2) (a) and 46 (3) (b) of the GDPR. The guidelines should be adopted by the EDPB before the end of 2019 The reference by the EDPB to Articles 46 (2) (a) and 46 (3) (b) of the GDPR requires some explanation within the context of Chapter V of the
(34) EDPS is an independent supervisory authority whose primary objective is to ensure that European institutions and bodies respect the right to privacy and data protection.
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GDPR relating to transfers of personal data to third countries or international organizations. The logic of these transfers is elucidated by Article 45 (titled “Transfers on the basis of an adequacy decision”): a transfer of personal data to a third country – such as FATCA Data – or an international organisation may take place where the Commission has decided that the third country, a territory or one or more specified sectors within that third country, or the international organisation in question ensures an “adequate level of protection”. In such a case the a transfer shall not require any “specific authorisation” (Article 45(1)). Article 45(3) further provides that the Commission, after assessing the adequacy of the level of protection, may decide, by means of implementing act, that a third country, a territory or one or more specified sectors within a third country, or an international organisation ensures an adequate level of protection within the meaning of paragraph 2 of this Article. The implementing act shall provide for a mechanism for a periodic review, at least every four years, which shall take into account all relevant developments in the third country or international organisation. The implementing act shall specify its territorial and sectoral application and, where applicable, identify the supervisory authority or authorities referred to in point (b) of paragraph 2 of this Article. The implementing act shall be adopted in accordance with the examination procedure referred to in Article 93(2). By contrast, Article 46 focuses of transfers subject to appropriate safeguards. Article 46 (1) specifically provides that in the absence of a decision pursuant to Article 45(3) – i.e. a decision by the Commission ensuring an adequate level of protection - a controller or processor may transfer personal data to a third country or an international organisation only if the controller or processor has provided appropriate safeguards, and on condition that enforceable data subject rights and effective legal remedies for data subjects are available. Article 46 (2) (a) referenced by the EDPB provides that the appropriate safeguards of Article 46(1) may be provided for, without requiring any specific authorisation from a supervisory authority, by a legally binding and enforceable instrument between public authorities or bodies. In the case of FACTA it appears that such legal instrument in fact would be IGAs, provided that they comply with the guidelines to be issued by the EDPB; this probably implies that existing IGAs will need to be renegotiated and amended to comply with such guidelines without the need of specific authorisation from a supervisory authority.
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By contrast, when there is a specific authorisation from a supervisory authority, Article 46 (3) (b) referenced by the EDPB provides that, the appropriate safeguards of Article 46 (1) may also be provided for by provisions to be inserted into administrative arrangements between public authorities or bodies which include enforceable and effective data subject rights, subject to the authorisation from the competent supervisory authority. In the case of FACTA it appears that such administrative arrangements in fact would be special agreements to be concluded by FFIs and the I.R.S provided that they comply with the guidelines to be issued by the EDPB; this probably implies that existing agreements between FFIs and the I.R.S under IGAs2 will need to be renegotiated and amended to comply with such guidelines and then authorised by the competent supervisory authority. So, the EDPB correctly stated that the guidance will include: 1) information on the minimum guarantees to be included in IGAs, that is legally binding and enforceable instruments concluded between public authorities and bodies (46 (2) (a)), and 2) provisions to be inserted into agreements between FFIs and the I.R.S, i.e. administrative arrangements between public authorities or bodies which include enforceable and effective data subject rights (46 (3) (b)). 4. The right of FATCA data protection under the GDPR. 4.1. General overview. – The EDPB guidelines will certainly play an important role, but it is necessary also to evaluate how and to what extent the system of rules introduced by the GDPR can contribute to the resolution of the problem of FATCA Data. The Data Protection Directive limited itself to set guidelines for national legislators of Member States in respect to data protection, while the GDPR contains legal binding rules and must be applied in its entirety across the EU. The GDPR establishes a consistent and equivalent level of protection for natural persons across the EU, overcoming the fragmentation in implementation of data protection and is an upgrade in comparison to the Data Protection Directive. The GDPR fills the gap that grew in the last decade, when the powers of tax administrations increased through EU legislation concerning AEOI and IGAs and escalated driven by digital technologies, while at EU level data
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protection did not really follow suit. (35) Data protection rights in taxation matters remained insufficiently safeguarded in EU legislation on AEOI in taxation matters, as remarked by the EDPS, the WP29, and the Commission Expert Group on automatic exchange of financial account information (AEFI Group) (36). Now the GDPR systematizes these rights and establishes a fundamental right, separate and distinct from the right to privacy: the right to data protection which is enshrined in several EU legal sources (37). Article 16 of the Treaty on the Functioning of the European Union (TFEU) grants ‘the right to the protection of personal data in two paragraphs. While the first paragraph declares the right explicitly, the second requires that relevant EU institutions lay down specific rules in relation to protection of the right. The Data Protection Directive was adopted in accordance with this provision and the GDPR sets aside a dedicated chapter titled ‘Rights of the data subject’. The GDPR more specifically addresses the lack of detailed rules on right of taxpayers to the protection of their data vis-à-vis the expansion of the power of tax administrations by way of AEOI and FATCA. The insufficient guarantee of taxpayers’ rights not only poses an imminent threat to the status of tax payers under AEOI, but also potentially diminishes the validity of AEOI as an international standard. Article 1 in fact provides that the GDPR lays down rules relating to the protection of natural persons with regard to the processing of personal data and rules relating to the free movement of personal data and protects fundamental rights and freedoms of natural persons and in particular their right to the protection of personal data. The GDPR applies to FACTA Data as its material scope is “the processing of personal data wholly or partly by automated means and to the processing other than by automated means of personal
(35) See: M. Somare and V. Wöhrer, “Automatic Exchange of Financial Information under the Directive on Administrative Cooperation in the Light of the Global Movement towards Transparency”, (2015) 43 Intertax 804 (36) The AEFI Group assists the Commission to ensure the effectiveness of EU legislation on the automatic exchange of financial account information for direct taxation purposes. This work also includes the alignment of existing EU legislation in AEOI with the OECD global standard on automatic exchange of information of financial account information. (37) See A. Aikaterini and V. Wöhrer, “Data Protection and Taxpayers’ Rights: Challenges Created by Automatic Exchange of Information”, (2019) 47 Intertax 335; see also K. Blaise, “Personal data protection rights within the framework of international automatic exchange of financial account information”, (2018) 58 European Taxation Journal 354.
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data which form part of a filing system or are intended to form part of a filing system in the context of the activities of an establishment of a controller or a processor in the Union, regardless of whether the processing takes place in the Union or not.” The GDPR explicitly recognizes data protection as a right, while the Data Protection Directive mainly adopted ‘the right to privacy’ approach. So, in the case of tax AEOI and FATCA, the protection of taxpayers does not only includes the right to privacy, but also the right to data protection, another fundamental right, separate and distinct from the right to privacy. In particular Articles 12 to 22 and Article 34 provide a set of explicit rights of the data subject, while Article 5 of the GDPR provides a set of principles relating to processing of personal data under FATCA. According to Article 5 such personal data shall be: (a) processed lawfully, fairly and in a transparent manner in relation to the data subject (‘lawfulness, fairness and transparency’); (b) collected for specified, explicit and legitimate purposes and not further processed in a manner that is incompatible with those purposes; (‘purpose limitation’); (c) adequate, relevant and limited to what is necessary in relation to the purposes for which they are processed (‘data minimisation’); (d) accurate and, where necessary (‘accuracy’); (e) kept in a form which permits identification of data subjects for no longer than is necessary for the purposes for which the personal data are processed (‘storage limitation’); (f) processed in a manner that ensures appropriate security of the personal data, including protection against unauthorised or unlawful processing and against accidental loss, destruction or damage, using appropriate technical or organisational measures (‘integrity and confidentiality’). Article 6 of the GDPR at letters (e) and (f) in particular mandates that processing of FATCA Data shall be lawful only if the processing is necessary for the performance of a task carried out in the public interest or in the exercise of official authority vested in the controller. In particular it is mandated by Article 6 that processing of FATCA Data is necessary for the purposes of the legitimate interests pursued by the controller or by a third party, except where such interests are overridden by the interests or fundamental rights and freedoms of the data subject which require protection of personal data. In conclusion data protection afforded by the GDPR should play a significant role in taxpayer protection in AEOI and FATCA. Thanks to the im-
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provements that the GDPR has made in comparison to the Data Protection Directive, the protection that the EU provides for taxpayers via the principle of proportionality should be complied with the FATCA procedures, including data collection, data transfer and data retention. In conclusion data transfer under FATCA to the U.S. requires an adequate level of protection through substantial provisions in IGAs. 4.2. FATCA implies restrictions to the right of data protection. – Obviously, there is a tension between the right of taxpayers to the protection of their FATCA Data and the need of tax authorities – including U.S. tax authorities – to have access to data to enforce their tax provisions, even with an extraterritorial reach. Article 23 of the GDPR lists a set of restrictions to the right of data protection and provides that Union or Member State law to which the data controller or processor is subject may restrict by way of a legislative measure the scope of the obligations and rights provided for in the GDPR when such a restriction respects the essence of the fundamental rights and freedoms and is a necessary and proportionate measure in a democratic society to safeguard a set of societal values. Among them, in respect to FATCA Data, Article 23, lett. (e), indicates “other important objectives of general public interest of the Union or of a Member State, in particular an important economic or financial interest of the Union or of a Member State, including monetary, budgetary and taxation matters, public health and social security.” It follows that to prove that the restrictions imposed in relation to FATCA Data are justified under the GDPR, the following requirements must be met: (i) such restrictions must be introduced in Union or Member State law; (ii) such restrictions respect the essence of the fundamental rights and freedoms; and (iii) such restrictions are a necessary and proportionate measures in a democratic society. Requirement (i) is met by IGAs in so far as they become part of EU domestic laws, while requirement (ii) about the “essence of the fundamental rights and freedoms” implies a complex legal analysis of those fundamental rights in the digital world where tax and financial “big data” can be used to “profile” the behaviour of taxpayers. It is well known that there are concerns that new surveillance technologies deployed by the public sector could have anti-democratic outcomes, while the expansive surveillance set up under FATCA is at the same time insufficient to catch tax evaders and disproportionate in respect to a vast array of law-abiding individuals.
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This analysis cannot be conducted here because has broad implications that go beyond the topic of the paper (38). So in FATCA Data transfers that are, for the time being, assumed to respect the essence of the fundamental rights and freedom, the issue is about requirement (iii), i.e. whether FATCA restrictions operating within the EU through IGAs are necessary and proportionate measures. In this respect, there are certain critical indicators of the lack of these requirements in current FATCA practice. First, U.S. expatriates generally do not use the EU financial system to engage in offshore tax evasion. Second, FATCA does not request the existence of indicia of unlawful behaviour of taxpayers, so that it raises compliance costs for persons for whom there is no evidence capable of suggesting that their conduct might have a link, even an indirect or remote, with tax evasion. Finally, most of the non-resident “U.S. Persons” falling under FATCA obligations do not effectively owe U.S. taxes so that FATCA just expose them to onerous fines and penalties for even inadvertent filing and reporting errors. In conclusion, FATCA restrictions operating within the EU through IGAs at the current stage and under certain circumstances appear to be neither proportionate, nor necessary in so far they fail to narrow down the reporting obligations to individuals suspected of tax evasion. By contrast, these FATCA restrictions would constitute “necessary and proportionate measures” upon the condition that the U.S. provided, on a case-by-case basis, specific evidence that U.S. expatriates are using the EU financial system to engage in offshore tax evasion. Lacking such evidence FATCA restrictions appear to go beyond what is strictly necessary to achieve the goal of fighting against offshore tax evasion. In this respect, it is worth noting that Articles 12-15 of the GDPR expressly protect the rights of the data subject in terms of transparency and access to personal data and clearly applies to FATCA. Article 12 of the GDPR imposes on the controller the duty to take appropriate measures to provide any information referred to in Articles 13 and 14 and any communication under Articles 15 to 22 and 34 relating to processing to the data subject in a concise, transparent, intelligible and easily accessible form, using clear and plain language. Article 13 defines the information to be provided where personal
(38) See for example: E. Politou, E. Alepis and C. Patsakis, “Profiling tax and financial behaviour with big data under the GDPR”, (2019) Computer Law & Security Review, Forthcoming
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data – such as FATCA Data – are collected from the data subject and regulates access to personal data. Article 14 defines the information to be provided where personal data – such as FATCA Data - have not been obtained from the data subject. Finally Article 15 establishes the right of access by the data subject providing that the data subject shall have the right to obtain from the controller confirmation as to whether or not personal data – such as FATCA Data – concerning him or her are being processed, and, where that is the case, access to the personal data and information about the data being used. The IGAs bypass these data protections afforded by the GDPR as they do not contain provisions that would require a EU FFI to provide notice to its clients that are qualified under FATCA as U.S. Persons that information is being collected on for eventual sharing with U.S. tax authorities. The IGAs should incorporate such notice provisions to encourage transparency with respect to bank information collection practices. A client who objects to such collection practices would hence be able to choose another EU financial institution that is exempt from the IGAs. 4.3. Transfers of data to third countries while the EDPD guidelines are pending. – The distinguishing feature of FATCA Data is that they are transferred to a third country, the U.S. under the IGAs, all account-holders who are U.S. Persons have their account information transferred – directly or indirectly through domestic tax authorities – to U.S. tax authorities who will regularly collect information on EU citizens. In this respect Chapter V of the GDPR introduces now special safeguards to ensure that the level of protection of natural persons guaranteed by the GDPR is not undermined when this occurs. According to Article 44 transfers of personal data – such as FATCA Data which are undergoing processing or are intended for processing after transfer to the U.S. shall take place only if the conditions laid down in Chapter V are complied with by the controller and processor, including for onward transfers of personal data from the U.S. to another third country. According to Article 45 a transfer of such personal data to the U.S. may take place without any specific authorisation if the Commission has decided that the U.S. ensures an adequate level of protection. This decision shall provide for a mechanism for a periodic review, at least every four years, which shall take into account all relevant developments in the U.S. As mentioned, according to Article 46 in the absence of an adequacy decision of the Commission pursuant to Article 45(3), a controller or processor may transfer personal data such as FATCA Data to the U.S. only if the control-
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ler or processor has provided “appropriate safeguards”, and on condition that enforceable data subject rights and effective legal remedies for data subjects are available. As suggested by the EDPB these appropriate safeguards may be provided, in the case of FATCA Data, for by (i) IGAs, that is legally binding and enforceable instruments concluded between public authorities and bodies (Article 46 (2) (a)), or (ii) provisions to be inserted into agreements between FFIs and the I.R.S, that is administrative arrangements between public authorities or bodies which include enforceable and effective data subject rights (Article 46 (3) (b)). Neither the Commission’s authorization nor the “appropriate safeguards” are, at the current stage, in place, so Article 49 applies to FATCA Data pending the enactment of EDPB guidelines. According to Article 49 in this case the transfer of FATCA Data to the U.S. shall take place only on one of the following conditions: (a) the data subject has explicitly consented to the proposed transfer, after having been informed of the possible risks of such transfers for the data subject due to the absence of an adequacy decision and appropriate safeguards; (b) the transfer is necessary for the performance of a contract between the data subject and the controller or the implementation of pre-contractual measures taken at the data subject’s request; (c) the transfer is necessary for the conclusion or performance of a contract concluded in the interest of the data subject between the controller and another natural or legal person; (d) the transfer is necessary for important reasons of public interest. At the current stage the adoption of EDPB guidelines is still pending and the Commission’s authorization and the “appropriate safeguards” have not been introduced yet. Waiting for the EDPB guidelines essentially the issue is whether the transfer of FATCA Data to the U.S. is necessary for “important reasons of public interest” (Article 49, lett. d), namely the prevention of tax evasion. As the IGAs are not reciprocal, in this context the public interest to the prevention of tax evasion is only of the U.S., but not of the EU. This a critical indicator that requires turning IGAs in genuine reciprocal instruments of bilateral exchange of information. In addition, under the GDPR, businesses should develop systems to protect data against unauthorized outside scrutiny. The IGAs do not contain similar prescriptions, so a danger will arise when exten-
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sive bulk information on EU account-holders is held within a I.R.S. database, which could be accessed by third parties for illegal purposes. (39) It is worth noting that Article 49 also requires that, when the Commission’s authorization nor the “appropriate safeguards” nor the derogations listed above apply, a transfer of FATCA Data to the U.S. may take place only if the transfer is not repetitive, concerns only a limited number of data subjects, is necessary for the purposes of compelling legitimate interests pursued by the controller which are not overridden by the interests or rights and freedoms of the data subject, and the controller has assessed all the circumstances surrounding the data transfer and has provided suitable safeguards with regard to the protection of personal data. The controller shall inform the supervisory authority of the transfer. The controller shall, in addition to providing the information referred to in Articles 13 and 14, inform the data subject of the transfer and on the compelling legitimate interests pursued. 5. Conclusions. – This paper concludes with a set of policy suggestions that attain to (i) bilateral EU-U.S. policies, (ii) unilateral EU policies, and (iii) multilateral policies in a broader sense. Bilateral EU-U.S. policies essentially imply the modifications of IGAs to align with GDPR. At the time IGAs were concluded the GDPR was not in force yet, but now the GDPR establishes a fundamental right to data protection confirmed by Article 16 of the TFEU. IGAs appear to bypass rather than meet the data protections afforded by the GDPR. For instance, the IGAs harm taxpayer rights if personal information is not being used by the I.R.S. for the tax-based purpose for which it was collected. Moreover, EU banks coerce their customers into providing personal information as a condition of access to banking services. Before the GDPR, under Article 13 of the Data Protection Directive the assessment of the necessity and proportionality of such limitations was left to the discretion of the Member States. Now the GDPR eliminates these potential uncertainties for taxpayers in cross-border situations subjected to AEOI and FATCA. Data protection rules should play a significant role in taxpayer
(39) The U.S. I.R.S. suffers lapses in data security and was recently taken to task over this issue by the Government Accountability Office https://www.washingtonpost.com/news/powerpost/wp/2016/03/30/weak--‐irs--‐controls--‐leave--‐ taxpayer--‐data--‐vulnerable--‐report--‐says/ 1 September 2016.
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protection in AEOI and FATCA: the principle of proportionality under the GDPR should be complied with by FATCA procedures, including data collection, data transfer and data retention. In conclusion data transfer under FATCA to the U.S. requires an adequate level of protection through substantial provisions in IGAs. Clearly there are arguments to consider that existing IGAs lack a serious level of reciprocity, imposing more liabilities for the IGA Partners than for the U.S. in the exchange of information. The stance taken by the U.S. to refuse to fully reciprocate under IGAs constitutes solid grounds to renegotiate their IGAs to re-establish full reciprocity. Such renegotiation has been suggested by the European Parliament in the resolution of 5 July 2018: the rationale of such renegotiation is that IGAs should be effectively based on reciprocity in ensuring that both contracting parties gain mutual benefits through cooperation. For Member States who concluded Model 1 IGAs with the U.S this renegotiation can occur at two levels: at the level of each individual Member State, and, in addition. collectively and with the support of the EU Commission. The violation of data protection rights may erode the legitimacy of the AEOI that occurs in FATCA. IGAs therefore should be updated and supplemented by provisions in line with the GDPR which ensure that financial information transferred to the U.S. is afforded data protection. The GDPR in fact provides a list of requirements that should be considered in amending IGAs or in negotiating special agreements between FFIs and the I.R.S. (40): • Article 5 of the GDPR provides a set of principles relating to processing of personal data under FATCA. • Article 6 of the GDPR at letters (e) and (f) in particular mandates that processing of FATCA Data shall be lawful only if the processing is necessary for the performance of a task carried out in the public interest or in the exercise of official authority vested in the controller. • Article 23 of the GDPR provides that Union or Member State law may restrict by way of a legislative measure the scope of the obligations and rights provided for in the GDPR when such a restriction respects the essence of the fundamental rights and freedoms and is a necessary and pro-
(40) Article 44-49 of the GDPR contain provisions about the transfer of FATCA Data to the U.S.: because the Commission’s authorization nor the “appropriate safeguards” are yet in place, Article 49 applies to FATCA Data, so IGAs should provide systems to protect data against unauthorized outside scrutiny.
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portionate measure in a democratic society to safeguard a set of societal values. So IGAs should be modified to stipulate that FATCA restrictions constitute “necessary and proportionate measures” upon the condition that the U.S. provides, on a case-by-case basis, specific evidence that U.S. expatriates are using the EU financial system to engage in offshore tax evasion. Lacking such evidence FATCA restrictions appear to go beyond what is strictly necessary to achieve the goal of fighting against offshore tax evasion. • Article 12-15 of the GDPR expressly protect the rights of the data subject in terms of transparency and access to personal data, so IGAs should be supplemented by provisions that require an EU FFI to provide notice to its clients that are qualified under FATCA as U.S. Persons that information is being collected on for eventual sharing with U.S. tax authorities. • Article 16 of the GDPR establishes a right to rectification that clearly applies to FATCA, so that IGAs should contain such right for taxpayers. • Article 77 and 78 of the GDPR establish the right to lodge a complaint with a supervisory authority and the right to an effective judicial remedy against a supervisory authority, so IGAs should specifically contain clauses that subject FATCA Data flows to such safeguards. The EDPB guidelines will provide an important tool in this respect. First, under Article 46 (2) (a) the appropriate safeguards referred to in paragraph 1 may be provided for, without requiring any specific authorisation from a supervisory authority, by IGAs – i.e. a legally binding and enforceable instrument between public authorities or bodies. – if such IGAs are renegotiated on the basis of the EDPB guidelines. By contrast if a specific authorisation from a supervisory authority is adopted, then under Article 46 (3) (b) the appropriate safeguards referred to in Article 46 (1) may also be provided for by provisions to be inserted into special agreements between FFIs and the I.R.S. These are administrative arrangements between public authorities or bodies which include enforceable and effective data subject right. In addition to bilateral policies there is a set of unilateral EU policies, which are a second-best choice, but which could be useful in reaching agreement with the U.S. about data protection and reciprocity. Unilateral EU policies can be summarized as follows. The main guiding principle should be that the U.S.’s failure to honour reciprocal information exchange could lead to an investigation into the possibility for the EU of enacting “blocking legislation about reciprocity” that would apply until such time as the reciprocity is re-established in relation to FATCA.
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An additional guiding principle should be that “blocking legislation about selected items” would apply until such time as certain FATCA criticalities in respect to Accidental Americans and dual European/U.S. citizens are mitigated by the U.S. If the EU were to block the application of FATCA (pending resolution of the outstanding issues surrounding FATCA) and, as a result, the U.S. were to impose a 30% withholding on U.S. source payments to EU financial institutions, the EU could apply a mirroring withholding on EU source payments to U.S. financial institutions and their operations in the EU. These options were suggested by the European Parliament in the resolution of 5 July 2018. Another unilateral action which could be pursued by the EU would be to allow only transfers of FATCA Data associated with U.S. Persons who are not EU residents until a predefined set of bilateral measures are adopted, for example: (a) renegotiation of IGA to afford reciprocal treatment with respect to AEOI; and (b) establishment of safeguards to data protection under GDPR. This would imply that FATCA would continue to operate in respect to transfers of FATCA Data associated with U.S. Persons who are not EU residents or citizens, but there would be standstill clause for transfers of FATCA Data associated with U.S. Persons who are EU residents or citizens. The GDPR together with case law of the CJEU has exerted an influence over the legislative process in the data protection area, particularly in terms of its interpretation of the principle of proportionality. Accordingly, the protection of taxpayers enhanced in the form of higher standards for the imposition of legislative restrictions on taxpayers’ rights should be introduced into the Directive on Administrative Cooperation in line with Article 23 of the GDPR. Article 35 of the GDPR introduces the duty for the controller of routinely conducting a data protection impact assessment which should be extended and applied to tax AEOI and to FATCA Data. So, where a type of processing such a FATCA Data is likely to result in a high risk to the rights and freedoms of natural persons, the controller shall, prior to the processing, carry out an assessment of the impact of the envisaged processing operations on the protection of personal data. Finally, in a very broad sense, another unilateral EU policy is the development of judicial protection of data protection rights under the GDPR by national courts and by the European Court on Human Rights. Finally, there are important conclusions in the direction of multilateral policies in a broad sense. Tax AEOI and FATCA were established as multilateral measures in the fullest sense of the elimination of any kind of free ride to a global system of full sharing of tax information among countries. The 20092010 OECD campaign for transparency and the EU called for a ‘‘new global
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standard for automatic exchange of information to tackle tax evasion, based on the U.S. FATCA legislation,’’ and the CRS established a truly multilateral framework for countries to exchange information automatically relying on the FATCA approach. In tax AEOI multilateralism can be viewed as the sum of many bilateral agreements fully based on reciprocity. Unfortunately, the U.S. has developed bilateral IGAs in the EU which are not effectively operating on the basis of reciprocity, so that the multilateral system which was initially envisaged by the EU and the U.S. is collapsing. Moreover the U.S. does not intend to adhere to the CRS. Multilateralism in tax AEOI should therefore be revived at EU-U.S. level going back to the spirit of FATCA as an initiator of multilateralism. (41) The European Parliament in the resolution of 5 July 2018 has taken this stance. The U.S., in particular, could consider a multilateral approach as a way to increase the chances of success of the FATCA system. In fact, if other countries through a multilateral instrument were willing to collect and exchange FATCA-like data, then the disincentive toward foreign investments in the U.S. capital market provoked by FATCA would be diluted. Moreover, an alignment of data protection safeguards in a multilateral instrument would reduce the conflicts of FATCA with EU and local laws. Finally, U.S. expatriates could avoid suffering prejudices for their U.S. citizenship since, through multilateral cooperation, they would withstand the same reporting requirements as other countries’ citizens. Finally, the costs of FATCA’s implementation could be reduced via direct cooperation between the U.S. and foreign governments. By contrast, if the U.S. maintains the current unilateral FATCA approach with all the criticalities described above, the success of FATCA will be determined exclusively by the behavior of FFIs and will be subject to their willingness to continue to bear the compliance cost and to keep their investment in the U.S. financial markets, while opposition by other governments may grow.
Carlo Garbarino
(41) I. Grinberg, “Beyond FATCA: An Evolutionary Moment for the International Tax System”, (2012). Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=1996752 or http://dx.doi. org/10.2139/ssrn.1996752.