Vol. XXVIII- Dicembre
Rivista di
Diritto Tributario
www.rivistadirittotributario.it
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Rivista bimestrale
Vol. XXVIII - Dicembre 2018
Fondata da Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi
2018
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In evidenza: • Profili di inadeguato bilanciamento tra poteri impositivi e tutela giudiziale tributariaFrancesco
Moschetti • Termini di decadenza per l’accertamento relativo a costi pluriennali: una sentenza
opinabilmente garantista Roberto Schiavolin • La fiscalità dei beni culturali nel passaggio generazionale Impugnazione-merito e “vizi
formali” nell’attuale processo tributario Francesco Farri • L’infalcidiabilità dell’IVA e delle ritenute nel sovraindebitamento: tra diritto UE e diritto
interno Antonio Guidara • Brevi note a margine del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, tra
torsioni ermeneutiche, utilizzo improprio dello strumento della confisca ed efficientismo esasperato Andrea De Lia ISSN 1121-4074
Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016
Rivista di Diritto Tributario
Diretta da Loredana Carpentieri - Gaspare Falsitta - Salvatore La Rosa Francesco Moschetti - Roberto Schiavolin
Pacini
Indici DOTTRINA
Andrea De Lia
Brevi note a margine del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, tra torsioni ermeneutiche, utilizzo improprio dello strumento della confisca ed efficientismo esasperato (nota a Cass., n. 41704 del 2018)................................. III, 67 Francesco Farri
Impugnazione-merito e “vizi formali” nell’attuale processo tributario................... I, 661 Antonio Guidara
L’infalcidiabilità dell’IVA e delle ritenute nel sovraindebitamento: tra diritto UE e diritto interno............................................................................................................ I, 641 Francesco Moschetti
Profili di inadeguato bilanciamento tra poteri impositivi e tutela giudiziale tributaria.................................................................................................................... I, 609 Luca Peverini
Sulla legittimità costituzionale dell’art. 24 bis Tuir e sulla possibilità di differenziare il concorso alle spese pubbliche da parte dei residenti in funzione del grado di collegamento con il territorio................................................................................. I, 685 Pietro Piccone Ferrarotti
L’esenzione degli utili e delle perdite della stabile organizzazione estera di un’impresa residente (c.d. branch exemption).................................................................... V, 79 Mario Ravaccia
La prestazione di servizi a titolo oneroso e la definizione di operazione preliminare (nota a Corte Giust., C- 544/16)......................................................................... IV, 209 Luca Sabbi
La Cassazione conferma l’orientamento sulla tassazione in misura fissa dei trasferimenti di beni nel trust fund ai fini dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale e “forse” sulle successioni e donazioni (nota a Cass., nn. 975 e 15469 del 2018)............................................................................................................................ II, 241 Roberto Schiavolin
Termini di decadenza per l’accertamento relativo a costi pluriennali: una sentenza opinabilmente garantista (nota a Cass., n. 9993 del 2018)....................................... II, 280
II
indici
Rubrica di diritto penale tributario
a cura di Ivo Caraccioli............................................................................................... III, 59 Rubrica di diritto europeo
a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 197 Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato
a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................ V, 79 Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.
INDICE ANALITICO QUESTIONI GENERALI ACCERTAMENTO Termini di decadenza – Rettifica di quote di ammortamento o di costi pluriennali – Ragioni di indeducibilità rilevabili già dal primo periodo di deduzione – Decadenza dal potere di rettificare la dichiarazione di detto periodo – Rettifica delle quote dedotte in dichiarazioni successive – Illegittimità (Cass. civ., Sez. V, 6 dicembre 2017 - 24 aprile 2018, n. 9993, con nota di Roberto Schiavolin)......... II, 277
REATI TRIBUTARI Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte – Costituzione di un fondo patrimoniale e conferimento di beni immobili a seguito della notifica di atti di accertamento – Rilevanza – Oggetto della confisca (Cass., sez. III, 8 maggio 2018 - 26 settembre 2018, n. 41704, con nota di Andrea De Lia)..................................... III, 59
IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO Rinvio pregiudiziale – Direttiva 2006/112/CE – Articolo 2, punto 1, lettera c) – Emissione di “crediti” che consentono di piazzare offerte in occasione di venditeall’asta online – Prestazione di servizi a titolo oneroso – Operazione preliminare - Articolo 73 – Base imponibile (Corte Giust., sez. V, sentenza C- 544/16 del 5 luglio 2018, con nota di Mario Ravaccia)................................................................. IV, 197
indici
III
IMPOSTA DI REGISTRO Prestazioni a contenuto patrimoniale e onerose – Trasferimento di beni nel trust fund a titolo gratuito – Imposizione in misura fissa (Cass., sez. trib., 20 dicembre 2017 - 17 gennaio 2018, n. 975, con nota di Luca Sabbi)........................... II, 233
IMPOSTE IPOTECARIE E CATASTALI Prestazioni a contenuto patrimoniale e onerose – Trasferimento di beni nel trust fund a titolo gratuito – Imposizione in misura fissa (Cass., sez. trib., 03 maggio 2018 - 13 giugno 2018, n. 15469, con nota di Luca Sabbi) .............................. II, 233
INDICE CRONOLOGICO Corte di Giustizia 13 dicembre 2017 - 5 luglio 2018, C- 544/16 .......................................................... IV, 197 *** Cass., sez. trib., 20 dicembre 2017 - 17 gennaio 2018, n. 975 ........................................................... II, 233 Cass. civ., Sez. V, 6 dicembre 2017 - 24 aprile 2018, n. 9993 . ............................................................. II, 277 Cass., sez. trib., 03 maggio 2018 - 13 giugno 2018, n. 15469 ........................................................... II, 233 Cass., sez. III, 8 maggio 2018 - 26 settembre 2018, n. 41704 ......................................................... III, 59
IV
indici
Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio
Dottrina
Profili di inadeguato bilanciamento tra poteri impositivi e tutela giudiziale tributaria* Sommario: 1. Esigenza democratica di riequilibrio processuale del potere amministrativo tributario. – 2. Non può assicurare riequilibrio un giudice oggettivamente “minusvalente” sul piano della professionalità e che ancora non ha definitivamente reciso ogni collegamento con una delle parti in causa. – 3. Assenza di una norma specificamente tributaria che riequilibri l’effetto preclusivo del provvedimento tributario non ritualmente impugnato per “errore scusabile”. – 3.1. Segue: il quadro costituzionale dei valori in gioco. Rilevanza della disciplina dell’errore scusabile nel processo amministrativo. – 3.2. Segue: la remissione in termini per errore scusabile in un significativo precedente della Suprema Corte in materia doganale. – 4. Assenza di adeguato riequilibrio dell’effetto esecutorio. Inadeguatezza dei restrittivi presupposti del “danno grave e irreparabile”. – 4.1. Segue: e dell’unico grado di giudizio – 5. “Potere delle armi” e giudice “soccorrevole”. Il processo tributario assume a proprio oggetto provvedimenti di carattere imperativo e quindi, in un quadro democratico, dovrebbe assicurare “adeguato contrappeso” all’esercizio del potere. Nel contributo qui pubblicato, si sostiene che “adeguato contrappeso” oggi ancora non sussista sotto plurimi profili: l’organizzazione della giustizia tributaria affidata a giudici non professionali, l’inadeguata disciplina della “remissione in termini per errore scusabile”, la disciplina troppo restrittiva della sospensione cautelare del provvedimento impugnato, l’orientamento giurisprudenziale, cosiddetto di ”impugnazione-merito”, certo giustificato dall’esigenza di cogliere la reale capacità contributiva, ma incoerente con l’indubbio carattere autoritativo degli atti impugnati. Se si attribuisce alla Pubblica Amministrazione “il potere delle armi”, giustizia richiede ampia giurisdizione di annullamento e netta divisione dei ruoli tra ente impositore e giudice. Trials in matter of tax law take into consideration compulsory administration deeds; therefore, within a democratic context, they should ensure, “adequate countermeasure” in exercising Authority. This essay aim to highlight how the aforementioned “adequate countermeasure” is still lacking on numerous perspectives: the judicial system on tax matter is entrusted to nontenured judges; the “relief from time limitations on excusable errors” is
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Questo scritto è destinato agli “Studi in onore del professor Pasquale Russo”.
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Parte prima
still inadequate; the “precautionary suspension” of administration deeds is too restrictive; the so called “impugnazione-merito” (“form and matter”) case law is incoherent with the compulsory nature of contested deeds (even when justified by the need of sizing “the ability-to-pay principle”). In a scenario of Authority operating the “power of weapon”, Justice needs a broader force of annulment combined with a more distinct division of roles between Inland Revenue and Judge.
1. Esigenza democratica di riequilibrio processuale del potere amministrativo tributario. – L’attuale processo tributario si caratterizza (nelle sue linee generali) per avere ad oggetto provvedimenti dell’autorità fiscale (in materia di accertamento, riscossione e rimborso dei tributi e delle relative sanzioni amministrative), che hanno come effetto quello di modificare unilateralmente la “situazione giuridica dei destinatari” (1) .
(1) Così M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela. Lezioni sul processo tributario, seconda edizione, Torino, 2013, p. 55. Precisa ancora l’autore che “prende corpo l’idea di una giurisdizione che si occupa soprattutto di posizioni soggettive contrapposte a poteri autoritativi, e cioè di interessi legittimi” (ivi, 39). Il profilo impugnatorio è condiviso da P. Russo [cfr., ad esempio, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario (con la collaborazione di G. Fransoni), Milano, 2005, 36 e, da ultimo, Giustizia tributaria (linee di tendenza), in Enc. dir., Annali, vol. II, Tomo 2, Milano, 2008, 618 e ss., 630], non invece il carattere autoritativo della funzione impositiva (cfr., ad esempio, Impugnazione e merito nel processo tributario, in Riv. dir. trib., 1993, I, 749 e ss., 754) e ciò in relazione al suo carattere vincolato e non discrezionale (così, Contenzioso tributario, in Digesto, Disc. priv., Sez. comm., III, Torino, 1988, 473 e ss., 497-495) e alla “fonte normativa del rapporto obbligatorio di imposta” [così, da ultimo, P. Russo – G. Fransoni – L. Castaldi (a cura di), Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2014, 165, nonché P. Russo, Manuale di diritto Tributario. Parte generale, nona ed., Milano, 2007, 239, 330, 347-348]. Più precisamente, il chiaro autore ritiene che il processo tributario debba essere “annoverato tra quelli definibili di impugnazione-merito, in quanto caratterizzati da un duplice profilo: il profilo formale impugnatorio, che ne giustifica l’appartenenza al genus dei giudizi di impugnazione ed attiene in specie alla fase introduttiva, costituita dall’esperibilità del ricorso avverso determinati atti della finanza entro un termine di decadenza; ed il profilo sostanziale concernente l’oggetto e le situazioni giuridiche soggettive dedotte nel processo, nonché il tipo di decisione emessa dal giudice, che attiene al merito ed è sostitutiva dell’atto impugnato” (Processo tributario, in Enc. dir., xxxiv, Milano, 1987, 754 e ss., 770; analogamente, ex multis, dello stesso autore, Cessazione della materia del contendere, III), Diritto tributario, in Enc. giur. it., vol. VI, Milano, 1988, 1, Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., 128, 348, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario (con la collaborazione di G. Fransoni), Milano, 2005, 36. La tesi del giudizio di impugnazione-merito è condivisa da A. Fantozzi, Il diritto tributario, terza edizione, Torino, 2003, 705-707 e A. Poddighe, Giusto processo e processo tributario, Milano, 172 e ss., 193. Per una discussione delle diverse teorie (tra processo di “impugnazione-annullamento” e processo di “impugnazione-accertamento”), cfr.
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Coglie certamente nel vero la tesi, validamente sostenuta da P. Russo (2), secondo cui fonte genetica dell’obbligazione tributaria è la legge (3), ma sta di fatto che se l’autorità fiscale ritenga che la legge sia stata violata, mette in campo atti autoritativi di recupero dell’imponibile e dell’imposta, normalmente esecutori (4) e dotati, se non impugnati entro il termine di decadenza, di efficacia preclusiva (5). Coesistono pertanto la fonte legale dell’obbligazione e l’attribuzione all’ente impositore di poteri autoritativi (6), che non attengono alla fonte ge-
G. Fransoni, Giudicato tributario e attività dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2001, 106-182, il quale comunque ritiene che il giudizio tributario sia “rivolto ad un esito consistente nell’attribuzione di una utilità finale, cioè la determinazione dell’imposta dovuta” (ivi, 141). (2) Cfr., tra tutte le pubblicazioni, l’opera di grande sistematicità Diritto e processo nella teoria della obbligazione tributaria, Milano, 1969, passim. Da ultimo, per una discussione delle diverse teorie (dichiarativa e costitutiva), cfr. P. Russo – G. Fransoni – L. Castaldi (a cura di), Istituzioni, cit., 67-73, nonché P. Russo, Manuale di diritto tributario. Parte Generale, cit., 125-135, 147, 347. (3) Tesi accolta dalla Corte Suprema (cfr. ex multis, Cass. civ., SS. UU., 10 dicembre 1993, n. 9126). Per una rivisitazione del dibattito tra teoria dichiarativa e costitutiva, cfr. G. Fransoni, Giudicato tributario, cit., 106-156. (4) Esclude invece che esecutorietà sia manifestazione di imperatività, P. Russo, Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., 384. (5) È stato correttamente affermato che il termine di decadenza riveste “un ruolo fondamentale nell’intero sistema delle tutele giurisdizionali amministrative sotto due profili distinti, ma strettamente connessi: per un verso il termine costituisce un momento cruciale di intersezione tra diritto amministrativo sostanziale e processuale; per altro, esso rappresenta il punto di equilibrio tra l’esigenza della certezza dei rapporti giuridici di diritto amministrativo e l’esigenza della giustizia di cui i privati sono portatori nei confronti dell’agire della pubblica amministrazione” (così A. Marra, Il termine di decadenza nel processo amministrativo, Milano, 2012, 45-46 e 123). Per il “contemperamento” di tali esigenze, si veda anche G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario. I principi generali, quinta edizione, Milano, 2016, 631, nota 313, ad avviso del quale, la norma dell’art. 9, Statuto del contribuente, dovrebbe essere completata con una disciplina anche processuale della “rimessione in termini”. (6) Sul carattere autoritativo degli atti di accertamento tributario, cfr., ex multis, S. La Rosa, Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2000, 59, 81-84; A. Fantozzi, Il diritto tributario, cit., 453-462; Idem, La prospettiva tributaria, in AA. VV., Nuove forme di tutela delle situazioni soggettive nelle esperienze processuali. Profili pubblicistici (Atti di un incontro di studi organizzato dal Dipartimento di Scienze Giuspubblicistiche “T. Martines”, Messina, 26 settembre 2003), Milano, 2004, 173 e ss., 183; C. Consolo, Appendice giuridicosistematica su natura e oggetto del processo tributario (in generale e nella nuova disciplina dell’abuso del diritto), in AA.VV., Abuso del diritto e novità sul processo tributario (a cura di C. Glendi – C. Consolo – A. Contrino), ed. Wolters Kluwer, Milano, 2016, 335-336; S. Muleo, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2016, 161.
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Parte prima
netica dell’obbligazione, ma al recupero dell’obbligazione (esistente ed) inadempiuta (7). Questo secondo aspetto (efficacia preclusiva) può trasformare in “verità” giuridica, e debito definitivo, una “non verità”; può comportare “concorso alle spese pubbliche” non commisurato alla “capacità contributiva” (8). Il che è vulnus non solo al principio di capacità contributiva, ma anche al principio democratico, il quale impone che l’imposta sia (e debba essere) quella “dovuta per legge” (ex art. 23 Cost.), non quella dovuta per provvedimento unilaterale della pubblica amministrazione (magari in contrasto con la legge e con il fatto realmente avvenuto). La stessa richiesta di rimborso dell’imposta indebita è filtrata da un procedimento amministrativo, il cui innesto è ancora soggetto a termine di decadenza (9) e può sfociare in un provvedimento espresso di rifiuto, parimenti
(7) P. Russo, in Diritto e processo, cit., 362 e ss., 377-378, sostiene che l’avviso di accertamento sia “atto di liquidazione non autoritativo”, ma ciò sempre nell’ottica di rivendicare alla legge la fonte genetica dell’obbligazione e di ricondurre alla sovranità della legge anche la fissazione del quantum (ivi, 364); cfr. anche retro, nota 1, nonché Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., 347. Non c’è dubbio che l’avviso di accertamento deve ricondurre an e quantum debeatur alla legge, ma è altresì incontestabile che la legge, proprio a tal fine, attribuisce poteri autoritativi per il recupero di imponibile ed imposta non dichiarati (sulla imprescindibilità di tali poteri, cfr. E. Allorio, Diritto processuale tributario, quarta edizione, Torino, 1962, 110). Circa la natura di “decisione amministrativa”, degli atti di accertamento, per il loro carattere latu sensu giustiziale, cfr. ancora S. La Rosa, op. cit., 84; Idem, Caratteri e funzioni dell’accertamento tributario, in Dir. prat. trib., 1990, I, 791-805, ora ristampato in Scritti scelti, vol. II, Torino, 2011, 631-633. (8) Il termine di decadenza ha effetti sostanziali sul rapporto tra amministrazione e amministrato. Certo esistono le esigenze della certezza della pretesa amministrativa, ma non inferiori sono le esigenze della giustizia (cfr., ancora, A. Marra, op. cit., 47-48, nonché Capitolo III, 123 e ss.). Afferma ancora questa attenta dottrina che si tratta di trovare la “giusta misura” tra due valori. “Si tratta cioè di ricercare quel punto di equilibrio che consente da una parte di non immolare la giustizia sull’altare della certezza – magari in nome di un’inconfessabile ritenuta superiorità dell’interesse pubblico anche nel processo – e, dall’altra, di non cedere alla tentazione di dare tutto alla giustizia finendo così per scivolare nell’incertezza del diritto e nell’impossibilità di fare affidamento sulle decisioni dell’amministrazione” (A. Marra, op. cit., 124). Orbene, non c’è dubbio che oggi, nella disciplina del termine di decadenza per impugnare il provvedimento amministrativo tributario, è assente la ricerca di un “punto di equilibrio”. A livello di disciplina espressa, emerge solo l’interesse fiscale alla certezza della pretesa. Il “punto di equilibrio” è ancora da conquistare. Anche A. Fantozzi (La prospettiva tributaria, cit., 185) segnala “il permanere di forti esigenze di protezione dell’interesse fiscale”. (9) Per alcuni esempi di termini di decadenza previsti nella disciplina delle singole
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da impugnare entro termini di decadenza, con effetto preclusivo in caso di omessa o comunque inammissibile impugnazione (10). È evidente la forzatura nell’utilizzare ancora il termine di decadenza in un rapporto paritario come è quello di un’azione di rimborso per aver pagato più del dovuto (11). La decadenza risponde all’esigenza di limitare nel tempo la possibilità di contrastare gli effetti di un provvedimento autoritativo (12); a sua volta, ha senso l’atto autoritativo se, a seguito di adeguato procedimento istruttorio (13), emerga il convincimento di una trasgressione del contribuente che deve essere corretta dalla pubblica amministrazione; non ha invece giustificazione se sia il contribuente a far valere un diritto al rimborso di quanto pagato in più rispetto al dovuto ex lege (14). Lo “schema” per cui a fronte del potere l’atto contestativo è soggetto a termini tassativi di decadenza, viene usato “contro natura” nelle ipotesi in cui è il contribuente a vantare un credito, con una filosofia di costante soggezione ad un preminente potere (15).
imposte e per la norma residuale di cui all’art. 21, secondo co., secondo periodo, D. L.vo 31 dicembre 1992, n. 546, cfr. P. Russo, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, cit., 39, e da ultimo, per tutti, F.V. Albertini, I termini per la proposizione del ricorso, in Codice commentato del processo tributario, a cura di F. Tesauro, Torino, seconda edizione, 2016, 431 e ss., 439 e ss. (10) Cfr. combinato disposto art. 19, primo co., lett. g) e art. 21 primo co., D. L.vo 1992, n. 546. Nel caso poi di “ricorso originato dal silenzio sull’istanza di rimborso” secondo prevalente interpretazione “il riferimento dell’art. 19 ad un provvedimento implicito di diniego (contro il quale sarebbe naturale che il ricorso sia proposto nel termine decadenziale) sarebbe fuorviante … e, mancando in concreto il provvedimento impugnabile, l’azione avrebbe in questo caso non natura impugnatoria, ma di accertamento del diritto al rimborso” (M. Basilavecchia, op. cit., 59, il quale altresì precisa – ivi, 77 – che “i motivi diventano la causa petendi di un’azione conformata sul modello civilistico dell’azione di accertamento”). (11) Sulla incoerenza tra rapporto paritario e termine di decadenza, anche con riferimento a pronunce della Corte costituzionale (ad esempio, in tema di ricorsi alla Corte dei Conti per trattamento di quiescenza), cfr. A. Marra, op. cit., 140-148. Ricorda l’autore che il giudice delle leggi ha affermato che “la previsione di un termine di decadenza anziché di prescrizione per la tutela di diritti aventi ad oggetto prestazioni patrimoniali dell’amministrazione sia in contrasto con l’art. 3, primo comma della Costituzione” (ivi, 142). Più relativista, invece, la posizione di P. Russo, Processo tributario, in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1987, 772. (12) Cfr. ancora A. Marra, op. cit., 148. (13) Per un articolato esame “dell’attività amministrativa tributaria nei suoi vari aspetti e momenti”, vedi G. Vanz, I poteri amministrativi di controllo dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2012, passim. (14) Sui diversi possibili tipi di credito del contribuente, cfr., ancora, F.V. Albertini, op. cit., 439-440. (15) Con riferimento alla originaria disciplina dell’art. 16, D.P.R. 1972, n. 636 (in
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Convivono dunque: a) sul piano sostanziale, la fonte legale dell’obbligazione tributaria; b) sul piano procedimentale, la sequenza: dichiarazione del contribuente, poteri autoritativi per il controllo della dichiarazione e per il recupero del credito fiscale (o comunque di imponibile non dichiarato), fino ad usare lo stesso “stampo” (autoritativo) anche per l’innesto del procedimento di rimborso. Una filosofia, dunque, di “iperautoritatività” che si manifesta altresì nell’assenza di tutela innanzi al giudice tributario nella fase istruttoria (16) e dunque nella regola della tutela differita (17), malgrado orientamenti contrari della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (18).
cui, al terzo comma, espressamente si qualificava come “imposizione” lo stesso “silenzio dell’amministrazione per novanta giorni dalla intimazione a provvedere”, ed il ricorso doveva essere proposto entro 60 giorni, non solo dal rifiuto espresso, ma anche “dalla scadenza dei novanta giorni”), P. Russo (Il nuovo processo tributario, Milano, 1974, 576) afferma che “l’unitario disegno del legislatore riformista, tendente a costringere entro angusti confini temporali la tutela giurisdizionale del contribuente”, nel caso di ripetizione dell’indebito giunge “fino a forzare la natura delle cose; e, per giunta, senza vantaggi per le posizioni sostanziali dell’amministrazione finanziaria”. Si trasforma (nella disciplina originaria) un naturale termine di prescrizione in termine di decadenza, quando invece lo stesso obiettivo poteva essere raggiunto “abbreviando il termine di prescrizione per l’esercizio della relativa azione rispetto a quello desumibile dalla disciplina generale” (ivi, 577). (16) Il che non esclude oggi ipotesi di tutela innanzi ad altri giudici. Si veda, ad esempio, S. La Rosa (Amministrazione finanziaria, cit., 64), ad avviso del quale “una volta riconosciuta la specificità e l’autonomia dei problemi di tutela giurisdizionale che ai poteri conoscitivi si ricollegano”, sembra “non possa sfuggirsi al riconoscimento di concorrenti possibilità di tutela, innanzi al giudice ordinario o amministrativo, a seconda della natura (diritto soggettivo o interesse legittimo) della situazione giuridica sacrificata”. Sulla configurabilità nella fase istruttoria di interessi legittimi tutelabili innanzi al giudice amministrativo ordinario, cfr., R. Schiavolin, Indagini fiscali e tutela giurisdizionale anteriore al processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1991, II, 34 e ss., e, da ultimo, P. Marongiu, L’amministrazione finanziaria tra potere e responsabilità, Torino, 2016, 148-173. Per la possibilità che violazioni istruttorie comportino azioni risarcitorie, cfr., E. Manzon – A. Modolo, La tutela giudiziale del contribuente avverso le illegalità istruttorie ed i comportamenti illeciti dell’amministrazione finanziaria nell’attività impositiva. Considerazioni sulla giurisdizione in materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2001, 237 e ss.; A. Fantozzi, La prospettiva tributaria, cit., 196 e ss., 208-209; P. Marongiu, op. cit., 173-181. (17) Sul carattere “insufficiente e tardivo” di tale tutela, cfr. A. Fantozzi, La prospettiva tributaria, cit., 208. (18) Su cui, cfr. S. Muleo, L’applicazione dell’art. 6 Cedu anche nell’istruttoria tributaria a seguito della sentenza del 21 febbraio 2008 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Ravon e altri c. Francia e le ricadute sullo schema processuale vigente, in Riv. dir. trib., 2008, parte quarta, 198-218, nonché da ultimo, dello stesso autore, La tutela (giudiziale-amministrativa) nella fase istruttoria, in Riv. Guardia fin., n. 6, 2017.
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Questo processo, che ha ad oggetto le varie sequenze (accertamento, liquidazione, riscossione, rimborso) (19) di un procedimento amministrativo così dominato da preminente “interesse fiscale” (20), certamente deve essere regolato dai principi del “giusto processo” (21) ex art. 111 Cost. e delle Convenzioni internazionali cui l’Italia aderisce. Ma non solo. Dovrebbe altresì riportare equilibrio (22) nella dinamica tra poteri.
(19) Rileva P. Russo, L’ampliamento della giurisdizione tributaria e del novero degli atti impugnabili: riflessi sugli organi e sull’oggetto del processo (Relazione, tenuta in data 6 novembre 2009, al Convegno organizzato dall’ANTI, in Trieste, sul tema “Riordiniamo la giustizia tributaria”, pubblicata in Neotera, 2009, n. 3 bis, 51 e ss.) che gli artt. 2 e 19, decreto 1992 n. 546 individuano un tipo di giurisdizione riguardante le controversie tra contribuente ed amministrazione finanziaria (lato sensu) “in relazione all’attività di accertamento, liquidazione, riscossione e rimborso dei tributi” (ivi, 55, concetto ribadito alle 62, 65, 69). (20) Osservazione condivisa da A. Fantozzi (La prospettiva tributaria, cit., 186), che così sintetizza: “Quali che siano le premesse da cui si voglia muovere, resta indubbia una marcata prevalenza dell’interesse fiscale nell’attuazione del tributo: sia attraverso il diritto sostanziale che quello processuale. La mancanza di un’azione preventiva di accertamento negativo, l’impossibilità di instaurare una lite di rimborso in mancanza di atto impugnabile, l’esclusività della giurisdizione delle commissioni lasciano tuttavia aperte importanti smagliature nel sistema consentendo in definitiva l’applicazione di tributi non corrispondenti alla capacità contributiva manifestata dal presupposto”. (21) Su cui parimenti si veda P. Russo, Il giusto processo tributario, in Rass. trib., 2004, I, 11 e ss., nonché Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, cit., 12-17. Per un ampio e approfondito esame, cfr. anche, ex multis, E. Manzon, Processo tributario e Costituzione. Riflessioni circa l’incidenza della novella dell’art. 111 Cost., sul diritto processuale tributario, in Riv. dir. trib., 2001, I, 1095 e ss.; F. Gallo, Verso un “giusto processo” tributario, in Rass. trib., 2003, 11 e ss.; Idem, Quale modello processuale per il giudizio tributario, in Rass. trib., 2011, 11 e ss.; A. Poddighe, Giusto processo, cit.; F. Tesauro, Giustizia tributaria e giusto processo, in Rass. trib., 2013, I, 309 e ss.; AA.VV., Convenzione europea dei diritti dell’uomo e giustizia tributaria italiana (a cura di F. Bilancia, C. Califano, L. del Federico, P. Puoti), Torino, 2014, e da ultimo, A. Marcheselli – R. Dominici, Giustizia tributaria, cit., 197-216. F. Gallo (Quale modello processuale, cit., 11 e ss., 15) osserva come la Corte costituzionale non abbia voluto “inscrivere necessariamente il processo tributario in un modello unico e, comunque, in un modello espressivo dell’imperativo categorico del ‘giusto processo’, quale oggettivizzato nell’ordinamento costituzionale attraverso il nuovo testo dell’art. 111 Cost.”. Si vedano però le convincenti osservazioni di E. Manzon (Processo tributario e Costituzione, cit., in Riv. dir. trib., 2001, I, 1126) sulla applicabilità a tutti i processi dei principi affermati nei primi due commi dell’art. 111 Cost. Come rilevato da tale autore, il testo costituzionale “riformato” … “si impone autonomamente quale modello di riferimento, consentendo le ‘differenziazioni’, non le ‘anomalie’” (ivi, 1132). Dette osservazioni sono condivise da F. Gallo, Verso un “giusto processo” tributario, cit., 20-21. (22) Sullo squilibrio di poteri, ad esempio a causa dell’attuale diritto vivente in tema di utilizzo nel processo tributario di dichiarazioni di terzo assunte senza contraddittorio nel procedimento amministrativo, cfr. ancora P. Russo, Il giusto processo tributario, cit., 29.
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Non mi riferisco solo alla condizione di parità tra le parti processuali (ex art. 111 Cost.), che è imprescindibile strumento a tutela della verità. Mi riferisco ancor prima ad una esigenza di riequilibrio nel rapporto tra “manifestazioni di potere” nella fase amministrativa e “tutela data contro (dette) manifestazioni di potere” (23) nella fase giudiziale, in un ordinamento democratico. Quel pervasivo “stampo autoritativo”, che contrassegna il procedimento amministrativo (nelle diverse fasi di accertamento, riscossione e dello stesso rimborso), è certo affidato ad uffici retti dal principio di legalità (art. 23 Cost.) e di imparzialità (art. 97 Cost.), ma è poi esercitato da uomini, che incidono unilateralmente nella libertà di altri uomini. E il potere, se non riequilibrato, può sconfinare nell’eccesso e creare disequilibrio nei rapporti interpersonali. La democrazia del diritto di voto riconosciuto a tutti, può essere soppiantata da un “iperpotere quotidiano” di alcuni soggetti su altri, senza adeguato riequilibrio (24). E quanto più è accentuato il potere nella fase del procedimento amministrativo, tanto più dovrebbe essere garantito immediato contropotere nel successivo processo (25) . Se ciò non è adeguatamente realizzato, le conseguenze sono gravi, in un duplice senso: perché sussiste pericolo che all’ “imposta dovuta per legge” si sostituisca l’“imposta dovuta per atto amministrativo” ma in contrasto con la legge; perché il limite al potere, l’equilibrio di poteri, è esigenza di democrazia (26).
(23) Afferma M. Basilavecchia (op. cit., 40) che la giurisdizione tributaria “assume connotati tipici di una tutela data contro manifestazioni di potere”. (24) Sulla necessità di “riequilibrio” (rappresentata nel caso ivi deciso dalla “trasparenza di una congrua motivazione” rispetto al “provvedimento autoritativo come l’accertamento fiscale”), cfr. Cass. Civ. 20 febbraio 2013, n. 4135, la quale peraltro afferma il potere del giudice tributario di “riqualificazione giuridica” del fatto. (25) I nessi tra diritto sostanziale e diritto processuale sono indagati da P. Russo al fine di dimostrare che fonte genetica dell’obbligazione tributaria è la legge (cfr. Diritto e processo, cit., capo II, 102 e ss.). Si veda, tra l’altro, Processo tributario, cit., 771-772, ove il chiaro autore afferma l’esistenza di un “intimo legame tra diritto sostanziale e processo e, in particolare, la funzione strumentale e servente del secondo nei confronti del primo”. Per analoghe osservazioni (circa il citato rapporto strumentale), cfr. G. Fransoni, Il giudicato, cit., 170 e, citando Chiovenda, 5; A. Fantozzi, La prospettiva tributaria, cit., 181; A. Poddighe, op. cit., 168. Condividiamo il metodo (funzione strumentale del processo) e lo utilizziamo qui in chiave democratica: il processo come “strumento” di riequilibrio rispetto al sovrastante potere amministrativo. (26) L’esecutorietà del provvedimento impugnato è, ad esempio, argomento per attribuire – in un’ottica di bilanciamento – a chi quell’atto (così imperativo) ha emanato, l’onere di provare il “rispetto delle condizioni di legge per poter emanare l’atto impositivo” (così M.
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Nel presente scritto intendiamo segnalare come persistano significativi deficit per un riequilibrio processuale (27) del disequilibrio procedimentale. 2. Non può assicurare riequilibrio un giudice oggettivamente “minusvalente” sul piano della professionalità e che ancora non ha definitivamente reciso ogni collegamento con una delle parti in causa. – Il primo (e imprescindibile) mezzo di riequilibrio dovrebbe essere l’autorevolezza del giudice. A fronte di un potere amministrativo esercitato da soggetti adeguatamente selezionati sul piano delle conoscenze tecniche (giuridiche, contabili, economiche) sottese al tributo; a fronte di un potere amministrativo evidentemente affidato (non a dilettanti, ma) a impiegati a tempo pieno, a professionisti esperti su ogni aspetto implicato dal tributo, il giudizio sulla legittimità dei provvedimenti emessi da tali soggetti è tuttora affidato a giudici “onorari” (28), che non hanno superato alcun esame ad hoc di conoscenze giuridiche, economiche e contabili e che (salvo meritorie eccezioni) possono dedicare all’esercizio della funzione giudiziale solo “scampoli” residuali del loro spazio lavorativo.
Basilavecchia, op. cit., 85; ma già prima E. Allorio, op. cit., 378). (27) Ci riferiamo specificamente all’insufficiente riequilibrio processuale in sede di giurisdizione tributaria. Non è oggetto del tema la possibilità di azione risarcitoria per responsabilità civile dell’amministrazione finanziaria, su cui si veda da ultimo P. Marongiu, op. cit., 102 e ss., nonché autori citati retro nota 16 e G. Boletto, Responsabilità per danni dell’amministrazione finanziaria, in Riv. dir. trib., 2003, 59-108. (28) Così P. Russo, Il giusto processo, cit., 19. L’autore sviluppa una serrata critica sia quanto all’assenza di adeguato concorso ai fini del reclutamento, sia quanto allo status professionale, concludendo che “alla fine emerge all’evidenza che i tempi sono maturi per la devoluzione delle controversie tributarie ad un giudice togato, ossia professionale ed a tempo pieno” (ivi, 19-20). Analogamente, dello stesso autore, ex multis, L’ampliamento della giurisdizione tributaria, cit., 51 e ss., 70; Giustizia tributaria, cit., 621-627. La richiesta di una magistratura di ruolo reclutata mediante concorso, è corale: cfr., tra gli altri, anche M. Basilavecchia, Criticità dell’attuale processo tributario e nella composizione delle Commissioni tributarie, in Neotera, 2009, n. 3 bis, 71 e ss.; F. Tesauro, Giustizia tributaria e giusto processo, cit., 314. Sul requisito di idoneità professionale anche ai fini dell’indipendenza ed imparzialità e per i riferimenti storici (ad Allorio, Micheli, Vanoni, Calamandrei), cfr. G. Marongiu, Le Commissioni tributarie da giudice specializzato a giudice togato: una proposta, ivi, 90 e ss., 95 e ss. Si vedano altresì E. Manzon, op. cit., 1142 e F. Gallo, Verso un “giusto processo” tributario, cit., 37-41.
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Professionalità da un lato (nella fase dell’esercizio del potere amministrativo), assenza di professionalità (sia in termini di conoscenze, sia in termini di status), dall’altro, nella fase di controllo giudiziale (29). Questo tipo di giudice che, per tali cause oggettive (ed a prescindere da lodevoli eccezioni), è oggettivamente “minusvalente” (30) rispetto agli altri giudici, sia sul piano dell’art. 108, secondo comma, Cost. (31), sia sul piano dell’attuale art. 111 Cost. (32), presenta un deficit ulteriore e strettamente connesso: non può garantire sufficiente certezza che la legge sarà ripristinata rispetto all’esercizio illegittimo del potere e dunque non può assicurare il senso del limite a chi è detentore del potere amministrativo; in una parola, non può riequilibrare potere con contropotere. Solo un giudice che non sia meno professionale dell’autore degli atti da giudicare, che non abbia (in termini relativi) un deficit di conoscenze e di tempo dedicabile, può contenere (anche in termini psicologici) lo strapotere della parte pubblica. Il cittadino oggi, nella nostra (davvero unica) Repubblica, si trova a subire un potere nella fase amministrativa che non è bilanciato da pari potere nella fase giudiziale. Non per mancanza di teorici strumenti decisionali (in parte anche per questo) (33), ma per mancanza di professionalità sostanziale.
(29) Contraddizione già ben evidenziata da G. Marongiu, Le Commissioni tributarie e il giusto processo (Relazione tenuta al primo Congresso Nazionale dei giudici tributari, svoltosi in Venezia, il 22 e il 23 ottobre 2004) in AA.VV., Giusto processo tributario e professionalità, a cura di E. Fortuna, Padova, 2006, 72. Osservazioni fortemente critiche (e qui condivise) sull’attuale organizzazione della giustizia tributaria, anche in F. Tesauro, op. cit., loc. cit. Sul “discutibile ordinamento della giustizia tributaria” anche alla luce della giurisprudenza della Corte Edu, si veda ora A. Marcheselli – R. Dominici, Giustizia tributaria, cit., 197-216. (30) Espressione di P. Russo, Il nuovo processo tributario, cit., p. 30, nonché Il giusto processo tributario, cit., 19. Ma si veda anche E. Manzon, Legge finanziaria per il 2002: le Commissioni tributarie verso l’apoteosi. È vera gloria?, in Riv. dir. trib., 2002, I, 171 e ss., 178. (31) “L’idoneità del giudice presenta, oltre ad una sua autonoma rilevanza costituzionale, stretti punti di contatto con il requisito dell’indipendenza” (P. Russo, Il giusto processo, cit., 19). (32) Rileva correttamente P. Russo (op. ult. cit., loc. cit.) che “la possibilità del contemporaneo esercizio della funzione giurisdizionale e di altre attività da parte dei membri delle Commissioni ingigantisce ulteriormente i sospetti sull’imparzialità di tali organi” alla stregua delle “garanzie imposte dall’attuale art. 111 della Costituzione”. (33) Cfr. quanto si dirà più avanti soprattutto in tema di tutela cautelare. È poi nota l’assenza di una tutela di previo accertamento negativo (salvo l’attuale disordinata interpretazione anche “ultra estensiva” dell’art. 19, decreto 1992 n. 546, su cui cfr. P. Russo,
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E viene dunque da chiedersi se tanta cura nel dotare di crescenti poteri l’autorità amministrativa (34) e tanta resistenza (e ormai decenni di ritardo) (35) per parificare il giudice tributario (in termini di selezione, di idoneità tecnica e status) al comune giudice ordinario (civile, penale o amministrativo), non corrisponda ad un deficit culturale, scarsamente attento a cosa significhi oggi democrazia del quotidiano (36). Un deficit per cui si ritiene che l’interesse fiscale richieda strapotere amministrativo da un lato, giustiziabilità “minusvalente” dall’altro. Quando invece, come da tempo rilevato da illuminata dottrina (37), “in un ordinamento democratico non è con l’indiscriminato sacrificio degli interessi privati che si attua nel modo migliore l’interesse pubblico”. Non molto essendo cambiato, sul piano culturale, rispetto a quando E. Allorio, nel 1939, segnalava che l’amministrazione “tollera a malincuore l’ingerenza correttiva della giustizia” (38). E se proprio la pubblica amministrazio-
Giustizia tributaria, cit., 627-631; Idem, Manuale di diritto tributario. Il processo, cit., 101 e ss.); cfr. anche A. Turchi, Premesse teoriche e portata garantista della teoria costitutiva alloriana, in Il contributo di Enrico Allorio allo studio del diritto tributario (Atti del Convegno tenutosi il 12 giugno 2015 presso l’Università di Milano), a cura di G. Ragucci, 176 e ss. ed A. Fantozzi, cit., retro, nota 20. (34) Da ultimo rendendo l’avviso di accertamento (in materia di Iva ed imposte dirette) provvedimento che assume altresì l’efficacia di titolo esecutivo e di precetto (cfr. art. 29, D. L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito in legge 30 luglio 2010, n. 122). (35) Per i numerosi tentativi, dal 1951 ad oggi, di riforma del sistema di contenzioso tributario, cfr. P. Russo, Il nuovo processo tributario, cit., 19 e ss., nota 33; Idem, Processo tributario, cit., 757, nota 8. (36) Rileva S. Cassese, (La democrazia e i suoi limiti, Milano, 2017, 104-105): “non ci si illuda che lo Stato democratico sia tutto democratico; una parte dei poteri dello Stato non è regolata da meccanismi democratici”. Sulla necessità “di una disciplina realmente democratica e sensibile al rispetto delle esigenze altrui”, cfr. G. Gaffuri, Aspetti critici della motivazione relativa agli atti d’imposizione e l’esecutività degli avvisi di accertamento, in Riv. dir. trib., 2011, I, 597. (37) F. Benvenuti, Per un diritto amministrativo paritario, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, 811. Continua l’autore, affermando che “la profonda sfiducia che caratterizza i rapporti tra i privati e i pubblici poteri, da un lato, come, dall’altro, la prevaricazione di questi ultimi e per ciò la qualità scadente, perché non meditata, dell’attività amministrativa, dipendono proprio dal fatto che così come il cittadino si sente, nella sostanza, non protetto, allo stesso modo l’autorità si sente sciolta da ogni responsabilità”. (38) E. Allorio, Pensiero storico e scienza processuale, in Riv. dir. comm., 1939, ed ora in La vita e la scienza del diritto in Italia e in Europa, Milano, 1957, 156. E la creazione (tutta italica) dell’interesse legittimo ne è una conferma storica. Per un esame critico della “posizione di ‘superiorità’ dell’amministrazione finanziaria”, si vedano le osservazioni di P. Russo, Giustizia tributaria, cit., 630.
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ne deve essere soggetta a giudizio (poiché lo impone la Costituzione), allora la linea ultima di resistenza si sposta (nel diritto tributario) sul piano del tipo di giudice che viene apprestato. Un giudice di categoria inferiore rispetto agli standard civili, penali, amministrativi, contabili. E la manus della parte pubblica, che per antica tradizione (39) “mal tollera” di essere giudicata, può scorgersi nella residuale presenza del Ministero dell’Economia e delle Finanze che non ha rinunciato ad avere un ruolo nel procedimento di nomina dei componenti delle Commissioni (40) e che determina i loro compensi (41). Per non dire che dal medesimo Ministero dell’Economia e delle Finanze ancora dipendono gli uffici di segreteria (42). Con tutto ciò emerge il sottofondo di radicata “nostalgia” per una giustizia “operante nell’amministrazione” (43). Questo persistente “filo di collegamento” può poi manifestarsi in controlli statistici (conteggio di percentuali di decisioni favorevoli o sfavorevoli al Fisco), segnalazioni sugli esiti di tali controlli, commenti (accorati o trionfalistici) sui medesimi, il tutto indicativo di una presenza incombente e di una disparità di peso rispetto alla parte privata, il che non sarebbe pensabile se la giurisdizione venisse finalmente affidata ad “un giudice vero e proprio” (44) e l’organizzazione al Ministro della Giustizia.
(39) F. Benvenuti (op. cit., 807-809) ricorda come nel diciannovesimo secolo la separazione dei poteri fosse intesa dall’amministrazione come garanzia della stessa da intromissioni del potere giudiziario. (40) Si veda l’art. 9, D. L.vo 1992, n. 545. (41) Ex art. 13, D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 545. Osserva F. Tesauro (Giustizia tributaria e giusto processo, cit., 314) che tale disciplina non è conforme al modello costituzionale: “dovrebbe dunque essere reciso ogni legame tra commissioni e Ministero: i profili organizzativi della giustizia tributaria non dovrebbero divergere da quelli delle altre giurisdizioni”. Si veda sul tema specifico anche E. Manzon, Processo tributario e Costituzione, cit., 1140-1144 e A. Marcheselli – R. Dominici, op. cit., 215. (42) Cfr. art. 32, D. L.vo 1992, n. 545. Per ampie osservazioni in proposito, cfr. A. Marcheselli – R. Dominici, op. cit., 211-214. (43) Come si pensò quando con legge del 1889 venne attivata la Sezione giudiziaria presso il Consiglio di Stato (così, ricordando F. Benvenuti, P. Russo, Contenzioso tributario, cit., 486-489). Lascia oggi stupiti l’art. 100, primo co., Cost., ove leggesi che “il Consiglio di Stato è organo … di tutela della giustizia nell’amministrazione”. (44) Così E. Manzon (Legge finanziaria, cit., 177), il quale altresì aggiunge che correlativamente “dovrebbero a tali organismi giudiziari essere attribuiti poteri processuali equiparati a quelli dei giudici omologhi di diritto interno ossia quello civile e quello amministrativo”. Dello stesso autore, cfr. anche Processo tributario e Costituzione, cit., 1140-1144.
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3. Assenza di una norma specificamente tributaria che riequilibri l’effetto preclusivo del provvedimento tributario non ritualmente impugnato per “errore scusabile”. – A conferma di un modello che tuttora (malgrado anche recenti opportune modifiche) (45) è più sensibile all’interesse fiscale (46) che alla pienezza della tutela giudiziale, non esiste nella disciplina espressa del processo tributario una norma che riequilibri l’ inammissibilità del ricorso in caso di errore scusabile. Quindi, da un lato la pretesa tributaria, espressa in uno dei provvedimenti di cui all’art. 19, D.lgs., 1992, n. 546, può essere impugnata solo entro stretti termini di decadenza e diventa definitiva (anche se erronea) se non correttamente impugnata (effetto preclusivo) (47), dall’altro il legislatore tributario non ha pensato di riequilibrare tale devastante effetto almeno con una disciplina della remissione in termini per errore scusabile (48). E ciò con l’aggravante che gli artt. 24 e 113 Cost., letti anche alla luce dell’art. 6 della Carta Europea dei diritti dell’Uomo (recepita nell’ordinamento grazie all’ art. 117, primo comma, Cost.), garantiscono l’effettività della tutela giudiziale in genere e tanto più a fronte degli “atti della pubblica amministrazione” (art. 113, primo comma, Cost.). Certo, dopo la modifica del codice di procedura civile ad opera della legge n. 69/2009, è possibile (grazie al rinvio contenuto nell’art. 1, secondo comma, decreto, n. 546/1992) richiamare l’art. 153, secondo comma, c.p.c., ai sensi del quale “la parte che dimostra essere incorsa in decadenza per causa ad essa non imputabile, può chiedere al giudice di essere rimessa in termini” (49).
(45) Ci riferiamo alle modifiche apportate al D. L.vo 31 dicembre 1992, n. 546, dall’art. 9, D. L.vo 24 settembre 2015, n. 156, su cui, cfr. C. Glendi – C. Consolo – A. Contrino, Abuso del diritto e novità sul processo tributario, Milano, 2016, 133 e ss., 265 e ss. (46) Aspetto, questo, segnalato anche da A. Fantozzi, La prospettiva tributaria, cit., 186 e da F. Gallo, Quale modello processuale, cit., 17. Per osservazioni critiche, alla luce oggi dell’art. 111 Cost., cfr. ancora F. Gallo, Verso un “giusto processo” tributario, cit., 21. (47) Ad avviso di G. Tinelli (Istituzioni, cit., 632), “i tempi sarebbero forse maturi per l’abbandono sia del sistema degli atti impugnabili, con un possibile ritorno ad un interesse ad agire di stampo processualcivilistico, sia del termine decadenziale per l’esercizio dell’iniziativa processuale”. (48) Come si è visto (retro nota 5), secondo G. Tinelli non solo detta norma dovrebbe essere prevista, ma dovrebbe essere allocata nello Statuto dei diritti dei contribuenti. (49) Sul tema, cfr. F. Randazzo, Rimessione in termini per l’impugnazione del provvedimento impositivo, in Corr. trib., 2009, 2690; Idem, Ricorso tributario tardivo e rimessione in termini, dopo la riforma dell’art. 153 c.p.c., in Riv. dir. trib., 2011, I, 213 e ss.; Idem, Impugnazione tardiva e rimessione in termini, in Dir. prat. trib., 2013, II, 1085.
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Tale disposizione, essendo di carattere generale, non subisce più le problematiche del precedente art. 184 bis c.p.c. (è applicabile anche alle situazioni esterne allo svolgimento del giudizio e dunque sia al ricorso di primo grado, sia agli atti di impugnazione) e, in quanto espressione dei principi di giusto processo (ex art. 111 Cost. ed ex art. 6 Cedu), potrebbe, a mio avviso, avere applicazione anche retroattiva (50) . Ma rimane che trattasi di norma pensata per un processo civilistico in un rapporto tra pari: ne è conferma il fatto che ai sensi dell’art. 153, secondo comma, la rimessione in termini non è applicabile d’ufficio ma solo su istanza di parte, il che mal si adatta al rapporto tributario, in cui si rende necessario impedire il più possibile che all’imposta dovuta per legge si sostituisca l’imposta dovuta per l’effetto preclusivo di provvedimento non ritualmente impugnato (51). Il primo comma dell’art. 113 Cost., nel prevedere una disposizione specifica a garanzia della tutela giurisdizionale “contro gli atti della pubblica amministrazione”, conferma la preoccupazione democratica di un riequilibrio a fronte del potere imperativo. Sembra dire che certo non può farsi a meno degli “atti della pubblica amministrazione”, ma che altrettanto imprescindibile è che tali atti siano sempre assoggettabili al vaglio di un giudice.
(50) È stato affermato che le SS. UU. della Corte di Cassazione, già con ordinanza 21 gennaio 2005, n. 1233, nello statuire “(sulla scia della sentenza n. 477 del 2002 della Corte costituzionale) che un effetto di decadenza non può discendere da un fatto estraneo alla sfera di disponibilità della parte”, ebbero ad inaugurare, in assenza di norma primaria, “una linea che valorizza la tecnica di assumere precetti costituzionali quali ‘fonte diretta di regolamentazione dei rapporti giuridici’ (Sez. Un. 28 luglio 2005, n. 15783) al fine di non addebitare alla parte incolpevole le conseguenze di atti e circostanze del procedimento che siano di ostacolo all’esercizio di poteri processuali esterni”. Così la ord. della Corte di Cassazione, Sez. seconda, 2 luglio 2010, n. 15811, in Il Corriere giuridico, 2010, n. 11, 1473 e ss., con nota di E. D’Alessandro, L’errore scusabile fa il suo ingresso nel processo civile: il mutamento di un precedente e consolidato orientamento giurisprudenziale quale giusta causa di rimessione in termini ai fini della proposizione del ricorso per cassazione. (51) Con sentenza 28 novembre 2012 – 11 marzo 2013, n. 6048 (in Dir. prat. trib., 2013, II, 1085 e ss., con nota di F. Randazzo, Impugnazione tardiva, cit., 1087 e ss.), la Suprema Corte, invocando una interpretazione costituzionalmente orientata, ha di fatto applicato retroattivamente il secondo comma dell’art. 153 c.p.c., in un caso in cui la segreteria della Commissione non aveva comunicato né la data dell’udienza, né il dispositivo della sentenza. Sulla necessità che il processo tributario si doti di “un testo tendente all’autosufficienza”, di “un codice del processo tributario in cui sia minimo il rinvio ad altre fonti”, cfr. F. Tesauro, Giustizia tributaria e giusto processo, cit., 330-331.
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Alla luce di questa finalità (di riequilibrio), assoluto rilievo assume, ad avviso di chi scrive, l’esperienza del diritto amministrativo (52). Fin dal 1925 (53) e poi con successivi interventi normativi e giurisprudenziali, nel sistema di giustizia amministrativa è prevista la remissione in termini per “errore scusabile”. “Errore scusabile” ci sembra espressione non identica a “causa non imputabile”, che, per quanto “ampia ed elastica” (54), si incentra sul concetto di colpa e dunque di diligenza (55). L’“errore scusabile” è applicabile, a mio avviso, anche a situazioni imputabili al trasgressore: “imputabili”, ma “scusabili”; ad esempio, e tipicamente, per situazioni di oggettiva incertezza normativa (56), che “rendono
(52) “L’esperienza dell’errore scusabile nel processo amministrativo” è considerata “significativa” al fine di interpretare l’art. 184 bis c.p.c., previgente, anche da Cass. civ., Sezione seconda, ord. 10 giugno 2010, n. 15811 (in tema di rimessione in termini per overruling). Anche F. Randazzo (Ricorso tributario tardivo, cit., 217-218) segnala come l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa abbia esercitato “un prepotente richiamo nella dottrina tributaristica”. Tale richiamo – giustificato dalla comune natura impugnatoria del processo e dai comuni principi di buona fede – viene ora rafforzato dall’art. 37 del Codice del processo amministrativo. (53) Già l’art. 34, primo co., del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 (quale modificato dalla legge 8 febbraio 1925, n. 88) prevedeva che “quando la legge non prescrive altrimenti, il ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale non è ammesso se non contro il provvedimento definitivo, emanato in sede amministrativa, sul ricorso presentato in via gerarchica, salva la facoltà dell’assegnazione di un breve termine per riprodurre all’autorità gerarchica competente il ricorso proposto, per errore ritenuto scusabile, contro provvedimenti non definitivi”. Ancora, l’art. 36, co. 2, del cit. R.D. (parimenti modificato dalla legge 8 febbraio 1925, n. 88) attenua la perentorietà dei termini di impugnazione, consentendo alla parte di rinnovare o integrare la notificazione nel caso di errore “che dalla sezione sia ritenuto scusabile”. Infine, l’art. 34, secondo co., della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, stabilisce che “in caso di errore scusabile il Consiglio di Stato può rimettere in termini il ricorrente per proporre l’impugnativa al giudice competente, che deve essere indicato nella sentenza del Consiglio di Stato, o per rinnovare la notificazione del ricorso”. Per una ricostruzione storica di normativa e giurisprudenza sul tema, cfr. A. Marra, op. cit., 209 e ss. (54) Si vedano gli attenti richiami di S. Boccagna, in AA.VV., Codice di procedura civile. Commentario Ipsoa, diretto da C. Consolo, quinta edizione, Milano, 2013, sub art. 153, 1820. (55) S. Boccagna, op.cit., loc. cit. Si veda anche, ex multis, R. Caponi, La causa non imputabile alla parte nella disciplina della rimessione in termini nel processo civile, in Il foro italiano, 1998, I, 2658 e ss., in particolare par. 5. (56) Cfr. A. Marra, op. cit., 206.
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necessario temperare gli effetti negativi derivanti dalla rigidità dei termini processuali” (57). Tutto deve essere sempre rapportato al valore superiore di garantire l’effettività della tutela giudiziale a fronte del potere amministrativo (58). Deve essere “scongiurato” il rischio che una applicazione troppo rigida della disciplina sui termini decadenziali “pregiudichi l’accesso alla tutela giudiziale (garanzia della giustizia)” (59). E dunque anche il giudizio di “scusabilità” non deve essere formulato solo nel rigido, asettico, microcosmo di cosa appartenga o meno alla normale diligenza (in diritto e in fatto), ma deve tener conto anche della necessaria giustiziabilità del potere amministrativo in un ordinamento democratico; è un contrappeso rispetto a quel potere autoritativo che giunge fino al punto di trasformare in imposta dovuta, quella che (magari) non è tale ex lege ma solo per disavventura nella presentazione di un ricorso. “Scusabilità”, dunque, anche in una ponderazione di valutazioni che da un lato considerino il comportamento del trasgressore, dall’altro l’effetto della decadenza sul piano dei valori costituzionali. 3.1. Segue: il quadro costituzionale dei valori in gioco. Rilevanza della disciplina dell’errore scusabile nel processo amministrativo. – Nella specie, lo ribadiamo, non trattasi solo del valore della effettività della tutela giudiziale (ex artt. 24 e 113 Cost.) a fronte di un generico provvedimento amministrativo impugnabile entro brevi termini di decadenza. Il che già non è poca cosa. Trattasi altresì del valore per cui la “prestazione imposta” è quella dovuta per legge, cioè per volontà parlamentare e non per eventuale provvedimento amministrativo (che può anche essere) contra legem. Sono in gioco aspetti nodali della democrazia: l’essere soggetti alla legge (ex art. 23 Cost.), verificata dal giudice (ex art. 113 Cost.), in contraddittorio (art. 111 Cost.) con chi ha potuto realmente difendersi (art. 24 Cost.).
(57) Così A. Marra, op. cit., 224. (58) Si noti che, con riferimento allo stesso concetto di “causa non imputabile” ex art. 184 bis c.p.c. (previgente), R. Caponi (op. cit., loc. cit., 2675) segnala che si deve “evitare anche il rischio di scegliere un canone troppo rigido: poiché la rimessione in termini serve a garantire l’effettività del contraddittorio fra le parti, la pretesa di comportamento diligente per ottenere la rimessione in termini non può essere eccessiva”. (59) Così A. Marra, op. cit., 231.
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La giurisprudenza amministrativa ha frequentemente rilevato che è “scusabile” l’errore (nell’osservanza di norme attinenti al rito) se esiste “uno stato di incertezza”, una “situazione normativa obiettivamente non conoscibile o confusa, comportante un’obiettiva incertezza” (60); ed ha anche segnalato quali possano essere le possibili cause di tale “stato di incertezza”. Si indicano così, con giurisprudenza ricorrente, “le difficoltà di interpretazione di una norma”, “la particolare complessità di una fattispecie concreta”, “l’esistenza di contrasti giurisprudenziali” o lo stesso “comportamento equivoco o non collaborativo dell’Amministrazione”, concludendo che tutte queste possono essere “ipotesi idonee ad ingenerare convincimenti non esatti, soprattutto nell’osservanza di norme di rito” (61). Tale indirizzo giurisprudenziale è stato recepito nell’art. 37, D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (contenente “Codice del processo amministrativo”), secondo cui “il giudice può disporre, anche d’ufficio, la rimessione in termini per errore scusabile, in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto”. Non v’è chi non veda come il tema delle “oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto” sia già molto avvertito anche dal legislatore tributario, che lo evoca, ad esempio, per escludere l’applicazione delle sanzioni amministrative (62). Ma soprattutto comune è la struttura del processo, che procede da impugnazione di atti entro brevi termini di decadenza; da ciò la necessità di riequilibrio rispetto a provvedimenti autoritativi che producono effetti unilateralmente e che diventano “inscalfibili” in difetto di corretta proposizione del ricorso (c.d. effetto preclusivo). Deve essere dunque favorita al massimo la possibilità di uno scrutinio da parte dell’organo giurisdizionale. In ragione di questa “disparità delle armi”; in ragione di questo pericolo che la disciplina del rapporto venga affidata ad atti unilaterali della pubblica amministrazione non ritualmente impugnati; in ragione anche del principio costituzionale che garantisce il vaglio giudiziale a fronte degli atti della pub-
(60) Ex multis, Cons. Stato, 31 gennaio 2007, n. 400 (cit. da A. Russo, La doppia notifica dell’accertamento non concede spazi all’errore scusabile nella tardività del ricorso, in Il fisco, 47-48/2015, 4591 e ss.) ed ivi ulteriori richiami. (61) Cons. Stato, 31 gennaio 2007, cit. Per una ricostruzione dell’evoluzione della giurisprudenza amministrativa, dagli anni trenta in poi, cfr. A. Marra, op. cit., 209-244. (62) Art. 8, D. L.vo 31 dicembre 1992, n. 546; art. 6, secondo co., D. L.vo 18 dicembre 1997, n. 472; art. 10 terzo co., legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del contribuente).
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blica amministrazione (art. 113 Cost.), riteniamo che la disciplina del processo tributario debba dotarsi di una propria norma di rimessione in termini per errore scusabile, analoga a quella del processo amministrativo (63); e tanto più se poi si consideri che nel diritto tributario l’assenza di vaglio giudiziale può rendere “dovuta” una imposta che non è tale ex lege. Per la stessa ragione, la remissione in termini dovrebbe essere concessa d’ufficio (64) e non condizionata alla domanda del contribuente, come invece prevede l’art. 153, secondo comma, c.p.c. (65). Non è questione di sacrificio di un interesse privatistico; è questione di sacrificio di un complesso di valori costituzionali propri dello Stato di diritto e dello Stato democratico (rilevano non solo gli artt. 24, 111 e 113, ma anche l’art. 23 Cost.) (66). E dunque, le oggettive difficoltà di interpretazione di una norma o di un complesso di norme (magari dovute alla novità della questione, all’assenza di precedenti giurisprudenziali, ai contrasti giurisprudenziali, o addirittura alla stessa carenza di chiare disposizioni normative), la particolare complessità di una fattispecie concreta, il comportamento non collaborativo della pubblica amministrazione, sono tutte ipotesi che possono configurare quell’errore scusabile che garantisce tutela giurisdizionale, riequilibrando l’esigenza di cer-
(63) Medio tempore, il dettato dell’art. 153, secondo co., c.p.c. potrebbe essere letto in senso garantistico, utilizzando anche l’ampia e consolidata giurisprudenza dei TAR e del Consiglio di Stato, refluita nell’art. 37 del Codice del processo amministrativo. In tal senso cfr. anche M. Cantillo (La nuova remissione in termini nel processo tributario, in Rass. trib., n. 4 del 2010, 919 e ss.), il quale afferma che “tra le cause non imputabili va certamente annoverato l’errore scusabile, nel significato che esso ha assunto nel processo amministrativo, per cui è tale anche l’errore indotto da indicazioni insufficienti o equivoche dello stesso atto impositivo o addirittura da incertezze normative”. Ma già prima M. Logozzo (L’ignoranza della legge tributaria), Milano, 2002, 216, aveva affermato che “scusabile dovrebbe ritenersi l’errore del contribuente nell’azionare la tutela giurisdizionale quando esso sia causato da una obiettiva incertezza della normativa. Forse è maturo il tempo per estendere al processo tributario l’istituto, tipico del processo amministrativo, della rimessione in termini per errore scusabile”. (64) Come prevede l’art. 37 Codice del processo amministrativo. (65) E come prevedeva l’art. 184 bis, previgente, c.p.c. Peraltro, in tema di overruling, la Suprema Corte ha ritenuto che non trovasse applicazione l’onere della istanza di parte (così, ad esempio, Cass. civ., Sezione seconda, ord. 10 giugno 2010, n. 15811, cit.). (66) Sulla vera e propria “doverosità costituzionale” della rimessione in termini per errore scusabile, cfr. A. Marra, op. cit., 232, 240, 253, 254. La rilevabilità di ufficio è consequenziale: è indicativa di un valore “che trascende l’interesse delle parti e che appartiene piuttosto all’ordinamento in quanto tale” (Idem, op. cit., 241).
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tezza (sottesa al termine di decadenza) con l’esigenza di vaglio giudiziale sul provvedimento autoritativo (67). 3.2. Segue: la remissione in termini per errore scusabile in un significativo precedente della Suprema Corte in materia doganale. – Significativo che, anche in assenza di norma tributaria espressa, si è avuto un caso in cui la Corte Suprema ha applicato in materia tributaria l’ “errore scusabile”, in attuazione dei principi costituzionali posti a tutela della “pari possibilità di esercizio del diritto di difesa del cittadino nei confronti dei provvedimenti amministrativi (artt. 3, 97 e 113 Cost., Corte Cost. 311/1994)”. Con riferimento a sanzione amministrativa irrogata nel 2000 in materia doganale (68) con provvedimento che non indicava adeguatamente quanto richiesto dall’art. 3, quarto comma, legge 241 del 1990, la Suprema Corte (69) ha ravvisato “una situazione di obiettiva incertezza per il destinatario dell’atto nell’individuare gli strumenti di tutela utilizzabili (difficoltà di interpretazione di una norma, particolare complessità di una fattispecie concreta, contrasti giurisprudenziali esistenti, equivoco comportamento dell’Amministrazione), con conseguente remissione in termini ai fini della rituale instaurazione del processo, anche dinanzi al giudice ordinario se il giudizio ha ad oggetto l’atto amministrativo ed il G.O. ha il potere di annullarlo, e se il giudizio ha connotazione impugnatoria” (70). Certo all’epoca il provvedimento era impugnabile nella sequenza “ricorso gerarchico – giudice ordinario” e risultava quindi del tutto naturale applicare un istituto che affondava le sue radici nel dovere di “trasparenza dell’azione
(67) Al termine della sua analisi sul termine di decadenza nel processo amministrativo, A. Marra (op. cit., 254) osserva “che non può darsi certezza senza giustizia, ovvero senza la garanzia effettiva del potere di agire in giudizio. Una certezza senza giustizia, infatti, sarebbe espressione di un’inaccettabile superiorità nel processo dell’interesse pubblico e dell’amministrazione che ne è portatrice”. (68) Impugnabile ex art. 18, secondo co., D.Lgs. n. 472 del 1997, con ricorso gerarchico e con azione innanzi al giudice ordinario. (69) Cass. civ. 6 settembre 2006, n. 19189. (70) “Quindi – prosegue la Corte – anche l’equivoca o incompleta indicazione nell’ordinanza ingiuntiva per il pagamento di sanzione amministrativa, del termine previsto a pena di decadenza per impugnarlo dinanzi all’autorità competente può determinare l’errore incolpevole dell’interessato, in coerenza con il fondamento dell’istituto medesimo (che trova la sua base normativa approvata con R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 34 T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato), con conseguente riammissione in termini per l’impugnativa, ove questa sia stata proposta tardivamente (Cass. 5453/1999; 3473/2000; Cons. Stato, sez. 5^, 15 aprile 1996, n. 434; Cons. Stato, sez. 4^, 30 marzo 2000, n.1814)”.
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amministrativa” e nel “dovere di cooperazione con il privato” (espressamente richiamati nella sentenza) e che era già disciplinato in norme fondamentali della giustizia amministrativa; ma al di là dell’occasione facilitata, esiste una comune, per così dire parallela, problematica tra diritto amministrativo generale e diritto tributario (71): a) un comune punto di partenza, l’autoritatività dell’atto che può trasformare unilateralmente in “dovuto” quello che per legge non è tale; b) una conseguente comune esigenza di assicurare al massimo il vaglio di un giudice; c) una comune tutela costituzionale ex artt. 3, 24, 97, 111 e 113 Cost.; d) un comune dovere di trasparenza e collaborazione imposto sia all’amministrazione pubblica in genere, sia all’amministrazione tributaria in specie; e) la necessità anche logica che la violazione del dovere di collaborazione da parte dell’amministrazione pubblica, non si converta in vantaggio per la medesima. Così la forza dei principi costituzionali, la logica e la “forza delle cose”, hanno già portato anche nel diritto tributario a soluzioni concrete di riequilibrio, tra poteri amministrativi e garanzie giudiziali, pur in assenza di norme specifiche di remissione in termini (72). 4. Assenza di adeguato riequilibrio dell’effetto esecutorio. Inadeguatezza dei restrittivi presupposti del “danno grave e irreparabile”. – Sopra si è parlato del riequilibrio dell’effetto preclusivo con la disciplina della “rimessione in termini per errore scusabile” (73).
(71) In tal senso, cfr. anche F. Tesauro, op. cit., 315, il quale rileva che “la nuova disciplina del processo tributario rispecchia quella del processo amministrativo, ma si rinvia, in caso di lacune, alle norme del codice del processo civile, in quanto corpo organico e compiuto di disciplina processuale”. Per l’“attrazione non solo del processo civile, ma anche e soprattutto di quello amministrativo”, cfr. F. Gallo, Quale modello processuale, cit., 20. (72) Qualcosa si muove comunque anche nella piattaforma di base del diritto tributario: a) quel dovere di indicare nel provvedimento impugnabile gli strumenti di tutela utilizzabili, già previsto nell’art. 3, quarto co., L. n. 241 del 1990, è ora previsto anche nel secondo co. dell’art. 19, D. L.vo 1992, n. 546; b) il dovere di “collaborazione” tra amministrazione e contribuente è espressamente statuito all’art. 10, primo co., Statuto dei diritti del contribuente. Anche per questi aspetti, di carattere procedimentale, tendono ad influenzarsi nei due ordinamenti le garanzie a fronte del potere. (73) Non è oggetto del presente lavoro il “riequilibrio” che dovrebbe essere offerto dall’autotutela, intesa non come potere discrezionale ma come potere vincolato al rispetto dell’art. 23 Cost.
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Chiediamoci ora se esista adeguato riequilibrio dell’effetto esecutorio (74). L’attuale disciplina contenuta nell’art. 47, D.Lgs. 1992, n. 546 (75) fu una grande conquista poiché precedentemente la scelta di fondo del legislatore tributario, avvallata da Cassazione (76) e Corte Costituzionale (77), era di riconoscere come unico potere di sospensiva quello dell’Intendente di Finanza, previsto all’art. 39, D.P.R. 1973, n. 602 (78), il cui diniego era eventualmente impugnabile innanzi al Tar ex art. 21, settimo comma, legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (recante istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali) (79). A fronte di tale inadeguatezza, una certa giurisprudenza ammetteva che il Giudice amministrativo potesse decidere non solo sulla legittimità o meno del diniego, ma anche sulla stessa sospensione del provvedimento tributario impugnato (80). Procedura evidentemente ardita, che peraltro denotava la ne-
(74) Sulla esecutorietà (ritenuta una forma di “autotutela esecutiva”) e sulla esigenza di tutela cautelare anche laddove il ricorso sospenda in parte l’esecutorietà dell’atto, cfr. P. Russo, Processo tributario, cit., 777-779. (75) Parliamo solo dell’art. 47, cit., in quanto ci occupiamo qui del riequilibrio dell’effetto esecutorio del provvedimento amministrativo. Per le norme che sospendono l’effetto esecutivo delle sentenze tributarie, cfr. art. 52, secondo co. e art. 62 bis, decreto 1992, n. 546 (riguardanti rispettivamente la sospensione dell’efficacia della sentenza di primo e di secondo grado). (76) Cfr., ex multis, la prima sentenza della Corte Suprema, 5 marzo 1980, n. 1471, escludente il potere di sospensione in capo alle Commissioni tributarie. (77) Cfr. Corte Cost., 1 aprile 1982, n. 63, la quale suffraga il suo dire, tra l’altro, negando che alle Commissioni tributarie spetti una giurisdizione di annullamento (nello stesso senso si era pronunciata la citata sentenza della Cass. civ., n. 1471/1980). Contra, anche con citazione di altre pronunce della Corte suprema, C. Glendi, La tutela cautelare in materia tributaria, in Dir. prat. trib., 1985, I, 1153 e ss., 1156; dello stesso autore, cfr. anche, ex multis, Nuove esperienze giurisprudenziali sulla tutela cautelare in materia tributaria, in Dir. prat. trib., 1985, II, 1084 e ss. Per una accurata rassegna giurisprudenziale e dottrinale sull’art. 47, cfr. S. Muleo, La tutela cautelare, in AA. VV., Il processo tributario, a cura di F. Tesauro, Torino, 1998, 829-983. (78) Per l’esclusione che detto potere di sospensione dell’Intendente potesse “surrogare una misura cautelare di natura giurisdizionale”, si veda per tutti C. Magnani, Il potere cautelare dell’amministrazione finanziaria e i procedimenti di sospensione della riscossione, in Dir. prat. trib., 1985, I, 1164 e ss., 1169. Sul “poverissimo ruolo”, ai fini della tutela cautelare, dell’art. 39, D.P.R. 1973, n. 602, cfr. C. Consolo, La tutela cautelare tributaria “ritrovata” (fra le pieghe pretorie dell’ordinamento della giustizia amministrativa), in Rass. trib., 1986, I, 279 e ss. (ripubblicato nell’ampia raccolta Dal contenzioso al processo tributario. Studi e casi, Milano, 1992, 603 e ss.). (79) Già la citata sentenza della Corte Suprema, 5 marzo 1980, n. 1471 prevedeva (consolatoriamente) che contro il diniego dell’Intendente fosse esperibile il ricorso al Tar. (80) Per un’ampia e approfondita disamina dell’intera problematica (e dei diversi
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cessità imprescindibile di un riequilibrio giudiziale immediato a fronte del provvedimento esecutorio. Conquista tanta auspicata e richiesta, dunque, quella dell’art. 47 (81), ma necessariamente realizzata utilizzando (quanto ai presupposti processuali) le formule degli artt. 700 c.p.c. (82) e 21, settimo comma, legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (83). Purché fosse ammesso il potere di sospensione cautelare del “giudice naturale delle controversie fiscali” (84), il periculun in mora fu collegato alla formula assai restrittiva del “danno grave ed irreparabile”, non certo la più idonea per paralizzare un’illegittima pretesa riguardante un’obbligazione pecuniaria (85).
interventi dottrinali e giurisprudenziali), si vedano i numerosi scritti di C. Consolo, ripubblicati in Dal contenzioso al processo tributario, cit., 511-697 e in particolare 600 e ss. Cfr. altresì, S. Muleo, op. ult. cit., 838-839. (81) Per un approfondito esame di ogni aspetto, cfr. C. Glendi, La tutela cautelare del contribuente nel processo tributario riformato (art. 47 del D.lgs. n. 546 del 1992 e norme complementari), in Dir. prat. trib., 1999, I, 21-152. (82) Il provvedimento di urgenza di cui all’art. 700 c.p.c. presuppone il “fondato motivo” di un “pregiudizio imminente e irreparabile”. (83) L’intervento di urgenza del giudice amministrativo presuppone l’esistenza di “danni gravi e irreparabili”. Per l’influenza dell’art. 21 cit., sull’art. 47, cit., cfr. S. Muleo, op. ult. cit., loc. cit., 858 e ss. (84) Espressione di C. Consolo, Dal contenzioso al processo tributario, Milano, 1992, 515. (85) Per osservazioni analoghe (con riferimento ad ulteriori progetti di legge, parimenti ancorati al “danno grave e irreparabile”), cfr. C. Consolo, La sospensione della riscossione fiscale. Sguardo retrospettivo ed analisi critica del progetto di legge approvato dal Senato, in il fisco, 1989, 5755 e ss., ripubblicato in Dal contenzioso al processo tributario, cit., 590591. Rileva il chiaro autore che meglio avrebbe fatto il progetto se avesse invece riferito il presupposto al “grave pericolo nel ritardo”, “che non evoca la nozione di irreversibilità, la quale, nel caso di esecuzione per un debito di pagamento di denaro, appare effettivamente integrata nei rari casi di compressione del livello di vita della persona fisica e/o di dispersione dell’avviamento aziendale, esposizione al rischio di decozione, smobilizzi rovinosi, etc.”. Già nell’immediatezza della nuova norma, L. Tosi (L’azione cautelare dopo la riforma del processo tributario, in Boll. trib., 1992, 789 e ss.) paventava la giurisprudenza amministrativa in tema di “danno patrimoniale”, ritenuto “per definizione reintegrabile” (ivi, nota 14). Rilevava una significativa differenza tra “il caso, più frequente nelle controversie amministrative, in cui un’utilità (denaro o altro) viene negata ed il caso, in cui si sostanzia la controversia tributaria, in cui la prestazione pecuniaria viene imposta” (ivi, 790). Rileva infine S. Muleo (op. ult. cit., 868) che la legge delega (art. 30, primo co., lettera h, legge 30 dicembre 1991, n. 413) non prevedeva, quali presupposti del provvedimento cautelare, “il danno grave e irreparabile” e pertanto “potrebbe non essere infondato il dubbio di legittimità costituzionale della legge delega sotto il profilo dell’eccesso di delega ex art.
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Non sono mancate così pronunce che hanno escluso l’irreparabilità del danno in quanto detto requisito sussisterebbe “soltanto nel caso in cui l’esecuzione provochi un pregiudizio irreversibile ossia non suscetibile di reintegrazione per equivalente, generalmente riferibile ai danni causati a beni infungibili” (86) e poiché comunque lo Stato è sempre in grado di rimborsare (87). Certo trattasi di interpretazione abrogante, in quanto tale illogica, ma facilitata da una assunzione letterale dell’espressione “irreparabile” (88). Tralasciando anche queste non maggioritarie pronunce e venendo alla parte ricostruttiva, il punto essenziale è quello di trovare un giusto equilibrio tra il diritto riscossivo dello Stato e “la giustezza dell’aspirazione del cittadino
76 Cost.”. Tesi non condivisa da C. Glendi, La tutela cautelare del contribuente, cit., 40. (86) Commissione tributaria regionale di Venezia-Mestre, Sez. 26, 27 giugno 2016 – 4 luglio 2016, n. 435 (in riferimento all’art. 62 bis, decreto 1992, n. 546); analogamente, la stessa Commissione, Sez. 26, ha escluso la sospensione ex art. 62 bis, adducendo “che il motivo addotto ha natura economica e come tale non ha il carattere della irreparabilità”. Ma per orientamenti in tal senso già nell’interpretazione amministrativa, cfr. S. Muleo, op. ult. cit., 858-859. (87) Così la ordinanza n. 435/2016 ora citata, basata sul seguente passaggio motivazionale: “premesso che il pagamento di una somma di denaro, ancorché molto elevata, può provocare un danno irreparabile laddove vi sia l’impossibilità o l’estrema difficoltà di ripetizione delle somme pagate in esecuzione della sentenza ovvero vi siano dubbie garanzie sulle condizioni patrimoniali della parte a cui la sentenza oggetto di esecuzione è favorevole”, “tale irreparabilità non può certo ascriversi allo Stato”. Ma si veda anche Commissione tributaria regionale di Venezia-Mestre, Sez. 2, 18 luglio 2016 – 19 luglio 2016, n. 493, ove (pronunciando sulla richiesta di sospensione della sentenza di primo grado) si afferma che “non sussiste il prospettato pregiudizio grave ed irreparabile, stante il rilievo dell’evidente insussistenza dell’impossibilità di ripetere le somme in caso di esito positivo del giudizio di appello, essendo l’Erario l’eventuale debitore”. Afferma ancora questa ordinanza che “l’esigenza che sia garantito il regolare pagamento delle imposte rende necessaria la rigorosa valutazione dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora” e “comporta che nella comparazione dei contrapposti interessi del contribuente e dell’Erario vada accordata prevalenza all’interesse di quest’ultimo a conseguire il pagamento di somme non pagate dal contribuente, quando si sia in presenza, come nel caso di specie, del vaglio di legittimità dell’azione di accertamento e riscossione reso, in contraddittorio, in un grado di giudizio”. Esclude “la ricorrenza di una situazione di pregiudizio irreversibile ed insuscettibile di restitutio in integrum nel caso di cassazione della sentenza”, anche Commissione tributaria regionale di Venezia-Mestre, Sez. 31, 27 giugno 2016, n. 419. (88) D’altronde, come segnala S. Muleo (op. ult. cit., 859), lo stesso Consiglio di Stato (Sez. VI, 31 luglio 1987, n. 526) ha ritenuto che il mero danno patrimoniale, in quanto non riguardante un bene infungibile, non realizzi il requisito della “gravità”, “a meno che esso non si accompagni a circostanze soggettive particolari, capaci di provocare ulteriori conseguenze negative”.
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acchè un provvedimento impositivo che appaia verosimilmente illegittimo non possa essere portato alle conseguenze espropriative e liquidative del suo patrimonio senza aver incontrato subito un vaglio giurisdizionale (89)”. Nessuno nega che esista un interesse pubblico alla regolare e sollecita riscossione dei tributi, ma detto interesse riguarda le imposte dovute ex lege, non certo le imposte dovute per illegittimo atto di recupero. Se dunque si ritiene di mantenere (come principio generale) l’obbligo di pagamento ancor prima di un vaglio giudiziale (90); se nel contempo l’interesse pubblico alla sollecita riscossione riguarda l’imposta dovuta ex lege (e non l’imposta indebita), la sospensiva del provvedimento di recupero tributario dovrebbe assumere a suo presupposto il solo elemento “del fumus boni iuris, vale a dire la condizione della apparente fondatezza delle ragioni fatte valere dal contribuente” (91). Per riequilibrare l’effetto esecutorio e tutelare il principio di legalità, ci sembra molto preferibile la soluzione dell’art. 93 Abgabenordnung, il quale prevede che l’autorità amministrativa possa sospendere il provvedimento anche in base all’unico elemento del “serio dubbio sulla legittimità dell’atto impugnato” (92).
(89) C. Consolo, Dal contenzioso al processo tributario, cit., 514. (90) Non mancano invero casi in cui il ricorso sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento tributario impugnato. Anche senza citare la disciplina dell’imposta suppletiva (giustificata da originario errore della pubblica amministrazione) ove la riscossione è rinviata all’ultima sentenza di Commissione tributaria (art. 68, terzo co., D.Lgs. 1992, n. 546), cfr., ad esempio, l’efficacia sospensiva dei ricorsi contro l’avviso di accertamento applicativo della regola dell’abuso di diritto (art. 10 bis, decimo co., Statuto del contribuente) e contro il provvedimento di irrogazione sanzioni (art. 19, primo, quarto e quinto co., D.Lgs., 1997, n. 472). (91) Così G. Falsitta, Riscossione coattiva dei tributi e garanzia del cittadino, in AA.VV., Procedimenti tributari e garanzie del cittadino, a cura di F. Moschetti, Atti del Convegno svoltosi a Ca’ Foscari, Università di Venezia, il 25 febbraio 1983, pubblicati da Cedam, Padova, 1984, 104. Aggiunge il chiaro autore: “per quanto concerne l’altra condizione, della irreparabilità del danno, ritengo che si tratti di un presupposto da sopprimere, poiché la irreparabilità del danno, se c’è il fumus boni iuris (ossia se è ragionevole ritenere che l’esecuzione sia illegittima), è in re ipsa”. Contra, C. Glendi, La tutela cautelare del contribuente, cit., 28 e ss. (92) Cfr., per la descrizione di tale procedimento, C. Consolo, Lineamenti per la elaborazione (specie de iure condendo) di una inibitoria giurisdizionale in materia tributaria, ripubblicato in Dal contenzioso al processo tributario, cit., 519, 541-543. Si veda altresì G. Boer, La tutela cautelare tributaria: un confronto tra disciplina italiana e tedesca, in Riv. dir. trib., 1995, I, 787 e ss. Per un confronto anche con Francia, Inghilterra e Spagna, si veda P. Piantavigna, La tutela cautelare del contribuente nel processo tributario: uno studio comparato, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2015, I, 267 e ss.
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Circa il periculum in mora, non è ivi declinato nel senso del “danno grave ed irreparabile”, bensì dell’esistenza di “iniqui e consistenti pregiudizi conseguenti all’esecuzione e non giustificati da superiori interessi pubblici” (93). Ad avviso di chi scrive, è sempre “iniquo pregiudizio” dover pagare un’imposta dovuta in base ad errato provvedimento amministrativo e dunque la sospensione cautelare dell’efficacia esecutoria dovrebbe essere collegata unicamente al “serio dubbio” sulla legittimità dell’atto impugnato (94). Non dovrebbe essere abrogato solo il riferimento alla irreparabilità ma anche alla gravità del danno: non si vede perché il contribuente debba subire il pagamento anticipato di una imposta presumibilmente non dovuta ex lege, se il danno esiste ma non è “grave”. È ancora in gioco – lo ribadiamo – un asse portante dell’ordinamento democratico: il collegamento dell’obbligazione tributaria all’imposta dovuta per legge; se (in una certa fase storica) si ritiene che l’atto di recupero dell’autorità amministrativa debba essere dotato di efficacia esecutoria, bisogna il più possibile evitare il “danno grave” di un pagamento collegato ad atto amministrativo illegittimo.
(93) C. Consolo, ibidem, 542. Si noti l’applicazione, anche in questo caso, del principio di proporzionalità, pervasivo nell’ordinamento tedesco (su cui cfr. G. Moschetti, Il principio di proporzionalità come “giusta misura” del potere nel diritto tributario. Premesse generali, Padova, 2017, 107 e ss.). Già M. Dalla Costa, Il procedimento cautelare, in AA.VV., Il nuovo processo tributario, a cura di L. Tosi e A. Viotto, Padova, 1999, 103, aveva osservato che “questo concetto di danno grave e irreparabile dovrebbe essere elaborato e valutato con riferimento a una sproporzione che si verrebbe a creare tra il vantaggio che l’amministrazione avrebbe dall’esecuzione dell’atto impugnato oggetto di ricorso, e il danno che avrebbe quel ricorrente che quell’esecuzione subisce, sta subendo, o dovrebbe subire”. (94) Altra dottrina preferisce il doppio elemento del fumus e del danno, ma collegando quest’ultimo non alla formula del “danno grave e irreparabile”, bensì del “grave pregiudizio” (C. Consolo, La sospensione della riscossione fiscale. Sguardo retrospettivo ed analisi critica del progetto di legge approvato dal Senato, in Il Fisco, 1989, 5755, ed ora in Dal contenzioso al processo, cit., 579 e ss., 584). Formula certamente assai migliorativa ma che, a nostro avviso, non supera l’obiezione che ogni riscossione non fondata su quanto dovuto per legge è danno non costituzionalmente giustificato. Per un esame del “ricco dato normativo” in tema di periculum in mora, cfr. C. Consolo, Lineamenti, cit., in Dal contenzioso al processo, cit., 528-536 (ove l’autore, ante riforma del 1992, auspica che si consideri “rilevante in sede di valutazione inibitoria, anche il pericolo di pregiudizi non propriamente irreparabili”), nonché C. Glendi, La tutela cautelare del contribuente, cit., 38 e ss.
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Il diritto dello Stato al sollecito pagamento del tributo è già tutelato dal limite temporale del periodo di sospensiva (95) e dalla possibilità di sospensione parziale (96). 4.1. Segue: e dell’unico grado di giudizio. – Si è sopra visto che è stata una (sofferta e) importante conquista l’attribuzione al giudice tributario del potere di sospensione cautelare, ma che aver condizionato tale potere al “danno grave e irreparabile” mal si adatta ad una richiesta di sospensiva: a) di una obbligazione di pagamento; b) nei confronti dell’amministrazione pubblica. Di più: enfatizza la tutela della celere riscossione di un tributo che è ancora sub iudice, mentre svaluta la premessa fondamentale che in una democrazia il tributo è quello dovuto per legge e dunque anche l’interesse pubblico alla riscossione riguarda quanto dovuto ex lege. Aggiungiamo un altro aspetto: l’assenza di un doppio grado di giudizio (97). L’esperienza concreta ha dimostrato che escludere l’impugnabilità dell’ordinanza (98) può comportare inadeguata attenzione del decidente. A fronte di ordinanze che, ad esempio, escludono il danno grave e irreparabile perché, per definizione, lo Stato potrà sempre un giorno rimborsare (99), non può non avvertirsi che concedere il giudizio (cautelare) ma senza possibilità di appello può vanificare ab imis la tutela (100).
(95) Settimo comma dell’art. 47 cit. (96) Quinto comma dell’art. 47 cit. (97) Come noto, nel processo amministrativo, l’ordinanza cautelare è impugnabile innanzi al Consiglio di Stato (cfr., art. 62, primo co., D. L.vo 2 luglio 2010, n. 104). Rileva G. Boer (op. cit., 815) che risulta “difficile, se non impossibile, trovare logiche motivazioni, per le quali ciò che ormai è pacificamente riconosciuto nel processo amministrativo venga negato a quello tributario, che pure ha per oggetto atti e comportamenti della pubblica amministrazione. La specialità della disciplina sostanziale non può avere conseguenze sul piano processuale, ove le esigenze di giustizia non possono essere compresse dall’interesse finanziario dello Stato”. Anche nella disciplina tedesca (sopra vista) è ammesso un doppio grado di tutela cautelare sia nella fase amministrativa, sia nella successiva giudiziaria. (98) Quarto comma dell’art. 47 cit. (99) Cfr. le ordinanze citate, retro, note 86 e 87. (100) A favore del doppio grado di giudizio cautelare, osserva G. Boer (op. cit., 812) che, diversamente, si corre “il rischio di avere indirizzi difformi nell’ambito della stessa regione e, perfino, tra sezioni della stessa Commissione”. La scelta del legislatore è invece condivisa (sia sul piano costituzionale, sia sul piano della ragionevolezza ed opportunità) da C. Glendi, La tutela cautelare del contribuente, cit., 104-107, 147.
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Il secondo grado di giudizio è cioè imprescindibile proprio a fronte del rischio (che è concreto) di sostanziale non esercizio del primo grado (101). Anche qui, poi, non si deve paventare l’eccessivo prolungamento della fase incidentale: il contrappeso esiste ed è il termine ultimo di sospensiva rappresentato dalla sentenza di primo grado. Ulteriore aspetto di vanificazione della (teorica) tutela cautelare è emerso a causa del dissesto epocale del sistema finanziario. L’ordinanza di sospensione condizionata ad una fideiussione ha spesso tolto con una mano quanto era concesso con l’altra (102) . Tutto poi aggravato dal fatto che non è ancora radicata la “cultura” della essenzialità della tutela cautelare come completamento di una piena tutela giudiziale. Si avverte talora un senso di graziosa concessione nelle udienze di sospensiva, quasi fossero un “rallentamento dei lavori” (103), anziché passaggi imprescindibili al fine di realizzare i valori costituzionali, che sono certo quelli degli artt. 24, 111 e 113 Cost., ma anche del necessario riequilibrio a fronte dell’esecutorietà del provvedimento amministrativo. Di più: si è rivestito di esecutorietà non un qualunque provvedimento amministrativo, ma un provvedimento che unilateralmente afferma l’esistenza di una violazione. In un sapiente equilibrio di poteri, l’efficacia esecutiva di un provvedimento unilaterale accusatorio dovrebbe seguire al vaglio giudiziale (104); ma
(101) Ma può esistere anche il caso opposto di sospensione concessa “in carenza dei presupposti specifici”. Sul tema, si veda Commissione tributaria centrale 22 dicembre 1988, depositata il 16 gennaio 1989, n. 300, con nota di C. Consolo, Questioni procedimentali in tema di sospensione della riscossione (specie con riguardo alla appellabilità dei relativi provvedimenti), in Rass. trib., 1989, II, 779, ora in Dal contenzioso al processo tributario, cit., 573. (102) La disciplina è stata modificata nel testo novellato del quinto co. dell’art. 47, che richiama la garanzia dell’art. 69, secondo co., dello stesso decreto n. 546, il quale, a sua volta, richiama un decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze il cui contenuto dovrà tener conto di quanto oggi stabilisce l’art. 38 bis, quinto co., decreto Iva. Fino all’emanazione di questo decreto, rimangono le misure previgenti (così dispone l’art. 12, secondo co., D. L.vo 24 settembre 2015, n. 156); in altri termini, ad oggi nulla è innovato e la problematica permane. (103) Complice anche il tuttora vigente art. 13, secondo co., D.Lgs. n. 545/1992, che prevede un compenso aggiuntivo “per ogni ricorso definito” e dunque non per le ordinanze di sospensione cautelare, come ricorda C. Glendi, Fermenti legislativi processualtributaristici: lo schema del decreto delegato sul contenzioso, in Corr. trib., 2015, 2467 e ss., 2472, nota 21. (104) Non a caso è così in materia sanzionatoria tributaria. Per la disciplina generale delle sanzioni amministrative, la garanzia si è invece spostata sulla possibilità di sospensiva giudiziale “quando ricorrono gravi e circostanziate ragioni” (cfr.
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se si ritiene che (oggi) l’equilibrio sia meglio assicurato dalla riscossione graduale anteriore alla sentenza di primo grado, amplia dovrebbe essere almeno la possibilità di riequilibrio del giudice. Naturalmente “natura non facit saltus”: fu già un “salto di qualità” concedere nel nostro Paese il potere al giudice tributario; è ora necessario che questo contrappeso sia “idoneo al fine” e non affidato a “casi limite”. 5. “Potere delle armi” e giudice “soccorrevole”. – Abbiamo fin ad ora parlato di necessari contrappesi al potere, in termini di diritti del contribuente (diritto ad un giudice vero, diritto ampio alla sospensione dell’efficacia esecutoria del provvedimento, diritto alla remissione in termini alla luce del primato dell’effettivo vaglio giudiziale). Un altro aspetto attiene invece alla necessaria consequenzialità tra potere e responsabilità: se ad un soggetto è attribuito (e non può essere diversamente) il “potere delle armi”, quel soggetto deve essere responsabilizzato all’esercizio legittimo del potere (105); se invece l’esercizio illegittimo refluisce in una sfera di irrilevanza, si apre la strada all’onnipotenza del potere.
art. 5, primo co., D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150). (105) Da ciò l’orientamento che ritiene più coerente un “processo di impugnazioneannullamento”. È stato osservato che esiste un collegamento in termini di consequenzialità e coerenza tra atti di recupero autoritativi e giurisdizione di annullamento “se l’imposizione non ha rispettato le regole di esercizio del potere impositivo” (così, illustrando il pensiero di Allorio, F. Tesauro, Imposizione e processo tributario nel pensiero di Enrico Allorio, in Il contributo di Enrico Allorio, cit., 51-52). Il nesso tra “esercizio autoritativo del potere di imposizione” da un lato, e “l’esigenza di un’efficace tutela giurisdizionale dei contribuenti” dall’altro, è richiamato anche da A. Turchi, op. cit., 161: “la tutela costitutiva – conclude il chiaro autore – rimane presidio indispensabile in un sistema che riconosce effetti autoritativi agli atti dell’amministrazione finanziaria: come Allorio aveva chiarito, l’azione di impugnazione fa da contrappeso al potere impositivo, e non può che produrre effetti costitutivi simmetrici a quelli dell’atto di imposizione”. Analogamente, S. La Rosa (Amministrazione finanziaria, cit., 201), nel caso di “veri e propri provvedimenti amministrativi”, ritiene che “la sola tutela giurisdizionale che in tali casi l’ordinamento può offrire al cittadino è data dall’azione (costitutiva) di annullamento (totale o parziale) del provvedimento impugnato, in quanto a poco servirebbe una astratta dichiarazione della volontà della legge, che tenesse pur sempre in vita il provvedimento illegittimo”. Ma si vedano anche le osservazioni di P. Russo (Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., 128) in tema di corrispondenza tra tipo di norma (materiale o strumentale), tipo di situazione soggettiva (diritto soggettivo o interesse legittimo), tipo di tutela giudiziale (giudizio di accertamento o giudizio di impugnazione-annullamento). Osservazioni condivise da G. Fransoni, Giudicato tributario, cit., 132.
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Orbene questo è oggi il diritto vivente in nome di una pervasiva supremazia dell’interesse fiscale (106): nella fase istruttoria, non è prevista una tutela del giudice tributario a cui, nel contempo, è stata attribuita la esclusività della giurisdizione (107); le violazioni istruttorie non comportano illegittimità dell’atto finale conseguente, salvo i casi più gravi incidenti su valori costituzionali (108); tutto poi confluisce in un tipo di giudizio qualificato come di “impugnazione-merito”, in cui il giudice può confermare la pretesa tributaria sostituendo (salvo i casi più gravi comportanti annullamento in limine litis) alla motivazione dell’avviso di accertamento, una motivazione propria (109). Quello che è indubbiamente provvedimento autoritativo nella fase procedimentale (110), viene, in talune pronunce, riqualificato come mero “veicolo d’accesso” (111) ad un giudizio di accertamento che si conclude con decisio-
(106) In relazione al quale, vedi le osservazioni di G. Falsitta, Corso istituzionale di diritto tributario, sesta edizione, Milano, 2016, XXVIII. Criticamente, con riferimento specifico al processo tributario dopo l’art. 111 Cost., anche F. Gallo, Verso un “giusto processo” tributario, cit., 21. (107) Cfr. retro, par. 1 ed ivi, nota 16. (108) Sulla utilizzabilità o meno, nel processo, della prova illegittimamente acquisita, cfr., ex multis, S. La Rosa, Amministrazione finanziaria, cit., 75-76; Idem, Sui riflessi procedimentali e processuali delle indagini tributarie irregolari, in Riv. dir. trib., 2002, II, 292 e ss.; P. Russo, Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., 290-292; R. Miceli, in A. Fantozzi (a cura di), Diritto tributario, IV edizione, Torino, 2002, 662-671. (109) Come rileva da ultimo C. Consolo, Appendice giuridico-sistematica, cit., 341, “la giurisprudenza, a partire dalla storica pronuncia n. 1472 del 1980, con cui le Sezioni Unite, misero in chiaro che le commissioni tributarie non esercitano una giurisdizione amministrativa volta a verificare la legittimità degli atti impositivi con effetti sempre e solo caducatori, fino ad oggi ha marciato unita sotto il vessillo del giudizio di ‘impugnazione-merito’”. La teoria del giudizio di “impugnazione-merito” è appunto da sempre propugnata da P. Russo (come esposto retro in nota 1), che è altresì l’autore dell’espressione cui ha arriso il massimo successo in dottrina e in giurisprudenza. Esclude invece un “intervento sostitutivo, attraverso la sentenza, del comportamento amministrativo, così come definitosi nell’atto impugnato”, V. Ficari, in A. Fantozzi, Diritto tributario, cit., 1013. Sul “modello spurio” che emerge dalla giurisprudenza, cfr. F. Tesauro, Giustizia tributaria, cit., 316 e ss. Parla invece di “carattere ibrido”, A. Fantozzi, La prospettiva tributaria, cit., 184. Sui recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, cfr. A. Turchi, op. cit., 172 e ss., nonché ancora C. Consolo, Appendice giuridico-sistematica, cit., 337-345. Si veda anche G. Fransoni, Giudicato tributario, cit., 132. (110) Ciò è riconosciuto da ultimo da C. Consolo, Appendice giuridico-sistematica, cit., 335-336. (111) Cfr. F. Tesauro, Giustizia tributaria, cit., 318, nonché C. Consolo, op. ult. cit., 343.
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ne sostitutiva della motivazione erronea contenuta nell’accertamento tributario (112). Ciò altera il rapporto “potere-responsabilità” ed assicura impunità (giuridica e culturale) al detentore del potere. Se anche questo sia stato esercitato in modo illegittimo, c’è poi il paracadute, il salvataggio, del giudice “soccorrevole”, che corregge e sostituisce, consentendo di portare ex post ad esecuzione, con altra motivazione, una pretesa ex ante illegittima. Se questo è il diritto vivente, ciò ha anche sue giustificazioni: esiste una ragione di economicità procedimentale, esiste una ragione di riportare l’an e il quantum debeatur all’obbligazione dovuta per legge (art. 23 Cost.) (113), ma è tutto un sistema che risulta squilibrato nel momento in cui “potere delle armi” e responsabilità per illegittimo esercizio del potere non hanno adeguata consequenzialità. Si scontano due successive anomalie, che sembrano tendere al reciproco annullamento: - dapprima, malgrado la fonte ex lege dell’obbligazione tributaria, la fase di recupero è affidata ad atti autoritativi che possono sostituire all’obbligazione legale l’obbligazione da provvedimento; - poi, a fronte del provvedimento autoritativo, il processo tributario non riguarda l’atto bensì il merito, con decisione giudiziale sostitutiva del provvedimento stesso, per recuperare il rapporto legge-fatto. Ciò si è realizzato in modo eclatante (quanto illegittimo) nelle sentenze delle Sezioni Unite del 23 dicembre 2008 in tema di abuso del diritto (114): gli avvisi di accertamento emessi con una motivazione impostata sulla simulazione, vennero confermati dalla Suprema Corte con una motivazione impostata sull’abuso del diritto.
(112) Contro la teoria del giudicato sostitutivo dell’atto impugnato, cfr. F. Tesauro, Manuale del processo tributario, terza edizione, Torino, 2016, 189 e ss. (113) Osserva C. Consolo (Appendice giuridico-normativa, cit., 343) che escludere che il giudice possa, con la sua sentenza, compiere una “nuova fissazione del dovuto” è apparso “troppo penalizzante nei riguardi dell’interesse collettivo al recupero del dovuto”. Si vedano anche le osservazioni di A. Fantozzi, La prospettiva tributaria, cit., 184, ove si richiama “la probabile decadenza dell’amministrazione che avesse dovuto riproporre l’atto annullato”. (114) Cass. civ, SS.UU., 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056, 30057. Ora vedasi comma 9 dell’art. 10 bis, Statuto del contribuente, il quale esclude la rilevabilità di ufficio dell’abuso di diritto.
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Ma non si tratta di caso isolato. Può avvenire che una pretesa per operazioni oggettivamente inesistenti, venga dal giudice confermata e rimodulata in termini di operazioni soggettivamente inesistenti; oppure che una pretesa per dichiarazione infedele (essendosi ritenute rappresentative della realtà quelle che invece erano fatture emesse per operazioni radicalmente inesistenti) venga del pari confermata riconoscendo che le fatture emesse riguardavano operazioni inesistenti, ma per ciò stesso soggette ad Iva ex art. 21, settimo comma, decreto 1972 n. 633 (115). In questo orientamento giurisprudenziale: - la commissione tributaria completa la fase di accertamento (quasi ritornando alla sua funzione originaria) (116); - si altera la divisione dei poteri tra amministrazione e giudice; - si spezza il rapporto tra potere e responsabilità. Non solo: non si considera che se la pretesa fosse stata originariamente formulata secondo la motivazione risultante poi dalla sentenza di primo grado, il contribuente avrebbe potuto scegliere di non ricorrere, magari esercitando forme conciliative non più possibili dopo la decisione di primo grado (117). Emerge dunque una disciplina complessiva ampiamente ispirata ad un prevalente interesse fiscale (118): è in questa luce che mancano adeguate garanzie nella fase istruttoria e difettano adeguati contrappesi nella fase processuale. Per un ritenuto interesse fiscale, si attribuisce un pervasivo potere autoritativo e per un ritenuto interesse fiscale si rende l’autorità immune da responsabilità ove il potere sia stato illegittimamente esercitato (119).
(115) Così Comm. trib. prov. di Padova, 9 gennaio 2013, n. 7, confermata da Comm. trib. reg. del Veneto, 16 maggio 2014, n. 807. (116) Sulla illegittimità di un giudice “longa manus dell’amministrazione”, cfr. Corte cost. n. 109/2007, par. 6. (117) È ora prevista una disciplina di rimessione in termini, in caso di autoannullamento o revoca parziale dell’atto, ai commi 1-sexies ed 1-septies, art. 2-quater, Decreto legge 30 settembre 1994, n. 564, quali aggiunti dall’art. 11, comma 1, lett. a), D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 159. (118) Come riconosciuto da F. Gallo, Quale modello processuale, cit., 17 e ss. e da A. Fantozzi, La prospettiva tributaria, cit., 186. (119) Quanto all’azione risarcitoria (su cui da ultimo, P. Marongiu, op. cit., passim), essa è contrappeso imprescindibile ma ex post, e sempre che siano rimaste le forze per esperirla. È stato correttamente affermato che debbono essere applicate “tecniche di tutela dirette a garantire che l’intervento del giudice non avvenga in un momento in cui la lesione del diritto si sia ormai definitivamente consumata” (A. Fantozzi, La prospettiva tributaria, cit., 182).
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Se la giurisprudenza di “impugnazione-merito” consegue alla “forza delle cose”, allora un minimo di coerenza dovrebbe riportare l’accertamento alla natura di provocatio ad opponendum senza effetti esecutori e preclusivi, spostando la riscossione a quella sentenza di primo grado che oggi di fatto completa la fase accertativa. Il tutto in un rapporto tra amministrazione e cittadino finalmente più paritario (120). Se viceversa si ritiene che oggi sia irrinunciabile l’autorità ex ante del provvedimento (121), allora l’imperatività deve essere “temperata” e contenuta da contrappesi (amministrativi prima, giudiziali poi) oggi inesistenti o comunque troppo affievoliti. Venendo alla dottrina cui abbiamo voluto dedicare questo scritto, essa ha ben visto il collegamento dell’obbligazione tributaria al rapporto “legge-fatto” (il che è garanzia democratica) ed il carattere strumentale del processo rispetto al diritto sostanziale. Ma nel momento in cui, per riportare l’obbligazione alla legge, ci si avvale (come oggi) di atti di recupero autoritativi, applicando quel medesimo criterio di strumentalità il processo dovrebbe coerentemente portare all’annullamento dell’atto autoritativo illegittimo: se si attribuisce “il potere delle armi”, l’equilibrio democratico (122) richiede responsabilizzazione ed adeguato contropotere.
Francesco Moschetti
Lo stesso dicasi per la possibile condanna alle spese giudiziali (art. 15, D.Lgs. n. 546, quale riformulato dall’art. 9, primo co., lett. f), D.Lgs. n. 156/2015), tanto più considerata la “cultura” attuale dei giudici assai “comprensivi” con l’autore dell’atto impugnato. (120) Come è il titolo del saggio di F. Benvenuti, cit., retro, nota 37. Ma si veda anche P. Russo (Giustizia tributaria, cit., 630), ove afferma che “è fuor di dubbio che non si possa oggi affermare una diversa posizione del fisco rispetto ai contribuenti in ragione della diretta inerenza del potere di imporre i tributi alla sovranità, intesa come attributo dello Stato-persona. Lo vietano il principio di eguaglianza, il fatto che il tributo trova suo fondamento essenzialmente nell’art. 53 Cost., nonché la circostanza che la sovranità, nel nostro ordinamento, è attributo del popolo e non dello Stato-persona”. Correttamente afferma G. Fransoni (Giudicato tributario, cit., 121, nota 55) che la concezione di sovranità di P. Russo “non è affatto quella dello Statopersona, ma quella dello Stato-comunità, cioè è la sovranità popolare di cui all’art. 1 Cost.”. (121) Continua infatti P. Russo (op. ult. cit., 630) rilevando che “l’equa distribuzione dei tributi si realizza non solo sul piano, astratto, delle norme, ma anche su quello, concreto, della loro effettiva e piena attuazione”. (122) Sul contrasto tra “prospettiva autoritativa” e “dimensione democratica liberale dello Stato, così come delineata dalla nostra Carta costituzionale”, cfr. G. Fransoni, Giudicato tributario, cit., 121.
L’infalcidiabilità dell’IVA e delle ritenute nel sovraindebitamento: tra diritto UE e diritto interno Sommario: 1. Premessa. – 2. La genesi della previsione d’intangibilità dell’IVA. – 3. Il suo possibile superamento. – 4. (segue): in particolare, la sua disapplicazione. – 5. L’infalcidiabilità delle ritenute: diversa genesi e possibile epilogo.
Nelle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento continua ad essere prevista l’infalcidiabilità dell’IVA e delle ritenute, nonostante la previsione di contenuto analogo sia venuta meno a partire dal 2017 nelle vicine procedure concorsuali del concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti: alla base di tali previsioni vi era un’errata visione del rapporto tra diritto interno e diritto UE nelle procedure concorsuali, fondata su una presunta superiorità delle risorse tributarie dell’UE, tra le quali viene ricompresa l’IVA. Probabilmente, però, di siffatta regola (contenuta nell’attuale art.7, comma 1, della legge 3 del 27 gennaio 2012) si può sostenere la disapplicazione per contrasto con il diritto UE, rectius con le pertinenti regole IVA del diritto UE, che sono enucleate dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea: ed è interessante notare come prime timide pronunce della giurisprudenza di merito si orientino in questa direzione. Non si può dire altrettanto, però, per la previsione di infalcidiabilità delle ritenute, che non ha fondamento nel diritto UE. In the proceedings for the settlement of the over-indebtedness crises, the infalcidiability of VAT and withholding taxes continues to be established, despite since 2017 the prediction of similar content was superated in the neighboring collective proceedings (concordato preventivo and accordi di ristrutturazione dei debiti): under these provisions there was a misunderstanding of the relationship between domestic law and EU law in bankruptcy proceedings, based on an alleged superiority of EU tax resources, among which VAT is included. Probably, however, the mentioned rule (contained in the actual Article 7, paragraph 1, of Law 3 of the 27th January of 2012) can be disapplied for contrast with EU law, rectius with the relevant VAT rules of EU law, that are enucleated by the Court of Justice of the European Union: and it is interesting to note that first timid pronouncements of the jurisprudence of merit are oriented in this direction. We cannot say the same, however, for the prediction of infalcidiability of the withholdings, which has no basis in EU law.
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1. Premessa. – La legge 3 del 27 gennaio 2012 disciplina la composizione delle crisi da sovraindebitamento (1). Si tratta, come è noto, di tre procedure concorsuali, l’accordo di composizione della crisi, il piano del consumatore, la liquidazione dei beni: che sono complementari alle più navigate procedure concorsuali (innanzi tutto quelle di cui alla legge fallimentare), essendo consentite per le situazioni di sovraindebitamento «non soggette né assoggettabili» ad altre procedure concorsuali (2); che completano, estendendone soggettivamente l’ambito di operatività, quei rimedi al sovraindebitamento che il diritto UE, come anche altri ordinamenti vicini al nostro, prevedono in via generale per tutti i debitori (3). La disciplina presenta non pochi aspetti controversi, anche in conseguenza delle vicende normative che l’hanno riguardata, dalla genesi discutibile (la disciplina originaria, prevista dal DL 22 dicembre 2011, n.212, è stata sostanzialmente replicata nella legge 3/2012, contenente anche disposizioni in materia di usura e di estorsione (4)) fino a integrazioni e miglioramenti apportati (significativamente nel corso dello stesso 2012, quando sono state introdotte le procedure del piano del consumatore e della liquidazione dei beni (5)); e
(1) Sul sovraindebitamento si registrano numerosi contributi dottrinali. In via meramente esemplificativa e per tutti si ricorda uno dei primi studi sistematici, costituito dai diversi contributi pubblicati sul numero 9/2012 della rivista Fallimento, appositamente dedicato al tema; ma si vedano anche i contributi richiamati in prosieguo. Tra i contributi di diritto tributario si ricordano, anche qui in via esemplificativa: L. Del Federico, Gli aspetti fiscali della procedura, in Fall., 2012, p.1122 ss.; F. Dami, I profili fiscali della disciplina di composizione della crisi da sovraindebitamento, in Rass. Trib. 2013, 615 ss.; A. Uricchio, Profili fiscali della crisi da sovraindebitamento dei soggetti debitori non fallibili, in Giur. Imp., 2014, 18 ss.; G. Selicato, Composizione delle crisi da sovraindebitamento e transazione fiscale, in Dir. Fall. 2017, 1401 ss. (2) Cfr. art.6, comma 1, della legge 3/2012: «Al fine di porre rimedio alle situazioni di sovraindebitamento non soggette né assoggettabili a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dal presente capo, è consentito al debitore concludere un accordo con i creditori nell’ambito della procedura di composizione della crisi disciplinata dalla presente sezione. Con le medesime finalità, il consumatore può anche proporre un piano fondato sulle previsioni di cui all’articolo 7, comma 1, ed avente il contenuto di cui all’articolo 8». (3) Si vedano, più di recente, il regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n.2015/848 del 20 maggio 2015 e la raccomandazione della Commissione n.2014/135/UE del 12 marzo 2014. (4) Cfr. ad esempio: G. Lo Cascio, La composizione delle crisi da sovraindebitamento (Introduzione), in Fall. 2012, 1021 ss.; F. Maimeri, La nuova disciplina di gestione delle crisi da sovraindebitamento: prime osservazioni, in Dir. Banca Mercati Fin. 2013, 199 ss. (5) Si fa riferimento alle modifiche apportate con il DL 18 ottobre 2012, n.179 e la successiva legge di conversione 17 dicembre 2012, n. 221. Per un più aggiornato quadro di
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non sembra aver trovato ancora un assetto definitivo, tant’è che con la legge 19 ottobre 2017, n. 155, è stata delegata al Governo «una riforma organica delle procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e della disciplina sulla composizione delle crisi da sovraindebitamento di cui alla legge 27 gennaio 2012, n. 3, nonché per la revisione del sistema dei privilegi e delle garanzie» (6), di cui si attendono a breve i decreti delegati. Molti degli aspetti controversi sono di carattere tributario e riguardano principalmente i contenuti tributari delle stesse procedure. Si pensi ad esempio: all’intangibilità dell’IVA e delle ritenute, persistente benché venuta meno nelle vicine procedure del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti; alla diversità delle nozioni dell’imprenditore nei diritti civile e tributario, di cui la disciplina in esame non si cura; ad alcune componenti del reddito d’impresa, quali sopravvenienze e plusvalenze, che non sono per nulla considerate dal legislatore (per quanto rilevino parecchio ai fini del buon esito degli accordi di composizione delle crisi da sovraindebitamento) a differenza di quanto accade per il concordato preventivo e per gli accordi di ristrutturazione; alla speciale “esdebitazione tributaria” (o esdebitazione dei debiti tributari), di cui all’art.14 terdecies, comma 3, della legge 3/2012, sulla quale peraltro nel 2017 è intervenuta la Corte di giustizia (7). Risalta, soprattutto, come il legislatore: per un verso, abbia dedicato e dedichi un’attenzione scarsa o nulla a tali aspetti, tant’è che in dottrina si osserva che «per quanto riguarda gli aspetti fiscali la disciplina della composizione della crisi da sovraindebitamento, risulta assolutamente rinunciataria» (8);
sintesi può guardarsi ad esempio a B. Blasco, Sulle procedure di soluzione delle crisi da sovraindebitamento (parte prima e parte seconda), in Vita Notarile 2016, 1461 ss. e in Vita Notarile 2017, 565 ss. (6) È l’art.1, da cui è tratto il testo virgolettato, a definire l’oggetto della delega. Alla riforma delle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento è specificamente destinato l’art.9 della legge delega. Per uno sguardo sull’intero quadro normativo del sovraindebitamento, comprensivo di riferimenti al diritto UE e fino alla legge delega di riforma, si veda ad esempio G. Falcone, Il sovraindebitamento ed i meccanismi di “seconda opportunità” nella evoluzione della normativa europea e domestica, in Innovazione e diritto 2017, 101 ss. (7) Il riferimento è alla sentenza 16 marzo 2017, causa C-493/15, risolutiva delle perplessità avanzate dalla Cassazione, di cui si dirà meglio in prosieguo: cfr. in particolare paragrafo 2 e nota 22. Per prime perplessità circa l’ambito di operatività dell’esdebitazione di cui all’art.14 terdecies cit., si veda ad es. A. Uricchio, Profili fiscali della crisi da sovraindebitamento dei soggetti debitori non fallibili, cit., 29 ss. (8) Così L. Del Federico, Gli aspetti fiscali della procedura, in Fallimento 2012,
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per altro verso, continui a sottovalutare il problema in sede di riforma delle procedure del sovraindebitamento, di cui alla legge delega (9). E non si può sottacere come tali aspetti non risultino adeguatamente messi a fuoco da parte degli studiosi, ma anche degli interpreti e degli operatori giuridici coinvolti. Il che finisce coll’alimentare posizioni differenti, finanche contrastanti, e più in generale incertezze, che complicano e rendono poco attrattive le procedure in esame (10). Tra gli accennati contenuti tributari richiedono una prioritaria attenzione gli aspetti della infalcidiabilità dell’IVA e delle ritenute fiscali, a tacer d’altro per le dimensioni che assumono tali voci nelle procedure in esame e per le significative diversità di trattamento che creano tra i creditori coinvolti (in deroga alla graduazione civilistica dei privilegi, dei quali pur godono IVA e imposte sui redditi); piuttosto di recente, poi, è stata sollevata una questione di
1122. Ma dello stesso tenore sono vari rilievi: cfr., ad esempio, F. Dami, I profili fiscali della disciplina di composizione della crisi da sovraindebitamento, in Rass. Trib. 2013, 617 s. (9) Ma si è registrato un intervento normativo puntuale circa l’interrelazione delle procedure in esame con la definizione agevolata dei carichi iscritti a ruolo, cd. rottamazione delle cartelle: cfr. i commi 9 bis e 9 ter dell’art. 6 del DL 22 ottobre 2016, n. 193, inseriti dalla legge di conversione 1 dicembre 2016, n. 225, riferibili anche alla nuova definizione agevolata – cd. rottamazione bis – introdotta dall’art. 1 del DL 16 ottobre 2017, n. 148, come modificato dalla legge di conversione 4 dicembre 2017, n. 172. (10) Va da sé che in una disciplina poco attenta agli aspetti tributari non vi è pressoché considerazione del sostrato giuridico della composizione concorsuale del “sovraindebitamento tributario”: l’indisponibilità del tributo (la mancanza è evidenziata già nei primi contributi: cfr. ad es. L. Del Federico, Gli aspetti fiscali della procedura, cit., 1122 ss. Sul tema dell’indisponibilità del tributo si rimanda per tutti, anche per i riferimenti, ad: A. Guidara, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, Milano, 2010, in particolare 130 ss.; M. Allena, La transazione fiscale nell’ordinamento tributario, Padova, 2017, 13, 192 ss.). Non è questa la sede per affrontare quello che rappresenta uno dei caposaldi del diritto tributario. Ma non si può comunque tacere – e in estrema sintesi – che le pretese tributarie sono pubblicistiche e soggiacciono alla riserva di legge ex art.23 Cost., la quale appunto riserva al legislatore individuazione, ponderazione e composizione degli interessi coinvolti nel prelievo tributario (nel rispetto dei vari principi costituzionali, tra i quali spicca il concorso alle spese pubbliche secondo la capacità contributiva ex art. 53 Cost.) e conseguentemente impedisce all’amministrazione finanziaria di fare delle scelte. Non dovrebbero, cioè, esservi dubbi – anche se così non è – che l’amministrazione finanziaria è chiamata a manifestare volontà vincolate all’esito delle valutazioni di sopportabilità e meritevolezza delle proposte di pagamento del debitore. E mutatis mutandis analoghe considerazioni possono farsi per le sanzioni tributarie, per le quali viene in rilievo (anche) la riserva di legge ex art.25 Cost. (sul che cfr. per tutti L. Del Federico, Il principio di legalità, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario diretto da A. Giovannini, Milano, 2016, II. Diritto sanzionatorio amministrativo, 1421 ss.).
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legittimità costituzionale proprio sull’infalcidiabilità dell’IVA (11). Si precisa sin da ora che per un’adeguata messa a fuoco di tali temi non può prescindersi dalle vicende giuridiche che hanno riguardato le omologhe previsioni di infalcidiabilità presenti nell’art.182 ter della legge fallimentare, prima che venisse sostituito nel 2016: di tali vicende, comunque, si cercherà di fare un’esposizione essenziale, che forse appesantisce il discorso, che però è funzionale alle conclusioni del presente lavoro. 2. La genesi della previsione d’intangibilità dell’IVA. – L’infalcidiabilità dell’IVA è codificata in una delle poche previsioni normative di carattere tributario, presenti nella legge 3/2012, il terzo periodo del comma 1 dell’art. 7, per il quale «in ogni caso, con riguardo ai tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea, all’imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, il piano può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento»; e riguarda sia l’accordo di composizione della crisi che il piano del consumatore (quest’ultimo, in forza del richiamo al comma 1 contenuto nel comma 1 bis dello stesso art. 7). In verità, quella riferita è un’aggiunta, ad opera dell’art.18 del DL 179/2012 e sul modello di quanto previsto per il concordato preventivo. Si deve, infatti, ricordare che in quest’ultimo, ammessa nel 2006 la falcidia dei crediti tributari con l’introduzione della cd. transazione fiscale, di cui all’art.182 ter della legge fallimentare (12), si sono gradatamente e successivamente posti dei limiti a tale falcidia: al limite originario dato dai «tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea» si sono via via aggiunti i riferimenti all’«imposta sul valore aggiunto (13) e alle «ritenute operate e non versate» (14), prevedendosi
(11) Cfr. ordinanza del 14 maggio 2018 del Tribunale di Udine, di cui si dirà infra nel paragrafo 3. (12) L’articolo è stato introdotto ad opera dell’art. 146, comma 1, del D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 ed è stato poi ripetutamente rivisitato: da ultimo, è stato sostituito dall’art. 1, comma 81, della legge 232/2016, a decorrere dal 1° gennaio 2017. Per un’analisi dell’evoluzione normativa dell’art.182 ter cit. si rimanda, ad esempio, a: M. Allena, La transazione fiscale nell’ordinamento tributario, cit., 89 ss.; F. Paparella, Il nuovo regime dei debiti tributari di cui all’art. 182-ter L.F.: dalla transazione fiscale oggettiva e consensuale alla retrogradazione oggettiva, in Rass. Trib. 2018, 319 ss. (13) Ad opera dell’art. 32, comma 5, lett. a), DL 29 novembre 2008, n. 185, come convertito dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2. (14) Ad opera dell’art. 29, comma 2, lett. b), DL 31 maggio 2010, n. 78, come convertito dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.
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per entrambe le fattispecie che «la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento». Del resto, non manca di rilevarsi che del concordato preventivo, come anche degli accordi di ristrutturazione dei debiti, le procedure di composizione del sovraindebitamento, di cui alla legge 3/2012, «riproducono … la filosofia di fondo, ossia la necessità di favorire modalità di sistemazione della crisi del debitore basate sul raggiungimento di un accordo con i suoi creditori dirette a garantire la continuità dell’attività risanata e, più in generale, il pronto ritorno in bonis di colui che abbia prontamente e virtuosamente preso coscienza della propria deteriorata (ma recuperabile) situazione patrimoniale, economica e finanziaria» (15). Le limitazioni alla falcidia tributaria nel concordato preventivo, di cui al comma 1 dell’art.182 ter cit., si devono probabilmente ad un’errata visione del rapporto tra diritto interno e diritto UE nelle procedure concorsuali, fondata su una presunta superiorità delle risorse tributarie dell’UE, tra le quali viene ricompresa l’IVA (tant’è che, superate le prime incertezze, la giurisprudenza di legittimità finiva con considerare l’IVA una sorta di super-privilegio, da soddisfarsi comunque e a prescindere dall’esistenza di altre pretese godenti di un privilegio sovraordinato (16)). Al che sembra aver contribuito quello che è stato un grossolano fraintendimento – così per lo meno a posteriori – di alcune posizioni espresse dalla Corte di giustizia, di condanna dell’Italia (ma) per i condoni dalla stessa disposti in materia di IVA, considerati «una rinuncia generale e indiscriminata al potere di verifica e rettifica da parte dell’Amministrazione finanziaria» (17). E non sono mancate neppure incoerenze e con-
(15) Cfr. F. Dami, I profili fiscali della disciplina di composizione della crisi da sovraindebitamento, cit., 616 ss., da cui è tratto il passaggio virgolettato. (16) Si vedano in particolare Cass. 22931 e 22932 del 4 novembre 2011, cui hanno fatto seguito varie pronunce della stessa Corte, quali: 22932 del 4 novembre 2011; 7667 del 16 maggio 2012; 9541 del 30 aprile 2014; n. 14447 del 25 giugno 2014; 2560 del 9 febbraio 2016, 5906 del 12 marzo 2018. In continuità e significativamente anche la Corte costituzionale, che nella sentenza n. 225 del 15 luglio 2014 afferma: «A nessuna delle tradizionali categorie di crediti privilegiati e chirografari è riconducibile il credito IVA, per il quale esiste una disciplina eccezionale attributiva di un «trattamento peculiare e inderogabile» (Corte di cassazione, sez. civ., n. 22931 del 2011), che consentendo esclusivamente la transazione dilatoria è tesa ad assicurare il pagamento integrale di un’imposta assistita da un privilegio di grado postergato (qual è appunto l’IVA), in deroga al principio dell’ordine legale delle cause di prelazione». (17) In questi termini la Corte di Giustizia nella sentenza del 17 luglio 2008, C-132/06, in relazione ai condoni di cui agli artt. 8 e 9 della legge 27 dicembre 2002, n. 289; nella stessa direzione la sentenza 11 dicembre 2008, causa C-174/07, intervenuta sull’art. 2, comma 44, della legge 24 dicembre 2003, n.350 di estensione all’anno 2002 dell’applicazione dei condoni
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traddizioni: così la giurisprudenza di legittimità, all’esito di travagli di non poco conto, dopo aver affermato sic et simpliciter l’intangibilità dell’IVA nel concordato preventivo, ne ha consentito nelle pronunce più recenti la falcidia laddove il concordato non sia corredato della proposta di transazione fiscale, di cui all’art.182 ter cit. (18). Sennonché la Corte di giustizia nel 2016, dopo aver precisato che la procedura di concordato preventivo non può essere considerata una rinuncia generale ed indiscriminata alla riscossione dell’IVA e pertanto accostata ai già “condannati” condoni IVA (19), chiarisce che un’eventuale falcidia concorda-
di cui agli artt. 8 e 9 citt. Per l’appunto, nella relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del DL 185/2008 (richiamato supra nella nota 13) si dice che la non falcidiabilità dell’Iva è «scaturita dalla necessità di non contravvenire alla normativa comunitaria che vieta allo Stato membro di disporre una rinuncia generale, indiscriminata e preventiva al diritto di procedere ad accertamento e verifica» della stessa imposta; e si ricorda come pure la Corte costituzionale nella citata sentenza 225/2014 abbia fatto proprio tale ragionamento, riproponendovi finanche il passaggio testé riferito. (18) Nel senso della possibile falcidia dell’IVA nel concordato senza transazione fiscale sono le posizioni più recenti (ad esempio: SS. UU. 27 dicembre 2016, n. 26988; SS. UU. 13 gennaio 2017, n. 760; 19 gennaio 2017, n. 1337; 15 settembre 2017, n.21484; 4 aprile 2018, n.8340), mentre in precedenza la stessa Corte di cassazione aveva sostenuto la generale infalcidiabilità dell’IVA, anche nei concordati senza transazione fiscale. Nel senso dell’intangibilità dell’IVA si vedano ad es. Cass. 22931 e 22932/2011 citt., ove si affermava la facoltatività della proposta di transazione fiscale (tesi di poi seguita dalla giurisprudenza successiva). (19) A tal fine nella sentenza si precisa: «la procedura di concordato preventivo … è soggetta a presupposti di applicazione rigorosi, allo scopo di offrire garanzie per quanto concerne, in particolare, il recupero dei crediti privilegiati e pertanto dei crediti IVA … il pagamento parziale di un credito privilegiato può essere ammesso solo se un esperto indipendente attesta che tale credito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di fallimento del debitore. La procedura di concordato preventivo appare quindi tale da consentire di accertare che, a causa dello stato di insolvenza dell’imprenditore, lo Stato membro interessato non possa recuperare il proprio credito IVA in misura maggiore. Inoltre, dato che la proposta di concordato preventivo è soggetta al voto di tutti i creditori ai quali il debitore non proponga un pagamento integrale del loro credito e che deve essere approvata da tanti creditori che rappresentino la maggioranza del totale dei crediti dei creditori ammessi al voto, la procedura di concordato preventivo offre allo Stato membro interessato la possibilità di votare contro una proposta di pagamento parziale di un credito IVA qualora, in particolare, non concordi con le conclusioni dell’esperto indipendente. Infine, supponendo pure che, nonostante tale voto negativo, detta proposta sia adottata e che, di conseguenza, il concordato preventivo debba essere omologato dal giudice adito, dopo che quest’ultimo abbia eventualmente statuito sulle opposizioni sollevate dai creditori in disaccordo con la proposta di concordato, la procedura di concordato preventivo consente allo Stato membro interessato di contestare ulteriormente, mediante opposizione, un
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taria dell’IVA «non è contraria all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione». La Corte è chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla compatibilità: tra la disciplina del concordato preventivo, di cui agli artt.160 ss. della legge fallimentare, intesa (dal giudice del rinvio) nel senso di consentire anche un pagamento parziale dell’IVA; e l’art.4, paragrafo 3, TUE nonché gli artt. 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto, dai quali discende per la giurisprudenza della stessa Corte che gli Stati membri hanno l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative atte a garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio (20). Coerentemente interviene sul finire del 2016, con la legge di stabilità, il legislatore italiano, che riscrive l’art.182 ter della legge fallimentare (21), eliminando, per quanto qui riguarda, i limiti alla falcidia finora presenti: vengono meno non soltanto i riferimenti all’IVA, ma anche ai tributi costituenti risorse proprie dell’UE e alle ritenute operate e non versate. Tuttavia, non succede altrettanto per l’art. 7, comma 1, della legge 3/2012, ove permane, al terzo periodo, l’inciso – di cui si è detto – che «in ogni caso, con riguardo ai tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea, all’imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, il piano può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento». Verosimilmente, si è in presenza di una “dimenticanza” del legislatore. Infatti: siffatta intangibilità non aveva e non ha ragione di esistere per il diritto europeo, come si è visto, ma non si giustifica neppure alla luce del diritto interno, che non offre di certo ragioni proprie per una super-indisponibilità dell’IVA; non vi è motivo di discriminare procedure vicine al concordato preventivo o agli accordi di ristrutturazione dei debiti,
concordato che preveda un pagamento parziale di un credito IVA e a detto giudice di esercitare un controllo». (20) Si tratta della sentenza della Corte di giustizia UE, 7 aprile 2016, causa C-546/14 (la quale è pubblicata in diverse riviste, tra le quali Corr. trib., 2016, 1555 con nota di V. Ficari, La Corte UE ammette la riduzione mediante transazione fiscale, ivi, 1549 ss.). In essa sono richiamate le precedenti sentenze della Corte di giustizia: 17 luglio 2008, causa C-132/06; 11 dicembre 2008, causa C-174/07; 29 marzo 2012, causa C-500/10. Il rinvio alla Corte è disposto dal Tribunale di Udine con ordinanza del 28 novembre 2014 (la quale è reperibile sul Il sito, www.ilsito.it). (21) L’art. 182 ter è stato riscritto dall’art. 1, comma 81, della legge 232/2016, più volte richiamato.
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dove invece siffatta intangibilità è venuta meno. E la collocazione della norma che ha riscritto l’art. 182 ter cit. (nel senso del superamento dell’infalcidiabilità) nel calderone della legge di stabilità (e non in un intervento organico), con le vicende parlamentari che l’hanno contraddistinta, avvalorerebbe una ricostruzione del genere. Infine, a conferma dell’estraneità al diritto UE di una regola di assoluta intangibilità dell’IVA, nel 2017 la Corte di giustizia, rifacendosi al proprio precedente e sempre in via pregiudiziale, chiarisce che neppure l’esdebitazione dell’IVA, di cui all’art. 142 ss. della legge fallimentare – ma con un omologo significativo, proprio sul piano fiscale, nell’art. 14 terdecies della legge 3/2012 – contrasta con il diritto UE (22). 3. Il suo possibile superamento. – Sempre nel 2017 il Parlamento demanda al Governo una riforma organica delle procedure concorsuali, comprese quelle di cui alla legge 3/2012, ma nella legge delega non si dice alcunché circa il superamento dell’intangibilità dell’IVA, come dei tributi costituenti risorse proprie dell’UE e delle ritenute operate ma non versate (23). In sostanza e a prescindere dalle scelte che possa compiere il delegato, si può dire che il legislatore “persiste nella dimenticanza”. Il che continua ad alimentare sostanziali ingiustizie, soprattutto in presenza di situazioni vicine tra loro (ad esempio, perché prossime, in difetto o in eccesso, alla soglia di
(22) Si tratta della sentenza 16 marzo 2017, causa C-493/15, ove si dice: «allo stesso modo della procedura di concordato preventivo esaminata nella sentenza del 7 aprile 2016, Degano Trasporti (C-546/14, EU:C:2016:206, punto 28), la procedura di esdebitazione di cui trattasi nel procedimento principale è assoggettata a condizioni di applicazione rigorose che offrono garanzie per quanto riguarda segnatamente la riscossione dei crediti IVA e che, tenuto conto di tali condizioni, essa non costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA e non è contraria all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione (v. sentenza del 7 aprile 2013, Degano Trasporti, C-546/14, EU:C:2016:206, punto 28)». La Corte di giustizia è stata adita dalla Corte di cassazione con ordinanza 1 luglio 2015, n. 13542 (sul che si vedano L. Del Federico-S. Ariatti, Esdebitazione ed IVA: tra equivoci e vincoli europei, a margine dell’infalcidiabilità del tributo nel concordato preventivo, in Fallimento 2016, 452 ss.). (23) Il riferimento è alla legge delega 155/2017, richiamata in precedenza (cfr. paragrafo 1 e nota 6): nello specifico, alla riforma della disciplina della procedura di composizione delle crisi da sovraindebitamento è dedicato l’art. 9. Di contro, la stessa legge delega prevede all’art. 6, comma 1, che il Governo provveda a «p) disciplinare il trattamento del credito da imposta sul valore aggiunto nel concordato preventivo anche in presenza di transazione fiscale, tenendo conto anche delle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea».
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cui all’art. 1 della legge fallimentare). Anche perché nella giurisprudenza di merito si registrano letture, nel senso dell’infalcidiabilità dell’IVA, che valorizzano esclusivamente il dato letterale (alla stregua di quanto sosteneva la Cassazione per la transazione fiscale (24)), alle quali fanno eco le più recenti indicazioni dell’Agenzia delle entrate (25). Sicché in attesa di un prossimo, auspicato ed auspicabile, intervento legislativo, occorre domandarsi se interpreti ed operatori del diritto possano porre comunque rimedio a questa situazione di possibile impasse. A tal fine poco efficace appare un rinvio alla Corte di giustizia, che rischia di dar luogo a pronunce del tenore di quelle rese (il 7 aprile 2016 e il 16 marzo 2017), che non sarebbero risolutive del problema; mentre può risultare più proficuo un rinvio alla Corte costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 Cost., eventualmente anche in un uno con gli artt. 53 e 97 Cost., nella misura in cui possa condurre ad una declaratoria di incostituzionalità della previsione in esame. Ed è proprio questa seconda via che è stata recentissimamente percorsa. Il Tribunale di Udine, infatti, con l’ordinanza del 14 maggio 2018 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge 3/2012 in relazione all’IVA (26). Per il giudice friulano la disposizione contrasta con l’art. 3 Cost., «che esige dalla legge uguaglianza di trattamento nei confronti di tutti i soggetti (persone fisiche, giuridiche, enti collettivi in generale) che si trovino nelle medesime condizioni … che nella fattispecie consistono in uno stato di crisi economica, comune a tutti i debi-
(24) Si vedano, ad esempio, Cass. SS. UU. 26988/2016, Cass. SS. UU. 760/2017. (25) Si veda la circ.16 del 23 luglio 2018 ove si conclude che «le modifiche introdotte dal DL n. 83 del 2015 e dalla legge n. 232 del 2016 non hanno inciso le norme che regolano le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento. In merito, restano, pertanto, operanti la previsione del silenzio-assenso per il caso di mancata dichiarazione di voto da parte di alcuno dei creditori e la disposizione sulla mera dilazionabilità dell’IVA e delle ritenute operate e non versate». Cfr. anche G. Selicato, Composizione delle crisi da sovraindebitamento e transazione fiscale, cit., 1418 ss., per il quale «non può pretendersi di superare sul piano interpretativo l’ostacolo legislativo che ancora oggi osta all’applicazione di un criterio di buon senso qual è quello del trattamento indistinto, nelle procedure di composizione delle crisi d’impresa, dei crediti tributari e previdenziali…». (26) Per il giudice friulano la disposizione de qua «rimasta in vigore tal quale, nonostante la totale revisione dell’interpretazione e poi la riscrittura delle corrispondenti disposizioni che regolano il concordato preventivo coinvolgente crediti di natura fiscale, …continua ad esigere, a pena di inammissibilità, che nella procedura di accordo … (come anche nel piano proposto dal consumatore) il credito per IVA sia sempre e comunque pagato per intero, a differenza di quanto possibile per gli altri crediti privilegiati, che possono essere falcidiati nell’ambito dello stesso piano nel limite della capienza dei beni gravati».
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tori posti in rassegna, coinvolgente anche un debito per Iva». Infatti, rispetto alle vicine procedure concorsuali del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti, ove è venuta meno l’infalcidiabilità dell’IVA, nel sovraindebitamento a causa della persistenza di tale regola risultano discriminati gli imprenditori di piccole dimensioni e non commerciali (esclusi dalle ordinarie procedure concorsuali), mentre «sarebbe più razionale un trattamento di maggior favore per i debitori “non commerciali e piccoli”»: per gli imprenditori commerciali, poi, la discriminazione è su base censitaria, ma «la dimensione dell’impresa commerciale in tal caso non pare essere criterio discretivo sufficiente, anche perché essa è mutevole nel tempo ed un soggetto, nel corso della sua attività economica, potrebbe o meno essere soggetta alle disposizioni della legge fallimentare a seconda di mere contingenze»; per gli imprenditori agricoli, invece, la discriminazione può dipendere da una loro iniziativa, potendo essi avvalersi, in alternativa al sovraindebitamento, degli accordi di ristrutturazione dei debiti (27) e usufruire per questa via della falcidia IVA (28). Inoltre, per lo stesso giudice vi è anche contrasto con l’art. 97 Cost. (che però viene rilevato d’ufficio): «la previsione criticata, quando rende necessa-
(27) Si ricorda, infatti, che agli imprenditori agricoli, che ex art.1 della legge fallimentare non sono fallibili, è stato specificamente dedicato l’art. 23, comma 43, DL 6 luglio 2011, n.98, come modificato dalla legge di conversione 15 luglio 2011, n. 111, il quale prevede che: «In attesa di una revisione complessiva della disciplina dell’imprenditore agricolo in crisi e del coordinamento delle disposizioni in materia, gli imprenditori agricoli in stato di crisi o di insolvenza possono accedere alle procedure di cui agli articoli 182 bis e 182 ter del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni». Su tale intervento legislativo si vedano ad es.: M. Cardillo, La transazione fiscale, Roma, 2016, 58 ss.; V. Ficari - P. Barabino, L’impresa agricola e la ristrutturazione dei debiti tributari, in Riv. Dir. Trib. 2018, I, 291 ss. (28) A completamento dell’esposizione fatta nel testo si vedano passaggi ulteriori dell’ordinanza, quali: «… la regola della falcidiabilità dei crediti privilegiati, purché pagati in misura corrispondente al valore ricavabile in via di esecuzione forzata dai beni destinati per legge alla loro soddisfazione, è ormai comune in tutte le procedure concorsuali che consentano una soluzione di un’insolvenza qualsiasi, riguardi essa imprenditori commerciali grandi e piccoli, ovvero imprenditori agricoli di ogni tipo, oppure operatori economici sottratti a fallimento ma non a L.C.A., ovvero infine esenti a vario titolo dall’applicazione della legge fallimentare (professionisti, enti non pubblici, start up, cittadini comuni, consumatori»; «si può ritenere che l’art. 7, comma 1, terzo periodo, L. n° 3/12 (limitatamente alle parole “all’imposta sul valore aggiunto”) disciplina in modo irragionevolmente diverso situazioni simili, qualora dedotte in procedure concorsuali regolate dalle medesime cadenze di massima e dalle stesse finalità. Tramite l’ablazione di tale norma dall’ordinamento potrebbe riespandersi, in tutte le ipotesi di procedura concorsuale negoziata, il principio generale e razionale, per ciascuna di esse già vigente, per cui anche il credito Iva, come tutti i crediti privilegiati, può essere soddisfatto in misura parziale, purché nei limiti del valore dei beni gravati».
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riamente inammissibile la proposta di accordo che non preveda il pagamento integrale dell’IVA priva la Pubblica Amministrazione del potere di valutare autonomamente ed in concreto se la proposta (al di là delle attestazioni di corredo e del primo vaglio giudiziale) è davvero in grado di soddisfare tale credito erariale in misura pari, o, addirittura superiore al ricavato ottenibile nell’alternativa liquidatoria, e dunque di determinarsi nel caso concreto al voto favorevole o contrario (con facoltà di successiva opposizione e reclamo). Ciò non assicura il principio costituzionale del buon andamento, perché preclude in radice alla P.A. di condursi secondo criteri di economicità e di massimizzazione delle risorse nel caso concreto, anche quando in realtà ciò sarebbe possibile consentendo ad un pagamento del credito Iva parziale, ma in termini più rapidi ed in misura non inferiore alle alternative meramente liquidatorie». 4. (segue): in particolare, la sua disapplicazione. – Probabilmente, però, si può ragionare anche nei termini di una disapplicazione della previsione di cui all’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge 3/2012: si discorre in questi termini, dal momento che il chiaro tenore di tale previsione lascia poco spazio ad una altrimenti preferibile (re)interpretazione conforme al diritto UE, che ne faccia salva l’applicazione (29). A tal fine il ragionamento non è semplice. Infatti, non vi sarebbero stati particolari problemi se la Corte di giustizia avesse dichiarato il contrasto col diritto UE dell’infalcidiabilità dell’IVA, di cui all’art. 182 ter della legge fallimentare (potendosi in tal caso facilmente ipotizzare un’estensione di siffatta regola di diritto all’infalcidiabilità dell’IVA di cui all’art. 7, comma 1, terzo periodo, cit.). Ma così non è stato, essendosi, come si è detto, la Corte europea pronunciata in termini negativi, ossia che non contrasta col diritto UE la falcidiabilità dell’IVA (nella sentenza del 7 aprile 2016), come anche la sua esdebitazione (nella sentenza del 16 marzo 2017): cosicché non può escludersi,
(29) Si ricorda, infatti, che «secondo la Corte di giustizia, l’obbligo di interpretazione conforme del diritto interno alla luce del diritto UE viene meno solo quando la norma interna appaia assolutamente incompatibile con quella comunitaria … mentre permane in presenza di un margine, anche minimo, di discrezionalità che consenta all’interprete di scegliere tra più interpretazioni comunque plausibili della disposizione nazionale»: si ripropone un passaggio icastico reso da Cass. 11 dicembre 2012, n. 22577 circa i confini dell’esenzione IVA per le prestazioni sanitarie (nelle quali, confermandosi l’operato dell’Agenzia delle entrate, non vengono ricomprese quelle medico-legali con effetti ex tunc, nonostante il disposto dall’art. 1, comma 80, della legge 24 dicembre 2007, n. 244), ma si tratta di posizioni alquanto pacifiche.
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quanto al decisum della corte lussemburghese, la possibilità che il legislatore nazionale si determini diversamente, appunto nel senso dell’infalcidiabilità. Occorre, allora, verificare se dalle sentenze della Corte di giustizia emergano altre regole di diritto che possano condurre alla (preannunciata) disapplicazione dell’infalcidiabilità dell’IVA di cui all’art. 7, comma 1, terzo periodo, cit. Il compito non è facile: non certo per gli effetti delle interpretazioni del diritto UE rese nelle sentenze della Corte di giustizia (alle quali «va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità» (30)), ma per le difficoltà legate all’individuazione di quelle affermazioni, presenti nelle motivazioni delle pronunce, che possano essere erette a (ulteriori) regole di diritto UE con efficacia erga omnes e siano, poi, suscettibili di applicazione con riferimento al problema in esame. Sennonché, e senza addentrarsi più di tanto in argomenti che rischiano di distogliere l’attenzione dall’oggetto delle presenti considerazioni, dei punti fermi possono essere trovati nel ripetersi di alcune affermazioni: così in entrambe le sentenze della Corte di giustizia del 2016 e del 2017, di cui si è detto, l’obbligo per gli Stati di «adottare tutte le misure legislative e amministrative atte a garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio», già tratto in via interpretativa dalla Corte di giustizia, viene declinato come «obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione» e «di non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti» («operatori economici che effettuino operazioni uguali non devono essere trattati diversamente in materia di riscossione dell’IVA») (31), alla stregua del resto di quanto affermato dalla stessa Corte nel 2012 circa la cd. “rottamazione delle liti fiscali d’annata” (32).
(30) Il passaggio riproposto nel testo è tratto da Cass. 2 marzo 2005, n. 4466. Si tratta, però, di posizione piuttosto pacifica; dello stesso tenore numerose pronunce, tra le quali si ricordano, sempre della Corte di cassazione e in via esemplificativa: 5381 del 3 marzo 2017; 2468 dell’8 febbraio 2016; 22577/2012; 21856 del 18 novembre 2004; 13054 del 14 luglio 2004. (31) Al fine di meglio intendere la portata dei passaggi riproposti può anche essere utile guardare alle conclusioni dell’Avvocato generale (paragrafi 38-42), cui la sentenza del 2016 espressamente rinvia, condividendone il contenuto. (32) Si tratta della sentenza 29 marzo 2012, C-500/10, che ha ritenuto conforme col diritto UE la definizione agevolata delle liti prevista dall’art. 3, comma 2 bis, DL 25 marzo 2010 n. 40 (aggiunto dalla legge di conversione 22 maggio 2010, n.73 e dipoi prorogato dall’art. 9, comma 2, DL 30 dicembre 2013, n. 150, come convertito dalla legge 27 febbraio 2014, n.15),
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Ebbene, se si valorizzano simili affermazioni si può probabilmente arrivare ad una disapplicazione dell’art. 7, comma 1, terzo periodo cit. e consentire così – in linea con quanto previsto dallo stesso art.7, comma 1, ma secondo periodo (e alla stregua di quanto previsto dall’attuale art. 182 ter, comma 1, della legge fallimentare) – una falcidia dell’IVA «in misura non inferiore a quanto realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali insiste la causa di prelazione, come attestato dagli organismi di composizione della crisi». E si aggiunge che l’eventuale consenso dell’amministrazione non solo non contrasterebbe con l’indisponibilità del tributo, ma sarebbe anzi rispettoso della stessa, giacché l’amministrazione è chiamata a manifestare una volontà pur sempre vincolata all’esito delle valutazioni di sopportabilità e meritevolezza delle proposte di pagamento del debitore (33). Naturalmente, è importante che una soluzione del genere trovi gli opportuni riscontri, innanzi tutto da parte della giurisprudenza. E a tal proposito è interessante notare come vi siano prime pronunce della giurisprudenza di merito che si muovono proprio in questa direzione (34), dando così atto della
consistente nella possibilità offerta al contribuente di chiudere, in presenza di determinate condizioni, le liti fiscali pendenti sia presso la Corte di Cassazione che presso la Commissione Tributaria Centrale. (33) Analoghe osservazioni, quanto al rispetto dell’indisponibilità del tributo, si possono fare con riferimento all’eventuale consenso prestato dall’amministrazione finanziaria circa la falcidia delle proprie pretese nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti, cui è dedicata una specifica attenzione dall’art. 182 ter della legge fallimentare laddove: si dice che di tali pretese è possibile proporre un pagamento parziale «in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d)»; e si precisa che «se il credito tributario o contributivo è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori o meno vantaggiosi rispetto a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica e interessi economici omogenei a quelli delle agenzie e degli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie; se il credito tributario o contributivo ha natura chirografaria, il trattamento non può essere differenziato rispetto a quello degli altri creditori chirografari ovvero, nel caso di suddivisione in classi, dei creditori rispetto ai quali è previsto un trattamento più favorevole. Nel caso in cui sia proposto il pagamento parziale di un credito tributario o contributivo privilegiato, la quota di credito degradata al chirografo deve essere inserita in un’apposita classe». (34) Si vedano, ad esempio, sia pur con diversità di sfumature, le pronunce del Tribunale di Pistoia del 26 aprile 2017 (in Il sito, www.ilsito.it), del Tribunale di Torino 7 agosto 2017 (ibidem), del Tribunale di Pescara 19 ottobre 2017 (reperibile su fallimentiesocieta.it). Cfr.
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sempre maggiore efficacia di quella “integrazione silente” tra ordinamento dell’Unione europea e ordinamenti degli Stati membri, che muove si dalle (interpretazioni del primo rese nelle) sentenze della Corte di giustizia, ma si realizza significativamente per il tramite (delle applicazioni fattene nelle pronunce) del giudice nazionale, anch’esso giudice dell’UE e chiamato in prima linea a garantire la primauté del diritto UE (35). Del resto, della possibilità di una disapplicazione della norma interna – l’art. 7, comma 1, terzo periodo, cit. – per contrasto con il diritto UE è consapevole la stessa ordinanza del Tribunale di Udine (riferita in precedenza), che richiama alcuni recenti precedenti di merito in questa direzione, dai quali, però, si discosta con argomentazioni che paiono poco persuasive (36), quasi che il reale intento dalla stessa perseguito sia quello di voler comunque provocare una pronuncia della Corte costituzionale, che, anche interpretativa di rigetto, faccia definitivamente chiarezza sul punto. Si aggiunge che una disapplicazione dell’art. 7, comma 1, terzo periodo cit., sarebbe coerente con l’ammissione degli imprenditori agricoli agli accordi di ristrutturazione dei debiti (di cui all’art.182 bis della legge fallimentare) e alla conseguente falcidia IVA (in tali accordi ormai possibile): ciò in forza dell’art. 23, comma 43, DL 98/2011, il quale rinvia alle procedure di cui agli articoli 182 bis e 182 ter della legge fallimentare (37).
anche V. Ficari - P. Barabino, L’impresa agricola e la ristrutturazione dei debiti tributari, cit., p.289. (35) Specificamente sulla disapplicazione delle norme interne conseguente alle interpretazioni del diritto UE rese dalla Corte di giustizia si veda, di recente, G. Grasso, La disapplicazione della norma interna contrastante con le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione Europea in Giust. Civ. 2017, in particolare 540 ss. Ma già sul tema G. Martinico, L’integrazione silente: la funzione interpretativa della Corte di giustizia e il diritto costituzionale europeo, Napoli, 2009, in particolare 91 ss., al quale è stata presa in prestito l’espressione “integrazione silente” usata nel testo. (36) Infatti, non è persuasivo che nell’ordinamento UE non vi sia «un precetto chiaro, preciso ed incondizionato che obblighi gli Stati membri a permettere il pagamento parziale dell’Iva ad un debitore insolvente, sia pure con le precisate garanzie procedurali», visto che non vi è neppure un principio di segno opposto e, piuttosto, ad un pagamento parziale dell’IVA si può giungere – come si è detto nel testo – in via interpretativa, valorizzando l’«obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione» e «di non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti». E non è, di certo, decisivo l’argomento letterale costituito dall’inciso «in ogni caso» d’esordio dell’art. 7, comma 3, terzo periodo cit. (valorizzato dal Tribunale di Udine), il quale piuttosto deve ritenersi soccombente proprio alle ragioni di cui si è detto in precedenza e nel testo. (37) Si veda supra nota 27.
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5. L’infalcidiabilità delle ritenute: diversa genesi e possibile epilogo. – Alle sorti dell’IVA e dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea sono state e sono legislativamente legate quelle delle «ritenute operate e non versate», espressamente menzionate nell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge 3/2012, di cui si è detto («In ogni caso, con riguardo ai tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea, all’imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, il piano può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento»), ma anche nell’art. 182 ter della legge fallimentare nella versione vigente al tempo di scrittura della legge sul sovraindebitamento («con riguardo all’imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento») (38). Le considerazioni da svolgere, però, sono diverse, diverso essendo il fondamento della previsione di infalcidiabilità di tali voci e diverso potendo risultare l’epilogo del breve ragionamento che si vuole qui articolare. Il richiamo legislativo è da riferire anche alle ritenute previdenziali, come meglio dimostra il più completo dato normativo dell’art.182 ter cit. ratione temporis vigente (riguardante «il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali e dei relativi accessori, nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e dei relativi accessori»), anche se in questa sede si sono prese e si prendono in esame le ritenute fiscali. È di tutta evidenza che il singolare trattamento di favore attribuito a queste voci ha un fondamento diverso, esclusivamente di diritto interno, riguardando le imposte sui redditi, che come è noto non sono tributi armonizzati (39). Le ragioni che possono averlo determinato, però, non persuadono affatto gli studiosi, i quali non mancano di osservare che siffatto trattamento di favore oltre che da «motivi di ordine pratico e “quantitativo” (che ebbero senz’altro il loro peso) … è probabilmente riconducibile ad una (a dir poco …) approssimativa considerazione del legislatore dell’epoca … per cui le ritenute d’imposta, essendo riferite a somme di terzi (che il sostituto trattiene per poi riversarle all’erario), paleserebbero una non meglio precisata affinità con l’IVA (il che giuridicamente, ovviamente non è) così da rendere giustificabile – sempre in tal ottica – la scelta
(38) Si ricorda, infatti, come si è detto in precedenza, che il riferimento alle ritenute operate e non versate è stato aggiunto all’art.182 ter dall’art. 29, comma 2, lett. a), DL 78/2010 (supra paragrafo 2 e nota 14). (39) A maggiore ragione diverso è il fondamento se si guarda alle ritenute previdenziali.
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legislativa di considerare transigibili le prime e non la seconda» (40). Peraltro, l’idea originaria di riservare un trattamento di favore alle ritenute di lavoro (in qualche modo riconducibile ad una discriminazione qualitativa dei redditi) è stata superata dal generico riferimento legislativo alle «ritenute operate e non versate», che ricomprendono anche le ritenute a titolo d’imposta e/o di redditi ulteriori (finanche di derivazione tipicamente patrimoniale), con inevitabili ingiustificate ripercussioni sull’ordine dei privilegi previsto dal codice civile. Sicché si comprende bene l’intervento legislativo del 2016, che in seno della legge di stabilità rimuove l’infalcidiabilità (anche) delle ritenute operate e non versate. Solo che per esse, come per l’IVA, l’intervento ha riguardato soltanto l’art. 182 ter della legge fallimentare, ossia concordato preventivo e accordi di ristrutturazione dei debiti. Con la conseguenza che nel sovraindebitamento persiste la regola dell’infalcidiabilità (anche) delle ritenute operate e non versate (di cui all’art. 7, comma 1, terzo periodo, più volte richiamato). Probabilmente, come si è detto, si è in presenza di una “dimenticanza” del legislatore, la quale, però, permane nella legge delega 155/2017 di riforma organica delle procedure concorsuali (di cui al RD 267/1942) e di composizione delle crisi da sovraindebitamento (di cui alla legge 3/2012) e continua ad alimentare sostanziali ingiustizie, soprattutto in presenza di situazioni vicine tra loro. Guardando ai possibili rimedi, risalta sin da subito che il ragionamento finora condotto per l’IVA, che consente di superare in via interpretativa siffatta infalcidiabilità, non può riferirsi alle ritenute, le quali hanno un diverso fondamento (che, come si è detto, è esclusivamente di diritto interno), tant’è che si è dubitato e si dubita della ragionevolezza dell’estensione ad esse del trattamento riservato all’IVA. Sicché, per la rimozione dell’infalcidiabilità delle ritenute non sembra potersi prescindersi da un intervento della Corte costituzionale, chiamandosi in causa essenzialmente il contrasto con l’art. 3
(40) Così si esprime M. Allena, La transazione fiscale nell’ordinamento tributario, cit., p.95 s., il quale ripropone anche il corrispondente passaggio della relazione di accompagnamento al DL 78/2010, con riferimento all’art. 29, comma 2, di esso, che appunto ha modificato l’art. 182 ter cit.: «la normativa di cui al comma 2 prevede, alla lettera a), che in sede di transazione fiscale, anche le somme relative alle ritenute operate e non versate siano oggetto esclusivamente di una eventuale dilazione e non di falcidia, al pari dell’imposta sul valore aggiunto. Tale previsione trova il suo fondamento nel fatto che anche le ritenute operate dal sostituto d’imposta a titolo d’acconto sono poi utilizzate in detrazione dal sostituito, in diminuzione del proprio debito tributario. Occorre poi osservare che anche le ritenute d’acconto sono somme di terzi che il sostituto trattiene allo scopo di riversarle allo Stato. Le analogie con l’imposta sul valore aggiunto rendono irragionevole una disparità di trattamento».
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della Costituzione, alla stregua di quanto disposto, mutatis mutandis, dalla recentissima ordinanza del Tribunale di Udine, richiamata in precedenza (41). Tuttavia, poiché quest’ultima ordinanza si riferisce esclusivamente all’IVA (il dispositivo «dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 comma 1, terzo periodo, L. n° 3/12, limitatamente alle parole “all’imposta sul valore aggiunto”»), un suo eventuale accoglimento da parte della Corte costituzionale non può che riguardare l’IVA. Infatti, l’estensione alle ritenute dell’eventuale declaratoria di illegittimità integrerebbe una dichiarazione di incostituzionalità ultra petitum, che in forza dell’art. 27 della legge n. 87 dell’11 marzo 1953 (42) è possibile solo in presenza di un rapporto di conseguenzialità di altra disposizione legislativa con quella dichiarata incostituzionale; ma nel caso in esame siffatto rapporto è da escludere proprio in conseguenza del diverso fondamento delle due previsioni di infalcidiabilità. Sicché occorrerebbe sollevare una nuova ed apposita questione di illegittimità costituzionale. Anche se va detto che non può escludersi una diversa determinazione da parte del Giudice delle leggi, visto che, come si osserva in dottrina con riferimento all’art. 27 cit., «la Corte costituzionale non ha operato un’applicazione puntuale e letterale di tale disposizione, ma ne ha accolta un’interpretazione abbastanza libera e ne ha fatto, di conseguenza, applicazione anche a casi che difficilmente avrebbero potuto rientrare nella fattispecie descritta dalla suddetta disposizione, se intesa letteralmente» (43).
Antonio Guidara
(41) Si veda supra il paragrafo 4. (42) Il cit. art. 27 della legge recante le norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale dispone che: «La Corte costituzionale, quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questioni di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, dichiara, nei limiti dell’impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime. Essa dichiara altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata». (43) Così R. Romboli, Il giudizio di legittimità delle leggi in via incidentale, in Aa. Vv., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale, a cura di R. Romboli, Torino, 2011, 114). Oltre a R. Romboli, op. cit., 114 ss., sulla dichiarazione di illegittimità conseguenziale si vedano anche e in via esemplificativa: A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2014, 244 ss.; G. Brunelli, Significative convergenze: illegittimità derivata di norme analoghe e sentenze manipolative, in Scritti in memoria di L. Paladin, I, Napoli, 2004, 345 ss.
Impugnazione-merito e “vizi formali” nell’attuale processo tributario Sommario: 1. Teoria dichiarativa e teoria costitutiva alla prova dell’effettività della tutela. – 2. Giudizio di impugnazione-merito e principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. – 3. Violazioni formali e giudizio di accertamento negativo. – 4. Art. 21-octies, comma 2 della l. n. 241 del 1990: processo amministrativo e processo tributario a confronto. – 5. Il processo tributario come possibile modello evolutivo per il processo amministrativo. L’articolo si propone di dimostrare che la ricostruzione del processo tributario come giudizio di impugnazione-merito, anziché come giudizio meramente cassatorio, non determina una diminuzione di garanzie e tutele per il contribuente e che la valorizzazione delle conseguenze inefficacizzanti delle antigiuridicità formali e procedimentali degli atti dell’amministrazione finanziaria non è incoerente con la teoria dichiarativa. The aim of this article is to demonstrate that the reconstruction of the trial in front of the Tax Courts as judgment of “challenge-merit”, instead of judgment of simple challenge, does not determine a reduction of guarantees and protections for the taxpayer and that the esteem of the consequences of the violation of formal and procedural rules by the acts of the financial administration is not incoherent with the “declarative” theory.
1. Teoria dichiarativa e teoria costitutiva alla prova dell’effettività della tutela. – La disciplina del processo tributario, come si sa, ha da sempre rappresentato terreno privilegiato per la disputa tra sostenitori della teoria dichiarativa e sostenitori della teoria costitutiva della genesi dell’obbligazione tributaria. Chi sottolineando taluni aspetti della disciplina processual-tributaristica, chi sottolineandone altri apparentemente contrapposti, ogni studioso del diritto tributario che si sia misurato con il problema teorico di fondo della genesi dell’obbligazione tributaria ha ritenuto di rinvenire nel sistema del processo tributario il banco di prova fondamentale della propria impostazione e, correlativamente, la riprova della correttezza delle tesi sostenute.
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La teoria dichiarativa o, più precisamente, neo-dichiarativa (1) definisce il processo tributario come giudizio di “impugnazione-merito” (2) e muove dal presupposto che le obbligazioni tributarie costituiscono effetti giuridici i quali si generano direttamente per la sola circostanza che si verifichi, in concreto, una serie di fatti corrispondenti alla fattispecie che il legislatore ha individuato come presupposto del tributo considerato. Come facilmente intuibile, la particolare complessità, delicatezza e sensibilità della vicenda tributaria fa sì che l’organo a ciò deputato dalla collettività sociale (nella Repubblica Italiana, il legislatore, cui tale compito è riservato dall’art. 23 della Costituzione del 1948) abbia da sempre previsto che l’individuazione e la “scoperta” di tali effetti costituiti dalle obbligazioni tributarie, delle loro caratteristiche e del loro modo di essere, sia rimessa anzitutto all’opera dichiarativa e accertativa delle parti del rapporto tributario stesso o dei soggetti da essi delegati a tal fine. Più in particolare, il legislatore ha generalmente disposto che, per essere “spesi” o “utilizzati” nella vita giuridica, ossia per essere posti alla base di (tutte le o alcune delle) ulteriori fattispecie dipendenti che permettano il conseguimento di certe utilità ordinamentali (in particolare, per l’erario, l’acquisizione di entrate), gli effetti generatisi per il verificarsi in concreto della fattispecie impositiva (rapporti obbligatori tributari) debbano essere nella generalità dei
(1) La precisazione terminologica può essere opportuna per distinguere l’impostazione più recente, cui qui si opera riferimento, da quella che, in anni lontani (il pensiero corre, in particolare, ad A.D. Giannini, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937; Id., I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, 125 ss.; ma cfr. altresì A. Berliri, Principi di diritto tributario, II, Milano, 1952, 3 ss.), si definiva dichiarativa ma si fondava su un’elaborazione concettuale del tributo come rapporto complesso che non si presta oggi a essere più sostenuta. Nel prosieguo, si utilizzerà in questa sede il concetto di teoria “dichiarativa” per indicare la posizione concettuale più moderna: infatti, l’esigenza di mantenere tale impostazione terminologicamente distinta da quella basata sul rapporto complesso d’imposta appare stemperata, visto che l’ormai definitivo e irredimibile tramonto della teoria del rapporto complesso d’imposta relega quest’ultima al completo oblio operativo e, comunque, alla storia preterita del diritto tributario. (2) Il sintagma è stato coniato da P. Russo, Diritto e processo nella teoria dell’obbligazione tributaria, Milano, 1969, 286 ss. e 359; Id., Il nuovo processo tributario, Milano, 1974, 79 nota 38; Id., Impugnazione e merito nel processo tributario, in Riv. dir. trib., 1993, I, 757 ss.; Id., Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2007, 125 ss. e 235 ss.; Id., L’accertamento tributario nel pensiero di Enzo Capaccioli: profili sostanziali e processuali, in Dir. amm., 2009, 1033 ss. e in Riv. dir. trib., 2010, I, 661 ss. In giurisprudenza, il panorama della sentenze che recepiscono la formula è sterminato e copre un arco che va dagli anni Settanta del Novecento (Cass., SS.UU., n. 942/1977, n. 4507/1978, n. 1471/1980; Corte Cost., sent. n. 63 del 1982) ai giorni nostri (cfr., fra le altre, Cass., sez. trib., n. 3618/2016, n. 558/2016).
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casi attestati o comunque recepiti da atti specifici (3): tali atti, quindi, non producono l’effetto obbligatorio tributario, ma sono considerati dal legislatore necessari per integrare fattispecie (ulteriori) al cui verificarsi è subordinato il conseguimento di determinati (ulteriori) effetti in cui si sostanziano le utilità che la collettività intende perseguire tramite la leva tributaria. Generalmente, l’ordinamento stabilisce determinate modalità che devono verificarsi affinché i predetti atti possano efficacemente integrare ulteriori fattispecie ordinamentali (in particolare, quelle della riscossione): tali modalità attengono, di solito, a profili contenutistici nonché a profili procedurali e formali. Quanto ai profili contenutistici, generalmente viene richiesto che l’atto rappresenti e illustri le caratteristiche e il modo di essere che il soggetto che emana l’atto ritiene connotare gli effetti (rapporti o qualificazioni) prodottisi nel mondo giuridico in virtù della verificazione in concreto della fattispecie impositiva o di fattispecie ad essa preliminari (4); quanto ai profili procedurali e formali,
(3) Ciò non esclude, peraltro, che permangano vicende in cui l’esistenza di obbligazioni tributarie possa acquisire rilevanza per l’ordinamento a prescindere dal recepimento in tali atti. Si pensi, nei rapporti tra obbligato e creditore, alla possibilità per il primo di pagare spontaneamente il debito tributario, ancorché non recepito (o addirittura non più recepibile perché estinto per decadenza o prescrizione) in alcuno degli atti specifici previsti dall’ordinamento affinché tale rapporto sia altrimenti “utilizzabile”; ovvero alla possibilità per il creditore fiscale di insinuarsi nel passivo fallimentare a prescindere dalla emanazione degli atti tipicamente dotati di effetti esecutivi (Cass., SS.UU., n. 4126/2012, specie par. 8 e pur con il rilievo che la mancata emanazione degli atti tipici può rivestire anche in tal caso, secondo quanto prospettato dalla stessa sentenza al par. 8.c); oppure ancora per la possibilità, concessa all’amministrazione finanziaria debitrice, di contestare direttamente in giudizio il contenuto delle esternazioni del contribuente al fine di sterilizzare le sue pretese (Cass., SS.UU., n. 5069/2016); ovvero, nei rapporti tra obbligato tributario e terzi, al rilievo che questi ultimi potranno indubbiamente dare nei rapporti negoziali (si pensi a una due diligence fiscale preliminare a una operazione straordinaria) a una obbligazione tributaria che essi ritengono sorta ma che ancora non sia stata “scoperta” dall’ente creditore. (4) Invero, la complessità e poliedricità delle fattispecie impositive disegnate dall’ordinamento fa sì che molti elementi costitutivi delle stesse siano a loro volta rappresentati dal risultato di fattispecie giuridiche preliminari: da ciò consegue che, laddove si verifichino tali fattispecie giuridiche preliminari ma non ancora la fattispecie impositiva e il rapporto obbligatorio in cui essa si sostanzia, possono configurarsi atti che si appuntino soltanto su tali fattispecie preliminari. In conseguenza di ciò, si intendono nella presente sede come situazioni ed effetti suscettibili di divenire oggetto degli atti tributari (e, correlativamente, della pronuncia di merito del giudice tributario) non soltanto i rapporti obbligatori di debitocredito intercorrenti tra le parti della vicenda impositiva, ma anche le qualificazioni e gli effetti giuridici preliminari suscettibili di incidere sulla conformazione di tali rapporti obbligatori (nel senso inteso da P. Russo, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2013, 342 ss.; G. Fransoni, Giudicato tributario e attività dell’amministrazione finanziaria, Milano,
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spesso corrispondenti a valori costituzionalmente tutelati e centrali per l’ordinamento democratico, tanto che può parlarsi di una vera e propria dimensione procedurale della capacità contributiva, essi si diversificano a seconda della tipologia di atti considerati e possono spaziare dalla previsione di determinati modelli sui quali esternare l’atto, all’individuazione dell’organismo competente a formarlo, alla necessità di ascoltare l’interessato prima di emetterlo. Qualora una delle parti coinvolte contesti l’idoneità dell’atto emesso dall’altra parte a integrare efficacemente le ulteriori fattispecie rilevanti (oppure contesti la mancata emanazione di un atto ritenuto dovuto), l’ordinamento concede rimedi per far valere la differente posizione. In particolare, quando l’atto la cui idoneità si contesti è un atto di provenienza dell’amministrazione finanziaria e riconducibile a determinati schemi ritenuti idonei a eccitare un immediato interesse all’opposizione, il rimedio accordato dall’ordinamento è la contestazione di fronte al giudice tributario (5): essendo tale contestazione scaturita dall’emissione di una determinata tipologia di atti, il modello processuale viene considerato “impugnatorio”. Il giudice tributario, poi, è abilitato a esaminare tutte le dimensioni dell’atto che l’ordinamento prescrive, tra cui la dimensione contenutistica (ossia la descrizione dell’effetto – rapporto o qualificazione tributaria – illustrato e rappresentato nell’atto): e, nel caso in cui ritenga che la dimensione contenutistica dell’atto non corrisponda al reale modo di essere e alle reali caratteristiche con cui il rapporto obbligatorio tributario o l’effetto ad esso preliminare si è formato nel mondo giuridico, il giudice tributario è abilitato a correggere con efficacia di giudicato inter partes la rappresentazione e, così, a sostituire la propria pronuncia (che scende, quindi, nel “merito” dell’effetto) all’atto di provenienza amministrativa ai fini dell’integrazione delle fattispecie ulteriori per le quali l’ordinamento richieda la presenza dell’atto ricognitivo contestato.
2001, 298 ss.) ancorché questi ultimi non si siano ancora generati o, comunque, non vengano immediatamente in rilievo nell’atto e nel giudizio considerato. Laddove, nel prosieguo, si parlerà per semplicità espositiva di “giudizio sul rapporto” dovrà intendersi ricompreso nel concetto anche il possibile giudizio su effetti, qualificazioni e situazioni preliminari rispetto al rapporto obbligatorio tributario. (5) Nel caso in cui l’atto – di cui si contesti la idoneità a integrare efficacemente le ulteriori fattispecie rilevanti o la mancata emissione – sia di provenienza dei soggetti passivi (si pensi alla dichiarazione tributaria), l’amministrazione finanziaria è legittimata ad esternare il proprio diverso punto di vista e, nel caso in cui ciò avvenga mediante gli schemi indicati nel testo, il soggetto passivo che intenda opporsi dovrà instaurare il meccanismo sopra descritto.
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In questo si sostanzia, a grandi linee, la teoria dichiarativa dell’obbligazione d’imposta e il carattere di “impugnazione-merito” del giudizio tributario che ad essa si correla. A questa tesi i costitutivisti contrappongono una teoria che si concentra sul prevalente meccanismo introduttivo del processo, innescato dalla contestazione di un atto di provenienza dell’amministrazione, e che ritiene configurabili in tali occasioni soltanto pronunce di annullamento, se del caso anche solo parziale, e non pronunce sostitutive e di merito (6). Ciò in quanto, secondo le impostazioni più pure della teoria costitutiva, gli atti che l’ordinamento richiede per indicare gli effetti consistenti nelle obbligazioni tributarie non si limiterebbero a individuare e “scoprire” obbligazioni già presenti nel mondo del diritto, ma contribuirebbero a generarle direttamente, costituendo così situazioni giuridiche nuove (rapporti obbligatori tributari o effetti e qualificazioni preliminari) non precedentemente esistenti nell’ordinamento: in questo senso, secondo tale impostazione teorica, gli atti richiesti dall’ordinamento per indicare le obbligazioni tributarie o gli effetti ad esse preliminari sarebbero espressione di un vero e proprio potere amministrativo, come tale riservato a parti diverse dal giudice il quale, quindi, potrebbe sindacarne l’esercizio soltanto sotto il profilo estrinseco della legittimità e non anche sotto quello intrinseco della correttezza nel merito della ricostruzione dell’effetto (se non nella misura in cui essa possa incidentalmente venire in rilievo ai fini del sindacato d’eccesso di potere) (7). Invece, per la teoria dichiarativa, tali atti hanno appunto soltanto carattere dichiarativo e rappresentativo
(6) Tale costruzione viene messa in discussione dai sostenitori della teoria costitutiva soltanto a fronte delle azioni di rimborso o, meglio, di alcune tipologie di esse: in particolare, a chi ritiene che le azioni di rimborso abbiano sempre carattere di accertamento e condanna senza riflessi costitutivi (per tutti, S. La Rosa, Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2001, 201 ss.; G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2017, 607), si contrappone la posizione di coloro i quali distinguono le azioni di rimborso a seconda che vengano proposte a seguito della formazione del silenzio-rifiuto oppure a seguito dell’impugnazione del diniego espresso di rimborso, in quest’ultimo caso essendo da parte di alcuni prospettato il cumulo di profili di annullamento e di accertamento e condanna (per tutti, F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, 116) e, da parte di altri, sostenuto il carattere meramente caducatorio e cassatorio (per tutti, M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2009, 147 ss., specie 148 e 150, e 266 ss.). (7) Deve darsi atto, peraltro, come sussistano altresì tesi intermedie in forza delle quali il carattere costitutivo del processo tributario non contrasterebbe con la genesi legale delle obbligazioni tributarie: in tal senso, si veda per tutti F. Moschetti, Profili di inadeguato bilanciamento tra poteri impositivi e tutela giudiziale tributaria, in Aa.Vv., Scritti in onore di Pasquale Russo. nel presente fascicolo di questa Rivista.
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di situazioni e rapporti già esistenti (seppur ancora non “spendibili” per la generalità dei fini ordinamentali) e, come tali, non esprimono un potere riservato alla pubblica amministrazione (così come non lo rappresentano gli altri atti di provenienza amministrativa ma a fronte dei quali sussistono rapporti di diritto soggettivo), talché le reali caratteristiche del rapporto tributario e delle sue qualificazioni possono essere direttamente accertate e definite dal giudice. Le conseguenze delle diverse impostazioni sono molteplici e vanno dal profilo degli effetti delle sentenze (anche ai fini della riscossione) al profilo della decorrenza degli interessi, passando naturalmente per il profilo dei poteri del giudice tributario. Orbene, in anni recenti la contrapposizione tra teoria dichiarativa e teoria costitutiva si è arricchita di un nuovo capitolo, dal contenuto inedito e basato quasi su una inversione di prospettive rispetto ai tradizionali piani di partenza. È emersa, infatti, tra i costitutivisti l’idea che l’accoglimento di una prospettiva dichiarativa della genesi dell’obbligazione d’imposta (e del conseguente carattere “di merito” del processo) garantirebbe al contribuente un grado di tutela, non già superiore a quello offerto dall’accoglimento di una prospettiva costitutiva, bensì addirittura inferiore. Beninteso, la contrapposizione tra teoria dichiarativa e teoria costitutiva attiene alla ricostruzione della modalità di produzione degli effetti giuridici nel comparto tributario, per cui essa si gioca sul piano della teoria generale del diritto, al quale risulta estranea la dimensione della maggiore o minore “desiderabilità” delle conseguenze dell’una ricostruzione piuttosto che dell’altra rispetto a un determinato punto di osservazione (in ipotesi, quello della tutela del contribuente; opposte potrebbero essere, tuttavia, le conclusioni nella prospettiva della cd. amministrazione “di risultato”). Per cui una tesi che facesse dipendere la preferenza per una delle due ricostruzioni teoriche da considerazioni di “utilità” per una determinata causa risulterebbe logicamente viziata alla radice, poiché confonderebbe i presupposti del ragionamento (schema di produzione degli effetti giuridici) con le sue conseguenze (maggiore o minore tutela per una parte del rapporto). Tuttavia, la tematica sopra menzionata merita di essere discussa e approfondita, poiché fornisce l’occasione di riflettere su alcune questioni di ordine generale che, specie negli ultimi anni, hanno assunto particolare rilievo nel dibattito scientifico giuspubblicistico. Invero, nel corso del tempo è sempre stato condiviso l’assunto per cui, a fronte di un potere amministrativo avente carattere propriamente costitutivo (ossia genetico di situazioni giuridiche nuove non precedentemente esistenti nell’ordinamento), il livello di garanzie e tutela per l’amministrato era necessariamente inferiore rispetto a quello sussistente in caso di attività amministrativa
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dichiarativa di situazioni giuridiche già presenti nell’ordinamento (siccome generatesi in virtù del verificarsi in concreto della fattispecie cui la legge direttamente collega la produzione di determinati effetti) (8): ciò in quanto, a fronte di un potere costitutivo accordato all’amministrazione, si è considerata sussistere per l’amministrato una situazione di mero interesse legittimo (9), cui tradizionalmente si sono accompagnate forme di tutela meno piene e satisfattive rispetto a quelle correlate ai diritti soggettivi (10). Di recente, profondi mutamenti nella teoria generale del diritto pubblico hanno fatto sì, per un verso, che le forme di tutela possibili nel processo amministrativo si siano ampliate aprendo il giudizio a conoscere più da vicino il rapporto e la situazione sostanziale anche al di fuori dei casi di giurisdizione
(8) Il modello di produzione degli effetti nell’impostazione dichiarativa è quello Norma-Fatto-Effetto, secondo il noto schema formulato da E. Capaccioli, L’accertamento tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1966, 3 ss. (specie, 16), ora in Diritto e processo. Scritti vari di diritto pubblico, Padova, 1978, 608 ss.; Id., Manuale di diritto amministrativo, Padova, 1983, 247 ss. Tale schema è stato rielaborato e approfondito a livello di teoria generale da A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 169 ss.. (9) A dire il vero, in diritto tributario sono relativamente pochi – anche tra i costitutivisti – gli Autori che, coerentemente con il proprio assunto di partenza (costitutività del potere accertativo dell’amministrazione finanziaria), hanno accettato la conclusione della natura di interesse legittimo della posizione giuridica del contribuente accertato (cfr. C. Glendi, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984; M. Basilavecchia, Funzione impositiva e processo tributario, cit.); per il resto, anche i costitutivisti tendono a ricostruire la posizione giuridica oggetto del processo tributario come diritto soggettivo, sebbene non in termini di accertamento negativo di un diritto di credito vantato dall’amministrazione (ad esempio, E. Allorio, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 106 e 594 e F. Tesauro, Manuale del processo tributario, cit., 76 e 203, configurano l’oggetto del processo tributario come diritto potestativo all’annullamento dell’atto impositivo, ma chiariscono poi come tale tipologia di diritto potestativo costituisca il referente, sul piano processuale, di una situazione sostanziale di interesse legittimo). (10) Diritti soggettivi che, come noto, nell’impostazione tradizionale non si sono ritenuti configurabili se non a fronte di attività dichiarative e ricognitive da parte dell’amministrazione, dovendosi invece escludere a fronte di un’attività che determini un regolamento di interessi ulteriore e innovativo rispetto a quello già contenuto nella legge e da essa ricavabile tramite raffronto tra l’interpretazione della stessa e l’esame dei fatti della vita concretamente verificatisi. In realtà, peraltro, neppure a fronte di attività meramente dichiarative e ricognitive dell’amministrazione si è sempre pacificamente riconosciuta, in diritto amministrativo generale, la sussistenza di diritti soggettivi: hanno infatti avuto, specie in passato, fortuna alcune impostazioni teoriche che guardavano ad elementi ulteriori ed extralegislativi al fine di qualificare come diritto soggettivo o interesse legittimo la posizione giuridica dell’amministrato anche a fronte di attività amministrative vincolate (per una critica di tali impostazioni cfr., per tutti, L. Ferrara, Diritti soggettivi ad accertamento amministrativo, Padova, 1996).
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esclusiva e di merito, e, per altro verso, che si sia contestualmente diffusa nel diritto amministrativo una tendenza a svilire la rilevanza dei “vizi formali” e procedimentali degli atti (11), in una prospettiva sostanzialistica di amministrazione cd. “di risultato”. Quest’ultima tendenza, in particolare, è stata coronata dall’introduzione nella legge sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990 del comma 2 dell’articolo 21-octies il quale – come noto – dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. In questa prospettiva, è stato sostenuto che la concezione del processo tributario come giudizio sul rapporto (secondo l’impostazione dichiarativa cui si correla la costruzione del processo come giudizio di impugnazione-merito) anziché sull’atto o sul potere (secondo l’impostazione costitutiva), si presterebbe facilmente a privare il contribuente di un importante versante della tutela, ossia di quello correlato alle garanzie formali e procedimentali cui la legge tributaria sottomette l’azione amministrativa volta a controllare il regolare adempimento degli obblighi tributari e ad accertare e riscuotere i tributi non dichiarati e versati spontaneamente. Si è sostenuto, infatti, che il giudizio sul rapporto di impostazione dichiarativista costituirebbe una vera e propria “sirena” che dietro alla suadenza dei relativi presupposti celerebbe, in realtà, una considerevole perdita di tutele per i contribuenti rispetto al giudizio sull’atto o sul potere e, quindi, di mera legittimità e limpidamente cassatorio, di stampo costitutivista (12). In realtà, tale nuovo capitolo della contrapposizione della teoria dichiarativa rispetto a quella costitutiva non si presta ad addurre argomenti a favore della teoria costitutiva, né sotto il profilo teorico, poiché – come sopra detto – la valutazione della desiderabilità rispetto a un determinato osservatore delle conseguenze di una modalità di produzione degli effetti giuridici non
(11) Per un’analisi di queste prospettive evolutive del diritto amministrativo e dei conseguenti riflessi in materia tributaria si veda, se si vuole, F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2015, Parte I. (12) M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, cit., 139: “vi sono ragioni importanti per cui la qualificazione meramente impugnatoria del giudizio si fa preferire: solo evitando la ‘sirena’ del giudizio sostitutivo del giudice tributario si fissa un baluardo teorico per evitare la confusione dei ruoli tra giudice e amministrazione”. F. Tesauro, Manuale del processo tributario, cit., 78: “con qualsiasi teoria che esclude la natura autoritativa degli atti impositivi ... si negano al contribuente le garanzie processuali che sono connaturali ad un processo di impugnazione di atti autoritativi”.
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è logicamente idonea a incidere sulla verifica della correttezza o meno della ricostruzione di tale vicende (che si gioca sul preliminare piano della teoria generale della produzione degli effetti giuridici e non su quello della utilità per una delle parti del rapporto), né sotto il profilo pratico, poiché si basa su assunti che non si prestano ad essere condivisi e che, di recente, sono stati smentiti anche dalla giurisprudenza. 2. Giudizio di impugnazione-merito e principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. – Anzitutto, occorre chiarire che, da un punto di vista processuale, la circostanza per cui, se la tipologia processuale abilita il giudice ad accedere al merito dell’effetto sostanziale, allora non sarebbero possibili pronunce limitate alla valutazione dei profili formali e procedimentali, non tiene conto che la tipologia processuale deve coordinarsi e coniugarsi con altri criteri (norme, principi) che conformano il sistema processuale. Invero, il fatto che un certo giudice sia munito dei poteri necessari per poter verificare tutte le dimensioni giuridicamente rilevanti di determinate tipologie di atti emessi dall’amministrazione finanziaria, ivi comprese le dimensioni contenutistiche di merito, e che sia abilitato egli stesso a correggere direttamente (con valenza sostitutiva degli atti di provenienza delle parti) errori commessi dalle parti nella ricognizione (dichiarazione) della entità e caratteristica dell’effetto sostanziale prodottosi nell’ordinamento per il verificarsi in concreto della fattispecie astratta alla quale la legge collega determinate modificazioni della realtà giuridica, non significa affatto che il giudice stesso debba, necessariamente e in ogni caso, condurre tali ordini di valutazioni e spingersi a esaminare la correttezza o meno, nel merito, di tale ricognizione esercitando il potere sostitutivo laddove essa risulti in tutto o in parte errata. Tali possibilità di verifica e di intervento da parte del giudice, infatti, sono solo “consentite” dall’ordinamento, e non già “imposte”. La differenza tra queste due situazioni emerge all’evidenza sol che si tenga conto che, tra gli altri criteri (norme, principi) che conformano il sistema processuale e che fanno sì che non in ogni caso la possibilità accordata al giudice debba o possa essere utilizzata, vi sono quelli attinenti alla delimitazione dell’oggetto della richiesta avanzata nei confronti del giudice, al principio di corrispondenza tra richiesta formulata al giudice e potere di pronuncia del medesimo, nonché al rispetto delle norme e preclusioni processuali. In questa prospettiva, va ricordato che molteplici sono le dimensioni che l’ordinamento richiede perché gli atti tributari di provenienza amministrativa integrino efficacemente ulteriori fattispecie dipendenti stabilite dall’ordi-
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namento affinché l’Erario ottenga il conseguimento delle entrate: tra tali dimensioni, come detto, vi sono anche – accanto alla dimensione contenutistica rappresentativa – molteplici dimensioni formali e procedimentali. E il contribuente che voglia contestare l’idoneità dell’atto amministrativo a conseguire i risultati che ad esso l’ordinamento riconnette può senz’altro mettere in discussione l’avvenuta realizzazione di ciascuna delle dimensioni che l’ordinamento richiede, ossia anche soltanto di quelle formali e procedimentali (13). In tali ipotesi, al giudice tributario è precluso – nel caso concreto – spingersi a vagliare il contenuto di merito dell’effetto sostanziale (rapporto obbligatorio o qualificazione preliminare) poiché, se utilizzasse tali poteri di cui pure in astratto dispone, violerebbe un principio processuale fondamentale degli attuali sistemi processuali italiani (derogato soltanto in pochissimi casi eccezionali), secondo cui il giudice deve pronunciarsi sulla domanda proposta e non può spingersi oltre i limiti della stessa (cfr., in generale, art. 112 c.p.c., pacificamente applicabile al processo tributario in forza del rinvio disposto dall’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 546/1992). A questo proposito, meriterebbe forse di essere abbandonata la tradizionale dicitura di giudizi “di merito” o “sul rapporto”, preferendo quella, più precisa e auspicabilmente idonea a evitare i fraintendimenti cui l’altra dicitura sta dando corso, di giudizi “suscettibili di accedere al merito” o “suscettibili di intervenire direttamente sul rapporto”. Ciò chiarito, l’unico problema pratico che può porsi al riguardo è se una domanda che si limiti a concentrarsi sulla messa in discussione dei profili formali e procedimentali degli atti fiscali, senza scendere a interessarsi della dimensione contenutistica o di merito, sia ammissibile o meno nell’attuale processo tributario. La risposta a tale quesito, peraltro, è necessitata e presto data, poiché è fermo principio costituzionale quello per cui la tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione “non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate tipologie di atti” (art. 113 Cost.). In questa prospettiva, l’unica deroga all’ammissibilità di un siffatto contenuto per una domanda giudiziale potrebbe provenire da specifiche
(13) Trattando del problema, sottolineano l’insindacabilità delle scelte private circa l’ampiezza del profilo di tutela richiesto anche G. Corso, voce Validità (dir. amm.), in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993 , par. 2. e D. Sorace, Il principio di legalità e i vizi formali dell’atto amministrativo, in Dir. pubbl., 2007, 395.
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ed espresse disposizioni di diritto positivo che siano ritenute compatibili con il dettato costituzionale: ma di norme del genere, nel sistema tributario, non v’è traccia, mentre le norme che nel sistema amministrativo affrontano tale questione sono di dubbia applicabilità nel settore fiscale (cfr. il successivo par. 4) e, comunque, si applicherebbero – laddove siano ritenuti ricorrenti i relativi presupposti previsti dalla legge – a prescindere dall’opzione di fondo per un’impostazione dichiarativa o costitutiva del sistema processuale. Inoltre, neppure potrebbero porsi in materia tributaria quei dubbi circa la sussistenza dell’interesse ad agire che autorevole dottrina amministrativista (14) ha posto per i casi in cui oggetto della contestazione giudiziaria siano unicamente profili formali e procedimentali di un atto di provenienza amministrativa. Premesso che dubbi del genere sembrano basarsi su una concezione dell’interesse ad agire come misurato in concreto sulla prospettiva di ottenere l’accoglimento nel merito anziché – come invece sarebbe preferibile – in astratto sulla prospettiva di ottenere dal giudice una pronuncia quale che sia (15), essi comunque non hanno motivo di porsi in materia tributaria. Infatti, il diritto fiscale si caratterizza per una generale sottoposizione dell’azione amministrativa a termini di decadenza decorsi i quali gli atti che il contribuente può avere interesse a contestare non possono più essere emessi. Talché la considerazione per cui, contestando soltanto i profili formali e procedimentali degli atti, il ricorrente non conseguirebbe utilità giuridicamente apprezzabili poiché l’atto potrebbe essere riemesso con il medesimo contenuto ed emendato dai “vizi” formali, cosicché non vi sarebbe interesse giuridicamente apprezzabile ad agire, non può valere nel settore fiscale: sussiste, infatti, in questo comparto la strutturale possibilità che una nuova emanazione dell’atto non sia consentita e tanto risulta sufficiente a ritenere integrato l’interesse a ottenere
(14) V. Cerulli Irelli, Note critiche in materia di vizi formali degli atti amministrativi, in Dir. pubbl., 2004, 214-216, che parla in casi del genere di “nessun beneficio, se non quello di carattere dilatorio o puramente persecutorio – che non trovano protezione nel vigente ordinamento”. (15) In generale, E. Betti, Diritto processuale civile italiano, Roma, 1936, 71 ss.; E. Allorio, Per la chiarezza delle idee in tema di legittimazione ad agire, ora in Id., Problemi di diritto, Milano, 1957, I, 200 ss.; A. Proto Pisani, Dell’esercizio dell’azione, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Enrico Allorio, I, 2, Torino, 1973, 1065 ss.; Id., Lezioni di diritto processuale civile, cit., 313 ss. In diritto amministrativo, L.R. Perfetti, Diritto di azione ed interesse ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2004, 214 ss. e 223 ss.; F. Trimarchi Banfi, Illegittimità e annullabilità del provvedimento amministrativo, in Dir. proc. amm., 2003, 415.
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una pronuncia che si limiti a sancire l’inidoneità dell’atto stesso a produrre i risultati che si prefigge, essendo tale pronuncia sufficiente a dar corso alla strutturale possibilità di conseguimento di utilità definitive e non certo meramente interinali o, peggio, strumentali (16). Risulta, quindi, senz’altro confermato che nel processo tributario possono introdursi domande che si limitino a chiedere al giudice la verifica dei profili formali e procedimentali degli atti dell’amministrazione, senza scendere a contestare il contenuto di merito degli atti stessi. La correttezza delle conclusioni appena tratte è stata, peraltro, corroborata dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che il giudizio tributario “è diretto alla pronuncia di una decisione di merito sul rapporto tributario, sostitutiva dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria” soltanto “ove il contribuente non si limiti a dedurre con il ricorso esclusivamente vizi di validità dell’atto”: invero, “nel processo tributario, caratterizzato dall’introduzione della domanda nella forma della impugnazione dell’atto tributario per vizi formali o sostanziali, l’indagine sul rapporto sostanziale non può, quindi, che essere limitata ai soli motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’amministrazione che il contribuente abbia specificamente dedotto nel ricorso introduttivo di primo grado, con la conseguenza che, ove il contribuente abbia inteso limitare la materia controversa ad alcuni determinati vizi di validità dell’atto impugnato, il giudice deve attenersi all’esame di essi” (17).
(16) Cfr., sul punto, F. Randazzo, In tema di applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, Legge n. 241 del 1990 agli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 2018, I, 264; F. Farri, Sull’applicabilità dell’art. 21-octies della l. n. 241/1990 agli atti tributari, in Riv. dir. trib., 2012, II, 88 ss.; L. Del Federico, La rilevanza della legge generale sull’azione amministrativa in materia tributaria e l’invalidità degli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 2010, I, 756-757; sul piano generale, M. Renna, Obblighi procedimentali e responsabilità dell’amministrazione, in Dir. amm., 2005, 573. D’altra parte, la circostanza che nei singoli casi concreti i termini per la riedizione dell’atto non siano per ipotesi ancora scaduti non può incidere su quanto rilevato nel testo: simile aspetto, infatti, risulta al contempo estraneo sia al profilo di interesse ad agire dell’opponente (per quanto voglia approfondirsi la concretezza del relativo concetto, in accordo con la stessa dottrina amministrativistica sopra citata), sia all’oggetto del contendere (con riferimento al quale si tradurrebbe in una sorta di accertamento preventivo, per il quale l’opposto eccipiente difetterebbe d’interesse processuale, essendogli ben consentito procedere autonomamente riemettendo l’atto al di fuori del processo). (17) Così si esprime, con sufficiente chiarezza (salve imprecisioni terminologiche e concettuali connesse alla identificazione della materia controversa nei “vizi di validità” dell’atto impugnato, anziché nella insussistenza del diritto del creditore di avanzare determinate pretese mediante determinate forme e modalità), la lett. c) del par. 3.3. della sent. n. 18448/2015 della Sezione Tributaria della Cassazione. In altre parole, è assodato che “il contribuente potrà, ove
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3. Violazioni formali e giudizio di accertamento negativo. – Superato il problema dell’ammissibilità di una domanda concentrata unicamente sulla contestazione dei profili formali e procedimentali dell’atto amministrativo, i sostenitori della teoria costitutiva potrebbero essere indotti ad affermare che l’ammissione della configurabilità di una tipologia di pronunce del giudice tributario che si limiti agli aspetti formali e procedimentali degli atti tributari minerebbe la ricostruzione unitaria del processo tributario come giudizio di impugnazione-merito dimostrando (almeno in certe ipotesi) un carattere semplicemente caducatorio dello stesso che turberebbe l’omogenea ricostruzione dichiarativa dello stesso come giudizio di accertamento negativo. Infatti, pronunce di questo tipo potrebbero ritenersi somigliare molto alle pronunce cassatorie e “costitutive” (di annullamento) che tradizionalmente si sono riconnesse, nell’ambito del giudizio amministrativo, a vicende di esercizio di potere fronteggiate da situazioni di mero interesse legittimo. L’ammissione della possibilità di pronunce meramente cassatorie da parte del giudice tributario, quindi, dovrebbe corrispondere in quest’ottica all’ammissione del ruolo costitutivo del rapporto tributario giocato dall’atto amministrativo impugnato e alla conseguente delegittimazione dell’impostazione dichiarativa. In realtà, le correlazioni su cui si fonda un ragionamento di tal genere sono soltanto eventuali e non necessitate né biunivoche, talché il risultato del ragionamento che sulla biunivocità di tale corrispondenza si fonda non può essere condiviso. Infatti, se volesse affermarsi che, per giustificare una pronuncia che si limiti ai profili formali e procedimentali di un atto, i dichiarativisti dovrebbero trovarsi a concepire una diversa struttura di fondo del processo tributario a seconda del contenuto della domanda proposta (giudizio di impugnazionemerito, in caso di domanda relativa al modo di essere sostanziale dell’effetto (18); giudizio di impugnazione-annullamento, in caso di domanda relativa
lo ritenga, limitarsi a” impugnare un atto “per il solo vizio della violazione” di una regola formale o procedimentale (Cass., SS.UU., n. 18184/2013; Cass., sez. trib., n. 3142/2014). Si tratta, peraltro, di un insegnamento costante della giurisprudenza tributaria, che è dato rinvenirsi anche in pronunce risalenti nel tempo. In particolare, Cass., SS.UU., nn. 5117/1990 e 8/1993 avevano già avuto modo di chiarire che “al giudizio di merito sul rapporto non è dato pervenire quando ricorrano determinati vizi in presenza dei quali il giudice deve arrestarsi alla invalidazione di esso, con ciò non omettendo affatto di esercitare la giurisdizione attribuitagli, ma anzi pienamente e correttamente esplicandola”. Nello stesso senso, di recente, Cass., sez. trib., sent. n. 558/2016, n. 964/2016 e n. 1142/2016. (18) Tale tipologia di giudizio e di sentenza implica il carattere meramente dichiarativo
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ai “vizi” formali dell’atto impugnato), dovrebbe necessariamente postularsi che, per i dichiarativisti, o (i) la pronuncia cassatoria non implichi il carattere propriamente costitutivo dell’atto impugnato, o (ii) il meccanismo di genesi dell’obbligazione tributaria sia diverso a seconda dei casi e in dipendenza di un evento del tutto futuro e incerto come gli eventuali errori negli (e l’eventuale contenuto della contestazione degli) atti indicativi delle caratteristiche di tale obbligazione. Sennonché così non è poiché, mentre la prima prospettiva (i) si tradurrebbe in una questione meramente terminologica, che non evidenzierebbe contraddizioni interne alla teoria dichiarativa né correlativi punti a favore della teoria costitutiva (19), la seconda (ii) è recisamente esclusa dai dichiarativisti. Essa, infatti e all’evidenza, richiederebbe di accettare un presupposto non sostenibile (20) con l’ulteriore aggravio che il carattere (po-
dell’atto impugnato; e tale carattere è a sua volta concepibile soltanto se l’obbligazione tributaria o l’effetto giuridico posto a base dell’atto si sono generati ex lege prima e a prescindere dalla ricognizione contenuta nell’atto stesso. Sia sufficiente rinviare, al riguardo, alla dimostrazione contenuta in P. Russo, L’accertamento tributario nel pensiero di Enzo Capaccioli: profili sostanziali e processuali, cit., specie par. 7. (19) Del resto, che la tutela di annullamento sia consentita anche in materia di diritti soggettivi è più o meno da sempre riconosciuto: per tutti, G. Corso, voce Validità (dir. amm.), cit., par. 6, nota 84; A. Di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 1987, 307 ss.; L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Trattato di diritto civile italiano fondato da F. Vassalli, XIV, t. 4, Torino, 1985, 123 ss. (20) P. Russo, L’accertamento tributario nel pensiero di Enzo Capaccioli: profili sostanziali e processuali, cit., par. 7.2., conduce un ragionamento analogo per escludere che possano configurarsi distinzioni strutturali delle tipologie delle liti esperibili dinnanzi al giudice tributario a seconda che esse abbiano carattere oppositivo oppure pretensivo. Siffatta differenziazione (che è invece sostenuta da parte della dottrina costitutivista citata supra nella precedente nota 6 con riferimento alle liti di rimborso) condurrebbe, infatti, a contraddizioni di fondo nello studio della genesi dell’obbligazione d’imposta, poiché “porterebbe a dover ammettere che la medesima norma impositiva si inquadri una volta nello schema ‘normapotere-fatto’ (allorché il contribuente abbia versato meno di quanto dovuto) ed una volta nello schema ‘norma-fatto’ (allorché abbia versato più del dovuto e vanti pertanto un diritto al rimborso) in ragione del diverso comportamento tenuto dal soggetto passivo; elemento il quale, invece e com’è evidente, si rivela del tutto estrinseco ed accidentale rispetto al meccanismo di produzione degli effetti derivanti dalla norma impositiva e quindi rispetto alla natura degli atti, delle situazioni giuridiche e dell’oggetto del processo”. Pertanto, “riconoscere che la norma impositiva sia fonte diretta ed esclusiva del rapporto obbligatorio d’imposta e che non sussista alcun potere autoritativo di costituzione degli effetti e di regolamentazione della fattispecie, nei casi in cui il contribuente abbia pagato più di quanto dovuto in base alla corretta interpretazione della legge stessa, implica inevitabilmente la necessità di riconoscere che la norma impositiva riveste le medesima natura di unica fonte costitutiva del rapporto obbligatorio d’imposta, e che gli atti dell’amministrazione non rivestono natura costitutiva ed innovativa dell’ordinamento,
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tenzialmente) costitutivo degli atti dell’amministrazione finanziaria sarebbe in questa prospettiva concepito proprio laddove esso viene al tempo stesso negato perché i “vizi” formali e procedimentali comportano “annullabilità” dell’atto stesso. Ma non risulta che i sostenitori della teoria dichiarativa si siano mai trovati ad argomentare in tali termini. Le considerazioni appena svolte, piuttosto, permettono di mettere in chiaro come, nella prospettiva dichiarativa, non vi sia bisogno di affermare che in alcuni casi il meccanismo sotteso al processo tributario abbia carattere costitutivo: simile conclusione, del resto, non è necessaria per giustificare la possibilità per il giudice tributario di emettere pronunce che si limitano a conoscere degli aspetti formali e procedimentali degli atti. Tali tipologie di pronunce, infatti, sono del tutto compatibili con il modello del processo tributario come giudizio di accertamento negativo che si correla alla concezione del medesimo come giudizio di “impugnazione-merito” e al riconoscimento della natura meramente dichiarativa delle più significative tipologie di atti dell’amministrazione finanziaria. Anche le pronunce di accertamento negativo ben possono limitarsi a decidere sulla base della valutazione dei profili formali e procedimentali degli atti impugnati, in tal caso traducendosi in un accertamento dell’insussistenza del diritto del creditore di richiedere le somme pretese (o di esternare gli effetti e qualificazioni ad esse preliminari) con le forme e modalità seguite. Come si è detto, di solito l’ordinamento stabilisce come, affinché gli atti ricognitivi del modo di essere dei rapporti tributari possano efficacemente integrare le ulteriori fattispecie ordinamentali rilevanti (come quelle volte al conseguimento dell’entrata all’Erario), siano indispensabili non soltanto dimensioni contenutistiche, ma anche modalità formali e procedimentali. Talché appare evidente che l’inidoneità dell’atto amministrativo ad integrare dette ulteriori fattispecie possa essere contestata dall’interessato anche soltanto per l’asserito difetto delle caratteristiche formali e procedimentali necessarie, in tal caso avendo la domanda (e, conseguentemente, la sentenza di accoglimento) ad oggetto l’accertamento, non già della insussistenza tout court del diritto
anche nei casi in cui quanto dichiarato e pagato sia inferiore rispetto al dovuto”. Come si sta per dire nel testo, ragionamento del tutto analogo vale per dimostrare la ragione per cui i dichiarativisti non contemplano da un punto di vista dogmatico la possibile diversificazione della struttura del processo tributario a seconda che vengano contestati profili sostanziali del rapporto o soltanto profili formali dell’atto richiesto dall’ordinamento affinché tale rapporto possa essere “speso” nell’ordinamento.
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vantato (o effetto preliminare esternato) dal creditore, bensì della insussistenza del diritto del creditore di richiedere le somme pretese (o esternare l’effetto ad esse preliminare) mediante le forme e modalità in concreto seguite, a causa della inidoneità di esse (forme e modalità) a integrare la fattispecie produttiva dell’effetto (ricognitivo) costituente elemento di fattispecie dipendenti a tal fine rilevanti. Il problema, a questo punto, si trasla sull’identificazione di quali siano i requisiti formali e procedimentali necessari alla produzione dei suddetti effetti di tali atti e se possano istituirsi diversificazioni o graduazioni tra essi ma, una volta individuato tale novero e risolto il problema delle eventuali diversificazioni, è consequenziale la conclusione per cui la contestazione della mancata realizzazione di anche uno solo di essi legittima la richiesta al giudice di verificare l’inidoneità dell’atto a integrare le ulteriori fattispecie ordinamentali per il quale esso poteva essere utilizzato, con conseguente accertamento della mancata produzione dell’effetto dell’atto (in termini di idoneità dello stesso ad integrare le fattispecie dipendenti) e della impossibilità per l’emanante di conseguire con tali forme e modalità il risultato creditorio prefisso. Per inciso, può esser questa l’occasione per ribadire come i requisiti formali e procedimentali necessari alla produzione dei predetti effetti degli atti tributari sono tutti quelli astrattamente idonei a incidere sul contenuto di una delle dimensioni effettuali dell’atto stesso: essi integrano la fattispecie attizia, dalla quale devono invece considerarsi esclusi quegli elementi (generalmente di carattere rappresentativo) che l’ordinamento richiede di inserire nel medesimo documento in cui viene incorporato l’atto ma che non si manifestano neppure astrattamente idonei a incidere su una delle dimensioni contenutistiche di quest’ultimo (21). E può esser questa anche l’occasione per ribadire come la regolamentazione delle antigiuridicità formali e procedimentali degli atti che l’amministrazione finanziaria è chiamata a emettere ai fini dell’attuazione dei rapporti tributari risulta, allo stato attuale, unitaria: essa si traduce essenzialmente nell’onere di contestare di fronte al giudice tributario entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione dell’atto (art. 21 del d.lgs. n. 546/1992) l’insussistenza del diritto
(21) Per ulteriori approfondimenti su questo punto, che solo indirettamente rileva per lo specifico oggetto del presente scritto, sia consentito rinviare a F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti dell’amministrazione finanziaria, cit., Parte III, nonché a F. Randazzo, In tema di applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, Legge n. 241 del 1990 agli atti impositivi, cit.
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del creditore di richiedere le somme pretese (o esternare l’effetto ad esse preliminare) a causa della inidoneità delle forme e modalità, che in concreto ha seguito per la richiesta o esternazione a integrare la fattispecie attizia, e non ammette differenziazioni a seconda di una affermata maggiore o minore gravità delle diverse casistiche di antigiuridicità (22). Ne consegue che il riferimento a differenti tipologie di “invalidità” regolamentate in altri comparti giuridici (in particolare, nel diritto civile e nel diritto amministrativo) non manifesta particolari risvolti pratici in materia tributaria e, anzi, rischia di affidare a esse una valenza ontologica che, invece, non hanno, traducendosi le categorie della “nullità” e della “annullabilità” nel diritto civile e nel diritto amministrativo nella semplice diversificazione che in alcuni comparti giuridici si è ritenuto di operare tra gli statuti regolamentari di diritto positivo di alcune forme di antigiuridicità rispetto a quelli di altre. Talché nei comparti giuridici, qual è quello dell’attuazione dei tributi, nei quali tale diversificazione di statuto tra diverse tipologie di antigiuridicità non sussi-
(22) Tale è l’insegnamento della Corte di Cassazione: cfr., per la particolare chiarezza, la già citata sent. n. 18448/2015, la quale ha chiarito come, in mancanza di diverse indicazioni di diritto positivo, il sistema della “invalidità” degli atti dell’amministrazione finanziaria debba considerarsi unitario e monodimensionale e ha rigettato la pur perspicua tesi (già autorevolmente sostenuta da M. Basilavecchia, La nullità degli atti impositivi: considerazioni su principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. dir. fin. sc. fin., I, 2006, 361; Id., Funzione impositiva e forme di tutela, cit., 73) secondo cui l’art. 19, comma 3 del d.lgs. n. 546/1992 potrebbe essere interpretato nel senso di permettere l’impugnazione, congiuntamente all’atto dipendente impugnato nei termini, dell’atto pregiudiziale rientrante per tipologia nel novero degli atti obbligatoriamente impugnabili ex art. 19, comma 1 del d.lgs. n. 546/1992 ma che si denuncia affetto da un’antigiuridicità talmente grave da determinarne la “nullità” ai sensi dell’art. 21-septies della legge n. 241/1990. In dottrina, risulta comunque prevalente l’orientamento che riconduce il sistema della “invalidità” nel diritto tributario al modello bidimensionale tracciato dagli articoli 21-septies e 21-octies della legge generale sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990 (cfr., per tutti, F. Tesauro, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. trib., 2005, 1446; L. Del Federico, La rilevanza della legge generale sull’azione amministrativa in materia tributaria e l’invalidità degli atti impositivi, cit. 729 ss.; Id., I rapporti tra lo Statuto e la legge generale sull’azione amministrativa, in Rass. trib., 2011, 1401 ss.; A. Fantozzi, Violazioni del contraddittorio e invalidità degli atti tributari, in Riv. dir. trib., 2011, I, 137 ss.; S. Zagà, Le invalidità degli atti impositivi, Padova, 2012, 85-169; F. Pepe, Contributo allo studio delle invalidità degli atti impositivi, Torino, 2012; E. Marello, I fondamenti sistematici del sistema duale nullità-annullabilità, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2014, 328 ss.). Per una dimostrazione della ricostruzione unitaria del regime della “invalidità” in materia tributaria e, in particolare, della inapplicabilità al comparto delle categorie della nullità e annullabilità disciplinate dalla legge generale sul procedimento amministrativo cfr., invece e se si vuole, F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti dell’amministrazione finanziaria, cit., 524 ss.
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ste, la qualificazione dell’unitario regime in termini di annullabilità, nullità, invalidità, illegittimità assume valenza essenzialmente nominalistica (23). Per concludere sul punto, merita infine osservare che nelle suddette ipotesi, in cui l’interessato contesti l’insussistenza del diritto del creditore di richiedere le somme pretese (o esternare l’effetto ad esse preliminare) a causa della inidoneità delle forme e modalità che in concreto ha seguito per la richiesta o esternazione a integrare la fattispecie produttiva dell’effetto (ricognitivo) costituente elemento di fattispecie dipendenti a tal fine rilevanti, la delimitazione dell’effetto del giudicato tributario di accoglimento sarà diversa da quella che si verifica nel caso in cui al giudice sia richiesto di verificare l’aspetto contenutistico dell’atto stesso (aspetto pur sempre necessario affinché esso possa efficacemente integrare le ulteriori fattispecie ordinamentali): non vi sarà, infatti, una pronuncia inerente al modo di essere sostanziale del rapporto obbligatorio (o dell’effetto ad esso preliminare) e idonea a vincolare sul punto la successiva attività ricognitiva dell’amministrazione, ma soltanto una pronuncia accertativa della impossibilità di esternare determinate pretese in determinate modalità, con la conseguenza implicita che, salva la sopravvenienza di fatti esterni (specialmente collegati al decorso del tempo), la medesima pretesa potrà nuovamente essere esternata con modalità differenti (24). Ciò,
(23) In tal senso deve intendersi anche il richiamo al concetto di “annullabilità” fatto proprio dalla sopra citata sent. n. 18448/2015 della Corte di Cassazione. Emerge, infatti, da tutto il complesso della motivazione – oltre che dalla lettura sistematica della giurisprudenza di legittimità ultraventennale di cui si è sopra sinteticamente dato atto alla nota 2 – che con ciò non si è voluto in alcun modo smentire il carattere dichiarativo degli atti dell’amministrazione finanziaria e il carattere di accertamento negativo del giudizio tributario, né contestare la specificità della disciplina delle violazioni formali e procedimentali nel diritto tributario mediante rimandi a istituti relativi ad altre branche del diritto. (24) P. Russo, L’accertamento tributario nel pensiero di Enzo Capaccioli: profili sostanziali e processuali, cit., 698, specie nt. 55; Id., Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, cit., 123-129. In questa prospettiva, peraltro, un ricorrente ben può contestare al contempo sia aspetti contenutistici che formali. In tali casi, le questioni attinenti alla forma e al procedimento risultano, da un punto di vista logico, preliminari rispetto a quelle contenutistiche: conseguentemente, in assenza di altre indicazioni, il giudice le valuterà normalmente per prime e, nel caso in cui ritenga le doglianze in parola fondate, accerterà la mancata produzione dell’effetto dell’atto senza scendere a verificare gli aspetti contenutistici e, così, stabilendo per la successiva azione amministrativa un vincolo (potenzialmente) meno stringente di quello che vi sarebbe stato qualora fossero stato ritenute fondate le doglianze di carattere sostanziale. Tuttavia, tale ordine decisionale non risulta necessitato, in quanto il ricorrente che miri a ottenere una sentenza che scenda nel merito degli effetti sostanziali (ritenendola più “satisfattiva” in termini di vincolatività per la successiva attività amministrativa, specialmente
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tuttavia, non toglie che il giudizio resti pur sempre di accertamento negativo e, comunque, che non venga posta in discussione la genesi direttamente legislativa del rapporto obbligatorio tributario sottostante o dell’effetto giuridico ad esso preliminare, con tutte le conseguenze che da ciò derivano. Nessun punto a favore della teoria costitutiva, quindi, può essere segnato per il fatto che anche il giudizio tributario possa concludersi con una pronuncia di accertamento negativo che si limiti a conoscere degli aspetti formali e procedimentali degli atti mediante i quali le pretese esternate sono avanzate
nel caso in cui siano ancora pendenti i termini per la rinnovazione di essa), non dovrà rinunciare a contestare le questioni di carattere formale, ma avrà l’onere di manifestare al giudice tale richiesta in modo esplicito e motivato, formulando il ricorso e le conclusioni in modo tale da richiedere espressamente di decidere in via preliminare sulle questioni attinenti al merito della vicenda e, solo in via subordinata ed eventuale, sui profili formali e procedimentali dell’atto amministrativo che tale vicenda rappresenta (ancorché logicamente preliminari e, per ipotesi, più liquidi sotto il profilo della conoscibilità da parte del giudice). Valgono infatti, sul punto, i principi di carattere generale in forza dei quali la graduazione delle domande rientra nel potere dispositivo dell’attore ai sensi e per gli effetti dell’art. 112 c.p.c.: invero, la valutazione del grado di soddisfazione che l’attore mira a conseguire mediante le diverse domande proposte non può che essere rimessa alla sua signoria (nei limiti, come ovvio, della ragionevolezza e, quindi, a condizione che tale valutazione attenga ad aspetti giuridicamente apprezzabili) e tale valore non può che essere per sua natura prevalente (siccome direttamente attinente alla funzione del processo di attribuire, a chi se ne deve servire, i beni della vita che gli spettano e che non può ottenere altrimenti stante l’impossibilità di farsi legittimamente ragione da sé: così, per tutti, A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 4 ss.) rispetto a quello di economia processuale (al quale si ispira il generale criterio della preferenza per la ragione di merito logicamente preliminare e più liquida, su cui cfr., ad esempio, F.P. Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 2015, 68), che nei confronti del fine essenziale del processo come sopra individuato risulta per definizione strumentale e servente. Si vedano, sul punto, le considerazioni di S. Menchini, L’ordine di decisone delle questioni di merito nel giudizio di primo grado, in Riv. dir. proc., 2016, 981 ss.: “se la vittoria, per l’attore e per il convenuto, può presentare uno spettro di gradazioni di utilità crescente, in considerazione del fatto che, per mezzo del vincolo promanante dal motivo portante, l’efficacia del giudicato, in successivi giudizi riguardanti lo stesso diritto o diritti reciprocamente implicati o, ancora, diritti dipendenti, può avere differente portata, la parte ha un sicuro interesse a svolgere le proprie difese in forma, piuttosto che concorrente, graduata, allo scopo di ottenere una pronuncia capace di influenzare in misura maggiore l’esito di future, probabili o anche soltanto possibili controversie” e “la violazione, da parte del giudice, dell’ordine di preferenza indicato dalla parte si risolve in un vizio di procedura, in quanto è violato il disposto dell’art. 112 c.p.c.” (ivi, 987 e 985): e quanto rilevato vale, tra l’altro, proprio con specifico riferimento ai giudizi di impugnazione di atti sostanziali (cfr. ivi, 989, ove l’esempio condotto attiene proprio alla differente utilità dell’accoglimento dei motivi sostanziali piuttosto che di quelli formali nei giudizi di impugnazione degli atti di licenziamento). Si osservi, per inciso, come tale ordine di idee permei oggi (e a parte casi eccezionali) anche il sistema del processo amministrativo (Cons. St., Ad. Plen., n. 5/2015).
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per dichiarare la mancata produzione dell’effetto ricognitivo di essi e l’impossibilità per il creditore di avanzare le proprie pretese con determinate modalità, senza scendere al vaglio della situazione sostanziale. 4. Art. 21-octies, comma 2 della l. n. 241 del 1990: processo amministrativo e processo tributario a confronto. – Solo in questo quadro può essere compiutamente affrontato e risolto il problema, rimasto in sospeso nel precedente par. 2, dell’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2 della legge n. 241 del 1990 nei giudizi tributari, questione cui è più o meno espressamente collegata la valutazione della “convenienza” o meno, nell’ottica degli strumenti di tutela per il contribuente, di configurare il processo tributario come giudizio “sul rapporto”. Come si è detto, laddove richiede che un determinato effetto, per poter essere “speso” nel mondo giuridico, debba essere identificato e rappresentato in una certa tipologia di atto, l’ordinamento stabilisce di regola determinate modalità – non solo rappresentative, ma anche formali e procedimentali – che devono verificarsi affinché tali atti possano efficacemente integrare le ulteriori fattispecie ordinamentali rilevanti. Il mancato rispetto di tali modalità determina l’antigiuridicità dell’atto e impedisce, di per sé, all’atto stesso di poter efficacemente integrare dette fattispecie (25): nella larga maggioranza dei casi, tuttavia, l’ordinamento stabilisce anche, nei diversi comparti del diritto, vari meccanismi in forza dei quali tale inefficacia causata da antigiuridicità (solitamente indicata come “invalidità” o “illegittimità”) può essere superata in modo tale che l’atto possa egualmente produrre i propri effetti ordinamentali tipici (a condizione che essi siano almeno riconoscibili e identificabili come tali). Detti meccanismi possono consistere, a discrezione dell’organo regolativo del settore normativo di riferimento (nel comparto pubblicistico, organo regolativo è il legislatore), salvo il rispetto dei principi costituzionali, nell’introduzione di termini di decadenza per far valere detta inefficacia (come si è visto avvenire in materia tributaria ad opera dell’art. 21 del d.lgs. n. 546/1992), oppure nella previsione di meccanismi di correzione delle antigiuridicità, oppure ancora nella fissazione di regole di giudizio peculiari e derogatorie rispetto al principio generale.
(25) L’aspetto è colto molto chiaramente in P. Russo, Le conseguenze del mancato rispetto del termine di cui all’art. 12, ultimo comma della legge n. 212/2000, in Riv. dir. trib., 2011, II, 1077 ss. Più in generale cfr. Id., Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., 327-331 e 346-349.
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L’art. 21-octies, comma 2 della legge generale sul procedimento amministrativo rientra proprio tra queste ultime tipologie di misure: tramite tale norma, infatti, il legislatore fissa per i giudici amministrativi una regola di giudizio secondo cui l’inefficacia per antigiuridicità (illegittimità, invalidità) dell’atto amministrativo non può essere accertata laddove ricorra una situazione di incontrovertibilità giuridica e fattuale della vicenda e laddove, a seguito di tale declaratoria, l’amministrazione dovrebbe comunque emettere di nuovo e necessariamente un atto dotato di identiche caratteristiche sotto il profilo contenutistico. Ciò chiarito, emerge come la questione dell’art. 21-octies, comma 2 della l. n. 241/1990 non abbia rilevanza per il problema della “desiderabilità” per i contribuenti di un processo tributario strutturato come giudizio “sul rapporto”. Infatti, la norma in questione si traduce in una scelta di diritto positivo che, per un verso, non trova generale applicazione nel comparto tributario (trovando invece possibile applicazione soltanto in casi specifici e, tutto sommato, dogmaticamente considerabili come secondari) a prescindere da come voglia ricostruirsi la natura del processo (26) e, per altro verso, è del tutto indipendente
(26) Per ulteriori considerazioni sul punto si rinvia, se si vuole, a F. Farri, Forma ed efficacia, cit., 977-988. In giurisprudenza, cfr. in particolare Cass., sez. trib., sent. n. 23050/2015, la quale ha confermato l’inapplicabilità dell’art. 21-octies, comma 2 della l. n. 241/1990 nella maggior parte dei casi che possono concernere l’attuazione dei rapporti tributari. Né la conclusione dell’inapplicabilità dell’art. 21-octies, comma 2 cit. si mostra contrastante con il valore dell’amministrazione cd. “di risultato” sottolineato, in materia tributaria, specialmente da L. Del Federico, Procedimento tributario, in Diritto on line, 2014. Va considerato, infatti, come l’obiettivo della “bontà” ed “efficienza” dell’andamento dell’amministrazione attenga propriamente al versante delle scelte di politica legislativa e di indirizzo dell’azione amministrativa, mentre non può che risultare in sé estraneo ai parametri di decisione del giudice nei giudizi in cui si contesti la conformità a diritto dell’operato dell’amministrazione parte in causa. Per cui, laddove l’organo di indirizzo politico ritenga che il complesso dei requisiti formali e procedimentali posti all’operato dell’amministrazione sia tale da comprometterne il buon andamento e l’efficienza, la reazione più appropriata sarebbe quella di disporre l’abrogazione della parte non essenziale di essi o modificarne l’ambito applicativo, se del caso adottando formulazioni più elastiche dei relativi termini e presupposti applicativi, non già quella di imporre al giudice regole di giudizio – come è quella del comma 2 dell’art. 21-octies cit. – che derogano alla produzione di conseguenze connaturali al funzionamento del fenomeno giuridico: esse, infatti, si prestano a generare negli amministrati un convincimento di scarsa effettività dell’ordinamento che non si manifesta desiderabile in termini di induzione di essi alla self compliance. È stato, infatti, dimostrato (si vedano, se si vuole, i riferimenti in F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti dell’amministrazione finanziaria, cit., 414 ss.) come sussista una relazione apprezzabile tra rispetto delle garanzie formali e procedimentali da parte delle amministrazioni (cd. procedural justice) e compliance da parte degli amministrati, per
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dalla problematica della fonte genetica degli effetti giuridici sostanziali tributari e da quella della natura del processo tributario. L’applicazione della regola di giudizio di cui all’art. 21-octies, comma 2 della l. n. 241/1990, infatti, non richiede che la conoscenza del profilo contenutistico dell’atto (necessaria al fine di verificare se esso debba necessariamente essere riemesso con il medesimo contenuto) avvenga nel contesto di un giudizio sostitutivo e di merito: essa, infatti, potrebbe senz’altro avvenire anche ab extrinseco con riferimento a un giudizio nel quale il giudice non sia abilitato a scendere direttamente nel merito delle valutazioni amministrative e a correggerle (ad esse sostituendosi) laddove le ritenga erronee. Del resto, è noto che nel processo amministrativo l’art. 21-octies, comma 2 non sia rimasto estraneo all’applicazione agli atti discrezionali (27), talché risulta ulteriormente dimostrato che – anche laddove esso si applicasse ad alcune ipotesi fiscali – le conseguenze “sfavorevoli” al contribuente da esso derivanti potrebbero ben verificarsi anche postulando la natura provvedimentale e costitutiva degli atti tributari e il carattere meramente cassatorio del processo tributario.
cui la dequotazione del rilievo delle antigiuridicità formali e procedimentali non si manifesta, in realtà, come una strategia indispensabile al fine del conseguimento dei valori più autentici dell’amministrazione di risultato. Talché dalla tendenziale non applicazione di un meccanismo come quello dell’art. 21-octies, comma 2 della l. n. 241/1990 il valore del buon andamento e dell’efficienza dell’amministrazione tributaria non ha ragionevolmente da temere pregiudizi di carattere sistematico. (27) Più nel dettaglio, va ricordato che il comma 2 dell’art. 21-octies cit. si compone di due distinti periodi, i quali recano regole di giudizio differenti ma rispondenti a una medesima e unitaria impostazione antiformalistica. La previsione del secondo periodo non può applicarsi agli atti fiscali perché si riferisce a un istituto (la comunicazione di avvio del procedimento) che per espressa disposizione di legge non opera nel diritto tributario, mentre ciò non vale per la previsione di cui al primo periodo. Ebbene, è pacifico che la regola posta dal secondo periodo si applichi anche ai provvedimenti discrezionali, con ciò risultando dimostrato che il carattere costitutivo di una certa tipologia di provvedimenti amministrativi non toglie campo d’azione all’antiformalismo e non offre neppure oggi agli amministrati garanzie formali e procedimentali più pregnanti. Quanto alla regola posta dal primo periodo del comma 2, è bensì vero che appare ormai consolidata la giurisprudenza che la ritiene applicabile soltanto in caso di attività vincolata, ma è altrettanto vero che la giurisprudenza aveva iniziato ad estenderne la portata applicativa anche agli atti discrezionali (TAR Sardegna, Sez. I, 25 maggio 2005 n. 1170) e che la dottrina più acuta non nasconde le aporie della delimitazione interna al comma stesso (L. Ferrara, La partecipazione tra “illegittimità” e “illegalità”. Considerazioni sulla disciplina dell’annullamento non pronunciabile, in Dir. amm., 2008, 103 ss), a ulteriore dimostrazione che tra costitutività del provvedimento amministrativo e del processo, da un lato, e rafforzamento della valenza delle garanzie formali e procedimentali, dall’altro lato, non vi è un rapporto di necessaria corrispondenza.
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Esce, quindi, confermata anche sotto questo profilo la conclusione che la piena valorizzazione in chiave di tutela dei contribuenti dei profili formali e procedimentali degli atti dell’amministrazione finanziaria non è incompatibile con la teoria dichiarativa e con la configurazione di un processo di “impugnazione-merito”. 5. Il processo tributario come possibile modello evolutivo per il processo amministrativo . – Così correttamente posti i problemi che vengono in rilievo, si evince con chiarezza come non possa essere condiviso l’assunto per cui la configurazione del processo tributario in termini di giudizio di “impugnazione-merito” comporterebbe una diminuzione degli strumenti di tutela a disposizione del contribuente. Invero, come si è detto, nessun principio logico o giuridico induce a considerare come necessaria la conclusione per cui, se un atto può essere oggetto di controllo da parte del giudice anche nella relativa dimensione contenutistica e rappresentativa di situazioni di fatto e di diritto preesistenti (ossia anche nel merito), allora non potrebbe essere oggetto di controllo sotto i profili formali e procedimentali giuridicamente rilevanti. Le possibilità di vaglio giudiziario dei predetti versanti non sono alternative, bensì indipendenti ed eventualmente cumulative. Soltanto specifiche norme di diritto positivo, ammissibili purché non rendano eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di difesa ex art. 24 Cost. e purché non contravvengano al disposto dell’art. 113 Cost., possono derogare alla regolare determinazione della conseguenza della inefficacia in caso di mancata integrazione degli elementi (anche formali e procedimentali) richiesti dall’ordinamento affinché un atto contribuisca a produrre un determinato effetto. In questo senso, non va corso il rischio di ritenere che, necessariamente, il processo amministrativo debba rappresentare un modello di sviluppo per il processo tributario. Il comparto del diritto amministrativo generale, infatti e probabilmente a causa della più stretta contiguità con il potere politico attivo che lo caratterizza, è stato fin dalle origini ottocentesche il terreno sul quale con maggiore insistenza si sono annidate le “fungosità” (28) legate alle impostazioni ideologiche tempo per tempo dominanti, con la conseguenza che
(28) L’icastica espressione è di S. Lessona, La funzione giurisdizionale, in P. Calamandrei - A. Levi (a cura di), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, II, Firenze, 1950, 202.
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molte delle soluzioni di regolamentazione trovate per detto comparto scontano l’ancoraggio a premesse ideologiche non indefettibili né sempre corrette o desiderabili. In questo modo, nel momento in cui il diritto amministrativo generale si è liberato da una concezione veteropositivistica della separazione tra poteri dello Stato e ha “scoperto” che l’esame del merito del rapporto sostanziale con poteri sostitutivi da parte del giudice non doveva considerarsi un tabù, per una sorta di contrappasso si è pervenuti a una concezione antiformalistica che ha portato a svilire sistematicamente la valenza dei profili formali e procedimentali degli atti a beneficio della sostanza e dell’efficienza dell’azione amministrativa. In realtà, proprio la vicenda storica del contenzioso tributario dimostra che una reazione di svilimento dei profili formali e procedimentali non è affatto necessitata a fronte del riconoscimento del potere di giudice di accedere – ove richiesto – al merito del rapporto e di emettere pronunce sostitutive laddove non residuino margini di potere discrezionale riservato all’amministrazione. Può, quindi, affermarsi che le tendenze antiformalistiche che hanno interessato negli ultimi anni il processo amministrativo non meritano di essere traslate in un sistema processuale, come quello tributario, che già da tempo ha rinvenuto un soddisfacente punto di equilibrio tra valorizzazione dei profili formali e procedimentali degli atti dell’amministrazione e potere del giudice di accedere al merito del rapporto ed emettere sentenze sostitutive. Anzi, è in questo semmai il processo tributario a poter rappresentare un modello di equilibrio suscettibile di essere replicato anche a livello generale nel processo amministrativo, in vista di una corretta impostazione dei giudizi che contrappongono amministrati e pubblica amministrazione in caso di attività vincolate e non politicamente discrezionali. Il modello del contenzioso giurisdizionale a fronte di attività non discrezionali in termini di giudizio di “impugnazione-merito”, infatti, permette una corretta e soddisfacente sistemazione dogmatica dei rapporti tra legislazione, attività amministrativa e processo e non toglie alcunché, né al buon andamento e all’efficienza dell’azione amministrativa, né alla tutela degli amministrati, avendo anzi dischiuso prospettive decisive di satisfattività (diretta attribuzione in sede giurisdizionale del bene della vita richiesto) in caso di situazioni pretensive e non precludendo, di per sé, la valorizzazione dei profili formali e procedimentali in caso di situazioni oppositive come quelle che generalmente si registrano in materia tributaria.
Francesco Farri
Sulla legittimità costituzionale dell’art. 24 bis Tuir e sulla possibilità di differenziare il concorso alle spese pubbliche da parte dei residenti in funzione del grado di collegamento con il territorio. Sommario: 1. Premessa. – 2. I dubbi di costituzionalità che emergerebbero laddove la norma fosse, erroneamente, considerata una norma agevolativa. – 3. (segue) La norma non è agevolativa ed inoltre, ed in conseguenza di tale presupposto, non appare essere incostituzionale. – 4. Conclusioni.
Scopo del presente lavoro è quello di fornire un corretto inquadramento dell’art. 24 bis del d.p.r. n. 917/1986 che introduce, come è ben noto, un’imposta sostitutiva dell’Irpef per i redditi prodotti all’estero da parte dei c.d. neo-residenti. Nel caso in cui la norma dovesse essere considerata, come si potrebbe pensare ad una prima lettura della stessa, una norma agevolativa, su di essa graverebbero forti dubbi di incostituzionalità. Sennonché, una volta che si sia analizzato più attentamente il contenuto dell’art. 24 bis ci si avvede del fatto che, tramite esso, il legislatore intende valorizzare il diverso (e più debole) grado di collegamento con il territorio che il neo-residente ha rispetto al “normale” soggetto residente. Letto in quest’ottica l’art. 24 bis non soltanto appare pienamente conforme alla Costituzione, ma finisce con il fornire al concetto di residenza fiscale una nuova dimensione recando con sé l’idea che l’imposizione possa essere modulata in ragione del minore o maggiore grado di collegamento con il territorio. The purpose of this paper is to provide for a proper interpretation of art. 24-bis of Presidential Decree no. 917/1986 which introduced a lump sum substitute tax on foreign sourced-income for all the non-resident individuals transferring their tax residence to Italy (so-called “new” Italian residents). Should the new law be considered as a favorable regime, a constitutional issue would arise. However, from a deeper analysis of the contents of the mentioned art. 24-bis, it derives that the aim of the Italian legislator is to attribute to the “new” Italian residents a different (and weaker) link to the Territory of the State than the “normal” Italian residents. From this perspective, the new art. 24-bis not only seems to be fully compliant with the Italian Constitution, but it also attributes a new meaning to the concept of tax residency under which taxation on income can be levied on the basis of the level of connection to the territory of the State.
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1. Premessa. – Il presente lavoro si pone l’obiettivo di comprendere quale sia il corretto inquadramento dell’art. 24 bis Tuir all’interno del sistema tributario. Come è noto in base a tale previsione normativa è stata introdotta nel Tuir, subito dopo gli artt. 23 e 24 (relativi alla applicazione e determinazione dell’imposta dei non residenti) un’imposta sostitutiva dell’Irpef (1). Si tratta di un regime fiscale opzionale cui possono aderire i soggetti “che trasferiscono la propria residenza ai sensi dell’art. 2, comma 2” del Tuir. La condizione per poter optare per tale imposta è però che tali persone non siano state fiscalmente residenti in Italia per un tempo almeno pari a nove periodi d’imposta nel corso dei dieci precedenti l’inizio del periodo di validità dell’opzione. Senza scegliere nei dettagli dell’art. 24 bis basti per ora ricordare, ai nostri fini, che l’imposta sostitutiva opera (soltanto) per i redditi prodotti all’estero ed è pari ad un importo di 100.000,00 euro per ciascuno dei periodi di imposta di validità dell’opzione, a prescindere dall’entità dei redditi prodotti all’estero. L’opzione ha una durata massima di quindici anni. Trascorso tale periodo il soggetto residente dovrà iniziare a corrispondere l’Irpef anche per i redditi prodotti all’estero. All’indomani dell’entrata in vigore di tale norma sono stati espressi dubbi in ordine alla sua legittimità costituzionale (2). Dubbi che derivano dall’aver considerato il regime introdotto dall’art. 24 bis un regime agevolativo. Ciò potrebbe destare preoccupazione per chi si sia avvalso del regime previsto nella predetta norma, potendosi temere che una dichiarazione di incostituzionalità travolga, con efficacia ex tunc, il regime sostitutivo con conseguente obbligo
(1) Come chiarisce efficacemente G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2017, 238 i regimi fiscali sostitutivi “consistono in meccanismi impositivi che, per specifiche fattispecie, sostituiscono le normali imposte applicabili a quelle fattispecie”. Le ragioni che spingono il legislatore ad introdurre tali regimi possono risiedere, prosegue Falsitta, nella esigenza di agevolare, oppure di semplificare gli adempimenti formali, o ancora nel perseguire l’obiettivo della maggior certezza del prelievo. Nel caso di specie, come si vedrà di seguito nel testo, l’intento è quello di dar vita ad una diversa imposta che sia più adatta a colpire un soggetto che ha un peculiare legame con il territorio. (2) Cfr. in particolare E. Della Valle - E. Innocenzi, Chiarimenti sull’imposta sostitutiva per le persone fisiche neo-residenti, ma i dubbi di costituzionalità restano, in Il Fisco, n. 29, 2017, 2822 ss. i quali osservano peraltro, correttamente, che il regime di cui all’art. 24 bis sui redditi di fonte estera può avvantaggiare indirettamente anche i redditi prodotti in Italia (che soggiacciono alla disciplina Irpef) in quanto, non concorrendo il reddito estero alla base imponibile Irpef, per questa potrebbero trovare applicazione aliquote più basse di quelle che troverebbero applicazione se i redditi ovunque prodotti dal residente si sommassero (come avviene ordinariamente).
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di pagamento nei confronti dell’erario di quanto non versato a titolo di Irpef nei periodi di imposta antecedenti ed ancora accertabili (3). Va detto fin da subito, per chiarezza espositiva, che la norma pare perfettamente in grado di poter “resistere” ad un eventuale sindacato di costituzionalità, ma solo nella misura in cui si riesca a sostenere la tesi (che invero appare sostenibile avendo dalla sua argomenti che appaiono persuasivi) che la stessa non sia una norma agevolativa, ma sia invece una norma che “calibra” (in un senso che si chiarirà dopo) il legame del soggetto residente con il territorio, ed in funzione di questo opera una distinzione tra residenti e residenti. Laddove invece si dovesse attribuire alla norma natura agevolativa, i dubbi di costituzionalità emergerebbero in modo assai rilevante tanto da sembrare di difficile superamento. 2. I dubbi di costituzionalità che emergerebbero laddove la norma fosse, erroneamente, considerata una norma agevolativa. 2.1. Una delle possibili chiavi di lettura della norma che stiamo analizzando, è che essa introduca un’esenzione (di carattere soggettivo) e dunque un’agevolazione. È anche la lettura più immediata che l’interprete tende ad offrire. Il soggetto residente che produce redditi all’estero è un soggetto Irpef e dovrebbe corrispondere l’imposta sui redditi (anche) in Italia. Prevedere un’imposta sostitutiva, che evidentemente verrà scelta per opzione soltanto dai contribuenti che pagherebbero un’Irpef più elevata, significa “agevolare” coloro che fruiranno di tale regime [in questo caso (la precisazione è assai importante) il verbo “agevolare” è inteso in senso del tutto atecnico e non intende affatto richiamare il concetto di agevolazione tributaria, quanto piuttosto prendere atto del fatto che l’imposta sostitutiva può essere meno gravosa dell’Irpef]. Orbene, se la norma fosse (ma così non è) una vera e propria “norma agevolativa”, essa sarebbe come si è detto sopra – e per le ragioni che verranno illustrate di seguito – gravemente a rischio di incostituzionalità (4).
(3) Come è noto infatti, anche le sentenze della Corte costituzionale, di regola retroattive, incontrano il limite dei “rapporti esauriti” (sul tema cfr. per tutti F. Tesauro, Gli effetti nel tempo della dichiarazione di illegittimità di norme tributarie e il diritto al rimborso dell’imposta dichiarata incostituzionale, in Rass. trib., 2015, 1096 ss.). Ed in tale categoria rientrano certamente le annualità di imposta non più accertabili per effetto del decorso dei termini decadenziali previsti, nel caso di specie, dall’art. 43 del d.p.r. n. 600/1973. (4) Si tratta poi di comprendere come la questione di legittimità costituzionale potrebbe
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Per comprendere le ragioni di tale affermazione occorre prendere le mosse dalla giustificazione che generalmente viene offerta, sul piano della loro costituzionalità, dei regimi tributari agevolativi. Tale giustificazione riposa sul giudizio di bilanciamento al quale, l’interprete prima, e la Corte Costituzionale poi, devono ricorrere quando una norma si ponga in contrasto con un principio costituzionale, ma al contempo costituisca l’attuazione di un altro (5).
pervenire alla Consulta. Senza alcuna pretesa di approfondire in questa sede un tema così delicato, basti qui rilevare che, come è accaduto in altri casi per norme agevolative, potrebbe verificarsi l’ipotesi in cui un soggetto residente il quale produca redditi all’estero e che non abbia i requisiti per optare per l’imposta sostitutiva di cui all’art. 24 bis, sollevi questione di costituzionalità chiedendo una sentenza “additiva” (chiedendo cioè la dichiarazione di incostituzionalità per la parte in cui non si estende a tutti il diritto di usufruire del regime). La Corte a questo punto potrebbe, con un meccanismo di autorimessione, invertire la rotta pronunciando una sentenza ablativa (negando il regime a tutti). Il meccanismo è ben spiegato in F. Modugno, Effetti della declatoria di incostituzionalità nei rapporti tributari pregressi, in Dir. pubbl., 1998, 366 dove si richiamano anche i precedenti della Corte Costituzionale sul punto. Sul tema cfr. pure G. Falsitta, Art. 3 Cost., in Commentario breve alle leggi tributarie, Tomo I, Diritto costituzionale tributario e statuto del contribuente (a cura di G. Falsitta), Padova, 2011, 29-30; P. Boria, Il sistema tributario, in Diritto tributario (a cura di A. Fantozzi), Torino, 2012, 122. (5) Non è questa la sede per soffermarsi su tutto l’arco di prospettazioni che sono state offerte nel corso degli anni sulla giustificazione delle agevolazioni dal punto di vista costituzionale (per un breve accenno alle diverse posizioni si rinvia per tutti a S. La Rosa, Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario (diretto da A. Amatucci), Padova, 1994, vol. I, 415 ss.). È sufficiente qui riferirsi all’impostazione che, oltre ad essere ampiamente accettata, pare anche quella preferibile. Se di vera “agevolazione” si tratta, la componente discriminatoria è, come si ribadirà subito dopo nel testo, in re ipsa. Si intende dire che quello di “agevolazione” è necessariamente un concetto relativo. Si è agevolati rispetto ad altri soggetti o ad altre attività che, evidentemente, non lo sono. Da questo punto di vista la norma agevolativa deve necessariamente superare l’esame del principio di uguaglianza. E tale esame, vista la portata costituzionale di tale principio, non pare possa essere superato se non attraverso il giudizio di bilanciamento cui si è fatto riferimento nel testo. Cfr. sul punto, tra i tanti, I. Manzoni - G. Vanz, Il diritto tributario, Torino, 2007, 53; P. Boria, Il sistema tributario, cit., 119 ss. Peculiare la posizione di G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte generale, cit., 166-167 il quale osserva che “sfuggono alla censura di legittimità costituzionale quelle norme agevolative che risultano legittimate da altre disposizioni costituzionali, diverse dall’art. 53, ma altrettanto vincolanti per il legislatore”. Ciò che non appare condivisibile nella posizione di Falsitta è l’individuazione della modalità tecnica attraverso la quale il conflitto tra norme si risolverebbe. Saremmo in presenza, secondo Falsitta, di norme speciali “rispetto al precetto generale contenuto nell’art. 53 Cost.”. Pertanto il conflitto tra precetti costituzionali antinomici verrebbe risolto sulla base del principio lex specialis derogat generali. Sembra a chi scrive che non sia affatto così. Il giudizio di bilanciamento (che in effetti Falsitta non menziona) non si risolve con il criterio della legge speciale. Se le norme fossero in rapporto di specialità non vi sarebbe alcun bisogno di “bilanciarle” stabilendo volta per volta quale “pesa” di più. Ma come
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La norma agevolativa, si è sempre ritenuto (con impostazione pienamente condivisibile), dal momento che comporta un vulnus del principio di uguaglianza (in quanto per definizione “discrimina”), in tanto è conforme alla Costituzione in quanto sia espressione di altri principi costituzionali (6).
si potrebbe affermare che, ad esempio, la norma costituzionale sul diritto alla salute (art. 32 Cost.) è speciale rispetto al principio di capacità contributiva? Il giudizio di bilanciamento è qualcosa di molto diverso perché volto a bilanciare, appunto, norme che sono sullo stesso piano ed il cui conflitto si risolve dunque non con un giudizio tecnico-giuridico (come quello richiamato da Falsitta) ma con un giudizio di valore. Sul punto si può richiamare, tra le tante, Corte Cost., sent. n. 85 del 2013 nella quale si afferma che la “Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi”. Sul tema del giudizio di bilanciamento si veda per tutti M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, in www.cortecostituzionale.it, 8 ss. (6) In questo senso cfr. sempre S. La Rosa, Le agevolazioni tributarie, cit., 20 il quale con approccio pienamente condivisibile osserva, se ben se ne interpreta il pensiero, che il problema costituzionale delle agevolazioni è un problema di rispetto del principio di uguaglianza, non di quello di capacità contributiva. Tale impostazione è pienamente condivisibile perché non sembra potersi far discendere dall’art. 53, comma 1 Cost. l’obbligo per il legislatore di assoggettare ad imposizione tutti gli ipotizzabili indici di capacità contributiva. Si può anche scegliere di non “colpire” un dato indice. Quando però si sceglie di attribuire rilevanza ad un indice di capacità contributiva, a quel punto la scelta positiva del legislatore si traduce nella esigenza di rispettare il principio di uguaglianza. L’affermazione che l’agevolazione si rivolge per sua natura a fattispecie che, altrimenti, sarebbero imponibili è contradetta da autorevole dottrina la quale ritiene invece che le esenzioni sono riconosciute laddove manchi capacità contributiva. È questa la tesi di F. Moschetti, voce Agevolazioni fiscali. Problemi di legittimità costituzionale e principi interpretativi, in Dig. disc. priv. – sez. comm., vol. I, Torino, 1987, 74 ss. Non è questa la sede per analizzare approfonditamente tale tesi. Si tratta in ogni caso di una posizione difficile da difendere dal momento che, se la capacità contributiva manca, non si vede come si possa parlare di trattamento agevolativo: la fattispecie non sarà assoggettata ad imposizione semplicemente perché mancante del presupposto costituzionale previsto dall’art. 53, comma 1 Cost. Se poi si vuole affermare che, quando vi sono altri valori costituzionali da tutelare, essi determinano concettualmente (e non in punto di fatto) il venir meno della capacità contributiva che altrimenti vi sarebbe stata, allora siamo in presenza semplicemente di un diverso modo per affermare la medesima tesi. È in effetti in questa direzione che sembra muoversi Moschetti il quale sostiene che l’art. 53, comma 1 Cost. va letto in combinato disposto con le altre norme costituzionali. Resta il fatto però che si dovrà pur differenziare tra le ipotesi in cui non si assoggetta ad imposizione un determinato presupposto perché manca alla radice la capacità contributiva, dai casi in cui questa manca (aderendo alla tesi di Moschetti) perché l’art. 53, comma 1 Cost. viene letto in combinato disposto con altre norme costituzionali. In questo secondo caso si dovrà pur ammettere che vi è un senso in cui la capacità contributiva esiste, altrimenti non servirebbe a nulla invocare altri principi costituzionali. Se tale differenziazione non venisse fatta, verrebbe inoltre meno la stessa ragion d’essere del concetto di agevolazione. Sul tema è comunque interessante ricordare quanto affermato dalla Corte costituzionale
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2.2. Nel caso di specie però, non sembra che la nostra Costituzione offra saldi ancoraggi su cui poter fondare un giudizio di bilanciamento che possa sfociare nella conclusione della legittimità costituzionale di una norma agevolativa quale si assume essere (ipoteticamente e provvisoriamente) l’art. 24 bis Tuir. L’unica norma che ha un certo grado di attinenza e che pare possa quantomeno presentarsi come possibile candidato del giudizio di bilanciamento sopra detto è l’art. 4, comma 2 Cost. nel quale si fa riferimento al “progresso materiale” della società. In effetti non vi sono molti dubbi sul fatto che l’art. 24 bis sia stato introdotto con un ben preciso scopo: quello di attrarre ricchezze in Italia (7). E non vi sono molti dubbi sul fatto che maggior ricchezza in Italia possa astrattamente tradursi in un progresso materiale della società. Sennonché l’invocazione dell’art. 4, comma 2 Cost., il cui contenuto è stato sopra descritto riferendosi (in modo incompleto) alla sola locuzione sul “progresso materiale”, non appare così efficace rispetto allo scopo che si sta assegnando in questa sede a tale norma costituzionale. Non si deve dimenticare che siamo nell’ambito di una norma che si occupa del lavoro o, più in generale, delle attività svolte dai cittadini. L’art. 4, comma 2 intende rivolgere ai cittadini un invito ad facere, e lo tratteggia in termini di doverosità all’adempimento dello stesso (8). Il diritto al lavoro dell’art. 4, comma 1 ed il dovere alle attività o funzioni dell’art. 4, comma 2 (9) sono uno sviluppo del tipo di Repubblica che i Costituenti hanno voluto, una Repubblica fondata sul lavoro (è questa – come è noto – la formula di
nella ord. n. 174/2001 dove si legge che “l’esenzione, concretando una ipotesi di agevolazione concessa a soggetti che ordinariamente sarebbero sottoposti alla obbligazione tributaria, presuppone proprio l’esistenza della capacita contributiva”. Naturalmente la riconducibilità ad un altro principio costituzionale è condizione necessaria ma non sufficiente. Occorrerà sempre “pesare” tali principi per stabilire se l’altro principio costituzionale cui si intende dare attuazione con la norma agevolativa, sia tale da giustificare lo “strappo” rispetto ad un principio fondamentale quale è quello di uguaglianza. (7) Nel prosieguo sarà necessario dare contorni più precisi ad una affermazione così vaga tentando di capire cosa davvero può dirsi essere attratto in Italia dall’art. 24 bis. (8) Un invito forte che però sempre invito resta visto che alla inosservanza del “dovere” non fa da contraltare una specifica sanzione. Un dovere morale quindi, più che un dovere in senso strettamente giuridico. Per una conferma si veda La Costituzione della Repubblica Italiana illustrata con i lavori preparatori, da V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, Roma, 1949, 27-28 (9) L’art. 4, comma 2, lo ha sottolineato la Corte costituzionale nella sentenza n. 12/1960, si riferisce al “dovere … di svolgere una attività o una funzione nell’interesse sociale”. Nell’ambito dell’art. 4, comma 2, si legge nella stessa sentenza, la scelta di una attività va “intesa come manifestazione del concorso di ciascuno alla vita e al progresso sociale”.
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apertura dell’intera Costituzione). L’aspetto economico, nel comma 2, letto nella cornice dell’intero art. 4, sembra posto in secondo piano (10). In altri termini, nell’ottica complessiva dell’art. 4, comma 2 Cost. non sembra rilevare tanto il “fine” del progresso materiale, quanto il “mezzo” per raggiungerlo consistente in un impegno attivo di ciascun cittadino (11). Se così è, pur dovendosi riconoscere che veicolare ricchezze in Italia per attività poste in essere all’estero è certamente qualcosa che giova alla società, e che quindi si muove nella medesima direzione dell’art. 4, comma 2, resta però il fatto che il legame tra art. 4, comma 2 Cost. e art. 24 bis Tuir è debole. L’anello di congiunzione tra le due norme è rappresentato dal fine del progresso materiale ma il fatto che l’art. 24 bis non dia alcuna rilevanza e non promuova in alcun modo il vero scopo dell’art. 4, comma 2 Cost. (il cittadinolavoratore) indebolisce molto la possibilità che questa norma Costituzionale possa costituire un sufficiente contrappeso al vulnus che l’art. 24 bis, se letto come norma agevolativa, arreca al principio di uguaglianza. 2.3. Pertanto, se si guarda, in senso statico, alla ricchezza che, per il tramite di tali persone, “entra” in Italia, le criticità che l’art. 24 bis pone rispetto alla Costituzione (sempre nel caso in cui sia inteso come norma agevolativa) sarebbero probabilmente insuperabili. Si potrebbe però aver riguardo agli effetti potenziali della norma. Si potrebbe valorizzare il fatto che, una volta che la ricchezza è “entrata” in Italia, essa genererà altra ricchezza. Questa ricostruzione presuppone che la ricchezza a disposizione del neo-residente (o quantomeno parte di essa) venga investita in attività economiche. A questo punto sarebbe non troppo difficile
(10) Tanto che M. D’Antona, in R. g. lav. prev. soc., 1999, 17 scriveva che il dovere del comma 2 “riguarda … ogni attività utile alla società, prescinde da ogni qualificazione dei caratteri e dei fini dell’attività, e, soprattutto, non implica un nesso con la sfera dell’economia”. (11) Giova, a sostegno di quanto si sta affermando nel testo, un confronto con l’art. 9 Cost. Se l’art. 4, comma 2 Cost. fa riferimento, oltre che al “progresso materiale” che qui interessa, anche al “progresso spirituale”, l’art. 9, comma 1 Cost. stabilisce che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”. L’art. 4, comma 2, quando si riferisce al “progresso spirituale” e l’art. 9, comma 1, quando si riferisce allo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica si rivolgono dunque ad un ambito comune. La differenza sta appunto nel fatto che, mentre l’art. 4, comma 2 ha il suo centro di interesse nel cittadino, che deve attivarsi verso una certa direzione, l’art. 9, comma 1 si rivolge alla Repubblica. È appunto questa una ulteriore conferma che nell’economia dell’art. 4, comma 2 Cost. non interessano tanto il progresso materiale e quello spirituale come valori in sé. Interessa attribuire ai cittadini il compito di raggiungere determinati fini.
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sostenere che, attraverso l’introduzione dell’art. 24 bis, il legislatore intenda tutelare il lavoro. Dall’art. 4, comma 2 Cost. passeremmo all’art. 4, comma 1 in base al quale “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Fin qui tutto sembra preludere a scenari ben più ottimistici (naturalmente per chi auspichi la sopravvivenza dell’art. 24 bis Tuir) di quelli tratteggiati nel precedente paragrafo. Nuovi investimenti in attività economiche possono significare nuovi posti di lavoro. E così una norma che favorisca gli investimenti ha certamente dalla sua (in un eventuale giudizio di bilanciamento tra norme costituzionali) una valida sponda nella Carta Costituzionale. Il problema è che la norma che stiamo analizzando non ha alcun elemento che possa far sostenere che in essa vi sia quantomeno un incentivo all’investimento. È certamente vero che la relazione tecnica a tale norma riferisce che il fine della stessa è quello di “favorire gli investimenti in Italia da parte di soggetti non residenti”, ma è altresì vero che l’art. 24 bis non subordina l’attribuzione del regime (12) ad alcuna condizione che in qualche modo si riferisca agli investimenti. L’intenzione del legislatore storico ha ben poco peso, in un giudizio di costituzionalità, se tale intenzione non emerga, quantomeno implicitamente, nella norma stessa (13). E la norma che stiamo analizzando richiede soltanto che il contribuente sia residente in Italia. La residenza è una condizione di fatto che assicura la presenza sul territorio statale, ma che non implica l’investimento. Semmai implica, con una ragionevole applicazione di massime di esperienza, il consumo. Il residente sarà certamente, in quanto fattualmente presente sul territorio, un consumatore in Italia, ma che sia anche un investitore rientra tutt’al più nelle (per
(12) Da notare, per quello che si dirà nel paragrafo successivo, che la stessa relazione tecnica non parla di regime agevolativo ma, più cautamente, di “regime fiscale speciale”. (13) Come precisa con grande chiarezza F. Modugno, Appunti dalle lezioni di teoria della interpretazione, Padova, 1998, 70 ss. si deve distinguere (ed è ciò che si è fatto nel testo) la volontà del legislatore “concreto” (costituito dall’insieme delle persone che storicamente hanno concorso alla redazione ed approvazione del documento da interpretare), dalla volontà del legislatore inteso come entità astratta che parla attraverso la “lettera” della legge. Il tema non può essere approfondito in questa sede ma pare piuttosto evidente che in un giudizio di costituzionalità la volontà del legislatore storico possa avere ben poco peso se non è confermata dalla lettera della norma. Se l’art. 24 bis non reca in sé, esplicitamente o implicitamente, alcuna condizione che possa indurre il neo-residente all’investimento in Italia, poco importerebbe dinanzi alla Corte Costituzionale sostenere che questo era l’effetto voluto dal legislatore storico. Sarebbe del resto un modo per ammettere che la volontà del legislatore storico (per qualche ragione) non si è tradotta nel dato positito e dunque non si è realizzata.
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quanto non del tutto irragionevoli) aspettative o speranze del legislatore. Non è un elemento ricavabile dalla norma stessa. In altri termini lo status di residente sembra ragionevolmente implicare i consumi, ma non anche gli investimenti (14). Peraltro, quand’anche si volesse obiettare che, se la ricchezza è molto elevata, anche l’investimento “viene da sé” (anche se per la verità questo collegamento non è così scontato), a ciò si dovrebbe obiettare che la norma non contiene un riferimento a ricchezze molto elevate. L’unica cosa che si può desumere è che i soggetti che opteranno sono quelli che pagherebbero per i redditi prodotti all’estero un’Irpef superiore (anche solo di un euro) ai 100.000,00 euro annui (15). 2.4. Se si accetta la premessa che la norma, così come scritta, reca con sé tutt’al più l’obiettivo della attrazione dei consumi in Italia e non anche quello degli investimenti, ci si deve ora chiedere se il consumo possa giustificare una agevolazione quale sarebbe quella introdotta (secondo alcuni autori) dall’art. 24 bis (16). La risposta sembra essere negativa. Rispetto all’investimento, che come detto sopra reca con sé in linea generale (e purché sia un investimento in attività produttive), con un nesso piuttosto stretto, delle ricadute positive a cascata sull’occupazione, per il consumo non sembra possa dirsi altrimenti. Vi potrà anche essere (e certamente vi è) una relazione tra aumento dei consumi e livelli occupazionali, ma non sembra essere un nesso sufficientemente stretto da giustificare agevolazioni in capo alle persone fisiche potenziali consuma-
(14) In senso conforme si veda G. Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (cd. Flat tax per i neo – residenti), in Riv. dir. trib., 2018, I, 85. (15) Si ha sempre in mente, nel commento di tale norma, il soggetto con enormi ricchezze. Conviene però non dimenticare che anche il possessore di un reddito (prodotto all’estero) di 400.000 euro l’anno potrebbe scegliere di optare per il regime che stiamo analizzando (cfr. sul punto D. Tarantino – A. Vagnarelli, Residenti all’estero, la flat tax conviene a partire dai 400mila euro, in Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2017). E quando si valuta la norma, evocando contribuenti con redditi da “capogiro”, si deve tenere conto che anche un contribuente che non abbia tali redditi, e che quindi non sia in grado di produrre in Italia meravigliosi effetti di indotto con la propria ricchezza, potrebbe fruire del regime pagando una imposta di poche migliaia di euro più bassa dell’Irpef, e provocando così un vulnus al principio di uguaglianza che questa volta non potrebbe, nemmeno al livello di suggestione, essere compensato dall’idea del soggetto “super-ricco”. Ed allora, visto che si sta valutando la costituzionalità di una norma generale ed astratta, si deve bene avere in mente cosa da essa sia desumibile, a prescindere dal fatto che nei (più che legittimi) sogni del legislatore ci sono soltanto i “paperoni” che popolano il nostro pianeta ed ai quali l’Italia intende spalancare le porte. (16) Si deve ricordare infatti che nel presente paragrafo stiamo ragionando seguendo l’ipotesi (che tuttavia non si condivide) che ci si trovi in presenza di una norma agevolativa.
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tori. D’altro canto la regola per cui diminuendo le imposte sui redditi possono aumentare i consumi vale per tutti i contribuenti, non solo per i neo-residenti “ricchi”. Se così è, la discriminazione resta sempre, anche laddove si intenda sostenere che i maggiori consumi possono trovare una sponda costituzionale in una norma come l’art. 4, comma 2 Cost. 2.5. Né, per superare i dubbi di costituzionalità sin qui paventati, si può tentare di giustificare tale norma facendo leva sull’argomento per cui il non residente non diventerebbe mai residente in assenza di tale incentivo, e quindi per quanto pochi possano essere i vantaggi per la collettività, il poco è comunque meglio del niente. Entra qui in gioco l’art. 53, comma 1 Cost. Il dovere di “tutti” di concorrere alle spese pubbliche non pare possa essere raggirato seguendo una logica di resa dei valori costituzionali di fronte ad una generica opportunità economica. Logica gravida di contraddizione peraltro, perché ispirata al principio che chi più ha, in termini economici, meno deve concorrere alle spese pubbliche prevalendo l’interesse ad averlo tra i residenti in Italia. Lo scontro con l’art. 53, comma 1 Cost., lo si può ben vedere, è uno scontro frontale (17) (18). Del resto come spesso ricorda la Corte Costituzionale, e la dottrina sul punto è pienamente in accordo, l’art. 53, comma 1 Cost. è espressione dell’art. 2 Cost. (19). Vale a dire che l’art. 53, comma 1 Cost. è una declinazione dei “doveri inderogabili” di solidarietà. E se concorrere alle spese pubbliche non è
(17) Da questo punto di vista l’argomento (che abbiamo visto essere forse uno dei pochi spendibili) secondo cui, in mancanza dell’art. 24 bis, il non residente non diventerebbe mai residente, rischia di diventare un’arma a doppio taglio. Al di là dei tecnicismi giuridici, porre la questione in questi termini potrebbe lasciare perplessi (il non residente viene in Italia, ma in cambio non vuole concorrere alle spese pubbliche: “prendere o lasciare”). E la perplessità, se ne deve tener conto, seppure apparentemente relegata allo stato psicologico del giudicante e priva quindi di forza nel mondo del diritto, può trovare ingresso nel giudizio di costituzionalità (fuoriuscendo da quello stato) attraverso il principio di ragionevolezza cui molto spesso – come è ben noto – la Corte costituzionale fa ricorso. E la ragionevolezza potrebbe costituire l’anticorpo alla logica (che ben potrebbe essere giudicata irragionevole) secondo cui il fine giustifica i mezzi (incostituzionali). (18) Va aggiunto che il contrasto con l’art. 53, comma 1 Cost. tanto più sarebbe insanabile perché logicamente contradditorio se addirittura, anziché ragionare in termini di ricadute su consumi od investimenti, si ragionasse in termini del vantaggio derivante dall’incasso da parte dell’erario dei 100.000 euro l’anno. Questo significherebbe dire che, con la capacità contributiva, si può “comprare” la possibilità di non concorrere alle spese pubbliche. Sul piano giuridico sarebbe una intollerabile violazione del dovere di concorrere alle spese pubbliche, ma sul piano della logica la caduta sarebbe ancora più rovinosa vista la palese contraddittorietà di una tale posizione. (19) Lo ha ricordato recentemente la Corte costituzionale con la sentenza n. 10/2015.
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soltanto un dovere, ma è un dovere inderogabile, si può quantomeno dubitare che ad esso ci si possa sottrarre per il solo fatto che si portano ricchezze (che siano enormi peraltro, è solo eventuale) nel nostro Paese. Si mostrano a questo punto in tutta la loro forza le parole contenute in una, relativamente recente, sentenza della Corte Costituzionale. Il riferimento è alla sentenza n. 223/2012 (par. 13.3.) nella quale si legge: “L’eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è, infatti, suscettibile senza dubbio di consentire al legislatore anche il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti i cittadini necessitano. Tuttavia, è compito dello Stato garantire, anche in queste condizioni, il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale, certo, non è indifferente alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza, sul quale è fondato l’ordinamento costituzionale” (20). 2.6. Ma non basta. Ulteriori considerazioni pesano sulla tenuta della norma laddove essa venga intesa come norma agevolativa. La prima di queste è che, seppure il legislatore abbia validi motivi per sacrificare il principio di eguaglianza e capacità contributiva, tali motivi devono spingerlo ad una azione pur sempre proporzionale rispetto agli scopi. La norma non deve insomma eccedere gli scopi per cui è stata introdotta se in gioco c’è il vulnus di principi costituzionali (21). Ora, come si è detto sopra, in primo luogo nella presente norma vi è uno iato tra ciò che è stato scritto nella relazione tecnica (in cui si parla di finalità di favorire gli investimenti) e ciò che la norma (non) “dice”. E ciò sembrerebbe esporre la norma ad una accusa di incoerenza tra la sua struttura e la ratio giustificatrice. Inoltre, quanto al principio di proporzionalità, va detto che se l’intento è quello di introdurre un’agevolazione al fine di attirare nel nostro Paese determinati soggetti, l’imposta sostitutiva di 100.000 euro potrebbe essere idonea in taluni casi, ma priva di proporzione in altri. Un soggetto che avrebbe pagato cinque milioni di Irpef per i redditi prodotti all’estero sarebbe probabilmente attratto dall’I-
(20) Analoghi principi sono stati sostenuti nella sentenza n. 116/2013. (21) Chiarissima in questo senso la sent. della Corte cost. n. 10/2015 nella quale si legge, al par. 6.5.1., che “affinché il sacrificio recato ai principi di eguaglianza e di capacità contributiva non sia sproporzionato e la differenziazione dell’imposta non degradi in arbitraria discriminazione, la sua struttura deve coerentemente raccordarsi con la relativa ratio giustificatrice”.
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talia anche se l’imposta sostitutiva fosse pari a 200.000 euro. La totale mancanza di una differenziazione tra contribuenti potrebbe tradursi nell’accusa al legislatore di aver operato una quantificazione (100.000 euro) troppo bassa, andando oltre quanto strettamente necessario per il raggiungimento degli scopi della norma. Se anche si volesse ammettere (al contrario di quanto detto sopra) che l’art. 24 bis sia costituzionalmente legittimo per essere in grado di “attirare” in Italia nuovi e facoltosi contribuenti che altrimenti non sarebbero entrati, si dovrebbe passare a dubitare della costituzionalità della norma nella parte in cui questa non tiene conto del fatto che, contribuenti con redditi prodotti all’estero molto elevati, li avrebbe attratti ugualmente anche con un’imposta sostitutiva più elevata. In questo spazio intermedio potrebbe risiedere l’incostituzionalità. Dal momento però che la valutazione che la Corte dovrebbe fare è generale ed astratta, essa potrebbe sostenere appunto, senza “lanciarsi” in esemplificazioni numeriche, che la mancanza di fasce che consentano di operare distinzioni in base al reddito prodotto all’estero, viola il principio di proporzionalità. La violazione del principio di uguaglianza, potrebbe rilevare la Corte, non è proporzionata rispetto agli scopi della norma (22) (23). 3. (segue) La norma non è agevolativa ed inoltre, ed in conseguenza di tale presupposto, non appare essere incostituzionale. 3.1. Fin qui si è inteso dare spazio alle numerose perplessità a cui l’art. 24 bis può dar luogo. Ma tali perplessità, lo si è detto fin da subito, in tanto si giustificano in quanto si consideri tale norma come norma agevolativa. Sennonché sembrano esservi seri elementi per sostenere che la norma qui analizzata non sia affatto tale.
(22) Vale la pena di ricordare che, nel fondare la dichiarazione di incostituzionalità della norma sulle retribuzioni dei magistrati, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 223/2010, ha affermato che “l’intervento per il solo personale della magistratura eccede l’obiettivo di realizzare un ‘raffreddamento’ della dinamica retributiva ed ha, invece, comportato una vera e propria irragionevole riduzione di quanto già riconosciuto sulla base delle norme che disciplinano l’adeguamento”. (23) Sul principio di proporzionalità e sul relativo sindacato da parte della Corte costituzionale si veda per tutti M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, cit., 5 la quale osserva che tra i vari passaggi che compie la Corte costituzionale nel formulare il giudizio di proporzionalità vi è il controllo sulla “necessità”, in cui si verifica che il legislatore abbia fatto ricorso allo strumento che permette di ottenere l’obiettivo prefissato con il minor sacrificio possibile di altri diritti o interessi costituzionalmente protetti.
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Si è fin qui ragionato sul fatto che il soggetto che soggiace al regime di cui all’art. 24 bis è un residente, dando per scontato (di qui la ipotizzata natura agevolativa) che sia un residente tanto quanto tutti gli altri soggetti residenti. Del resto, quando al primo comma l’art. 24 bis fa riferimento al concetto di residenza, richiama a scanso di equivoci l’art. 2, comma 2 del Tuir. I residenti dell’art. 24 bis sono residenti alle stesse condizioni in presenza delle quali sono residenti i soggetti passivi Irpef. Ma se ben si riflette vi è la possibilità – e questa volta la norma offre confortevoli agganci in tal senso – di sostenere che si tratta di residenti “diversi”. Sono diversi non tanto perché sono neo-residenti. È un attributo (quello di essere nuovi residenti) non sufficiente ai sensi dell’art. 24 bis per fruire del regime sostitutivo. Sono diversi perché, è questa la condizione posta dal comma 1, non devono essere stati residenti (sempre ai sensi dell’art. 2, comma 2) “per un tempo almeno pari a nove periodi di imposta nel corso dei dieci precedenti l’inizio del periodo di validità dell’opzione”. È proprio tale condizione ad attribuire una particolare connotazione al soggetto passivo dell’imposta sostitutiva. È un soggetto parzialmente sganciato, secondo una valutazione che ragionevolmente ha fatto il legislatore, da quel collegamento territoriale che è in grado di giustificare l’imposizione di redditi prodotti in un altro Stato. Il suo debole collegamento – è questa la tesi che si intende sostenere nel presente lavoro – con il territorio italiano pone il legislatore nella possibilità di ritenere che la sovranità dello Stato su tale soggetto possa (o addirittura debba) essere esercitata in senso correlativamente più debole (24). Quando si fa valere il criterio di collegamento soggettivo (la residenza appunto) lo Stato esercita in senso pieno la sovranità sul soggetto imponendogli di rinunciare a parte delle sue ricchezze per devolvere allo Stato e, per esso,
(24) R. Cordeiro Guerra, Le fattispecie con elementi di estraneità, in AA.VV. (a cura di R. Cordeiro Guerra), Diritto tributario internazionale. Istituzioni, Padova, 2016, 42 ritiene che nei moderni ordinamenti tributari si considera “residente colui che ha un grado di radicamento nella comunità tale che gli oneri di essa necessariamente lo riguardano, siccome rispondenti, in senso lato, anche alla sua utilità”. Tralasciando per ora di occuparci della parte in cui si fa riferimento alla utilità (si potrebbe infatti dubitare che l’art. 53, comma 1 Cost. si ispiri ad un siffatto criterio utilitaristico) preme per ora sottolineare che in questa affermazione di Cordeiro Guerra trova conferma (nella parte in cui si parla di “grado di radicamento”) l’approccio di tipo “quantitativo” adottato nel testo e verosimilmente adottato dal legislatore con l’art. 24 bis. Ma se il collegamento con il territorio è una questione di grado, ben può il legislatore prevedere all’interno del concetto di residenza, diversi gradi di collegamento con il territorio.
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alla collettività (25). Ebbene l’esercizio di questa sovranità ben può essere graduato (26). E lo si può fare, ai fini tributari, affermando che c’è residente e residente (27). Quello che sia sganciato (purché in misura consistente, come mostra il lungo arco temporale di cui al comma 1 dell’art. 24 bis) dal territorio dello Stato, è un residente “diverso”. Più precisamente, se si vuole (come si deve fare) essere coerenti con il fatto che l’art. 24 bis del Tuir rinvia all’art. 2, comma 2 Tuir e quindi rinvia alla stessa tipologia di residenti, si deve affermare che sempre di un residente stiamo parlando ma di un residente che per la sua storia (in nove dei dieci anni precedenti non è stato residente in Italia), ha un grado di collegamento più debole con il territorio (28). Con l’art. 24 bis Tuir il legislatore effettua dunque una modulazione e tale modulazione, visto il predetto elemento temporale posto come condizione per accedere all’imposta sostitutiva, appare del tutto ragionevole e dunque pienamente rispettosa dell’art. 3 Cost. Del resto la residenza (sia quella del codice civile che quella “fiscale” dal Tuir) esprime certamente un collegamento con il territorio ma che sia un collegamento sufficiente lo stabilisce il legislatore. Quando con l’art. 2, comma 2 del Tuir il legislatore ha stabilito che si considerano residenti “le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la
(25) Per l’affermazione (che qui non può essere analizzata criticamente) che “la potestà tributaria è la più importante manifestazione della sovranità” si veda M. Ingrosso, Tributo e sovranità, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale (a cura di L. Perrone – C. Berliri), Napoli, 2006, 138. (26) Osserva B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli, 2013, 203 trattando il tema della sovranità che “lo Stato è libero nel suo territorio di fare ciò che vuole, di disporre come crede delle proprie risorse naturali, di seguire i criteri che crede nel governo della comunità territoriale”. In questa libertà dello Stato è certamente implicita la regola per cui lo Stato può esercitare, sugli individui collegati al suo territorio, la sovranità in modo più o meno intenso. È del resto questo un concetto banale che può essere applicato ad ogni forma di potere il cui esercizio ben può essere sottoposto ad una graduazione da parte di chi il potere stesso detiene. (27) Un buon esempio di come i concetti possano sfaldarsi e possano dar luogo a fenomeni di gemmazione (che poi possono segnare il discrimine nel giudizio di costituzionalità) è dato proprio da una sentenza già richiamata sopra, la n. 223/2012, nella quale si afferma che “il rapporto fra lo Stato e la magistratura, come ordine autonomo ed indipendente, eccede i connotati di un mero rapporto di lavoro, in cui il contraente-datore di lavoro possa al contempo essere parte e regolatore di tale rapporto”. Cioè un rapporto di lavoro sì (quello dei magistrati), ma diverso dagli altri. Nel nostro caso, residenza sì, ma diversa. (28) Insomma il fatto che siano soddisfatti i requisiti dell’art. 2, comma 2 Tuir non ci “dice” ancora tutto in ordine alla intensità del collegamento tra soggetto e territorio.
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residenza ai sensi del codice civile” ha scelto dei criteri di collegamento con il territorio facendo uso della sua discrezionalità. Discrezionalmente ha stabilito che possono essere messi sullo stesso piano rapporti diversi con il territorio quali sono l’iscrizione nelle anagrafi, il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile ( (29)) e discrezionalmente ha stabilito che è necessario un collegamento per la “maggior parte del periodo di imposta”. Ma non sono scelte necessitate. Il legislatore avrebbe potuto considerare, per ipotesi, non idoneo il “domicilio” (30) oppure avrebbe potuto ritenere che in tanto ci si può considerare soggetti passivi Irpef in quanto si abbia un collegamento con il territorio con almeno 200 giorno l’anno (cioè un arco temporale maggiore di quello attualmente previsto). Oppure avrebbe potuto considerare sufficienti 100 giorni l’anno (cioè un arco temporale minore di quello attualmente previsto) (31).
(29) Osserva G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, Milano, 2009, 28 che nell’art. 2, comma 2 Tuir convive un criterio formale (l’iscrizione anagrafica) con due criteri sostanziali quali sono il domicilio e la residenza civilistici. Ma proprio in quanto criteri diversi (formali o sostanziali che siano), essi evidentemente non esprimono il medesimo collegamento di una persona fisica con il territorio dello Stato. Da questo punto di vista è opportuno ricordare quanto affermato da G. Marino, La residenza nel diritto tributario, Padova, 1999, 8 il quale osserva che “Nel diritto tributario, con il termine residenza si può intendere un genere di appartenenza ad un determinato territorio: tale genere si compone di diverse specie, giuridicamente rilevanti, a seconda del più o meno intenso legame con il territorio”. E tali specie sono, osserva Marino, la residenza, il domicilio, e l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente. Ciò che interessa di quanto afferma l’Autore richiamato è il riconoscimento del fatto che, nell’art. 2, comma 2 Tuir, sotto il comune concetto di residenza, coesistono in verità criteri di collegamento con il territorio evidentemente diversi. L’accomunarli tutti sotto un comune concetto (residenza fiscale) serve ad attribuire ad essi i medesimi effetti giuridici ma non elimina la loro diversità. Aderisce alla ricostruzione di Marino sulla residenza come genus che poi viene dettagliato dal legislatore in diverse species G. Fransoni, Art. 2, in Commentario breve alle leggi tributarie, Tomo III, Tuir e leggi complementari (a cura di A. Fantozzi), 22 ed ivi per una compiuta analisi del significato da attribuire ai diversi concetti (residenza, domicilio ed iscrizione nell’anagrafe) contenuti nell’art. 2, comma 2 Tuir. (30) Basti pensare al fatto che nella nozione di domicilio determinante è l’intenzione del soggetto di stabilire e conservare in quel luogo la sede principale dei propri affari ed interessi [cfr. sul punto R. Schiavolin, I soggetti passivi, in AA.VV., Giur. Sist. Di dir. trib. (diretta da F. Tesauro), L’imposta sul reddito delle persone fisiche, Torino, 1994, 65; G. Fransoni, Art. 2, cit., 23]. Se si ragionasse in termini oggettivi ci si dovrebbe stupire del fatto che il collegamento con il territorio sia condizionato dallo stato psicologico del soggetto. Eppure è questo uno dei criteri scelti dal legislatore. (31) Ed infatti, come ricorda G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale, cit., pag. 25, l’art. 2, comma 2 del d.p.r. n. 597/1973 considerava, differenziandosi in più punti dall’art. 2, comma 2 Tuir, fiscalmente residenti “le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione
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Ma così come non esiste un concetto pregiuridico di residenza al quale il legislatore debba sentirsi legato, allo stesso modo, ed a maggior ragione, lo stesso non è nemmeno vincolato ad assumere un univoco criterio di collegamento che lo costringa a ragionare in termini rigidamente binari (collegamento sì – collegamento no). Il collegamento è un concetto che si presta ad essere anche misurato, dal momento che si presta ad essere espresso in termini “quantitativi” (come dimostra limpidamente lo stesso art. 2, comma 2 Tuir, quando fa riferimento al requisito temporale della “maggior parte del periodo di imposta”) (32) (33).
residente, coloro che hanno nel territorio dello Stato la sede principale dei loro affari ed interessi o vi dimorano per più di sei mesi dell’anno, nonché i cittadini residenti all’estero per ragioni di servizio nell’interesse dello Stato o di altri enti pubblici”. (32) Che il collegamento con il territorio sia un concetto ampio e malleabile lo dimostra il fatto che, ai fini impositivi, il collegamento può essere tanto di carattere personale quanto reale (cfr. per tutti A. Manganelli, voce Territorialità dell’imposta, in Dig. disc. priv. – sez. comm., Torino, 1998, XV, 370 ss.). Nel primo caso è la “persona” ad essere in un rapporto di collegamento con il territorio, nel secondo caso ad essere collegato al territorio è, ad esempio, il bene da cui scaturisce il reddito. Ma è evidente che la manifestazione in cui si estrinseca il “collegamento” che può avere una persona fisica con un territorio è diversa da quella che può avere una persona giuridica, ed è ancora diversa da quella che può avere una attività produttiva o un bene immobile ecc. Il concetto di collegamento con il territorio si esprime dunque in forme necessariamente diverse. Non vi sono pertanto ostacoli nel ritenere che il concetto di collegamento non possa essere espresso anche in termini quantitativi individuando dei criteri in base ai quali, in relazione a due situazioni per le quali possa predicarsi il collegamento con il territorio, sia possibile misurare l’intensità del collegamento stesso ed una volta misurata, calibrare anche in modo differente il concorso alle spese pubbliche. (33) Suonano come una conferma di quanto si sta affermando nel testo le parole di M.C. Fregni, La residenza fiscale delle persone fisiche, in Giur. It, 2009, 2566 la quale osserva che “la partecipazione piena di un soggetto alla vita della nostra comunità statale giustifica la tassazione di quel soggetto secondo la totalità della sua capacità contributiva”. Parlare di partecipazione “piena” significa evocare un concetto quantitativo. Ciò che si sta facendo nel presente lavoro è affermare che se la partecipazione non è piena, ma sussiste, l’obbligo di concorso alle spese pubbliche può esserci, ma può essere calibrato di conseguenza. La parte in cui invece Fregni si allontana da quanto si sta affermando nel testo è quella (op. cit., 2567) in cui afferma che “in tanto si può obbligare un soggetto a contribuire alle spese pubbliche, in quanto ciò sia giustificato dall’inserimento pieno del soggetto nell’ambito della comunità statuale”. La tesi che si sta sostenendo nel presente lavoro è che anche un inserimento di grado minore (rispetto a quello che Fregni definisce “pieno”) può giustificare l’imposizione, purché tale imposizione venga differenziata rispetto a quella di chi invece ha un collegamento pieno con il territorio. Una piena conferma di quanto sostenuto nel testo sembra invece provenire dal saggio di L. Carpentieri, La crisi del binomio diritto-territorio e la tassazione delle imprese multinazionali, in Riv. dir. trib., 2018, I, 354.
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3.2. A questo punto si rende opportuna un’altra considerazione. Spesso quando si definisce la residenza come criterio di collegamento con il territorio nei sistemi tributari, lo si fa in chiave utilitaristica (34), ma nel nostro ordinamento, a ben vedere, non è forse questa la corretta chiave di lettura. E non lo è, o perlomeno lo è solo in minima parte, perché l’ottica dell’art. 53, comma 1 Cost. non pare essere quella del beneficio. L’ottica dell’art. 53, comma 1 Cost. è piuttosto quella solidaristica (35). Non si concorre alle spese pubbliche perché se ne beneficia (manca nel 53 Cost. il riferimento ad una tale condizione). Si concorre alle spese pubbliche perché in qualche modo (e la residenza è un possibile criterio per stabilirlo) si fa parte di una comunità la cui esistenza comporta tuttavia delle spese (36). Ed il far parte di questa comunità [stiamo ragionando qui sul criterio di collegamento “personale” (37)] implica dei doveri di solidarietà come emerge chiaramente dalla lettura del combinato disposto degli artt. 2 e 53 Cost. (38)
(34) Sembra essere questa, se ben se ne interpreta il pensiero, la posizione di R. Cordeiro Guerra, Capacità contributiva e imposizione ultraterritoriale, in AA.VV. (a cura di R. Cordeiro Guerra), Diritto tributario internazionale. Istituzioni, cit., 101 quando afferma che “il soggetto privo di legami con un determinato gruppo sociale, e che dunque non partecipa per la soddisfazione di alcuno dei propri interessi alla vita di questo, è ontologicamente estraneo alla contribuzione. Per un verso egli non è causa degli oneri comuni da ripartire; per l’altro non si trova nella posizione di poter beneficiare di spese pubbliche finalizzate ad attuare interessi di regola non coincidenti con quelli propri”. (35) Cfr. per tutti per tutti G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte generale, cit., 149. (36) Per una conferma si veda per tutti G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte generale, cit., 112; R. Schiavolin, I soggetti passivi, cit., 60; D. Stevanato, Giustificazioni della tassazione dei non residenti tra salvaguardia della sfera impositiva statuale e principi costituzionali, in Carpentieri-Lupi-Stevanato, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003, 141. (37) Quando invece l’imposizione avviene nei confronti di non residenti che abbiano prodotto il reddito in Italia, la giustificazione del prelievo pare in parte mutare ed avvicinarsi maggiormente alla logica del beneficio. Non vi è una persona che fa parte della comunità dei residenti in Italia. L’imposta sembra giustificarsi nel fatto che l’aver prodotto il reddito nel territorio italiano è stato in tanto possibile in quanto vi sia uno Stato sullo sfondo. In questo senso si veda D. Stevanato, Giustificazioni della tassazione dei non residenti, cit., 141. (38) Quando l’art. 2 Cost. prevede che la Repubblica debba richiedere l’adempimento dei doveri di solidarietà “politica” si aggancia inequivocabilmente al Titolo IV della Costituzione (Rapporti politici) nel quale troviamo sanciti (anche) i doveri politici come il “dovere civico” dei cittadini di votare (art. 48, comma 2), il dovere dei cittadini di “difesa della Patria” (art. 52), il dovere, sempre dei cittadini, “di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi” (art. 54, comma 1) ed infine, il dovere (stavolta non soltanto dei cittadini ma) di tutti al concorso alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva (art. 53, comma 1
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Si tocca qui un altro aspetto assai rilevante ai nostri fini. Se il concorso alle spese pubbliche da parte di chi ha un certo collegamento con il territorio, avviene non in base al beneficio che egli ritrae dal pagamento dei tributi, ma avviene in base al fatto che, il far parte di una comunità implica come contropartita dei doveri di solidarietà, si ha un ulteriore motivo per ritenere ragionevole la modulazione che l’art. 24 bis opera in relazione al collegamento con il territorio, determinando un diverso grado di concorso alle spese pubbliche dei neo-residenti. Se l’ottica fosse, esclusivamente o almeno prevalentemente, quella del beneficio, allora una volta che un soggetto è residente ai sensi dell’art. 2, comma 2 Tuir, si potrebbe sostenere che beneficia delle spese pubbliche tanto quanto gli altri residenti (visto che la nozione di residenza è uguale per tutti). Se l’ottica è invece quella solidaristica di cui si è parlato sopra, e se la solidarietà deriva dal fatto di far parte di una comunità, si può allora ben dire che il “farne parte” di un “normale” residente è diverso da quello del neo-residente di cui all’art. 24 bis (39). Un neo-residente che negli ultimi nove anni su dieci non è stato residente in Italia, è certamente meno integrato (e lo sarà, secondo la discrezionale valutazione del legislatore, per quindici anni) degli altri residenti nella comunità (40). Questo fa si che per i redditi prodotti all’estero (e solo per essi) egli possa optare per una imposta sostitutiva dell’Ir-
Cost.). (39) Naturalmente, come sempre avviene, vi è un momento in cui finisce il mondo del diritto e ci si imbatte in concetti non giuridicizzati i cui contorni sono di conseguenza ancora più indefiniti. Per cui non deve stupire il fatto che si faccia riferimento a concetti come “il far parte di una comunità”. (40) Interessante e particolarmente calzante a questo punto si rivela il “Rapporto della Commissione Economica presentato all’Assemblea Costituente”, Roma, 1947, vol. V (che qui si riprende come citato da G. Marino, La residenza, cit., 300, nota 27) nel quale fu osservato quanto segue: “Nessuno dubita che lo straniero sia assoggettato alle imposte alla pari del cittadino: e può considerarsi ormai superata anche l’opinione che dà all’imposizione dello straniero un fondamento diverso dall’imposizione del cittadino (…) Il criterio logico preferibile è di far riferimento all’appartenenza del soggetto all’ente impositore, sia dichiarando questa appartenenza nei suoi tre aspetti, politico (cittadinanza), economico (produzione, scambio e consumo dei beni) e sociale (partecipazione alla vita della società nazionale); sia, il che concettualmente fa lo stesso, mettendo al centro della formula costituzionale l’interesse del soggetto all’esistenza e all’attività dell’ente impositore”. Proprio riprendendo questi concetti di partecipazione alla vita sociale o di interesse all’esistenza e all’attività dello Stato si può ritrovare il fondamento costituzionale di una norma che (come fa l’art. 24 bis Tuir) moduli il concorso alle spese pubbliche in ragione di un diverso, e più debole, legame con il territorio (che si può tradurre ad esempio ad un minor grado di inserimento della persona nel tessuto sociale).
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pef. Il neo-residente dell’art. 24 bis Tuir è insomma un soggetto che ha un collegamento territoriale intermedio tra il non residente, e tutti gli altri residenti. Questo collegamento intermedio si è tradotto in Italia nella introduzione di una imposta sostitutiva per i redditi prodotti all’estero. Si tratta di una scelta che, come si è detto, appare pienamente in linea con la logica che, nella nostra Carta costituzionale, governa l’obbligo di concorso alle spese pubbliche (41). L’art. 24 bis non va inteso, in altri termini, come norma isolata, ma va inteso come norma volta a ridisegnare, all’interno dei soggetti che integrano i requisiti dell’art. 2, comma 2, il concetto di soggetto residente (42). A tal proposito non si può ignorare che l’art. 24 bis contiene in sé, a differenza di molte altre norme sostanziali tributarie, un profilo dinamico. Dal momento che il neo-residente (soggetto passivo di tale imposta sostitutiva) non deve essere stato precedentemente residente, essa da un lato (profilo statico) detta semplicemente un regime tributario, ma dall’altro lato coltiva l’ambi-
(41) Ci si potrebbe semmai chiedere se sia rispettoso del principio di uguaglianza e di quello di ragionevolezza il fatto che di un’imposta sostitutiva minore dell’Irpef possano godere soltanto coloro che producono redditi all’estero di una certa entità. Si determina in questo modo una discriminazione rispetto ad un soggetto neo-residente che sia in possesso di tutti i requisiti previsti dall’art. 24 bis ma che sia titolare, ad esempio, di un reddito prodotto all’estero di 100.000 euro. Tale soggetto non potrà trarre alcun vantaggio dall’imposta sostitutiva di cui ci stiamo occupando (che sarebbe maggiore dell’Irpef da esso dovuta). La ragionevolezza di tale scelta potrebbe risiedere nella necessità di concedere il beneficio di un’imposta sostitutiva soltanto a chi sia in grado di assicurare un contributo piuttosto consistente (100.000 euro l’anno) rispetto alla media dell’Irpef corrisposta dai contribuenti. Si tenga presente che, secondo quanto riferisce “Il Sole 24 Ore” del 28 marzo 2018 riferendosi a sua volta ai dati resi noti dal MEF, il reddito medio dichiarato dai contribuenti italiani ammonta ad euro 20.940 e che i soggetti con un reddito complessivo superiore ai 300.000 euro rappresentano soltanto lo 0,1 per cento del totale dei contribuenti. Di fronte a questi dati ci si avvede del fatto che l’imposta di 100.000 euro annui prevista dall’art. 24 bis rappresenta una forma di concorso alle spese pubbliche che, se rapportata al concorso medio di tutti i contribuenti, è piuttosto elevata (senza tenere conto del fatto che il neo-residente potrebbe produrre anche redditi in Italia sui quali pagherà l’Irpef come tutti gli altri contribuenti). Dal momento però che riconoscere l’opzione per l’imposta sostitutiva significa per lo Stato rinunciare all’Irpef, in tanto tale rinuncia è ragionevole farla, in quanto sia assicurato un contributo minimo non indifferente da parte del contribuente. (42) Coerente con la lettura della norma che si sta offrendo in questo paragrafo è poi il fatto che, per i redditi prodotti in Italia, il neo-residente sarà assoggettato come tutti i residenti ad Irpef. Nei casi in cui il collegamento con il territorio non sia quello della residenza, ma sia quello “oggettivo” (luogo di produzione del reddito), viene infatti meno la ragione del trattamento differenziato e l’Italia può, e deve, esercitare in modo pieno la sua sovranità. Se invece l’intento fosse stato quello di agevolare i neo-residenti, li si sarebbe potuti agevolare anche per i redditi prodotti in Italia. Ma la norma, come si sta tentando di dimostrare, non si fonda affatto su una logica agevolativa.
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zione di estendere la sovranità statale a soggetti non residenti, ai quali chiede implicitamente di sottoporsi ad essa attraverso una loro scelta (di vita) rilevante: lo spostamento di residenza in Italia (profilo dinamico) (43). Il punto quindi non è tanto quello di sostenere che la norma è accettabile perché, in punto di fatto, altrimenti il soggetto non sarebbe venuto in Italia (44). Nella considerazione che “altrimenti non sarebbe venuto in Italia” sta invece il suo essere diverso, come residente, e quindi da tale considerazione deriva la scelta di rendere opportuna (e costituzionalmente legittima) una modulazione della sovranità (45). 3.3. D’altro canto, non soltanto l’art. 24 bis non sembra essere una norma agevolativa ma sembra essere una norma di carattere sistematico, volta a ridefinire i contorni del soggetto residente (46), ma è anche una norma che, al suo interno, offre, una volta tolta dalla fuorviante cornice della norma agevolativa,
(43) Il profilo dinamico della norma emerge peraltro dalla sua rubrica e dalla norma stessa dove si fa riferimento al trasferimento della residenza. Quantomeno nel corpo della norma si sarebbe potuto considerare superfluo il riferimento al trasferimento e ci si sarebbe potuti riferire semplicemente alle persone fisiche che siano residenti in Italia ma che non lo siano state per un tempo pari almeno a nove periodi di imposta ecc. È insomma evidente che l’art. 24 bis esprime la volontà (che è ovviamente la volontà del legislatore) di esercitare una forza di attrazione nei confronti dei soggetti (ancora) non residenti. (44) Così ragionando si fa torto alla norma perché si fa (erroneamente) emergere uno schema vagamente ricattatorio sotteso ad essa, e si tenta di dire che la norma è (costituzionalmente) accettabile fornendo una giustificazione (almeno eticamente, ma forse anche costituzionalmente) inaccettabile. (45) Si tenga altresì presente, sempre per sottolineare la coerenza di tale scelta di carattere (non agevolativo ma) sistematico, che siamo in presenza di una imposta sostitutiva dell’Irpef. Si perdono quindi tutti i connotati di “personalità” tipici dell’Irpef e si finisce per trovarsi in presenza di un’imposta più di carattere “reale”. E non è inutile ricordare che normalmente, quando si tratta di individuare i collegamenti con il territorio “vi è una tendenziale correlazione tra imposte personali e criteri soggettivi [residenza] da un lato, e imposte reali e criteri oggettivi [luogo di produzione del reddito] di territorialità dall’altro” (così G. Melis, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2016, 132). Si vuole dire che, non essendo in presenza di Irpef (imposta personale) è assai più agevole (perché coerente con il sistema) scegliere di valorizzare di meno la residenza riconoscendole un valore depotenziato (laddove naturalmente vi siano dei presupposti per farlo). (46) Può essere utile rinviare alla sent. n. 211/1987 della Corte costituzionale nella quale la Consulta ha ritenuto conforme alla Costituzione che il legislatore “lavorasse” sul concetto di reddito prodotto in Italia, al fine di tenere fuori dall’ambito della fattispecie impositiva (in un’ottica di esclusione e non di esenzione) determinate ipotesi anche al fine di agevolare gli investimenti in Italia. Orbene nel nostro caso, come si è detto, il legislatore “lavora” sul concetto di residenza (graduando in funzione della intensità del collegamento con il territorio), sempre al fine di agevolare l’ingresso di ricchezza in Italia. Lo schema del ragionamento è a ben vedere analogo.
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degli agganci per ritenere che sia stata introdotta non nell’interesse del soggetto passivo dell’imposta sostitutiva, ma della collettività. Questa volta il riferimento è a due elementi della norma che sembrano andare entrambi nella medesima direzione. Il primo è la validità temporale dell’opzione. Quindici anni è un tempo non breve. Se la norma fosse agevolativa sarebbe debole l’argomento consistente nel considerare che (tutto sommato) il regime da essa introdotto è circoscritto nel tempo. Ma se la norma non è agevolativa, allora il fatto di essere “lungo”, tale arco temporale, si trasforma in un elemento di forza (dal punto di vista della coerenza della norma). Quindici anni servono a trattenere nel nostro territorio il soggetto tanto da far sì che qui, si passi l’espressione, “metta radici”. Al termine dei quindici anni si spera che non abbandoni più l’Italia, ed inizi a pagare anche l’Irpef sui suoi, potenzialmente anche molto elevati, redditi prodotti all’estero. Se si guarda da questa prospettiva la norma, ci si avvede del fatto che in effetti con essa non si intende favorire il neo-residente. Del resto non vi sarebbero ragioni per farlo. Si intende favorire, tramite l’ingresso di tale soggetto, la collettività. Ed i quindici anni (anziché tre o cinque che potrebbero non essere sufficienti per il predetto effetto di radicamento) vanno in questo senso. Così come va in questo senso il fatto che la norma prevede la medesima imposta sostitutiva, questa volta di 25.000 euro l’anno, per i familiari che spostino anch’essi la residenza in Italia. La ragione della estensione ai familiari sembra trovare una coerente spiegazione solo nell’ottica sopra detta (47). Dal momento che si vuole radicare in Italia il neo-residente, un ottimo modo può essere quello di indurlo a trasferirsi con tutta la sua famiglia. Una volta innestata la famiglia nel contesto sociale del nostro Stato, potrebbero da essi diramarsi legami con il territorio (e con il suo tessuto sociale) che rendano maggiormente possibile la scelta di restare, anche dopo i quindici anni, in Italia. 4. Conclusioni. – Volendo concludere, l’art. 24 bis del Tuir è un esempio di come le norme, una volta immesse nel sistema, possano compiere ben più strada rispetto agli interessi del legislatore storico che le ha concepite e poi partorite. Se è senz’altro vero che tramite l’introduzione dell’imposta sostitutiva di cui ci stiamo occupando si vogliono attirare in Italia, per ragioni di
(47) Altrimenti ogni soggetto verrebbe trattato autonomamente e non come membro di un nucleo familiare.
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interesse economico, soggetti dotati di elevate ricchezze, è anche vero che tale norma, vivendo di vita propria, finisce per fornire al concetto di residenza una nuova dimensione. All’interno del concetto di residenza si può misurare (è questo il messaggio contenuto nell’art. 24 bis) il grado di collegamento con il territorio, ed in ragione del maggiore o minore grado di collegamento, si può calibrare il concorso alle spese pubbliche del soggetto. Una volta introdotto tale principio, non è escluso che esso non possa dar vita a nuove forme di imposizione che si ispirino ugualmente ad esso (48). Il superamento di una logica strettamente binaria (residente – non residente) appare certamente più in linea con i tempi e con le società attuali nelle quali si assiste a continue e rapide trasformazioni (49). E di fronte ad una realtà non più incasellabile in rigidi schemi anche gli ordinamenti si devono attrezzare modellandosi – come del resto è sempre avvenuto – in funzione dei mutamenti sociali. In quest’ottica l’idea che emerge dall’art. 24 bis Tuir e che è stata valorizzata nel presente lavoro potrebbe costituire un modo per adeguare il concetto di residenza fiscale a tali mutazioni, considerando la possibilità di individuare ipotesi in cui, il collegamento con il territorio di una persona fisica o di una persona giuridica sussiste, ma in misura minore. In queste ipotesi il concorso alle spese pubbliche non sarebbe più unicamente il risultato della misurazione della capacità contributiva. Ma scaturirebbe (rectius, potrebbe scaturire) dalla combinazione di due elementi: la capacità contributiva da un lato, ed il grado di collegamento con il territorio dall’altro.
Luca Peverini
(48) La proposta può valere anche per le ipotesi in cui il collegamento con il territorio sia di tipo reale. In alcuni casi infatti, come osserva D. Stevanato, Giustificazioni della tassazione dei non residenti, cit., 142, la debolezza del collegamento con il territorio spinge il legislatore alla rinuncia al potere impositivo. L’alternativa potrebbe essere invece, secondo la logica che si è ricavata nel presente lavoro dall’art. 24 bis, quella di una tassazione in forma attenuata. (49) E la residenza non sfugge a questo tipo di trasformazione. Come osserva G. Marino, Osservazioni in tema di residenza nel contesto dello scambio automatico di informazioni, in Dir. prat. trib., I, 2018, 2 “La grande mobilità delle persone e dei fattori della produzione che caratterizza il contesto odierno era inimmaginabile nel periodo in cui questa categoria vedeva la luce, ed è per questo motivo che essa si sta rivelando in parte inadeguata alle attuali esigenze dei sistemi tributari”.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
Corte Cass., sez. trib., 20 dicembre 2017 – 17 gennaio 2018, n. 975; Pres. Chindemi - Rel. De Masi Imposta di registro – Imposta ipotecaria e catastale – Prestazioni a contenuto patrimoniale e onerose – Trasferimento di beni nel trust fund a titolo gratuito – Imposizione in misura fissa Il trasferimento del bene dal “settlor” al “trustee” avviene a titolo gratuito e non determina effetti traslativi, poiché non ne comporta l’attribuzione definitiva allo stesso, che è tenuto solo ad amministrarlo ed a custodirlo, in regime di segregazione patrimoniale, in vista del suo ritrasferimento ai beneficiari del “trust”: detto atto, pertanto, è soggetto a tassazione in misura fissa, sia per quanto attiene all’imposta di registro che alle imposte ipotecaria e catastale. L’art. 9 della tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986 (T.U. Imposta di Registro) rappresenta una clausola di chiusura finalizzata a disciplinare tutte le fattispecie fiscalmente rilevanti, diverse da quelle indicate nelle restanti disposizioni, purché però onerose, e in questo specifico senso aventi un contenuto patrimoniale. Questo è del tutto ovvio perché la norma non può essere intesa in modo dissociato dal contesto dell’art. 43, comma 1, del citato D.P.R. n. 131 del 1986, che fissa la base imponibile dell’imposta prevedendola (v. lett. h), per le “prestazioni a contenuto patrimoniale”, nell’ammontare “dei corrispettivi in denaro pattuiti per l’intera durata del contratto”. Il che rappresenta limpida dimostrazione del fatto che, ai sensi dell’art. 9 della tariffa, la prestazione “a contenuto patrimoniale” è la prestazione onerosa. Il passaggio dei beni immobili dal trustee/disponente di un primo trust, a titolo gratuito, a favore di trustee di altro trust, senza corrispettivo, effettuato nel periodo in cui era stata soppressa l’imposta sulle successioni e donazioni, non ha natura onerosa nè può ritenersi operazione di carattere patrimoniale assoggettabile ad imposta di registro nella misura proporzionale del 3%. (1)
(Omissis) Svolgimento del processo. La controversia promossa da B.L., in qualità di trustee e disponente, nonché da G.D., in qualità di guardiano del Trust Giodar, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di rettifica e liquidazione dell’imposta suppletiva di registro, ipotecaria e catastale, relativamente all’atto di trasferimento di un fabbricato, a rogito del notaio D.S., stipulato il 12/2/2003 e registrato il 3/3/2003, è stata definita con la sentenza in epigrafe, recante l’accoglimento dell’appello erariale e, per l’effetto, la riforma della decisione di primo grado, che aveva invece annullato il provvedimento impositivo.
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Parte seconda
La C.T.R. del Lazio rileva che, nel caso di specie, “si è in presenza di un trasferimento di proprietà non sottoposto ad alcun obbligo di amministrazione, corretta gestione e restituzione in un tempo prefissato”, per cui “mancano... tutti gli elementi per l’individuazione di un negozio fiduciario che è proprio della nozione di trust”, e che “va quindi applicato all’atto di trasferimento in esame l’art. 9 della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, che tassa nella misura proporzionale del 3%” siffatta tipologia di negozi. Le contribuenti ricorrono per ottenere la cassazione della sentenza con cinque motivi, cui l’intimata Agenzia delle Entrate resiste con controricorso. Motivi della decisione. Le ricorrenti deducono, con il primo motivo di impugnazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, art. 22, comma 2 e art. 61, inammissibilità dell’appello, notificato a mezzo del servizio postale, per omesso deposito della copia dell’atto notificato presso l’Ufficio di segreteria della C.T.P. di Frosinone, questione rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, con il secondo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2 e art. 22, commi 2 e 3, inammissibilità dell’appello, in quanto la parte appellante deve rendere la dichiarazione di conformità dell’atto depositato presso la Commissione adita rispetto a quello notificato a mezzo posta, e nel caso di specie tale adempimento effettuato dall’Ufficio, questione anch’essa rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, con il terzo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in quanto la C.T.R. ha ritenuto l’esistenza di un “trasferimento di proprietà non sottoposto ad alcun obbligo di amministrazione, corretta gestione e restituzione in un tempo prefissato”, senza che fosse stato depositato in giudizio il relativo atto, a rogito del notaio D.S., costituente il presupposto della pretesa impositiva, sicché si tratta di una motivazione apparente, del tutto disancorata dalla fattispecie concreta, con il quarto motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2 e art. 7, comma 1 e del principio dispositivo delle prove, in quanto anche nel processo tributario il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti, con il quinto motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 23 Cost., D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, artt. 9 e 11 tariffa, parte prima, D.P.R. n. 131 del 1986, in quanto il trasferimento degli immobili dal Trust Giodar al Trust H.L.C. e per esso al trustee s.r.l. Beni stabili Trust Company, in esecuzione dello scopo del trust, non comporta un corrispondente arricchimento del patrimonio del trustee, e che se, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, disposizione richiamata dall’Ufficio, l’imposizione deve avere riguardo alla intrinseca natura ed agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo, allora non può non assumere rilievo decisivo la circostanza che si tratta di un atto con effetto di segregazione di beni e che il trustee non è il destinatario finale degli stessi. La prima censura va disattesa in quanto la copia dell’atto di appello dell’Agenzia delle Entrate, notificato a mezzo del servizio postale, risulta depositata in data 19/12/2007, presso la segreteria della C.T.P. di Frosinone che ha pronunciato la sentenza impugnata, per cui il gravame non è inammissibile, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546,
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art. 53, comma 2, seconda parte (nel testo modificato dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 3 bis, convertito, con modificazioni, in L. 2 dicembre 2005, n. 248). La seconda censura va disattesa in quanto, in tema di contenzioso tributario, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 3 – richiamato, per il giudizio d’appello, dal successivo art. 53 – va interpretato nel senso che costituisce causa di inammissibilità del ricorso o dell’appello non la mancanza di attestazione, da parte del ricorrente, della conformità tra l’atto depositato e quello notificato, ma solo la loro effettiva difformità, accertabile d’ufficio in caso di omissione dell’attestazione (Cass. n. 27494/2014). Le censure contenute nel terzo, quarto e quinto motivo di ricorso, scrutinabili congiuntamente in quanto strettamente connesse, vanno accolte per le ragioni di seguito riportate. Assumono le ricorrenti che l’atto di trasferimento degli immobili per cui è causa, per rogito del notaio D.S., tra il Trust Giodar, in persona della B., disponente, e della G., nella qualità di guardiano, ed il Trust H.L.C., e per esso al trustee s.r.l. Beni stabili Trust Company, è stato stipulato “in esecuzione dello scopo del Trust Giodar”, e che si tratta di negozio giuridico sussumibile nella fattispecie prevista dall’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, ratificata dalla L. 16 ottobre 1989, n. 364, l’unica applicabile non esistendo all’epoca una disciplina nazionale dell’istituto (l’imposta sulla costituzione dei vincoli di destinazione è stata introdotta dal D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47), in ragione dell’obbligo per il trustee di custodia dei beni caduti in trust, i quali, per effetto della segregazione, sono rimasti distinti e separati da quelli del trustee e del disponente. Pertanto, il regime di tassazione di tale atto non può essere quello dell’imposta proporzionale di cui all’art. 1 (atti traslativi a titolo oneroso), art. 9 (atti diversi, aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale), e art. 3 (atti di natura dichiarativa) della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, ma quello della categoria residuale, disciplinata dall’art. 11 della tariffa stessa, con conseguente applicabilità, nella specie, dell’imposta nella misura fissa ivi indicata. Affermano ancora le ricorrenti (cfr. controdeduzioni con appello incidentale) che l’atto istitutivo del Trust Giodar, all’art. 6, stabilisce chi sono i beneficiari, e le quote a ciascuno di essi spettanti, disciplinando anche il caso di loro mancanza o premorienza, nonché, all’art. 9, il momento di inizio della distribuzione dei beni, per cui sarebbe una forzatura anticipare imposizione fiscale al trasferimento verso il trustee, dovendo viceversa farsi riferimento al rapporto tra disponente e beneficiario, al momento cioè dell’attribuzione dei beni ai beneficiari, perché è in quel momento che il trasferimento dei beni medesimi, indice dalla capacità contributiva, diviene effettivo e definitivo. La contraria soluzione sostenuta dall’Amministrazione finanziaria, anche nei documenti di prassi, si basa sull’argomento che il passaggio di proprietà dei beni o diritti dal settlor al trustee configura un vero e proprio atto dispositivo a contenuto patrimoniale, carattere che non è escluso dalla mancanza del requisito della onerosità e che giustifica la pretesa impositiva, trovando applicazione l’imposta di registro in misura proporzionale, sulla base delle aliquote stabilite per i singoli beni trasferiti. Questa Corte ha avuto modo di osservare che “L’art. 9 della tariffa, parte 1^,
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rappresenta una clausola di chiusura finalizzata a disciplinare tutte le fattispecie fiscalmente rilevanti, diverse da quelle indicate nelle restanti disposizioni, purché però onerose, e in questo specifico senso aventi un contenuto patrimoniale. Questo è del tutto ovvio perché la norma non può essere intesa in modo dissociato dal contesto del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 43, comma 1, che fissa la base imponibile dell’imposta prevedendola (v. lett. h), per le ‘prestazioni a contenuto patrimoniale’, nell’ammontare ‘dei corrispettivi in denaro pattuiti per l’intera durata del contratto’. Il che rappresenta limpida dimostrazione del fatto che, ai sensi dell’art. 9 della tariffa, la prestazione ‘a contenuto patrimoniale’ è la prestazione onerosa.” (Cass. n. 25478/2015). Alla luce del principio che precede, quindi, è errata l’affermazione dell’Agenzia delle Entrate per cui il trasferimento dei beni in trust, pur non avendo natura onerosa, deve ritenersi operazione di carattere patrimoniale, come tale comunque assoggettabile, sin da subito, ad imposta, nella misura proporzionale del 3% ex art. 9 della tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986. Quanto detto vale anche per le imposte ipotecaria e catastale, giacché va ricordato che l’atto soggetto a trascrizione, ma non produttivo di effetto traslativo in senso proprio (id est, definitivo), postula l’applicazione di dette imposte in misura fissa (D.Lgs. n. 347 del 1990, art. 1 e art. 4 dell’allegata tariffa, quanto all’ipotecaria; art. 10, comma 2, del D.Lgs. cit., quanto alla catastale). Orbene, nella sentenza impugnata, a confutazione della tesi sostenuta delle contribuenti circa l’applicabilità dell’art. 11 della tariffa si attribuisce decisivo rilievo alla insussistenza, nella fattispecie negoziale de qua, di un passaggio di beni o diritti (trust fund), dal disponente (settlor), sotto il controllo di un “amministratore” (trustee), al fine di gestirli nell’interesse di uno o più beneficiari (beneficiaries) in ragione del perseguimento della finalità istitutiva del Trust Giodar, stante la mancata previsione, in capo al dichiarato trustee, di un “obbligo di restituzione in un tempo prefissato” della dotazione patrimoniale, costituita da beni immobili, in grado di manifestare la natura interinale degli effetti traslativi, l’effetto di segregazione degli stessi beni per la realizzazione della predetta finalità, il carattere propriamente fiduciario dei compiti assunti dall’ “amministratore”, in conformità della volontà espressa dal disponente. Com’è stato precisato da questa Corte, “l’interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione, oltre che per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per inadeguatezza della motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione antecedente alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, oppure – nel vigore della novellato testo di detta norma – nella ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti” (Cass. n. 14355/2016). E la motivazione della sentenza impugnata si appalesa censurabile in quanto la soluzione offerta alla questione fiscale, che necessariamente involge l’interpretazione del contratto tassato, così come l’accertamento e la valutazione della natura onerosa
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o meno della prestazione in esso dedotta dalle parti contraenti, si basa sulla rilevata assenza di pattuizioni concernenti l’assunzione, da parte del trustee (Beni Stabili Trust s.r.l. trustee di H.L.C. Trust) degli obblighi di amministrazione e di ritrasferimento dei beni in questione, e dunque sulla ritenuta assenza di transitorietà del trasferimento medesimo, profilo quest’ultimo che indefettibilmente caratterizza lo schema negoziale del trust, ed in ragione del quale l’atto si può considerare non immediatamente produttivo di effetti traslativi in senso proprio, dal momento che sono tali solo quelli finali, costituenti il presupposto dell’imposta di registro, prima mancando l’elemento fondamentale dell’attribuzione definitiva dei beni al soggetto beneficiario. Il trasferimento dei beni al trustee avviene, infatti, a titolo gratuito, non essendovi alcun corrispettivo, ed il disponente non intende arricchire il trustee, ma vuole che quest’ultimo li gestisca in favore dei beneficiari, segregandoli per la realizzazione dello scopo indicato nell’atto istitutivo del trust, per cui l’intestazione dei beni al trustee deve ritenersi, fino allo scioglimento del trust, solo momentanea. La decisione impugnata, tuttavia, si riduce ad una serie di affermazioni apodittiche, che costituiscono motivazione apparente, atteso che il Giudice di appello non spiega sulla base di quali elementi concreti abbia ritenuto il trasferimento dei beni per cui è causa non riconducibile allo schema negoziale del trust, mancando qualsivoglia riferimento alle pattuizioni esaminate, avuto riguardo sia al contratto di cui al rogito del notaio D.S., sia alla scrittura privata, autenticata nelle firme, istitutiva del Trust Giodar, documenti cui pure si fa cenno negli scritti difensivi. Va considerato, inoltre, che la fattispecie in esame ratione temporis non è disciplinata dal D.L. n. 262 del 2006, art. 2, commi 47 e 49, convertito con modificazioni dalla L. n. 286 del 2006, che reintroducendo l’imposta sulle donazioni e successioni (viene espressamente richiamato il D.Lgs. n. 346 del 1990) assoggetta all’imposta anche la “costituzione di vincoli di destinazione di beni”. Devono essere, in conclusione, accolti i suesposti motivi di ricorso, e la sentenza impugnata va cassata con rinvio della causa alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in diversa composizione, la quale provvederà a porre rimedio al rilevato difetto motivazionale, applicando i principi che precedono, e regolamenterà le spese della presente fase del giudizio. P.Q.M. La corte, accoglie il terzo, quarto e quinto motivo di ricorso, rigetta il primo ed il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità. (Omissis)
Corte Cass., sez. trib., 03 maggio 2018 – 13 giugno 2018, n. 15469; Pres. Zoso - Rel. Di Majo Imposta di registro – Imposta ipotecaria e catastale – Prestazioni a
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Parte seconda
contenuto patrimoniale e onerose – Trasferimento di beni nel trust fund a titolo gratuito – Imposizione in misura fissa Il trust non può definirsi né “oneroso” né “operazione a contenuto patrimoniale”, ove il concetto di “patrimonialità”, come può desumersi dalla interpretazione della disposizione sull’imposta di registro (D.P.R. n. 131/1986), non può intendersi in senso civilistico ai sensi degli artt. 1174 e 1321 c.c. come mera “suscettibilità di valutazione economica” della prestazione bensì come prestazione, a fronte della quale figura la pattuizione “di corrispettivi in danaro” e quindi onerosa per tale ragione, non può che essere assoggettato all’imposta in misura fissa e non proporzionale in quanto l’atto devolutivo in trust è a titolo gratuito non essendovi nessun corrispettivo. Non determinandosi alcuna conseguenza economica nella sfera delle parti contraenti, ma sono esclusivamente destinati a disciplinare la gestione della proprietà in maniera radicalmente diversa da quella propria della tradizionale figura romanistica. Nel caso del trust non essendovi alcuna previsione di corrispettivo o di altra prestazione a carico del trustee, non può dunque parlarsi di “operazione a carattere patrimoniale” tale da essere soggetta all’imposta del 3% ai sensi dell’art. 9 della tariffa. E ciò vale anche per le imposte ipotecaria e catastale, giacché va ricordato che l’atto soggetto a trascrizione, ma non produttivo di effetto traslativo, in senso proprio (id est, definitivo), postula l’applicazione di dette imposte in misura fissa ai sensi dell’art. 1 del D.Lgs. n. 347 del 1990 e 4 dell’allegata tariffa, per quanto attiene all’ipotecaria e art. 10, comma 2, del D.Lgs. 347/1990, quanto riguarda la catastale. Pur volendo tenere presente che, ai sensi dell’art. 2, comma 47 della legge n. 286/2006 (recante legge sulle successioni e donazioni), anche per “i vincoli di destinazione” è prevista un’imposta, è comunque da escludere che “il conferimento dei beni in trust dia luogo ad un reale trasferimento imponibile”, perché contrario “al programma negoziale di donazione indiretta per cui è stato predisposto e che prevede la temporanea preservazione del patrimonio a mezzo della sua segregazione fino al trasferimento vero e proprio a favore dei beneficiari”. (2)
(Omissis) Svolgimento del processo. 1.1 sigg. C.M., nella qualità di trustee del Trust (OMISSIS), del Trust (OMISSIS), del Trust (OMISSIS), e M.A., in qualità di disponente dei predetti trust, hanno chiesto alla Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone di pronunciare l’annullamento del dell’avviso dell’1.03.2007 di liquidazione dell’imposta di registro stabilita in misura proporzionale anziché fissa e ciò ai sensi dell’art. 11 tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986. La CTP ha dichiarato il ricorso inammissibile per la presenza di elementi di incertezza D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 18, comma 2, lett. D, in quanto il ricorso si riferiva solo al Trust (OMISSIS) e non agli altri due Trusts, oltre che per il fatto che l’Amministrazione Finanziaria identificava come bene conferito al Trust un immobile oggetto di compravendita. 2.Proposto appello dei contribuenti e superata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, essendo stato impugnato l’avviso di liquidazione solo a carico del Trust (OMISSIS), nel merito la Commissione Tributaria Regionale del Lazio (Sez. Latina), dopo ampia dissertazione, specie dottrinale, è giunta alla conclusione, dopo aver escluso l’as-
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similazione del Trust al Fondo patrimoniale, così come alla donazione, affermando che esso deve definirsi “un negozio giuridico a contenuto patrimoniale” per il quale tuttavia occorre valutarne la patrimonialità non ai sensi dell’art. 1321 c.c. ”ma sotto il profilo del diritto tributario”. Tale, secondo la CTR, è l’atto capace di manifestare “valenza economica e la sua idoneità a determinare accrescimento economico” (pag. 11 della sentenza). Secondo la decisione della CTR tale “valenza economica” è da escludere nel Trust “il quale determina un diverso assetto degli interessi e delle facoltà scaturenti da un diverso e peculiare statuto proprietario, i quali, per sé, non determinano alcuna conseguenza economica nella sfera delle parti contraenti, ma sono esclusivamente destinati a disciplinare la gestione della proprietà in maniera radicalmente diversa da quella propria della tradizionale figura romanistica...” (pag. 12 sentenza). A seguito di ciò la CTR, anche in attuazione di quanto stabilito dalla Cassazione n. 10666/2003 e n. 8289/2003, ha ritenuto applicabile all’atto di costituzione del Trust non il regime di tassazione dell’imposta proporzionale ma quello “della categoria residuale” disciplinata dall’art. 11 della tariffa stessa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986 e cioè l’imposta nella misura fissa. 3. Avverso la sentenza della CTR del Lazio, l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione formulando tre motivi. Parte resistente si è costituita in giudizio con controricorso, chiedendo l’inammissibilità del ricorso principale e la conferma della sentenza impugnata. La stessa ha depositato la memoria ex art. 378 c.p.c. Motivi della decisione. 1.Con un primo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate deduce la violazione degli artt. 9 e 11 tariffa Parte Prima allegati al D.P.R. n. 131 del 1986, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Secondo l’Agenzia delle Entrate la ricostruzione della CTR è erronea, dovendosi ritenere che il Trust costituisce un atto avente ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale, non ricompreso tra quelli contemplati dalla normativa sul Registro, al quale si applica in via residuale l’imposta proporzionale del 3%, proprio ai sensi dell’art. 9 della tariffa allegata, ove si fa riferimento “ad atti aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”. 2. Con un secondo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate deduce la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. L’Agenzia delle Entrate afferma infatti che i contribuenti avevano impugnato l’avviso di liquidazione, deducendo l’erronea applicazione dell’imposta di registro perché applicata in misura proporzionale anziché fissa mentre solamente in sede di appello gli stessi contribuenti avevano censurato l’accertamento anche sotto il profilo della misura dell’imposta catastale ed ipotecaria, deducendo l’applicabilità della sola misura fissa in luogo di quella proporzionale del 2 %, applicata in sede di avviso di liquidazione. Trattavasi pertanto, a tenore dei ricorrenti, di domanda nuova nel giudizio di appello, che la CTR avrebbe dovuto dichiarare inammissibile. 3. Con il terzo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate deduce la violazione del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347, art. 10 e dell’art. 1 della tariffa allegata al D.Lgs. 31 otto-
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bre 1990 n. 347 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si deduce la predetta violazione, in quanto le imposte ipotecarie e catastali sono dovute in misura proporzionale. 4. Il primo ed il terzo motivo di ricorso, da esaminare unitariamente perché connessi, sono infondati. Sull’annosa questione della natura del Trust, ai fini dell’assoggettamento di esso alle imposte di registro, è intervenuta varie volte questa Corte di legittimità. Quanto, in primo luogo, alla qualificazione del Trust, recante la costituzione “di un vincolo di destinazione”, ha osservato questa Corte con sent. n. 21614/2016 che, pur volendo tenere presente che, ai sensi della L. n. 286 del 2006, art. 2, comma 47 (recante legge sulle successioni e donazioni), anche per “i vincoli di destinazione” è prevista un’imposta, è comunque da escludere che “il conferimento dei beni in trust dia luogo ad un reale trasferimento imponibile”, perché contrario “al programma negoziale di donazione indiretta per cui è stato predisposto e che prevede la temporanea preservazione del patrimonio a mezzo della sua segregazione fino al trasferimento vero e proprio a favore dei beneficiari” (così Cass. n. 21614/2016). Quindi il richiamo, nel ricorso dell’Agenzia delle Entrate, al D.L. n. 262 del 2006, riguardante la costituzione di vincoli al destinatario, non può essere come tale rilevante. Quanto invece all’altra tesi, pur sostenuta nella presente controversia dalla Agenzia delle Entrate nel proprio ricorso, e secondo cui il Trust rappresenta “un atto avente per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”, cui dovrebbe applicarsi, in via residuale, l’imposta in via proporzionale del 3%, proprio a mente dell’art. 9 tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, la Sezione Tributaria di questa Corte è intervenuta da ultimo sul punto con sent. n. 975/2018 affermando che l’art. 9 della tariffa “rappresenta una clausola di chiusura finalizzata a disciplinare tutte le fattispecie fiscalmente rilevanti, diverse da quelle indicate nelle restanti disposizioni purché però onerose e in questo specifico senso aventi contenuto patrimoniale”. Ebbene, ha chiarito la predetta sentenza (n. 975/2018) che per “operazioni di carattere patrimoniale” ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 43, comma 1, lett. h, ove viene fissata la base imponibile, si ha riguardo “all’ammontare dei corrispettivi in danaro pattuiti per l’intera durata del contratto”. Nel caso del trust di cui al caso di specie, non essendovi alcuna previsione di corrispettivo o di altra prestazione a carico del trustee, non può dunque parlarsi di “operazione a carattere patrimoniale” tale da essere soggetta all’imposta del 3% ai sensi dell’art. 9 della tariffa. E lo stesso vale anche per la imposta ipotecaria e catastale (Cass. n. 975/2018). Il Collegio ritiene dunque che il trust di cui è causa, non potendo definirsi né “oneroso” né “operazione a contenuto patrimoniale”, ove il concetto di “patrimonialità”, come può desumersi dalla interpretazione della disposizione sull’imposta di registro (D.P.R. n. 131 del 1986), non può intendersi in senso civilistico ai sensi degli artt. 1174 e 1321 c.c. come mera “suscettibilità di valutazione economica” della prestazione bensì come prestazione, a fronte della quale figura la pattuizione “di corrispettivi in
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danaro” e quindi onerosa per tale ragione, non può che essere assoggettato all’imposta in misura fissa e non proporzionale. 2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di autosufficienza, non avendo la ricorrente trascritto il testo del ricorso di primo grado. In tal guisa, questa Corte non è in grado di verificare se la domanda relativa all’applicazione delle imposte ipotecarie e catastali in misura fissa fosse stata o meno proposta in primo grado. La ricorrente ha trascritto infatti solamente l’atto d’appello. 3. Le spese processuali si compensano in considerazione dell’affermarsi del principio giurisprudenziale sul punto controverso in epoca successiva alla proposizione del ricorso. P.Q.M. La corte rigetta il primo e il terzo motivo di ricorso e dichiara inammissibile il secondo motivo. Compensa le spese processuali. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 maggio 2018. (Omissis)
(1, 2) La Corte di Cassazione conferma l’orientamento sulla tassazione in misura fissa dei trasferimenti di beni nel trust fund ai fini dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale e “forse” sulle successioni e donazioni. Sommario: 1. Premessa. – 2. I fatti di causa. – 2.1. La sentenza n. 975/18 – 2.2. La sentenza n. 15469/18. – 3. I motivi delle decisioni. – 4. I profili normativi. – 5. La prassi amministrativa. – 6. La giurisprudenza di legittimità della VI sezione, sottosezione tributaria, della Corte Suprema di Cassazione. – 7. Considerazioni a margine della struttura del tributo sulle successioni e donazioni. – 8. La determinazione della base imponibile secondo il requisito di effettività. – 9. Incongruenze nel calcolo del tributo per inapplicabilità delle aliquote previste. – 10. La giurisprudenza di legittimità della V sezione civile-tributaria della Corte Suprema di Cassazione del 2015 e 2016. – 11. Osservazioni critiche sugli orientamenti giurisprudenziali di legittimità. – 12. Conclusioni. La Corte Suprema di Cassazione affronta nuovamente, con due decisioni, l’importante tema del trattamento tributario da riservare ai trasferimenti dei beni nel fondo in trust. L’autore analizza la tassazione indiretta dell’istituto del trust, in particolare, nell’imposta sulle successioni e sulle donazioni evidenziando le maggiori problematiche elaborate dalla dottrina e dalla ondivaga giurisprudenza. Permane la assoluta necessità di un intervento legislativo o, quantomeno, di una pronuncia delle Sezioni Unite sul tema.
In two judgments, the Italian Supreme Court of Cassazione examines once again the important issue of the tax regime of assets in the trust fund. The author especially analyzes the inheritance tax relating to trust in the Italian tax law system, highlighting the main issues examined by doctrine and jurisprudence. It is absolutely necessary a new rule of law or, at least, a formal decision of the United Sections of the Supreme Court on those issues.
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1. Premessa. – La sezione tributaria della Corte Suprema di Cassazione, a distanza di quasi 14 mesi dal suo ultimo precedente (1), è ritornata su un tema ancora piuttosto dibattuto quale quello della tassazione indiretta dei trasferimenti di beni nel trust fund. Con le sentenze n. 975/18 e n. 15469/18 (2) in nota, la Suprema Corte conferma l’orientamento inaugurato nel 2015 (3) in base al quale il trasferimento di beni e diritti al trustee, seppur in base alla normativa precedente al D.L. n. 262/06 – con il quale è stata reistituita l’imposta sulle successioni e donazioni, a seguito della sua soppressione operata dalla Legge n. 383/01 – deve essere assoggettato all’imposta di registro (e alle imposte ipotecarie e catastali) in misura fissa, ai sensi dell’art. 11 della parte prima della tariffa allegata al D.p.r. n. 131/86 (T.U.R.), in quanto atto non avente per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale. Per quanto la pronunce (in particolare la n. 975/18) non brillino per chiarezza espositiva e approfondimenti teorici sembrerebbero a prima vista costituire un’importante conferma dell’impostazione da sempre assunta dalle Commissioni tributarie sino alle ordinanze della medesima Corte di Cassazione, sezione sesta, sotto-sezione tributaria (4) – che, pur costituendo i primi pronunciamenti di legittimità tanto attesi, avevano solo generato ulteriore confusione e scompiglio nella giurisprudenza di merito e fra gli operatori, elaborando un’interpretazione alquanto discutibile e distorta della struttura dell’imposta sulle successioni e donazioni (5).
(1) Così Cass. Civ., sez. trib., 26 ottobre 2016, n. 21614. (2) Cass. Civ., sez. trib., 17 gennaio 2018, n. 975 e 13 giugno 2018, n. 15469. (3) Così Cass. Civ., sez. trib., 18 dicembre 2015, n. 25478; 18 dicembre 2015, n. 25479; 18 dicembre 2015, n. 25480. (4) Cass. Civ., sez. VI, ordd. n. 3735, n. 3737, n. 3886, n. 5322 del 2015. (5) La dottrina sulla tassazione indiretta del trust è piuttosto ampia. Per gli interventi maggiormente rilevanti successivamente alle pronunce della Suprema Corte si rinvia a: T. Tassani, Sono sempre applicabili le imposte di successione e donazione sui vincoli di destinazione?, in Trust & A.F., 2015 n. 4, 351 e ss.; Id., La Cassazione torna sull’imposta sui vincoli di destinazione, in Trust & A.F., 2016, n. 4, 341 e ss.; Id., Trust e imposte sui trasferimenti: il ‘nuovo corso’ della Corte di cassazione, in Trust & A.F., 2017, n. 1, 28 e ss.; G. Bizioli, Vincoli di destinazione: modalità applicativa del tributo successorio o fantomatica imposta autonoma?, in Dialoghi tributari, 2015, n. 1, 108 e ss.; A. Contrino, Sulla nuova (ma in realtà inesistente) imposta sui vincoli di destinazione ‘creata’ dalla Suprema Corte: osservazioni critiche, in Rass. trib., 2016, pag. 30 e ss.; D. Stevanato, La ‘nuova’ imposta su trust e vincoli di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione, in GT- Riv. giur. trib., 2015, n. 5, 400 e ss.; Id., Imposta sui vincoli di destinazione e giudice legislatore: errare è umano, perseverare diabolico, in GT- Riv. giur. trib., 2016, 398 e ss.; Id., Trust liberali e imposizione indiretta, uno sguardo al passato rivolto al futuro?, in Corr. trib., 2016, n. 9, 676 e ss.; Id., Tassazione fissa per il trust autodichiarato – Imposte
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È di tutta evidenza, però, che l’interesse per le pronunce in commento è dato dalla estensibilità delle argomentazioni ivi contenute a casi identici e analoghi (di trust si intende) ma con riferimento all’imposta sulle successioni e donazioni. Tuttavia, come si farà notare nel prosieguo, uno ‘strano’ passaggio argomentativo nella sentenza n. 975/18, prima delle conclusioni di accoglimento del ricorso, sembrerebbe far propendere la Suprema Corte verso una tassazione immediata in misura proporzionale ai fini del tributo sulle successioni e donazioni in ragione della costituzione del vincolo di destinazione senza poter comprendere se la costituzione del vincolo sia un presupposto autonomo (o che necessita del trasferimento del bene) o un’imposta autonoma: “Va considerato, inoltre, che la fattispecie in esame ratione temporis non è disciplinata dal D.L. n. 262 del 2006, art. 2, commi 47 e 49, convertito con modificazioni dalla L. n. 286 del 2006, che reintroducendo l’imposta sulle donazioni e successioni (viene espressamente richiamato il D.Lgs. n. 346 del 1990) assoggetta all’imposta anche la ‘costituzione di vincoli di destinazione di beni’”. 2. I fatti di causa. 2.1. La sentenza n. 975/18. – La sentenza n. 975/18 qui commentata riguarda un atto di trasferimento di un immobile – stipulato il 12 febbraio 2003 – con dante causa un trustee/disponente e un guardiano di un primo trust (Trust Giodar, autodichiarato), e avente causa un trustee professionale (Beni Stabili Trust Company s.r.l.) – di un secondo trust. Pertanto, il caso in questione concerne il trasferimento di un bene immobile già contenuto nel trust fund di un primo trust verso il trust fund di un secondo trust avente un trustee professionale. Questo atto fu registrato assoggettandolo all’imposta di registro (e alle imposte ipotecarie e catastali) in misura fissa. La particolarità di questo ‘tra-
indirette – Il new deal della Suprema Corte sull’imposizione indiretta del trust: giù il sipario sull’imposta sui vincoli di destinazione?, in GT- Riv. giur. trib., 2017, n. 1, 31 e ss.; L. Salvini, L’imposta sui vincoli di destinazione, in Rass. trib., 2016, n. 4, 925 e ss.; G. Corasaniti, Vincoli di destinazione, trust e imposta sulle successioni e donazioni: la (criticabile) tesi interpretativa della Corte di Cassazione e le conseguenze applicative, in Dir. prat. trib., 2015 n. 4, 688 e ss.; Id., Profili tributari del contratto di affidamento fiduciario, in Dir. prat. trib., 2018, n. 2, 541 e ss. Per una trattazione più completa del tema, senza pretesa di esaustività, si rinvia a A. Fedele, Il regime fiscale di successioni e liberalità, in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da P. Rescigno, II, Padova, 2010, 590 e ss.; T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, Pisa, 2012; C. Buccico, Problematiche fiscali per l’imposizione indiretta dei trust, in Dir. prat. trib., 2016, n. 6, pag. 2346 e ss.
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sferimento’ è che esso era sorto anteriormente all’entrata in vigore del citato D.L. n. 262/06, convertito in L. n. 286/06, vale a dire la normativa che, nel reintrodurre nel nostro ordinamento l’imposta di successione e donazione (abolita con L. n. 383/01), ne ha disposto l’estensione agli atti a titolo gratuito e ai vincoli di destinazione (e, quindi, ai trust). A seguito della registrazione, l’Agenzia delle entrate notificava un avviso di rettifica e liquidazione dell’imposta suppletiva di registro nella misura del 3%, ai sensi dell’art. 9 della prima parte della tariffa allegata al T.U.R., il quale stabilisce detta misura per gli “atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”. Il ricorso promosso dal trustee/disponente e dal guardiano del primo Trust per l’impugnazione dell’atto emanato dall’Agenzia delle Entrate era stato accolto dalla CTP di Frosinone. L’appello dell’Agenzia delle Entrate avverso quest’ultima sentenza è stato a sua volta accolto dalla CTR del Lazio (6). La motivazione del giudice di appello lascia alquanto perplessi laddove nel passaggio fondamentale delle motivazioni, per giustificare l’onerosità del trasferimento immobiliare e la sua sottoposizione a tassazione in misura proporzionale, riteneva che: “si è in presenza di un trasferimento di proprietà non sottoposto ad alcun obbligo di amministrazione, corretta gestione e restituzione in un tempo prefissato, per cui ‘mancano... tutti gli elementi per l’individuazione di un negozio fiduciario che è proprio della nozione di trust’, e che ‘va quindi applicato all’atto di trasferimento in esame l’art. 9 della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, che tassa nella misura proporzionale del 3%’ siffatta tipologia di negozi.” I contribuenti ricorrono per Cassazione avverso la sentenza di appello deducendo 5 motivi di impugnazione. Ai fini di questo commento il quinto e ultimo motivo (unitamente al terzo) è quello che caratterizza questa pronuncia. I ricorrenti impugnano in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 23 Cost. e del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, artt. 9 e 11 tariffa, parte prima, D.P.R. n. 131 del 1986, in quanto il trasferimento degli immobili dal Trust Giodar al Trust H.L.C. e per esso al trustee s.r.l. Beni stabili Trust Company, in esecuzione dello scopo del trust, non comporterebbe un corrispondente arricchimento del patrimonio del trustee, e che se, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, disposizione richiamata dall’Ufficio, l’imposizione deve avere riguardo alla intrinseca natura ed agli effetti giuridici dell’atto presentato alla
(6)
Comm. trib. reg. Lazio, sez. distaccata di Latina del 20 ottobre 2009, n. 650.
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registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo, allora non può non assumere rilievo decisivo la circostanza che si tratta di un atto con effetto di segregazione di beni e che il trustee non è il destinatario finale degli stessi. Assumono le ricorrenti che si tratta di negozio giuridico sussumibile nella fattispecie prevista dall’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, ratificata dalla L. 16 ottobre 1989, n. 364, l’unica applicabile non esistendo all’epoca una disciplina nazionale dell’istituto (l’imposta sulla costituzione dei vincoli di destinazione è stata introdotta dal D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47), in ragione dell’obbligo per il trustee di custodia dei beni caduti in trust, i quali, per effetto della segregazione, sono rimasti distinti e separati da quelli del trustee e del disponente. Pertanto, il regime di tassazione di tale atto non può essere quello dell’imposta proporzionale di cui all’art. 1 (atti traslativi a titolo oneroso), art. 9 (atti diversi, aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale), e art. 3 (atti di natura dichiarativa) della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, ma quello della categoria residuale, disciplinata dall’art. 11 della tariffa stessa, con conseguente applicabilità, nella specie, dell’imposta nella misura fissa ivi indicata. Affermano ancora le ricorrenti che l’atto istitutivo del primo Trust, all’art. 6, stabilisce chi sono i beneficiari, e le quote a ciascuno di essi spettanti, disciplinando anche il caso di loro mancanza o premorienza, nonché, all’art. 9, il momento di inizio della distribuzione dei beni, per cui sarebbe una forzatura anticipare imposizione fiscale al trasferimento verso il trustee, dovendo viceversa farsi riferimento al rapporto tra disponente e beneficiario, al momento cioè dell’attribuzione dei beni ai beneficiari, perché è in quel momento che il trasferimento dei beni medesimi, indice dalla capacità contributiva, diviene effettivo e definitivo. La Corte di Cassazione accoglie gli ultimi tre motivi di ricorso cassando la sentenza impugnata e rinviando ad altra sezione della CTR del Lazio (7). 2.2. La sentenza n. 15469/18. – La sentenza n. 15469/18 concerne la disposizione nel fondo in trust di un bene immobile oggetto di rettifica e liquidazione da parte dell’Agenzia delle Entrate di Frosinone che lo ha assoggettato a imposizione in misura proporzionale. Impugnato l’avviso, la CTP di Frosinone ha dichiarato il ricorso inammissibile per la presenza di elementi
(7) Va peraltro rilevato che la Suprema Corte, con la sentenza del 18 dicembre 2015, n.
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di incertezza ex art. 18, comma 2, lett. D del D.Lgs. n. 546 del 1992, in quanto il ricorso si riferirebbe solo al Trust (OMISSIS) e non ad altri due Trusts che hanno il medesimo trustee, oltre che per il fatto che l’Amministrazione Finanziaria identificava come bene conferito al trust un immobile oggetto di compravendita. L’appello dei contribuenti è stato accolto dalla CTR di Latina (8) che ha ritenuto applicabile all’atto istitutivo del trust non il regime di tassazione dell’imposta proporzionale ma quello “della categoria residuale” disciplinata dall’art. 11 della tariffa stessa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986 e cioè l’imposta nella misura fissa. La CTR di Latina, ha escluso l’assimilazione del trust al fondo patrimoniale, così come alla donazione, affermando che esso deve definirsi “un negozio giuridico a contenuto patrimoniale” per il quale tuttavia occorre valutarne la patrimonialità non ai sensi dell’art. 1321 c.c. “ma sotto il profilo del diritto tributario”. Tale, secondo la CTR, è l’atto capace di manifestare “valenza economica e la sua idoneità a determinare accrescimento economico. Secondo la decisione della CTR tale “valenza economica” è da escludere nel trust “il quale determina un diverso assetto degli interessi e delle facoltà scaturenti da un diverso e peculiare statuto proprietario, i quali, per sé, non determinano alcuna conseguenza economica nella sfera delle parti contraenti, ma sono esclusivamente destinati a disciplinare la gestione della proprietà in maniera radicalmente diversa da quella propria della tradizionale figura romanistica...” L’Agenzia delle Entrate ha ricorso per Cassazione formulando tre motivi di impugnazione - di cui solo il primo e il terzo interessano ai fini di questo lavoro - che si possono così riassumere: • il Trust costituisce un atto avente ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale, non ricompreso tra quelli contemplati dalla normativa sul Re-
25478, si era già espressa in questo senso sempre con riferimento ad una fattispecie antecedente all’entrata in vigore del D.L. n. 262/06, ritenendo inapplicabili le imposte sui trasferimenti in misura proporzionale (in specie imposte di registro, ipotecarie e catastali) al momento del conferimento dei beni in trust, in quanto, fino al momento del loro passaggio ai beneficiari, non si verificherebbe alcun arricchimento da sottoporre a tassazione. La Cassazione aveva, in questo caso, statuito che il trust liberale, con il quale si dispone di assetti familiari, rientra nella categoria delle donazioni indirette ed è “[…] illogico affermare applicabile l’imposta […] già al momento della istituzione del trust […] perché non a tale momento è correlabile il trasferimento definitivo di ricchezza che in effetti rileva quale indice di capacità contributiva”. (8) Comm. trib. reg. Lazio, sez. Latina, del 29 settembre 2011, n. 707 (dal testo della sentenza non si rinviene il n. della sezione).
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gistro, al quale si applica in via residuale l’imposta proporzionale del 3%, proprio ai sensi dell’art. 9 della tariffa allegata, ove si fa riferimento “ad atti aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”; • le imposte ipotecarie e catastali sono dovute in misura proporzionale. La Corte di Cassazione ha rigettato il primo e il terzo motivo di ricorso e dichiarato inammissibile il secondo. 3. I motivi delle decisioni. –Nella sentenza n. 975/18 la Suprema Corte si sofferma solo sulle ragioni per le quali l’atto di trasferimento del bene immobile dovrebbe essere assoggettato a tassazione in misura fissa perdendo l’occasione di approfondire (seppur con obiter dictum come ha già fatto in precedenza con le sentenze n. 25478/15 e 21614/16) questioni non certo risolte come la determinazione della base imponibile, la determinazione dell’aliquota da applicare (soprattutto nei casi di trust opachi oppure dove il disponente e il beneficiario coincidono) e la soggettività passiva (9) sia con riferimento all’imposta sulle successioni e donazioni sia con riferimento alle imposte ipotecaria e catastale (seppur in questo caso la determinazione dell’aliquota da applicare non sia oggetto di problematiche applicative). Nulla aggiunge sotto questi profili la seconda sentenza qui annotata n. 15469/18. Si tratta, comunque, di questioni che meritano e necessitano al più presto di una più netta e consolidata presa di posizione. Pur soffermandosi solo sulle ragioni della tassazione in misura proporzionale la motivazione della sentenza n. 975/18 passa attraverso una critica alla sentenza di secondo grado – nella quale si afferma l’assenza di uno schema negoziale riconducibile alla figura del trust - dando per assodato, invece, che si tratti effettivamente di un trust. Secondo i giudici di legittimità, infatti, la Commissione di secondo grado “non spiega sulla base di quali elementi abbia ritenuto il trasferimento dei beni per cui è causa non riconducibile allo schema negoziale del trust”. In effetti per la CTR del Lazio doveva essere attribuito decisivo rilievo alla insussistenza, nella fattispecie negoziale de qua, di un passaggio di beni o diritti (trust fund), dal disponente (settlor), sotto il controllo di un “amministratore” (trustee), al fine di gestirli nell’interesse di
(9) Nella prospettiva del trust, per una ricostruzione della soggettività passiva nell’imposta sulle successioni e donazioni e sulla particolare figura del beneficiario finale, sia consentito il rinvio a: L. Sabbi, Riflessioni sulla figura del beneficiario finale dei trust nelle imposte sui trasferimenti a margine di una discutibile proposta di legge, in Rass. Trib., 2018, n. 1, 29-58.
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uno o più beneficiari (beneficiaries) in ragione del perseguimento della finalità istitutiva del Trust Giodar, stante la mancata previsione, in capo al dichiarato trustee, di un “obbligo di restituzione in un tempo prefissato” della dotazione patrimoniale, costituita da beni immobili, in grado di manifestare la natura interinale degli effetti traslativi, l’effetto di segregazione degli stessi beni per la realizzazione della predetta finalità, il carattere propriamente fiduciario dei compiti assunti dall’“amministratore”, in conformità della volontà espressa dal disponente. In buona sostanza, per i giudici di appello, non si era in presenza di un atto istitutivo di trust poiché non era dato riscontrare gli elementi – quelli indicati nell’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985 (ratificata con Legge n. 364/1989) – caratterizzanti l’istituto stesso. È noto, infatti, che l’istituto del trust trova legittimazione nell’ordinamento giuridico italiano a seguito dell’adesione dell’Italia alla Convenzione dell’Aja del 1º luglio 1985, resa esecutiva ed in vigore dal 1º gennaio 1992. Si tralasciano qui volutamente le diverse posizioni dottrinali in merito all’ammissibilità (10) o meno (11) di un trust cd. “interno” in quanto esorbitanti
(10) L’orientamento maggioritario che ammette il trust interno in virtù della legge regolatrice come unico elemento di internazionalità fa capo a: M. Lupoi, Legittimità dei trusts interni, in I trust in Italia oggi (a cura di I. Beneventi), Milano, 1996, 30 e ss.; Id., Lettera a un notaio curioso di trusts, in Riv. not., 1996, p. 348 e ss.; Id., Trusts, Milano, 2001, p. 533 e ss.; S. Bartoli, Trusts, Milano, 2001, 597 e ss.; A. Busato, La figura del trust negli ordinamenti di common law e di diritto continentale, in Riv. dir. civ., 1992, 341 e ss.; L. Salvatore, Il trend favorevole all’operatività del trust in Italia: esame ragionato di alcuni trusts compatibili in un’ottica notarile, in Contr. e impr., 2000, 644 e ss.; N. Raiti, Atto di costituzione di trust, in Notariato, 1996, 269; U. Morello, Fiducia e trust: due esperienze a confronto, in Fiducia, trust, mandato ed agency, Milano, 1991, p. 97 e ss.; Id., Fiducia e negozio fiduciario: dalla riservatezza alla trasparenza, in I trust in Italia oggi, cit., 95 e ss.; F. Di Ciompo, Per una teoria negoziale del trust (ovvero perché´ non possiamo farne a meno), in Corr. giur., 1999, 786 e ss.; N. Canessa, I trusts interni. Ammissibilità del trust e applicazioni pratiche nell’ordinamento italiano, Milano, 2001, pp. 3 e ss. nonché 17 e ss.; A. Gambaro, Il diritto di proprietà, in Trattato di dir. civ. e comm., diretto da A. Cicu, F. Messineo, Milano, 1995, p. 637 e ss.; Id., Notarella in tema di trascrizione degli acquisti immobiliari del trustee ai sensi della XV Convenzione dell’Aja, in Riv. dir. civ., 2002, 257 e ss. (11) L’orientamento minoritario che ritiene ammissibile soltanto il trust straniero con ulteriori elementi di internazionalità rispetto alla legge regolatrice fa capo a: M.C. Malaguti, Il futuro del trust in Italia, in Contr. e imp., 1990, 997; L.R. Enzi, Operatività del trust in Italia, in Riv. not., 1995, 1381 e ss.; G. Broggini, Il trust nel diritto internazionale privato, in Jus, 1997, 11 e ss.; C. Castronovo, Trust e diritto civile italiano, in Vita not., 1998, 1323 e ss.; Id., Trust e fiducia nel diritto internazionale privato, in Europa e dir. priv., 1998, 399 e ss.; P. Rescigno, Notazioni a chiusura di un seminario sul trust, in Europa e dir. priv., 1998, 453 e ss.; L. Ragazzini, Trust interno e ordinamento giuridico italiano, in Riv. not., 1999, 296 e ss.; L. De Angelis, Trust e fiducia nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. civ., 1999, II, 361; F. Gazzoni,
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rispetto al tema che si andrà a sviluppare e dando per assodato di poterlo istituire. Tuttavia, pare evidente l’errata interpretazione (peraltro apodittica e immotivata) dei fatti causa da parte dei giudici di appello nel ritenere di non essere in presenza di un trust. Criticando la soluzione adottata dalla CTR del Lazio, correttamente la Suprema Corte statuisce che: a) con l’atto di dotazione del trust non si arricchisce alcun soggetto, ma si affidano “transitoriamente” taluni beni a un trustee affinché questi li gestisca per la realizzazione dello scopo indicato dal disponente; b) l’intestazione dei beni al trustee deve ritenersi, fino allo scioglimento del trust, solo momentanea; c) non può, pertanto, applicarsi all’atto di dotazione del trust la tassazione propria degli atti che hanno un effetto patrimoniale; d) anche le imposte ipotecaria e catastale, per la stessa ragione, devono essere applicate in misura fissa. La misura fissa dell’imposizione è giustificata da due ordini di ragioni: innanzitutto perché il trasferimento del bene e del diritto non è un trasferimento di proprietà e, pertanto, non può essere applicato l’art. 1 della prima parte della tariffa allegata al T.U.R.; poi, perché è inapplicabile l’art. 9 della stessa tariffa parte prima in quanto (secondo la Corte) “rappresenta una clausola di chiusura finalizzata a disciplinare tutte le fattispecie fiscalmente rilevanti, diverse da quelle indicate nelle restanti disposizioni, purché però onerose, e in questo specifico senso aventi un contenuto patrimoniale. Questo è del tutto ovvio perché la norma non può essere intesa in modo dissociato dal contesto del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 43, comma 1, che fissa la base imponibile dell’imposta prevedendola (v. lett. h), per le “prestazioni a contenuto patrimoniale”, nell’ammontare “dei corrispettivi in denaro pattuiti per l’intera durata del contratto”. Il che rappresenta limpida dimostrazione del fatto che, ai sensi dell’art. 9 della tariffa, la prestazione “a contenuto patrimoniale” è la
Tentativo dell’impossibile (osservazioni di un giurista non vivente su trust e trascrizione), in Riv. not., 2001, 11 e ss.; Id., In Italia tutto è permesso, anche quel che è vietato (lettera aperta a Maurizio Lupoi sul trust e su altre bagattelle), in Riv. not., 2001, p. 1247 e ss.; Id., Il cammello, il leone, il fanciullo e la trascrizione del trust, in Riv. not., 2002, 1107; E. Nuzzo, Il trust interno privo di flussi e formanti, in Banca, borsa tit. cred., 2004, I, 427 e ss.; Id., E luce fu sul regime fiscale del trust, in Banca, borsa tit. cred., 2002, I, 248 e ss.; P. Schlesinger, Il trust nell’ordinamento giuridico italiano, in Quaderni di Notariato, 2002, 79; V. Mariconda, Contrastanti decisioni sul «trust» interno: nuovi interventi a favore ma sono nettamente prevalenti gli argomenti contro l’ammissibilità, in Corr. giur., 2004, 76 e ss.; F. Di Ciommo, Ammissibilità del trust interno e giustificazione causale dell’effetto traslativo, in Foro it., 2004, 1296.
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prestazione onerosa (12). Alla luce del principio che precede, quindi, è errata l’affermazione dell’Agenzia delle Entrate per cui il trasferimento dei beni in trust, pur non avendo natura onerosa, deve ritenersi operazione di carattere patrimoniale, come tale comunque assoggettabile, sin da subito, ad imposta, nella misura proporzionale del 3% ex art. 9 della tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986.” La conseguenza è, dunque, l’applicazione dell’art. 11 della tariffa medesima, in forza del quale è prevista l’assoggettabilità all’imposta di registro in misura fissa degli atti a contenuto non patrimoniale (13). Per quanto concerne la sentenza n. 15469/18, la Suprema Corte richiama il proprio precedente n. 21614/16 lasciando sottintendere che benché con la L. n. 286/06, art. 2, comma 47 sia prevista anche per i vincoli di destinazione l’assoggettabilità al tributo sulle successioni e donazioni, il mero vincolo non è di per sé sufficiente alla tassazione: “è comunque da escludere che il conferimento dei beni in trust dia luogo ad un reale trasferimento imponibile, perché contrario al programma negoziale di donazione indiretta per cui è stato predisposto e che prevede la temporanea preservazione del patrimonio a mezzo della sua segregazione fino al trasferimento vero e proprio a favore dei beneficiari”. Sul primo motivo di ricorso dell’Agenzia concernente l’applicazione dell’imposta di registro al 3% in ragione di un atto avente contenuto patrimoniale, la Suprema Corte richiama questo suo ultimo precedente qui in nota n. 975/18 ribadendo le motivazioni già esposte sopra ai fini dell’imposizione in misura fissa. Ritiene, in particolare, che nel caso di specie “non essendovi alcuna previsione di corrispettivo o di altra prestazione a carico del trustee, non
(12) Viene richiamata così, Cass. Civ., sez. trib., 18 dicembre 2015, n. 25478. (13) Diversa la posizione di chi ritiene che la patrimonialità, in questo caso, sia invece insita nella fattispecie e condurrebbe a una tassazione in misura proporzionale del trasferimento ai fini dell’imposta di registro: cfr. S. Carunchio, Misura fissa per il passaggio del bene dal trustee/disponente a favore di trustee di un diverso trust ante 2006, in Il Fisco, 2018, n. 10, 968 e ss. dove l’autore, citando autorevole dottrina civilistica (F. Galgano, Trattato di diritto civile, volume secondo, terza edizione, Roma, 2014, 173-174 e 5-6; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Roma, 2016, 788-790) ritiene che “anche un atto a titolo gratuito può essere, ancorché in maniera mediata, patrimoniale. Ed effettivamente, a parere di chi scrive, è difficile negare che un atto gratuito come quello in questione (vale a dire l’atto del passaggio di un bene da un trustee/disponente a un altro trustee di due differenti trust) non abbia contenuto patrimoniale (benché non sia previsto un corrispettivo). In questo senso parrebbe innegabile l’applicazione dell’art. 9 della tariffa precedentemente richiamato. La base imponibile, in questa ipotesi andrebbe calcolata sul valore del bene, ai sensi dell’art. 43, comma 1, lett. c), del T.U.R.”.
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può dunque parlarsi di ‘operazione a carattere patrimoniale’ tale da essere soggetta all’imposta del 3% ai sensi dell’art. 9 della tariffa”. Ciò valendo anche per le imposte ipotecaria e catastale. Pertanto, l’atto in oggetto deve essere assoggettato a imposizione in misura fissa in quanto il concetto di patrimonialità (per attribuire al trust il carattere dell’onerosità o dell’operazione a contenuto patrimoniale) “non può intendersi in senso civilistico ai sensi degli artt. 1174 e 1321 c.c. come mera ‘suscettibilità di valutazione economica’ della prestazione bensì come prestazione, a fronte della quale figura la pattuizione ‘di corrispettivi in danaro’ e quindi onerosa”. Se è vero che le sentenze in commento si riferiscono a due casi sottoposti alla tassazione dell’imposta di registro – stante la non vigenza dell’imposta sulle successioni e donazioni al momento della stipulazione degli atti – permane la centralità del principio statuito dalla Suprema Corte, applicabile anche a quest’ultima imposta. La giurisprudenza di merito, di recente, è giunta alla stessa conclusione anche sulla base della disciplina vigente e dell’orientamento di legittimità n. 21614/16 (14) con la consapevolezza di aver ritrovato il filo conduttore di questa fattispecie: in primis, l’unitarietà causale del negozio giuridico in ragione del quale, ai fini delle imposte sui trasferimenti (e dato per assodato un primo trasferimento di beni nel fondo in trust) rilevano gli eventi che manifestano un trasferimento dei beni dal fondo in trust verso soggetti terzi rispetto al disponente (15). In questa prospettiva ciò che deve essere correttamente osservato è il rapporto di parentela disponente-beneficiario. E lo è perché facendo riferimento alla struttura dell’imposta sulle successioni e donazioni è proprio quest’ultimo soggetto che manifesta la capacità contributiva che deve essere tassata conformemente al dettato costituzionale dell’art. 53. È evidente che l’utilità di commentare queste sentenze è quella di veri-
(14) Comm. trib. reg. Lazio, sez. XI del 9 maggio 2018, n. 3059; Comm. trib. reg. Abruzzo, sez. III del 8 maggio 2018, n. 431; Comm. trib. reg. Lombardia, sez. XV del 29 marzo 2018, n. 1399; Comm. trib. reg. Lombardia, sez. XIX del 27 ottobre 2017, n. 4337; Comm. trib. reg. Lombardia, sez. VI del 11 gennaio 2018, n. 89; Comm. trib. reg. Campania, sez. XXVIII del 24 maggio 2017, n. 4710; Comm. trib. di II grado di Bolzano, sez. II del 10 luglio 2017, n. 67. Per un’analisi di alcune di queste pronunce si veda: L. Sabbi, Trust e imposte sui trasferimenti: le corti di merito aderiscono finalmente all’ultimo orientamento della sezione tributaria della Corte di Cassazione, in Trust & A.F., 2018, n. 3, 280 e ss. (15) A dire la verità la situazione della destinazione di un bene come ritorno al disponente o come devoluzione al disponente medesimo indicato quale beneficiario al termine del trust non è ancora pacificamente risolto benché si dovrebbe propendere verso la sua irrilevanza ai fini tributari in ragione dell’unitarietà causale del negozio giuridico.
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ficare con occhio critico – benché abbiano ad oggetto l’imposta di registro – se l’orientamento di cui alla sentenza n. 21614/16 è confermato o vi sia un ripensamento di sorta. La questione, tutt’altro che sopita, merita un approfondimento strutturale anche per evidenziare le tematiche che ruotando attorno ad essa non hanno ancora ricevuto una soluzione definitiva e condivisa. 4. I profili normativi. – Con la L. n. 296/06, modificando l’art. 73 del Tuir, il legislatore ha risolto parte dei dubbi sollevati riguardo al trattamento tributario dei trust (16), optando per l’inserimento di essi tra i soggetti passivi Ires. Permaneva, così, un vuoto sul versante delle imposte sui trasferimenti a causa della soppressione dell’imposta sulle successioni e donazioni (17) ad
(16) La bibliografia in tema di profili fiscali del trust è assai vasta. Tra i lavori anteriori alla novella del 2006 si vedano: F. Gallo, Trust, interposizione ed elusione fiscale, in Rass. Trib., 1996, 1052 e ss.; A. Fedele, Visione d’insieme della problematica interna, in Aa. Vv. (a cura di Benvenuti), I Trusts in Italia oggi, Milano, 1996, 269 e ss.; A. Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, 416 e ss.; Id., Trust e imposte sui trasferimenti, in Rass. Trib., 2000, n. 4, 1111 e ss.; L. Perrone, La residenza del trust, in Rass. Trib., 1999, n. 6, 1601 e ss; G. Corasaniti, Brevi note sui profili fiscali del trust di valori mobiliari, in Trust e attività fiduciarie, 2000, n. 2; G. Zizzo, Note minime in tema di trust e soggettività tributaria, in Il Fisco, 2003, n. 30, 4658 e ss.; A. Salvati, Profili fiscali del trust, Milano, 2004; A. Contrino, Riforma IRES e trust: la maggiore realità e la patrimonializzazione come ulteriori argomenti per la soggettività “definitiva” dei trust, in Dial. dir. trib., 2004, 579 e ss.; L. Del Federico, Trust interno e regime fiscale degli atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela ai sensi del nuovo art. 2645-ter del codice civile, in Il Fisco, 2006, p. 7645; L Salvini, Le vicende del fondo in trust, in, 2008, n. 9, 59 e ss. (17) La dottrina ha peraltro da sempre considerato giustificata la presenza di un tributo successorio ritenendo che l’arricchimento senza i correlativi sacrifici che l’imposta colpisce incrementa la forza economica del beneficiario ed è senz’altro un idoneo indice di capacità contributiva, conforme anche ai principi del liberalismo e del liberismo, di uguaglianza dei punti di partenza. Su tali profili da ultimi v. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale. Il sistema delle imposte in Italia, II ed., Padova, 2000, 349; G. Marongiu, La riforma dell’imposta sulle successioni e donazioni, in Aa. Vv., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Consiglio Nazionale del notariato. Collana studi n. 16, Milano 2001, 4; D. Stevanato, Donazioni e liberalità indirette nel tributo successorio, Padova, 2000, p. 10 e ss.; Id., Alla ricerca della capacità economica nella “nuova” imposta sulle successioni e donazioni, in D. Stevanato, R. Lupi, Imposta sulle successioni e donazioni: dove eravamo rimasti? in Dial. dir. trib., 2006, 1657; sulle posizioni più risalenti, S. Cardarelli, voce Tributi successori, in Enc. dir., vol. XLV, Milano, 1992, 153, 162. Nondimeno l’abolizione dell’imposta poteva senza dubbio considerarsi giustificata rispetto all’applicazione materiale del tributo successorio fino al 2000, che finiva per colpire, di fatto,
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opera dell’art. 13 della L. n. 383/01. Pertanto, fu previsto inizialmente con il D.L. n. 262/06, l’assoggettamento dei trasferimenti per successione e donazione tra familiari all’imposta di registro a cui si aggiunse anche la menzione della “costituzione di vincoli di destinazione” (18). Autorevole dottrina ritiene che questa modifica avesse una sua logica intrinseca poiché “il tributo di registro si è caratterizzato, sin dall’origine e viepiù per la successiva evoluzione normativa, come tributo che assume a presupposto vicende patrimoniali, quindi necessariamente effetti giuridici a contenuto patrimoniale, che si risolvono in modificazioni qualitative dei patrimoni interessati. In questa variegata gamma di effetti ben poteva inserirsi il particolare tipo di efficacia che caratterizza gli atti tra vivi costitutivi dei vincoli di destinazione, che si venivano a collocare accanto a quelli tradizionalmente assoggettati all’imposta, in una categoria unitaria, espressione della ratio cui da sempre l’imposta stessa si ispira” (19). In sede di conversione del decreto legge si abbandonò questo schema ovviando per la reintroduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni con la L. n. 286/06 (20), dove il Legislatore intervenne modificando i commi dal 47 al 52 del D.L. n. 262/06 e inserendo fra i presupposti del tributo la costituzione
i meno avveduti e solo certe tipologie di beni, producendo soprattutto un gettito irrisorio (v. R. Lupi, Il ripristino del tributo successorio “versione 2006”: un’agenda delle questioni da risolvere, in D. Stevanato, R. Lupi, Imposta sulle successioni e donazioni: dove eravamo rimasti?, cit., 1669). (18) La costituzione dei vincoli di destinazione era presente solo nei trasferimenti immobiliari per donazione o per altri atti a titolo gratuito con la formula “compresa la rinunzia pura e semplice e la costituzione di vincoli di destinazione” in calce all’estensione alle rinunzie. Nei trasferimenti di aziende, partecipazioni societarie, valori mobiliari e denaro (mancando il riferimento alle rinunzie) la previsione della costituzione dei vincoli era inserita tramite la congiunzione “nonché”, che non la includeva, ma la distingueva, dai trasferimenti stessi.: così A. Fedele, Vincoli di destinazione: scelte legislative inadeguate determinano un conflitto interpretativo tra le sezioni della Suprema Corte, in Riv. Dir. Trib., 2017, n. 1, 49-50, nota n. 2. (19) A. Fedele, Vincoli di destinazione, op. ult. cit., 50. (20) Con riferimento alla reintrodotta imposta sulle successioni si vedano A. Fedele, Il trasferimento dei beni al trustee nelle imposte indirette, in Teoria e pratica della fiscalità dei trust, (a cura di De Renzis Sonnino N.L., Fransoni G.,) Milano, 2008; G. Fransoni, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, in Corr. trib., 2008, n. 8, 645 e ss.; T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, Pisa, 2012 (per i profili intorno all’imposta sulle successioni e donazioni, 137-170.); D. Stevanato, Il regime fiscale del trust tra punti fermi e questioni irrisolte, in Dial. trib., 2008, n. 2, 95 e ss.; R. Lupi, A. Contrino, Il «diritto attuale del beneficiario» come condizione per l’imputazione per trasparenza dei redditi del trust, in Dial. trib., 2008, n. 3, 106 e ss.
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dei vincoli di destinazione oltre a una sintetica disciplina di aliquote e franchigie e a un generale rinvio all’intero Testo unico che già disciplinava l’imposta nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001 (21). Nel dettato normativo, restava assente qualsiasi benché minimo riferimento all’istituto del trust. Da ciò se ne può desumere, rispetto alla modifica in ambito Ires, la non esclusività della figura del trust ma piuttosto l’interesse verso la tassazione dei vincoli di destinazione in ragione delle figure giuridiche idonee a crearli. Dispone infatti la norma: “capo I, articolo 2, comma 47. È istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del Testo Unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001, fatto salvo quanto previsto dai commi da 48 a 54”. Dalla reintrodotta imposta sulle successioni e donazioni (o meglio dalla generale struttura del tributo anche anteriormente alla sua soppressione) se ne può sicuramente ricavare l’intenzione del legislatore di una disciplina e funzione unitaria del tributo ricostruito intorno all’unico indice di capacità contributiva (22) dato da un incremento patrimoniale conseguente a liberalità (23). Con l’inserimento dei vincoli di destinazione – pur considerando i passaggi normativi dalla decretazione di urgenza alla sua conversione – se ne può dedurre una propensione anche verso la tassazione di un presupposto diverso da quello dei trasferimenti di beni e diritti, indubbiamente espressivo (se mai, però, esistente e determinabile) di una diversa capacità contributiva,
(21) Il rinvio è effettuato, con la medesima formula, sia nel comma 47 dell’art. 2 del D.L. n. 262/06 come modificato dalla citata L. n. 286/06, sia nel successivo comma 48 che premette, però, la condizione della “compatibilità” con le nuove disposizioni (quelle cioè di cui ai commi da 47 a 52). (22) Del resto, il rinvio alle norme del D.Lgs. n. 346/90, in quanto compatibili, per la soggettività passiva, la determinazione della base imponibile e delle aliquote depone in tal senso. (23) Ad una prima lettura il presupposto del tributo pare quindi essere stato notevolmente ampliato, in ragione del rapporto di genus a species che ricollega gli atti gratuiti a quelli liberali. I primi infatti, raggruppando tutti gli atti non onerosi, ricomprendono, ma non si esauriscono, negli atti liberali. Riprendendo i risultati raggiunti dalla dottrina civilistica, anche tra i cultori del Diritto tributario è unanime il convincimento che la liberalità non sia che una specie degli atti gratuiti e la donazione, la principale delle liberalità: v. G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, II ed., Padova, 1993, 105; A. Uricchio, Commento all’Art. 1 Oggetto dell’imposta, in N. D’Amati (cur.), Commento al Testo Unico delle imposte sulle successioni e donazioni, Padova, 1996, 6, 11.
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erroneamente (24) e irrazionalmente (25) inserita nel contesto di un complesso normativo inadeguato a disciplinarlo con riferimento a un incremento patrimoniale conseguente a liberalità. Un elemento ulteriore (26) da cui si può trarre l’intenzione del legislatore di aver voluto tassare il vincolo di destinazione in quanto tale (o quantomeno di considerarlo concettualmente e giuridicamente autonomo dal trust) e non (solo) il trasferimento dei beni è rinvenibile nell’art. 73, comma 3 del Tuir laddove è previsto che: “Si considerano, inoltre, residenti nel territorio dello Stato i trust istituiti in uno Stato diverso da quelli di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’articolo 168bis, quando, successivamente alla loro costituzione, un soggetto residente nel territorio dello Stato effettui in favore del trust un’attribuzione che importi il trasferimento di proprietà di beni immobili o la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari, anche per quote, nonché vincoli di destinazione sugli stessi”. Ai fini della residenza il trasferimento di beni o diritti reali immobiliari o costituzione di vincoli di destinazione costituiscono altro rispetto al trust. Il trasferimento di beni al trust può attribuire un vincolo e una destinazione al bene conferito. Questi due elementi prescindono totalmente dalla modalità che attribuisce il vincolo di destinazione che rileva isolatamente ai fini della residenza del trust. Analogamente l’inserimento dei vincoli di destinazione nel testo dell’imposta sulle successioni e donazioni dovrebbe avere un significato autonomo sia con riferimento al trust sia con riferimento ad altri istituti che lo possono attribuire. Pertanto, la volontà del legislatore era indubbiamente quella di tassare il vincolo di destinazione a prescindere dalla modalità di realizzo. Non è questa la sede per affrontare la questione se e quando l’istituzione o il conferimento di beni nel fondo in trust costituisca un vincolo di destina-
(24) La medesima opinione è espressa da A. Fedele, Vincoli di destinazione: scelte legislative inadeguate determinano un conflitto interpretativo tra le sezioni della Suprema Corte, cit., 52. (25) Come ben delineato da G. Bizioli, Vincoli di destinazione: modalità applicativa del tributo successorio o fantomatica imposta autonoma?, in Dial. Trib., 2015, n. 1, 108 e ss.: “Siamo dinanzi a un tributo dotato di un duplice presupposto e uniforme base imponibile, identici soggetti passivi e aliquote o, meglio, di una previsione espressa di tali elementi per il trasferimento e di un mero rinvio normativo per la costituzione di vincoli di destinazione. E ciò appare totalmente irrazionale e incoerente e, dunque, in palese contrasto con l’art. 53, comma 1, e con l’art. 23 Cost.”. (26) Si potrebbe dire di natura “indiziaria”.
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zione (27). 5. La prassi amministrativa. – Alla reintroduzione del tributo fecero seguito due circolari dell’Agenzia delle Entrate. Nella prima si affermò che in relazione al trust, quale particolare vincolo di destinazione, la sua costituzione “avvenga sin dall’origine a favore del beneficiario (naturalmente nei trust con beneficiario)” e che ai fini della determinazione delle aliquote e delle franchigie di applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, occorre avere riguardo al rapporto di parentela intercorrente tra il disponente e i beneficiari al momento della costituzione del vincolo, cioè al momento del trasferimento dei beni in trust (28). È evidente, in questa prima circolare, un approccio che, seppur derivante dall’idea di fondo di voler tassare il vincolo di destinazione, lo correla al trasferimento del bene o del diritto verso il beneficiario. Si tratta di un collegamento funzionale alla liquidazione del tributo con riferimento al valore dell’asse trasferito e all’aliquota applicabile derivante dal rapporto di parentela su indicato. In buona sostanza sembrerebbe potersi ricavare l’idea che il vincolo di destinazione rechi un’utilità o un beneficio in capo al beneficiario individuato che, bisogna dirlo, correttamente è indicato come soggetto passivo a cui riferire la capacità contributiva. Nella seconda circolare l’Agenzia esaminò nuovamente la rilevanza dei trust ai fini della suddetta imposta affermando al riguardo che, sebbene la relativa disciplina normativa non contenga alcun esplicito riferimento al trust, tuttavia anche questa fattispecie negoziale rientrerebbe nella definizione del nuovo presupposto di imposta, appunto in quanto species del genus dei vincoli di destinazione precisando che “la costituzione dei beni in trust rileva, in ogni caso, ai
(27) Se è vero infatti che il trust è qualcosa di diverso rispetto ai vincoli di destinazione di cui all’art. 2645-ter cod. civ., nondimeno la costituzione di un vincolo di destinazione può ben combinarsi con l’istituzione di un trust e il trustee può essere il soggetto al quale spetta attuare la finalità, in vista della quale il vincolo è stato costituito: Così, M. Lupoi, Imposte dirette e trust, in Corr. trib., 2007, 253, 258. Il non poter ricondurre tutti i trust ad un unico modulo impositivo non impedisce tuttavia all’interprete di tracciare i tratti distintivi delle varie tipologie, al fine di ricavarne regole di tassazione comuni. Sotto il profilo dell’imposizione indiretta la prassi ha principalmente tracciato la distinzione tra trust “liberali” o “di famiglia”, caratterizzati da uno spirito di liberalità del disponente verso i beneficiari e “trust commerciali”, privi di animus donandi. La bipartizione tra trust “liberali” e trust “commerciali” si deve a M. Lupoi, Trusts, Milano, II ed., 2001, 620 e ss., al quale si rinvia per una ricca casistica. (28) Circolare n. 48/E del 6 agosto 2007.
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fini dell’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, indipendentemente dal tipo di trust. Pertanto, anche nel trust auto-dichiarato, in cui il settlor assume le funzioni di trustee, l’attribuzione dei beni in trust, pur in assenza di formali effetti traslativi, deve essere assoggettata all’imposta sulle successioni e donazioni. Tale affermazione trae giustificato motivo dalla natura patrimoniale del conferimento in trust nonché dall’effetto segregativo che esso produce sui beni conferiti indipendentemente dal trasferimento formale della proprietà” (29). Tale orientamento impone, conseguentemente, di ritenere soggetti all’imposizione non solo i trust liberali e auto-dichiarati ma anche quelli di scopo (fra cui rientrano i trust di garanzia) gestiti per realizzare un determinato fine senza indicazione di un beneficiario finale e quelli costituiti nell’interesse di soggetti genericamente indicati e non identificabili in relazione al grado di parentela. A ciò fa seguito la considerazione che la devoluzione ai beneficiari del fondo in trust non realizzerebbe, sempre secondo la circolare, un presupposto impositivo ulteriore ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, considerata la descritta tassazione già scontata al momento dell’attribuzione dei beni al trust. Si abbandona in questo modo il tentativo – giuridicamente impossibile anche per l’amministrazione finanziaria seppur dettato da altre esigenze – di considerare il vincolo di destinazione nella prospettiva del tributo sui trasferimenti. Si passa, cioè, ad una concezione unitaria del fenomeno del vincolo di destinazione che prescinde totalmente dal trasferimento dei beni e diritti e si riporta al D.Lgs. n. 346/90 ai soli fini della determinazione del tributo peraltro adattando la soggettività passiva, come nel trust autodichiarato o nel trust opaco (dove la soggettività passiva dovendo pur attribuirla la si recupera analogicamente nel trust medesimo così come nell’Ires), alla propria necessità di giustificare la costituzione di un vincolo di destinazione. Una prassi amministrativa, dunque, autrice di una interpretazione palesemente contra legem. Che questa impostazione non convincesse e non fosse fondata su solide argomentazioni, trova conferma, oltre che in numerosi contributi dottrinali, nella giurisprudenza di merito formatasi sino all’inizio del 2015 con un ampio numero di pronunce (30).
(29) Circolare n. 3/E del 22 gennaio 2008. (30) Cfr. Comm. trib. reg. Milano n. 4735/44/14, Id., n. 54/34/13, Id., n. 73/15/12, Comm. trib. reg. Bologna, n. 16/9/11, Comm. trib. reg. Latina, n. 709/39/11, Comm. trib. reg. Firenze, n. 77/24/11, Comm. trib. reg. Venezia, n. 10/29/12, Comm. trib. reg. Perugia n. 37/3/13, Comm. trib. reg. Genova, n. 107/8/13, Comm. trib. reg. Venezia, n. 90/7/13, Comm. trib. reg. Salerno, n. 3094/2/15, Comm. trib. reg. Latina, n. 732/40/09, Comm. trib. prov. di Milano, n.
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Tuttavia, leggendo con attenzione la circolare n. 38/E del 2013 (Le nuove disposizioni in materia di monitoraggio fiscale) l’Agenzia delle Entrate sembrerebbe tornare sui propri passi in quanto all’inizio della pagina 16 sostiene che: “Non si ritiene che la titolarità effettiva del trust possa essere attribuita al trustee posto che quest’ultimo amministra i beni segregati nel trust e ne dispone secondo il regolamento del trust o le norme di legge e non nel proprio interesse”. Per merito di autorevole dottrina (31), un profilo condivisibile che emerge dalla prassi dell’Agenzia che aveva perso rilevanza in questi anni è quello relativo all’inquadramento della fattispecie come fenomeno unitario attraverso il quale il disponente intende perseguire il proprio scopo, consistente da ultimo, nell’arricchimento dei beneficiari; ragionando, si intende, in termini di trust liberale poiché in un trust di garanzia non vi può essere l’intento di arricchire qualcuno. Ciò appunto consente di considerare gli eventi traslativi unitariamente come unico presupposto la cui tassazione avverrebbe una volta sola all’effettivo arricchimento dei beneficiari finali. Tale impostazione, che aveva trovato sostegno, anche in parte della dottrina, è stata rimessa in discussione da alcune ordinanze del 2015 della Corte Suprema di Cassazione che separa nettamente le due vicende traslative assoggettandole ad autonoma imposizione. 6. La giurisprudenza di legittimità della VI sezione, sottosezione tributaria, della Corte Suprema di Cassazione. – La Suprema Corte di Cassazione
8531/41/14, Id., n. 3221/25/15, Id., n. 2510/3/15, Id., n. 2300/25/15, Id., n. 5200/40/14, Id., n. 1462/40/14, Id., n. 1213/17/14, Id., n. 1208/17/14, Id., n.1002/25/14, Id., n. 240/8/13, Comm. trib. prov. di Treviso, n. 379/9/15, Comm. trib. prov. di Latina, n. 716/1/15, Comm. trib. prov. di Pavia n. 739/1/14, Id., n. 611/3/14, Comm. trib. prov. di Lodi, n. 70/2/14, Id., n. 100/1/13, Id., n. 60/2/11, Comm. trib. prov. di Torino, n. 1840/9/14, Comm. trib. prov. di Perugia, n. 470/2/14, Comm. trib. prov. di Treviso, n. 105/6/14, Comm. trib. prov. di Padova, n. 252/1/13, Comm. trib. prov. di Bologna, n. 169/13/13, Comm. trib. prov. di Napoli, n. 571/19/13, Comm. trib. prov. di Latina, n. 10/2/13, Comm. trib. prov. di Salerno n. 507/4/12, Comm. trib. prov. di Ravenna, n. 143/1/12, Comm. trib. prov. di Macerata, n. 207/2/12, Comm.trib. prov. di Treviso, n. 14/3/12, Comm. trib. prov. di Torino, n. 70/13/11, Comm. trib. prov. di Treviso, n. 14/1/11, Comm. trib. prov. di Perugia, n. 35/1/11, Comm. trib. prov. di Salerno, n. 465/15/10, Comm. trib. prov. di Genova, n. 280/4/10, Comm. trib. prov. di Pesaro, n. 287/1/10, Comm. trib. prov. di Perugia, n. 119/8/10, Comm. trib. prov. di Bologna, n. 120/2/09, Comm. trib. prov. di Treviso, n. 95/1/09, Comm. trib. prov. di Caserta, n. 481/15/09, Comm. trib. prov. di Treviso, n. 47/1/09, Comm. trib. prov. di Firenze, n. 30/8/08. (31) D. Stevanato, Donazioni e liberalità indirette nel tributo successorio, cit., p. 186.
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con le ordinanze nn. 3735, 3737, 3886, 5322 del 2015 e 4482 del 2016 (32) era intervenuta sui profili della tassazione indiretta ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni degli atti di dotazione di beni al trust. Pur costituendo i primi pronunciamenti di legittimità tanto attesi, queste pronunce non si sono poste in termini dirimenti, generando ulteriore confusione quale frutto di un’interpretazione alquanto discutibile della struttura dell’imposta sulle successioni e donazioni. Tale intervento è criticabile dal punto di vista tributario sotto diversi profili. Il primo è che non risolve la spaccatura che si era creata negli ultimi anni tra la giurisprudenza di merito – che propendeva, seppur con motivazioni non sempre uniformi, verso una granitica impostazione di irrilevanza della vicenda traslativa dei beni dal disponente al trustee ai fini del tributo sulle successioni e donazioni – e la prassi amministrativa – che si pone in senso contrario manifestando il più assoluto disinteresse verso le pronunce delle Commissioni tributarie. Il trasferimento di beni e diritti (non sempre ontologicamente tale, come nel caso di trust auto-dichiarato) trova naturalmente la sua fonte nell’atto di dotazione patrimoniale del trust e non nel “semplice” atto istitutivo che può anche integrarlo. Il secondo è che si schiera in parte sulle posizioni dell’Agenzia delle Entrate sconfessandola – quando si pone in termini “creativi” – delineando un tributo autonomo sui vincoli di destinazione e uno sulle successioni e donazioni lasciando aperta la porta alla doppia imposizione economica. Il terzo motivo è che non distinguendo tra le diverse tipologie di trust traspare un concetto di capacità contributiva totalmente disallineato dai parametri costituzionali che finisce, altresì, per generare una disparità di trattamento a seconda dei differenti trust considerati. La differenza sotto questo profilo di un
(32) Criticamente verso queste pronunce cfr. G. Bizioli, Vincoli di destinazione: modalità applicativa del tributo successorio o fantomatica imposta autonoma? cit., p. 108 e ss.; T. Tassani, Sono sempre applicabili le imposte di successione e donazione sui vincoli di destinazione?, in Il Fisco, 2015, n. 20, 1957 e ss.; A. Contrino, Sulla nuova (ma in realtà inesistente) imposta sui vincoli di destinazione “creata” dalla Suprema Corte: osservazioni critiche, in Rass. Trib., 2016, 30 ss.; D. Stevanato, La “nuova” imposta su trust e vincoli di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione, in GT, 2015, n. 5, 400 e ss.; Id., Imposta sui vincoli di destinazione e giudice legislatore: errare è umano, perseverare diabolico, in GT, 2016, 398 ss.; G. Corasaniti, Vincoli di destinazione, trust e imposta sulle successioni e donazioni: la (criticabile) tesi interpretativa della Corte di Cassazione e le conseguenze applicative, in DPT, 2015 n. 4, 688 e ss.; C. Buccico, Problematiche fiscali per l’imposizione indiretta dei trust, in DPT, 2016, n. 6, 2346 e ss.
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trust liberale a fini successori e uno di garanzia è notevole e non trascurabile. Le ordinanze nn. 3735 e 3886 del 2015 avevano ad oggetto delle tipiche fattispecie di trust auto-dichiarato dove i disponenti (se in vita altrimenti i loro discendenti in linea retta) sono anche beneficiari finali delle rimanenze del fondo in trust. In particolare, il primo provvedimento richiamato riguarda il caso di una persona fisica che aveva istituito un trust – apportandovi i propri beni immobili e nominando sé stesso quale trustee – al fine di rafforzare la generale garanzia patrimoniale già prestata, nella qualità di fideiussore, in favore di determinati istituti di credito. La fattispecie analizzata dall’ordinanza n. 3886 del 2015 era per molti aspetti similare a quella precedentemente trattata ed ha ad oggetto un trust istituito da due coniugi - al fine di garantire il soddisfacimento dei fabbisogni familiari - i quali individuavano loro stessi quali trustee. Infine, le ordinanze n. 3737 e n. 5322 del 2015 avevano ad oggetto identiche fattispecie caratterizzate dalla istituzione di un trust liberale da parte di una fondazione di diritto privato e da altri enti pubblici al fine di provvedere alla riqualificazione di un complesso aeroportuale. Con riferimento alle prime due pronunce sconcerta innanzitutto l’affermazione che un trust auto-dichiarato non sia un trust in quanto non ne possiede la fisionomia: “ne manca, difatti, uno dei tratti tipologicamente caratteristici, ossia il trasferimento a terzi da parte del settlor dei beni costituiti in trust, al fine del conseguimento dell’effetto, con carattere reale, di destinazione del bene alla soddisfazione dell’interesse programmato”. L’affermazione si commenta da sé e non si può che richiamare la critica che viene espressa dalla migliore dottrina sul punto (33). Si può discutere, e si è discusso, se un trust senza trasferimento rientri o meno nell’ambito della Convenzione, ma nessuno ha mai potuto contestare che esso abbia i caratteri del trust e sia un trust precisamente come quello accompagnato da trasferimento al trustee. Con specifico riferimento agli aspetti tributari, tutte le pronunce, attraverso un rigida e asistematica interpretazione del dato letterale dell’art. 2 comma 47 del D.L. n. 262/06 (34), si assestano sulla seguente ricostruzione: “Il tenore
(33) Si veda M. Lupoi, Istituzioni di diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, 2016, 289. (34) “È istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente alla data del
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della norma evidenzia che l’imposta è istituita non già sui trasferimenti di beni e diritti a causa della costituzione di vincoli di destinazione, come, invece, accade per le successioni e le donazioni, in relazione alle quali è espressamente evocato il nesso causale: l’imposta è istituita direttamente, ed in sé, sulla costituzione dei vincoli”. […] “L’imposta sulla costituzione di vincolo di destinazione è un’imposta nuova, accomunata solo per assonanza alla gratuità delle attribuzioni liberali, altrimenti gratuite e successorie; essa riceve disciplina mediante un rinvio, di natura recettizio-materiale, alle disposizioni del D.Lgs. n. 346 del 1990 (in quanto compatibili: D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 50, come convertito), ma conserva connotati peculiari e disomogenei rispetto a quelli dell’imposta classica sulle successioni e sulle donazioni. Ciò in quanto nell’imposta in esame, a differenza che in quella tradizionale, il presupposto impositivo è correlato alla predisposizione del programma di funzionalizzazione del diritto al perseguimento degli obiettivi voluti; là dove l’oggetto consiste nel valore dell’utilità della quale il disponente, stabilendo che sia sottratta all’ordinario esercizio delle proprie facoltà proprietarie, finisce con l’impoverirsi”. Sui profili di illegittimità costituzionale della disposizione con riferimento al principio di capacità contributiva in ragione della mancanza di arricchimento: “[…] con riguardo all’imposta in esame, non rileva affatto la mancanza di arricchimento, giacché il contenuto patrimoniale referente di capacità contributiva è ragguagliato all’utilità economica, della quale il costituente, destinando, dispone. Visto che il referente assunto dal legislatore è l’utilità economica e che questa utilità è destinata ad altri, il peso del prelievo coerentemente va a gravare sull’utilità e, in definitiva, sul beneficiario finale, al quale essa è destinata a pervenire. Il rilievo della capacità economica, del resto, è correlato al contenuto patrimoniale di atti o fatti, non già al trasferimento attuale di diritti: la capacità contributiva, ha chiarito la Consulta, è da intendere come attitudine ad eseguire la prestazione imposta, correlata non già alla concreta situazione del singolo contribuente, bensì al presupposto economico al quale l’obbligazione è correlata (Corte cost. 20 luglio 1994, n. 315), di modo che “è sufficiente che vi sia un collegamento tra prestazione imposta e presupposti economici presi in considerazione” (Corte cost. 21 maggio 2001, n. 155). Di qui altresì la non irragionevolezza della disposizione”. Infine, rileva uno dei passaggi conclusivi della pronuncia n. 3886 in cui i
24 ottobre 2001, fatto salvo quanto previsto dai commi da 48 a 54”.
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trustee e beneficiari erano diversi tra loro e anche dai disponenti. Qui la Corte si sofferma sulla devoluzione ai soggetti beneficiari: “Anche in un caso come quello in esame, in cui residua qualche margine di dubbio sulla devoluzione e sull’identità dei beneficiari dei beni residui, va rilevato che, se non è certo il relativo diritto in capo alla destinataria, è certo che questa fruirà delle utilità ritraibili dalla provvista: il che esclude in radice l’operatività del meccanismo condizionale”. Le osservazioni che ruotano intorno a questa affermazione partono proprio dal presupposto che la Suprema Corte non riesca ad inquadrare il fenomeno devolutivo dal punto di vista giuridico e soprattutto non attribuisca rilevanza alcuna alla posizione dei beneficiari. Affermare che non è certo che si tratti di un diritto ma di una qualsivoglia utilità idonea ad essere tassata viene da chiedersi allora dove si trovi la fonte di tale utilità. Perché come già ribadito da autorevole dottrina (35), anche se non del tutto condivisibile, sarebbe consentita l’anticipazione del prelievo collegata ad un arricchimento anche se futuro, considerandolo come diritto certo di conseguirlo. Questa ipotesi, tuttavia, pur richiedendo che si tratti sostanzialmente di un diritto di credito - diversamente da quanto sostenuto dalla giurisprudenza di merito che lo qualifica come un’aspettativa giuridica o in alcuni casi come un diritto sottoposto a condizione sospensiva - presta il fianco all’osservazione che allora il beneficiario avrebbe diritto di pretendere da subito il proprio credito (cosa non possibile peraltro) e comunque con una tutela limitata. La Corte, infatti, vuole distaccarsi da tale concetto riconoscendo due fattispecie distinte come vicende traslative assolutamente autonome dal punto di vista tributario, diversamente da come è sempre stato sostenuto guardando alla causa unitaria della fattispecie (36): “La materiale percezione dell’utilità, ossia, secondo la tradizionale impostazione, l’arricchimento, appartiene all’esecuzione del programma di destinazione, che, per conseguenza, non rileva ai fini dell’individuazione del momento del prelievo tributario sulla costituzione del vincolo, ma dopo, anche ai fini della eventuale riliquidazione delle aliquote e delle franchigie”. Ciò comporta che al momento della devoluzione dei beni ai beneficiari questi manifesterebbero una capacità contributiva derivante questa volta sì da un arricchimento dato dal possesso acquisito dei beni che consente di fatto una
(35) G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, Padova, 2008, 477. (36) A. Contrino, Trust liberali ed imposizione indiretta sui trasferimenti dopo le modifiche (l. n. 383/01) al tributo sulle donazioni, in Rass. Trib., 2004, 446 e ss.
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duplicazione inaccettabile dell’imposizione sul medesimo presupposto qualora tale “utilità” derivi dai medesimi beni. 7. Considerazioni a margine della struttura del tributo sulle successioni e donazioni. – Soffermandosi ora sui due passaggi relativi alla struttura del tributo e al profilo di legittimità costituzionale, si deve ribadire fermamente l’impostazione che ha da sempre caratterizzato il tributo inserito nel più ampio contesto delle imposte che colpiscono fattispecie traslative e che ritengono che la trasmissione di beni e diritti ne costituiscano il presupposto (37) oltre al necessario e contemporaneo depauperamento del disponente ed arricchimento del beneficiario. Un elemento comune è sempre stato rappresentato dal fatto che a prescindere da quale sia il presupposto l’oggetto del prelievo è un incremento patrimoniale. Ma questo incremento ha tanto più ragione di essere considerato quanto più sia attuale ed effettivo. E permangono perplessità in ordine ad entrambi i requisiti. Sul primo perché l’incremento sarà attuale solo quando realizzato ribadendo che quello del beneficiario è certamente un diritto a pretendere che gli venga devoluto il fondo in trust ma solo al momento dello scioglimento del trust medesimo. Un diritto che prima di quel momento non può essere preteso, dunque non arricchente e, come tale, non tassabile (su questo punto si vedano, però, più avanti le considerazioni sulla posizione giuridica del beneficiario). Ecco perché appare maggiormente coerente l’impostazione della giurisprudenza di merito (38) che individua tale situazione come un diritto dei beneficiari sottoposto a condizione sospensiva o quale aspettativa giuridica. La Corte rigetta questa impostazione con l’unica ragione per cui
(37) Cfr. C. Sacchetto, La donazione nel diritto tributario, in RDT, 1999, 1000. È noto che esistono in dottrina altre impostazioni che considerano l’arricchimento del chiamato all’eredità o del beneficiario il presupposto di tale tributo. Su tutti G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, Padova, 1993, 105. (38) In ordine alla tesi del diritto sottoposto a condizione sospensiva si vedano: Comm. trib. reg. Lombardia, sez. XXXIV del 12 maggio 2016, n. 2827; Comm. trib. reg. Lombardia, sez. XLIV del 19 settembre 2014 n. 4735; Comm. trib. prov. di Milano, sez. XVII del 5 febbraio 2014, n. 1213; Comm. trib. reg. Veneto, sez. VII del 27 novembre 2013, n. 90; Comm. trib. reg. Toscana, sez. XXIV del 11 aprile 2011, n. 77; Comm. trib. prov. di Milano, sez. XXV del 10 aprile 2015, n. 3221. In ordine alla tesi di una situazione qualificabile come aspettativa giuridica: Comm. trib. prov. di Milano, sez. XXV del 31 gennaio 2014, n. 1002, Comm. trib. prov. di Milano, sez. XXV del 11 marzo 2015, n. 2300; Comm. trib. prov. di Milano, sez. XXV del 26 novembre 2015, n. 9552; Comm. trib. prov. di Milano, sez. XXVI del 4 giugno 2015, n. 4999.
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la condizione sospensiva sarebbe riferita alla costituzione del vincolo e non avrebbe senso nel caso, ma ciò solo perché ha erroneamente inquadrato le vicende del trust non in una causa unitaria ma separatamente. Detto ciò la dottrina ritiene che la reintroduzione del tributo e le modifiche del 2006 non abbiano apportato cambiamenti se non per la costituzione dei vincoli di destinazione. Pertanto, i concetti di liberalità e donazione devono ritenersi integralmente richiamati e costitutivi della fattispecie. La tesi della Corte di un nuovo tributo autonomo è errata soprattutto perché non è stato creato un nuovo tributo ma semmai allargato lo spettro dei presupposti che ne possono imporre l’applicazione. È evidente che l’impostazione giurisprudenziale è imposta dalla necessità di tenere distinte le vicende del trust e tassarle autonomamente. È criticabile, altresì, per carenza di una visione sistematica della struttura di questa imposta poiché proprio l’accostamento della fattispecie costituita dal vincolo di destinazione a quella traslativa di beni o diritti non è e non può essere senza significato. Il trasferimento a titolo gratuito è tassabile per effetto e nei limiti in cui genera l’arricchimento del soggetto avente causa. Identicamente per necessaria simmetria avviene nel caso dei vincoli di destinazione tassabili solo ove si determini una prospettiva di un vantaggio patrimoniale tangibile in favore del soggetto beneficiario, diverso dall’autore del vincolo funzionale. Questa ricostruzione impone di tenere esclusi da tassazione tutti i trust non liberali che non prevedono l’arricchimento e il contemporaneo depauperamento di nessuno e nemmeno i trust auto-dichiarati in quanto privi di un reale trasferimento; a maggior ragione se poi come nei casi in esame i disponenti, trustee e beneficiari siano sempre gli stessi soggetti. E questo anche perché è la stessa norma che individua nei beneficiari i soggetti passivi dell’imposta. In un trust auto-dichiarato senza beneficiari o con beneficiari incerti verrebbe a mancare il soggetto passivo del tributo. 8. La determinazione della base imponibile secondo il requisito di effettività. – Ulteriore profilo, ricollegabile all’effettività della capacità contributiva manifestata è quello della determinazione della base imponibile. Il valore dei beni o diritti oggetto del vincolo come base imponibile del tributo nell’impostazione della Suprema Corte non rispettano tale principio. Sarebbe, invece, sostenibile se si considerasse il trust in una vicenda unitaria e il presupposto fosse appunto il trasferimento dei beni o diritti nel fondo in trust dovendo però adattarne la soggettività passiva. Questa ipotesi legittimerebbe un intervento legislativo orientato alla soggettività passiva del trust come nell’Ires coordi-
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nandosi così sistematicamente con il sistema delle imposte sul reddito. Tuttavia, nella ricostruzione della Corte che separa le vicende del trust, si prende a riferimento una utilità economica che nel caso di trust auto-dichiarati non può essere ragguagliata al valore dei beni perché non sarebbero questi né il presupposto né l’oggetto del tributo. È sufficiente prendere spunto dal medesimo caso sottoposto al giudizio della Corte laddove considera il vincolo di destinazione uno strumento per rafforzare una garanzia patrimoniale in luogo di una ipoteca o come fideiussione. In questo caso pretendere di accostare il valore del bene conferito all’utilità economica ricevuta è una presunzione inaccettabile ed inconciliabile con questo tributo. Sarebbe stato più coerente che la Corte indicasse i parametri, nel caso specifico, per riuscire a determinare effettivamente questa utilità che peraltro non è nemmeno accertato che sia ricorsa. Questi sono solo spunti de iure condendo che comunque non si conciliano con i termini strutturali del tributo delineati sopra che non può, dunque, prescindere dall’eventuale trasferimento di ricchezza unitariamente considerato nella fase devolutiva (39); ciò anche se in questi casi il presupposto fosse effettivamente la costituzione del vincolo di destinazione laddove però il momento impositivo è posticipato al ricorrere dell’effettivo arricchimento. Il fondamento di ciò lo si rinviene nel comma 49 dell’art. 2 del D.L. n. 262/06 (40) che, indicando la base imponibile, parla solo di beni e diritti – seppur ricollegabili anche alla costituzione di vincoli di destinazione – e non di utilità economica di cui non vi è traccia nel testo normativo. Ciò ha un significato. Ovvero la volontà del legislatore di non prescindere dal necessario e futuro trasferimento di ricchezza. 9. Incongruenze nel calcolo del tributo per inapplicabilità delle aliquote previste. – “In relazione all’aliquota applicabile, la misura dell’8% prevista dalla lettera c) del comma 49 della medesima norma, è imposta dalla sua na-
(39) In senso conforme T. Tassani, I trusts, op. cit., p. 144. (40) “Per le donazioni e gli atti di trasferimento a titolo gratuito di beni e diritti e la costituzione di vincoli di destinazione di beni l’imposta è determinata dall’applicazione delle seguenti aliquote al valore globale dei beni e dei diritti […] attribuiti: a) a favore del coniuge e dei parenti in linea retta sul valore complessivo netto eccedente, per ciascun beneficiario, 1.000.000 di euro: 4 per cento; a-bis) a favore dei fratelli e delle sorelle sul valore complessivo netto eccedente, per ciascun beneficiario, 100.000 euro: 6 per cento; b) a favore degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea retta, nonché degli affini in linea collaterale fino al terzo grado: 6 per cento; c) a favore di altri soggetti: 8 per cento”.
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tura residuale, non rientrando la figura del conferente, che seguita ad essere proprietario dei beni, in alcuna delle altre categorie previste dalla norma, che godono di aliquota inferiore”. (41) Tale affermazione appare destituita di totale fondamento giuridico. La sua presunta residualità non significa fare rientrare chiunque ma solo “altri soggetti” diversi dai parenti di cui alle lettere a) e b). Il problema si pone proprio nel trust auto-dichiarato laddove non vi è trasferimento e, per di più, nel caso in cui i beneficiari siano gli stessi disponenti/trustee (42). Pertanto, il rapporto disponente-beneficiario che correttamente bisognerebbe osservare viene inquadrato dalla Suprema Corte nella fattispecie residuale di altri soggetti perché non tipizzato il rapporto con sé stessi. L’affermazione è illogica e priva di sistematicità. Al di là della pratica osservazione che dire che un soggetto è terzo o “altro” rispetto a sé stesso è forse più attinente a questioni filosofiche che non di diritto positivo, la soluzione più coerente da seguire imporrebbe di ritenere che non esistendo un’aliquota prevista per il caso di specie, la norma non rispetti il principio di tassatività e di riserva di legge e, quindi, non sia possibile tassare la fattispecie. E d’altro canto verrebbe da osservare che, volendo proprio tassare, in un caso come quello in esame in cui rileva il “rapporto” tra un soggetto e sé medesimo questo stesso rapporto sarebbe comunque più stretto rispetto a quello con i discendenti in linea retta e, quindi, meriterebbe necessariamente un trattamento impositivo quantomeno equivalente a quello previsto per i rapporti in linea retta di cui alla lettera a) (aliquota al 4% e franchigia di euro un milione). Ulteriore considerazione che sovviene è che la Corte in questo modo finisce di fatto per escludere dalla tassazione il trust opaco. L’agenzia come noto tassa in questi casi il trust o il trustee come soggetto passivo con aliquota al 8%. Nell’ipotesi giurisprudenziale non rilevando il trasferimento ma l’utilità economica bisogna concretamente verificare allora se esiste un beneficiario che dovrebbe essere definito meglio come destinatario di un’utilità economica e non beneficiario di beni e diritti. Un’utilità economica effettiva e non presunta sulla base della costituzione del vincolo, ricollegabile sempre e comunque a un trust liberale; ciò perché in assenza di liberalità e/o animus donandi
(41) Cass. Civ., sez. VI, ord., n. 3737 del 2015. (42) Cfr. Comm. trib. reg. Lombardia, n. 2495/27/16 laddove afferma: “Vieppiù, corretta si palesa del pari l’aliquota applicata dall’ufficio nella misura dell’8% in quanto per l’identità tra beneficiano e disponente nella medesima persona della Sig.ra […], si applica l’aliquota residuale nella misura massima prevista dalla legge”.
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non vi può essere tassazione ai fini di questo tributo. 10. La giurisprudenza di legittimità della V sezione civile-tributaria della Corte Suprema di Cassazione del 2015 e 2016. – Successivamente alle pronunce della VI sezione civile sono susseguite due sentenze della V sezione tributaria della Suprema Corte di cui se ne evidenziano di seguito i passaggi essenziali (43). Con la sentenza n. 25478 (analogamente anche la n. 25479 e 25480) del 18 dicembre 2015 (che si occupa però di imposte di registro e ipo-catastali nei trasferimenti di beni nel fondo in trust ma le cui argomentazioni sono generali in termini di trasferimenti di ricchezza e relativa imposizione fiscale) la Corte statuisce al punto 7 terzo periodo: “[…] solo l’attribuzione al beneficiario può considerarsi, nel trust, il fatto suscettibile di manifestare il presupposto dell’imposta sul trasferimento di ricchezza”. Continua al punto 8 con alcuni passaggi fondamentali: “Il trust avente causa di liberalità, con attribuzione di beni al beneficiario, rientra nell’orbita civilistica delle donazioni indirette. La peculiarità è che l’arricchimento del beneficiario si realizza con la mediazione della causa fiduciaria cui è soggetta la previa attribuzione dei beni al trustee il quale è tenuto semplicemente ad amministrarli per poi devolverli ai beneficiari alla scadenza stabilita. In sostanza, laddove venga in considerazione un trust non oneroso (come nella specie è affermato dalla stessa amministrazione quanto al trust istituito dai genitori in favore dei figli), si è in presenza di una liberalità attuata mediante strumenti negoziali altri rispetto al negozio tipico di donazione, parimenti in grado di realizzare, benché indirettamente, oltre all’effetto proprio del trust di costituire il vincolo di destinazione, anche e soprattutto l’effetto finale di arricchimento senza corrispettivo del beneficiario. Effetto finale che identifica l’operazione ma che è differito nel tempo, e che si concretizzerà – anche ai fini dell’imposizione fiscale – nel momento dell’effettivo trasferimento di ric-
(43) In dottrina, in seguito a queste pronunce si vedano: L. Salvini, L’imposta sui vincoli di destinazione, in Rass trib., 2016, n. 4, 925 e ss.; D. Stevanato, Trust liberali e imposizione indiretta, uno sguardo al passato rivolto al futuro?, in Corr. trib., 2016, n. 9, p. 676 e ss.; Id. Tassazione fissa per il trust autodichiarato – Imposte indirette – Il new deal della Suprema Corte sull’imposizione indiretta del trust: giù il sipario sull’imposta sui vincoli di destinazione?, in GT, 2017, n. 1, p. 31 e ss.; T. Tassani, La Cassazione torna sull’imposta sui vincoli di destinazione, in Trusts e A.F., 2016, n. 4, p. 341 e ss.; Id., Trust e imposte sui trasferimenti: il “nuovo corso” della Corte di cassazione, in Trust e A.F., 2017, n. 1, 28 e ss.
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chezza al beneficiario”. Al punto 9 e 10 prosegue affermando che: “E in questo senso la precarietà dell’attribuzione al trustee cozza con l’idea della sottoposizione del vincolo all’imposta sui trasferimenti fin dalla sua costituzione. Il che è ancora più evidente laddove – come nella specie – sia designato come trustee uno dei disponenti. Invero se è lo stesso disponente a essere designato quale trustee, e se dunque si è in presenza un trust almeno in parte autodichiarato, il vincolo di destinazione sui beni si forma, per quella parte, all’interno dello stesso patrimonio della parte disponente. 10. – E allora può osservarsi che ove il trust in concreto si presenti come trust liberale, con il quale si dispone di assetti familiari in beneficio di terzi (i figli), è illogico affermare applicabile l’imposta sul trasferimento già al momento della istituzione del trust. È illogico perché non a tale momento è correlabile il trasferimento definitivo di ricchezza che in effetti rileva quale indice di capacità contributiva”. Con la sentenza n. 21614 del 26 ottobre 2016 ribadendo l’orientamento di cui alle sentenze citate nn. 25478, 25479 e 25480 e argomentando ulteriormente in ragione di una imposizione in misura fissa ai fini delle imposte di successione e donazione nonché ipo-catastali in attesa del trasferimento dei beni del fondo in trust ai beneficiari, afferma la Corte che: “Anche a prescindere dalle gravi incertezze cui le due riassunte interpretazioni danno ingresso [ordinanze 3735, 3737 e 3886 della sesta sezione del 2015] – per es. non è dalla legge individuato il soggetto passivo d’imposta ecc. – le stesse non appaiono condivisibili”. In particolare, sotto il punto 3 delle motivazioni, osserva la Corte con riferimento alla disposizione di beni nel fondo in trust: “Un reale trasferimento che è invece all’evidenza impossibile perché del tutto contrario al programma negoziale di donazione indiretta per cui è stato predisposto e che – come si ripete – prevede la temporanea preservazione del patrimonio a mezzo della sua “segregazione” fino al trasferimento vero e proprio a favore dei beneficiari. Per l’applicazione dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni manca quindi il presupposto impositivo della liberalità alla quale può dar luogo soltanto un reale arricchimento mediante un reale trasferimento di beni e diritti (D.Lgs. n.346 cit., art. 1)”. Secondo la Corte, con il D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47 e ss. “[…] è stata la reintrodotta imposta sulle successioni e sulle donazioni alla quale per ulteriore espressa disposizione debbono andare anche assoggettati i ‘vincoli di destinazione’, con la scontata conseguenza che il presupposto dell’imposta rimane quello stabilito dal D.Lgs. n. 346 cit., art. 1, del reale trasferimento
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di beni o diritti e quindi del reale arricchimento dei beneficiari. […] Nemmeno – come anticipato – può condividersi l’interpretazione letterale del D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47 e ss., adottata dalle rammentate ordinanze di questa Corte sez. 6^ al cui avviso sarebbe stata istituita un’autonoma imposta “sulla costituzione dei vincoli di destinazione” disciplinata merce il rinvio alle regole contenute nel D.Lgs. n. 346 cit., e avente come presupposto la loro mera costituzione. In verità neanche il dato letterale autorizza una tale conclusione, giacché ex art. 12 preleggi, comma 1, ‘il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse’ è proprio invece nel diverso senso che l’unica imposta espressamente istituita è stata la reintrodotta imposta sulle successioni e sulle donazioni alla quale per ulteriore espressa disposizione debbono andare anche assoggettati i ‘vincoli di destinazione’, con la scontata conseguenza che il presupposto dell’imposta rimane quello stabilito dal D.Lgs. n. 346 cit., art. 1, del reale trasferimento di beni o diritti e quindi del reale arricchimento dei beneficiari. Quella che in verità emerge chiara dal D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47 e ss., è la preoccupazione – nei più esatti termini di cui all’art. 12, comma 1, prel. sarebbe ‘l’intenzione del legislatore’ – di evitare che un’interpretazione restrittiva della istituita nuova legge sulle successioni e donazioni disciplinata mediante richiamo al già abrogato D.Lgs. n. 346 cit. potesse dar luogo a nessuna imposizione anche in caso di reale trasferimento di beni e diritti ai beneficiari quando lo stesso fosse stato collocato all’interno di una fattispecie tutto sommato di ‘recente’ introduzione come quella dei ‘vincoli di destinazione’ e quindi per niente affatto presa in diretta considerazione dal ridetto ‘vecchio’ D.Lgs. n. 346 cit. Questa sembra essere l’interpretazione non solo logicamente più corretta, ma anche quella che appare essere l’unica costituzionalmente orientata. E ciò atteso che l’art. 53 Cost., non pare poter tollerare un’imposta, a meno che non sia un’imposta semplicemente d’atto come per l’essenziale è per es. quella di registro, senza relazione alcuna con un’idonea capacità contributiva”. Tale ragionamento si estende, dunque, come precisa la Corte anche alle imposte ipotecaria e catastale oggetto di quel giudizio. In conclusione, la Corte elabora il seguente principio di diritto applicato al trust autodichiarato ma che in nulla differisce da un trust non autodichiarato in quanto il reale trasferimento si concretizza sempre con riferimento alla devoluzione dei beni dal fondo in trust ai beneficiari finali: “L’istituzione di un trust cosiddetto ‘autodichiarato’, con conferimento di immobili e partecipazioni sociali, con durata predeterminata o fino alla morte del disponentetrustee, con beneficiari i discendenti di quest’ultimo, deve scontare l’imposta
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ipotecaria e quella catastale in misura fissa e non proporzionale, perché la fattispecie si inquadra in quella di una donazione indiretta cui è funzionale la ‘segregazione’ quale effetto naturale del vincolo di destinazione, una ‘segregazione’ da cui non deriva quindi alcun reale trasferimento di beni e arricchimento di persone, trasferimento e arricchimento che dovrà invece realizzarsi a favore dei beneficiari, i quali saranno perciò nel caso successivamente tenuti al pagamento dell’imposta in misura proporzionale”. 11. Osservazioni critiche sugli orientamenti giurisprudenziali di legittimità. – Queste ultime pronunce, unitamente alle sentenze in commento, costituiscono indubbiamente il legittimo assetto costituzionalmente orientato che occorreva esplicitare in merito a queste fattispecie per tentare di ridurre la portata dirompente delle pronunce della V sezione che avevano prodotto l’effetto di invertire l’orientamento delle Commissioni di merito, ora finalmente riassestatosi sui suoi primi orientamenti (44) (seppur con qualche eccezione). Curiosamente proprio il richiamo all’art. 12 comma 1 delle disposizioni preliminari al codice civile giustifica per entrambe le sezioni della Suprema Corte un’interpretazione che si deve fondare sul tenore letterale della disposizione conducendo, però, a due soluzioni contrapposte. In un caso legittimando il significato dei vincoli di destinazione in termini di autonomia e nell’altro caso (in quella del 2016 della V sezione) svalutandolo unitamente ad un’interpretazione sistematica che lo vede solo in aggiunta come fattispecie idonea a generare il presupposto del trasferimento di cui all’art. 1 del D.Lgs. n. 346/90. Come accennato al termine del 3° paragrafo, il pericolo di un ripensamento della Suprema Corte sull’effettiva esistenza nel nostro ordinamento di un’imposta autonoma sui vincoli di destinazione non sembra sopito. In verità, il contrasto tra le ordinanze del 2015 e la sentenza n. 21614/16 è solo in parte perché ruota intorno alla fattispecie del vincolo di destinazione nel tributo successorio mischiato agli effetti traslativi. Ma se si ragiona in termini più astratti le ordinanze del 2015, pur con tutti gli errori interpretativi commessi, partono da un punto che non può essere così facilmente messo da parte. Ovvero la volontà del legislatore di tassare la costituzione del vincolo di destinazione. Peraltro, proprio l’ordinanza n. 3886 del 2015 lascia espressamente aperta la porta alla tassazione dell’attribuzione dei beni ai beneficiari finali oltre a quella sui vincoli di destinazione. Si
(44) Successivamente alla sentenza n. 21614/16, nella giurisprudenza di merito si sono
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sta parlando ovviamente di due fattispecie impositive completamente diverse. L’errore è stato, dunque, soprattutto in sede di conversione del D.L. n. 262/06, di inserire irresponsabilmente i vincoli di destinazione come presupposto – ma anche qui non è chiaro se si tratti di un presupposto o altro – nel tributo sulle successioni e donazioni. Il passaggio in cui la Corte nella pronuncia n. 21614/16 attribuisce all’inclusione dei vincoli di destinazione la portata di una preoccupazione latente del legislatore, cioè “Quella che in verità emerge chiara dal D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47 e ss., è la preoccupazione – nei più esatti termini di cui all’art. 12, comma 1, prel. sarebbe ‘l’intenzione del legislatore’ – di evitare che un’interpretazione restrittiva della istituita nuova legge sulle successioni e donazioni disciplinata mediante richiamo al già abrogato D.Lgs. n. 346 cit. potesse dar luogo a nessuna imposizione anche in caso di reale trasferimento di beni e diritti ai beneficiari quando lo stesso fosse stato collocato all’interno di una fattispecie tutto sommato di ‘recente’ introduzione come quella dei ‘vincoli di destinazione’ e quindi per niente affatto presa in diretta considerazione dal ridetto ‘vecchio’ D.Lgs. n. 346 cit..” lascia alquanto perplessi. In sostanza sembra potersi affermare che l’interpretazione costituzionalmente orientata operata dalla V sezione tributaria sia un’operazione che di fatto legittima la tesi della VI sezione di una interpretatio abrogans, svilente di una fattispecie, però, indubbiamente illegittimamente costituzionale. O forse più che di interpretatio abrogans bisognerebbe parlare di disapplicazione sostanziale in quanto diventa totalmente irrilevante la costituzione o meno dei vincoli di destinazione in un trust liberale ai fini della tassazione col tributo sulle successioni e donazioni. La riprova di ciò, se vogliamo, è data anche dall’inserimento in totale autonomia della costituzione di vincoli di destinazione nell’art. 1 del D.Lgs. n. 346/90 ad opera dell’art. 6 della proposta di legge del 3 ottobre 2017 depositata alla Camera dei Deputati nella passata legislatura a firma dell’On.
espresse conformemente: Comm. trib. reg. Lazio, sez. XI del 9 maggio 2018, n. 3059; Comm. trib. reg. Abruzzo, sez. III del 8 maggio 2018, n. 431; Comm. trib. reg. Lombardia, sez. XV del 29 marzo 2018, n. 1399; Comm. trib. reg. Milano, n. 4337/19/17, Id., n. 6758/12/16, Comm. trib. prov. di Milano, n. 6351/3/16, Id., n. 5711/6/17, Id., n. 1468/2/17, Comm. trib. prov. di Napoli n. 7725/26/17, Comm. trib. prov. di Brescia, n. 490/2/17, Comm. trib. prov. di Treviso, n. 124/3/17, Comm. trib. prov. di Pesaro, n. 327/2/17, Comm. trib. prov. di Bologna, n. 221/1/17, Id., n. 213/1/17, Comm. trib. prov. di Pesaro, n. 387/2/17.
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Bernardo (45) e assegnata alla VI Commissione Finanze in sede Referente il 15 novembre 2017, suddivisa in 12 articoli (non approvata). Rimane da accennare ad un passaggio finale della sentenza n. 975/18 qui in commento, in cui la Suprema Corte in termini apparentemente ambigui (o meglio privi di senso in quel preciso passaggio prima di concludere per l’accoglimento del ricorso) afferma: “Va considerato, inoltre, che la fattispecie in esame ratione temporis non è disciplinata dal D.L. n. 262 del 2006, art. 2, commi 47 e 49, convertito con modificazioni dalla L. n. 286 del 2006, che reintroducendo l’imposta sulle donazioni e successioni (viene espressamente richiamato il D.Lgs. n. 346 del 1990) assoggetta all’imposta anche la ‘costituzione di vincoli di destinazione di beni’”. Questa asserzione non può non far ripensare ai differenti orientamenti interni alla Corte di cassazione civile (sezione sesta e sezione tributaria, esaminati nei paragrafi precedenti), divisa tra chi sostiene che l’atto istitutivo di trust debba essere assoggettato, a prescindere, all’imposta sulle successioni e donazioni in ragione della costituzione del vincolo di destinazione e chi, invece, collega il presupposto al realizzarsi della capacità contributiva ex art. 53 della Costituzione. A prima vista sembrerebbe che la Corte con questa affermazione ritenga che se si fosse stati sotto la vigenza di quest’ultima imposta allora il trasferimento avrebbe realizzato una fattispecie imponibile da tassare in misura proporzionale (46). Tuttavia, considerando che questa sentenza ribadisce l’orientamento del precedente n. 21614/16, sembra più corretta una lettura sistematicamente orientata tale per cui il vincolo di destinazione costituisce un ulteriore presupposto che necessita comunque del trasferimento del bene con arricchimento attuale del beneficiario. Se come detto la Suprema Corte non ha brillato in queste pronunce per chiarezza espositiva, conferme o necessari punti fermi da attribuire, una riprova ancor più netta di questa confusione interpretativa è data da una recente pronuncia della Suprema Corte (47) avente ad oggetto il trasferimento di
(45) Alla data del 14 agosto 2018 il testo è rinvenibile seguendo il link: http://www.camera.it/leg17/126?tab=&leg=17&idDocumento=4675&sede=&tipo=. (46) Il riferimento a questa imposta, se così fosse, sarebbe peraltro impreciso visto che la Suprema Corte, sezione sesta civile, con le ordinanze n. 3735, n. 3737, n. 3886, n. 5322 del 2015 e n. 4482 del 2016 aveva ritenuto che vi fosse un’imposta autonoma e diversa sulla costituzione dei vincoli di destinazione diversa da quella sulle successioni e donazioni. (47) Cass. Civ., sez. trib., 30 maggio 2018, n. 13626. Si badi che l’udienza si è tenuta il giorno 4 maggio 2018, ovvero quello successivo alla pronuncia n. 15469/18 qui in commento. I differenti estensori di queste due pronunce erano entrambi presenti nel collegio giudicante in quelle udienze: un segno evidente di parziale omogeneità e difformità di metodo e argomenta-
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quote di partecipazione (da parte di una S.p.a.) in una S.r.l. in trust al fine di liquidare i beni nell’interesse dei creditori della S.p.a. disponente. L’Agenzia delle Entrate rettificava la liquidazione operata dal notaio emettendo nei suoi confronti un avviso di liquidazione con il quale si richiedeva l’imposta sulle successioni e donazioni all’8%, invece di quella di registro in misura fissa liquidata dal notaio e giustificata nell’atto istitutivo con una base imponibile pari a zero in ragione della non liberalità del trasferimento e tenuto conto degli obblighi gravanti sul Trustee, avente l’incarico di alienare le quote al solo fine di pagare i debiti della disponente. La CTP di Firenze e la CTR della Toscana rigettavano il ricorso e l’appello del notaio che ricorre per Cassazione, deducendo nel motivo più rilevante che il trust non costituirebbe un vincolo di destinazione e non dovrebbe essere soggetto, pertanto, a tassazione ai fini del tributo sulle successioni e donazioni (48). La Suprema Corte dopo aver ricostruito l’istituto del trust e richiamato i precedenti e difformi orientamenti del 2015 e del 2016 - qui già ampiamente esposti – afferma di condividere l’ultimo orientamento del 2016 di cui alla pronuncia n. 21614/16 pervenendo però a conclusioni contraddittorie: “Il Collegio ritiene di condividere il secondo orientamento sopra riferito. La lettura del dato normativo fiscale, il quale deve tenere in debito conto il sistema fiscale complessivo e le ragioni di ordine costituzionale, legate alla capacità contributiva ex art. 53 Cost. fanno ritenere legittima l’applicazione dell’imposta prevista dal TU n. 346/90 qualora, come nella specie, il trasferimento a favore dell’attuatore faccia emergere la potenziale capacità economica del destinatario (immediato) del trasferimento”. Nelle motivazioni si comprende, infatti, che la Corte (o meglio l’estensore) condivide questo orientamento solo nella parte in cui si tratti di trust autodichiarato (laddove la coincidenza del disponente e del trustee fanno venire meno il trasferimento). Nel caso in cui vi sia un trasferimento tra un disponente e un trustee diversi tra loro – essendo irrilevante che si tratti di un trasferimento caratterizzato da liberalità o meno, allora: “Coerentemente con la natura e l’oggetto del tributo, sono rilevanti i vincoli di destinazione in grado di determinare effetti traslativi in vicende non onerose, collegati al trasferimento di beni e diritti, che realizzano un incremento stabile, misurabile in moneta, di un dato
zione all’interno del medesimo collegio giudicante di 5 membri, dove la posizione dell’estensore sembra prevalere sulla doverosa uniformità del Consesso. (48) Comm. trib. prov. Firenze, sez. IV, n. 126 del 2009 (dal testo della sentenza non si rinviene la data del deposito); Comm. trib. reg. Toscana, sez. XXV del 24 settembre 2010.
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patrimonio con correlato decremento di un altro. Il vincolo di destinazione, in tal caso è idoneo a produrre un effetto traslativo funzionale al (successivo ed eventuale) trasferimento della proprietà dei medesimi beni vincolati a favore di soggetti beneficiari diversi dal soggetto disponente” senza alcun effetto di segregazione del bene. In tal modo, il vincolo di destinazione assume un rilievo autonomo, rispetto alle altre fattispecie assoggettate al tributo, che hanno solo portata destinatoria con conseguente effetto di segregazione o separazione del bene, il quale rimane però nel patrimonio del disponente (in tal senso si è espressa Cass. 21614/2016 con riferimento all’istituzione di un trust cosiddetto “autodichiarato”). Nella specie i contraenti vollero il reale trasferimento delle quote e dei relativi diritti al trustee, sia pure ai fini della liquidazione e quindi il reale arricchimento del beneficiario. È quindi corretta l’applicazione dell’imposta nella misura dell’8% prevista dalla lett. c) del comma 49 del D.L. n. 262 del 2006 che sottopone all’imposta di donazione la costituzione di vincoli di destinazione con beni devoluti a soggetti diversi da quelli previsti nelle lettere a), a bis) e b). Sebbene la Corte dichiari di aderire all’orientamento della sentenza n. 21614/16 in verità aderisce a quello delle aberranti ordinanze del 2015 con il “correttivo” di esonerare apparentemente dalla tassazione le sole fattispecie di trust autodichiarato. Infatti, non dà alcuna rilevanza alla liberalità o meno del trasferimento. Si potrebbe dire che si tratti di un terzo orientamento. Ritenendo che sia opportuno valutare questa pronuncia come caso isolato permane indubbiamente l’esistenza di interpretazioni molto diverse (e spesso errate come in questo caso) all’interno della Suprema Corte. A tale pronuncia si possono muovere tutte le critiche già esposte nei confronti delle ordinanze del 2015 e in particolar modo sul principio di capacità contributiva. 12. 12. Conclusioni. – Conclusivamente, si ritiene che il percorso più lineare sarebbe stato, già da tempo, quello di investire la Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale piuttosto che il susseguirsi di una serie di pronunce con interpretazioni difformi e spesso poco chiare al fine di risolvere giuridicamente in modo discutibile (sotto questi profili si intende), e non certo definitivamente, problematiche ancora vive e spinose. E questa critica vale, naturalmente, nei confronti di tutte le pronunce di legittimità intervenute che hanno preferito una rigida e autonoma “dialettica” interpretativa interna ad una sezione della Corte piuttosto che la via più giuridicamente lineare e sostenibile appena accennata. Una presa di posizione più netta, limitandosi ad affermare l’intenzione del
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legislatore di tassare i vincoli di destinazione in via autonoma, pur evidenziandone tutte le criticità e irrazionalità, sarebbe stata maggiormente coerente con il dettato normativo piuttosto che sforzarsi di limitare la portata dei vincoli a mera fattispecie generatrice di trasferimento di beni o diritti. Del resto, il tributo sulle successioni e donazioni tassa il trasferimento di beni e diritti per mezzo di atti tra vivi o mortis causa o altre fattispecie tassativamente indicate. La tassazione anche in assenza dell’integrazione dei vincoli di destinazione poteva esserci o meno, comunque, in ragione della struttura generale del tributo. In questo modo, invece, davvero si giustifica quella paventata interpretatio abrogans delle pronunce delle VI sezione che non tolleravano l’idea che i vincoli di destinazione non significassero normativamente nulla. Il vero passo in avanti sarebbe stato quello del riconoscimento della reale intenzione del legislatore con una manifesta critica verso una legislazione inaccettabile che tenta di tassare un fenomeno senza costruirne la struttura giuridica adeguata intorno in ossequio agli art. 23 e 53 della Costituzione. Il ragionamento che si è cercato di delineare sino ad ora è un tentativo di valorizzare l’aspetto e la funzione formale del diritto. Naturalmente con ciò non si vuole sostenere che la tassazione della costituzione del vincolo di destinazione in sé per sé sia legittima. Tutt’altro, la personale presa di posizione è assolutamente in linea con quella della dottrina prevalente. Tuttavia, non si può negare che sotto un profilo formale e assolutamente astratto una tassazione del vincolo di destinazione la si potrebbe anche immaginare. Un esempio potrebbe essere dato dal fatto che in un trust di garanzia l’utilizzo di un bene personale del disponente trasferito al trust e in esso vincolato in luogo della costituzione di una ipoteca sul medesimo a favore di un ente creditizio possa far conseguire una utilità (anche solo in termini di risparmio di imposta comparando le due soluzioni di garanzia); un’utilità che può essere quella che rimarca anche la Corte di Cassazione sezione VI nelle ordinanze del 2015. Il problema semmai è un altro. Come può una norma generale ed astratta disciplinare a priori una casistica, nella quale le utilità, semmai vi possono essere e solo esaminandole caso per caso (basta chiedersi, ad esempio, dove sia l’utilità economicamente apprezzabile nella mera segregazione patrimoniale del bene), sarebbero totalmente variegate, differenti e, soprattutto, difficilmente misurabili? Quindi, se astrattamente il diritto non impedirebbe la struttura di un tributo autonomo per la costituzione di vincoli di destinazione, dall’altro lato sembra praticamente impossibile poter rispettare i dettami dell’art. 23 e 53 della Carta costituzionale riuscendo a individuare i criteri di determinazione della base imponibile nonché la reale capacità contributiva. Una posizione dottrinale ritiene, e ad avviso di chi scrive in termini
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condivisibili, che la Cassazione sez. VI nelle ordinanze del 2015 abbia “fatto un rilevante passo indietro, perché non si limita a negare che il legislatore abbia voluto introdurre un’autonoma e generale imposta sulla ‘mera’ «costituzione di vincoli di destinazione o di indisponibilità» affermata soltanto un anno fa, ma rinnega, di fondo, che il legislatore abbia inteso tassare proprio quell’oggetto e, prima ancora, la possibilità stessa di compiere una scelta normativa di questo tipo, costituzionalmente legittima” (49). Meno condivisibile (50), almeno con riferimento al nostro ordinamento giuridico (sicuramente quello anglosassone più facilmente è in grado di ancorare la tassazione ad un fatto economico in termini esclusivamente oggettivi) per le ragioni poc’anzi indicate (e soprattutto perché la fattispecie è riferita normativamente a soggetti passivi ben individuati dalla norma) è l’idea di fondo espressa da questo autore laddove individua una diversa via per collegare la capacità contributiva insita nella mera costituzione di vincoli di destinazione non in capo ai soggetti implicati nella vicenda ma nella situazione giuridico-economica non soggettiva cui è asservito il vincolo di rilevanza economica (51). Le ultime sentenze di legittimità del 2018 non si distinguono certo per portata innovativa (come terzo orientamento con correttivo forse la n. 13626/18 sì) né chiarificatrice, pertanto si avverte con sempre maggiore insistenza la necessità di un intervento legislativo in materia, organico, consapevole e coerente con i principi costituzionali e, nel frattempo, un doveroso rinvio alle Sezioni Unite della Suprema Corte.
Luca Sabbi
(49) C. Scalinci, Dalla “pigra macchina” legislativa al dietrofront della Cassazione sull’esistenza di un’imposta “sulla costituzione dei vincoli di destinazione, in Riv. Dir. Trib., 2017, n. 1, 71. (50) Sul punto, così, anche A. Fedele, Vincoli di destinazione, op. cit., 54 e nota 16. (51) C. Scalinci, op. cit., 70 e 71 e nota 16.
Cass. civ., Sez. V, 6 dicembre 2017 - 24 aprile 2018, n. 9993; Pres. Cappabianca; Rel. Dell’Orfano Questioni generali – Accertamento – Termini di decadenza – Rettifica di quote di ammortamento o di costi pluriennali – Ragioni di indeducibilità rilevabili già dal primo periodo di deduzione – Decadenza dal potere di rettificare la dichiarazione di detto periodo – Rettifica delle quote dedotte in dichiarazioni successive – Illegittimità Benché la decadenza dal potere di accertamento sia riferita dall’art. 43, d.p.r. 600/1973 ad ogni singola dichiarazione annuale, se l’ufficio tributario vuole contestare la deducibilità in sé di un costo pluriennale o ammortizzato (e non solo la determinazione di una singola quota di esso) deve rettificare, entro il relativo termine, la dichiarazione del periodo in cui tale costo è stato originariamente sostenuto o l’ammortamento è stato iscritto in bilancio, risultando altrimenti preclusa detta contestazione per gli esercizi successivi. (1)
(Omissis) In controversia concernente avviso di accertamento Irpef ed Irap per l’anno 2007, teso al recupero a tassazione a carico della S.p.A. … di quota di ammortamento del valore dei beni (rete ed quota ammortamento del valore di impianti dell’acquedotto di proprietà del Comune di …) oggetto di concessione d’uso, in suo favore, per la durata di 29 anni (pur riconoscendosi il diritto della società alla deduzione del correlativo canone periodico di concessione), la C.T.R. della Lombardia ritenne legittima la ripresa dell’Agenzia e, tuttavia, fondata la censura subordinata della società, mirante all’applicazione di interessi e sanzioni per incertezza della normativa. Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione in due motivi, censurando la sentenza impugnata in relazione al capo con cui era stata disposta la disapplicazione degli interessi e delle sanzioni per obiettiva incertezza della normativa. La società contribuente ha resistito e proposto ricorso incidentale. La ricorrente incidentale, col primo motivo, ha denunciato ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 3, c.p.c. violazione e falsa applicazione dell’artt. 43 del d.p.r. 600/1973, per non aver la C.T.R. riscontrato l’intervenuta decadenza del potere impositivo dell’Agenzia ai sensi della disposizione evocata pur vertendosi in tema di recupero, operato con atto notifi-
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cato il 5 dicembre 2011, di rata di ammortamento iscritto per la prima volta in bilancio nell’anno 1998 e mai in precedenza contestato. Col secondo motivo, ha denunciato – ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 3 c.p.c. – violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 103, cc. 2 e 4 t.u.i.r., 102, comma 8, t.u.i. r. e 17, commi 51-56, L. 15 maggio 1997 n. 127, per avere la C.T.R. affermato l’illegittimità della deduzione delle quote di ammortamento del diritto immateriale di concessione iscritto in bilancio, erroneamente presupponendo che ciò implicasse ingiustificata «duplicazione» della deduzione del canone periodicamente corrisposto per l’utilizzo dei beni concessi in uso in base alle disposizioni contrattuali. La società contribuente ha, altresì, illustrato le proprie ragioni con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. Ragioni della decisione. 1. Va, innanzitutto, esaminato il ricorso incidentale, proposto dalla società contribuente, giacché le relative doglianze presentano carattere logicamente prioritario rispetto a quelle dedotte con il ricorso principale. 2.1. Al riguardo, occorre premettere che l’art. 43, comma 1, d.p.r. 600/1973, riferibile ai controlli sostanziali ai successivi avvisi di accertamento (così come, del resto, l’art. 25, comma 1, lett. b, d.p.r. n. 602/1973, specificamente riferibile ai controlli formali ex art. 36 d.p.r. 600/1973 e alle relative cartelle di pagamento) sancisce la decadenza dell’Agenzia dal potere impositivo una volta che sia decorso il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata dichiarazione. 2.2. Attese le contrapposte deduzioni delle parti e considerato che in concreto il recupero dell’Agenzia si fonda, non sull’inesatta definizione dell’entità del singolo rateo (in cui il costo è stato frazionato), ma sulla radicale indeducibilità del costo sostenuto, si tratta, dunque, di stabilire se – in ipotesi di costi che danno luogo a deduzione frazionata in più anni (nella specie: costi ammortizzati) – la decadenza in danno dell’Agenzia maturi con il decorso del 31 dicembre del quarto anno successivo a quello della dichiarazione di ciascun specifico rateo (come sostiene l’Agenzia) ovvero con il decorso del 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione relativa al periodo fiscale in cui il costo è stato sostenuto e l’ammortamento è iniziato a decorrere (come sostiene la società contribuente). 2.3. La prima soluzione sembrerebbe trovare apparente conforto in una meccanicistica applicazione del criterio di autonomia dei periodi d’imposta, secondo quale a ciascun periodo d’imposta corrisponde un’autonoma obbligazione tributaria (art. 7 d.p.r. 917/1986); giacché in tale prospettiva, rientrando nel potere dell’Amministrazione Finanziaria procedere al controllo delle singole dichiarazioni in relazione a ciascuna annualità d’imposta, il fatto che l’Agenzia delle Entrate non abbia provveduto al controllo della dichiarazione dei redditi con riferimento alle annualità d’insorgenza e di originaria esposizione dei costi non implicherebbe che l’Amministrazione non possa procedere alla verifica della posizione fiscale del contribuente per gli anni successivi e dunque per le annualità per le quali tale potere non risulti ancora perento. 2.4. Deve, tuttavia, osservarsi che il criterio dell’autonomia dei periodi d’imposta non rileva in termini assoluti ed incondizionatamente, atteso che, come ha posto ben
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in evidenza la giurisprudenza in tema di efficacia espansiva del giudicato su annualità diversa da quella oggetto della decisione definitiva (cfr. Cass. n. 4832/15, 21395/17), esso non opera in relazione a situazioni geneticamente unitarie e, tuttavia, comunque destinate a ripercuotersi su annualità successive. 2.5. Va, d’altro canto, considerato che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 80/05 (rectius: 280/05, n.d.a.), da cui è derivata l’adozione della vigente disciplina in tema di decadenza dell’Agenzia dal potere impositivo, ha ribadito (cfr., anche Corte Cost. ord. 352/04) che, nella prospettiva di cui all’art. 24 Cost., è conforme a Costituzione, e va ricercata dall’interprete, soltanto una ricostruzione del sistema che non lasci il contribuente esposto all’azione esecutiva del fisco per termini eccessivamente dilatati ed ha nel contempo, a tal fine, rilevato la congruità del termine, sancito dall’art. 43, comma 1, d.p.r. 600/1973, al quale, in forza del 330/1994, va corrispondentemente rapportato l’obbligo di conservare i documenti allegati alla dichiarazione. 2.6. Ne discende che, in ipotesi di costi che danno luogo a diritto a deduzione frazionata in più anni e di quote di ammortamento, la decadenza in danno dell’Agenzia deve ritenersi necessariamente maturare con il decorso del 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione relativa ai periodi fiscali in cui i costi sono stati concretamente sostenuti e l’ammortamento è stato iscritto a bilancio, venendosi, altrimenti, a violare lo stesso dictum di Corte Cost. 280/05; è alle anzidette annualità che si ricollegano, infatti, i presupposti del diritto alla deduzione e, quindi, il diritto medesimo nel suo definitivo valore (mentre il frazionamento interferisce solo sul relativo mero esercizio) e la predisposizione della documentazione giustificativa. 2.7. Nel senso indicato, sembra militare anche Cass. 3304/99, citata sia dalla sentenza impugnata sia dalla controricorrente; secondo tale decisione infatti, se è pur vero che ogni esercizio è autonomo, la rettifica della quota d’ammortamento non è più possibile qualora non dipenda da erroneità della sua determinazione (perché superiore a quanto inizialmente previsto, o malamente calcolata) e erroneamente l’Ufficio non abbia mai proceduto al disconoscimento dell’iscrizione nel bilancio del costo da ammortizzare negli anni successivi. 2.8. Né, in senso contrario, sembrano poter assumere rilievo Cass. 15178/10 o Cass. 12880/08, giacché da esse appare potersi solo trarre l’assunto, non in linea con quello preteso dall’Agenzia (se non opposto ad esso), che, in presenza di posta contabile destinata a riflettersi per una pluralità di annualità successive, solo la relativa tempestiva contestazione (ancorché generica e non traducentesi per l’anno di riferimento in concreta pretesa impositiva) vale a precludere eventuali decadenze per gli anni successivi. 3. Applicando tali principi al caso in esame, se ne desume che, essendo stata effettuata l’iscrizione in bilancio del diritto di concessione d’uso nel 1998 ed essendo state dedotte le quote di ammortamento negli anni successivi fino al 2007, che è l’anno oggetto di contestazione, era di conseguenza precluso all’Ufficio rettificare nel 2011
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(anno di notifica dell’accertamento per l’esercizio 2007) le quote di ammortamento deducibili nei successivi esercizi, non ricorrendo affatto nella fattispecie un’ipotesi di errato calcolo, come invece affermato dalla CTR, ed essendo stata effettuata la rettifica del criterio di iscrizione del valore di bilancio in oggetto oltre i termini di decadenza sanciti dall’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973. (Omissis)
(1) Termini di decadenza per l’accertamento relativo a costi pluriennali: una sentenza opinabilmente garantista. Sommario: 1. La questione, la giurisprudenza di merito e la soluzione individuata dalla Cassazione. – 1.1. Scarsa persuasività delle ragioni addotte dalla presente sentenza riguardo all’autonomia dei periodi d’imposta, al consolidamento del contenuto della dichiarazione, all’esercizio “frazionato” del diritto a dedurre componenti negativi. – 1.2. (segue) La giurisprudenza richiamata nella sentenza non è idonea a sostenerne le conclusioni e non comprende un precedente difforme. – 2. Il potere impositivo, anche in caso di rettifica di componenti di reddito pluriennali, è esercitabile entro il termine fissato con riferimento a ciascuna dichiarazione nella quale essi abbiano assunto rilievo; la disciplina del dovere di conservazione di documenti e scritture non ostacola questa conclusione. – 3. Se la rettifica di componenti di reddito pluriennali è basata su fatti così remoti che sia cessato il dovere di conservarne la documentazione ex art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, il soggetto passivo potrà esercitare il suo diritto di difesa anche avvalendosi di mezzi diversi. Secondo questa decisione, i componenti di reddito ad efficacia pluriennale non possono essere più contestati dall’amministrazione finanziaria quando sia diventata definitiva la dichiarazione dei redditi in cui sono stati inseriti per la prima volta. Questa conclusione, però, non è conforme alle regole sui termini di decadenza e non trova sufficiente sostegno nella giurisprudenza di legittimità in tema di efficacia esterna del giudicato, né in quella su questioni affini. Nemmeno appare pertinente la giurisprudenza costituzionale citata dalla sentenza, perché riguarda i limiti temporali ai controlli ex art. 36-bis d.p.r. 600/1973. Né sembra decisiva l’idea che il diritto alla deduzione, conseguito in un determinato anno, sia semplicemente esercitato in modo “frazionato” in quelli successivi. Una così rigida preclusione al potere di controllo non è necessaria per evitare violazioni del diritto di difesa, potendo il contribuente con l’ordinaria diligenza conservare la documentazione necessaria ad adempiere il suo onere probatorio. Un ostacolo a quest’ultima conclusione, che però la sentenza non prende in considerazione, sorge dall’art. 8, co. 5, dello Statuto del contribuente, perché questo pone un limite di dieci anni al dovere di conservazione di atti e documenti, e ciò può indurre il contribuente a privarsi in buona fede di prove a suo favore quando il termine per la rettifica sia ancora aperto. La soluzione a questo problema non consiste nel porre quei dieci anni anche come termine massimo per esercitare il potere di accertamento su componenti di reddito ad efficacia pluriennale, ma nel coordinare il limite temporale del dovere di conservazione di atti e documenti con i principi in tema di onere della prova: va escluso cioè che una documentazione per la quale tale obbligo sia cessato possa essere considerata l’unica prova ammissibile di un fatto che il contribuente abbia l’onere di dimostrare.
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According to this judgement, long-term expenditures and revenues can no longer be challenged by Revenue Service, once the period of limitations for audit on the tax return, in which they have been inserted for the first time, has expired. This finding is not consistent with rules about limitation period for tax inquiries and it has no adequate legal basis in case law of S. C. about the effects of final judgements or about similar cases. Even case law of Constitutional Court about time limits for examinations under art. 36-bis d.p.r. 600/1973 seems not relevant. Also the idea that a right to multi-annual deduction of costs is gained in a certain year, and then merely exercised in following years, seems not decisive. A prohibition of Revenue Service’s examinations is not necessary in order to protect the right of defence, as taxpayers, using due diligence, can understand which reference materials they have to keep in order to meet their burden of proof. A problem (which this finding does not consider) arises from art. 8, par. 5 of Taxpayer Bill of rights, which enshrines a period of limitations of ten years for the duty of keeping records, so that a taxpayer could in good faith get rid of documentary evidence while audit can still be performed. The correct solution is not assuming ten years as the period of limitations for audit on long-term expenditures, but coordinating art. 8, par. 5 of Taxpayer Bill of rights with the rules concerning the burden of proof: a document for which that period has expired cannot be necessary to meet that burden.
1. La questione, la giurisprudenza di merito e la soluzione individuata dalla Cassazione. – La sentenza in epigrafe affronta un problema di indubbio rilevo pratico: può l’amministrazione finanziaria rettificare una dichiarazione (ovviamente, entro il relativo termine) contestando un componente di reddito derivante da una fattispecie ad efficacia pluriennale (ad esempio, una quota di ammortamento), in base ad una diversa ricostruzione o qualificazione giuridica dei fatti costitutivi di esso (e degli effetti prodotti negli anni successivi), se tali fatti siano avvenuti in un periodo d’imposta anteriore, la dichiarazione del quale non sia più rettificabile a causa della decadenza dal potere impositivo (1)? A prima vista, parrebbe ovvio risolvere la questione osservando che l’art. 43, co. 1°, d.p.r. 600/1973 prevede un termine di decadenza decorrente dalla presentazione di ciascuna dichiarazione, senza porre regole ad hoc per i componenti pluriennali. In effetti, la prevalente giurisprudenza di merito sembrava riconoscere il potere dell’amministrazione finanziaria, ad esempio, di conte-
(1) Come è noto, il termine di decadenza per l’esercizio del potere di rettifica di una dichiarazione dei redditi, in base alla disciplina generale dell’art. 43, co. 1°, d.p.r. 600/1973, scade il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la presentazione di essa (il riferimento è al quarto anno, per gli accertamenti relativi ai periodi d’imposta fino al 2015: cfr. art. 1, co. 131 s., l. 28 dicembre 2015, n.208).
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stare in radice la deducibilità dell’ammortamento di un certo bene strumentale, al fine di rettificare le dichiarazioni rispetto alle quali la decadenza non si fosse ancora verificata (ma non quelle di periodi già definiti) (2). Anche le precedenti decisioni di legittimità sul tema, sia quelle citate dalla sentenza in epigrafe (3), sia una più recente da essa trascurata (4), non mi sembrano (diversamente da quanto si sostiene nella decisione qui annotata) in contrasto con tale conclusione: ma di ciò conviene trattare più avanti, al par. 1.2. Va piuttosto osservato fin d’ora come, in alcuni casi concreti, a rendere più spinosa la questione del termine per la rettifica fosse il fatto che, secondo l’amministrazione finanziaria, il contribuente avrebbe dovuto provare i requisiti per la deduzione di certi componenti negativi mediante i documenti d’acquisto, dei quali però tale soggetto si era privato, convinto di poterlo fare senza problemi, una volta cessato l’obbligo di conservarli. In effetti, la disciplina della decadenza dell’amministrazione finanziaria è concettualmente distinta da quella del dovere dei soggetti passivi di conservare la documentazione fiscalmente rilevante, ma l’art. 22, co. 2°, d.p.r. 600/1973 (5) fa cessare tale obbligo con la definizione degli accertamenti riguardanti il “corrispondente periodo d’imposta”. Pertanto, se nel periodo previsto dall’art. 43, d.p.r. 600/1973 non sia stato notificato alcun avviso di rettifica di una certa dichiarazione, il contribuente può ritenere di non essere più obbligato a conservare la documentazione utilizzata per predisporla (6). Inoltre, mentre il riferimento dell’art. 22, d.p.r. 600/1973 ad un “corrispondente periodo” potrebbe apparire ambiguo riguardo ai documenti relativi a componenti di reddito pluriennali, lasciando il dubbio se vi sia tale “corrispondenza” per ciascuno dei successivi periodi d’imposta nei quali essi as-
(2) Cfr. Comm. I grado Trento, 13 gennaio 2011, n. 7/2/11, in il fisco, 2011, 1, p. 1060 e Comm. Trib. Reg. Bari, sez. XXIII Lecce, 1 giugno-14 settembre 2012 n. 175, in il fisco, 2012, 1, 6146 ss., con commento di A. Borgoglio, Accertamento delle imposte e obblighi di tenuta delle scritture contabili. (3) In particolare, Cass., Sez. trib.,12 dicembre 2008/11 febbraio 2009, n. 3304, Cass., Sez. trib., 10 gennaio/21 maggio 2008, n. 12880 e Cass., Sez. trib., 18 febbraio/23 giugno 2010, n. 15178. (4) Cioè Cass., Sez. trib., 19 gennaio/13 maggio 2016, n. 9834. (5) Ai sensi del quale (e dell’art. 39, co. 3°, d.p.r. 633/1972 che ad esso fa rinvio ai fini iva), i contribuenti devono conservare le scritture contabili obbligatorie, nonché lettere, telegrammi e fatture relativi a ciascun affare “fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo d’imposta”, salva, in caso di controversia, la possibilità che la commissione tributaria limiti l’obbligo alle scritture rilevanti per la decisione. (6) Nel senso che l’obbligo di conservazione sia percepito dai soggetti passivi come un
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sumano rilevanza, l’art. 8, co. 5, l. 212/2000, Statuto del contribuente, pone chiaramente all’obbligo di conservazione di atti e documenti (7) a soli fini tributari un limite massimo di dieci anni da quando siano stati emanati o formati, del tutto indipendente dal termine di decadenza del potere di accertamento. Occorre però osservare come quest’ultimo termine, nel delimitare l’obbligo di tenere a disposizione dell’amministrazione finanziaria, per eventuali controlli, un insieme di documenti, una volta scaduto escluda che il contribuente possa subire le conseguenze previste per la violazione di tale dovere (in particolare, sanzioni e l’uso di metodi induttivi di accertamento), ma non che alcuni documenti o scritture possano ancora essergli utili come prove, ad esempio per chiedere un rimborso. Di certo, l’art. 8, co. 5, l. 212/2000 non obbliga nessuno a disfarsi dei documenti più vecchi di dieci anni, né stabilisce che perdano efficacia probatoria. Tuttavia, sul piano pratico non si può ignorare la possibilità che dei soggetti passivi abbiano desunto in buona fede da quelle disposizioni di potersi liberare della documentazione fiscale, dopo cinque o dieci anni, senza rischiare pregiudizi di sorta, per poi scoprire che secondo l’amministrazione finanziaria essa era indispensabile per soddisfare il loro onere di provare l’effettività e la deducibilità di un certo componente negativo di reddito. La giurisprudenza finora ha risolto in modi diversi il problema se questi soggetti meritino tutela: talora si è affermata la persistenza dell’onere di prova a prescindere dall’obbligo di conservazione della documentazione; talvolta si è attenuato il primo, ammettendo mezzi di prova diversi da quelli perduti (8); ma non sono mancate sentenze anticipatrici di quella qui annotata, secondo le quali i valori di beni e diritti si “cristallizzano” se non contestati entro il termine per rettificare la dichiarazione relativa all’esercizio in cui sono stati iscritti in bilancio e contabilizzati, restando intangibile la conseguente determinazione di componenti
ostacolo all’efficiente gestione della loro attività, si v. A. Mula, L’obbligo di conservazione di atti e documenti, in A. Fantozzi - A. Fedele, Statuto dei diritti del contribuente, Milano, 2005, 491. (7) Considera “documenti” anche le scritture contabili A. Mula, op. cit., 495. (8) Quest’ultima, come si vedrà infra, par. 1.2, è la soluzione individuata dalla precedente decisione che la sentenza in epigrafe ha trascurato, cioè Cass. n. 9834/2016. Quanto alla giurisprudenza di merito, secondo Comm. I grado Trento, n. 7/2/11 del 2011, cit., il contribuente ha l’onere di documentare la sussistenza e l’ammontare dei costi dedotti anche se tale deduzione sia avvenuta mediante ammortamento, fino a quando su di essa possa sorgere contestazione da parte dell’amministrazione finanziaria; secondo Comm. Trib. Reg. Bari, n. 175/2012, cit., il principio per cui è onere del contribuente documentare l’effettiva sussistenza e l’ammontare dei
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di reddito dei periodi successivi (9). Quest’ultima soluzione è stata condivisa non solo da alcuni autori (10), ma anche dalla sentenza in epigrafe: secondo la medesima l’amministrazione finanziaria, per recuperare a tassazione la quota annuale di un costo pluriennale, in base a ragioni non specificamente legate al singolo periodo, dovrebbe contestarne la deducibilità entro il termine di rettifica della dichiarazione relativa all’anno in cui ne sia iniziata la deduzione, risultando altrimenti preclusa
costi non può subire una limitazione nel caso di ammortamenti di beni acquistati da oltre dieci anni e prevale anche sul disposto dell’art. 8, co. 5, l. n. 212/2000, ma si possono dimostrare i fatti rilevanti con mezzi diversi dalle fatture di acquisto, per esempio con il registro dei beni ammortizzabili (cfr. F. Menti, La mancata contestazione nei termini delle fatture per costi ammortizzabili garantisce la deducibilità delle quote, in Corr. trib., 2012, 3477 ss., secondo cui tale registro, laddove documenta la quota di ammortamento, è una scrittura di primo grado, mentre laddove riporta i dati relativi all’acquisto dei beni materiali documentati da fatture, potrebbe essere assimilato a una scrittura di secondo grado). In quest’ultimo senso si è espressa l’Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti ed esperti contabili (AIDC) con la Norma di comportamento n. 200/2017: cfr. G. Ferranti, I limiti agli accertamenti “posticipati” secondo l’AIDC, in il fisco, 2017, 1, 4111 ss. (9) Secondo Comm. Trib. regionale Milano, Sez. XLIV, 6-21 ottobre 2014, n. 5447, sarebbe “legittima la deduzione della quota di ammortamento cristallizzatasi nel tempo per effetto del mancato tempestivo esercizio dei poteri di controllo”, dovendo questi ultimi riferirsi soltanto alla dichiarazione del periodo in cui il costo ammortizzabile è stato rilevato in bilancio. Similmente, riguardo al tema affine del termine di decadenza per contestare la detraibilità di spese per interventi di recupero edilizio, Comm. Trib. Reg. Milano, Sez. IL, 16 aprile-11 giugno 2015, n. 2597, lo ritiene riferito alla dichiarazione del periodo di sostenimento della spesa, non da ciascuna di quelle in cui le singole rate vengono detratte (cfr. G. Glendi, Il termine per il disconoscimento delle detrazioni “edilizie” decorre dalla dichiarazione sulla prima rata, in Corr. Trib., 2015, 3917 ss.; A. Borgoglio, L’Ufficio può disconoscere la detrazione per le ristrutturazioni entro quattro anni dalla prima rata, in il fisco, 2015, 1-2987). (10) Cfr. C. Pino, La contestazione «postuma» del criterio di iscrizione dei valori di bilancio, in Corr. trib., 2010, 2934 ss., secondo il quale un principio di “certezza del rapporto impositivo” impedirebbe all’Amministrazione finanziaria di contestare i valori iscritti in bilancio dopo la scadenza dei termini per rettificare la corrispondente dichiarazione (e, d’altra parte, sarebbe impossibile ricostruire i valori iniziali dei beni e dei diritti iscritti a bilancio, “per carenza degli elementi di fatto sottostanti”, se il contribuente legittimamente non possegga più gli elementi contabili e di documentazione necessari al controllo); P.R. Sorignani - A. Rocchi, Molti i nodi da sciogliere sull’obbligo di conservazione dei documenti fiscali, in il fisco, 2017, 1, 3713 ss., secondo i quali “il consolidamento fiscale dei valori, nell’ipotesi di redditi d’impresa, si realizza nel momento in cui viene meno fiscalmente l’obbligo di conservazione” della documentazione; F. Menti, op cit., 3482, nel senso che “se l’Amministrazione finanziaria nel termine di decadenza non provvede a contestare in tutto o in parte la veridicità o l’esattezza delle registrazioni contabili e, indirettamente, delle fatture che sono servite per eseguire le registrazioni” quel dato contabile diventa definitivo e non possono più esserne controllate l’esattezza e la veridicità.
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una siffatta contestazione. La Cassazione, dunque, trae dall’art. 43, d.p.r. 600/1973 una regola a mio avviso non ricavabile dal testo di esso, perché, con riferimento ai componenti reddituali pluriennali, ricollega al termine di decadenza ivi previsto un divieto di contestazione dei fatti sottostanti alla determinazione di tali componenti, operante anche nel senso di impedire la rettifica di dichiarazioni successive riguardo a tali aspetti, nonostante ne siano ancora contestabili altri profili. Inoltre, dal par. 2.8 della sentenza risulta (onde non far emergere contraddizioni con precedenti sentenze in materia, cioè Cass. 15178/10 e Cass. 12880/08) che sarebbe sufficiente, per evitare una siffatta preclusione, una “contestazione” anche “generica e non traducentesi per l’anno di riferimento in concreta pretesa impositiva”, mentre in base all’art. 43 d.p.r. 600/1973 la decadenza è impedita solo dalla notifica di un avviso di accertamento. Occorre notare ancora come la motivazione di questa sentenza non prenda esplicitamente in esame i pregiudizi al diritto di difesa, sopra accennati, per giustificare una siffatta interpretazione, limitandosi ad un cenno al par. 2.5 all’obbligo di conservare i documenti allegati alla dichiarazione e ad uno al par. 2.6 alla predisposizione della documentazione giustificativa. Essa, comunque, presenta la preclusione sopra tratteggiata come risultato di un’interpretazione adeguatrice, giacché rinvia alla giurisprudenza costituzionale in materia di termini per notificare la cartella di pagamento, la quale, nella “prospettiva di cui all’art. 24 Cost.” impone all’interprete di non lasciare “il contribuente esposto all’azione esecutiva del fisco per termini eccessivamente dilatati”. Tuttavia, né la motivazione di questa sentenza, né il principio di diritto che ne emerge mi sembrano convincenti: per dimostrarlo, analizzerò prima gli argomenti utilizzati nella decisione, poi quelli da essa trascurati. 1.1. Scarsa persuasività delle ragioni addotte dalla presente sentenza riguardo all’autonomia dei periodi d’imposta, al consolidamento del contenuto della dichiarazione, all’esercizio “frazionato” del diritto a dedurre componenti negativi. – In primo luogo, la Cassazione ritiene che il “criterio di autonomia dei periodi d’imposta” di cui all’art. 7, co. 1, t.u.i.r. non basti a giustificare un potere dell’amministrazione finanziaria di rettificare una dichiarazione disconoscendo la deducibilità di un costo pluriennale, qualora altre quote di quest’ultimo siano state già dedotte in precedenti periodi ormai definiti. Si tratterebbe infatti, secondo la sentenza qui annotata, di una “meccanicistica applicazione” di tale criterio, il quale non avrebbe valore assoluto, come di-
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mostrato dalla giurisprudenza (11) secondo la quale l’accertamento, contenuto in una sentenza passata in giudicato, relativo a “situazioni geneticamente unitarie … destinate a ripercuotersi su annualità successive” ha efficacia vincolante anche per detti ulteriori periodi. Riguardo a questo argomento, a me sembra che la regola sostanziale dell’autonomia delle obbligazioni scaturenti dall’intera fattispecie imponibile relativa a ciascun periodo d’imposta, sancita dall’art. 7 co. 1, t.u.i.r., non rilevi direttamente per risolvere la questione procedurale se la contestazione di un singolo componente positivo o negativo “pluriennale” debba essere fatta, a pena di preclusione, entro il termine per rettificare la dichiarazione nella quale esso è stato per la prima volta considerato. Perciò, anche l’obiezione mossa dalla sentenza in epigrafe riguardo ai limiti di applicazione di tale principio mi sembra, se non fuori bersaglio (giacché forse era stata la difesa erariale a far riferimento ad esso), poco utile per risolvere il problema in esame. D’altra parte, la regola processuale per cui il giudicato relativo a fatti aventi “efficacia permanente o pluriennale” ha “efficacia espansiva” in procedimenti relativi ad anni successivi evoca piuttosto l’esigenza di evitare accertamenti di quelle fattispecie concrete distinti (con il rischio che risultino in contrasto) per ciascun periodo d’imposta nel quale producono effetti. Tale esigenza, però, non è soddisfatta direttamente da una disciplina della decadenza come quella costruita dalla sentenza in esame, giacché essa non impedisce di pervenire ad accertamenti diversi per ciascuno dei periodi non ancora definiti, purché i relativi provvedimenti siano notificati entro i termini (12). Inoltre, dove la decisione qui annotata parla del “definitivo valore” (del diritto alla deduzione) di un costo pluriennale, come effetto della mancata rettifica nei termini della dichiarazione tributaria nella quale detto costo sia stato dedotto per la prima volta, sembra trascurare la netta diversità tra questa situazione ed il passaggio in giudicato di una sentenza. Infatti, per un verso, il giudicato è l’esito di una ricostruzione processuale di fatti e situazioni giuridiche, mentre la decadenza dal potere di accerta-
(11) La sentenza in epigrafe cita a tale proposito Cass., sez. trib., 13 ottobre 2014/11 marzo 2015, n. 4832 e Cass., sez. trib., 7 febbraio/15 settembre 2017, n. 21395, le quali in effetti indicano, come esempi di deroghe all’autonomia di ciascun periodo d’imposta, la “‘spalmatura’ in più anni dell’ammortamento di un bene o, in generale, della deducibilità di una spesa”. (12) Per converso, qualora detti provvedimenti siano impugnati, appena in uno dei processi si formi un giudicato esso avrà effetto conformativo negli altri giudizi, quanto al componente pluriennale accertato.
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mento, di per sé, comporta soltanto la preclusione di ulteriori pretese fiscali concernenti il periodo d’imposta per cui si è verificata; per altro verso, la dichiarazione tributaria è una rappresentazione unilaterale del contribuente, dalla natura e funzione della quale non mi sembra possano discendere effetti di accertamento vincolante (13). Ciò tanto meno per periodi d’imposta ulteriori e rispetto a mere indicazioni numeriche, ove di regola un singolo componente pluriennale della base imponibile non ha autonoma evidenza (14). Mi pare, dunque, per lo meno opinabile ricollegare alla dichiarazione relativa a un certo periodo, in quanto non rettificata nei termini, anche l’effetto di rendere non più contestabili mediante accertamenti riferiti a periodi successivi i componenti di reddito pluriennali considerati nel redigerla. Se l’amministrazione finanziaria avesse effettivamente controllato certi componenti di reddito, riconoscendoli correttamente dichiarati, potrebbe essere invocata la tutela dell’affidamento del contribuente, ex art. 10, l. 212/2000, ma la sentenza in epigrafe ha preso in considerazione situazioni in cui tale controllo è mancato, e comunque un’efficacia simile a quella degli accertamenti contenuti in una sentenza passata in giudicato non è riconosciuta nemmeno alle affermazioni contenute nella motivazione di un atto impositivo definitivo (per esempio, solo i primi ostano all’autotutela, ex art. 2, co.2, d.m. 11 febbraio 1997, n. 37). Nemmeno mi sembra risolutiva l’idea emergente dalla sentenza annotata che, sorgendo il “diritto alla deduzione” in un determinato periodo, in quelli successivi il contribuente si limiti ad esercitarlo in modo “frazionato” (quindi, se ho ben capito, la questione se quel diritto spetti o no andrebbe risolta esclusivamente nel contesto dei controlli relativi al periodo in cui sarebbe nato).
(13) Cfr. M. Nussi, La dichiarazione tributaria, Torino, 2008, 171, secondo il quale la dichiarazione è intrinsecamente incapace di accertare come esistente la realtà e, mancando la possibilità di controlli generalizzati, solo convenzionalmente può configurarsi come fatto costitutivo dell’obbligazione tributaria; P. Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 245, nel senso che la dichiarazione non sia esercizio di un potere unilaterale del contribuente in punto di determinazione dell’an e del quantum, sicché l’inutile decorso del termine decadenziale per la rettifica non vale a consolidare degli effetti scaturenti da essa; per la non assimilabilità di una dichiarazione definitiva ad un accertamento definitivo, si v. già G. Tremonti, Imposizione e definitività nel diritto tributario, Milano, 1977, 9, nt. 14. (14) In effetti la sentenza in epigrafe fa riferimento al bilancio come fonte del dato suscettibile di consolidarsi, ma non mi sembra si possa presumere in via generale che dalla nota integrativa risultino esplicitamente e in dettaglio fatti, valutazioni, criteri di determinazione relativi ad ogni singolo componente pluriennale.
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L’accertamento tributario, almeno ai fini del problema in esame (diverso discorso si potrebbe fare su questioni relative, per esempio, a dinieghi di agevolazioni), non ha ad oggetto singoli “diritti” del contribuente, ma la determinazione dell’imposta dovuta per ogni singolo periodo. Essendo la disciplina della decadenza un limite all’esercizio del potere di accertamento, ovviamente deve seguirne la logica: perciò, non conta quando sia sorto il diritto del contribuente a dedurre per più anni un certo componente negativo, bensì quando sia sorta ciascuna obbligazione tributaria determinata avvalendosi di tale diritto. 1.2. (segue) La giurisprudenza richiamata nella sentenza non è idonea a sostenerne le conclusioni e non comprende un precedente difforme. – La sentenza in epigrafe, al di là della contestazione del principio di autonomia dei periodi di imposta, sembra voler trarre argomenti soprattutto dalla giurisprudenza costituzionale, in particolare da Corte Cost. n. 280/2005. Da quest’ultima essa ricava che il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. non consente di lasciare il contribuente “esposto all’azione esecutiva del fisco per termini eccessivamente dilatati”, e che a tal fine un termine congruo sia quello previsto per il potere di rettifica dall’art. 43, co. 1, d.p.r. 600/1973, al quale si collega anche la durata dell’obbligo di conservare la documentazione ai fini dei controlli automatici e formali (15). La sentenza in esame sostiene che si giungerebbe “a violare lo stesso dictum di Corte Cost. 280/05” se l’amministrazione finanziaria potesse contestare un costo pluriennale o una quota di ammortamento oltre il termine per rettificare la dichiarazione relativa al periodo di concreto sostenimento del primo o di iscrizione in bilancio del bene ammortizzabile, afferendo a detto periodo “i presupposti del diritto alla deduzione e, quindi, il diritto medesimo nel suo definitivo valore … e la predisposizione della documentazione giustificativa”, mentre il “frazionamento” negli anni successivi interferirebbe sul “mero esercizio” di esso. Tuttavia questo argomento risulta meno convincente se si considera quanto sia opinabile affermare che da Corte Cost. n. 280/2005 sarebbe stata trat-
(15) Ovviamente Corte Cost. n. 280/2005 fa riferimento a tali documenti perché si è pronunciata sulla procedura di liquidazione ex art. 36-bis, d.p.r. 600/1973; l’obbligo di conservare la relativa documentazione risulta dall’art. 3, co. 3, di detto d.p.r., che non prevede un’estensione fino alla definitività dell’accertamento come l’art. 22, co. 2°, d.p.r. 600/1973, ma solo fino al termine di cui all’art. 43, d.p.r. 600/1973. Similmente dispongono, per i soggetti ires e le società di persone ed equiparate, gli artt. 5, co. 4, e 6, co. 6, d.p.r. 600/1973, nonché, per le dichiarazioni presentate in via telematica, l’art. 3, co. 9, d.p.r. 322/1998.
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ta la vigente disciplina “in tema di decadenza dell’Agenzia dal potere impositivo”. In verità, tale decisione ha considerato incostituzionale una certa normativa sulla riscossione dell’imposta in seguito a controlli ex art. 36-bis, d.p.r. 600/1973, perché, a causa di modifiche normative mal coordinate, non v’era più un termine di decadenza per notificare la cartella di pagamento, sicché il contribuente restava esposto all’azione esecutiva quantomeno fino alla prescrizione del credito, durata parsa alla Corte Costituzionale eccessiva e irragionevole. Tanto più in quanto la documentazione necessaria per contestare questo tipo di pretese fiscali (dimostrando le ritenute subite, i versamenti effettuati, i crediti d’imposta e gli oneri deducibili e detraibili) doveva essere conservata per un periodo più breve, cioè fino al termine di cui all’art. 43, co. 1, d.p.r. 600/1973. Dunque, Corte Cost. n. 280/2005 non si occupa della decadenza in generale e fa riferimento al termine per l’accertamento sostanziale solo per segnalare al legislatore che i tempi dei controlli automatici non potrebbero essere più ampi, trattandosi di procedure assai semplici. Da essa non risulta l’incostituzionalità in sé di un periodo di decadenza più esteso, ove questo sia giustificato dalle esigenze dei controlli. La legittimità di un termine più ampio è stata infatti successivamente riconosciuta da Corte Cost. n. 247/2011, con riferimento all’abrogato raddoppio dei termini di decadenza in caso di dovere di denuncia per reati tributari, trattandosi di una durata non irragionevolmente ampia, alla luce della ratio di consentire all’amministrazione finanziaria di rilevare illeciti i quali “normalmente richiedono controlli, verifiche ed indagini fiscali particolarmente difficili”, e determinata dalla legge con certezza, in modo da escludere lesioni del diritto di difesa (16). Tra l’altro, quest’ultima sentenza, riconoscendo rilevanza alla connessione sopra accennata tra il termine per l’esercizio del potere di accertamento e quello dell’obbligo di conservazione di documenti e contabilità, ha precisato che la maggiore durata del primo comportava un corrispondente prolungamento del secondo. La sentenza in epigrafe cerca sostegno anche in precedenti decisioni della Cassazione stessa, ma queste, ad un attento esame, non sembrano idonee allo scopo. Infatti, da Cass. n. 3304/2009 (17) non risulta, a mio avviso, la necessi-
(16) Così Corte Cost., 20/25 luglio 2011, n. 247, in Riv. dir. trib., 2012, II, 235 ss., con nota di G. Falsitta, Note minime sul “doppio” termine di accertamento e sulla equiparazione tra indagato e condannato per reati tributari. (17) Cfr. Cass., Sez. trib.,12 dicembre 2008/11 febbraio 2009, n. 3304.
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tà per l’ufficio tributario di disconoscere espressamente l’originaria iscrizione in bilancio di un costo di avviamento successivamente ammortizzato, onde poter poi rettificare di conseguenza le dichiarazioni degli esercizi successivi: tale decisione aveva rilevato piuttosto come fossero mancate la contestazione e la prova, nel caso di specie, dell’eccessività di quel valore. Inoltre, nemmeno da Cass. n. 12880/2008 e Cass. n. 15178/2010 (18) vedo emergere l’illegittimità della contestazione, da parte dell’amministrazione finanziaria, di una voce contabile a effetto pluriennale, se non compiuta entro il termine per il controllo sulla prima dichiarazione dei redditi nella quale essa abbia avuto rilievo. Infatti, Cass. n. 12880/2008 afferma che l’amministrazione finanziaria ha facoltà di contestare il metodo di contabilizzazione ed il sistema di deduzione di una spesa siffatta mediante un avviso di accertamento, anche se quest’ultimo non esprima una pretesa d’imposta ma miri soltanto a determinare le ripercussioni di quegli errori sulle obbligazioni tributarie dei periodi successivi; inoltre, essa precisa che comunque l’irritualità di tale atto non avrebbe “nessun riflesso sulla validità ed efficacia degli accertamenti emessi” per detti anni. La legittimità di un avviso di accertamento siffatto è riaffermata da Cass. n. 15178/2010, la quale però sottolinea che la decadenza dell’ufficio dal potere di rideterminare un valore ammortizzabile per i periodi ormai definiti non impedisce “la regolarizzazione dei calcoli delle quote di ammortamento per gli anni successivamente accertati”. Infine, va notato come la sentenza in epigrafe non citi Cass. n. 9834/2016 (19), la quale, in un caso ove l’amministrazione finanziaria contestava un ammortamento in corso da oltre dieci anni, ha affermato non che quest’ultima fosse decaduta dal potere di accertamento, bensì che, risultando ormai cessato, ai sensi dell’art. 8, co. 5, l. 212/2000, l’obbligo del contribuente di conservare le fatture di acquisto, questi poteva soddisfare il suo onere di provare il diritto a dedurre quel costo con altri mezzi, come le annotazioni nelle scritture contabili (20).
(18) Cfr. Cass., Sez. trib., 10 gennaio/21 maggio 2008, n. 12880 e Cass., Sez. trib., 18 febbraio/23 giugno 2010, n. 15178 (C. Pino, La contestazione, cit., 2934 ss., considera tali sentenze favorevoli alla rettificabilità delle dichiarazioni dei periodi più recenti, così come G. Pagani, Conservazione dei documenti contabili, decadenza del potere di accertamento e divieto di duplicazioni d’imposta, in il fisco, 2011, 1, 2972 ss.). (19) Cfr. Cass., Sez. trib., 19 gennaio/13 maggio 2016, n. 9834. (20) Si può inoltre ricordare che, secondo la Cassazione penale, il reato di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 2, d.lgs. 74/2000 è integrato da ciascuna successiva dichiarazione
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2. Il potere impositivo, anche in caso di rettifica di componenti di reddito pluriennali, è esercitabile entro il termine fissato con riferimento a ciascuna dichiarazione nella quale essi abbiano assunto rilievo; la disciplina del dovere di conservazione di documenti e scritture non ostacola questa conclusione. – In definitiva, gli argomenti usati nella sentenza qui annotata non mi sembrano sufficienti a superare il dato testuale dell’art. 43, d.p.r. 600/1973, chiaro nel far decorrere il termine di decadenza soltanto dalla presentazione della dichiarazione che l’ufficio tributario intende contestare. Resta tuttavia da chiedersi se, a prescindere da quegli argomenti, l’esigenza di sicurezza giuridica e il diritto di difesa dei soggetti passivi possano risultare così pregiudicati dalla possibilità dell’amministrazione finanziaria di contestare un componente di reddito pluriennale (afferente ad un periodo non ancora definito) sulla base di fatti remoti, da rendere necessaria un’interpretazione restrittiva della disciplina di tale termine. In effetti, le regole sulla decadenza dal potere di accertamento mi sembra mirino soprattutto a garantire una ragionevole soglia di sicurezza giuridica e di effettive possibilità difensive (21), perciò sarebbe coerente con tale ratio prospettarne un’interpretazione logica e costituzionalmente orientata, la quale tenga conto della peculiarità dei componenti di reddito pluriennali consistente nel dipendere talora da fatti verificatisi molti anni prima del periodo al quale si riferisce la dichiarazione contestata dall’amministrazione finanziaria. Tuttavia, a me non sembra che il puro e semplice numero degli anni trascorsi dai fatti rilevanti renda così difficile per il contribuente disporre di argomenti e prove, idonei a chiarire la correttezza della sua dichiarazione, da violare il diritto di difesa ex art. 24 Cost. Infatti, benché tale difesa sia certo più agevole se può essere basata sui ricordi di chi abbia originariamente compiuto le riflessioni giuridiche e le valutazioni sottese alla registrazione nelle scritture contabili del componente di reddito contestato, a mio avviso la ragionevolezza della disciplina sulla decadenza va giudicata considerando se vi sia normalmente la possibilità di avvalersi della documentazione necessaria a ricostruire le ragioni sottostanti a detta indicazione.
nella quale venga indicata una quota di ammortamento fittizia, a prescindere da quando sia avvenuta la prima deduzione: cfr. Cass., Sez. III pen., 24 settembre 2008, n. 39176, Agrama; Cass. Sez. F pen., 1 agosto 2013, n. 35729, Agrama e a. (21) Anche se è possibile giustificare la disciplina della decadenza pure con fini di economia procedimentale (cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2017, 382) e di incentivazione e responsabilizzazione degli uffici [cfr. C. Glendi, Termine (dir. tribut.), in Enc. Dir., XLIV, Milano, 1992, 229].
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Ebbene, come osservato al par. 1.1, la cessazione del dovere di conservare la documentazione fiscale non comporta la scomparsa o l’irrilevanza giuridica di quest’ultima (22): perciò, mi pare che basti al contribuente l’ordinaria diligenza per rendersi conto di aver interesse a mantenere la disponibilità di alcuni documenti, in quanto utili a dimostrare il suo diritto a far concorrere alla base imponibile, anno dopo anno, certi componenti pluriennali. Infatti, tale concorso, quand’anche fosse inteso, come fa la sentenza qui annotata, come “esercizio frazionato” di un diritto alla deduzione sorto anni prima e si risolvesse in pratica nella mera ripetizione annuale dello stesso dato, dal punto di vista giuridico comporta la riaffermazione, in ciascuna dichiarazione, della sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto per computare quel componente, nella misura indicata, nella base imponibile di quel periodo d’imposta. Una conferma di questa autonomia di ogni inserimento di un componente pluriennale nelle varie dichiarazioni mi pare emerga dall’art. 16 t.u.i.r., laddove prevede che il registro dei beni ammortizzabili sia compilato entro il termine per la dichiarazione e, per ciascun immobile e bene mobile registrato, vi siano indicati l’anno di acquisizione, il costo originario, le rivalutazioni e svalutazioni, l’entità del fondo di ammortamento al termine del periodo precedente, mentre per gli altri beni dette indicazioni possono essere fornite per categorie omogenee per anno di acquisizione e coefficiente di ammortamento. Non vanno dunque annualmente annotati solo gli elementi di calcolo relativi al singolo periodo (come il coefficiente effettivamente praticato, la quota di ammortamento e le eliminazioni dal processo produttivo), ma pure ricapitolati i fondamenti pluriennali della determinazione del costo deducibile per quell’anno. Se, come mi pare ovvio, queste registrazioni debbono basarsi sulla documentazione relativa ai beni ammortizzabili, anche di ciascuno di detti documenti viene rinnovato ogni anno l’impiego per la determinazione della relativa base imponibile: quindi, per ogni quota di ammortamento dedotta, decorre un nuovo termine di conservazione, in quanto essi afferiscono al “corrispondente periodo d’imposta” ai sensi dell’art. 22, d.p.r. 600/1973. Più in generale, mi pare che il dubbio prospettato nel primo paragrafo sulla corretta interpretazione di quest’ultimo vada superato considerando i documenti
(22) Basti osservare come, ai sensi dell’art. 52, co. 4°, d.p.r. 633/1972, l’ispezione si estenda a tutta la documentazione presente nei locali in cui avviene l’accesso, anche se non ne sia obbligatoria la conservazione: i controlli e gli avvisi di accertamento possono pertanto fondarsi anche su documentazione rimasta disponibile benché non fosse più doveroso conservarla.
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relativi a fatti ad efficacia pluriennale soggetti al dovere di conservazione fino a quando non sia spirato il termine di decadenza per controllare l’ultima dichiarazione nella quale sia inserito uno dei componenti di reddito discendenti da tali fattispecie. Impostando la questione in termini di interesse del contribuente a conservare i documenti utili a soddisfare i suoi oneri probatori, pur quando non ne sia più doverosa la conservazione ex art. 22, d.p.r. 600/1973, si sdrammatizza anche il problema del coordinamento tra quest’ultimo e il limite decennale dalla “emanazione” o “formazione” posto a detto obbligo dall’art. 8, co. 5, l. 212/2000. Problema che non ha avuto soluzioni univoche in dottrina (23) e nella giurisprudenza di merito (24), mentre Cass. n. 9834/2016, pur affermando la prevalenza del principio generale espresso nello Statuto e l’esigenza di non far dipendere la durata dell’obbligo “esclusivamente dalla volontà dell’Ufficio, rispetto alla quale il contribuente non avrebbe altra difesa che conservare le scritture sine die”, ha tuttavia ritenuto operante il dovere di conservazione fino alla definitività dell’accertamento, nel caso in cui l’avviso sia stato emanato entro quel termine decennale. Anche inteso in quest’ultimo senso, però, l’art. 8, co. 5, l. 212/2000, non prevedendo un trattamento distinto per la documentazione relativa a componenti di reddito pluriennali, parrebbe consentire ai soggetti passivi di liberarsene quando alcuni dei periodi d’imposta corrispondenti sono ancora soggetti a controllo (o addirittura prima che inizino, se il coefficiente di ammortamento sia inferiore al 10%).
(23) Secondo A. Fedele, L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. dir. trib., 2001, I, 901 le disposizioni previgenti che non rispettavano il limite decennale sarebbero state parzialmente abrogate e sostituite con la fissazione di tale termine; per C. Pino, Le scritture contabili e il controllo del reddito d’impresa, Padova, 2012, 94 sarebbe necessario un d.lgs. di attuazione, ai sensi dell’art. 16 della l. n. 212/2000, per rendere operante il termine dell’art. 8, co. 5; secondo A. Mula, op. cit., 501 ss., le due regole sarebbero compatibili perché la conservazione oltre il termine di cui all’art. 43 d.p.r. 600/1973 non sarebbe sancita dall’art. 22, d.p.r. 600/1973 “ai soli effetti tributari”, ma in attuazione di un principio generale di diritto processuale. (24) Secondo Comm. Trib. Reg. Bari, n. 175/2012, cit., il principio per cui il contribuente ha l’onere di provare l’effettiva sussistenza e l’ammontare dei costi “prevale anche sul disposto dell’art.8, co.5, della L. n. 212 del 2000 … perché norma di carattere generale che non può smentire quanto all’art.22 del D.P.R. n. 600 del 1973, ovvero l’obbligo di conservazione di atti connesso all’onere probatorio a carico di chi vuole fare valere la deduzione”; anche secondo Comm. I grado Trento, n. 7/2/11 del 2011, la norma statutaria in quanto generale non potrebbe prevalere sull’art. 22 d.p.r. 600/1973.
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Per le ragioni sopra viste, però, questo contrasto non deve essere risolto forzando la disciplina della decadenza ex art. 43, d.p.r. 600/1973, in modo da introdurre preclusioni al potere di accertamento non previste dalla legge. Qualora manchi (legittimamente) la documentazione relativa ad un componente di reddito pluriennale, del quale l’amministrazione finanziaria (pure legittimamente) contesti la deducibilità, la soluzione va a mio avviso trovata sul diverso piano delle regole probatorie. 3. Se la rettifica di componenti di reddito pluriennali è basata su fatti così remoti che sia cessato il dovere di conservarne la documentazione ex art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, il soggetto passivo potrà esercitare il suo diritto di difesa anche avvalendosi di mezzi diversi. – Come ho accennato al par. 1., parte della giurisprudenza di merito e della dottrina, nonché Cass. n. 9834/2016, hanno ritenuto sussistente l’ordinario potere di accertamento riguardo a componenti negativi pluriennali, anche se la deduzione di essi sia iniziata in un periodo ormai definito, ma hanno ammesso il contribuente a dimostrare il suo diritto a dedurli anche con le sole annotazioni nelle scritture contabili, qualora non disponesse più delle fatture di acquisto, il dovere di conservazione delle quali fosse cessato ai sensi dell’art. 8, co. 5, l. 212/2000 (25). Questa giurisprudenza mi sembra aver individuato la giusta direzione per risolvere il problema della garanzia di effettività del diritto di difesa a fronte di contestazioni di fatti remoti. Poiché, ex art. 8, co. 5, l. 212/2000, il dovere di conservazione cessa dopo dieci anni, per quanto distinto esso sia sul piano concettuale dall’onere probatorio, vi sarebbe una palese incoerenza sistematica se, da un lato, si consentisse al contribuente di liberarsi di certi documenti, dall’altro se ne pretendesse la produzione come unica prova ammissibile di certi fatti. Si è osservato in dottrina che l’onere di provare costi, deduzioni e detrazioni incombe sul contribuente come riflesso del suo obbligo sostanziale di tenere e conservare le scritture contabili e la documentazione (26), ma appunto per questo, cessato quest’ultimo dovere, la ricostruzione dei fatti rilevanti deve seguire i principi generali. La stessa disposizione dell’art. 60, d.p.r. 600/1973 che non consente ai soggetti tenuti alla contabilità di provare fatti
(25) Queste comunque, nel caso di Cass. n. 9834/2016, erano state prodotte. (26) Cfr. G.M. Cipolla, L’onere della prova, in AA. VV. (a cura di F. Tesauro), Il processo tributario, Torino, Utet, 1998, 549; Id., La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, 592 (e 562 s. per il principio che pone l’onere della prova in capo a chi ne abbia la disponibilità).
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non risultanti da essa presuppone, ovviamente, la disponibilità delle scritture. Anzi tutto, dunque, l’amministrazione finanziaria, prima di contestare la rappresentazione in dichiarazione di un componente reddituale, deve svolgere un effettivo controllo, dal quale emergano valide ragioni per ritenerlo non correttamente esposto (27). Soddisfatto tale requisito, può operare il principio per cui l’onere della prova del fatto incerto grava su chi abbia interesse a dimostrarlo, ma nel caso dei componenti pluriennali effetto di vicende e situazioni così remote che non ne esista più la documentazione, la valutazione del materiale probatorio deve prescindere dalle restrizioni dell’accertamento contabile e seguire il criterio del libero convincimento. Solo così si può evitare che la facoltà concessa dall’art. 8, co. 5, l. 212/2000 di non conservare la documentazione oltre un periodo decennale produca risultati contrastanti con l’intenzione del legislatore di tutelare l’interesse del contribuente.
Roberto Schiavolin
(27) Cfr. G. M. Cipolla, op. ult. cit., 592; R. Schiavolin, Le prove, in AA. VV. (a cura di F. Tesauro), Il processo tributario, cit., 522 s.; M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela. Lezioni sul processo tributario, Torino, 2013, 236.
Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli
Cass., sez. III, 8 maggio 2018 - 26 settembre 2018, n. 41704; Pres. Lapalorcia - Rel. Semeraro - Ric. M.M. Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte – Costituzione di un fondo patrimoniale e conferimento di beni immobili a seguito della notifica di atti di accertamento – Rilevanza – Oggetto della confisca Il conferimento nel fondo patrimoniale della nuda proprietà di due immobili può concretizzare il reato ex art. 11 d.lgs. n. 74/2000. La disposizione citata sanziona chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte, per un ammontare superiore a cinquantamila euro, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o altrui beni, idonei a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva. I beni immobili conferiti nel fondo patrimoniale costituiscono strumento di realizzazione del reato, e quindi sono assoggettabili a confisca diretta. (1)
(Omissis) Ritenuto in fatto. 1. La Corte di appello di Firenze, con la sentenza del 12/02/2017, ha confermato la sentenza del Tribunale di Siena del 16/06/2014, che ha condannato M.M. per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, alla pena di mesi quattro di reclusione, con la sospensione condizionale della pena, oltre alle pene accessorie ed ha disposto la confisca della nuda proprietà di due beni immobili di proprietà di M.M. M.M. è stato condannato perché, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi o dell’Iva, degli interessi e delle sanzioni per il valore complessivo di Euro 621.981,50, ha compiuto atti fraudolenti sui propri beni, consistiti nell’aver costituito il 26/01/2010 un fondo patrimoniale nel quale ha conferito la nuda proprietà di due immobili, così sottraendoli alla pretesa erariale, dopo che il 29/12/2009 l’agenzia delle entrate di (omissis) gli aveva notificato tre avvisi di accertamento relativi agli anni di imposta 2004, 2005 e 2006. 2. Il difensore di M.M. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze del 12/02/2017. 2.1. Con il primo motivo la difesa ha dedotto i vizi di violazione di legge e della motivazione con riferimento all’elemento oggettivo del reato.
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Quanto all’elemento materiale del reato, rileva la difesa che al ricorrente è stato contestato di aver costituito un fondo patrimoniale, nel quale ha conferito la nuda proprietà di due beni immobili, così sottraendoli alla pretesa erariale. Ritiene però la difesa che la costituzione del fondo patrimoniale non è un atto “idoneo a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”, perché (si richiama la sentenza della Corte di Cassazione n. 3738/2015 e l’ordinanza n. 3738/2015), i beni facenti parte del fondo patrimoniale sono espropriabili anche per debiti tributari. Senza necessità di azione revocatoria l’Erario può procedere all’espropriazione forzosa sui beni del fondo patrimoniale. Dunque manca l’effettivo ostacolo all’attivazione dell’azione esecutiva. 2.2. Ritiene poi la difesa che sussista il vizio di motivazione sulla sussistenza dell’elemento materiale del reato perché la Corte di appello ha apoditticamente affermato che la destinazione dei beni al fondo integri la fattispecie fraudolenta. La Corte di appello, per la difesa, ha omesso di valutare la situazione concreta sottoposta al suo controllo, non considerando che si tratta di un’impresa individuale e che il lavoro del suo titolare è destinato alle esigenze della famiglia. Per la difesa, la motivazione è assente anche quanto ad uno degli elementi costitutivi del reato, e cioè la necessarietà che l’atto fraudolento possa rendere inefficace l’azione esecutiva dello Stato, non essendo stata altresì fornita alcuna giustificazione di come eventuali ipotetiche opposizioni del debitore potrebbero raggiungere il risultato di impedire la riscossione coattiva, non risultando sufficiente la loro astratta proponibilità ad integrare il pericolo richiesto dalla norma in esame. Per la difesa poi (punto 3) il vizio della motivazione sussiste perché non sono state esaminate le prove documentali della difesa: - l’Avviso di iscrizione di ipoteca sui diritti immobiliari di nuda proprietà dell’imputato emesso da Equitalia in data 14/2/2013 (prodotto in primo grado all’udienza 5/5/2014) e da cui emerge la libera espropriabilità dei beni (essendo l’ipoteca propedeutica all’azione esecutiva); - la sentenza della Commissione Tributaria del 27/5/2015 (prodotta in secondo grado), che ha espressamente riconosciuto e ribadito giudizialmente la definitiva ammissibilità dell’iscrizione ipotecaria e quindi la libera assoggettabilità ad esecuzione forzata per crediti tributari dei beni del fondo patrimoniale. 3. Con il secondo motivo, la difesa ha dedotto i vizi di violazione di legge e della motivazione quanto alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato. 3.1. Al punto A), la difesa afferma che vi è stata errata applicazione della norma incriminatrice, perché la condotta non è stata compiuta con l’intenzione specifica di sottrarsi al pagamento del proprio debito tributario. Per la difesa la Corte di appello ha erroneamente equiparato, con semplicistica presunzione, il fondo patrimoniale e l’atto fraudolento. 3.2. Al punto B) la difesa ha contestato il vizio di mancanza ed illogicità della motivazione in quanto gli elementi valorizzati nella sentenza impugnata o non hanno
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alcun valore indiziante (vicinanza temporale tra la costituzione del fondo e la notifica dell’accertamento fiscale) o sono fondati su circostanze non risultanti dal materiale probatorio (asserita inclusione nel fondo patrimoniale di tutti i beni di proprietà dell’imputato). Per la difesa poi è stata illogicamente valutata la prova documentale costituita dal certificato di nascita del figlio dell’imputato (datato in epoca anteriore alla notifica dell’accertamento fiscale) ed altresì totalmente omessa la valutazione di una prova decisiva (testimonianza della moglie dell’imputato). Quanto alla contiguità temporale tra la notifica degli avvisi di accertamento (22/12/2009) e la costituzione del fondo patrimoniale (26/01/2010) rileva la difesa che il criterio induttivo è illogico perché la costituzione del fondo non è la reazione immediata e d’impeto alla prima formale comunicazione della pretesa tributaria. Rileva poi la difesa che la Corte di appello nell’affermare che l’imputato ha costituito nel fondo tutte le sue proprietà, è caduto nel travisamento delle prove, non risultando affatto dagli atti che M.M. non fosse titolare di altri beni immobili o mobili rimasti estranei al fondo, con cui poter comunque garantire la pretesa tributaria. Rileva la difesa che la Corte di appello non ha valutato la tesi difensiva, debitamente documentata, che la costituzione del fondo patrimoniale era stata determinata dalla volontà dell’imputato di tutela della famiglia, attuata in occasione della nascita del proprio figlio, avvenuta in data 9/12/2009 e quindi prima della notifica degli avvisi di accertamento (21/12/2009). Ritiene poi la difesa che sussista il vizio del travisamento della prova per omissione in quanto non è stata considerata la deposizione della teste F.D. (moglie dell’imputato), la quale, sentita all’udienza del 3/2/2014 ha tra l’altro riferito: a) che i contatti con il notaio per la redazione dell’atto costitutivo del fondo erano stati presi “diversi mesi prima della nascita del figlio” e che il certificato di nascita del bambino (avvenuta il 9/12/2009), porta la data del 14 dicembre 2009, “fu fatto..., per poi portarlo al notaio per chiudere la pratica e fare l’atto”. Per la difesa, da tali prove emerge che la decisione di procedere alla costituzione del fondo patrimoniale era precedente alla notifica degli avvisi di accertamento. 4. Con il terzo motivo, la difesa ha dedotto i vizi di violazione di legge e della motivazione quanto alla disposta confisca. La difesa ha contestato la qualificazione giuridica dei beni inclusi nel fondo patrimoniale, come corpo del reato di sottrazione fraudolenta e al contempo profitto del reato medesimo. Per la difesa, la qualificazione giuridica è errata: non trattarsi di profitto del reato, perché i beni erano già esistenti nel patrimonio dell’imputato, per essergli stati donati dal nonno, sicché non possono costituire il ricavato o il benefico (prodotto o profitto) conseguito dal reato. Ritiene poi la difesa che la confisca ex art. 240 c.p., di tutti i beni immobili dell’imputato presenti nel fondo patrimoniale, peraltro senza formulare il giudizio
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di pericolosità sia illegittima perché al più avrebbe dovuto disporsi la confisca per equivalente, cioè commisurata al mancato pagamento del tributo, oltre interessi e sanzioni. La difesa ha infine dedotto il difetto di motivazione, trattandosi di confisca facoltativa ai sensi dell’art. 240 c.p.; per la difesa, non è stata data risposta ai motivi di appello, con cui si evidenziava il fatto che il credito tributario non è ancora definitivamente accertato, ma è sub iudice in fase di giudizio di cassazione. La difesa segnala che i beni sono già stati oggetto di iscrizione ipotecaria sicché il fisco può agire in via esecutiva nonostante il conferimento nel fondo patrimoniale. La confisca si concretizza dunque in una inammissibile duplicazione della pretesa dello Stato, potendosi verificare che al contribuente vengano confiscati in sede penale i beni immobili e lo stesso debba poi provvedere comunque ad assolvere l’eventuale pendenza tributaria senza poter utilizzare il suo patrimonio perché ormai confiscato. Considerato in diritto. 1. Il primo motivo di ricorso, con cui si deduce il vizio di violazione di legge, è manifestamente infondato. 1.1. Il conferimento di beni nel fondo patrimoniale può concretizzare il delitto D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 11. Va ricordato che il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, sanziona chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte, per un ammontare complessivo superiore a 50.000,00 Euro, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni, idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Come affermato da Cass. Sez. 3, sentenza n. 3011 del 05/07/2016, Di Tullio, Rv. 268798, attraverso l’incriminazione della condotta prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, il legislatore ha inteso evitare che il contribuente si sottragga al suo dovere di concorrere alle spese pubbliche creando una situazione di apparenza tale da consentirgli di rimanere nel possesso dei propri beni fraudolentemente sottratti alle ragioni dell’Erario. Cfr. sul punto anche Cass. Sez. 3, n. 36290 del 18/05/2011, Cualbu, Rv. 251077, secondo cui l’oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte non è il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia generica data dai beni dell’obbligato, potendo quindi il reato configurarsi anche qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell’imposta e dei relativi accessori. La norma punisce due distinte condotte: l’alienazione simulata ed il compimento di atti fraudolenti. Per quanto qui interesse, per atto fraudolento (cfr. in tal senso Cass. Sez. 3, sentenza n. 3011 del 05/07/2016, Di Tullio, Rv. 268798), deve intendersi qualsiasi atto che, non diversamente dalla alienazione simulata, sia idoneo a rappresentare ai terzi una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero,
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mettendo a repentaglio o comunque rendendo più difficoltosa l’azione di recupero del bene in tal modo sottratto alle ragioni dell’Erario. Secondo il costante indirizzo della giurisprudenza, il delitto è un reato di pericolo concreto; in ossequio al principio di offensività, si deve valutare l’idoneità ex ante dell’atto a mettere in pericolo la garanzia patrimoniale del debito erariale. La diminuzione della garanzia può essere anche solo parziale, non necessariamente totale (Cass. Sez. 3, n. 6798 del 16/12/2015, dep. 2016, Arosio, Rv. 266134), purché effettivamente in grado di mettere a rischio l’esazione del credito. La condotta può essere posta in essere con ogni atto di disposizione del patrimonio che abbia la sua causa nel pregiudizio alle ragioni creditorie dell’Erario. Il carattere fraudolento di determinate operazioni negoziali presuppone che l’attività fraudolenta sia nascosta attraverso lo schermo formale di attività o documenti apparentemente regolari (Cass. Sez. 3, n. 40319 del 2016, Scandiani) o l’adozione di un atto formalmente lecito – come l’alienazione di un bene – però caratterizzato da una componente di artificio o di inganno (Cass. Sez. 3, n. 25677 del 16/5/2012, Caneva e altro, Rv. 252996). 1.2. La costituzione di un fondo patrimoniale è stata considerata condotta che può concretizzare il delitto di cui all’art. 11 quando consenta al contribuente di sottrarre, in tutto o in parte, le garanzie patrimoniali alla riscossione coattiva del debito tributario (Sez. 3, n. 5824 del 18/12/2007, Soldera, Rv. 238821). Si è di recente affermato che, ai fini della integrazione del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, la costituzione di un fondo patrimoniale non esonera dalla necessità di dimostrare, sia sotto il profilo dell’attitudine della condotta che della sussistenza del dolo specifico di frode, che la creazione del patrimonio separato sia idonea e finalizzata ad evitare il soddisfacimento dell’obbligazione tributaria, con la conseguenza che il giudice è tenuto a motivare sulla ragione per cui la segregazione patrimoniale rappresenta, in concreto, uno strumento idoneo a rendere in tutto o in parte inefficace il recupero del credito erariale. In tal senso Cass. Sez. 3, n. 47827 del 12/07/2017, Dinelli, Rv. 271321. 1.3. In punto di diritto, con riferimento al caso concreto oggetto delle sentenze di merito, deve rilevarsi che il conferimento nel fondo patrimoniale della nuda proprietà di due immobili può concretizzare il reato D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 11. La costituzione del fondo patrimoniale, ai sensi dell’art. 167 c.c., avviene, da parte di ciascuno o di ambedue i coniugi, per far fronte ai bisogni della famiglia; ai sensi dell’art. 168 c.p.c., comma 2, i frutti dei beni costituenti il fondo patrimoniale sono impiegati per i bisogni della famiglia. Deve rilevarsi che il conferimento della sola nuda proprietà di un immobile di fatto limita notevolmente l’utilità dello stesso conferimento perché i frutti del bene immobile non possono essere impiegati per i bisogni della famiglia, spettando all’usufruttuario.
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Dunque, il conferimento della sola nuda proprietà è di per sé un indice dello scopo fraudolento dell’operazione, posto che alcun concreto vantaggio immediato ne riceve il fondo patrimoniale. 1.4. Quanto poi alla espropriabilità dei beni conferiti nel fondo patrimoniale, deve precisarsi che, oltre ai limiti stabiliti per i coniugi ai sensi dell’art. 169 c.c., per la costituzione di ipoteca, l’art. 170 c.c., la cui rubrica recita “Esecuzione sui beni e sui frutti”, dispone che l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. In sostanza, l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi, compresa l’iscrizione di ipoteca, può avvenire solo se il creditore agisce con la consapevolezza che il debito era stato contratto per i bisogni della famiglia. Le sezioni civili della Corte di Cassazione hanno infatti affermato (cfr. Cass. Sez. 3, n. 5385 del 05/03/2013, Barrotta contro Equitalia Romagna Spa, Rv. 625376 – 01; si tratta della sentenza su cui si fonda quella richiamata dalla difesa) che “L’art. 170 cod. civ., nel disciplinare le condizioni di ammissibilità dell’esecuzione sui beni costituiti nel fondo patrimoniale, detta una regola applicabile anche all’iscrizione di ipoteca non volontaria, ivi compresa quella di cui al D.P.R. 3 marzo 1973, n. 602, art. 77. Ne consegue che l’esattore può iscrivere ipoteca su beni appartenenti al coniuge o al terzo, conferiti nel fondo, qualora il debito facente capo a costoro sia stato contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari, ovvero quando – nell’ipotesi contraria – il titolare del credito, per il quale l’esattore procede alla riscossione, non conosceva l’estraneità ai bisogni della famiglia; viceversa, l’esattore non può iscrivere l’ipoteca – sicchè, ove proceda in tal senso, l’iscrizione è da ritenere illegittima – nel caso in cui il creditore conoscesse tale estraneità”. In concreto, l’esecuzione sui beni del fondo patrimoniale può avvenire solo per i debiti contratti per i bisogni della famiglia. 2. Manifestamente infondato è anche il primo motivo con cui la difesa ha dedotto il vizio della motivazione. Va infatti rilevato che il motivo di appello si fondava su due questioni: la possibilità per l’erario di aggredire i beni del fondo patrimoniale e l’avvenuta iscrizione di ipoteca da parte di Equitalia. La Corte di appello di Firenze ha risposto adeguatamente e con motivazione immune da vizi alle due questioni proposte con l’appello. Ferme le considerazioni già espresse, la Corte di appello di Firenze ha infatti correttamente osservato che la costituzione del fondo patrimoniale mediante il conferimento della nuda proprietà dei due immobili ha reso più difficile il recupero del credito. Ha rilevato la Corte di appello di Firenze, in punto di diritto, che il fondo patrimoniale non è sempre aggredibile dall’erario in quanto il debitore può dimostrare in sede di opposizione che il debito tributario sia stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia.
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Tale principio è stato affermato, oltre che dalle sezioni civili della Corte di Cassazione, anche da Cass. Sez. 3, n. 47827 del 12/07/2017, Dinelli, Rv. 271321, in motivazione. Ne consegue che è irrilevante ai fini della sussistenza del reato, l’avvenuta costituzione di ipoteca posto che nel caso in esame, i crediti per l’erario sono relativi agli anni di imposta 2004, 2005 e 2006, laddove la costituzione del fondo patrimoniale è avvenuta il 26/01/2010, sicché è palese che il debito non sia stato contratto per i bisogni della famiglia. 3. Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Ed invero, la Corte di appello di Firenze ha applicato la norma ritenendola a dolo specifico ed ha indicato tutte le circostanze di fatto in base alle quali ha ritenuto provata l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato. 3.1. Con il motivo la difesa ha in realtà effettuato una sua ricostruzione alternativa dei fatti, in tal modo però chiedendo alla Corte di Cassazione un’attività di valutazione delle fonti di prova che le è preclusa. 3.2. Va poi osservato che il dato oggettivo del conferimento di tutti i beni immobili di proprietà del ricorrente nel fondo patrimoniale risulta dalla sentenza di primo grado e non è stato contestato con l’appello. In ogni caso, non risulta alcuna produzione documentale della difesa dalla quale risulta che il ricorrente è proprietario di altri beni oltre a quelli conferiti nel fondo patrimoniale. 3.3. Quanto al travisamento della prova per omissione, in relazione alle dichiarazioni di F.D., deve rilevarsi che il motivo è inammissibile per genericità non avendo la difesa adempiuto all’onere di allegazione; in ogni caso, non è possibile dedurre il grado di incidenza sul complessivo ragionamento della Corte di appello di Firenze in base alla riproduzione parziale e parcellizzata avvenuta nel ricorso delle dichiarazioni della teste. 4. È manifestamente infondato anche il terzo motivo sulla confisca. 4.1. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036, hanno affermato che il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario. La Corte di Cassazione (cfr. Cass. Sez. 3, n. 10214 del 22/01/2015, Chiarolanza, Rv. 262754) ha poi chiarito che il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, va individuato nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio del soggetto obbligato e, quindi, consiste nel valore dei beni idonei a
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fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase costituenti oggetto delle condotte artificiose considerate dalla norma. Il profitto pertanto non va individuato nell’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto (Sez. 3, n. 40534 del 06/05/2015, Trust, Rv. 265036; nello stesso senso Cass. Sez. 3, n. 37136 del 2017, Tartaglia). La Corte di Cassazione ha altresì affermato (cfr. Cass. Sez. 3, n. 3095 del 23/11/2016, dep. 2017, Pugliese, Rv. 268986) che i beni immobili appartenenti a soggetto indagato del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, alienati per far venir meno le garanzie di un’efficace riscossione dei tributi da parte dell’Erario, sono suscettibili di sequestro preventivo per la successiva confisca ai sensi dell’art. 240 c.p., comma 1, in quanto costituiscono lo strumento per mezzo del quale è stato commesso il reato, a nulla rilevando la loro qualificazione anche come prezzo o profitto di tale delitto. 4.2. La Corte di appello di Firenze ha correttamente applicato tali principi perché ha ritenuto che sia stata disposta la confisca diretta del profitto del delitto D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 11, e, con un giudizio in fatto, non valutabile in questa sede in assenza di elementi di segno diverso, ha ritenuto che il loro esatto valore – e non la provenienza dei beni come erroneamente ritenuto dalla difesa – costituisca il vantaggio economico direttamente proveniente dalla condotta illecita. Una volta individuato il profitto in tale valore, la Corte di appello di Firenze ha correttamente escluso che la confisca potesse essere operata per equivalente, perché tale tipo di confisca può essere disposta solo se quella diretta del profitto non è possibile. Va infine osservato che alcuna rilevanza ha la definitività dell’accertamento tributario, salvo gli eventuali effetti sull’entità del profitto, non rilevanti in questa sede, anche conseguenti ad azioni esecutive o al pagamento del debito tributario. 5. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. 5.1. Quanto alla richiesta formulata in sede di conclusioni dalla difesa di dichiarare estinto il reato per prescrizione, deve rilevarsi che la prescrizione del reato sarebbe maturata il 26/07/2017, quindi dopo la sentenza della Corte di appello di Firenze. Però, non può essere dichiarata la prescrizione del reato maturata dopo la sentenza di appello, in presenza di un ricorso inammissibile. L’inammissibilità del ricorso per cassazione non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more del procedimento di legittimità. 5.2. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza
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versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di Euro 2.000,00, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende. (Omissis)
(1) Brevi note a margine del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, tra torsioni ermeneutiche, utilizzo improprio dello strumento della confisca ed efficientismo esasperato. Sommario: 1. La sentenza ed il caso oggetto della pronuncia. – 2. Brevi note in ordine al delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. – 3. Segue. La condotta tipica e la costituzione del fondo patrimoniale. – 4. La confisca operabile per il delitto di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74/2000. – 5. Segue. I rapporti tra confisca e azione recuperatoria del credito erariale. Il problema del rischio di conflitto tra giudicati. – 6. Considerazioni conclusive. Il contributo opera una breve ricostruzione della fattispecie di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 d.lgs. n. 74/2000), esponendo alcuni tra i principali profili di criticità della disposizione incriminatrice di riferimento e della sua applicazione pratica, anche nella prospettiva della confisca. The paper deals with the issue of fraudulent subtraction to the payment of taxes (Article 11 of Legislative Decree No. 74/2000), exposing some of the main critical aspects of the incriminating provision and its practical application, also with a view to confiscation.
1. La sentenza ed il caso oggetto della pronuncia. – Con la sentenza in epigrafe la suprema Corte ha confermato la condanna di un soggetto che, a seguito della notifica di alcuni avvisi di accertamento per imposte sul reddito e sul valore aggiunto avvenuta nell’anno 2009 per un importo superiore a 600.000,00 euro, aveva conferito (in data 26 gennaio 2010) in un fondo patrimoniale la nuda proprietà di due beni immobili; secondo la pronuncia, infatti, tale condotta sarebbe stata pienamente sussumibile nell’alveo della fattispecie astratta individuata dall’accusa, e cioè la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte di cui all’art. 11 comma 1 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Così, nel confutare i puntuali motivi di censura sviluppati dal ricorrente, la Corte di cassazione, rilevando la natura di reato di pericolo concreto della
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fattispecie di riferimento, è giunta ad affermare che essa potrebbe integrarsi mediante i più disparati atti di disposizione patrimoniale, laddove idonei a generare un pregiudizio per la garanzia dell’Erario in relazione al recupero del credito tributario, e quindi anche attraverso la mera costituzione di un fondo patrimoniale. In questa ottica, la Cassazione ha rilevato che il fondo patrimoniale sarebbe stato aggredibile soltanto per debiti contratti per esigenze familiari, tanto da renderlo immune da azioni recuperatorie relative a poste passive di natura tributaria maturate dal conferente; talché l’atto di segregazione, che per quanto era emerso dalle fasi di merito aveva riguardato tutti i beni immobili di proprietà del ricorrente, avrebbe dovuto ritenersi idoneo a porre in pericolo le ragioni dell’Erario, rendendo così ininfluente ai fini del decidere la circostanza (dedotta dal ricorrente medesimo) dell’iscrizione ipotecaria a carico di suddetti beni, già operata dall’agente di riscossione (elemento allegato dall’imputato proprio al fine di dimostrare l’inopponibilità del vincolo di destinazione impresso, e di riflesso la carenza di offensività/pericolosità della condotta). Inoltre, il conferimento della sola nuda proprietà (con riserva di usufrutto) avrebbe dovuto addirittura, sempre secondo la Cassazione, rappresentare l’indice di maggior portata dimostrativa della natura fraudolenta dell’operazione attuata dal reo. Quanto poi ai motivi di doglianza sviluppati in ordine alla confisca, la Corte ha rimarcato che in relazione al delitto contestato la misura potrebbe essere attuata anche oltre il limite dell’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, involgendo nell’interezza la res sottratta alla garanzia, e che i beni immobili oggetto delle operazioni di disposizione nel caso di specie non avrebbero costituito profitto o comunque «strumento per mezzo del quale è stato commesso il reato», tanto da giustificare la confisca diretta ai sensi dell’art. 240 comma 1 c.p. già disposta nelle fasi di merito del giudizio. Rispetto all’ulteriore tema della non definitività dell’accertamento del debito tributario, risultando gli atti amministrativi che lo incorporavano ancora sub iudice in un parallelo procedimento d’impugnazione, la Cassazione ha infine sottolineato l’assoluta inconsistenza di tale ulteriore questione sollevata dalla difesa, tanto da apporre al ricorso introduttivo lo stigma della manifesta infondatezza, e pertanto dell’inammissibilità, con ogni conseguenziale effetto in ordine all’irrilevanza della prescrizione del reato, che era maturata a seguito della pronuncia della sentenza d’appello. Il provvedimento della suprema Corte solleva allora molte criticità, che meritano di essere sinteticamente analizzate, e fornisce spunto anche per alcuni
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più generali rilievi ricostruttivi della fattispecie incriminatrice di riferimento, che verranno sviluppati qui di seguito. 2. Brevi note in ordine al delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. – La fattispecie contemplata dall’art. 11 del d.lgs. n. 74/2000 affonda le proprie radici in epoca assai remota, tanto da consentire di affermare che l’incriminazione di atti finalizzati all’inadempimento delle obbligazioni tributarie costituisca una vera e propria costante sistematica (1); nondimeno si tratta di una figura dall’esegesi ancora molto controversa, e si discute innanzitutto se l’oggettività giuridica della norma, che delinea una fattispecie di pericolo concreto, sia rappresentata dalla garanzia patrimoniale dell’Erario (ed in questa accezione la figura si avvicinerebbe alla ratio della bancarotta fraudolenta prefallimentare per distrazione) ovvero dal corretto funzionamento della procedura esecutiva di riscossione (2) (ed in questa ottica il delitto assumerebbe invece caratteri similari a quelli del reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice di cui all’art. 388 c.p., e dell’ulteriore fattispecie di cui all’art. 388-ter c.p.); si tratta per il vero di un’opzione che rileva non solo sotto il profilo dogmatico, atteso che in quest’ultimo caso l’integrazione dell’illecito penale sarebbe condizionata a rigore dalla coeva pendenza di azioni esecutive, con conseguente irrilevanza di condotte ad esse antecedenti. La prima soluzione sembra tuttavia aver trovato il favore della giurisprudenza (3), ed appare probabilmente quella da preferirsi valorizzando, ai sensi dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, i lavori preparatori, che mostrano che la mancata riproposizione nel testo della nuova
(1) I precedenti sono rappresentati dall’art. 30 r.d. 17 settembre 1931, n. 1608, poi rimpiazzato dall’art. 261 comma 4 del d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, e successivamente dall’art. 97 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, rimasto in vigore fino all’introduzione dell’art. 11 del d.lgs. n. 74/2000. Tale ultima disposizione è stata modificata dall’articolo 29, comma 4, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, che ha espunto la “clausola di riserva” introduttiva (infra) ed ha aggiunto la circostanza aggravante di cui all’ultimo periodo dell’attuale comma 1, nel caso in cui il debito erariale sia superiore a 200.000 euro (circostanza dunque non contestata all’imputato nel caso di specie in quanto l’atto dispositivo era antecedente all’entrata in vigore della novella). (2) In questo senso P. Aldrovandi, Commento art. 11, in I. Caraccioli – A. Giarda – A. Lanzi (a cura di), Diritto e procedura penale tributaria. Commentario al d.lgs. n. 74/2000, Padova, 2001, 357. (3) Da ultimo vd. Cass., Sez. III, 3 settembre 2015, C.R., n. 36378, in Dejure.
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fattispecie degli “sbarramenti temporali” di cui alle previgenti disposizioni sia stata in effetti frutto di una scelta pienamente consapevole da parte del legislatore (4); il tutto fermo che ai fini dell’integrazione del delitto il debito debba essere già maturato al momento del compimento dell’azione criminosa, anche ai fini del superamento della “soglia” (5). In ordine a quest’ultima, e proseguendo nell’esegesi generale della disposizione, si può osservare che, secondo prevalenti orientamenti, la stessa costituisce presupposto del reato (o elemento costitutivo dello stesso), e non condizione obiettiva di punibilità, con la conseguenza che ai fini dell’integrazione della fattispecie sotto il profilo dell’elemento psicologico il soggetto agente debba essere a conoscenza del fatto che il debito verso l’Erario sia pari o superiore a 50.000 euro (6). In merito al soggetto attivo, al di là del fatto che la fattispecie può essere realizzata sia dall’obbligato al pagamento dei tributi sia dal legale rappresentante dell’impresa (7) che compia atti tipici al fine di rendere inefficaci le azioni recuperatorie nei confronti di quest’ultima (8), la giurisprudenza sembra
(4) Cfr. art. 3.2.3. della Relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo recante la “Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205” approvata il 5 gennaio 2000 dal Consiglio dei ministri. In tal senso vd. E. Musco – F. Ardito, Diritto penale tributario, Bologna, 2013, 305; A. Martini, Reati in materia di finanze e tributi, in Trattato di diritto penale diretto da C.F. Grosso – T. Padovani – A. Pagliaro, vol. XVII, Milano, 2010, 557; M. Romano, Il delitto di sottrazione fraudolenta di imposte, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2009, 1003 ss.; V. Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto tributario, Milano, 2000, 195. (5) Talché, per quanto concerne la sorte e gli interessi, il debito sorge col verificarsi del presupposto dell’obbligazione tributaria, mentre per le sanzioni dall’emissione del provvedimento amministrativo che le compendia. Vd. per tutti A. Ingrassia, Le diverse forme di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, in R. Bricchetti – P. Veneziani (a cura di), Reati tributari, in Trattato teorico-pratico di diritto penale diretto da F. Palazzo e C.E. Paliero, vol. XIII, Torino, 2017, 380. (6) Vd. E.M. Ambrosetti, I reati tributari, in E.M. Ambrosetti – E. Mezzetti – M. Ronco, Diritto penale dell’impresa, Bologna, 2016, 539; R. Zannotti, Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in E. Musco (a cura di), Diritto penale tributario, Milano, 2002, 218. In giurisprudenza vd. in questo senso Cass., Sez. III, 17 novembre 2017, S.G., n. 15133, in Riv. Pen., 2018, pag. 464. (7) Il termine «sottrarsi» infatti è riferibile, per quanto disposto dall’art. 1 lettera e) d.lgs. n. 74/2000, anche al soggetto che compia atti illeciti nell’interesse-vantaggio della persona giuridica. (8) Anche parzialmente, essendo sufficiente, a mente della disposizione, il compimento di atti «idonei a rendere in tutto o in parte inefficaci» le procedure di recupero. In tal senso, in giurisprudenza, vd. Cass. n. 15133/17 cit. e Cass., Sez. III, 24 febbraio 2016, P.B., n. 13233, in
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orientata ad ammettere (nonostante l’opinione dissenziente di una parte della dottrina) (9) la configurabilità del concorso dell’extraneus nel reato “proprio”, laddove anche quest’ultimo versi in dolo specifico (10), seppur non “esclusivo” (11). In ordine alla condotta, che si sostanzia attraverso il compimento di atti di alienazione simulati (con conseguente rilevanza di atti di simulazione tanto assoluta quanto relativa) o altri «atti fraudolenti», si può osservare che l’indeterminatezza di tale ultima locuzione ha indotto alcuni studiosi a nutrire dubbi in ordine alla conformità della norma al principio di legalità, ed al suo corollario di determinatezza (12); peraltro, come meglio si dirà nel prossimo paragrafo, nella prassi la giurisprudenza prevalente, pur negando che il mero atto dispositivo possa assumere carattere “fraudolento” ai fini dell’integrazione della fattispecie in disamina (13), costantemente giunge ad affermare la tipicità di atti a titolo gratuito, anche in assenza cioè di comportamenti denotati da
Cass. Pen., 2017, pagg. 300 ss. Sull’argomento vd. A. Ingrassia, La sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, op. cit., 386, che tuttavia ritiene in proposito che anche il valore dei beni oggetto della condotta illecita debba essere almeno pari a 50.000 euro. Si tratta di interpretazione che ovviamente tende a mitigare gli eccessivi rigori della norma incriminatrice nell’ottica dell’offensività e della proporzionalità della pena, essendo peraltro precluso nella specie, stante la cornice edittale, l’applicazione della condizione di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p. (9) C. Santoriello, Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte e falso in transazione fiscale, in il Fisco, 2011, 2529. (10) Cfr. ad esempio Cass., Sez. III, 17 settembre 2015, A.A.F., n. 41216, in Dejure. È, questo, tema di rilievo proprio nella prospettiva della costituzione del fondo patrimoniale, atteso che al di là del contenuto letterale dell’art. 167 c.c., gran parte della dottrina civilistica ritiene che essa possa aver luogo esclusivamente attraverso l’intervento di entrambi i coniugi, sulla base dello schema del negozio bilaterale: vd. E.E. Del Prato, Le basi del diritto civile, vol. I, Torino, 2017, 62; B. Bove, Fondo patrimoniale: aspetti discussi di una disciplina controversa, Torino, 2014, 52-53; M.L. Cenni, Il fondo patrimoniale, in F. Anelli – M. Sesta, Regime patrimoniale della famiglia, in Trattato di diritto di famiglia diretto da P. Zatti, vol. III, Milano, 2012, 733. In questo senso vd. in giurisprudenza Trib. Reggio Emilia, Sez. Fall., 27 gennaio 2014, proc. V. S.r.l., in Dejure; Trib. S. Maria Capua Vetere, 28 novembre 2013, L.A. c. M.R. S.r.l., in Rivista del notariato, 2014, 1246 ss. (11) È il caso del soggetto gravato da debiti ulteriori rispetto a quelli tributari che realizzi la condotta tipica per evitare iniziative recuperatorie anche di altri creditori; o ancora dell’extraneus che condividendo la finalità coltivata dal reo, fornisca il proprio contributo anche al fine di perseguire il proprio, concorrente tornaconto. (12) Vd. ad es. A. Mereu, La repressione penale delle frodi IVA: indagine ricostruttiva e prospettive di riforma, Padova, 2011, 117. (13) Cfr. ad esempio Cass., Sez. III, 2 marzo 2018, A.M., n. 29636, in Dejure; Cass., Sez. II, 16 maggio 2017, C.G., n. 10161, in Dejure.
caratteri ingannatori/artificiosi, che invece sono espressamente evocati dal dato normativo. Si deve trattare, in ogni caso, di atti che pongano in concreto pericolo la possibilità di recupero del credito tributario; tant’è che il reato può integrarsi solo laddove l’atto dispositivo, attraverso una valutazione complessiva da compiersi ex ante (e cioè al momento del compimento dell’atto stesso) (14), abbia inciso sul patrimonio dell’obbligato in maniera tale da renderlo incapiente rispetto al valore del debito verso l’Erario (15). Quanto ai rapporti con altri reati, è di particolare problematicità quello con il delitto di bancarotta patrimoniale per distrazione, atteso che a ben vedere l’atto dispositivo finisce per costituire la condotta tipica per entrambe le fattispecie criminose, e così idem factum; sull’argomento peraltro la dottrina prevalente ritiene che per l’effetto dell’eliminazione ad opera del legislatore (d.l. n. 78/2010 cit.) della clausola di sussidiarietà in precedenza prevista dalla norma, pur in assenza di elementi fruibili dalla lettura dei lavori preparatori, non vi sarebbero ostacoli alla configurabilità del concorso “reale”, non sussistendo né rapporto di specialità né omogeneità degli interessi tutelati (16).
(14) Cfr. Cass., Sez. III, 6 luglio 2016, D.T.C., n. 3011, in Dejure; Cass., Sez. III, 11 maggio 2016, C.C., n. 35853, sempre in Dejure. (15) Cass. n. 13233/2016 cit. (16) Cfr. ad esempio G. Forte, Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposta, in A. Manna (a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa, Padova, 2018, 850. In senso analogo A. Lanzi – P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, Milano, 2017, 400; S. Delsignore, I delitti di fraudolenta sottrazione al pagamento delle imposte, in A. Cadoppi – S. Canestrari – A. Manna – M. Papa (a cura di), Diritto penale dell’economia, vol. I, Reati societari, finanziari e bancari. Reati tributari, Torino, 2016, 1003; G.L. Soana, I reati tributari, Milano, 2013, 389. In senso contrario, vd. M. Grotto, Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e bancarotta fraudolenta patrimoniale: concorso di reati o concorso apparente di norme?, in Cass. Pen., 2016, 4549 ss. L’A. sostiene la prevalenza per specialità della fattispecie di bancarotta, rilevando l’omogeneità strutturale ma anche valoriale tra i delitti in comparazione. Vi è tuttavia che dal confronto le figure appaiono in effetti in rapporto di specialità reciproca per aggiunta (dal lato della sottrazione fraudolenta in regione del dolo specifico, da quello della bancarotta – perlomeno – in relazione alla dichiarazione di fallimento, e ciò indipendentemente dalla natura di tale ultimo elemento). Per quanto concerne l’aspetto assiologico, sembra invece che la fattispecie di bancarotta sia idonea ad assorbire l’intero disvalore del fatto. Come ben noto, però, la validità dirimente del criterio della consunzione rispetto al dilemma tra concorso formale ed apparente non è condivisa in dottrina (in senso negativo, nella manualistica, vd. G. De Francesco, Diritto penale. Principi, reato, forme di manifestazione, Torino, 2018, 574; F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2017, 468 e 472; T. Padovani, Diritto penale, Milano, 2012, 387, e G. De Vero, Corso di diritto penale, vol. I, Torino, 2012, 367; per un’apertura vd. invece G. Marinucci – E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte
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Tale interpretazione ha così colto il favore anche della giurisprudenza maggioritaria (17), anche se sull’argomento si può soggiungere che la Consulta nel rimarcare la discrezionalità del Parlamento nella previsione di ipotesi di cumulo sanzionatorio ha chiarito in più occasioni che tale facoltà trovi il limite nella ragionevolezza della scelta legislativa attuata e nella proporzionalità della risposta punitiva ad essa riconnessa (18). Limite questo che però nel caso di specie – in considerazione dell’asprezza del trattamento sanzionatorio previsto dalle fattispecie in disamina – sembra ampiamente valicato. La questione peraltro, probabilmente, meriterebbe rimeditazione anche alla luce delle più recenti espressioni delle Sezioni Unite che, nel ribadire ai fini dell’individuazione del concorso apparente tra norme l’esclusiva fruibilità del principio di specialità ex art. 15 c.p. e del confronto strutturale tra fattispecie (affermando la possibilità di “cumulo” per il solo caso di specialità reciproca per aggiunta), sulla base del dictum della sentenza della Consulta n. 200 del 2016 in ordine al principio del ne bis in idem processuale ex art. 649 c.p. (19),
generale, ed. aggiornata con il contributo di G.L. Gatta, Milano, 2017, 527 ss; S. Canestrari – L. Cornacchia – G. De Simone, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, 2017, 842; F. Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2016, 549; B. Romano, Diritto penale. Parte generale, Milano, 2016, 488; A. Manna, Corso di diritto penale. Parte generale, Trento, 2015, 462; D. Brunelli, Il diritto penale delle fattispecie criminose, Torino, 2013, 245 ss.; M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, 2004, pag. 186; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1995, 621) ed è generalmente esclusa in giurisprudenza (solo per segnalare le pronunce delle Sezioni Unite, vd. Sez. Unite, del 23 febbraio 2017, Stalla, n. 20664, in CED Cass., rv. 269668; Sez. Unite, del 28 dicembre 2010, Di Lorenzo, n. 1963, in CED Cass., rv. 248722; Sez. Unite, 28 ottobre 2010, Giordano, n. 1235, in CED Cass., rv. 248865; Sez. Unite, 19 aprile 2007, Carchivi, n. 16568, in CED Cass., rv. 235962; Sez. Unite, 20 dicembre 2005, Marino, n. 47164, in CED Cass., rv. 232302). (17) Cfr. Cass., Sez. III, 20 giugno 2017, F.M. e altro, n. 35591, in Cass. Pen., 2018, pagg. 1333 ss; Cass., Sez. III, 20 novembre 2015, C.R.D., n. 3539, in Cass. Pen., 2017, 759 ss. Contra Cass., Sez. III, 9 dicembre 2015, L.M., n. 834, in Dejure. (18) In tal senso si possono richiamare le pronunce Corte cost., 23 marzo 2016, n. 56 e Corte cost., 13 luglio 2015, n. 185. Nello stesso senso si colloca, per certi versi, anche la pronuncia della Grande Camera della Corte EDU, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia (pubblicata, tra l’altro, con nota di F. Viganò, La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, 18 novembre 2016, in www.penalecontemporaneo.it). (19) È la sentenza Corte cost., 21 luglio 2016, n. 200, oggetto di plurimi commenti (tra i quali quello di D. Pulitanò, La Corte costituzionale sul ne bis in idem, in Cass. Pen., 2017, 70 ss.), e che a sua volta ha tratto spunto dalla pronuncia della Grande Camera della Corte EDU, 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia, intervenuta sul principio del ne bis in idem di cui all’art. 4 del Protocollo 7 alla CEDU. La questione che ha generato il rinvio alla Corte costituzionale era rappresentata da un secondo processo per la fattispecie di omicidio doloso
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ha rimarcato che in tale ultima prospettiva l’interprete debba far riferimento all’idem factum, quale insieme di condotta-evento-nesso causale-circostanze (di tempo, e di luogo) fenomenicamente integrati in concreto, e non all’idem legale (20). Sulla scorta di quanto sopra esposto, muovendo l’obiettivo dell’indagine alle fattispecie in disamina, non sembra pertanto possa dubitarsi che, attesa la piena coincidenza del nucleo essenziale delle fattispecie di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74/2000 e 216 r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (a seguito della pronuncia della sentenza dichiarativa del fallimento), in difetto di esplicite indicazioni del legislatore circa i rapporti tra norme ed a fronte dell’idem factum, la celebrazione di un giudizio per il delitto tributario finisca col rivelarsi preclusiva all’instaurazione di un successivo procedimento per bancarotta (21). Si è dunque probabilmente di fronte ad un’aporia sistematica e ad un contesto che – in difetto di un intervento correttivo da parte del legislatore – potrebbe anche spianare il terreno a manovre speculative del reo che, magari attraverso il ricorso a riti alternativi (22), potrebbe neutralizzare ulteriori iniziative dell’accusa per più gravi addebiti di bancarotta, frustrando evidentemente proprio quelle finalità di law enforcement che una parte della dottrina ritiene siano state poste alla base dell’espunzione della clausola di sussidiarietà in precedenza contemplata dalla disposizione in disamina. Segue. La condotta tipica e la costituzione del fondo patrimoniale. – Come accennato nel precedente paragrafo, uno degli snodi maggiormente problematici nell’applicazione della fattispecie in esame risiede proprio nella qualificazione degli atti dispositivi di natura gratuita, tra cui quelli costitutivi
instaurato, per la medesima condotta, nei confronti di un soggetto in precedenza assolto per varie altre fattispecie delittuose, ed in particolare per quella di disastro ex art. 434 c.p. (si tratta della vicenda “Eternit”). La Consulta, nell’occasione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui consentiva l’instaurazione di un secondo giudizio sulla base del medesimo fatto storico, nel caso di concorso formale tra norme incriminatrici, nell’ipotesi di identità dell’accusa mossa in entrambi i giudizi. (20) Vd. Cass., Sez. Un., 22 giugno 2017, La Marca, n. 41588, in Cass. Pen., 2018, 144 ss. (21) Perlomeno (secondo quanto stabilito dalla Grande Camera con la sentenza A. e B. contro Norvegia, già citata in nota) nel caso in cui tra i giudizi non vi sia una stretta connessione temporale, del resto generalmente accade in questi contesti, ove la dichiarazione di fallimento, ed il successivo giudizio per bancarotta, spesso intervengono a distanza di anni dalla celebrazione del processo per il reato di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74/2000. (22) Abbreviato, ovvero in caso di integrale pagamento di cui all’art. 13-bis d.lgs. n. 74/2000 anche applicazione della pena ex artt. 444 ss. c.p.p.
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del fondo patrimoniale e del trust, abbastanza ricorrenti nella prassi, che peraltro rappresentano negozi giuridici che possono essere dichiarati inefficaci mediante il valido esperimento dell’azione revocatoria ordinaria (art. 2901 c.c.) e, in caso di declaratoria di fallimento, anche di quella di cui all’art. 67 LF (23). Si tratta di comportamenti che, almeno generalmente, vengono ritenuti dalla giurisprudenza (ma anche dalla dottrina) rilevanti agli effetti dell’integrazione della fattispecie di bancarotta fraudolenta (24), atteso che dette operazioni “distraggono” il bene dalla sua caratteristica funzione, che è quella della garanzia patrimoniale dei creditori (25), anche laddove il recupero del credito sia risultato soltanto più difficoltoso (26). Tali conclusioni sono tuttavia legittimate dal fatto che è lo stesso legislatore ad aver operato attraverso l’art. 216 LF un’equazione tra azione “distrattiva” e comportamento “fraudolento”, che invece non risulta affatto riproposta nel contesto della fattispecie oggetto della presente disamina, e che quindi deve indurre l’interprete a ritenere, pena la violazione del principio di legalità, che nel contesto dell’art. 11 d.lgs. n. 74/2000 la locuzione “sottrazione fraudolenta” di cui alla rubrica e quella “atti fraudolenti” riportata nel testo (accanto alle simulazioni) evochino per l’appunto atti fraudolenti stricto sensu intesi, e cioè operazioni connotate da caratteri truffaldini (id est ingannatori). Sicché, pur a fronte di orientamenti giurisprudenziali (nel cui solco si colloca la pronuncia oggetto di esame) che in prevalenza affermano la rilevanza di condotte quali la mera costituzione del trust o del fondo patrimoniale, qualificandole come atti fraudolenti ai fini dell’integrazione del tipo legale, e che pongono l’accento sul decremento della garanzia patrimoniale del
(23) Sul punto vd. D. De Gaetano, I delitti di pagamento in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, in I. Scalfati (a cura di), Reati tributari e doganali, Milano, 2013, 317 ss. (24) In tal senso vd. A. Fiorella, I reati fallimentari, in A. Fiorella (a cura di), Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, Torino, 2016, 386. L’A. rileva infatti che gli atti a titolo gratuito siano generalmente “anomali”, e cioè estranei alle finalità di gestione delle imprese; T. Guerrini, La bancarotta fraudolenta, in N. Mazzacuva – E. Amati (a cura di), Diritto penale dell’economia, Padova, 2013, 215 (che sottolinea la rilevanza agli effetti dell’art. 216 comma 1 n. 1 LF di qualsivoglia atto privo di adeguata contropartita). (25) Così M. Gambardella, Condotte economiche e responsabilità penale, Torino, 2018, pag. 179; N. Pisani, Crisi di impresa e diritto penale, Bologna, 2018, 44 ss. (26) E. Musco – F. Ardito, Diritto penale fallimentare, Bologna, 2018, 98; C. Pedrazzi – F. Sgubbi, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, Bologna, 1995, 56-57.
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creditore (27), si dovrebbe invece ritenere che comportamenti quali quello che ha originato il giudizio sfociato nella sentenza in commento non possano affatto essere ricondotti nel perimetro dell’art. 11 d.lgs. n. 74/2000 cit. (28), residuando al più (oltre ai rimedi civilistici apprestati dall’ordinamento a tutela dei creditori) – nelle realtà d’impresa e in caso di declaratoria del fallimento – la possibilità di contestazione del delitto di bancarotta. Significativa in questo senso è allora, volgendo l’obiettivo dell’indagine al tessuto motivazionale della sentenza annotata, la forzatura ermeneutica operata dalla Cassazione, che è giunta a sostenere che proprio il conferimento nel fondo della sola nuda proprietà costituisse il fondamentale indice della natura fraudolenta dell’iniziativa dell’imputato, quando invece si trattava di un elemento del tutto “incolore” in tale prospettiva: l’enfasi con la quale la Corte ha affrontato l’argomento ha perciò reso ancor più manifesto il salto logico che ha condotto ad attribuire tipicità ad un fatto che proprio nulla aveva in realtà di “fraudolento”. A ciò si aggiunga che la Corte non sembra abbia adeguatamente approfondito l’ulteriore circostanza, allegata dal ricorrente, costituita dal fatto che i beni immobili di proprietà dell’imputato erano stati già sottoposti a iscrizione ipotecaria su iniziativa dell’ente di riscossione; si trattava invece, come evidente, di un elemento che appariva di rilievo in punto di valutazione della reale pericolosità della condotta dispositiva contestata (29). La confisca operabile per il delitto di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74/2000. –
(27) Sul trust vd. Trib. Firenze, Sez. II, 18 luglio 2016, V.P. e altri, n. 3391, in Dejure. Sul fondo patrimoniale vd. Cass., Sez. III, 4 aprile 2012, S.G., n. 40561, sempre in Dejure. (28) Nella stessa linea accolta in questa sede, vd. A. Lanzi – P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, op. cit., 411; A. Martini, Reati in materia di finanze e tributi, op. cit., 568. In giurisprudenza vd. Cass., Sez. III, 12 luglio 2017, D.K., n. 47827, in Riv. Pen., 2018, 66 ss.; Cass., Sez. III, 19 novembre 2015, P.B. e altro, n. 9154, in Dejure. (29) L’iscrizione ipotecaria, indipendentemente dall’azione revocatoria, è consentita in questi casi dall’art. 77 d.P.R. n. 602/1973 cit. nel caso in cui il debito tributario sia originato da bisogni familiari (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 23 agosto 2018, R. c. Equitalia, n. 20998, in Dejure), che la giurisprudenza ritiene generalmente correlati all’esercizio dell’impresa in forma individuale (vd. da ultimo Corte d’appello di Lecce, Sez. I, 21 agosto 2017, Equitalia c. D.S. e altro, n. 819, sempre in Dejure. Nella giurisprudenza di legittimità vd. Cass. Civ., Sez. IV, 24 febbraio 2015, Equitalia c. S.V. e altro, n. 3738, in Dejure, richiamata peraltro anche dal ricorrente). Il che getta ulteriormente luce, a fronte dello specifico motivo spiegato dalla difesa, in ordine alla reale pericolosità della condotta realizzata dall’imputato rispetto alla garanzia patrimoniale dell’Erario, e rende ancor meno condivisibile la soluzione sposata dalla Corte, ed i rilievi spesi al riguardo, che non appaiono corretti già sul piano civilistico, e che per il vero si rivelano per larghi tratti anche particolarmente oscuri.
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Altro dilemma che solleva la sentenza annotata è poi quello della confisca; come accennato difatti l’imputato, titolare di un’impresa individuale, maturato il debito verso l’Erario, aveva conferito la nuda proprietà di due immobili (provenienti peraltro da un atto di donazione da parte di un parente) in un fondo patrimoniale costituito con la propria moglie; beni questi che erano stati poi sottoposti, oltre che come detto ad iscrizione ipotecaria, a confisca diretta nelle fasi di merito del giudizio penale. La Corte allora, dopo aver operato una sintetica definizione dei caratteri e dell’estensione della confisca per equivalente (che per il vero è apparsa del tutto decontestualizzata), ha rimarcato al riguardo che i beni oggetto del provvedimento ablativo costituissero profitto o comunque «lo strumento per mezzo del quale è stato commesso il reato, a nulla rilevando la loro qualificazione anche come prezzo o profitto del delitto», tanto da giustificare pienamente l’irrogazione della confisca diretta ex art. 240 comma 1 c.p. Sul punto, fermo che nel caso di specie sarebbe stata fortemente dubbia la possibilità di operare una confisca per equivalente (atteso che i fatti contestati erano antecedenti all’entrata in vigore della c.d. “legge anticorruzione”) (30), vi è da osservare tuttavia che i beni immobili oggetto del provvedimento ablatorio non sembrano affatto qualificabili né in termini di profitto del reato
(30) In estrema sintesi: prima dell’entrata in vigore del nuovo art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000 (introdotto dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158), la confisca per equivalente per il delitto di cui all’art. 11 era autorizzata dall’art. 1 comma 143 della l. 24 dicembre 2007, n. 244, che faceva riferimento all’art. 322-ter c.p. Tale ultima disposizione, tuttavia, originariamente, e cioè fino all’entrata in vigore della l. 6 novembre 2012, n. 190 c.d. “anticorruzione” (avvenuta il 28 novembre 2012), prevedeva la confiscabilità per equivalente del solo prezzo, e non del profitto del reato. Sicché, stante la natura eminentemente afflittiva della confisca per equivalente (riaffermata anche dalle Sezioni Unite con la ben nota sentenza Cass., Sez. Un., 30 gennaio 2014, Gubert, n. 10561, pubblicata tra l’altro con nota di T. Trinchera, La sentenza delle Sezioni Unite in tema di confisca di beni societari e reati fiscali, 12 marzo 2014, in www. penalecontemporaneo.it, e commentata anche da C.E. Paliero – F. Mucciarelli, Le Sezioni Unite ed il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, 20 aprile 2015, ibidem) ne sarebbe stata impossibile l’applicazione retroattiva ai fatti che hanno originato la vicenda esaminata dalla Suprema Corte (cfr. Cass., Sez. II, 10 marzo 2015, C.C. e altro, n. 11475, in Riv. Pen., 2015, 436 ss. Sull’argomento vd. Corte cost., ord. 2 aprile 2009, n. 97 e Corte cost. ord., 20 novembre 2009, n. 301, entrambe in materia di confisca per equivalente nell’ambito dei reati tributari, e più di recente Corte cost., 7 aprile 2017, n. 68). Cfr. anche R. Bricchetti – P. Veneziani, Confisca, in R. Bricchetti – P. Veneziani, I reati tributari, op. cit., 464 ss. Sulla natura sanzonatoria della confisca ed il divieto di retroattività vd. anche G. Cocco, Breviario delle confische speciali dei beni degli autori dei delitti contro la P.A. previsti nel Capo I del titolo II, in Resp. civ. prev., 2013, 727 ss.
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contestato, né di cosa servita per realizzarlo; in altre parole si intende rilevare, per anticipare la conclusione che si rassegnerà da qui a brevissimo, che la Corte ha di fatto avallato nel caso in esame non una confisca diretta ma un’ablazione del tutto anomala operata per equivalente. Quanto alla confiscabilità diretta, all’affermazione compendiata nella sentenza, in base alla quale i beni oggetto del conferimento nel fondo patrimoniale avrebbero dovuto essere qualificati come strumento per la realizzazione del reato, si può allora replicare che essi ne costituivano semmai l’oggetto; né gli immobili avrebbero potuto essere qualificati come “profitto”. È ben noto infatti che la giurisprudenza ritiene che nei reati tributari per profitto del reato debba intendersi il c.d. “risparmio di spesa” (31), e che la confisca diretta possa colpire in questi casi solo il denaro (o beni fungibili assimilabili) nella disponibilità diretta (o indiretta) del reo, o al più dei beni che siano stati acquistati per mezzo del suddetto “risparmio di spesa”, attraverso operazioni di reinvestimento (32). La natura dei beni de quibus e la loro provenienza (è emerso che gli immobili erano pervenuti nella disponibilità dell’imputato per l’effetto di un atto di liberalità da parte di un terzo, a quanto consta estraneo al reato contestato) mette pertanto a nudo un ulteriore profilo di grave criticità della pronunzia, e l’anomalia dell’ablazione è tale da porre in secondo piano le considerazioni che potrebbero essere spese anche in ordine alla possibilità di sottoporre a confisca – in correlazione al delitto di cui all’art. 11 d.lgs.
(31) Così Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2013, Adami, n. 18734, in Dejure, e poi la sentenza “Gubert” citata nella nota precedente. Sul tema vd. anche E. Mezzetti, Diritto penale. Casi e materiali, Bologna, 2017, 824. In merito al profitto confiscabile, esso viene generalmente individuato dalla giurisprudenza nella sorte capitale (imposta evasa) oltre che negli interessi e nelle sanzioni irrogate (vd. da ultimo Cass., Sez. III, 20 gennaio 2017, G.P. e altro, n. 28047, in Dejure). (32) Si riporta qui di seguito un passo della sentenza “Gubert”: «va anzitutto sottolineato che la confisca diretta del profitto di reato è istituto ben distinto dalla confisca per equivalente. Deve essere tenuto ben presente che la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta… nella nozione di profitto funzionale alla confisca rientrano non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa. La trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. In tutte le ipotesi sopra richiamate non si è in presenza di confisca per equivalente ma di confisca diretta del profitto di reato, possibile ai sensi dell’art. 240 c.p.».
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n. 74/2000 – beni oggetto di disposizione indipendentemente dal loro valore accertato (trattasi infatti di un principio più volte ribadito dalla giurisprudenza della suprema Corte (33), e riproposto dalla sentenza in rassegna che – al di là della sussistenza o meno di una copertura normativa in questo senso, e del palese disallineamento rispetto alla ratio che sottende al sistema delle misure di sicurezza patrimoniali – sembra attribuire all’istituto della confisca diretta una natura spiccatamente sanzionatoria, e che rischia di condurlo in rotta di collisione con il principio di proporzionalità di cui all’art. 27 Cost.). 3. Segue. I rapporti tra confisca e azione recuperatoria del credito erariale. Il problema del rischio di conflitto tra giudicati. – Quanto all’ulteriore questione sollevata dalla difesa del ricorrente in ordine ai rapporti tra confisca e recupero coattivo del credito erariale, che sono regolati dal laconico testo dell’art. 12-bis comma 2 d.lgs. n. 74/2000, per il quale la confisca non opera per la parte che il contribuente abbia versato o si sia obbligato a versare all’Erario (34), al di là del ben più vasto problema del ne bis in idem processuale e sostanziale (35), deve essere dunque affrontato un caso inverso a quello disciplinato, nel quale la confisca precede la riscossione esecutiva o comunque la definitiva espropriazione in sede extrapenale. In proposito si deve ritenere allora, pur in difetto di una puntuale disciplina, che – facendo leva proprio sulla disposizione dianzi richiamata e su ragioni di coerenza sistematica – vada esclusa recisamente la possibilità che l’Erario possa coltivare o proseguire ulteriormente azioni recuperatorie di sorta, generandosi per l’effetto della confisca dei beni (laddove, ben s’intende, la pretesa erariale risulti integralmente soddisfatta per l’effetto della misura)
495.
(33) Per ampi riferimenti si veda R. Bricchetti – P. Veneziani, Confisca, op. cit., 487-
(34) La questione è evidentemente rilevabile tanto nel giudizio di cognizione, quanto in sede di incidente d’esecuzione. L’art. 13-bis d.lgs. n. 74/2000 prevede inoltre al comma 1 che l’estinzione del debito tributario prima dell’apertura del dibattimento costituisce circostanza attenuante ad effetto speciale per il delitto di cui all’art. 11. Su questo argomento si veda G. Melis, La nuova disciplina degli effetti penali dell’estinzione del debito tributario, in Rass. Trib., 2016, 589 ss. (35) L’art. 21 comma 2 d.lgs. n. 74/2000 vieta l’esecuzione relativa alle sanzioni amministrative nei confronti delle persone fisiche in pendenza del giudizio penale; ciò nonostante, sui problemi correlati al cumulo sanzionatorio e processuale vd. A. De Lia, Brevi riflessioni in ordine alla rilevanza penale dell’omesso versamento dell’IVA e delle ritenute, tra ne bis in idem e principio di ragionevolezza, in Riv. Dir. Trib., 2017, 55 ss.
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un fenomeno di estinzione del credito; così come sembra doversi concludere che nel caso in cui i beni oggetto di confisca siano stati anche sottoposti a pesi in sede di riscossione (ipoteca, come nel caso di specie) (36) si verifichi in ordine a tali vincoli un fenomeno estintivo derivante dalla “confusione”, ai sensi dell’art. 1253 c.c. Talché, esclusa la possibilità del “cumulo” tra confisca e ulteriori azioni recuperatorie, paventato dal ricorrente, non resta che analizzare l’altro tema, pure sollevato dall’imputato, relativo al rischio di un conflitto di giudicati, derivante dal fatto che il giudizio tributario sull’an e quantum debeatur era ancora pendente al momento della pronuncia della sentenza definitiva della Cassazione. Al riguardo si può allora osservare sinteticamente che, come ben noto, il legislatore, attraverso l’art. 20 del d.lgs. n. 74/2000, ha confermato esplicitamente la scelta di escludere qualsivoglia interferenza tra giudizio penale e amministrativo-tributario, e cioè la c.d. “pregiudiziale tributaria”, già eliminata per l’effetto dell’entrata in vigore del d.l. 10 luglio 1982, n. 429 (conv. l. 7 agosto 1982, n. 516, c.d. “manette agli evasori”), e di conservare la logica del c.d. “doppio binario”; conseguentemente, essendo il giudice in sede penale totalmente svincolato dalle decisioni assunte da quello investito dall’impugnazione degli atti amministrativi (37), deve ritenersi che la soluzione di rigetto sposata dalla Cassazione sul punto sia immune da rilievi (38). 4. Considerazioni conclusive. – In conclusione la sentenza oggetto di questo breve commento non risulta condivisibile in ordine all’affermazione della responsabilità dell’imputato; e ciò sia sul versante della natura fraudolenta della costituzione del fondo patrimoniale, sia su quello della reale offensività/pericolosità della condotta contestata, atteso che i beni oggetto della segregazione patrimoniale erano pienamente sottoponibili sul piano civilistico
(36) Per i rapporti tra confisca e diritti dei terzi vd. Cass., Sez. Un., 28 aprile 1999, B.B. e altri, n. 9, in Giust. Pen., 1999, II, 674 ss. (37) Cfr. F. D’Arcangelo, I rapporti tra procedimento penale e processo tributario, in R. Bricchetti – P. Veneziani, I reati tributari, op. cit., 464 ss. (38) Anche se la giurisprudenza penale sembra di recente aperta, perlomeno rispetto al sequestro finalizzato alla confisca, ad una progressiva valorizzazione degli effetti del giudizio tributario: vd. Cass., Sez. III, 21 settembre 2016, B.R., n. 19994, in Dejure; Cass., Sez. III, 23 marzo 2016, T.M., n. 26450, in Guida al Dir., 2016, n. 30, pag. 87; Cass., Sez. III, 2 luglio 2015, L.S.G., n. 39187, in Dejure.
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– contrariamente a quanto rilevato dalla Cassazione – all’espropriazione da parte dell’Erario, che peraltro era stata già tutelata mediante iscrizione ipotecaria. Quanto alla confisca, si è rimarcato che i beni oggetto di ablazione, per loro stessa natura (immobili) e provenienza (atto di liberalità da parte di un terzo verosimilmente estraneo al reato), non avrebbero potuto essere sottoposti né a confisca diretta – come invece ha ritenuto la Corte – perché non rappresentavano affatto strumento o profitto del reato, né a confisca per equivalente, in ragione della natura afflittiva di quest’ultima e del conseguente divieto di retroattività della norma che l’autorizza; si è detto inoltre che non appare immune da rilievi neppure il principio espresso dalla Cassazione secondo il quale, in ordine alla fattispecie di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74/2000, sarebbe irrilevante il rapporto tra il valore del bene confiscato e l’ammontare della pretesa erariale, importando detto principio una totale trasfigurazione dell’istituto della misura di sicurezza patrimoniale ed un eccessivo rigore sanzionatorio. La sentenza annotata, dunque, si è posta in linea con orientamenti particolarmente severi della giurisprudenza, peraltro niente affatto isolati, che conducono però a delle forzature evidenti del dato normativo, ad una curvatura della fattispecie finalizzata all’efficientismo. Il tutto snaturando lo strumentario penalistico che, così operando, da mezzo di repressione di fatti di tale allarme sociale da non poter essere adeguatamente contrastati attraverso strumenti previsti da altri rami dell’ordinamento, rischia di divenire – addirittura – un mezzo alternativo di recupero coattivo del credito tributario. A destare perplessità è pertanto, sulla base di ciò che si è detto, anche la declaratoria di inammissibilità del ricorso, che ha portato alla neutralizzazione degli effetti della prescrizione del reato nelle more maturata (39), e che nel contempo apre l’orizzonte sull’ulteriore questione dei rapporti tra confisca e prescrizione, che è di tale vastità da consentire in questa sede null’altro che un accenno. In proposito si può sottolineare allora soltanto che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 49/2015, oggetto di plurimi commenti dottrinali (40), ha
(39) Atteso che il comma 1-bis dell’art. 17 d.lgs. n. 74/2000, che prevede in subiecta materia per la prescrizione termini più ampi rispetto a quelli ordinari, è stato introdotto soltanto con il d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (conv. l. 14 settembre 2011, n. 148), e quindi successivamente al compimento degli atti dispositivi oggetto di contestazione. (40) Si tratta della sentenza Corte cost., 26 marzo 2015, n. 49 annotata, tra gli altri, da V. Manes, La “confisca senza condanna” al crocevia tra Roma e Strasburgo: il nodo della
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affermato il principio secondo il quale la confisca (trattavasi in quel caso della confisca “urbanistica” di cui all’art. 44 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), pure nei casi in cui essa rivesta carattere afflittivo e sia perciò riconducibile al concetto di “pena”, sarebbe applicabile anche attraverso un accertamento incidentale di condanna, e quindi nell’ipotesi in cui, maturata la prescrizione, gli sviluppi del giudizio abbiano in qualche modo consentito di disvelare la responsabilità penale dell’imputato. Tale impostazione non può che sollevare perplessità, che attengono tanto al rispetto del principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), quanto più in genere del più elementare garantismo penale; ciò nondimeno essa risulta confermata in punto di validità dai più recenti orientamenti della giurisprudenza europea, ed in particolare dalla pronuncia Corte EDU, Grande Camera, 28 giugno 2018, G.I.E.M. e altri c. Italia, che ha peraltro segnato un parziale revirement rispetto ad alcune precedenti statuizioni della stessa Corte di Strasburgo sulla disciplina della confisca (41). Nello stesso tempo però la Corte EDU non ha mancato di segnalare con tale ultimo pronunciamento la distonia del sistema interno rispetto ad alcuni principi e a talune fondamentali garanzie convenzionali, sanciti dall’art. 1 Prot. Addizionale in tema di protezione della proprietà; il tutto rilevando l’illegittimità di misure ablative dal contenuto “fisso” – cioè svincolate da una verifica in concreto della gravità dell’illecito, e dunque in contrasto con il principio di proporzionalità consacrato nella disposizione dianzi citata – e applicate in difetto di un effettivo contraddittorio coinvolgente tutti i soggetti interessati. Si tratta di profili di criticità che connotano giocoforza anche la sentenza annotata: non prevedendo il sistema processuale vigente la partecipazione alla fase di cognizione di terzi soggetti interessati dalla confisca (che è così limitata e rinviata alla successiva fase di esecuzione) nel caso di specie, pur trattandosi di fondo patrimoniale, il coniuge dell’imputato non è stato infatti posto in condizione di partecipare al processo; inoltre, sempre nella prospettiva dei principi espressi dalla Corte EDU, non si può non rimarcare il carattere particolarmente afflittivo della confisca operata sui beni di proprietà dell’imputato.
presunzione di innocenza, 13 aprile 2015, in www.penalecontemporaneo.it. (41) La pronuncia è reperibile con nota di A. Galluccio, Confisca senza condanna, principio di colpevolezza, partecipazione dell’ente al processo: l’attesa sentenza della Corte EDU, Grande Camera, in materia urbanistica, 3 luglio 2018, in www.penalecontemporaneo.it.
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In conclusione, la continua tensione tra la figura delittuosa esaminata ed i principi “cardine” dell’ordinamento, anche di derivazione sovrannazionale, dovrebbe indurre la magistratura, prima ancora di un (pur auspicabile) intervento del legislatore (che dovrebbe mirare soprattutto ad una più puntuale definizione della fattispecie e dei suoi rapporti con la bancarotta), a farne un uso più razionale e limitato, nel rispetto del principio di legalità e di quella che Thomas Vormbaum ha definito “frammentarietà prescrittiva” (42); e ciò al fine di scongiurare il rischio di compromissione delle garanzie costituzionali che generalmente comporta l’applicazione del diritto “efficientisticamente orientata”.
Andrea De Lia
(42) T. Vormbaum, Il diritto penale frammentario nella storia e nella dogmatica, 28 ottobre 2014, in www.penalecontemporaneo.it (trad. M. Donini).
Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi
Corte Giust., sez. V, 13 dicembre 2017 - 5 luglio 2018 – C- 544/16; Pres. J.L. da Cruz Vilaça – Rel. A. Borg Barthet Rinvio pregiudiziale – Sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (IVA) – Direttiva 2006/112/CE – Articolo 2, punto 1, lettera c) – Emissione di “crediti” che consentono di piazzare offerte in occasione di vendite all’asta online – Prestazione di servizi a titolo oneroso – Operazione preliminare – Articolo 73 – Base imponibile La corretta definizione di operazione preliminare è dirimente al fine di verificare l’esistenza o meno di un’operazione soggetta all’imposta sul valore aggiunto. Tale analisi è vieppiù necessaria ove le operazioni economiche esaminate abbiano una complessità e una composizione tali per cui la loro approfondita comprensione sia condizione necessaria al fine dell’applicazione dell’art. 73 della Sesta direttiva. Nel caso di specie tale valutazione ha avuto effetti anche sulla ripartizione tra gli Stati Membri interessati nell’operazione economica della riscossione dell’imposta sul valore aggiunto ove gli stessi avevano ovviamente orientamenti differenti in merito all’applicazione del combinato disposto degli artt. 2 e 24 della direttiva. (1)
[Omissis] 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 2, paragrafo 1, degli articoli 14, 24, 62, 63, 65 e 73, nonché dell’articolo 79, lettera b), della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva IVA»). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Marcandi Ltd, che agisce con la denominazione commerciale di Madbid, e i Commissioners for Her Majesty’s Revenue and Customs (amministrazione tributaria e doganale, Regno Unito) (in prosieguo: l’«amministrazione tributaria») relativamente al regime d’imposta sul valore aggiunto (IVA) applicabile alla vendita di «crediti» che consentono di partecipare a vendite all’asta online. Contesto normativo 3 Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva IVA: «Sono soggette all’IVA le operazioni seguenti:
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a) le cessioni di beni effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale; (…) c) le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale; (…)». 4 L’articolo 14, paragrafo 1, di tale direttiva definisce la cessione di beni come «il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario». 5 Ai sensi dell’articolo 24, paragrafo 1, della stessa direttiva: «Si considera “prestazione di servizi” ogni operazione che non costituisce una cessione di beni». 6 L’articolo 62 della medesima direttiva così recita: «Ai fini della presente direttiva, si intende per: 1) “fatto generatore dell’imposta” il fatto per il quale si realizzano le condizioni di legge necessarie per l’esigibilità dell’imposta; 2) “esigibilità dell’imposta” il diritto che l’Erario può far valere a norma di legge, a partire da un dato momento, presso il debitore per il pagamento dell’imposta, anche se il pagamento può essere differito». 7 L’articolo 63 della direttiva IVA prevede quanto segue: «Il fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile nel momento in cui è effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi». 8 L’articolo 65 di tale direttiva è redatto come segue: «In caso di pagamento di acconti anteriore alla cessione di beni o alla prestazione di servizi, l’imposta diventa esigibile al momento dell’incasso, a concorrenza dell’importo incassato». 9 L’articolo 73 della direttiva in parola prevede quanto segue: «Per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi diverse da quelle di cui agli articoli da 74 a 77, la base imponibile comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo, comprese le sovvenzioni direttamente connesse con il prezzo di tali operazioni». 10 L’articolo 79 della medesima direttiva così dispone: «Non sono compresi nella base imponibile gli elementi seguenti: (…) b) i ribassi e le riduzioni di prezzo concessi all’acquirente o al destinatario della prestazione ed acquisiti nel momento in cui si effettua l’operazione; (…)». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 11 La Marcandi è una società con sede nel Regno Unito che esercita attività di vendita online con la denominazione commerciale Madbid (in prosieguo: la «Madbid»). La maggior parte dei beni venduti dalla Madbid sono prodotti cosiddetti «high tech»,
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come telefoni cellulari, tablets, computer, televisori. Occasionalmente, la Madbid vende beni di valore superiore, come, in particolare, automobili. 12 Il sito Internet della Madbid permette ai suoi utenti di acquistare taluni beni venduti dalla Madbid o per un prezzo determinato, presso il negozio online, oppure tramite aste online. 13 Durante il periodo considerato nella controversia principale, la Madbid era registrata come soggetto passivo IVA nel Regno Unito nonché in vari altri Stati membri, in particolare in Germania. 14 Ai termini della clausola 1.2 delle sue condizioni generali, la Madbid «gestisce un sito di vendita all’asta con pagamento per partecipazione all’asta». Gli utenti che intendono partecipare alle vendite all’asta organizzate dalla Madbid sono tenuti ad acquistare presso quest’ultima, contro pagamento, «crediti», che sono necessari per piazzare offerte all’asta e non possono servire ad altri fini. In particolare, tali «crediti» non possono essere utilizzati per acquistare i beni venduti nel negozio online. Essi non possono neppure essere riconvertiti in denaro. 15 Ogni pagina del sito Internet della Madbid contiene un pulsante che consente all’utente di accedere a una pagina nella quale sono venduti i «crediti». Una volta acquistati, questi sono accreditati sul conto dell’utente. Ciascun «credito» è identificato da un codice unico e ad esso è attribuito un valore monetario corrispondente all’importo pagato dall’utente. Talvolta sono attribuiti «crediti gratuiti» agli utenti. Con un valore di 0,00 lire sterline (GBP), essi consentono unicamente agli utenti di partecipare alle vendite all’asta organizzate dalla Madbid. Tali «crediti gratuiti» scadono al termine di un periodo di 30 giorni, mentre i «crediti» pagati sono validi per 180 giorni. 16 Per ogni vendita all’asta, è fissato un prezzo di apertura a GBP 0,00, e il conto alla rovescia è regolato sul tempo massimo stabilito per piazzare offerte, che è generalmente di un minuto. Ad ogni nuova asta, il conto alla rovescia riprende con la stessa durata di quella inizialmente fissata. Per ogni vendita è necessario un numero definito di «crediti», compresi tra 1 e 8, per piazzare offerte e l’utente, cliccando sul pulsante «fai un’offerta», utilizza i suoi «crediti» per un valore pari a tale numero. L’offerta così fatta dall’utente è di GBP 0,01 più alta dell’offerta precedente e diventa l’offerta più alta per la vendita considerata. Il prezzo di vendita indicato del bene aumenta anche di GBP 0,01. 17 L’utente che si aggiudica una vendita all’asta beneficia del diritto di acquistare il bene al prezzo al quale è stato aggiudicato, aumentato delle spese di trasporto e di manutenzione. Il valore dei «crediti» utilizzati per piazzare offerte durante tale vendita è esaurito e non è, pertanto, più imputato al prezzo del bene aggiudicato. Fintanto che il bene non gli è stato spedito, l’utente ha il diritto di annullare il suo ordine. Se del caso, sarà rimborsato per un importo pari al prezzo al quale si è aggiudicato la vendita. 18 Inoltre, una funzione «compra ora» consente all’utente di acquistare un bene identico a quello oggetto della vendita all’asta alla quale partecipa, per un prezzo che, nel corso della vendita, diminuisce di un importo pari al controvalore dei «crediti»
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che ha utilizzato per piazzare offerte nell’ambito di tale vendita. L’utente che acquista un bene tramite la funzione «compra ora» durante una vendita all’asta non può più piazzare ulteriori offerte in quell’asta. 19 Infine, la funzione «sconto accumulato» consente all’utente che non si è aggiudicato la vendita all’asta e che non ha neanche utilizzato la funzione «compra ora» di ottenere uno sconto che potrà far valere successivamente, all’acquisto di un bene disponibile nel negozio online della Madbid. Uno «sconto accumulato», il cui importo corrisponde al controvalore dei «crediti» che hanno permesso all’utente di piazzare offerte nell’ambito di detta vendita, scade al termine di un periodo di 365 giorni. 20 Se l’utente che ha effettuato un acquisto tramite le funzioni «sconto accumulato» o «compra ora» annulla il suo ordine, beneficia di un rimborso pari all’importo che ha pagato per i beni di cui trattasi, ad esclusione del controvalore dei «crediti» che sono stati tenuti in conto per giungere al prezzo finale al quale i beni gli sono stati venduti. 21 In una decisione del 9 dicembre 2013, l’amministrazione tributaria ha ritenuto che l’importo pagato dai clienti della Madbid in cambio di «crediti» rappresentasse il corrispettivo di una prestazione di servizi realizzata nel Regno Unito, ossia la concessione del diritto di partecipare alle vendite all’asta online organizzate dalla Madbid. 22 La Madbid ha presentato un ricorso avverso tale decisione dinanzi al First-tier Tribunal (Tax Chamber) [Tribunale di primo grado (sezione tributaria), Regno Unito] sostenendo che l’emissione di «crediti» a vantaggio dei propri clienti costituisce non già una prestazione di servizi, bensì una semplice «operazione preliminare», ai sensi della sentenza del 16 dicembre 2010, MacDonald Resorts (C-270/09, EU:C:2010:780, punto 24). La Madbid ne deduce che essa è debitrice dell’IVA a motivo non già dell’emissione dei «crediti» a vantaggio dei propri clienti, bensì unicamente delle cessioni di beni. Il corrispettivo di tali cessioni comprenderebbe sia il prezzo pagato dal cliente per il bene che ha acquistato sia il controvalore dei «crediti» esauriti in occasione dell’acquisto di tale bene. In subordine, la Madbid ha sostenuto dinanzi al giudice del rinvio che, se quest’ultimo dovesse dichiarare che l’emissione di «crediti» costituisce una prestazione di servizi, si dovrebbe ritenere che una siffatta prestazione non sia fornita a titolo oneroso, ai fini dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), e dell’articolo 73 della direttiva IVA. 23 L’amministrazione tributaria ha fatto valere dinanzi a detto giudice che, quando la Madbid concede «crediti» ai suoi utenti, essa attribuisce loro il diritto, di cui l’utente può usufruire immediatamente, di partecipare alle vendite all’asta online che essa organizza. Si tratterebbe di una prestazione di servizi. Inoltre, le funzioni «compra ora» e «sconto accumulato» costituirebbero meccanismi promozionali nell’ambito dei quali la Madbid concede un ribasso, ai sensi dell’articolo 79, lettera b), della direttiva IVA, sul prezzo di vendita dei suoi beni. 24 Il giudice del rinvio indica inoltre che, in una decisione del 9 luglio 2014, il Finanzamt Hannover-Nord (amministrazione tributaria di Hannover Nord, Germania)
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ha ritenuto che la vendita di «crediti» da parte della Madbid non costituisse né una cessione di beni né una prestazione di servizi ai fini dell’IVA. Secondo tale amministrazione, la Madbid è debitrice dell’IVA in Germania per le cessioni di beni che essa effettua a utenti stabiliti in tale Stato membro. Il corrispettivo di tali cessioni di beni comprenderebbe non soltanto il prezzo pagato dal cliente per il bene acquistato, ossia il prezzo al quale il bene è stato aggiudicato, il prezzo risultante dall’utilizzo della funzione «compra ora» o il prezzo previa deduzione dello «sconto accumulato», ma altresì il valore dei «crediti» utilizzati ai fini dell’acquisto di tale bene, vale a dire il valore dei «crediti» che hanno permesso di aggiudicare la vendita all’asta o di generare una riduzione del prezzo tramite la funzione «compra ora» o «sconto accumulato». Per quanto riguarda gli utenti che hanno acquistato «crediti» e hanno partecipato a una vendita all’asta senza aggiudicarsela, l’amministrazione tributaria di Hannover-Nord ritiene che sia stata realizzata a loro vantaggio una prestazione di servizi soltanto se questi non effettuino nessun acquisto utilizzando il controvalore dei «crediti» che hanno loro permesso di piazzare offerte. Il corrispettivo di tale prestazione di servizi, soggetta a IVA nel Regno Unito, corrisponderebbe al valore di detti «crediti». 25 In tali circostanze, il First-tier Tribunal (Tax Chamber) [Tribunale di primo grado (Sezione tributaria)] ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) In base a una corretta interpretazione degli articoli 2, paragrafo 1, 24, 62, 63, 65 e 73 della [direttiva IVA] e in circostanze come quelle oggetto del procedimento principale: a) se l’emissione di crediti a favore degli utenti da parte della Madbid a fronte di un pagamento in denaro costituisca i) un’«operazione preliminare» esclusa dall’ambito di applicazione dell’articolo 2, paragrafo 1, [della direttiva IVA], come individuata dalla Corte nella [sua sentenza del 16 dicembre 2010, MacDonald Resorts, (C-270/09, EU:C:2010:780)], ai punti da 23 a 42; oppure ii) una prestazione di servizi effettuata dalla Madbid ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), [di tale direttiva] vale a dire la concessione di un diritto di partecipare ad aste online; b) qualora la concessione del diritto di partecipare ad aste online costituisca una prestazione di servizi erogata dalla Madbid, se essa integri una prestazione effettuata «a titolo oneroso» ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), [di detta direttiva] ossia a fronte del pagamento per essa effettuato (vale a dire il denaro ricevuto dalla Madbid da un utente per i crediti); c) se la risposta al[la prima questione, lettera b)] sia diversa nel caso in cui il pagamento per i crediti costituisca anche il titolo, per l’utente, per acquistare beni dello stesso valore ove egli non si aggiudichi l’asta;
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d) qualora la Madbid, nel riconoscere i crediti a favore dei suoi utenti, non eroghi una prestazione di servizi a titolo oneroso a fronte di un pagamento in denaro, se essa eroghi una siffatta prestazione in un altro momento; e quali principi debbano trovare applicazione nel rispondere alle suddette questioni. 2) In base a una corretta interpretazione degli articoli 2, paragrafo 1, 14, 62, 63, 65, 73 e 79, lettera b), della [direttiva IVA] e in circostanze come quelle oggetto del procedimento principale, se il corrispettivo sia percepito dalla Madbid in cambio delle cessioni di beni da essa effettuate a favore degli utenti per le finalità di cui agli articoli 2, paragrafo 1, lettera a), e 73 [di tale direttiva]. In particolare, tenuto conto della risposta alla prima questione: a) se il denaro corrisposto da un utente alla Madbid per i crediti costituisca un «pagamento di acconti» per una cessione di beni nell’ambito di applicazione dell’articolo 65 [della direttiva IVA], con la conseguenza che l’IVA è «esigibile» al momento dell’incasso e il pagamento ricevuto dalla Madbid dall’utente costituisce il corrispettivo per la cessione dei beni; b) qualora un utente acquisti beni mediante la funzione “Buy Now” (compra ora) o “Earned Discount” (Sconto accumulato), se il valore dei crediti utilizzati per fare offerte all’asta che, in caso di mancata aggiudicazione, genera “Earned Discount” o riduce il prezzo di “Buy Now” costituisca: i) un “ribasso” ai sensi dell’articolo 79, lettera b), [della direttiva IVA] cosicché il corrispettivo per la cessione di beni da parte della Madbid è il denaro effettivamente pagato a quest’ultima dall’utente all’atto dell’acquisto dei beni e null’altro; oppure ii) parte del corrispettivo per la cessione dei beni, cosicché il corrispettivo per detta cessione da parte della Madbid comprende sia il denaro versato a quest’ultima dall’utente all’atto dell’acquisto dei beni sia il denaro versato dall’utente per l’acquisto dei crediti utilizzati per piazzare le offerte non vincenti; c) qualora un utente eserciti il diritto di acquistare beni dopo essersi aggiudicato un’asta online, se il corrispettivo per la cessione di detti beni sia il prezzo stabilito per l’aggiudicazione dell’asta (maggiorato di spese di spedizione e di gestione) e nulla più o se il valore dei crediti che l’aggiudicatario ha usato per fare offerte nell’ambito della suddetta asta sia anch’esso parte del corrispettivo per la cessione dei beni di cui trattasi da parte della Madbid all’utente; o quali principi debbano essere applicati nel rispondere alle suddette questioni. 3) Qualora due Stati membri trattino un’operazione in maniera diversa ai fini dell’IVA, in che misura i giudici di uno dei due suddetti Stati membri debbano tener conto, nell’interpretare le disposizioni applicabili di diritto dell’Unione e di diritto nazionale, dell’opportunità di evitare a) una doppia imposizione dell’operazione, e/o b) a mancata imposizione dell’operazione; e quale impatto abbia su tale questione il principio di neutralità fiscale».
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Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione 26 Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’emissione di «crediti», come quelli di cui trattasi nel procedimento principale, come corrispettivo di un pagamento costituisca una «prestazione di servizi a titolo oneroso», ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c) della direttiva IVA, o se debba essere considerata come un’«operazione preliminare» alla cessione di beni, ai sensi del punto 24 della sentenza del 16 dicembre 2010, MacDonald Resorts (C-270/09, EU:C:2010:780). 27 Occorre ricordare che la Corte ha dichiarato in tale sentenza che l’acquisizione di diritti contrattuali, denominati «punti-diritti», che consentono di ricevere punti che possono essere convertiti, in particolare, nel diritto di usufruire temporaneamente di un alloggio in complessi turistici del prestatore di servizi era non già un’operazione soggetta a IVA, ma un’operazione preliminare realizzata allo scopo di poter aspirare ad un diritto di godimento temporaneo di un’unità abitativa, di un soggiorno in un albergo o di un altro servizio. La Corte ha infatti ritenuto che l’acquisto di «puntidiritti» non fosse in sé obiettivo del cliente nei limiti in cui quest’ultimo stipulava il contratto iniziale non già con l’intenzione di raccogliere punti, bensì allo scopo di usufruire temporaneamente di un’unità abitativa o di ottenere altri servizi selezionati in un momento successivo (sentenza del 16 dicembre 2010, MacDonald Resorts, C-270/09, EU:C:2010:780, punti 24 e 32). 28 Essa è giunta da ciò alla conclusione che l’effettiva prestazione in vista della quale i «punti-diritti» venivano acquisiti era il servizio consistente nel mettere a disposizione dei partecipanti a tale programma le diverse possibili controprestazioni che potevano essere ottenute grazie ai punti riconducibili a detti diritti (sentenza del 16 dicembre 2010, MacDonald Resorts, C-270/09, EU:C:2010:780, punto 27). 29 Nel procedimento principale, è pacifico che i «crediti» permettano esclusivamente di piazzare offerte nell’ambito delle vendite all’asta organizzate dalla Madbid. Di conseguenza, l’utente che acquista «crediti» lo fa necessariamente nell’intenzione di poter partecipare a dette vendite. 30 Orbene, tale servizio presenta, per gli utenti, un interesse autonomo rispetto all’acquisto di beni nel negozio online della Madbid (v., in tal senso, sentenza del 2 dicembre 2010, Everything Everywhere, C-276/09, EU:C:2010:730, punto 27). Infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 39 delle sue conclusioni, la partecipazione alle vendite all’asta organizzate dalla Madbid conferisce agli utenti la possibilità di acquistare beni a un prezzo inferiore al loro valore di mercato. 31 Dal momento che, tuttavia, i «crediti» emessi dalla Madbid non possono servire da pagamento ai fini dell’acquisto di beni venduti nel suo negozio online, che, come risulta dal punto 30 della presente sentenza, a partire dal loro acquisto, tali «crediti» sono identificati come il corrispettivo della possibilità accordata agli utenti di acquistare beni a prezzi inferiori al loro valore di mercato e che i «crediti» utilizzati per partecipare a un’asta non sono imputati al prezzo d’acquisto fissato in esito alla
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stessa, la loro emissione non può essere qualificata come «operazione preliminare» alla cessione di un bene ai sensi del punto 24 della sentenza del 16 dicembre 2010, MacDonalds Resorts (C-270/09, EU:C:2010:780). 32 Di conseguenza, il diritto riconosciuto agli utenti che hanno acquistato tali «crediti» di partecipare alle vendite all’asta organizzate dalla Madbid costituisce di per sé una prestazione di servizi a pieno titolo che non può confondersi con la cessione di beni che può avvenire in esito a dette vendite. 33 Una siffatta conclusione s’impone a maggior ragione quando l’utente di «crediti» acquista un bene attivando le opzioni «compra ora» o «sconto accumulato», poiché, se ha usufruito del servizio permesso dai «crediti» acquistati, l’acquisto realizzato con l’attivazione di tali opzioni rappresenta un’operazione indipendente da tale servizio fornito come corrispettivo dell’acquisto dei «crediti». 34 La Madbid sostiene, tuttavia, che, anche qualora l’emissione di «crediti» dovesse considerarsi una prestazione di servizi, essa non sarebbe effettuata a titolo oneroso. 35 A tale riguardo, occorre ricordare che, ai termini dell’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva IVA, sono soggette a IVA le prestazioni di servizi effettuate «a titolo oneroso» sul territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale. 36 In forza di una giurisprudenza costante, una prestazione di servizi è effettuata «a titolo oneroso», ai sensi di detta disposizione, soltanto quando tra l’autore di tale prestazione e il beneficiario intercorra un rapporto giuridico nell’ambito del quale avvenga uno scambio di prestazioni sinallagmatiche, nel quale il compenso ricevuto dall’autore di tale prestazione costituisca il controvalore effettivo del servizio fornito al beneficiario (sentenze del 16 dicembre 2010, MacDonald Resorts, C-270/09, EU:C:2010:780, punto 16 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 20 giugno 2013, Newey, C-653/11, EU:C:2013:409, punto 40). 37 La Corte ha dichiarato che ciò si verifica quando esiste un nesso diretto fra il servizio fornito dal prestatore e il controvalore ricevuto, ove le somme versate costituiscono un corrispettivo effettivo di un servizio individualizzabile fornito nell’ambito di un siffatto rapporto giuridico (sentenze del 3 marzo 1994, Tolsma, C-16/93, EU:C:1994:80, punti 13 e 14; del 16 dicembre 2010, MacDonald Resorts, C-270/09, EU:C:2010:780, punti 16 e 26, nonché del 10 novembre 2016, Baštová, C-432/15, EU:C:2016:855, punto 28). 38 Nel procedimento principale, dalla clausola 1.2 delle condizioni generali della Madbid risulta che quest’ultima «gestisce un sito di vendita all’asta con pagamento per partecipazione all’asta». 39 Gli utenti che intendono partecipare alle vendite all’asta organizzate dalla Madbid sono infatti tenuti ad acquistare «crediti» presso la stessa contro pagamento. Tali «crediti» sono necessari per fare offerte all’asta e non possono servire ad altri scopi. Il numero di «crediti» necessario per piazzare offerte all’asta varia in funzione
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delle vendite. Quando un utente piazza un’offerta, i suoi «crediti» sono addebitati per un importo pari a tale numero e il prezzo del bene messo all’asta aumenta di GBP 0,01. L’utente che si aggiudica una vendita all’asta beneficia del diritto di acquistare il bene al prezzo al quale è stato aggiudicato, aumentato delle spese di trasporto e di manutenzione. Il valore dei «crediti» spesi per piazzare offerte nel corso di tale vendita è però esaurito. Infine, quando l’utente che si è aggiudicato detta vendita acquista il bene messo all’asta e annulla in seguito il suo acquisto, gli è rimborsato soltanto l’importo del prezzo al quale il bene è stato aggiudicato, ad esclusione del valore dei «crediti» che ha utilizzato per piazzare offerte. 40 Tali elementi indicano che il pagamento ricevuto dalla Madbid in cambio dei «crediti» che essa emette costituisce il corrispettivo effettivo del servizio che essa fornisce ai suoi utenti, il quale consiste nell’attribuzione del diritto di partecipare alle vendite all’asta che essa organizza. 41 Tale conclusione non è rimessa in discussione dalla circostanza che, grazie alla funzione «sconto accumulato», gli utenti che non si aggiudicano la vendita all’asta vedono il controvalore dei loro «crediti» convertito in sconto da far valere successivamente, in occasione dell’acquisto di un bene disponibile nel negozio online della Madbid. 42 Parimenti, è irrilevante a tale riguardo il fatto che l’utente che ha cliccato sul pulsante «compra ora» ha la possibilità di acquistare un bene identico a quello oggetto della vendita all’asta per un prezzo ridotto per un importo pari al controvalore dei «crediti» che ha utilizzato per piazzare offerte nell’ambito di tale vendita. 43 Da un lato, infatti, solo il valore dei «crediti» che sono stati preliminarmente utilizzati per piazzare offerte può essere imputato al prezzo dei beni acquistati mediante le funzioni «compra ora» e «sconto accumulato». 44 Dall’altro lato, l’utente che decide di annullare un acquisto effettuato tramite le funzioni «compra ora» o «sconto accumulato» è rimborsato soltanto per un importo pari al prezzo dopo lo sconto, aumentato delle spese di cessione, ad esclusione del controvalore dei «crediti» di cui è stato tenuto conto nel calcolo del prezzo che ha pagato per i beni. 45 Pertanto, l’argomento della Madbid, secondo cui l’emissione di «crediti» rappresenta il diritto per l’utente di acquistare beni per un importo pari al controvalore di tali «crediti», non corrisponde alla realtà economica e commerciale, la quale costituisce un criterio fondamentale per l’applicazione del sistema comune dell’IVA (sentenza del 20 giugno 2013, Newey, C-653/11, EU:C:2013:409, punto 42 e giurisprudenza ivi citata). 46 Dalle considerazioni che precedono risulta che il pagamento ricevuto dalla Madbid in cambio dei «crediti» che essa emette rappresenta il corrispettivo effettivo della prestazione che costituisce l’attribuzione del diritto di partecipare alle vendite all’asta che essa organizza, la quale si distingue dalla cessione di un bene acquistato sul suo sito.
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47 A tale riguardo, occorre precisare che, nel procedimento principale, gli utenti possono acquistare i beni venduti nel negozio online della Madbid pagando i loro acquisti con carta di credito o di debito, vale a dire senza partecipare alle vendite all’asta che questa organizza. Inoltre, la partecipazione a una vendita all’asta organizzata dalla Madbid non conduce necessariamente a una cessione di beni, o perché l’utente che si è aggiudicato tale vendita sceglie di non acquistare il bene che gli è stato attribuito, o perché, non essendosi aggiudicato la stessa e non avendo usato la funzione «compra ora», ottiene uno sconto che non fa valere immediatamente. 48 Ne consegue che, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 58 delle sue conclusioni, l’emissione di «crediti» e la cessione di beni, nei limiti in cui non costituiscono una sola prestazione economica indissociabile, non possono essere qualificate come prestazione unica. Per gli stessi motivi e tenuto conto della regola secondo la quale ogni operazione deve essere considerata come distinta e indipendente dall’altra, l’emissione di «crediti» e la cessione di beni non possono neanche essere qualificate come accessorie l’una rispetto all’altra. 49 Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), della direttiva IVA deve essere interpretato nel senso che l’emissione di «crediti», come quelli di cui trattasi nel procedimento principale, che consentono ai clienti di un operatore di piazzare offerte nelle vendite all’asta organizzate da quest’ultimo, costituisce una prestazione di servizi a titolo oneroso, il cui corrispettivo è l’importo versato in cambio di detti «crediti». Sulla seconda questione 50 Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 73 della direttiva IVA debba essere interpretato nel senso che il valore dei «crediti» utilizzati per piazzare offerte è incluso nel corrispettivo percepito dal soggetto passivo in cambio delle cessioni di beni da esso effettuate a vantaggio degli utenti che si sono aggiudicati una vendita all’asta da esso organizzata o di quelli che hanno acquistato un bene tramite le funzioni «compra ora» o «sconto accumulato». 51 Conformemente all’articolo 73, della direttiva IVA, la base imponibile per le forniture di beni o le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso, è rappresentata da «tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo». 52 A tale riguardo, occorre subito ricordare che, come risulta dalla risposta alla prima questione, il pagamento effettuato da un utente in cambio dei «crediti» emessi dalla Madbid rappresenta il corrispettivo della concessione del diritto di partecipare alle vendite all’asta che essa organizza. 53 Orbene, come sottolineato dall’avvocato generale al paragrafo 79 delle sue conclusioni, l’importo pagato come corrispettivo di un’operazione non può costituire il corrispettivo di un’altra operazione, né tantomeno un pagamento di acconto del corrispettivo di un’altra operazione.
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54 Occorre così indicare, in risposta a un quesito del giudice del rinvio, che il pagamento effettuato da un utente in cambio di «crediti» non può essere qualificato come un acconto versato prima della cessione di beni, ai sensi dell’articolo 65 della direttiva IVA. 55 Inoltre, il corrispettivo della cessione di un bene aggiudicato in occasione di una vendita all’asta non può includere la somma versata in cambio dell’emissione di «crediti» utilizzati nell’ambito di tale vendita, ma comprende unicamente il prezzo al quale il bene è stato aggiudicato nonché le spese di trasporto e di manutenzione. 56 Infine, detta somma non può neanche essere inclusa nel corrispettivo della cessione successiva di beni acquistati tramite le funzioni «compra ora» o «sconto accumulato». 57 Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 92 delle sue conclusioni, il valore dei «crediti» utilizzati per piazzare offerte, che è imputato al prezzo iniziale risultante dall’utilizzo della funzione «compra ora» o al prezzo indicato nel negozio online, deve essere considerato come un ribasso sul prezzo dei beni acquistati utilizzando le funzioni «compra ora» o «sconto accumulato». Pertanto, conformemente all’articolo 79, lettera b), della direttiva IVA, il valore di tali «crediti» non può far parte della base imponibile a titolo di cessione dei beni. 58 Ciò accade anche quando, nell’ambito dell’acquisto di beni tramite le funzioni «compra ora» o «sconto accumulato», il valore dei «crediti» spesi per piazzare offerte all’asta ricomprende la totalità del prezzo iniziale risultante dall’utilizzo della funzione «compra ora» o del prezzo indicato nel negozio online. 59 Infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 102 delle sue conclusioni, i beni acquistati in una simile ipotesi, contrariamente alla causa oggetto della sentenza del 27 aprile 1999, Kuwait Petroleum (C-48/97, EU:C:1999:203), non possono essere considerati come aventi ad oggetto un trasferimento a titolo gratuito, poiché sono ceduti in cambio di un corrispettivo identificabile, ossia, rispettivamente, il prezzo iniziale risultante dall’utilizzo della funzione «compra ora» o il prezzo indicato nel negozio online. 60 Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve rispondere alla seconda questione dichiarando che l’articolo 73 della direttiva IVA deve essere interpretato nel senso che, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, il valore dei «crediti» utilizzati per piazzare offerte non è compreso nel corrispettivo percepito dal soggetto passivo in cambio delle cessioni di beni da esso effettuate a vantaggio degli utenti che si sono aggiudicati una vendita all’asta da esso organizzata o di quelli che hanno effettuato il loro acquisto tramite le funzioni «compra ora» o «sconto accumulato». Sulla terza questione 61 Con la terza questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se, quando due Stati membri trattano in maniera differente una stessa operazione ai fini dell’IVA, i giudici di uno di tali Stati membri, nell’interpretare le disposizioni pertinenti del
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diritto dell’Unione e del diritto nazionale, siano tenuti a prendere in considerazione la necessità di evitare una doppia imposizione o una doppia non imposizione dell’operazione alla luce, in particolare, del principio di neutralità fiscale. 62 A tale riguardo, occorre ricordare che l’articolo 267 TFUE istituisce un meccanismo di rinvio pregiudiziale volto a prevenire divergenze interpretative del diritto dell’Unione che i giudici nazionali devono applicare (v., in tal senso, sentenza del 21 luglio 2011, Kelly, C-104/10, EU:C:2011:506, punto 60 e giurisprudenza ivi citata). 63 Infatti, l’articolo 267 TFUE conferisce ai giudici nazionali la facoltà – ed eventualmente impone loro l’obbligo – di effettuare un rinvio pregiudiziale, a seconda che le loro decisioni possano o meno essere oggetto di ricorso giurisdizionale di diritto interno, qualora ritengano che, nell’ambito di una controversia dinanzi ad essi pendente, siano sorte questioni che implicano un’interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione che esiga una pronuncia da parte loro (v., in tal senso, sentenza del 21 luglio 2011, Kelly, C-104/10, EU:C:2011:506, punto 61 e giurisprudenza ivi citata). 64 Pertanto, allorché accertano che una stessa operazione è oggetto di un trattamento fiscale differente in un altro Stato membro, i giudici di uno Stato membro investiti di una controversia che solleva questioni che implicano un’interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione che esiga una pronuncia da parte loro, hanno la facoltà, o addirittura l’obbligo, di sottoporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale. 65 Inoltre, occorre precisare che l’esistenza, in uno o più altri Stati membri, di approcci diversi da quello vigente nello Stato membro considerato non può, comunque, portare i giudici di quest’ultimo Stato a interpretare in modo errato le disposizioni della direttiva IVA. 66 Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve rispondere alla terza questione dichiarando che, nell’interpretare le disposizioni pertinenti del diritto dell’Unione e del diritto nazionale, i giudici di uno Stato membro che accertano che una stessa operazione è oggetto in un altro Stato membro di un trattamento differente ai fini dell’IVA hanno la facoltà, o addirittura l’obbligo, a seconda che le loro decisioni possano o meno essere oggetto di ricorso giurisdizionale di diritto interno, di sottoporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale. Sulle spese 67 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara: 1) L’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretato nel senso che l’emissione di «crediti», come quelli di cui trattasi nel procedimento principale, che consentono ai clienti di un operatore di piazzare
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offerte nelle vendite all’asta organizzate da quest’ultimo, costituisce una prestazione di servizi a titolo oneroso, il cui corrispettivo è l’importo versato in cambio di detti «crediti». 2) L’articolo 73 della direttiva 2006/112 deve essere interpretato nel senso che, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, il valore dei «crediti» utilizzati per piazzare offerte non è compreso nel corrispettivo percepito dal soggetto passivo in cambio delle cessioni di beni da esso effettuate a vantaggio degli utenti che si sono aggiudicati una vendita all’asta da esso organizzata o di quelli che hanno effettuato il loro acquisto tramite le funzioni «compra ora» o «sconto accumulato». 3) Nell’interpretare le disposizioni pertinenti del diritto dell’Unione e del diritto nazionale, i giudici di uno Stato membro che accertano che una stessa operazione è oggetto in un altro Stato membro di un trattamento differente ai fini dell’imposta sul valore aggiunto hanno la facoltà, o addirittura l’obbligo, a seconda che le loro decisioni possano o meno essere oggetto di ricorso giurisdizionale di diritto interno, di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea una domanda di pronuncia pregiudiziale. [Omissis]
(1) La prestazione di servizi a titolo oneroso e la definizione di operazione preliminare. Sommario: 1. Premessa. – 2. La prestazione di servizi a titolo oneroso e le operazioni preliminari nella normativa comunitaria. – 3. La base imponibile della cessione dei beni.
La Corte di Giustizia Europea è intervenuta sulla definizione di servizio a titolo oneroso al fine di verificare se l’acquisto di “crediti” da una piattaforma di aste al centesimo costituisca il corrispettivo per la prestazione di un servizio ovvero, come supposto dal ricorrente e dall’Amministrazione finanziaria tedesca, solo un’operazione preliminare. In quest’ultimo caso, il corrispettivo pagato avrebbe partecipato alla determinazione del corrispettivo per l’acquisto di beni. The Court of Justice of the European Union intervened on the definition of supply of services for consideration in order to verify if the payment for the purchase of “credits” from a one cent bid website could be considered as payment of the services or, as stated by the applicant and the German Tax Administration, a preliminary operation. In this latter case the payment would have been considered as part of the taxable amount for the supply of goods.
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1. Premessa. – La sentenza in commento concerne una domanda di pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione degli articoli 2, paragrafo 1, 14, 24, 62, 63, 65, 73 e 79, lettera b), della direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 (Direttiva). La fattispecie si riferisce alle c.d. aste al centesimo nelle quali i partecipanti che intendono proporre un’offerta devono pagare una commissione non rimborsabile (denominata appunto commissione d’offerta). Quando l’asta inizia, il timer avvia un conto alla rovescia (nel caso di specie pari a un minuto). Ogni offerta fa aumentare il prezzo del bene oggetto dell’asta di 0,01 sterline e fa ripartire il timer; l’asta termina quando il timer arriva a zero e il bene viene assegnato al soggetto che ha fatto l’ultima offerta. Le commissioni di offerta dovevano essere pagate dall’utente direttamente alla società che gestiva l’asta ovvero alla ricorrente Marcandi Limited, operante con il nome commerciale di Madbid, previa registrazione online ed accettazione delle condizioni contrattuali. Una volta effettuata la registrazione, l’utente poteva acquistare, mediante carte di credito o di debito, i crediti che permettevano di piazzare l’offerta nell’asta online. Ogni credito aveva un codice di riconoscimento unico che consentiva alla Madlib di tracciare in qualsiasi momento il suo utilizzo e il conto dell’utente ad esso associato. I crediti erano venduti in pacchetti di diversa consistenza e a prezzi differenti (a titolo esemplificativo: era possibile acquistare un pacchetto da 500 crediti per 49,99 sterline o un pacchetto di 80 crediti per 9,99 sterline) (1). Ogni credito aveva uno specifico valore monetario generalmente corrispondente all’importo che l’utente aveva pagato per i medesimi crediti. I crediti avevano una durata limitata di 180 giorni (2). Secondo le condizioni contrattuali previste all’atto dell’iscrizione, i crediti acquisiti non potevano essere utilizzati direttamente per l’acquisto dei beni dalla piattaforma Madbid e non potevano essere riconvertiti in denaro. Erano quindi utilizzabili esclusivamente per partecipare alle aste online ed eventualmente, dopo tale utilizzo, per ridurre il prezzo di acquisto dei beni (nelle funzioni Buy Now e Earned Discount di cui infra).
(1) Il prezzo del pacchetto si divide per il numero dei crediti ottenuti con un sistema di arrotondamento il cui effetto è quello di generare un’equivalenza esatta o molto prossima fra l’importo originariamente pagato dall’utente e il valore assegnato al credito (i.e. 0,01 sterline). (2) Talvolta erano attribuiti crediti gratuiti agli utenti la cui durata era però di soli 30 giorni.
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Per tutte le aste il prezzo di apertura era fissato in 0,00 sterline ed il timer indicava la durata dell’asta. Ogni asta richiedeva l’utilizzo dei crediti che potevano variare per singola offerta da 1 a 8 crediti. Ogni offerta avrebbe quindi utilizzato un numero di crediti pari a quello indicato per singola offerta. L’asta si concludeva quando il timer arrivava a zero. Ad ogni offerta il prezzo di acquisto del bene aumentava di 0,01 sterline e il credito utilizzato dall’utente per formulare l’offerta veniva detratto dal suo conto. Una volta conclusa l’asta, all’utente veniva concesso il diritto di acquistare il bene al prezzo raggiunto che doveva però essere maggiorato delle spese di spedizione e di gestione (3). L’utente che si era aggiudicato il bene non era obbligato ad acquistarlo; in caso di rinuncia all’acquisto, avrebbe comunque perso definitivamente i crediti utilizzati durante l’asta e il bene sarebbe stato disponibile per una nuova asta. Nello stesso tempo, i crediti utilizzati dai partecipanti non aggiudicatari avrebbero generato uno sconto pari al valore dei crediti spesi facendo offerte nell’ambito dell’asta; in altre parole, i crediti utilizzati per un’asta non vinta sarebbero stati trasformati in un Earned Discount che avrebbe avuto una durata di 365 giorni dalla data di utilizzo del credito stesso. L’Earned Discount permetteva di acquistare un bene direttamente dal negozio Madbid riducendo il prezzo ivi previsto di un importo pari a quello cumulato mediante l’utilizzo infruttuoso dei crediti durante le aste. Si noti che tale utilizzo era permesso solamente dopo avere impiegato i crediti per partecipare alle aste e non era possibile usufruire degli stessi, senza prima averli utilizzati, per acquisti di beni direttamente dalla piattaforma. Infine, la piattaforma prevedeva anche la funzione “Buy Now” che consentiva a un utente di acquistare, nel corso dell’asta, un bene identico a quello per il quale si stava facendo l’offerta. Il prezzo di tale bene era ridotto del valore dei crediti spesi durante l’asta stessa. A titolo esemplificativo, l’utente che aveva speso 100 sterline durante l’asta, facendo clic sul pulsante “Buy Now”
(3) A titolo esemplificativo se un’asta per un bene – partita da 0,00 sterline più 8 sterline di spese di spedizione e gestione – si era chiusa con un’offerta vincente di 1,45 sterline (cioè dopo 145 offerte), l’aggiudicatario dell’asta avrebbe avuto il diritto di acquistare il bene pagando complessivamente 9,45 sterline.
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avrebbe potuto acquistare il bene direttamente versando il prezzo iniziale del bene ridotto di un importo pari appunto a 100 sterline. Le due funzioni (Earned Discount e Buy Now) assicuravano che l’utente non avrebbe perso denaro nell’acquisto dei crediti i quali avrebbero sempre avuto un valore nella riduzione del prezzo di acquisto dei beni della piattaforma Madbid. Anche nel caso di acquisti tramite il Buy Now e l’Earned discount l’utente aveva la possibilità di annullare il proprio ordine; in tal caso i crediti utilizzati sarebbero stati definitivamente annullati. La fattispecie sopra descritta era già stata oggetto di analisi da parte dell’Amministrazione finanziaria tedesca (relativamente alle vendite effettuate in Germania). In particolare, con decisione del 9 luglio 2014, il Finanzamt Hannover Nord aveva concluso che i) l’emissione di crediti da parte della Madbid non costituisse un’operazione soggetta ad Iva, ii) quando la Madbid effettuava la cessione del bene a utenti situati in Germania, ciò costituiva una cessione di beni ai fini IVA, iii) il corrispettivo di tale cessione (e quindi la base imponibile e l’IVA) era pari al prezzo pagato dall’utente per i beni maggiorato del valore di crediti spesi nell’acquistare i beni stessi (vale a dire i crediti impiegati nell’effettuare offerte dirette durante l’asta ovvero nel contribuire alla riduzione del prezzo Buy Now o Earned Discount) iv) la Madbid era tenuta a versare in Germania l’IVA su tali cessioni di beni. Nulla è stato concluso in merito all’IVA dovuta sul corrispettivo pagato per l’acquisto dei crediti utilizzati per ordinativi (poi annullati) di beni ovvero scaduti e mai utilizzati, nemmeno attraverso le possibilità Buy Now e Earned Discount, probabilmente perché ciò non rientrava nella competenza territoriale dell’Amministrazione finanziaria tedesca, Discostandosi dalla posizione testé descritta, l’Amministrazione finanziaria inglese ha concluso che il corrispettivo pagato alla Madbid per l’acquisto dei crediti dovesse considerarsi come corrispettivo per l’acquisizione a titolo oneroso di una prestazione di servizi identificabile nella concessione del diritto di partecipare alle aste online e che il luogo di prestazione di tale servizio fosse la sede della Madbid (i.e. Regno Unito).
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2. La prestazione di servizi a titolo oneroso e le operazioni preliminari nella normativa comunitaria. – Come è noto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2, paragrafo 1, lettera c) e art. 24, paragrafo, 1 della Direttiva sono soggette ad IVA le prestazioni di servizi a titolo oneroso intendendosi come tali ogni operazione che non costituisce una cessione di beni. Ciò premesso, occorre definire se l’acquisto dei crediti da parte degli utenti costituisca un’azione preliminare al successivo acquisto dei beni oppure se l’emissione dei crediti sia di per sé una prestazione di servizi a titolo oneroso consistente nella possibilità di partecipare alle aste. Secondo la tesi sostenuta dalla Madbid, l’acquisto dei crediti era assimilabile ad un’azione preliminare come individuata nella sentenza del 16 dicembre 2010 causa C-270/09 (MacDonald Resorts). Dall’analisi del testo della sentenza emerge che l’elemento dirimente per la decisione è comprendere quale sia l’interesse autonomo degli utenti rispetto all’acquisto dei crediti; in altre parole, occorre individuare la volontà degli utenti nel corrispondere un corrispettivo a fronte dell’emissione dei crediti. Il principio dell’interesse autonomo è rinvenibile anche nelle conclusioni della sentenza MacDonald ove la ricorrente vendeva punti-diritti al fine di acquisire il diritto di godimento di soggiorni alberghieri o unità abitative dei quali, al momento dell’acquisto, non erano noti né l’ubicazione né il periodo. Nel caso MacDonald quindi i servizi locativi fruibili mediante l’utilizzo dei punti-diritti non erano individuati. In tale sentenza i giudici hanno statuito che l’acquisto di punti-diritti non rappresenta in sé l’obiettivo del cliente. Infatti “l’acquisto di siffatti diritti nonché la conversione dei punti vanno piuttosto considerati quali operazioni preliminari realizzate allo scopo di poter aspirare ad un diritto di godimento temporaneo di un’unità abitativa, di un soggiorno in un albergo o di un altro servizio”. Il principio dell’interesse economico è rinvenibile inoltre nella sentenza 2 dicembre 2010 causa C-276/09 (Everything Everywhere Ltd) ove è stato statuito che il pagamento da parte dei clienti del servizio aggiuntivo di riscossione delle bollette delle utenze telefoniche (se non addebitate direttamente tramite canale bancario) non costituisce un fine a se stante; secondo la sentenza “l’asserita prestazione di servizi, alla quale, i clienti in questione non possono ricorrere indipendentemente dalla fruizione del servizio di telefonia mobile, non presenta, dal punto di vista di questi ultimi, alcun interesse autonomo rispetto a detto servizio”. Applicando il principio dell’interesse autonomo al caso di specie è evidente che gli utenti che acquistano i crediti dalla Madbid hanno l’interesse
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a partecipare alle aste ed a rendersi acquirenti di beni ad un prezzo inferiore rispetto al prezzo consigliato. L’acquisto dei beni è, invece, un’operazione distinta e successiva a tale prestazione di servizi. Quanto appena affermato è confermato non solo dalla circostanza che il cliente una volta vinta l’asta poteva rinunciare all’acquisto del bene, ma altresì dal fatto che i crediti acquisiti di per sé non potevano essere utilizzati direttamente per l’acquisto dei beni dalla piattaforma Madbid; infatti il loro utilizzo in tal senso era possibile solamente dopo il loro utilizzo in un’asta; inoltre, i crediti stessi avrebbero potuto essere utilizzati esclusivamente al fine di ridurre il prezzo di acquisto dei beni dalla piattaforma online di Madbid (4). Per i suddetti motivi, i giudici hanno confermato l’orientamento espresso dall’Avvocato Generale concludendo che “di conseguenza, il diritto riconosciuto agli utenti che hanno acquistato tali crediti di partecipare alle vendite all’asta organizzate dalla Madbid costituisce di per sé una prestazione di servizi a pieno titolo che non può confondersi con la cessione di beni che può avvenire in esito a dette vendite”. Infine, sulla contestazione sollevata dalla Madbid che anche nell’ipotesi in cui l’emissione dei crediti dovesse considerarsi una prestazione di servizi, essa non sarebbe effettuata a titolo oneroso, i giudici eurounionali hanno ricordato che per giurisprudenza costante (sentenze 16 dicembre 2010 n. C-270/09 MacDonald; 20 giugno 2013 n. C-653/11 Newey; 3 marzo 1994 n. C-16/93; 10 novembre 2016 n. c-432/15 Bastovà) la prestazione è a titolo oneroso quando esiste un nesso diretto fra il servizio fornito dal prestatore e il controvalore ricevuto, ove le somme versate costituiscono un corrispettivo effettivo di un servizio individualizzabile fornito nell’ambito di un siffatto rapporto giuridico. Pertanto, solamente il carattere incerto della stessa evidenza di un compenso spezza il nesso diretto tra il servizio fornito al destinatario e il compenso eventualmente ricevuto.
(4) Altro elemento a supporto delle conclusioni raggiunte è rinvenibile nell’ordinanza di rinvio nella quale si sottolinea che “la contrapposizione tra il comportamento di coloro che accedono direttamente al negozio Madbid e di quelli che acquistano i crediti e partecipano a un’asta indica che questi ultimi hanno un motivo per fare ciò che hanno deciso di fare e che tale motivo è il desiderio di partecipare a un’asta nella speranza di aggiudicarsela”. Quanto indicato nelle conclusioni, peraltro, prescinde – in mancanza di prove decisive in tal senso – dall’eventuale esistenza di un valore di intrattenimento derivante dalla partecipazione all’asta che avrebbe potuto rafforzare ulteriormente il concetto di prestazione di servizio.
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Nel caso di specie è stato posto in evidenza che dalle stesse condizioni contrattuali sottoscritte dall’utente al momento della registrazione sul sito Madbid risulta che quest’ultima “gestisce un sito di vendita all’asta con pagamento per partecipazione all’asta”. La connessione quindi tra corrispettivo pagato e servizio reso (i.e. il diritto a partecipare all’asta) è formalmente contrattualizzata dalla stessa Madbid oltre che confermata dal fatto che i crediti acquisiti non possono essere utilizzati in modo diverso dal loro utilizzo per la partecipazione all’asta stessa (5) (6). 3. La base imponibile della cessione dei beni. – Altra questione sottoposta dal giudice di rinvio all’analisi della Corte di Giustizia Europea è la determinazione della base imponibile della cessione dei beni. La problematica sottoposta comprende da un lato la valutazione se il pagamento dei crediti possa essere considerato come il pagamento di un acconto ai sensi dell’art. 65 della Direttiva e dall’altro quale sia il corrispettivo di acquisto dei beni in caso di aggiudicazione all’asta oppure mediante le funzioni Buy Now o Earned Discount. Con riferimento all’applicazione dell’art. 65 della Direttiva si ricorda che secondo il combinato disposto degli artt. 63 e 65 della Direttiva l’IVA è esigibile nel momento in cui è effettuata la cessione dei beni (o la prestazione dei servizi) salvo il caso in cui avvenga un pagamento di acconti in un momento anteriore; in tale caso l’imposta è esigibile fino a concorrenza dell’importo incassato prima della cessione dei beni (o della prestazione dei servizi).
(5) È elemento assodato anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea che si configura un’operazione imponibile solo allorquando tra l’autore della prestazione del servizio e il suo destinatario intercorra un rapporto giuridico nell’ambito del quale avviene uno scambio di prestazioni sinallagmatiche, nel quale il compenso ricevuto dall’autore di tale prestazione costituisce il controvalore effettivo del servizio fornito al beneficiario (sentenza 16 dicembre 2010 causa C-270/09 MacDonald e 20 giugno 2013 causa C-653/11 Paul Newey). (6) A fini di completezza si rileva che l’acquisto dei crediti non può nemmeno essere inteso come operazione accessoria alla vendita dei beni; infatti, per giurisprudenza costante (si vedano le sentenze 25 febbraio 1999, causa C-349/96 CPP; 11 giugno 2009 causa C-572/07 RLRE Tellmer Property; 2 dicembre 2010 causa C-276/09 Everything Everywhere Ltd) una prestazione dev’essere considerata accessoria ad una prestazione principale quando essa non costituisce per la clientela un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale offerto dal prestatore. Nel caso di specie la completa distinzione e indipendenza (si pensi ad esempio alla possibilità di rinuncia all’acquisto dei beni dopo l’utilizzo dei crediti) della prestazione dei servizi di partecipazione all’asta e dalla cessione dei beni non consentono di identificare un nesso di accessorietà come sopra delineato.
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Al fine di poter considerare il pagamento anticipato quale acconto occorre – per consolidata giurisprudenza e considerata la necessaria interpretazione restrittiva derivante dalla natura derogatoria dell’articolo 65 della Direttiva rispetto alla regola enunciata al citato articolo 63 della Direttiva (7) – che tutti gli elementi qualificanti il fatto generatore (vale a dire la futura cessione o la futura prestazione) siano già conosciuti al momento del pagamento dell’acconto e dunque, in particolare, i beni o i servizi siano già specificatamente individuati (8). Quanto sopra sarebbe di per sé sufficiente per avvalorare la conclusione di non poter qualificare come acconto per la cessione dei beni quanto corrisposto dagli utenti nell’acquisto dei crediti giacché al momento dell’acquisto dei crediti non è certamente noto il bene che l’utente avrebbe eventualmente acquistato dalla Madbid, ma a fortiori l’aver preliminarmente definito il suddetto pagamento quale corrispettivo per l’acquisto di un servizio esclude ab origine che possa essere considerato anche quale corrispettivo per l’eventuale e successivo acquisto dei beni stessi. La logica conclusione di quanto esposto è che la base imponibile per l’acquisto dei beni ceduti (diversamente da quanto concluso dall’Amministrazione finanziaria tedesca) non può che essere costituita dal prezzo fissato dall’aggiudicazione dell’asta maggiorato delle spese di spedizione e di gestione, senza quindi tenere conto del corrispettivo pagato per l’acquisto dei crediti. Passando alla questione della determinazione del corrispettivo imponibile nelle ipotesi di acquisto di beni mediante le funzioni Buy Now e Earned Discount, le condivisibili conclusioni raggiunte dalla Corte di Giustizia Europa, che confermano quelle dell’Avvocato Generale, identificano la base imponibile per l’acquisto dei beni escludendo il valore dei crediti acquistati per l’utilizzo delle funzioni Buy Now e Earned Discount. Anche nelle due suddette ipotesi la riconducibilità del corrispettivo pagato per l’acquisto dei crediti ad una prestazione di servizi a titolo oneroso esclude di per sé il suo ulteriore inquadramento quale corrispettivo per l’acquisto dei
(7) In senso di interpretazione restrittiva si ricordano le sentenze 21 febbraio 2006 causa C-419/02 BUPA Hospitals e Goldsborough Developments e 13 marzo 2014 causa C-107/13 Firin Ood. (8) Si rinvia alle sentenze 21 febbraio 2006 causa C-419/02 BUPA Hospitals e Goldsborough Developments; 16 dicembre 2010 causa C-270/09 MacDonald Resorts; 19 dicembre 2012 causa C-549/11 Orfey Balgaria; 7 marzo 2013 C-1/12 Efir e 13 marzo 2014 causa C-107/13 Firin Ood.
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beni. Pertanto, la riduzione del prezzo consigliato a seguito dell’utilizzo delle funzioni Buy Now e Earned Discount deve essere considerata quale ribasso di prezzo ai sensi dell’art. 79, lettera b), della Direttiva che prevede che “non sono compresi nella base imponibile gli elementi seguenti: … b) i ribassi e le riduzioni di prezzo concessi all’acquirente o al destinatario della prestazione ed acquisiti nel momento in cui si effettua l’operazione”. Le conclusioni restano valide anche nelle ipotesi in cui il prezzo Buy Now o Earned Discount avesse subito un ribasso pari al 100% del suo valore a seguito dell’utilizzo di un pari importo di crediti preventivamente acquistati. Tale fattispecie avrebbe comportato per l’utente il pagamento delle sole spese di spedizione e di gestione che non avrebbero potuto essere mai ribassate mediante l’utilizzo del valore dei crediti utilizzati durante l’asta per le funzioni Buy Now e Earned Discount. Solo tale importo avrebbe quindi costituito il corrispettivo per l’acquisto dei beni. 4. Le modalità per evitare doppia imposizione o mancata imposizione dell’operazione. – Da ultimo la sentenza si occupa del regime IVA applicato nei diversi Paesi dove operava la Madlib al fine di evitare una doppia imposizione ovvero una mancata imposizione. Tale eventualità era già emersa a seguito dell’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria tedesca la quale come anticipato, e diversamente dalle conclusioni raggiunte nella sentenza in commento, aveva considerato il costo dei crediti utilizzati per partecipare alle aste quale parte del corrispettivo di acquisto dei beni. Il giudice del rinvio ha espressamente chiesto ai giudici se quando due Stati membri trattano in maniera differente una stessa operazione ai fini dell’IVA, i giudici di uno di tali Stati membri, nell’interpretare le disposizioni pertinenti dell’Unione e del diritto nazionale, siano tenuti a prendere in considerazione la necessità di evitare una doppia imposizione o una doppia non imposizione dell’operazione, in particolare, alla luce del principio di neutralità fiscale dell’imposta. Al riguardo occorre ricordare che l’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea prevede che “la Corte di giustizia dell’Unione europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale: a) sull’interpretazione dei trattati; b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione.
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Quando una questione del genere è sollevata dinanzi ad una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione. Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte”. In tale caso la sentenza dispone che i giudici nazionali possono rinviare la questione alla Corte di Giustizia al fine di ottenere una risposta in via pregiudiziale sulla questione sollevata ed evitare quindi differenti interpretazioni tra gli stati coinvolti che possono dare luogo a distorsioni del principio di neutralità dell’imposta stessa. Da sottolineare che, a parere dell’Avvocato Generale, in alcuni casi tale facoltà può costituire addirittura un obbligo.
Mario Ravaccia
Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto
L’esenzione degli utili e delle perdite della stabile organizzazione estera di un’impresa residente (c.d. branch exemption) Sommario: 1. Introduzione. – 1.1. La stabile organizzazione come criterio di collegamento. – 1.2. La nozione di “stabile organizzazione”. – 1.3. La determinazione del reddito della stabile organizzazione. – 2. Analisi della disciplina normativa alla luce del Provvedimento attuativo. – 2.1. Le conseguenze della natura opzionale della disciplina. – 2.2. Le rigide caratteristiche dell’opzione: irrevocabilità e totalità. – 3. Gli aspetti applicativi del regime opzionale. – 3.1. L’esercizio dell’opzione. – 3.2. La cessazione dell’opzione. – 4. Ambito di applicazione del regime BEX. – 4.1. Profilo soggettivo e casi di esclusione. – 4.2. Profilo oggettivo. – 4.2.1. Coordinamento fra BEX e disciplina CFC. – 4.2.2. Doppia esenzione o doppia deduzione (c.d. mismatching). – 5. La determinazione reddito della stabile organizzazione in regime BEX. – 5.1. Regole generali. – 5.2. Stabile organizzazione e transfer pricing. – 5.3. Effetti dell’esenzione sull’applicazione dell’ACE. – 6. Distribuzione degli utili. – 7. Recapture delle perdite. – 7.1. Le linee generali del meccanismo. – 7.1.1. Particolarità del funzionamento del recapture delle perdite in relazione al consolidato nazionale. – 7.1.2. Recapture e trasferimento della branch a un soggetto appartenente al medesimo gruppo. – 7.1.3. Recapture e trasferimento della branch a un soggetto terzo. – 7.2. Valorizzazione delle attività e passività trasferite prima dell’esercizio dell’opzione. – 8. Gruppi di imprese. Scelte diverse all’interno del gruppo di imprese. – 9. Operazioni straordinarie. – 10. Riflessioni conclusive. L’introduzione nell’ordinamento tributario italiano del regime di branch exemption su base opzionale, apre le porte all’adozione da parte delle imprese multinazionali italiane di una nuova modalità per l’eliminazione della doppia imposizione internazionale, alternativa rispetto al credito per le imposte assolte all’estero. L’applicazione di questo nuovo regime comporta significative complessità applicative con particolare riferimento alla determinazione del reddito esente, ai rapporti tra casa madre e stabili organizzazioni ed alle operazioni straordinarie.
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The introduction in the Italian tax system of the branch exemption regime, on an optional basis, provides Italian multinational enterprises with a new opportunity to mitigate international double taxation on income, alternative to foreign tax credit. The application of this new regime implies significant complexities with particular reference to the determination of the exempt income, the relationships between the headquarters and its permanent establishments and M&A transactions.
1. Introduzione. 1.1. La stabile organizzazione come criterio di collegamento. – In base alle tradizionali regole di ripartizione della potestà impositiva del reddito prodotto da imprese localizzate in diversi Stati, la stabile organizzazione è stata storicamente adottata come criterio di collegamento per affermare l’imposizione anche da parte dello Stato della fonte (1). In questo senso, tale concetto assume rilevanza ai fini del “temperamento” del principio di tassazione nel Paese di residenza (c.d. worldwide taxation principle) dei business profits utilizzato come criterio-guida generale dalle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione. Il forte legame economico che collega la stabile organizzazione allo Stato in cui si trova, permette a quest’ultimo di assoggettare a tassazione i relativi redditi, mentre lo Stato di residenza della società cui la prima afferisce è tenuto – pur mantenendo teoricamente il potere di tassare i medesimi redditi – ad applicare il rimedio (previsto dalla normativa domestica o convenzionale, storicamente in Italia il credito d’imposta) per evitare una duplicazione del prelievo sul medesimo reddito (2). Il concetto di stabile organizzazione esprime perciò un vero e proprio “compromesso”, elaborato in seno alle convenzioni contro la doppia impo-
(1) La dottrina è solita ritenere che il concetto di “stabile organizzazione” è «pressoché universalmente accolto come “presupposto per l’imposizione di una attività economica svolta, in un dato paese, da uno straniero”». Così, A. Lovisolo, Il concetto di stabile organizzazione nel regime convenzionale contro la doppia imposizione, in Diritto e Pratica Tributaria, vol. 54, n. 4/1983, Parte I, 1127. Sul tema, si veda anche M. Cerrato, La definizione di stabile organizzazione nelle convenzioni per evitare la doppia imposizione, in C. Sacchetto – L. Alemanno (a cura di), Materiali di diritto tributario internazionale, Milano, 2002, 105 ss.; E. Della Valle, Stabile organizzazione (dir. trib.), in Diritto e Pratica Tributaria Internazionale, vol. 5, n. 2/2008, 691 ss. (2) Cfr. R. Baggio, Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà tributaria, Milano, 2009, 192.
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sizione sul reddito, in quanto permette a uno Stato di esercitare la propria potestà impositiva sui redditi generati da un’impresa residente nell’altro Stato solo se questa svolge nel proprio territorio un’attività economica in modo stabile (3). 1.2. La nozione di “stabile organizzazione”. – L’art. 5 del Modello OCSE definisce stabile organizzazione qualsiasi «sede fissa d’affari per mezzo della quale l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività» (4), la cui presenza è connotata da quattro elementi essenziali: a) l’esistenza di una installazione di affari; b) la stabilità (geografica e temporale) di tale installazione; c) la riconducibilità all’ordinario esercizio dell’impresa; d) la sua idoneità a generare reddito. Detto altrimenti, l’esistenza di una stabile organizzazione nello Stato di insediamento esclude il “monopolio impositivo” dello Stato di residenza (5), come si evince chiaramente dal tenore “esclusivista” dell’art. 7, comma 1, Modello OCSE, a mente del quale «profits of an enterprise of a Contracting State shall be taxable only in that State unless the enterprise carries on business in the other Contracting State through a permanent establishment situated therein. If the enterprise carries on business as aforesaid, the profits that are attributable to the permanent establishment in accordance with the provisions of paragraph 2 may be taxed in that other State». 1.3. La determinazione del reddito della stabile organizzazione. – Una volta appurata l’esistenza di una stabile organizzazione dell’impresa estera operante nello Stato della fonte, quest’ultimo potrà procedere a tassarne i relativi redditi d’impresa (6). A tale riguardo, il Modello OCSE adotta un
(3) Secondo J. Owens, The taxation of multinational enterprises: an elusive balance, in Bulletin for International Taxation, vol. 67, n. 8/2013, 444, «the permanent establishment (PE) concept is the basic nexus/threshold rule for determining whether or not a country has taxing rights with regard to the business profits of a non-resident taxpayer, although some types of profits may be taxed in a country even though there is no PE (for example, profits derived from collecting insurance premiums). Business profits of a non-resident that may be taxed by a country are only those that are attributable to a PE». (4) Art. 5, par. 1, OECD, Model Tax Convention on income and on capital 2014 (Full Version), Paris, 2015. Traduzione libera. (5) Così, E. Reimer, Permanent establishment in the OECD Model Tax Convention, in E. Reimer – S. Schmid – M. Orell (a cura di), Permanent establishments: a domestic taxation, bilateral tax treaty and OECD perspective, 3a ed., Alphen aan den Rijn, 2014, 184. (6) Come evidenzia B.J. Arnold, Article 5: Permanent Establishment, in B. Arnold
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approccio secondo cui gli utili da attribuire alla stabile organizzazione sono quelli che questa avrebbe prodotto se, invece di intrattenere rapporti commerciali con la casa madre, avesse intrattenuto rapporti con imprese del tutto estranee alla propria compagine sociale e a prezzi di mercato (c.d. separate entity approach). Detto altrimenti, ai fini della determinazione del reddito il Modello OCSE inquadra la stabile organizzazione non tanto come un’appendice dell’impresa estera, quanto come un’impresa terza e indipendente che intrattiene rapporti commerciali con la casa madre. L’art. 7, comma 2, Modello OCSE, prevede, infatti, che «for the purposes of this Article and Article [23 A] [23 B], the profits that are attributable in each Contracting State to the permanent establishment referred to in paragraph 1 are the profits it might be expected to make, in particular in its dealings with other parts of the enterprise, if it were a separate and independent enterprise engaged in the same or similar activities under the same or similar conditions, taking into account the functions performed, assets used and risks assumed by the enterprise through the permanent establishment and through the other parts of the enterprise» (7). Stando così le cose, il reddito che viene attribuito alla stabile organizzazione sarà calcolato tenendo conto dei componenti positivi e negativi di reddito a quest’ultima riferibili, ivi compresi quelli relativi a operazioni intercorse con casa madre, determinati in ossequio ai criteri previsti dalla disciplina sui prezzi di trasferimento infragruppo. Ne consegue che la stabile organizzazione dovrà solitamente tenere una propria contabilità (c.d. bilancio “pro-forma”
– J. Sasseville et al. (a cura di), Global tax treaties commentaries, accessibile su http://online. ibfd.org, agg. 19 gennaio 2016, par. 1.1.1.2, «under article 7(1) of the OECD Model, the profits of an enterprise resident in one Contracting State are taxable only in that State, unless the enterprise carries on business through a PE in the other State. Accordingly, a State cannot tax the profits derived from within its own territory by a resident of its treaty partner under Article 7 of the OECD Model, unless the resident carries on business through a PE in the State and the profits are attributable to the PE. The profits may be taxable under another article of the OECD Model if there is no PE in the source State; however, for taxation under Article 7 there must be a PE in the source State. The existence of a PE is a minimum threshold condition for source State taxation of business profits under article 7 of the OECD Model. If a resident of the other Contracting State carries on business through a PE in the source State, the source State can tax only the profits attributable to the PE, and not all of the profits derived by the resident from the source State». (7) Art. 7, comma 2, OECD, Model Tax Convention on income and on capital 2014 (Full Version), Paris, 2015.
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locale), finalizzata a registrare i fatti di gestione e a rendere la relativa attività trasparente e controllabile dallo Stato in cui si trova l’insediamento. 1.4. L’eliminazione della doppia imposizione. – Implicando un’inevitabile concorrenza di pretese impositive tra Stato dell’insediamento e Stato di residenza della casa madre, la stabile organizzazione condurrebbe sempre ad ipotesi di doppia imposizione. Per tale motivo, sia il diritto internazionale tributario sia i vari Stati nella rispettiva normativa tributaria domestica hanno introdotto specifici meccanismi volti a scongiurare detto fenomeno: il credito d’imposta o l’esenzione (dei redditi prodotti all’estero dalla stabile organizzazione). L’Italia utilizza il credito d’imposta quale metodo “ordinario” di eliminazione della doppia imposizione, tanto nelle proprie convenzioni bilaterali quanto a livello unilaterale nella normativa domestica. Tra le varie misure introdotte dal D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (Disposizioni recanti misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese, c.d. Decreto internazionalizzazione), una novità assoluta per l’ordinamento tributario italiano è, quindi, contenuta nell’art. 14, il quale prevede il regime opzionale della c.d. branch exemption (d’ora in avanti, BEX) (8) in deroga alle regole ordinarie di imputazione del reddito, consentendo la possibilità di optare per l’esenzione degli utili e delle perdite della stabile organizzazione estera di un’impresa residente (9). La disciplina in questione permette alle iniziative imprenditoriali transfrontaliere intraprese da soggetti residenti in Italia di beneficiare di agevolazioni e aliquote estere maggiormente vantaggiose rispetto a quelle italiane (10). Difatti, sebbene tanto il metodo dell’imputazione del reddito con ri-
Dove per branch deve intendersi “stabile organizzazione”. Cfr. Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, Il nuovo Fisco: certezza, semplificazione e crescita?, Atti del IV Congresso nazionale, Roma, 5 ottobre 2015, 8, ove si rileva che «la norma è destinata a rivoluzionare uno dei capisaldi della nostra disciplina interna riguardante la fiscalità internazionale, poiché per le imprese che decideranno di optare per questo nuovo regime non assumeranno più alcun rilievo ai fini dell’imposta sul reddito italiana i risultati fiscali, positivi o negativi che siano, attribuibili alle proprie stabili organizzazioni situate all’estero e aventi certi requisiti». (10) M. Pennesi, Per le stabili organizzazioni estere possibile l’esenzione fiscale in Italia, in I focus de Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2015, 9, «rispetto al regime ordinario di tassazione, che include nel reddito complessivo anche l’utile o la perdita della branch, con il regime di esenzione, a parità di reddito netto prodotto all’estero, l’impresa potrebbe risparmiare il delta percentuale tra l’aliquota Ires (27,5%) e quella del Paese ospitante la So (8) (9)
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conoscimento di un credito d’imposta per le imposte assolte all’estero, tanto quello dell’esenzione, abbiano entrambi come obiettivo la neutralità e la eliminazione della doppia imposizione sui redditi generati dalle stabili organizzazioni, diverso è il meccanismo con cui i due metodi operano e il modello di neutralità cui si ispirano. Il sistema della imputazione del reddito comporta, nella prospettiva di un contribuente residente, la neutralità tra un investimento domestico e uno estero (capital export neutrality o home neutrality). In tale ipotesi, se l’aliquota applicata nello Stato estero sui redditi prodotti da una stabile organizzazione è inferiore a quella domestica, lo Stato di residenza applica una tassazione aggiuntiva (11). Di contro, il sistema dell’esenzione comporta la tassazione esclusiva nello Stato della fonte (capital import neutrality), con eliminazione della doppia imposizione mediante la limitazione da parte dello Stato di residenza dell’applicazione del worldwide taxation principle e conseguente agevolazione per un investitore ad operare negli Stati in cui il livello di tassazione è inferiore rispetto a quello domestico (l’esenzione nello Stato di residenza comporta infatti l’applicazione della sola imposizione prevista nello Stato della fonte e, conseguentemente, il mantenimento delle eventuali agevolazioni fiscali ivi accordate) (12). La finalità della nuova disciplina è quindi di consentire alle imprese italiane di applicare un regime fiscale diverso da quello tradizionale per neutralizzare la doppia imposizione sui redditi delle stabili organizzazioni istituite all’estero da contribuenti residenti, riducendo le incertezze nella determinazione del reddito e della produzione netta, favorendo così l’internazionalizzazione dei soggetti economici operanti in Italia (art. 12, Legge delega n. 23/2014). La disciplina primaria del nuovo regime è contenuta nell’art. 168-ter del TUIR (rubricato Esenzione degli utili e delle perdite delle stabili organizza-
(esempio Irlanda 12,5%). Un vero e proprio legittimo arbitraggio fiscale sulle aliquote». (11) Il metodo dell’imputazione realizza di fatto la neutralizzazione di eventuali benefici fiscali concessi dallo Stato estero in cui si trova la stabile organizzazione, con la conseguente necessità – ove le si voglia preservare – di prevedere correttivi quali le clausole di matching credit delle Convenzioni internazionali. (12) L’ordinamento tributario italiano, prima dell’introduzione del regime della branch exemption, applicava sostanzialmente il sistema della capital import neutrality (con opportuni accorgimenti antielusivi come la disciplina CFC e sugli utili provenienti da Paesi black-list) in relazione agli investimenti esteri effettuati da investitori italiani sotto forma di subsidiary (società estere controllate) e della capital export neutrality in relazione alle branch estere (imputazione per competenza del reddito/perdita e riconoscimento del credito d’imposta per le imposte assolte all’estero).
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zioni di imprese residenti) e la sua natura derogatoria rispetto al sistema ordinario della imputazione del reddito prodotto dalle stabili organizzazioni estere si ispira a quanto già previsto da altri ordinamenti (13). A tale riguardo, la BEX italiana si è in larga parte ispirata alle discipline di altri Stati membri UE (e di taluni Stati extra-UE), finalizzate a «trattare allo stesso modo le attività svolte all’estero a prescindere dall’involucro utilizzato (branch ovvero subsidiary)» (14). Nel Regno Unito, il Finance Act 2009 aveva introdotto l’esenzione per i dividendi esteri, ma non per gli altri redditi prodotti all’estero (tra cui quelli derivanti da stabili organizzazioni estere). Il sistema era quindi sostanzialmente analogo, per le società inglesi, a quello vigente in Italia prima della BEX (salvo che in Italia l’esclusione dal reddito dei dividendi intrasocietari, al ricorrere dei relativi presupposti, copre il 95% e non l’intero importo del dividendo): le società inglesi che investivano all’estero tramite una controllata percepivano dividendi non soggetti a imposizione nel Regno Unito, laddove i redditi prodotti da stabili organizzazioni estere scontavano sempre l’imposizione britannica secondo il principio di competenza, e cioè nel periodo d’imposta di conseguimento (c.d. arising basis) (15). Tale differenza di trattamento è stata eliminata con il Finance Act 2011, la cui Schedule 13 (Profits of foreign permanent establishments etc) ha modifica-
(13) In tal senso, cfr. Senato della Repubblica – VI Commissione Finanze e Tesoro, Audizione del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, Roma, 19 maggio 2015, p. 5, ove si rileva che il c.d. Decreto internazionalizzazione «risente fortemente delle recenti evoluzioni registrate nel contesto internazionale […] ispirandosi ad esperienze già testate da ordinamenti esteri (adattandole alla realtà italiana al fine di renderla più competitiva, come nel caso della branch exemption) […]». (14) Così, E. Della Valle, La branch exemption nelle stabili organizzazioni estere di soggetti residenti, in Il Fisco, vol. 39, n. 46/2015, 4412. (15) Al meccanismo generale della tassazione secondo la c.d. arising basis, si contrappone la c.d. remittance basis taxation, ovvero la tassazione dei redditi esteri solamente se rimessi e “goduti” nel Regno Unito. Quest’ultimo meccanismo trova applicazione in relazione ai c.d. residenti non domiciliati, cioè coloro che hanno il proprio domicile in un altro Stato: quindi, «i contribuenti che non hanno il proprio domicilio nel Regno Unito sono ammessi ad un particolare regime impositivo (cd. remittance basis taxation) che gli garantisce una sostanziale esenzione dei propri redditi prodotti all’estero, a patto che gli stessi non vengano in qualche modo trasferiti nel Regno Unito. I redditi esteri che tali contribuenti provvederanno a trasferire nel Regno Unito saranno, invece, sottoposti a regolare tassazione come se fossero stati prodotti in loco». Così, P. Mastellone, Il trattamento impositivo dei “residenti non domiciliati” nel Regno Unito e la sua legittimità nel panorama internazionale, in Diritto e Pratica Tributaria Internazionale, vol. 6, n. 3/2009, 1383.
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to il Corporation Tax Act 2009 introducendo le Section dalla 18A (Exemption for profits or lossess of foreign permanent establishments) alla 18S (16). Il sistema inglese di eliminazione della doppia imposizione attraverso l’esenzione dei profitti delle stabili estere, in vigore dal 19 luglio 2011, è in sintesi così strutturato: – la società inglese deve esercitare l’opzione per rendere la disciplina applicabile, in mancanza della quale continuerà a trovare applicazione il credito d’imposta; – una volta optato per il regime BEX, quest’ultimo opera per tutte le stabili estere, incluse quelle che verranno costituite successivamente (c.d. principio “all in – all out”) (17); – l’opzione è irrevocabile; – l’opzione diventa operativa a partire dal periodo d’imposta successivo a quello di esercizio (18); – è previsto un meccanismo di recapture se la stabile estera ha prodotto perdite negli anni precedenti all’esercizio dell’opzione; – nel determinare l’esatto ammontare dei profitti esteri oggetto di esenzione, si opera come segue: a) se esiste una convenzione contro le doppie imposizioni tra il Regno Unito e l’altro Stato, l’ammontare dei profitti prodotti dalla branch estera è determinato in base alle regole convenzionali di ripartizione della potestà impositiva; b) se, invece, non c’è alcuna convenzione, l’ammontare dei profitti prodotti dalla branch estera è determinato in base alla versione 2010 del Modello OCSE (19).
(16) Il testo normativo è accessibile su www.legislation.gov.uk/ukpga/2011/11/ schedule/13/enacted. (17) A. Miller, United Kingdom, in A. Pickering (a cura di), Enterprise services, IFA Cahiers, vol. 97a, Rotterdam, 2012, 701, sottolinea che «the branch exemption election must apply to all foreign branches of the UK company and must be made in the period preceding that for which the election takes effect». (18) Come evidenziano A. Miller - L. Oats, Principle of international taxation, 4a ed., Croydon, 2014, 114, questo accorgimento servirebbe ad evitare che le società inglesi adottino «a ‘wait and see’ approach, making the election only if the branch turns out to be profitable». (19) Cfr. B. Obuoforibo - S. Heydari, United Kingdom -– Corporate taxation, IBFD Country Survey, 2015, accessibile su http://online.ibfd.org/kbase/, par. 7.2.2.1, i quali rilevano che «where the territory in which the foreign PE is located taxes profits without requiring that these be attributable to the foreign PE, relief is granted in the United Kingdom by means of
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In Francia, al contrario della maggior parte dei Paesi OCSE, l’imposta sul reddito delle società è informata al principio di territorialità, secondo cui è soggetto a imposizione esclusivamente il reddito d’impresa prodotto da soggetti (siano essi società o stabili organizzazione di soggetti non residenti) che operano in Francia ai sensi dell’art. 209 del Code Général des Impôts. Conseguentemente, né gli utili né le perdite delle stabili organizzazioni estere sono prese in considerazione ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle società francese. Detto altrimenti, in Francia la branch exemption non è un regime opzionale, ma la regola. Anche i Paesi Bassi prevedono che gli utili e le perdite di una stabile organizzazione estera siano esenti, ai sensi dell’art. 15e del Wet op de vennootschapsbelasting 1969 (Testo Unico sull’Imposta delle Società del 1969). Tuttavia, detta esenzione non si applica alle voci di passive income della stabile organizzazione situata in un Paese “a fiscalità privilegiata”. Il Lussemburgo, dal canto suo, considera che la componente reddituale ascrivibile alla stabile organizzazione estera (i.e. sia utili che perdite) rilevi ai fini dell’imposizione lussemburghese solo se si trova in un Paese con cui il Lussemburgo non ha stipulato una convenzione contro la doppia imposizione (c.d. non-treaty Country); diversamente, se la stabile si trova in uno Stato con cui il Lussemburgo ha stipulato detta convenzione (c.d. treaty Country), generalmente gli utili sono esenti e le perdite deducibili dall’imponibile lussemburghese. La Germania, sovente indicata come ordinamento che assicura l’esenzione dei redditi prodotti all’estero (20) è in realtà un «hybrid tax system» (21).
credit only, i.e. the exemption does not apply except to the extent that the profits are attributable to the foreign PE. Some treaties do not provide for attribution of profits to be made by the residence state, and do not provide for foreign tax credit to be computed by reference to the same profits as those by reference to which the foreign tax was computed. In such cases, in computing the “relevant profits amount” and “relevant losses amount”, it is to be assumed that the treaty does actually contain such provisions. That said, in general terms, most treaties do actually provide that the attribution of profits should be made by both contracting states, so that the foreign tax credit granted is computed by reference to the same profits in respect of which the foreign tax was computed». (20) J.F. Avery Jones et al., Credit and exemption under tax treaties in case of differing income characterization, in European Taxation, vol. 36, n. 4/1996, 125 ss. (21) US Government Accountability Office, International Taxation – Study Countries that exempt foreign source income face compliance risks and burdens similar to those in the United States, Report to the Committee on Finance, US Senate (“the GAO Report”), September 2009, 9.
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Il reddito prodotto da branch estere viene solitamente esentato in base alle numerose convenzioni contro la doppia imposizione in tal senso; diversamente, se la Germania non ha stipulato una convenzione con lo Stato di localizzazione della branch, la legislazione domestica prevede che le società residenti debbano includere nella propria base imponibile il reddito estero (22). Detto altrimenti, in Germania la branch exemption opera solo laddove espressamente prevista in una norma convenzionale bilaterale. Da ultimo, volgendo lo sguardo al di fuori del contesto europeo, si rileva che il meccanismo dell’esenzione per i redditi prodotti dalle stabili organizzazioni estere è utilizzato anche dall’Australia. Con il Taxation Laws Amendment (Foreign Income Measures) Bill del 4 settembre 1997 è stato esteso a tali redditi esteri il trattamento fiscale già applicabile per le controllate estere di società australiane. Nella sua versione iniziale, la disciplina de qua prevedeva l’esenzione solo dei redditi di stabili localizzate in determinati Stati, ma a partire dal 2004 l’Australia ha esteso l’ambito applicativo della BEX anche alle stabili in Stati “a fiscalità privilegiata”. 2. Analisi della disciplina normativa alla luce del Provvedimento attuativo. – Come si è anticipato, l’art. 168-ter TUIR, introdotto dall’art. 14, comma 1, D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147, prevede l’applicazione nell’ordinamento tributario italiano, su base opzionale, della irrilevanza fiscale dei redditi e delle perdite delle branch interessate. Le modalità applicative sono state adottate con il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate pubblicato il 28 agosto 2017, in attuazione dell’art. 14, comma 3, del Decreto Internazionalizzazione (“Provvedimento”) e ulteriormente precisate con la Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 15 gennaio 2018, n. 4/E. 2.1. Le conseguenze della natura opzionale della disciplina. – L’applicabilità del regime, come già accennato, è subordinata all’esercizio di un’opzione da parte dell’impresa residente – sia che si tratti di un soggetto passivo IRPEF, che di un soggetto passivo IRES – che può essere espressa «al momento di costituzione della stabile organizzazione» estera o, in presenza di stabili organizzazioni già esistenti al momento dell’entrata in vigore della disciplina,
(22) Per un approfondimento, cfr. P.H. Dehnen – S. Bacht, Recent problems of definition and taxation of German permanent establishments, in Bulletin for International Taxation, vol. 59, n. 10/2005, 445 ss.
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entro il secondo periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di tale entrata in vigore. Dal tenore letterale dell’art. 168-ter TUIR – secondo cui «un’impresa residente nel territorio dello Stato può optare per l’esenzione degli utili e delle perdite» – emerge che la BEX è un istituto alternativo, e non sostitutivo, al credito di imposta. A differenza di altri sistemi, dunque, in Italia i soggetti interessati al regime della branch exemption dovranno inevitabilmente effettuare una scelta (esplicita o implicita) fra rimanere nell’ordinario regime di imponibilità o accedere a quello di esenzione. Tale scelta è condizionata da vincoli stringenti: (i) temporali, poiché deve essere esercitata entro il secondo periodo d’imposta successivo al 2015 per i soggetti già dotati di stabili organizzazioni e (ii) di efficacia, perché, una volta esercitata, è irrevocabile. Tale scelta richiede, inoltre, un’attenta valutazione in termini di opportunità, poiché, qualora venga esercitata l’opzione dall’impresa residente, gli utili prodotti dalle stabili estere verranno tassati unicamente nel Paese dell’insediamento e le eventuali perdite non potranno essere utilizzate per abbattere il reddito imponibile della casa madre (come avviene invece nel caso in cui l’impresa continui ad applicare l’ordinario criterio dell’imputazione del risultato reddituale conseguito dalle stabili organizzazioni) (23).
(23) Al riguardo, vale la pena ricordare la posizione della giurisprudenza europea sul punto, la quale consente, in casi specifici (e.g. chiusura della stabile organizzazione e divieto normativo di riporto delle perdite nello Stato membro della fonte) di riportare le perdite fiscali. In questo senso, cfr. CGUE, Grande Sezione, 18 luglio 2007, causa C-231/05 Oy AA, in Racc. I-6373, par. 55; CGUE, Quarta Sezione, 15 maggio 2008, causa C-414/06 Lidl Belgium, in Racc. I-3601, par. 52 («qualora una convenzione contro la doppia imposizione abbia attribuito allo Stato membro in cui è situata la stabile organizzazione il potere impositivo sui redditi di quest’ultima, il fatto di concedere alla società principale la possibilità di optare per la deduzione delle perdite della suddetta stabile organizzazione nello Stato membro in cui ha sede o in un altro Stato membro comprometterebbe sensibilmente un’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri interessati»). Per un commento al caso Lidl Belgium, in cui la Corte di Giustizia UE ha sostanzialmente esteso i principi elaborati nella sentenza Marks & Spencer alle perdite prodotte dalle stabili organizzazioni, cfr. G. Melis, Perdite intracomunitarie, potestà impositiva e principio di territorialità: unicuique suum?, in Rassegna Tributaria, vol. 51, n. 5/2008, 1486 ss. Per una recente analisi della giurisprudenza UE sul punto (culminata, da ultimo, con la decisione CGUE, Terza Sezione, 17 dicembre 2015, causa C-388/14 Timac Agro, in Racc. ECLI:EU:C:2015:829), cfr. A. Crazzolara, La definitività delle perdite della stabile organizzazione secondo la recente giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 26, Supplemento online del 2 maggio 2016, accessibile su www.rivistadirittotributario.it/wp-content/uploads/2016/05/CRA_ Articolo-Allegato.pdf.
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La convenienza circa la scelta di esercitare l’opzione deve quindi essere preceduta da una ponderazione delle prospettive reddituali della branch e dell’impresa residente, in quanto l’opzione potrebbe rivelarsi non conveniente. Ad esempio, nel caso in cui si ipotizzi la produzione di perdite significative della stabile organizzazione, potrebbe risultare più conveniente non esercitare l’opzione (anche laddove il livello di tassazione dei redditi nello Stato estero in cui è istituita la branch fosse inferiore a quello italiano) e continuare ad applicare il sistema della imputazione del reddito, in modo da poter utilizzare le perdite per ridurre l’imponibile della casa madre. La branch exemption è, dunque, un regime tributario opzionale con proprie caratteristiche specifiche, che fornisce alle imprese italiane uno strumento per la eliminazione della doppia imposizione alternativo rispetto a quello tradizionale della imputazione del reddito con riconoscimento del credito d’imposta, anche al fine di colmare un gap di competitività rispetto a quanto già previsto dalla normativa di altri Stati (24). 2.1. Le rigide caratteristiche dell’opzione: irrevocabilità e totalità. – I primi due commi dell’art. 168-ter TUIR enunciano le caratteristiche essenziali della disciplina BEX, che ne manifestano fin da subito la rigidità, prevedendo che «un’impresa residente nel territorio dello Stato può optare per l’esenzione degli utili e delle perdite attribuibili a tutte le proprie stabili organizzazioni all’estero. L’opzione è irrevocabile ed è esercitata al momento di costituzione della stabile organizzazione, con effetto dal medesimo periodo d’imposta». Il regime di branch exemption comporta degli effetti importanti non solo in relazione alla irrilevanza degli utili esteri, ma ovviamente anche in relazione alla irrilevanza delle corrispondenti perdite. Proprio per questo, l’opzione è sottoposta a condizioni stringenti di irrevocabilità e totalità volte a evitare che, grazie alla coesistenza del regime del credito di imposta e di quello della BEX, le imprese con più stabili organizzazioni estere possano adottare strategie idonee a cogliere un duplice vantaggio: l’esenzione degli utili e la rilevanza delle perdite per l’abbattimento del reddito della casa madre. Le caratteristiche essenziali di questo regime impositivo opzionale, che gli conferiscono una particolare rigidità, sono la irrevocabilità e la totalità.
(24) Così, C. Hassan – P. Pacitto, Recapture e regime di esenzione per le stabili organizzazioni estere, in Corriere Tributario, vol. 39, n. 20/2016, 1583-1584, G. Albano, Il nuovo regime della “branch exemption” tra obiettivi di competitività e difficoltà operative, in Corriere Tributario, vol. 39, n. 2/2016, 91-92.
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In primo luogo, l’art. 168-ter, comma 3, TUIR, prevede che la scelta, una volta che l’opzione sia stata esercitata, sia irrevocabile (25). Si tratta, quindi, di un’opzione che potrà risultare vantaggiosa nei casi in cui per l’impresa residente risulti positivo, nel lungo periodo, il saldo netto dei redditi realizzato tramite tutte le stabili organizzazioni (oltre, naturalmente, l’aliquota applicabile e la base imponibile). Detta condizione è diretta a evitare che l’impresa residente possa revocare l’opzione nel momento in cui la stabile organizzazione inizia a realizzare perdite anziché utili, in modo da poterle utilizzare per abbattere il reddito della casa madre, mentre gli esercizi precedenti hanno goduto dell’esenzione (26). In secondo luogo, l’art. 168-ter, comma 1, TUIR, estende l’esenzione a tutte le stabili organizzazioni dell’impresa, tanto quelle già esistenti quanto quelle future (c.d. principio “all in – all out”). Non sarà, quindi, possibile per l’impresa optare per la BEX per alcune stabili organizzazioni e, al contempo, mantenere il regime del credito di imposta per altre, facendo il c.d. cherry picking delle situazioni a essa più convenienti. In assenza di una previsione del genere, ovviamente, l’imprenditore opterebbe per la BEX per le imprese localizzate in Paesi a bassa fiscalità, e continuerebbe ad applicare il regime del credito di imposta per le imprese localizzate in Paesi a fiscalità ordinaria ovvero in perdita (27). La circostanza che le imprese debbano assumere ex ante e in modo definitivo delle decisioni che riguarderanno un arco di tempo indefinito costituisce certamente un fattore di rigidità nell’applicazione dell’istituto. Tale rigidità se, da un lato, potrebbe essere percepita in contrasto con la finalità di favorire gli investimenti esteri delle aziende italiane, dall’altro lato sconta la necessità di individuare un difficile equilibrio con esigenze antielusive, e cioè il rischio
(25) I principali regimi opzionali previsti dal sistema delle imposte sui redditi, quale per esempio il consolidato, hanno un’applicabilità limitata nel tempo, al fine di consentire un adeguamento fra regime fiscali e (mutate) condizioni economiche. (26) Cfr. G. Beltramelli, Il regime del consolidato nazionale alla luce del D.lgs. n. 147/2015 (cd. decreto internazionalizzazione): una lettura comunitariamente orientata, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 25, n. 4/2015, Parte I, 349 ss.; F. Giommoni, Il nuovo regime di “branch exemption” per le stabili organizzazioni estere di imprese italiane, in La Rivista delle Operazioni Straordinarie, vol. 3, n. 12/2015, 34; F. Di Cesare, Il nuovo regime di branch exemption, in La Gestione Straordinaria delle Imprese, vol. 3, n. 6/2015, 123. (27) Così, F. Di Cesare, Il nuovo regime di branch exemption, in La Gestione Straordinaria delle Imprese, vol., n. 6/2015, 123.
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di possibili abusi laddove si consentisse di adattare la scelta all’andamento reddituale. In ogni caso, l’opzione (di per sé irrevocabile e totalitaria) interessa il singolo contribuente, con la conseguenza che all’interno dello stesso gruppo di imprese saranno possibili scelte diverse in grado di permettere una maggiore flessibilità. Ciò implica che l’opzione per la BEX potrebbe essere sfruttata più agevolmente dai grandi gruppi industriali o finanziari con una pluralità di stabili organizzazioni in capo a società diverse. Si pensi, inoltre, alla possibilità che l’opzione sia esercitata da una o più società partecipanti al consolidato fiscale nazionale, mentre altre società facenti parte del medesimo consolidato decidano di non esercitare l’opzione in relazione alle stabili organizzazioni di cui sono titolari. In questo modo si realizza, nell’ambito di un gruppo di imprese aderenti al medesimo consolidato (e che pertanto sommano algebricamente gli imponibili prodotti nel medesimo periodo di imposta e beneficiano delle reciproche perdite), l’applicazione di regimi differenti per i risultati reddituali conseguiti dalle stabili organizzazioni estere. In alcuni casi, l’opzione potrebbe rivelarsi difficilmente conveniente. Un esempio sono le stabili organizzazioni in fase di startup: difatti, in tale situazione si tende normalmente a produrre più perdite che utili. Essendo l’opzione “totalitaria” (28), la regola “all in – all out” comporta che il medesimo regime debba applicarsi a tutte le stabili organizzazioni dell’impresa, presenti e future, con la conseguenza che la scelta rischia di rivelarsi una “scommessa” tra la convenienza di un regime impositivo più favorevole e il rischio di rimanere con una perdita subita all’estero e inutilizzabile in Italia (29).
(28) In questi termini, cfr. A. Trabucchi – F. Cerulli Irelli, Il regime opzionale di “branch exemption”, in Corriere Tributario, vol. 38, n. 21/2015, 1611. (29) Come rileva G. Albano, Il nuovo regime della “branch exemption” tra obiettivi di competitività e difficoltà operative, in Corriere Tributario, vol. 39, n. 2/2016, 92: «l’impossibilità assoluta di includere le perdite della stabile organizzazione nel computo della base imponibile domestica si pone come elemento fortemente disincentivante rispetto all’esercizio dell’opzione per l’esenzione e rappresenta uno degli elementi di “debolezza” del regime. La totale inaccessibilità alle perdite estere risulta inoltre in qualche modo incoerente con la finalità perseguita con l’introduzione della branch exemption, che è principalmente quella di incentivare l’internazionalizzazione delle imprese italiane. L’irrilevanza delle perdite maturate nel regime di esenzione rischia, infatti, di penalizzare le imprese con stabili organizzazioni in fase di start up (di recente insediamento nei mercati esteri) che potrebbero essere indotte a non optare per il regime di esenzione in presenza di investimenti ad alto rischio (quali possono essere le nuove iniziative estere) per il timore di perdere anche il beneficio delle perdite in presenza di esito negativo dell’investimento all’estero».
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Proprio per evitare queste criticità, prima dell’emanazione della bozza di Provvedimento Direttoriale, erano state formulate varie proposte. Ad esempio, era stato proposto di limitare la durata dell’opzione nel tempo, con facoltà di rinnovo. Tuttavia, questa ipotesi è stata esclusa, in quanto la durata limitata avrebbe generato maggiori complessità operative e avrebbe inoltre ostacolato la portata antielusiva della irrevocabilità dell’opzione. Da più parti, poi, era stato proposto di preservare, pur mantenendo fermo il carattere dell’irrevocabilità, la facoltà di attribuire rilevanza alle perdite della stabile organizzazione, consolidandole con gli altri risultati del reddito della casa madre, salvo l’obbligo di assoggettare a tassazione gli utili della medesima che si manifestassero successivamente, fino a concorrenza delle perdite di cui l’impresa residente avesse beneficiato medio tempore. Questa ipotesi, in linea con la proposta di Direttiva europea, mai adottata, in tema di compensazione transfrontaliera delle perdite, non è stata accolta poiché si temeva che tale sistema “misto”, basato sulla tassazione degli utili fino all’ammontare delle perdite dedotte nei periodi di imposta precedenti da parte della casa madre, avrebbe complicato l’istituto e, soprattutto, generato delle difficoltà negli accertamenti tributari (30). Come noto, il tema del riporto delle perdite in capo alla casa madre nel caso di adozione del metodo dell’esenzione per l’eliminazione della doppia imposizione è stato oggetto della decisione della Corte di Giustizia UE nel caso Lidl Belgium (31). Adottando le medesime conclusioni cui era giunto nel famoso caso Marks & Spencer (32), il giudice europeo ha affermato che il divieto di riporto delle perdite è incompatibile con la libertà di stabilimento solo nel caso in cui la stabile organizzazione abbia “esaurito le possibilità di presa in considerazione delle perdite” e le medesime perdite non possono essere riportate in avanti nei periodi d’imposta successivi (paragrafo 47).
(30) Sul punto, cfr. E. Della Valle, La branch exemption nelle stabili organizzazioni estere di soggetti residenti, in Il Fisco, vol. 39, n. 46/2015, 4413-4414; F. Di Cesare, Il nuovo regime di branch exemption, in La Gestione Straordinaria delle Imprese, vol. 3, n. 6/2015, 123-124; A. Trabucchi – F. Cerulli Irelli, Il regime opzionale di “branch exemption”, in Corriere Tributario, vol. 38, n. 21/2015, 1617. (31) Corte di Giustizia UE, sentenza 15 maggio 2008, causa C-414/06, Lidl Belgium GmbH & Co. KG v Finanzamt Heilbronn, in Racc. I-3601. (32) Corte di Giustizia UE, 13 dicembre 2005, causa C-446/03, Marks & Spencer plc v David Halsey (Her Majesty’s Inspector of Taxes), in Racc. I-10837.
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Per essere conforme alla consolidata giurisprudenza europea, quindi, la disciplina interna deve essere interpretata nel senso che le perdite sono comunque riportabili in capo alla casa madre italiana nel caso in cui non possano essere, per ragioni di diritto o di fatto, utilizzate nell’ordinamento in cui è situata la stabile organizzazione. Da ultimo, per quanto riguarda l’accesso alla disciplina, recependo le osservazioni critiche successive alla pubblicazione della bozza del Provvedimento, l’Agenzia delle Entrate ritiene non ostativo alla proposizione dell’istanza per regime BEX il mancato esercizio dell’opzione in coincidenza della costituzione della “prima” stabile organizzazione. Tale opzione, infatti, può essere fatta valere anche successivamente in occasione dell’apertura di una nuova branch all’estero (Provvedimento, par. 2.7). 3. Gli aspetti applicativi del regime opzionale. 3.1. L’esercizio dell’opzione. – L’adesione alla BEX comporta il formale esercizio, da parte della casa madre italiana, di un’opzione da esercitarsi nella dichiarazione dei redditi, indicando le singole stabili organizzazioni e il relativo Stato (o territorio) in cui si trovano (33). Per quanto concerne il momento entro il quale l’opzione deve essere esercitata, l’art. 168-ter TUIR prevede due soluzioni differenti a seconda che l’impresa residente disponga di stabili organizzazioni estere al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina ovvero che una stabile organizzazione venga costituita in un momento successivo. Nel caso di stabili organizzazioni già esistenti è previsto un biennio di “transizione”, una sorta di periodo di sospensione antecedente alla piena operatività del regime BEX che i contribuenti potranno sfruttare anche per attuare eventuali riorganizzazioni volte a predisporre la propria struttura imprenditoriale in vista dell’esercizio dell’opzione e per adeguare il sistema contabile agli onerosi adempimenti previsti dalla BEX (si pensi all’applicazione della disciplina sulle varie forme di recapture in caso di opzione per l’applicazione del regime di esenzione, su cui si dirà più diffusamente infra). Le imprese potranno quindi esercitare l’opzione entro il secondo periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle nuove regole, con
(33) G. Formica – P. Formica, Proposte di attuazione del regime di “branch exemption”, in Il Fisco, vol. 40, n. 13/2016, 1268-1269.
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effetto dal periodo di imposta nel corso del quale l’opzione è esercitata (art. 168-ter, comma 6, TUIR). Ciò implica che le imprese con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare potranno optare per l’esenzione entro il 2018 (i.e. in UNICO 2019) (34). Nella seconda ipotesi, l’opzione deve essere esercitata «al momento di costituzione della stabile organizzazione, con effetto dal medesimo periodo d’imposta» (art. 168-ter, comma 2, TUIR) e, come chiarisce il Provvedimento, ha effetto anche «per quelle costituite successivamente senza che sia necessaria una nuova opzione». Dunque, l’opzione va esercitata nella prima dichiarazione utile dopo la costituzione della stabile organizzazione senza che tale manifestazione di volontà debba essere ripetuta successivamente. Il Provvedimento disciplina espressamente anche il caso di costituzione di una stabile organizzazione nel periodo d’imposta intercorrente fra il 7 ottobre 2015 e la dichiarazione relativa al secondo periodo d’imposta successivo, precisando che la descritta estensione temporale si applica anche a tali situazioni (par. 2.3). Tale soluzione appare coerente al principio “all in – all out” che informa il regime della branch exemption. 3.2. La cessazione dell’opzione. – Come si è già rilevato, una volta che l’imprenditore opera la propria scelta per il regime di branch exemption, l’esercizio dell’opzione (ovvero il suo mancato esercizio) è irrevocabile. Manca nella disposizione legislativa una espressa disciplina per il caso in cui un’impresa dovesse cessare tutte le proprie stabili organizzazioni estere e, in seguito, decidesse di aprirne di nuove. A tale lacuna ha sopperito il Provvedimento, che, al par. 3, ha adottato la soluzione di consentire che un’impresa, una volta chiuse tutte le branch estere, si “affranchi” dalla scelta operata in precedenza e possa quindi applicare l’ordinario regime del credito d’imposta in caso di successiva riapertura di stabili organizzazioni. Il Provvedimento prevede infatti solo due ipotesi di cessazione dell’efficacia dell’opzione: la cessazione di tutte le branch, a seguito di liquidazione e/o cessione, e talune operazioni straordinarie (per le quali cfr. infra § 10.1) (35). La previsione contenuta nel Provvedimento appare più che ragionevole, in quanto logicamente il principio della irrevocabilità dell’opzione è volto
(34) G. Albano, La bozza di Provvedimento attuativo del regime di “branch exemption” tra conferme e novità, in Corriere Tributario, vol. 39, n. 13/2016, pp. 982-983. (35) G. Albano, La bozza del provvedimento attuativo del regime di “branch exemption” tra conferme e novità, in Corriere Tributario, vol. 39, n. 13/2016, 983.
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a impedire che possa verificarsi un ripensamento da parte del contribuente, laddove la cessazione di tutte le stabili organizzazioni in relazione alle quali l’opzione ha trovato applicazione comporta il venir meno delle stesse condizioni per l’operatività del regime (e cioè, appunto, la presenza di stabili organizzazioni estere). Peraltro, l’imprenditore che abbia cessato tutte le proprie stabili organizzazioni si trova, a seguito di tale cessazione, nella medesima posizione di quello che non ne ha mai avute. Ed è pertanto razionale che così come quest’ultimo possa optare liberamente per l’applicazione della BEX in caso di istituzione ex novo di una stabile organizzazione, anche al primo sia consentita la medesima possibilità (cfr., Provvedimento, par. 3.1). La chiusura delle stabili organizzazioni esistenti, così come la successiva costituzione di nuove stabili organizzazioni, deve essere genuina per legittimare il contribuente ad operare ex novo una scelta in merito al regime impositivo da applicare. Deve, quindi, essere risolta positivamente la questione della sindacabilità da parte dell’amministrazione finanziaria del comportamento dell’impresa che ponga in essere chiusure e aperture ravvicinate di stabili organizzazioni estere, secondo modalità che dal punto di vista della concatenazione funzionale e temporale delle operazioni sulle branch consentono di affermare che il comportamento è stato realizzato allo specifico scopo di modificare il regime in precedenza prescelto e aggirare perciò il principio di irrevocabilità dell’opzione. Un simile comportamento si qualificherebbe come idoneo al conseguimento di un vantaggio tributario indebito, rappresentato dall’accesso a un regime fiscale diverso rispetto a quello che avrebbe naturalmente trovato applicazione in virtù della natura irrevocabile e totalitaria dell’opzione, sindacabile ai sensi della disposizione generale anti-abuso di cui all’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente (Legge n. 212/2000). Un’espressa conferma dell’applicabilità del principio generale antielusivo a questi comportamenti è contenuta nel Provvedimento di attuazione, che ne limita l’operatività alla costituzione “nei tre periodi d’imposta successivi di una o più branch nei medesimi Stati o territori esteri da parte dell’impresa”. Si deve valutare favorevolmente la delimitazione, operata da parte dell’Agenzia delle Entrate, dell’applicabilità dell’art. 10-bis ai soli tre periodi d’imposta successivi laddove le stabili organizzazioni siano costituite dall’impresa nei medesimi Stati o territori esteri di quelle precedentemente chiuse. Resta il fatto che il Provvedimento non è una fonte normativa primaria, pertanto non può determinare ex se una deroga all’ambito di astratta applicabilità della disposizione anti-abuso di cui all’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente. Questa previsione del Provvedimento deve quindi piuttosto interpretarsi come
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una enunciazione, da parte dell’amministrazione finanziaria, degli elementi al cui ricorrere si ricollega la potenziale elusività del comportamento posto in essere dal contribuente, dovendosi ritenere che se tali elementi non ricorrono la stessa amministrazione finanziaria ha compiuto una valutazione di generale non elusività del comportamento e pertanto auto-limita la propria attività di accertamento. Ne consegue che non si può escludere una diversa valutazione della potenziale elusività, da compiersi caso per caso in ragione delle caratteristiche della fattispecie concreta. 4. Ambito di applicazione del regime BEX. 4.1. Profilo soggettivo e casi di esclusione. – L’opzione per il regime della branch exemption può essere esercitata per le stabili organizzazioni estere dei contribuenti fiscalmente residenti in Italia. Sotto il profilo soggettivo possono optare per il regime di branch exemption non solo le società e gli enti ex art. 73, comma 1, lett. a), b) e c), TUIR, ma anche gli altri soggetti residenti titolari di un reddito di impresa (ex art. 55 TUIR) comprese le società di persone e le persone fisiche che esercitano professionalmente attività commerciali. Sotto questo profilo, la BEX si discosta dall’omologa disciplina prevista dall’ordinamento inglese, la quale ammette che possano optare per il regime di BEX solamente le società di capitali (36). L’art. 168-ter TUIR stabilisce al comma 1 che l’opzione può essere esercitata da un’impresa residente. Il Provvedimento non contiene alcuna precisazione ulteriore in relazione a tale profilo. Sulla base di una interpretazione formale e basata unicamente sulla lettera della norma si dovrebbe quindi concludere che qualora un’impresa estera operi in Italia tramite una o più stabili organizzazioni, essa non possa esercitare l’opzione. Tale fattispecie potrebbe assumere rilevanza in relazione alla peculiare ipotesi in cui la stabile organizzazione italiana di un soggetto non residente svolga un’attività di impresa in un Paese terzo mediante un insediamento configurabile, a sua volta, come stabile organizzazione: si tratta della c.d. sub-PE (i.e. la stabile organizzazione di una stabile organizzazione, letteralmente una “sub-stabile organizzazione”), sulla quale ancora la comunità internazionale non ha raggiunto un’unanimità
(36) T. Gasparri, Il nuovo regime di branch exemption per le stabili organizzazioni all’estero, in Il Fisco, vol. 39, n. 25/2015, 2450; G. Albano, Il nuovo regime della “branch exemption” tra obiettivi di competitività e difficoltà operative, in Corriere Tributario, vol. 39, n. 2/2016, 93.
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di vedute (37). Al riguardo, posto che la norma presuppone il requisito soggettivo della “residenza in Italia”, ulteriormente ribadito al paragrafo 1. del Provvedimento, quarto e quinto alinea, si dovrebbe escludere ogni soluzione interpretativa estensiva volta ad applicare il regime di esenzione anche alle sub-PE. Tuttavia, la predetta conclusione è in contrasto con il principio di non discriminazione convenzionale e, in particolare, con l’art. 24(3) del MTC, il quale prevede che la stabile organizzazione situata in uno Stato contraente non possa essere assoggetta a un trattamento fiscale meno favorevole “than the taxation levied on enterprises of that other State carrying on the same activities”. Presenta, altresì, più di un dubbio di compatibilità con la libertà di stabilimento prevista dall’art. 49 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (“TFUE”), poiché la mancata estensione del regime di esenzione potrebbe costituire un ostacolo all’apertura di branch in altri Stati membri. Inoltre, giova ricordare che per quanto riguarda il regime del credito per le imposte assolte all’estero, l’Agenzia delle Entrate ha espressamente concluso (cfr. Circolare n. 9/E del 5 marzo 2015, par. 8.1) in senso favorevole al suo riconoscimento anche nei confronti delle stabili organizzazioni italiane di so-
(37) Come evidenzia E. Fett, Triangular cases. The application of bilateral income tax treaties in multilateral situations, Amsterdam, 2014, 36 ss., «a sub-PE triangular case is similar to a typical PE triangular case, with the exception that in this case the recipient of the income has a PE in the source State which is a sub-PE of the PE in the PE State. That is, the income attributable to the sub-PE in the source State (or sub-PE State, “State SPE”) is also attributable to the PE in the PE State. […] Sub-PE triangular cases are likely to be extremely rare, since they will only occur where income attributable to one PE is also properly attributed to another PE (i.e., the sub-PE) which somehow operates as an extension of the first PE. This could occur, for example, where a company resident in one State operates a regional headquarters through a PE in another State (the PE State) and also operates local offices in third States (through PEs) which fall under the responsibility of the regional headquarters (and are thus “sub-PEs”). In many cases a better analysis may be that the “sub-PE” is in fact just a separate PE of the enterprise as a whole and its income should not also be attributable to the PE in the “PE State”. That is, there may be a PE in both States but they should each be attributed their appropriate share of the income and there should be no income that is attributable to both PEs. Sub-PE triangular cases should also be distinguished from cases where two source States disagree with respect to the attribution of certain income, and both consider it to be attributable to a local PE under their respective treaties with the residence State; such cases can better be resolved by determining which PE the income is more properly attributable to. Nevertheless, if a sub-PE triangular case does occur the applicable treaties will be: – the treaty between the residence State and the sub-PE state (the R-SPE treaty); and – the treaty between the residence State and the PE State (the R-PE treaty)».
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cietà non residenti, argomentando – pur nel silenzio dell’art. 165 TUIR – sia in base al combinato disposto delle disposizioni contenute negli artt. 81 e 152 del TUIR, sia proprio in base al summenzionato principio di non discriminazione (38). In merito alla “configurabilità” della stabile organizzazione, il Provvedimento afferma espressamente che “[l]’opzione è efficace a condizione che sia configurabile una stabile organizzazione nello Stato estero di localizzazione ai sensi della Convenzione contro le doppie imposizioni tra quest’ultimo e l’Italia, ove in vigore, ovvero, in mancanza di una Convenzione, dei criteri di configurazione della stabile organizzazione dettati dall’art. 162 del TUIR, a meno che, in ogni caso, lo Stato estero non ravvisi l’esistenza di una stabile organizzazione ai sensi della sua legislazione domestica” (par. 2.4). Letteralmente, la predetta previsione parrebbe privilegiare, attraverso una sorta di principio di “mutuo riconoscimento”, la configurabilità della stabile organizzazione ai sensi della legislazione dello Stato ove quest’ultima è situata. In subordine, l’accertamento dell’esistenza della stabile organizzazione dovrebbe essere condotto conformemente alla Convenzione contro le doppie imposizioni, se esistente, o all’art. 162 TUIR. In termini estremamente sintetici, due opposte situazioni potrebbero assumere rilevanza. La prima si verifica nel caso in cui la stabile organizzazione è configurabile solo per effetto della legge dello Stato ove è situata (ovverosia, dello Stato estero). In questo caso, la possibilità di esercitare l’opzione, apparentemente ammissibile in ragione di un’interpretazione puramente letterale, è contraddetta dal par. 2.5 del Provvedimento, nonché dalla prassi amministrativa relativa al credito per le imposte estere. Quanto al primo profilo, la disposizione afferma che “se lo Stato estero accerta l’esistenza di una stabile organizzazione, il contribuente può esercitare l’opzione per l’esenzione degli utili e delle perdite attribuibili alla stessa (…) purché, oltre alla configurazione nello Stato estero, ricorrano le ulteriori condizioni di cui al punto 2.4”. In questo senso, la configurazione della stabile organizzazione ai sensi della legislazione estera non è condizione sufficiente all’esercizio dell’opzione per l’esenzione in caso di accertamento e, per
(38) In conformità al Commentario all’art. 24, paragrafo 67: “when foreign income is included in the profits attributable to a permanent establishment, it is right by virtue of the same principle to grant to the permanent establishment credit for foreign tax borne by such income when such credit is granted to resident enterprises under domestic laws”.
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evidenti necessità sistematiche, la medesima conclusione interpretativa deve essere estesa anche al precedente par. 2.4 (39). Quanto alla prassi amministrativa, in tema di credito d’imposta è consolidato l’orientamento secondo il quale esso è concesso solo se è riconosciuta anche ai sensi dell’art. 162 TUIR o delle disposizioni convenzionali. La seconda situazione si realizza quando la stabile organizzazione è riconosciuta solo dall’Italia (e non dallo Stato estero). In questo caso, la necessità del riconoscimento anche estero consegue dalla necessità di prevenire situazioni di doppia non-imposizione, come previsto dal par. 12 del Provvedimento. Laddove il contribuente abbia incertezze in merito alla sussistenza di una stabile organizzazione estera, il Provvedimento, al par. 10, richiama la possibilità di avvalersi del nuovo interpello c.d. ordinario qualificatorio di cui all’art. 11, comma 1, lett. a), Legge 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente) (40) al fine di sottoporre la questione all’amministrazione finanziaria in via preventiva. Si tratta di uno strumento particolarmente utile sul piano pratico per dirimere eventuali incertezze in capo al contribuente e per evitare eventuali contestazioni “postume” circa l’esistenza della stabile organizzazione estera i cui redditi siano stati esclusi da tassazione in Italia (41). Tale tipologia di interpello non ha per oggetto la determinazione del reddito della stabile organizzazione, e in particolare l’eventuale ripartizione del reddito fra casa madre e stabile organizzazione, per il quale il contribuente, se ritiene, deve invece fare ricorso alla procedura dei c.d. accordi internazionali di cui all’art. 31-ter, comma 1, lett. b), D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (introdotto nell’ordinamento ad opera dell’art. 1, D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147).
(39) Cfr. anche A. Saini, La “branch exemption” mette sotto la lente la stabile organizzazione, in Quotidiano del Fisco, 16 settembre 2017. (40) Il nuovo interpello c.d. ordinario qualificatorio previsto dall’art. 11 (che, a seguito della riforma operata dal D.Lgs. n. 147/2015, è adesso rubricato Diritto di interpello) permette di rivolgersi all’Amministrazione finanziaria per conoscere la «corretta qualificazione di fattispecie alla luce delle disposizioni tributarie applicabili alle medesime, ove ricorrano condizioni di obiettiva incertezza e non siano comunque attivabili le procedure di cui all’articolo 31-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600». (41) A. Trabucchi – F. Cerulli Irelli, Il regime opzionale di “branch exemption”, in Corriere Tributario, vol. 38, n. 21/2015, 1611.
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4.2. Profilo oggettivo. – Il regime della branch exemption si applica ai risultati (i.e. sia gli utili sia le perdite) della stabile organizzazione estera. Gli altri profitti, che derivano dall’esercizio di un’attività commerciale non conseguiti tramite una stabile organizzazione (e.g. le prestazioni di consulenza e assistenza rese a committenti esteri con personale specializzato (42) o cantieri con durata inferiore alla soglia minima prevista) non possono godere dell’esenzione e nessun rilievo assumerà il fatto che siano assoggettati a tassazione nel Paese della fonte (43). I principi che regolano la determinazione di tali risultati seguono l’Authorized OECD Approach (“AOA”), conformemente all’art. 152, comma 2, TUIR, come modificato dal Decreto Internazionalizzazione. In questo senso, l’attribuzione di componenti positivi o negativi di reddito alla stabile organizzazione deve riflettere “gli esiti dell’analisi fattuale e funzionale dell’attività economica effettivamente svolta dalla branch, che ne determina gli asset, le funzioni e i rischi effettivi, nonché il relativo fondo di dotazione” (Provvimento, par. 7.3). Il medesimo Provvedimento ammette la deroga a tali regole, e “il riconoscimento totale o parziale dei principi adottati dallo Stato estero”, solo alla presenza congiunta di due requisiti, la mancata applicazione dell’AOA da parte dello Stato ove è situata la stabile organizzazione e l’adozione di un accordo preventivo ex art. 31-ter del D.P.R. n. 600 del 1973 (par. 7.2). Nonostante l’esenzione dall’imposizione in Italia, il comma 10 dell’art. 168-ter TUIR obbliga comunque la stabile organizzazione estera a indicare il proprio reddito nella dichiarazione dell’impresa “separatamente”. In tal senso, il soggetto residente in Italia è obbligato a determinare (e dichiarare) il reddito complessivo prodotto dall’impresa, formato dal reddito della casa madre e della stabile organizzazione, salvo poi escluderlo dal reddito imponi-
(42) Si badi bene, però, che questa ipotesi costituisce stabile organizzazione ai sensi dell’art. 5, comma 3, lett. b), Modello ONU, il quale prevede che «the term “permanent establishment” also encompasses: […] The furnishing of services, including consultancy services, by an enterprise through employees or other personnel engaged by the enterprise for such purpose, but only if activities of that nature continue (for the same or a connected project) within a Contracting State for a period or periods aggregating more than 183 days in any 12-month period commencing or ending in the fiscal year concerned». Cfr. UN, Model Double Taxation Convention between developed and developing Countries, New York, 2010. Tale ipotesi è, d’altronde, espressamente prevista dall’art. 5, comma 2, lett. g), n. II, Convenzione Italia-Turchia del 27 luglio 1990, entrata in vigore il 1° dicembre 1993. (43) F. Di Cesare, Il nuovo regime di branch exemption, in La Gestione Straordinaria delle Imprese, vol. 3, n. 6/2015, 125.
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bile da assoggettare a imposizione (o dalla perdita fiscale riportabile). In termini applicativi, tali obblighi procedimentali si traducono nella riliquidazione del risultato economico risultante dal rendiconto della stabile organizzazione estera secondo le regole del TUIR e dallo scomputo dal risultato della casa madre italiana (in questo senso, Provvedimento par. 7.4). Questa conclusione è stata confermata recentemente anche dalla Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 15 gennaio 2018, n. 4/E, ove si rileva che al reddito complessivo dell’impresa determinato ai sensi delle regole del TUIR deve essere sottratto quello delle branch (ovvero sommato alla perdita fiscale dell’impresa nel complesso) (44). 4.2.1. Coordinamento fra BEX e disciplina CFC. – In caso di esercizio dell’opzione per la BEX, alla stabile organizzazione estera di un’impresa residente possono essere applicate, qualora ne ricorrano i presupposti, le disposizioni previste dall’art. 167 TUIR, ossia la disciplina in materia di controlled foreign companies (CFC). L’estensione della BEX alla totalità delle stabili organizzazioni del contribuente si atteggia pertanto in maniera del tutto particolare se taluna delle stabili organizzazioni integra i requisiti per l’applicazione del regime CFC. Difatti, il comma 3 dell’art. 168-ter prevede che «l’opzione di cui al comma 1 si esercita, relativamente a tali stabili organizzazioni, a condizione che ricorrano le esimenti» previste dall’art. 167, commi 5 e 8-ter, TUIR. Se invece tali esimenti non ricorrono, il regime di esenzione dei redditi prodotti dalle stabili organizzazioni CFC non trova applicazione, ma si applicano «le disposizioni dell’articolo 167» (45). Di conseguenza, mentre in assenza dell’opzione per il regime BEX il reddito prodotto dalle branch estere riconducibili alla disciplina CFC viene incluso nel reddito imponibile della casa-madre italiana secondo l’ordinaria disciplina prevista dal TUIR, in presenza dell’opzione per tale regime il reddito delle medesime branch è suscettibile di due regimi fiscali differenti: (i) al reddito prodotto dalle stabili organizzazioni che soddisfano le esimenti richiamate dal comma 3 troverà applicazione il regime di esenzione BEX;
(44) In termini ulteriormente esplicativi, si rinvia ad Assonime, Regime di cd. branch exemption: chiarimenti sulla compilazione dei modelli dichiarativi Redditi SC 2017 e IRAP 2017, Circolare n. 2 del 15 gennaio 2018. (45) Così dispone il successivo comma 4 dell’art. 168-ter.
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(ii) per contro, nel caso di stabili organizzazioni che non soddisfano le esimenti citate, il relativo reddito sarà determinato secondo la disciplina CFC e sarà imputato in ossequio a tale disciplina in capo alla casa-madre italiana. In tale ultima ipotesi, quindi, il regime dell’esenzione in concreto non opera e trova applicazione il regime della tassazione per trasparenza in base alle regole CFC. Il reddito della stabile sarà determinato secondo le disposizioni dell’art. 167, comma 6, TUIR, e le disposizioni del D.M. 21 novembre 2001, considerando, per le stabili organizzazioni già esistenti (rectius costituite) al momento dell’esercizio dell’opzione della BEX, i valori fiscalmente riconosciuti prima dell’ingresso nel regime CFC e per quelle costituite/acquisite successivamente, i valori determinati ex art. 2, comma 2, D.M. citato. In entrambi i casi, le imposte pagate all’estero a titolo definitivo sono scomputabili in Italia ex art. 165 TUIR (46). Il Provvedimento, al par. 8.5, prevede che il possesso di una stabile organizzazione CFC «va segnalato dall’impresa nella dichiarazione dei redditi». Tuttavia, tale obbligo non sussiste qualora l’impresa abbia ottenuto un parere favorevole da parte dell’amministrazione finanziaria all’interpello in materia di CFC ai sensi dell’art. 11, comma 1, lett. b) dello Statuto dei diritti del contribuente: detto altrimenti, se si verificano le condizioni dell’art. 167 TUIR, non vi è esenzione; tuttavia, se il contribuente ha ricevuto un parere positivo a seguito di interpello disapplicativo ovvero ritiene esistenti le esimenti (e, di conseguenza, non assoggetta a tassazione per trasparenza i redditi da CFC), l’esenzione troverebbe applicazione.
(46) G. Albano, La bozza di Provvedimento attuativo del regime di “branch exemption” tra conferme e novità, in Corriere Tributario, vol. 39, n. 13/2016, 986; G. Formica – G. Galdieri, Nuove opzioni di internazionalizzazione alla luce della branch exemption, in Il Fisco, vol. 40, n. 11/2016, 1059, i quali osservano che «salva la ricorrenza delle esimenti ex art. 167, comma 5, lett. a) e b), e comma 8-ter, gli utili di dette branch CFC, invece di essere esenti in Italia e tassati unicamente oltre confine (come accade per le branch non-CFC o CFC con esimenti), risultano interamente tassati in Italia per trasparenza, al momento della loro generazione e a prescindere dalla loro distribuzione, secondo le stesse modalità previste per gli utili provenienti da subsidiary CFC (senza esimenti). In particolare, il reddito della stabile è determinato secondo le disposizioni di cui al comma 6 dell’art. 167 cit. e del D.M. 21 novembre 2001, n. 429, ove compatibili, considerando a tal fine, per le stabili organizzazioni già esistenti alla data di esercizio dell’opzione per la BEX, i valori fiscali riconosciuti prima dell’ingresso nel regime CFC e, per quelle costituite o acquisite successivamente, i valori determinati ai sensi dell’art. 2, comma 2, del predetto Decreto ministeriale».
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Quando una branch si qualifica ai fini dell’applicabilità della disciplina CFC, l’esenzione troverà perciò applicazione solo qualora siano soddisfatte le esimenti che consentono la disapplicazione del relativo regime [ex art. 167, comma 5, lett. a) e b), TUIR, e/o ex art. 167, comma 8-ter, TUIR] (47). A tale proposito si segnala che lo Schema di Decreto Legislativo di attuazione della Direttiva (UE) 2016/1164 del Consiglio del 12 luglio 2016 (c.d. Direttiva ATAD) prevede la integrale sostituzione dell’articolo 167 del TUIR con una nuova formulazione, il cui comma 3, lettera b) annovera espressamente tra i “soggetti controllati non residenti” cui si applica la disciplina CFC “le stabili organizzazioni all’estero di soggetti residenti che abbiano optato per il regime di cui all’articolo 168-ter”. In ogni caso, qualora un’impresa residente possegga più stabili organizzazioni estere, la sussistenza di una, o più, branch CFC (senza esimenti) non impedisce tout court l’accesso all’esenzione per le altre branch non-CFC. Si avrà tuttavia l’applicazione di un regime di tassazione diversificato: in Italia e per trasparenza per le branch CFC (senza esimenti) e solo all’estero per tutte le altre (48). In tal senso, la previsione del nostro ordinamento differisce totalmente da quella dell’ordinamento britannico, nel quale, per le imprese che hanno una o più stabili organizzazioni in Stati black list, è precluso l’accesso al regime dell’esenzione, a meno che non superino il c.d. motive test (49). Il funzionamento della disciplina CFC può comportare che una medesima impresa estera sia considerata CFC solo in alcuni periodi d’imposta e non in
(47) Cfr., M. Bargagli, Il regime (opzionale) di esenzione da tassazione dei redditi prodotti dalla stabile organizzazione, in Bilancio e Reddito d’Impresa, vol. 7, n. 5/2016, 44. (48) Ad esempio, la società X, residente in Italia, detiene quattro stabili organizzazioni: A (localizzata nello Stato A), B (localizzata nello Stato B), C (localizzata nello Stato C) e D (localizzata nello Stato D). Lo Stato A non è uno Stato a fiscalità privilegiata; lo Stato B è uno Stato a fiscalità privilegiata; lo Stato C è uno Stato a fiscalità privilegiata, ma la società italiana X ha dimostrato di svolgere effettivamente in detto Stato un’attività economica (integrando con successo l’esimente ex art. 167, comma 5, lett. a), TUIR); lo Stato D non è uno Stato a fiscalità privilegiata. Ebbene, se la società X opta per il nuovo regime BEX, gli utili e le perdite delle stabili organizzazioni A, C e D saranno esenti da tassazione in Italia, mentre gli utili e le perdite dello Stato B saranno tassati in Italia, in via separata, in capo alla società X. Sul punto, cfr. S. Grilli – M. Busia, Italy’s branch exemption: a competitive boost for Italian businesses abroad, in Tax Notes International, vol. 81, n. 8/2016, 689. (49) G. Formica – G. Galdieri, Nuove opzioni di internazionalizzazione alla luce della branch exemption, in Il Fisco, vol. 40, n. 11/2016, pp. 1059-1060; C. Galassi, “Branch exemption”: un istituto ancora da conoscere, in Fiscalità e Commercio Internazionale, vol. 5, n. 10/2015, 15.
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altri. Difatti, la concreta applicazione della disciplina dipende da una pluralità di variabili: il livello nominale di tassazione in Italia e nel Paese o territorio ove è situata la stabile organizzazione; il verificarsi (o meno) delle esimenti previste dai commi 5 e 8-ter. Ne consegue che, anche in ragione della irrevocabilità dell’opzione per la BEX, una medesima stabile organizzazione estera potrebbe “entrare” e “uscire” più volte dal regime CFC e conseguentemente modificare più volte nell’arco della propria esistenza il modo in cui il regime di esenzione concretamente si applica (o non si applica) al reddito da essa prodotto. Si deve, infatti, ricordare che finora l’art. 167 TUIR non si applicava di regola alle stabili organizzazioni estere di imprese italiane localizzate in Paesi a fiscalità privilegiata: gli utili o le perdite delle stabili organizzazioni venivano imputati al soggetto italiano secondo le ordinarie regole della determinazione del reddito d’impresa in virtù del principio di tassazione del reddito su base mondiale, senza le particolarità previste dalla disciplina CFC (in primis, la tassazione separata prevista da tale disciplina, che in pratica non consente la “compensazione” dei redditi della stabile organizzazione CFC con le perdite della casa-madre). Da una parte, si comprende che la scelta del legislatore di accordare prevalenza sistematica alla disciplina CFC risponde a esigenze “antiabuso” (in ipotesi, la coesistenza tra l’esenzione in Italia e una non congrua tassazione nel Paese della fonte potrebbe comportare un risultato indesiderato di doppia non tassazione) e di non discriminazione nei confronti delle forme societarie di insediamento estero. Dall’altra parte, però, l’applicazione tout court del regime CFC dà luogo a un trattamento penalizzante rispetto alle ipotesi di assenza di opzione (che comporta inclusione del reddito della stabile organizzazione nell’imponibile della impresa residente). 4.2.2. Doppia esenzione o doppia deduzione (c.d. mismatching). – Nel silenzio della norma primaria, era possibile ritenere che l’esenzione dall’imposta del reddito della stabile organizzazione prescindesse dal trattamento riservato dallo Stato estero ai redditi della stessa: per poter optare per l’esenzione, era condizione necessaria e sufficiente che l’insediamento estero dell’impresa costituisse una stabile organizzazione, non essendo necessario che lo Stato estero ne tassasse i redditi. Nel Provvedimento, l’Agenzia delle Entrate si è preoccupata di evitare quelle situazioni che possono eludere il corretto funzionamento del regime, prevedendo che l’emersione di fenomeni di doppia deduzione o doppia esenzione, derivanti dal disallineamento normativo fra le regole fiscali applicabi-
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li all’impresa residente e quelle alla stabile organizzazione, debbano essere «opportunamente sterilizzati al fine di evitare un’erosione della base imponibile italiana» (par. 12.1). Nonostante la identificazione della questione, la soluzione offerta dall’Agenzia delle Entrate è, per così dire, mobile. Il par. 12.2, infatti, afferma che “i fenomeni di doppia esenzione e doppia deduzione e, in generale, le fattispecie ritenute elusive delle disposizioni in materia di branch exemption saranno resi noti mediante pubblicazione sul sito istituzionale dell’Agenzia delle Entrate”. Tale approccio è completamente differente rispetto alla bozza di Provvedimento pubblicata dall’Agenzia delle Entrate. In tale documento, infatti, si affermava che si aveva un caso di doppia esenzione quando lo Stato estero non ravvisava l’esistenza di una stabile organizzazione il cui reddito fosse incluso nel perimetro di esenzione (par. 11.2): in questo caso, il mancato riconoscimento della branch da parte dello Stato estero avrebbe avuto come conseguenza il venir meno degli effetti dell’opzione ex tunc con riferimento a detta branch. Da ciò si desumeva che, per accedere al regime dell’esenzione, contrariamente a quanto si potrebbe pensare in base alla lettera della norma, una stabile organizzazione doveva sussistere sia secondo le leggi dell’ordinamento italiano sia secondo le leggi dell’ordinamento dello Stato di insediamento. Come si è già rilevato supra, tale ipotesi è superata dal par. 2.4 del Provvedimento, che riconosce l’efficacia dell’opzione, alternativamente, nel caso in cui una stabile sia configurabile per il diritto interno, per il diritto convenzionale o per quello dello stato di insediamento. Il par. 11.3 della bozza di Provvedimento disciplinava, poi, una diversa ipotesi di mismatching che si verifica nel caso in cui lo Stato estero riconoscesse l’esistenza di una stabile organizzazione che non è ritenuta tale nella prospettiva dell’impresa residente e, pertanto, non è stata inclusa nel perimetro dell’esenzione. Anche in questo caso, in ragione dell’attuale formulazione del par. 2.4, la questione non pare più attuale. Non era peraltro espressamente affrontato nella bozza di Provvedimento il funzionamento dell’eliminazione degli effetti del mismatching in caso di potenziale “doppia tassazione”. 5. La determinazione reddito della stabile organizzazione in regime BEX. 5.1. Regole generali. – Come si è accennato, presupposto fondamentale per la corretta applicazione del regime di esenzione è la corretta determinazione del reddito della stabile organizzazione. Si tratta cioè di determinare il
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risultato reddituale (positivo o negativo) della stabile organizzazione pur non avendo essa autonomia tributaria distinta rispetto alla casa madre. A tal fine, si attribuisce alla branch indipendenza tributaria per la misurazione del risultato reddituale realizzato, in applicazione dell’arm’s lenght principle nei rapporti tanto con la casa madre, quanto con le altre società appartenenti al medesimo gruppo della casa madre, come se si trattasse effettivamente di un’entità separata, che svolge le medesime (o analoghe) attività in condizioni identiche o similari (art. 7, par. 2, Modello OCSE). Anche per la determinazione del fondo di dotazione devono essere applicati i criteri previsti dall’OCSE tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati. Nel Report on attribution of profits to permanent establishments, pubblicato il 22 luglio 2010, l’OCSE specifica che per determinare il reddito da attribuire alla stabile organizzazione è necessario effettuare il calcolo dei profitti e delle perdite derivanti da tutte le attività, incluse le transazioni con parti indipendenti, con parti correlate e con le altre parti dell’impresa (50). Tale approccio trova conferma anche nell’ultima versione del Modello OCSE (51). L’OCSE, dunque, nel delineare l’AOA suggerisce di adottare il c.d. functionally separate entity approach, che implica due step differenti: a) in primo luogo, si deve trattare la stabile organizzazione come un’entità separata e indipendente;
(50) G. Formica – P. Formica, Proposte di attuazione del regime di branch exemption, in Il Fisco, vol. 40, n. 13/2016, 1271; M. Bargagli, Il regime (opzionale) di esenzione da tassazione dei redditi prodotti dalla stabile organizzazione, in Bilancio e Reddito d’Impresa, vol. 7, n. 5/2016, 40. Sul tema, cfr. anche A. Rust, “Business” and “business profits”, in G. Maisto (a cura di), The meaning of “enterprise”, “business” and “business profits” under tax treaties and EU tax law, Amsterdam, 2011, p. 85 ss.; R. Bernales, The authorised OECD approach: an overview, in C. Gutiérrez – A. Perdelwitz (a cura di), Taxation of business profits in the 21st Century. Selected issues under tax treaties, Amsterdam, 2013, 135 ss. (51) Il par. 9 del Commentario all’art. 7 del Modello OCSE chiarisce, infatti, che «the current version of the Article therefore reflects the approach developed in the Report and must be interpreted in light of the guidance contained in it. The Report deals with the attribution of profits both to permanent establishments in general (Part I of the Report) and, in particular, to permanent establishments of businesses operating in the financial sector, where trading through a permanent establishment is widespread (Part II of the Report, which deals with permanent establishments of banks, Part III, which deals with permanent establishments of enterprises carrying on global trading and Part IV, which deals with permanent establishments of enterprises carrying on insurance activities)». Così, OECD, Model Tax Convention on income and on capital 2014, Paris, 2015, par. 9, p. C(7)-3.
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b) inoltre, occorre determinarne il risultato reddituale della stabile organizzazione in ragione delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati, a prescindere dalla mera allocazione contabile. Questa disciplina è integralmente accolta dal Provvedimento, che ne estende l’applicazione “anche in assenza di specifiche disposizioni di una Convenzione contro le doppie imposizioni tra lo Stato italiano e lo Stato di localizzazione della stabile organizzazione esente” (par. 7.1). Al tal fine, gli «utili e le perdite della stabile organizzazione devono risultare dall’apposito rendiconto economico e patrimoniale redatto secondo i criteri dell’articolo 152 del TUIR» in perfetta conformità con le norme previste per le stabili organizzazioni italiane di soggetti non residenti (par. 7.3). L’art. 152 TUIR prevede infatti che i redditi della branch italiana siano determinati seguendo le disposizioni per i soggetti IRES residenti, sulla base di un rendiconto economico e patrimoniale da redigersi secondo i principi contabili previsti per i soggetti residenti con analoghe caratteristiche. 5.2. Stabile organizzazione e transfer pricing. – Le componenti di reddito attribuibili alla stabile organizzazione con riguardo alle transazioni e alle operazioni intercorse tra questa e la casa madre, così come con le altre società appartenenti al medesimo gruppo della casa madre (e alle relative stabili organizzazioni) devono essere determinate applicando le regole previste in tema di transfer pricing (ex art. 110, comma 7, TUIR), al pari di quanto avviene per le stabili organizzazioni di soggetti non residenti (art. 152 TUIR e Provvedimento, parr. 7.5 e 7.6). Il Provvedimento, al par. 7.7, afferma che l’impresa residente, per beneficiare del regime di disapplicazione delle sanzioni amministrative tributarie, deve rispettare gli oneri documentali in materia di prezzi di trasferimento ex art. 26, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, evidentemente anche in relazione alle operazioni intercorse con le proprie stabili organizzazioni esenti. Viene, inoltre, chiarito che se l’impresa residente nel territorio dello Stato non fa parte di un gruppo multinazionale, «la documentazione è rappresentata dal solo documento denominato “Documentazione Nazionale”» e che, ai fini della redazione di tale documento, per “operazioni infragruppo” si intendono quelle effettuate tra casa madre italiana e ciascuna sua stabile organizzazione esente, nonché quelle poste in essere da dette stabili organizzazioni. 5.3. Effetti dell’esenzione sull’applicazione dell’ACE. – L’Aiuto alla Crescita Economica (“ACE”, in ordinamenti stranieri denominata solitamente allowance for corporate equity) è stato introdotto dall’art. 1, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni nella Legge n. 214/2011 (c.d. De-
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creto “Salva Italia”). Si tratta di un’agevolazione tesa a promuovere la capitalizzazione delle imprese rendendo più equilibrato il trattamento fiscale tra capitale proprio e capitale di debito, al fine di incentivare il finanziamento delle imprese con capitale proprio. In sintesi, a decorrere dal periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2011 è stata prevista la deduzione dal reddito imponibile IRES di un importo corrispondente al c.d. rendimento nozionale del nuovo capitale proprio. Il rendimento nozionale (i.e. il rendimento del capitale proprio investito) è determinato dall’applicazione di una percentuale all’aumento del nuovo capitale proprio. L’entità di questa percentuale è determinata ai sensi dell’art. 1, comma 3, c.d. Decreto “Salva Italia”: per il primo triennio di applicazione, l’aliquota era fissata al 3%, ma successivamente viene determinata con Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze da emanarsi entro il 31 gennaio di ogni anno. Il rendimento nozionale proprio è calcolato sul “nuovo capitale proprio”, che è rappresentato dall’incremento del patrimonio netto risultante alla fine dell’esercizio rispetto a quello di riferimento. Questo corrisponde a quello risultante alla chiusura dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2010. L’incremento del capitale netto è dato dai conferimenti in denaro o dall’accantonamento di utili a riserva, ridotto delle riduzioni rilevanti. L’adesione al regime della BEX ha un impatto anche sull’operatività di tale agevolazione. Il Provvedimento ha adottato un approccio, sul punto, totalmente differente rispetto alla precedente versione pubblicata in bozza. Tale ultimo documento, infatti, si proponeva di “sterilizzare”, in capo alla casa madre italiana, le variazioni corrispondenti al fondo di dotazione figurativamente imputabile alle stabili organizzazioni estere. Più precisamente, la bozza di Provvedimento stabiliva che quando un’impresa opta per la BEX, l’ammontare di capitale proprio esistente al 31 dicembre 2010 avrebbe dovuto essere ridotto del fondo di dotazione attribuito figuratamente alla branch esente. Lo stesso valeva per gli eventuali incrementi e decrementi successivi, che avrebbero dovuto essere sterilizzati delle variazioni subite dal fondo di dotazione della stabile organizzazione esente (che, quindi, non avrebbero rilevato ai fini del calcolo dell’agevolazione in capo alla casa madre italiana) (52).
(52) G. Formica – P. Formica, Proposte di attuazione del regime di branch exemption, in Il Fisco, vol. 40, n. 13/2016, 1272; G. Albano, La bozza di Provvedimento attuativo del regime di “branch exemption” tra conferme e novità, in Corriere Tributario, vol. 39, n. 13/2016, 985.
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All’opposto, il Provvedimento ritiene applicabile la disciplina ACE anche alle stabili organizzazioni che godono del regime di esenzione ex art. 168-ter TUIR, assumendo quale “base di partenza” il valore del fondo di dotazione, determinato avendo riguardo al maggiore “tra il fondo di dotazione contabile al 31 dicembre 2010 e il fondo congruo a fini fiscali in pari data” (par. 7.8). In maniera del tutto coerente, il medesimo paragrafo considera che ogni attribuzione di capitale dalla casa madre alle stabili organizzazioni estere “non rilevi come elemento negativo alla variazione del capitale proprio”. In questo senso, adeguandosi alle regole sulla determinazione del reddito applicabili al soggetto residente, le quali prevedono che quest’ultimo liquidi il reddito complessivo e, solo successivamente, sottragga il reddito attribuibile alla stabile organizzazione estera, l’agevolazione ACE spettante alla casa madre è calcolata per differenza tra l’agevolazione complessiva del soggetto residente e quella “riferibile” alla stabile organizzazione estera (53). La mancata esclusione delle somme attribuite alla stabile organizzazione estera ai fini della determinazione dell’ACE, dunque, non deve considerarsi come un’agevolazione, bensì quale soluzione obbligata (e coerente) con le modalità di determinazione del reddito imponibile della casa madre al fine di evitare un doppio utilizzo del beneficio. 6. Distribuzione degli utili. – Come regola generale, il nostro ordinamento prevede l’estensione della parziale esclusione da imposizione prevista per i dividendi di fonte nazionale anche nei confronti degli utili distribuiti da società estere (cfr. per i dividendi intra-societari l’art. 89 del TUIR). Tuttavia, per gli utili che provengono da società residenti in Stati o territori “a fiscalità privilegiata”, l’esclusione da imposizione presuppone la dimostrazione che i redditi della società partecipata siano stati assoggettati ad imposizione congrua [cfr. l’esimente di cui all’art. 167, comma 5, lett. b), TUIR]. Per contro, nel caso di disapplicazione della disciplina CFC in virtù della diversa esimente di cui alla precedente lett. a), è prevista la tassazione integrale dei dividendi al momento della percezione da parte del contribuente italiano. Quindi, se i
(53) Al fine di evitare arbitraggi fiscali, il medesimo Provvedimento dispone che “[l]’ammontare complessivo del rendimento nozionale relativo alle stabili organizzazioni non può essere superiore al rendimento nozionale relativo all’impresa nel complesso”, così da rendere equivalenti i fattori dell’operazione algebrica. Per quanto detto nel testo, il rendimento nozionale complessivo deve essere determinato considerando anche il fondo di dotazione della stabile organizzazione estera.
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redditi sono realizzati da imprese localizzate in territori “a fiscalità privilegiata” e non sono assoggettati a una congrua tassazione, questi saranno assoggettati a imposizione in capo al soggetto controllante per trasparenza all’atto di realizzo di tali redditi ex art 167 TUIR, oppure al momento dell’effettiva percezione da parte del soggetto residente controllante quali dividendi provenienti da Paesi black list (cfr. art. 89, comma 3 e art. 47, comma 4, TUIR). In entrambi i casi potrà essere riconosciuto un credito indiretto per le imposte ivi corrisposte (54). La bozza di Provvedimento, al par. 9.1, dopo aver sottolineato che gli utili e le perdite provenienti dalle stabili organizzazioni esenti non concorrono alla determinazione del reddito imponibile dell’impresa residente, si occupa poi della successiva distribuzione degli utili da parte dell’impresa residente ai propri soci. In primo luogo, il Provvedimento fa coincidere l’attribuzione di utili (55) della stabile organizzazione alla casa madre con ogni atto di riduzione del fondo di dotazione, introducendo la presunzione che siano “prioritariamente attribuiti a casa madre gli utili realizzati quando la branch non era in regime di esenzione” (par. 9.2). In secondo luogo, lo stesso documento introduce una particolare disciplina per la distribuzione degli utili di quelle stabili organizzazioni localizzate in Paesi “a fiscalità privilegiata”, relativamente ai quali si applica un regime di tassazione simile a quello descritto per la distribuzione di dividendi black list. In particolare, il par. 9.3 afferma che gli utili provenienti da stabili organizzazioni esenti localizzate in Stati o territori di cui all’art. 167, comma 4, TUIR concorrono a formare il reddito del soggetto italiano “al momento della distribuzione degli stessi ai soci della casa madre”. Quindi, nel caso in cui si verifichi la prima esimente CFC ex art. 167, comma 5, lett. a), TUIR (i.e. prova del radicamento nel mercato locale), gli utili distribuiti saranno tassati integralmente in capo all’impresa residente con il riconoscimento del relativo credito di imposta “indiretto”. Invece, qualora venga dimostrata la seconda
(54) S.M. Galardo, La “branch exemption” nell’ambito del metodo dell’esenzione, in Corriere Tributario, vol. 39, n. 15/2016, 1166-1167. (55) Dal momento che stabile organizzazione e casa madre sono lo stesso soggetto giuridico, non ci può essere una formale distribuzione di utili dalla casa madre all’impresa residente e, pertanto, l’unica distribuzione possibile è quella dell’impresa nei confronti dei propri soci. Sul punto, si veda F. Di Cesare, Il nuovo regime di branch exemption, in La Gestione Straordinaria delle Imprese, vol. 3, n. 6/2015, 126.
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esimente ex art. 167, comma 5, lett. b), TUIR (i.e. congruo livello impositivo) la tassazione degli utili distribuiti sarà parziale, in ragione della natura del percipiente. Il Provvedimento disciplina anche la tracciabilità dell’origine dell’utile da cui scaturisce il dividendo distribuito: se l’impresa distribuisce ai propri soci utili provenienti da stabili organizzazioni insediate in Paesi black list, sarà tenuta a documentare di volta in volta la provenienza degli utili distribuiti ai suoi soci (par. 9.6). Se tale indicazione manca, si considerano distribuiti ai soci, in via prioritaria e fino a concorrenza, gli utili provenienti dalle branch istituite nei predetti Paesi black list. Ne consegue che alla casa madre spetta altresì l’onere di distinguere, data la differenza di tassazione, tra gli utili provenienti da una branch per la quale ricorre la prima esimente e quelli provenienti da una branch per la quale ricorre la seconda (56). Il Provvedimento estende questa disciplina anche al pagamento o al prelevamento dei medesimi utili da parte di società di persone o imprese individuali che abbiano optato per la BEX (par. 9.6 che rinvia al par. 9.4). Detta precisazione è utile a chiarire i dubbi generati dalla formulazione della norma primaria che, parlando di distribuzione di dividendi, sembrerebbe escludere quei soggetti (i.e. imprenditori individuali o società di persone) i quali, pur potendo optare per la branch exemption, tecnicamente non distribuiscono dividendi. La disciplina recata dal Provvedimento, che si discosta rispetto alla soluzione prevista nel documento in bozza, è, per un verso, coerente con la natura giuridica unitaria del fenomeno casa madre-stabile e, per altro verso, non aderente alla disciplina CFC. Quanto al primo profilo, infatti, la riduzione del fondo di dotazione (e il corrispondente incremento del patrimonio della casa madre) non è in alcun modo assimilabile alla distribuzione di dividendi. In questo senso, appare corretta l’individuazione del momento dell’imponibilità con quello del distacco degli utili dal soggetto giuridico. In relazione al secondo profilo, diversamente, la predetta disciplina non è del tutto in linea con la disciplina CFC, poiché consente che gli utili, anche in assenza di una “congrua” tassazione, non siano assoggettati a imposizione fino al momento della distribuzione ai soci. Invece, coerentemente con la ratio
(56) Cfr. G. Formica – P. Formica, Proposte di attuazione del regime di branch exemption, in Il Fisco, vol. 40, n. 13/2016, pp. 1272-1273.
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di questa, gli utili black list dovrebbero essere tassati nel momento stesso in cui entrano nella sfera giuridico-fiscale della casa madre e non, diversamente, “al momento della distribuzione degli stessi ai soci di casa madre”. 7. Recapture delle perdite. 7.1. Le linee generali del meccanismo. – L’art. 168-ter TUIR prevede un “regime transitorio” a parziale tutela della base imponibile domestica: il c.d. recapture delle perdite fiscali pregresse realizzate dalle branch esenti. La finalità dell’istituto del recapture è la previsione di un correttivo al regime di esenzione diretto a evitare – entro un limite temporale prestabilito e reputato congruo (cinque anni) – che il beneficio dell’esenzione dei redditi futuri conseguiti dalla branch possa cumularsi alle perdite fiscali deducibili apportate dalla branch in anni precedenti all’esercizio dell’opzione. La medesima attività d’impresa esercitata dalla branch che produrrà redditi esenti successivamente all’esercizio dell’opzione potrebbe infatti aver in passato determinato il conseguimento di perdite fiscalmente dedotte dalla casa madre. In pratica, si equipara il caso dell’impresa che, al momento della costituzione della sua branch opta ex novo per il regime della BEX, a quello dell’impresa già in possesso di stabili organizzazioni che decide di passare dal metodo tradizionale dell’imputazione a quello dell’esenzione, giacché quest’ultima potrebbe trovarsi in una situazione di vantaggio laddove abbia in precedenza beneficiato dello scomputo delle perdite prodotte dalla branch. Per sterilizzare tali effetti e ripristinare una situazione di parità di trattamento, sia la norma primaria che il Provvedimento (cfr. par. 4) hanno previsto che la casa madre, al momento dell’esercizio dell’opzione, dovrà ricalcolare i risultati reddituali della branch in ciascuno dei cinque periodi di imposta precedenti e, qualora dalla relativa somma algebrica risultasse una perdita fiscale netta, gli utili successivamente realizzati dalla stessa branch non potranno godere dell’esenzione fino a concorrenza dell’ammontare di detta perdita (57).
(57) Ad esempio, la società Alfa vuole esercitare, nel periodo di imposta 2016, l’opzione per la BEX per la sua branch Beta. Alfa, ricalcolando i risultati reddituali di beta nel quinquennio 2011-2015 individua che questa nel 2011 ha avuto una perdita pari a € 100.000, nel 2012 una perdita pari a € 45.000, nel 2013 una perdita pari a € 20.000 e nel 2014 una perdita pari a € 25.000, nel 2015, invece, ha avuto un utile pari a € 55.000. Dunque, la perdita netta totale per detto quinquennio è di € 135.000: fino al riassorbimento di detta cifra, gli utili realizzati da Beta, a partire dal periodo di imposta 2016, continueranno ad essere tassati in capo ad Alfa. Cfr. F. Brenna – S. Telesca, Branch exemption in pratica: il recapture delle perdite,
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Dopo la pubblicazione della bozza di Provvedimento, è stata evidenziata la necessità di riconoscere il credito d’imposta in relazione ai redditi tassati in applicazione del recapture, in conformità a quanto avviene nel quinquennio precedente l’esercizio dell’opzione, nel corso del quale il credito spetta senza limitazioni (58). L’applicabilità dell’art. 165, comma 6, TUIR è ora prevista dal par. 4.5 del Provvedimento, che ne limita la durata temporale alle eccedenze di imposta estera “maturate in capo alla casa madre negli otto esercizi precedenti a quello di efficacia dell’opzione”. Come precisato nella già citata Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 4/E del 15 gennaio 2018, le eccedenze di imposta estera computabili al fine della determinazione del credito d’imposta riguardano esclusivamente i redditi attribuibili alla stabile organizzazione, con esclusione dei redditi prodotti all’estero direttamente dall’impresa italiana. Le eventuali perdite fiscali conseguite dalla medesima stabile organizzazione in vigenza dell’opzione non assumono alcuna rilevanza ai fini del meccanismo del recapture (par. 4.1) (59). Condizione necessaria affinché il recapture trovi applicazione è che l’impresa abbia utilizzato le perdite della branch per abbattere il suo reddito imponibile o le abbia trasferite all’eventuale consolidato nazionale al quale la medesima appartiene (60). Ciò è evidenziato dal tenore letterale tanto del par. 4.1 del Provvedimento («[s]e nei cinque periodi di imposta antecedenti a
in Ipsoa Quotidiano, 6 aprile 2016, accessibile su www.ipsoa.it/documents/fisco/fiscalitainternazionale/quotidiano/2016/04/06/branch-exemption-in-pratica-il-recapture-delle-perdite. (58) Confindustria, Esenzione degli utili e delle perdite delle stabili organizzazioni di imprese residenti (branch exemption) – Bozza di provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate. Le osservazioni di Confindustria in risposta alla consultazione pubblica indetta dall’Agenzia delle Entrate, Roma, 31 marzo 2016. (59) Con riferimento alla bozza di Provvedimento, cfr. G. Albano, La bozza di Provvedimento attuativo del regime di “branch exemption” tra conferme e novità, in Corriere Tributario, vol. 39, n. 13/2016, 987; C. Galassi, “Branch exemption”: un istituto ancora da conoscere, in Fiscalità e Commercio Internazionale, vol. 5, n. 10/2015, 19; T. Gasparri, Il nuovo regime di branch exemption per le stabili organizzazioni all’estero, in Il Fisco, vol. 39, n. 25/2015, 2054-2055; M. Bargagli, Il regime (opzionale) di esenzione da tassazione dei redditi prodotti dalla stabile organizzazione, in Bilancio e Reddito d’Impresa, vol. 7, n. 5/2016, 43. (60) Nel caso di consolidato, la “casa madre può scegliere di considerare definitivamente utilizzate le perdite fiscali realizzate dalla stabile organizzazione nei cinque periodi d’imposta antecedenti a quello in cui ha effetto l’opzione, nell’ipotesi in cui (…) siano state trasferite al regime di consolidato”. In alternativa, “le perdite fiscali della stabile organizzazione trasferite al regime di consolidato e non utilizzate vengono sterilizzate in misura corrispondente e quindi non sono riportabili ai sensi dell’art. 84 del TUIR” (par. 5.1).
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quello di efficacia dell’opzione, la stabile organizzazione ha conseguito perdite fiscali imputate all’impresa»), come integrato dal successivo par. 4.2 («[l]e perdite così determinate sono oggetto di recapture solo per l’ammontare dello stesso effettivamente utilizzato»), nonché, come si è detto in nota, dal par. 5.1. Pertanto, il presupposto per l’esercizio del recapture è l’utilizzo delle perdite, direttamente dalla casa madre ovvero all’interno del consolidato fiscale. In caso di mancato utilizzo, le perdite fiscali della stabile organizzazione non potranno essere oggetto di riporto in avanti ai sensi dell’art. 84 TUIR (rispettivamente, parr. 4.2 e 5.1). In sintesi, a) le perdite fiscali conseguite dopo l’esercizio dell’opzione non assumono alcuna rilevanza; b) le perdite fiscali conseguite nel quinquennio precedente sono distinte in ragione dell’utilizzo o meno. In caso affermativo, si avrà recapture; in caso negativo, non potranno essere utilizzate (61). Nel caso in cui sia la casa madre sia la branch abbiano realizzato delle perdite pregresse, quelle della prima si considerano prioritariamente utilizzate (62). Se l’impresa residente dispone di più stabili organizzazioni, il meccanismo del recapture trova applicazione, in maniera aggregata, per singolo Stato o territorio estero. Più precisamente, se dalla somma algebrica dei risultati reddituali ottenuti da tutte le stabili organizzazioni situate in un medesimo Stato o territorio estero si ottiene un importo negativo, i redditi ottenuti dopo l’esercizio della BEX partecipano alla formazione del reddito imponibile dalla casa madre fino a concorrenza delle perdite utilizzate. L’impiego del criterio “per Stato o territorio estero” è dettato, come emerge dal par. 4.5 del Provvedimento, dall’esigenza di tener conto delle eventuali imposte estere riportabili ai sensi dell’art. 165 TUIR.
(61) Cfr. M. Piazza – A. Trainotti, Branch exemption: definite le regole per l’applicazione del regime, in Norme&Tributi Mese, ottobre 2017, 32. (62) Questa soluzione coincide a quella proposta da Confindustria, in ragione della semplificazione dell’applicazione “della recapture e risulterebbe più coerente con il metodo di calcolo del credito d’imposta previsto nel regime del consolidato mondiale all’art. 136, comma 3, TUIR”. Cfr., Confindustria, Esenzione degli utili e delle perdite delle stabili organizzazioni di imprese residenti (branch exemption) – Bozza di provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate. Le osservazioni di Confindustria in risposta alla consultazione pubblica indetta dall’Agenzia delle Entrate, Roma, 31 marzo 2016, 3.
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7.1.1. Particolarità del funzionamento del recapture delle perdite in relazione al consolidato nazionale. – Come si è accennato nel paragrafo precedente, l’avvenuto utilizzo delle perdite pregresse nell’ambito del regime del consolidato fiscale deve essere verificato con riferimento all’intero gruppo. Il mancato utilizzo delle perdite apportate al consolidato dalle branch che vengono assoggettate al regime BEX ne esclude la riportabilità ex art. 84 TUIR. Se a seguito dell’interruzione o del mancato rinnovo del consolidato le perdite realizzate dalla branch nei cinque periodi di imposta antecedenti all’esercizio dell’opzione per la BEX sono nuovamente riattribuite alla casa madre, esse potranno essere da quest’ultima utilizzate se il recapture è già avvenuto (o, se ancora in corso, completato) o, in alternativa, dovranno essere sterilizzate per il loro intero ammontare (63). L’art. 124 TUIR prevede che se il consolidato fiscale si interrompe prima del triennio, le eventuali perdite residue potranno essere attribuite o alla consolidante o, in alternativa, alla consolidata che le ha generate: tale scelta deve essere comunicata all’Agenzia delle Entrate all’atto dell’esercizio dell’opzione per il consolidato e in sede di rinnovo (confermando o modificando la scelta precedente). In proposito, il par. 5.2 del Provvedimento consente l’utilizzo di tale perdite, alternativamente, alla casa madre o alla consolidante. Peraltro, si deve sottolineare, per coerenza sistematica, che il recapture deve essere debitamente rettificato laddove a seguito di una verifica fiscale sia rettificata l’entità della perdita o del reddito imponibile trasferiti al consolidato fiscale, consentendo una corrispondente variazione (in aumento o in diminuzione) del reddito della branch esente (par. 4.10). 7.1.2. Recapture e trasferimento della branch a un soggetto appartenente al medesimo gruppo. – Il meccanismo di recapture delle perdite è esteso anche al caso in cui la stabile organizzazione, o parte di essa (64) venga trasferita, a qualsiasi titolo, a un’altra impresa del gruppo che fruisce del regime di branch exemption (art. 168-ter, comma 8, TUIR). Nell’atto di trasferimento l’impresa cedente (dante causa) avrà l’onere di indicare se, nei cinque periodi di imposta precedenti, ha importato dalla branch trasferita una perdita fiscale netta che
(63) Cfr. G. Formica - P. Formica, Proposte di attuazione del regime di branch exemption, in Il Fisco, vol. 40, n. 13/2016, 1270. (64) Il Provvedimento non definisce tale espressione, né nel par. 1 dedicato alle Definizioni, né ai parr. 4.6. ss. relativo alle ipotesi di trasferimento. Un’interpretazione ragionevole dovrebbe attribuire a tale espressione il significato di complesso di beni autonomi, riferibile alla stabile organizzazione, costituente un ramo d’azienda.
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con il trasferimento verrà trasferita all’impresa acquirente. In mancanza di tale indicazione, il par. 4.9 introduce la presunzione relativa che il recapture trasferito all’avente causa sia pari al recapture complessivo del dante causa. Questa previsione ha una finalità chiaramente antielusiva, in quanto mira a evitare l’aggiramento degli obblighi di recapture delle branch esenti che hanno prodotto le perdite nette interessate (65). Se il trasferimento avviene, a qualsiasi titolo, a favore di un soggetto del gruppo residente nel territorio dello Stato, l’onere di recapture spetta all’avente causa a condizione che abbia optato per il regime di branch exemption, anche successivamente al trasferimento. Nel caso in cui il trasferimento non avvenga in neutralità d’imposta, “l’eventuale plusvalenza o minusvalenza conseguita (…) concorre alla formazione del recapture che prosegue nei confronti dell’avente causa” (par. 4.6). Diversamente, in caso di “cessione” di una stabile organizzazione a un soggetto del gruppo non residente, l’onere di recapture è assegnato al dante causa. Allorché da tale operazione emergano plusvalenze, il recapture deve essere scomputato dai predetti componenti positivi di reddito. 7.1.3. Recapture e trasferimento della branch a un soggetto terzo. – Il Provvedimento disciplina separatamente il caso di trasferimento della stabile organizzazione a un soggetto non appartenente al gruppo. L’Agenzia delle Entrate, anche in questo caso, ha previsto due ipotesi differenti. Se il trasferimento avviene in regime di neutralità fiscale a favore di un’impresa, fiscalmente residente in Italia, che ha optato per il regime della BEX, l’onere di effettuare il recapture delle perdite sarà in capo all’avente causa (par. 4.8). In caso contrario, l’onere di riassorbimento dell’eventuale recapture residua permane in capo al dante causa sino a concorrenza della plusvalenza conseguita (par. 4.7). Come per l’ipotesi di cui al par. 4.5, il dante causa, qualora ne sussistano le
(65) Nella Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 147/2015, il Governo chiariva, infatti, che si tratta di una «disposizione antielusiva “di sistema”, volta ad evitare che venga aggirato il “recapture” delle perdite di cui al comma 7, non solo in vigenza del periodo transitorio. Al riguardo, viene prevista l’applicazione di detto comma 7 anche quanto venga trasferita a qualsiasi titolo la stabile organizzazione o parte della stessa ad altra impresa del gruppo che fruisca dell’opzione di cui al comma 1. In tal caso, l’impresa cedente deve indicare nell’atto di trasferimento se, nei cinque periodi d’imposta precedenti, ha importato dalla stabile organizzazione trasferita o da una parte della stessa una perdita fiscale netta, che in seguito al trasferimento passerà all’impresa acquirente per assumere rilevanza ai fini dell’eventuale opzione per la branch exemption da parte di quest’ultima».
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condizioni, potrà chiedere il riconoscimento del credito di imposta ex art. 179, commi 3 e 5, TUIR. 7.2. Valorizzazione delle attività e passività trasferite prima dell’esercizio dell’opzione. – L’art. 168-ter, comma 6, TUIR, afferma che «l’esercizio dell’opzione non determina in sé alcun realizzo di plusvalenze e minusvalenze». Ciò ammetteva, in assenza del Provvedimento attuativo, di giungere alla conclusione che la fuoriuscita dal sistema del reddito d’impresa dei beni attribuibili alla stabile organizzazione, per effetto dell’esercizio dell’opzione, non producesse l’emersione di alcun componente positivo o negativo di reddito. In termini sistematici, questa conclusione trova la propria giustificazione in un intento agevolativo da parte del legislatore, poiché il predetto trattamento esplicitamente derogava la disciplina ordinaria prevista dagli artt. 85, comma 2, 86, comma 1, lett. c) e 166 TUIR. Il Provvedimento ha colmato questa “lacuna” della previsione legislativa e ricondotto l’esercizio dell’opzione agli ordinari effetti di rilevanza fiscale dell’abbandono del sistema del reddito d’impresa (rappresentato, in questo caso, dalla perdita della potestà impositiva sulla stabile organizzazione estera). In questo senso, i parr. 6.1 e 6.2 trattano il trasferimento di attività e passività, nonché dei beni di cui all’art. 85 TUIR, avvenuti nei cinque periodi d’imposta precedenti a quello di efficacia dell’opzione al pari del trasferimento all’estero di un’impresa dotata di una stabile organizzazione fuori dai confini statali (art. 166, comma 1, TUIR). Più precisamente, sia la casa madre sia la stabile organizzazione dovranno valorizzare le attività, passività e i beni di cui all’art. 85 TUIR all’arm’s lenght, “tenendo conto delle funzioni svolte e dei rischi assunti dalla casa madre [e dalla branch] al momento del trasferimento”. Naturalmente, la determinazione di tali valori avrà conseguenze fiscali, imponendo l’apposizione di variazioni in aumento o in diminuzione nella dichiarazione dei redditi, sia ai fini della determinazione del reddito dell’impresa nel complesso, che nella determinazione del reddito della stabile organizzazione estera. Lo Schema di Decreto Legislativo di attuazione della Direttiva (UE) 2016/1164 del Consiglio del 12 luglio 2016 (c.d. Direttiva ATAD) prevede all’articolo 2 una integrale riformulazione dell’articolo 166 del TUIR, in virtù della quale la disciplina sulla c.d. Exit Tax (“Imposizione in uscita”) trova applicazione anche all’ipotesi di trasferimento di attivi ad una stabile organizzazione dello stesso contribuente “alla quale si applica l’esenzione degli utili e delle perdite di cui all’articolo 168-ter”, così come lo schema del nuovo articolo 166-bis sui “Valori fiscali in ingresso” prevede l’applicazione
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della relativa disciplina, con l’assunzione del valore fiscalmente riconosciuto in misura corrispondente al valore di mercato, del trasferimento di attivi alla sede centrale da una stabile organizzazione estera soggetta al regime di cui all’articolo 168-ter. 8. Gruppi di imprese. Scelte diverse all’interno del gruppo di imprese. – Come abbiamo più volte ripetuto, l’opzione per la branch exemption deve riguardare tutte le stabili organizzazioni estere di un’impresa residente. Tuttavia, il c.d. principio “all in – all out” si riferisce all’impresa intesa come singola entità giuridica: quindi, è ben possibile che all’interno dello stesso gruppo una società opti per il regime della BEX e un’altra decida invece di mantenere il regime del credito di imposta. In questo senso, anche se una società del gruppo ha optato per il regime della branch exemption, anche in regime di consolidato fiscale, è possibile per un’altra società del gruppo aprire delle stabili organizzazioni senza essere obbligata ad aderire al regime opzionale. Non è chiaro, però, se dallo sfruttamento di tale possibilità possano configurarsi dei casi di elusione o abuso di diritto. Ad esempio, può esserci il caso di un gruppo di imprese che decide di aprire una nuova branch e, temendo di subire ingenti perdite in fase di start-up, decide di farlo mediante un’impresa che è ancora in regime di credito di imposta. Tuttavia, in un’ipotesi del genere, il risparmio di imposta che ne deriverebbe non sembra essere indebitamente ottenuto: il legislatore, infatti, ha volutamente circoscritto il carattere dell’onnicomprensività all’impresa quale singola entità giuridica. Piuttosto, tale strategia appartiene alla libertà economica dell’imprenditore che, come solennemente afferma il comma 4 dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, conserva la libertà di scelta “tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”. 9. Operazioni straordinarie. – Il Provvedimento si limita a disciplinare gli effetti fiscali delle operazioni straordinarie nazionali attraverso il rinvio al Titolo III, Capo III del TUIR. In applicazione del principio “all in – all out” e dell’irrevocabilità dell’opzione, nel caso in cui i soggetti dell’operazione siano entrambi in regime di esenzione, “l’avente causa subentra nel regime di branch exemption ed assume le attività e le passività della stabile organizzazione esente, sulla base di funzioni e rischi a essa connessi, all’ultimo valore fiscale” che avevano presso il dante causa (par. 10.1). La medesima disciplina si applica anche se l’avente causa non ha esercitato l’opzione, nel caso in cui tale esercizio sia effettuato
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“nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta di efficacia giuridica dell’operazione straordinaria” (par. 10.1). In quest’ultimo caso, emerge la questione del trattamento delle attività e delle passività nel caso di mancato esercizio dell’opzione BEX, poiché il Provvedimento nulla dispone in merito. Poiché il regime ordinario delle operazioni straordinarie è quello della neutralità fiscale, la conclusione più convincente è che debba applicarsi anche a tale situazione (66). Nell’analisi casistica condotta residua la sola ipotesi di operazione fra un avente causa che non abbia esercitato l’opzione e un dante causa con stabili organizzazioni BEX. Applicando le regole dettate dall’art. 168-ter TUIR e quelle contenute nel Provvedimento, si dovrebbe giungere alla conclusione che l’avente causa dovrà includere la stabile organizzazione all’interno del regime BEX. Come già osservato, il valore di carico delle attività e delle passività dovrebbe essere quello previsto dal TUIR per le singole operazioni (67). Da ultimo, il Provvedimento disciplina il caso di cessione di una stabile organizzazione in regime di esenzione o, all’opposto, in regime ordinario, rispettivamente a un avente causa che non abbia optato per l’esenzione o a un avente causa in regime di esenzione. In entrambe le situazioni, il corrispettivo della cessione deve essere determinato all’arm’s lenght. 10. Riflessioni conclusive. – L’introduzione della BEX in un sistema come quello italiano caratterizzato dalla tassazione worldwide con credito di imposta è da valutare positivamente perché consente alle imprese di scegliere tra due regimi entrambi idonei a eliminare, o almeno a ridurre, la doppia tassazione internazionale, ma con effetti economici diversi per le imprese che operano sui mercati internazionali (68).
(66) Cfr. R. Michelutti, Branch exemption, neutralità nelle operazioni straordinarie, in il Sole 24 Ore, 5 settembre 2017. (67) Così, M. Piazza e A. Trainotti, Branch exemption: definite le regole per l’applicazione del regime, in Norme&Tributi, Mese ottobre 2017, 30. (68) Peraltro, il metodo dell’esenzione applicato alle stabili organizzazioni estere non rappresenta una novità assoluta per l’ordinamento tributario italiano, essendo già previsto per la determinazione della base imponibile ILOR fino all’abolizione di questa imposta nel 1997. In vigenza dell’ILOR era prescritta la tenuta di contabilità separata per le stabili organizzazione all’estero come requisito per calcolare correttamente la base imponibile esente da ILOR. Le regole previste dall’attuale legislazione sono, naturalmente, più raffinate di quelle applicabili alla contabilità delle stabili organizzazioni all’estero ai fini dell’esenzione ILOR, perché riflettono l’evoluzione del sistema tributario italiano e la mutata prassi internazionale.
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Il credit method favorisce la c.d. capital export neutrality, regime in cui l’investitore subisce un identico prelievo fiscale complessivo (imposte domestiche più imposte estere) indipendentemente dalla localizzazione delle fonti di reddito. L’esenzione, sistema adottato da Paesi con una robusta tradizione di investimenti produttivi all’estero (i.e. Germania, Olanda e Francia) ha, al contrario, come conseguenza la c.d. capital import neutrality, con la conseguenza che l’imprenditore che investe all’estero è in condizioni di parità fiscale con le imprese dei Paesi dove gli investimenti sono eseguiti. Uno degli effetti positivi dell’esenzione è una maggiore neutralità del fisco, e, correlativamente, maggiore libertà dell’impresa, di decidere esclusivamente in base alla convenienza economica se operare sui mercati esteri tramite subsidiary o mediante branch. L’esenzione elimina la precedente asimmetria di trattamento fiscale tra esenzione (parziale) dei redditi prodotti da controllate estere ed imponibilità di quelli realizzati per il tramite di stabili organizzazioni estere. In verità, la scelta di utilizzare subsidiary invece di branch può rivelarsi, nel regime di esenzione, meno favorevole perché i dividendi provenienti da società estere (non CFC) sono soggetti a una quasi integrale esenzione quando vengono rimpatriati in Italia (essendo imponibili solo per il 5%) e possono subire una tassazione complessiva ben più pesante se il Paese dove sono localizzate prevede ritenute alla fonte sui dividendi in uscita (tassazione che, per il meccanismo di tassazione ridotta dei dividendi in Italia, è recuperabile solo fino a concorrenza dell’imposta italiana corrispondente).
Pietro Piccone Ferrarotti