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ISSN 2532-7607
RESPONSABILITÀ MEDICA
Diritto e pratica clinica IN QUESTO NUMERO Il fattore “potenziamento”: salute, medicina e deontologia al vaglio delle nuove tecnologie, di Francesco Donato Busnelli Emoderivati infetti, di Arianna Fusaro Un buon diritto alla fine della vita. Ci vorrebbe un legislatore?, di Cristina Pardini Le disposizioni anticipate di trattamento, di Paolo Malacarne La “vicenda Stamina”, di Simona Viciani Questioni aperte in tema di cartella clinica, di Stefano Corso
Luglio-Settembre 2017 Rivista trimestrale diretta da Roberto Pucella
Pacini
INDICE Saggi e pareri Francesco Donato Busnelli, Il fattore “potenziamento”: salute, medicina e deontologia al vaglio delle nuove tecnologie .................................................................................................... » Arianna Fusaro, Emoderivati infetti: le responsabilità in fase di produzione........................... » Marco Azzalini, Autodeterminazione dell’incapace ed effettività della tutela: gli obblighi della P.A............................................................................................................................... » Simona Viciani, La vicenda Stamina tra la libertà di cura e il dovere di curare ..................... » Silvia Pari, L’azione di rivalsa e l’azione di responsabilità amministrativa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria: le novità introdotte dalla l. n. 24/2017.......................... » Maria Livia Rizzo, La gestione dell’obbligo informativo nelle indagini prenatali .................... »
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Giurisprudenza Cass. pen., IV sez., 20 aprile 2017, n. 28187, con nota di commento di Gian Marco Caletti Matteo Leonida Mattheudakis, Le prime “linee guida” interpretative della Cassazione penale sulla riforma “Gelli-Bianco”...................................................................................................... » Stefano Corso, Salute e riserbo del paziente: questioni aperte in tema di cartella clinica...... »
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Dialogo medici-giuristi Cristina Pardini, Un buon diritto alla fine della vita. Ci vorrebbe un legislatore?.................... » Paolo Malacarne, Le disposizioni anticipate di trattamento..................................................... »
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Osservatorio normativo e internazionale Stefano Canestrari, Criminal liability in a medical context: the Italian law’s approach......... »
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i g Saggi e pareri Saggi e pareri ag i s rer Il fattore “potenziamento”: e pa salute, medicina e deontologia al vaglio delle nuove tecnologie* Francesco Donato Busnelli
Professore Emerito nella Scuola Superiore Sant’Anna Sommario: 1. Il “potenziamento umano”: obiettivo o desiderio? – 2. Un nuovo concetto di salute? – 3. Una “nuova medicina”? – 4. Una deontologia “anticipatrice”? – 5. Interrogativi senza risposta (o quasi) attorno a un problema controverso di interpretazione di una norma deontologica “ambigua”.
Abstract: L’impatto delle c.d. “enhancement technologies”, già ampiamente noto al livello divulgativo, è giunto a lambire il sistema giuridico della medicina italiana. Ha fatto il suo ingresso non già mediante un intervento legislativo (non ne parla, ad esempio, la recentissima “legge Gelli” sulla “sicurezza delle cure”), ma attraverso la “porta di servizio” del codice di deontologia medica che nella sua ultima edizione (2014) ha dedicato una norma nuovissima – l’art. 76 – alla cd. “medicina potenziativa”. La norma appare al tempo stesso sconvolgente e ambigua. Impegna il giurista a confrontarsi con i principi costituzionali per valutare l’ammissibilità di un nuovo, e come tale sconvolgente, concetto di salute sganciato dal concetto di “cura” e ispirato a un principio di felicità individuale non contemplato dalla nostra Costituzione. Interroga il ceto dei medici, prima ancora di quello dei legali, per stabilire se, ed eventualmente entro quali limiti, la professione medica possa spingersi oltre i confini dell’alleanza terapeutica con il “paziente” per aprirsi alla cultura del desiderio di un singolo “individuo”. Demanda agli interpreti della norma deontologica il compito di dipanare il groviglio delle ambiguità che ne affliggono il testo, il quale tradisce vistosamente i difetti di una gestazione faticosa della formulazione definitiva del relativo dettato. Lo scritto si
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diffonde su impegni, interrogativi, compiti interpretativi senza giungere a un giudizio conclusivo sulla norma nuovissima: la quale, in ultima analisi, non detta una soluzione del problema, ma semplicemente lo pone. This article addresses the claim that enhancement via biotechnology is inherently problematic for reasons pertaining to our identity. The last version of the Italian Code of Medical Ethics (2014) has included a new norm – Art. 76 – dedicated to the human enhancement. Art. 76 Code of Medical Ethics introduces a new meaning of “health”, which is independent from the concept of “care” and it is inspired by an “happiness” principle not covered by the Italian Constitution. The norm would intend to reflect about the relation between this new field of medical practice and professional ethics. On the one hand, the inclusion of the norm in the Code allows medical treatments beyond the usual therapeutic goals, as long as some ethical and clinical criteria are met. However, the problematic application of these criteria to the enhancement treatments raises some issues, that have already emerged in theoretical debate on human enhancement, which requires an adequate reflection.
Il saggio è destinato al Liber Amicorum Pietro Rescigno.
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1. Il “potenziamento umano”: obiettivo o desiderio? Il “Nuovo Zingarelli”, ancora nella sua undicesima edizione (1983), alludeva semplificativamente al “potenziamento delle industrie meccaniche, chimiche” e, come voce farmaceutica, definiva il potenziamento come “fenomeno di interazione tra due farmaci che consiste principalmente in un reciproco aumento di attività … con il conseguente vantaggio della diminuzione di eventuali effetti secondari”. Siamo dunque in presenza di un concetto nuovo. La sua novità si lega a vicende storiche che hanno posto in discussione i capisaldi fondamentali della nostra cultura giuridica e, più in generale, i valori tradizionali della nostra società civile; vicende contrassegnate con sintesi espressive in lingua inglese di cui il “potenziamento umano” vuol essere la traduzione: tra enhancement (accrescimento) e empowerment (attribuzione di poteri) la scelta del traduttore è caduta sul secondo termine, più specificamente caratterizzato dal “riferimento agli interventi tecnologici”1. Empowerment. Le nuove tecnologie “hanno posto rimedio a innumerevoli mali che affliggevano e limitavano l’essere umano”, ma “ci offrono un tremendo potere. Mai – sottolinea Papa Francesco – l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa”2. La tecnica – osserva il filosofo del nichilismo – favorisce “un incremento indefinito della capacità di realizzare scopi, che è incremento indefinito della capacità di soddisfare bisogni”3. “Il ‘possibile’ della tecnica – conclude il giurista della positività normativa (divenuta “positività tecnica”) – “domina la natura e lo stesso nascere e morire dell’uomo; si sottrae all’alternativa di lecito o illecito giu-
Palazzani, Il potenziamento umano. Tecnoscienza, etica e diritto, Torino, 2015, 10 s. 1
Francesco, Laudato sí. Lettera enciclica sulla cura della casa comune, Milano, 2015, 88 s. 2
Severino, Il destino della tecnica, Milano, 1998; Irti - Severino, Le domande del giurista e le risposte del filosofo, in Contr. e impr., 2001, 674. 3
Saggi e pareri
ridico, ergendosi a esclusivo giudice della propria applicazione”4. Enhancement. Al tempo stesso il mito nordamericano di una sconfinata fiducia nelle cosiddette “enhancement technologies” affascina filosofi, medici e scienziati, e si proietta sempre più verso scenari dominati dalla corsa verso il superamento dei confini di quella che un tempo veniva definita la dimensione naturale della vita e della salute umana. La vicenda è ben descritta fin dal titolo del libro di un autorevole bioeticista: “American Medicine Meets the American Dream”. “Le tecnologie dell’enhancement – sostiene Carl Elliott – sono interessanti non principalmente perché aumentano le prestazioni delle persone, ma perché toccano qualcosa che è centrale per le loro identità”. Si diffonde così un’atmosfera di “anxious enthusiasm” e al tempo stesso l’“impatience with moral authority”: l’individuo, artefice della propria identità, cessa di essere un paziente (se mai lo è stato); diviene un consumatore, e cresce la tensione tra “consumer desire and consumer disquiet”5. Questa corsa all’individualismo ansioso e impaziente non è limitata alla cultura nordamericana, anche se ha lì la sua culla. Se ne hanno significativi riscontri – talvolta provocatori, talaltra più cauti, talaltra ancora invece dirompenti – anche in Europa. Un filosofo inglese che si definisce “liberale eugenetico” giunge spavaldamente a parafrasare Marx affermando che “lo scopo della genetica non è capire l’umanità ma cambiarla: enhancements are a moral obligation”6; l’obiettivo morale professato da John Harris ne svela la matrice utilitaristica: la “Enhancing evolution” come “the ethical case for making better people”7. Più caute sono le conclusioni di un biologo francese, secondo il quale “l’intrusione della tecnologia nella riproduzione umana, … lungi dal portare
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Irti, Gli eredi della positività, in Nuovo dir. civ., 2016, 14.
Elliott, Better Than Well: American Medicine Meets the American Dream, New York, 2003. 5
Harris, On Cloning, London, 2004, 118; Harris, Enhancements are a Moral Obligation (2005) Welcome Science Issue. 6
Harris, Enhancing Evolution. The Ethical Case for making Better People, London, 2007. 7
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necessariamente a una regressione ‘antinaturale’, è forse portatrice di un’umanizzazione ancora più avanzata”8; ma nelle ultime pagine del suo libro, dedicato a “L’utero artificiale” e inneggiante alla “utopia fraterna”, Henry Atlan non manca di avvertire un “grave pericolo”: quello “dell’edonismo individualista senza freni, reso possibile dalla combinazione esplosiva dei risultati della tecnologia e di un liberalismo economico competitivo selvaggio”9. Dirompente è la tesi sostenuta da un filosofo svedese che scrive “In defense of Posthuman Dignity”: è la dignità – questa è la sfida di Nick Bostrom – di esseri umani più intelligenti, più resistenti alle malattie, meno vulnerabili; in sintesi, “a quality, a kind of excellence admitting of degrees and applicable to entities within and without the human realm”10. In conclusione, forse è proprio vero che il “potenziamento umano”, sintesi espressiva delle vicende storiche appena descritte, si presta ad essere qualificato come una moderna rivoluzione: la “rivoluzione biotecnologica” di cui Francis Fukuyama ipotizza le inquietanti conseguenze nel delineare pensosamente “Our Posthuman Future”11. A chi, come me, proviene dalla cultura classica, verrebbe fatto di pensare allo stato d’animo di Prometeo prima che venisse punito dagli dei. Ma il compito del giurista è più limitato, anche se non meno problematico. È quello di assumere il potenziamento umano, considerato come fenomeno concreto più che come concetto astratto, a guisa di fattore destinato, hic et nunc, a confrontarsi, nell’ordine, con le nozioni giuridiche di salute, di medicina e di deontologia. Punto di partenza del confronto è una norma nuovissima, introdotta nel 2014 dall’ultima edizione del Codice di deontologia medica: è l’art. 76, che tratta al primo comma di “medicina potenziativa”, enunciando una finalità di “potenziamento delle
fisiologiche capacità psico-fisiche dell’individuo”, per poi dedicare i due commi successivi alla “medicina estetica”, intesa come “esercizio di attività diagnostico-terapeutiche con finalità estetiche”.
2. Un nuovo concetto di salute? Intorno alla metà del secolo scorso si è svolta, nel breve volgere di anni, una vera e propria “metamorfosi del concetto di salute”12 nell’ambito del nostro sistema normativo. Il codice civile del 1942 introduce per la prima volta, tra le norme del Titolo I del Libro primo, una norma – l’art. 5 – che, pur non cimentandosi in una definizione del concetto di salute, ne delinea chiaramente la rilevanza giuridica muovendo dall’idea che “la integrità fisica è condizione essenziale perché l’uomo possa adempiere i suoi doveri verso la società e verso la famiglia”13. La nuova norma appare “la risultante del contemperamento di due diverse esigenze: ad una esigenza originaria... di garanzia di una certa sfera di disponibilità del corpo, considerato come oggetto di un diritto soggettivo assoluto da tutelarsi anche (e segnatamente) nel suo aspetto patrimoniale, secondo una prospettiva di ispirazione liberale-individualista, era venuta a sovrapporsi un’esigenza di segno opposto, di delimitazione dell’ambito della disponibilità in funzione … del perseguimento di determinate finalità di carattere pubblico, in conformità con le dominanti concezioni fasciste”14. In conclusione, la salute viene “tutelata direttamente soltanto in quegli aspetti il cui pregiudizio concretasse una diminuzione permanente della integrità fisica”15. L’idea di un potenziamento umano non viene neppure immaginato, anche se forse non sarebbe apparso del tutto alieno al desiderio di privilegiare una tutela del singolo “come sol-
Tallacchini-Terragni, Le biotecnologie. Aspetti etici, sociali e ambientali, Milano, 2004, 10. 12
8
Atlan, L’utero artificiale, Milano, 2006, 105.
9
Atlan, op. cit., 109.
Bostrom, In Defense of Posthuman Dignity (2005) Bioethics 202 ss. 10
Fukuyama, L’uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, Milano, 2002. 11
13
Rel. Guardasigilli al Progetto definitivo, n. 26.
Cherubini, Tutela della salute e c.d. atti di disposizione del corpo, in Busnelli, Breccia (a cura di), Tutela della salute e diritto privato, Milano, 1978, 76 s. 14
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Cherubini, op. cit., 77.
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dato e produttore”16 nel quadro di un’esaltazione dell’integrità della stirpe in funzione della potenza dello Stato. Il 1° gennaio 1948 entra in vigore la Costituzione che, innovando radicalmente, si impegna in una ricostruzione della tutela della salute imperniata – art. 32 – sui principi del personalismo (“rispetto della persona umana”) e del solidarismo (salute come “interesse della collettività” oltre che “fondamentale diritto dell’individuo”) e presidiata dalla solenne affermazione dell’inviolabilità della libertà personale (art. 13, comma 1). L’idea di un potenziamento umano sembra lontana da questa ricostruzione e, almeno a una prima lettura, difficilmente compatibile con i principi di riferimento; e assente pare l’idea di una pan-privatizzazione del concetto di salute. Lo conferma il legislatore che, istituendo il “Servizio sanitario nazionale”17, avverte l’esigenza di stabilire, in via di premessa, che “mediante” tale servizio (certamente alieno da un’idea di salute “potenziata”) “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (art. 1, comma 1). Il 1948 è anche l’anno dell’entrata in vigore della “Costituzione dell’Organizzazione mondiale della Sanità”, che nella “dichiarazione” introduttiva esordisce con un “principio” dal doppio significato: in negativo, teso ad affermare che la sanità “non consiste solo in un’assenza di malattia o d’infermità”; in positivo, vòlto a definire “la sanità [come] uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” e a precisare che “il possesso del migliore stato di sanità possibile costituisce un diritto fondamentale di ogni essere umano, senza distinzione di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizione economica e sociale”. La prospettiva della salute si estende, qui, a quella del “benessere”, e di un benessere (anche) “sociale”; ma il tratto unificante è la “sanità”, di cui – questo è il “principio” di chiusura della “dichiarazio-
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ne” – “i governi sono responsabili [nei confronti] dei loro popoli … prendendo le misure sanitarie e sociali adeguate”. Il passaggio appena segnalato dalla salute al benessere, e il richiamo iniziale al super-principio della “felicità”, potrebbero indurre, ad una prima lettura, ad un’antiveggente prospettiva di favore per il potenziamento umano; ma il coordinamento con gli altri “principi” introduttivi e, soprattutto, la statuizione – all’art. 1 – del “fine dell’Organizzazione … di portare tutti i popoli al più alto grado possibile di sanità” non consente di attribuire al documento l’intento di introdurre una simile finalità anticipatrice. Ma il vento dell’individualismo non ha tardato a soffiare impetuoso; non è più l’individualismo liberale che nel secolo scorso aveva ispirato una delle due “anime” dell’art. 5 del codice civile, ma un individualismo libertario impegnato nell’escogitare una traduzione del concetto di “autonomy” che apre i Four principles della bioetica nordamericana. L’impegno ha avuto successo grazie alla singolare vicenda interpretativa che ha interessato la scarna motivazione di una sentenza della Corte costituzionale diretta ad affermare (rectius, a ribadire) che, ai sensi dell’art. 32 Cost., il consenso informato si configura “quale vero e proprio diritto della persona” e a precisare che esso svolge “una funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute”18. La precisazione, del tutto scontata nel contesto della decisione, ha il suo spunto di interesse nella introduzione di un vocabolo ignoto al lessico della Costituzione e fino a quel momento sconosciuto al sistema normativo: l’autodeterminazione, appunto, disinvoltamente assunta come traduzione ideale del concetto americano di autonomy e ben presto utilizzata per trapiantare nel nostro ordinamento la norma europea – l’art. 7 della carta di Nizza – che impone il “rispetto della vita privata e familiare” del singolo individuo. È quanto è avvenuto con la sentenza con cui la Corte costituzionale ha sancito l’illegittimità co-
Manassero, Limitazione degli atti di disposizione del proprio corpo secondo l’art. 5 del nuovo codice civile, in Ann. dir. proc. pen., 1939, 495. 16
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L. 23.12.1978, n. 833.
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Corte cost., 23.12.2008, n. 438.
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stituzionale del divieto normativo avente a oggetto la procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo affermando che il disconoscimento del “principio di autodeterminazione” – assunto, ormai, come dato costituzionale – può “incidere negativamente, anche in maniera rilevante, sulla “salute della coppia”19. La svolta è compiuta. È l’avvento di una nuova “salute”: non si può – commenta la dottrina che plaude alla sentenza – “sacrificare la libertà delle persone che vorrebbero far ricorso alle tecniche eterologhe … in omaggio alla c.d. naturalità della procreazione”20. Non soltanto, dunque, viene riconosciuto al paziente il diritto di autodeterminarsi in senso negativo all’interno del rapporto terapeutico, garantendogli “la libertà di rifiutare le cure” sulla base di “valutazioni squisitamente soggettive”21; ma – ecco la nuova prospettiva – viene attribuito all’individuo un potere di autodeterminarsi in senso positivo andando anche oltre la terapia. L’idea di una salute potenziata non è più soltanto un “sogno biotecnologico”22 ma diviene, grazie al continuo progresso delle nuove tecnologie, un desiderio, che una nuova dottrina, supportata da una giurisprudenza innovativa, traduce in un diritto soggettivo, costituzionalmente tutelato mediante un’interpretazione estensiva dell’art. 32, comma 2, Cost. A fronte di questa ormai acquisita pervasività del concetto di autodeterminazione (non più soltanto terapeutica) in ordine alla salute, e in ottemperanza al “rispetto” che essa impone, il compito che incombe al giurista positivo diventa quello di inserire il nuovo indirizzo interpretativo nel contesto di una rilettura costituzionalmente orientata della tutela della salute, individuando i confini
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dei nuovi territori di espansione della incombente “cultura dei desideri”. La norma deontologica che abbiamo assunto come “punto di partenza” affianca curiosamente al principio del “rispetto dell’autodeterminazione della persona” i (contro)principi – o meglio, limiti – di “precauzione” e di “proporzionalità” (art. 76, comma 1). L’approccio precauzionale, introdotto per la prima volta nel Codice di deontologia medica, ma da anni assurto al livello di principio internazionale (è del 1992 la Dichiarazione di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo) con particolare riferimento alla tematica della valutazione e prevenzione dei danni ambientali, sconta ormai gli effetti della “incertezza normativa che lo circonda” oltre che delle “ambiguità interne di cui è portatore”23, e soffre di conseguenza delle contrastanti diversità di interpretazione a cui è stato sottoposto. Limitata è quindi la sua utilità con riferimento alle nuove “scommesse biotecnologiche”, in ordine alle quali si registra piuttosto “un passaggio dalla pre-caution alla caution, dalla fondazione teorica del principio della ‘precauzione’ alla pratica della virtù della ‘cautela’”24: una pratica che, specie se adeguatamente regolamentata, può servire a monitorare il quomodo dell’esercizio delle tecniche di potenziamento, elaborando – con particolare riguardo al campo della ricerca – idonei criteri di sperimentazione, ma non consente di assumere direttive coerenti e costituzionalmente orientate in ordine all’an del ricorso a tali tecniche. Ad analoghe conclusioni sembra doversi giungere per il principio di proporzionalità che, opportunamente introdotto in termini generali dal codice di deontologia medica per sanzionare “interventi terapeutici eticamente non proporzionati” (art. 16), viene opinabilmente esteso dall’art. 76 alla disciplina delle tecniche di potenziamento, in ordine alle quali latita “la giustificazione della proporzionalità dei rischi” in presenza di interventi
Corte cost., 10.06.2014, n. 162.
Ferrando, Autonomia delle persone e intervento pubblico nella riproduzione assistita. Illegittimo il divieto di fecondazione eterologa, in Nuova giur. civ., 2014, II, 404. 20
21
Cass., 16.10.2007, n. 21748.
Sfez, La salute perfetta. Critica di una nuova utopia, Milano, 1998; Sfez, Il sogno biotecnologico, Milano, 2002. 22
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Tallacchini - Terragni, op. cit., 61.
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Palazzani, op. cit., 59.
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su “soggetti sani, in condizioni di incertezza conoscitiva”25. Al giurista positivo che si ponga alla ricerca di direttive “in grado di bilanciare l’interesse dell’avanzamento scientifico e la difesa dell’uomo”26 corre l’obbligo di prendere le mosse dal “principio” enunciato dall’art. 1, comma 2 della legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale: “La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana”. La valenza bioetica di questo principio consente di evidenziare la profonda differenza rispetto ai Four principles della bioetica nordamericana, dove al primato della autonomy corrisponde l’esclusione della dignity. Qui, il rispetto della dignità della persona precede e informa di sé la sua libertà. Sembra di leggere la definizione del Littré: “un respect qu’on se doit à soi même”27. Ed è una dignità ben distinta dalla “dignity” del linguaggio bioetico nordamericano, ove il termine assume una connotazione squisitamente individuale, il cui contenuto sostanziale è definito dai soli soggetti “competents” nell’ambito della propria autonomy. È la dignità riferibile a qualsiasi essere umano, senziente o non senziente, capace o incapace di intendere e di volere, già nato o nascituro. Al mito della potenza contrappone il valore della fragilità, e l’esigenza di una sua difesa. La Corte costituzionale, con una sentenza risalente alla fine del secolo scorso, di grande equilibrio, ha avuto modo di chiarire come, se è vero che “il valore costituzionale della inviolabilità della persona costruito, nel precetto di cui all’art. 13, comma 1, Cost., come ‘libertà’ postula un potere della persona di disporre del proprio corpo”, è anche vero che la relativa “sfera di applicazione” deve svolgersi “beninteso sempre nel rispetto di modalità compatibili con la dignità della figura
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umana, come richiamato in costituzione all’art. 32, comma 2”28. Il chiarimento sembra tuttora valido e serve a tracciare, con sufficiente nitore, le nuove “colonne d’Ercole” che i principi costituzionali additano a chi, muovendo dalla banale considerazione che “i nostri corpi ci appartengono”, intenda avventurarsi, oltre la rocca di Gibilterra del rapporto terapeutico, nell’oceano di un desiderato potenziamento della propria salute. Eppure, con l’avvento del nuovo secolo, la Corte di Cassazione tende a svincolare l’autodeterminazione da un simile condizionamento, accantonando “ogni considerazione in ordine a una concezione della dignità umana dichiaratamente ostile al soggettivismo della modernità dei diritti”29 e ingenerando così il rischio di “una surrettizia trasposizione del modello proprietario”30, che trova clamorosi riscontri operativi nella realtà sociale al di là dell’oceano, “in una società in cui tutto è in vendita”31. Ma è proprio vero che “i nostri corpi ci appartengono?”32. “A noi stessi – conclude Guido Calabresi, che ammette “di essere ancora un liberale individualista e kantiano” –, a chi verrà reso capro espiatorio nella società e a coloro che hanno bisogno di nuove parti del corpo dobbiamo una riflessione più profonda su quello che, a prima vista, potrebbe sembrare un quesito bizzarro”33. È, questa, una riflessione che induce il grande giurista italo-americano a confrontarsi con “quella che in Italia viene definita ‘solidarietà’: solidarietà con gli altri, valori di comunità”34, e che dovrebbe
28
Corte cost., 22.10.1990, n. 471.
29
Cass., 2.10.2012, n. 16754.
Nicolussi, Testamento biologico e problemi del fine-vita: verso un bilanciamento di valori o un nuovo dogma della volontà, in Eur. e dir. priv., 2013, 46. 30
Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Milano, 2012, 11. 31
Calabresi, I nostri corpi ci appartengono?, in Sesta (a cura di) L’erogazione della prestazione medica tra diritto alla salute, principio di autodeterminazione e gestione ottimale delle risorse sanitarie, Santarcangelo di Romagna, 2014, 193 ss. 32
25
Palazzani, op. cit., 63.
26
Palazzani, op. cit., 66.
Fabre Magnan, La dignité en droit (2007) Revue interdisciplinaire d’études juridiques 13. 27
33
Calabresi, op. cit., 205.
34
Calabresi, op. cit., 194.
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ricordare a noi tutti l’impegno di adempiere – afferma solennemente la nostra Costituzione – ai “doveri inderogabili di solidarietà” (art. 2). Vero è, infatti, che “la pienezza della dignità diviene possibile quando esiste una serie di ‘prestazioni’ sociali idonee … a recuperare l’idea di solidarietà”35. Ed è proprio nel quadro del binomio “dignità-solidarietà”, esemplarmente sintetizzato dall’art. 32, comma 1, Cost., che possono rinvenirsi limiti concreti e attuali al principio di autodeterminazione, così come è stato desunto da un’interpretazione estensiva del secondo comma della stessa norma costituzionale. Torna a rendersi utile, a tal fine, la norma codicistica dell’art. 5, riletta non più “in termini di ‘potere’ di disporre ma di ‘libertà’ di disporre del proprio corpo”36 e drasticamente rigenerata alla luce di un concetto di ordine pubblico sostanziale “privato di venature egoistiche, reso più complesso dall’intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca” ma, al tempo stesso, attento a “Costituzioni e tradizioni giuridiche [che] con le loro diversità costituiscono un limite ancora vivo”37.
3. Una “nuova medicina”? In questa stagione di rinnovato interesse per la medicina è dato constatare una singolare discordanza: a una vera e propria tempesta mediatica che dalle pubblicazioni scientifiche si espande fino ai rotocalchi e alla stampa quotidiana per informare il pubblico dell’avvento di una “nuova medicina” finalizzata al potenziamento umano sembra contrapporsi il silenzio in argomento delle fonti giuridiche più accreditate a decidere delle sorti della professionalità medica, a loro volta impegnate invece in una convergente opera di dissolvimento delle residue tracce del vecchio ”paternalismo” medico e di consolidamento e sviluppo coerente della medicina fondata sull’idea
di un’alleanza terapeutica tra medico e paziente improntata al principio del consenso informato. Si legge nella giurisprudenza più direttamente impegnata in tale compito che “il principio del consenso informato esprime una scelta di valore nel modo di concepire il rapporto tra medico e paziente … e costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario”: la Corte di Cassazione infatti “ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato c’è spazio – nel quadro dell’‘alleanza terapeutica’ che tiene uniti il malato e il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza”38. Nel presentare questa nuova rivista, dedicata a “Diritto e pratica clinica”, si è sottolineata la necessità di intervenire “sull’oggetto e sulle funzioni dell’attività del sanitario, doverosamente circoscritta alla migliore prestazione che per ciascuna fattispecie la scienza medica consente di erogare e non al ‘miglioramento’ o alla ‘guarigione’ del paziente in quanto tale”39. Serve, allora, “un diritto diverso?”. No, si risponde: “c’è già. Non abbiamo leggi ordinarie che regolino diritti e doveri reciproci nel rapporto di cura … ma disponiamo di un ‘diritto dei principi’, strutturato come un microsistema coerente, che potremmo indicare come ‘il diritto della relazione di cura’, [affidato] alla valutazione giudiziale attraverso i criteri dettati da linee guida e di buona pratica, che è solida parte della tradizione giurisprudenziale e ha trovato anche sanzione legislativa”40. Una ricerca multidisciplinare, partita dall’idea di “indagare il concreto atteggiamento del diritto alla
38
Cass., 16.10.2007, n. 21748.
Pucella, È tempo per un ripensamento del rapporto medico-paziente?, in questa Rivista, 2017, I, 4. 39
35
Rodotà, Il diritto di avere diritti, Bari, 2012, 209 s.
36
Cass., sez. un. pen., 18.12.2008, n. 2437.
37
Cass., sez. un., 5.07.2017, n. 16601.
Zatti, Un diritto diverso? C’è già, in questa Rivista, 2017, I, 167. 40
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salute all’epoca della spending review”, si è posto l’obiettivo di “giungere all’individuazione di precise ‘linee guida’ in grado di garantire standard organizzativi e modelli di erogazione della prestazione medica volti ad assicurare il più equo bilanciamento tra la tutela del diritto alla salute – anche nella prospettiva dell’autonomia decisionale del paziente – ed i limiti imposti dal contenimento della spesa pubblica e dall’esigenza dell’efficiente allocazione delle risorse disponibili”41. Alle attese e agli obiettivi appena rilevati, tutti accomunati da un’esigenza di consolidamento e di adeguamento della gestione del rapporto di cura all’interno dei principi costituzionali, cerca di rispondere il legislatore, dettando “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”. È la c.d. “Legge Gelli” (Legge 8 marzo 2017, n. 24), che si pone “l’obiettivo essenziale di garantire la sicurezza delle cure come parte costitutiva del diritto alla salute, aumentando le garanzie e le tutele per gli esercenti le professioni sanitarie e assicurando al paziente la possibilità di essere risarcito in tempi più rapidi e soprattutto certi, a fronte di danni sanitari eventualmente subiti”42. L’impegno a “promuovere e valorizzare la relazione di cura e la fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato” è, infine, confermato dal disegno di legge n. 2801 (approvato dalla Camera dei deputati il 28 aprile 2017) che contiene “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Orbene, non è certo il momento né l’occasione per valutare la consistenza e l’efficacia degli obiettivi e dei propositi appena passati in rassegna. È dato, invece, trovare conferma del loro silenzio in ordine alla pertinenza medica del potenziamento umano.
Sesta, Presentazione, in Sesta (a cura di) L’erogazione della prestazione medica tra diritto alla salute, principio di autodeterminazione e gestione ottimale delle risorse sanitarie, Santarcangelo di Romagna, 2014, 15. 41
Gelli, Prefazione, in Nocco-Lovo (a cura di) La nuova responsabilità sanitaria, Il Sole 24 ORE – E – Book, 2017, 4.
Saggi e pareri
Qual è il significato di tale silenzio? Vorrei provare a rispondere facendo ricorso a una metafora. Le fonti giuridiche che presiedono, per così dire, alla struttura dell’edificio idealmente costruito per l’esercizio della professione medica continuano evidentemente a considerare intoccabile l’architrave storica su cui regge detto edificio – la relazione di cura – e a chiamare per nome i soggetti che ne animano la vita: il paziente [da pa¯ti] che soffre, e il medico [da mede¯ri, curare], che cura. Questa è la medicina, e non altra. Non sembra alla vista una “nuova medicina”, una “medicina dei desideri”. Eppure, non sfugge a nessuno la crescente labilità del confine intercorrente tra terapia e potenziamento. Occorre, quindi, adeguare i criteri distintivi tenendo conto delle nuove tecnologie, che consentono di soddisfare nuove finalità terapeutiche essenzialmente migliorative distinguendole dalla voluttuosità dei semplici desideri di potenziamento. Ma la distinzione, nella sua essenzialità – si è coniata, al riguardo, l’immagine di “una visione essenzialista della medicina”43 –, sembra ancora reggere. In ultima analisi, il percorso ricognitivo fin qui svolto induce constatare che, allo stato, la c.d. medicina potenziativa è un ossimoro. Oppure, volendo tornare alla metafora della medicina come ideale edificio, può dirsi che per il momento essa è ancora un cantiere di lavoro.
4. Una deontologia “anticipatrice”? “Deontology or Science of Morality”: coniando, già nel titolo di questa sua opera (uscita, postuma, nel 1834), un termine filosofico destinato ad avere una forse inattesa fortuna ai nostri giorni, Geremia Bentham intendeva racchiudere in una efficace sintesi espressiva la sua celebre teoria utilitaristica dei doveri. Forse, la fortuna di questo termine – deontologia – è dovuta al fatto che l’attenzione al “dover essere” in contrapposizione all’“essere” si è andata progressivamente sganciando da una “scienza della morale” imperniata sulle determinazioni
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Palazzani, op. cit., 9.
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“egoistiche” del singolo individuo alla ricerca della felicità, in parallelo con il delinearsi del fenomeno della codificazione, di cui peraltro il fondatore dell’utilitarismo fu convinto sostenitore. In origine, le regole deontologiche erano “norme consuetudinarie, sorte nell’ambito di un gruppo sociale costituito dai membri della professione”44. Ed invero “la norma consuetudinaria, fondata unicamente sull’autorità della tradizione, è propria di ordinamenti limitati nel numero dei membri e soprattutto omogenei nella qualità dei rapporti e delle azioni”45. Di questa fonte “consuetudinaria” restano nella tradizione dei Codici di deontologia medica tracce significative di persistente, e rinnovata, attualità. Esemplare è il principio, “codificato fin dall’antichità nel giuramento di Ippocrate [del] soccorso d’urgenza”46, giunto integro nella sua sostanza fino alla previsione del nuovissimo codice del 2014, che impone al medico il “dovere di intervento”, obbligandolo “in caso di urgenza a prestare soccorso e comunque ad attivarsi tempestivamente per assicurare idonea assistenza”: un obbligo che va ben oltre i confini della norma penale sull’omissione di soccorso. Ma la consuetudine come fonte esclusiva delle regole deontologiche non resiste al processo di “continua evoluzione delle acquisizioni scientifiche e sperimentali” segnalato dalla Corte costituzionale in una sentenza del 2002 che segna una svolta fondamentale in argomento. La Consulta, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di una legge regionale (l. reg. Marche, 13 novembre 2001, n. 26) che disponeva la sospensione dell’applicazione della terapia elettroconvulsivante, delle pratiche di lobotomia e di altri simili interventi di psicochirurgia, ha stabilito che “non è, di norma, il legislatore a poter stabilire direttamente e specificamente quali siano le pratiche terapeutiche
ammesse, con quali limiti e a quali condizioni” e ha chiamato in causa espressamente il codice di deontologia medica per avallare l’affermazione secondo cui, “poiché la pratica dell’arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione, la regola di fondo in questa materia è costituita dall’autonomia e dalla responsabilità del medico”47. Trova, qui, puntuale conferma il preavviso magistralmente formulato da Paul Ricoeur48: la deontologia diviene sempre più “un échangeur entre les jugements prudentiels entretenus par la pratique de la profession médicale et les jugements normatifs qui relient l’éthique d’une profession à l’éthique générale”. Consuetudini (jugements prudentiels) e precetti (jugements normatifs), dunque; consuetudini che tramandano esperienze professionali e precetti che si affiancano, specificandoli, ai comandi legislativi o addirittura li anticipano ispirandosi a un’“etica generale”. Di questi precetti (jugements normatifs) si rinvengono importanti tracce innovative nel susseguirsi delle edizioni del codice italiano di deontologia medica, che spesso viene ad assumere la fisionomia di un “codice anticipatore”. Ne da conto, analiticamente, il volume degli Atti di un convegno tenutosi alla certosa di Pontignano nel 199949. Tra le più recenti innovazioni, val la pena di ricordare: la norma concernente “gli interventi sul genoma umano”, introdotta dall’edizione del 1995 (art. 42, comma 3) e sviluppata nelle edizioni successive; la norma sulla “assistenza al malato inguaribile” introdotta dall’edizione del 1998 (art. 37, comma 1) e riformulata con riferimento al “paziente con prognosi infausta” (2006) o “con definitiva compromissione dello stato di coscienza” (2014); la norma su “autonomia del cittadino e direttive anticipate”, introdotta dall’edizione del 2006 (art. 39) e perfezionata in quella vigente.
Cattaneo, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, 11.
47
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Bobbio, La consuetudine come fatto normativo, Padova, 1942, 85. 45
46
Cattaneo, op. cit., 237 ss.
Corte cost., 26.6.2002, n. 282.
Ricoeur, Préface al Code de la déontologie médicale introduit et commenté par Louis René, Paris, 1996. 48
Barni (a cura di) Bioetica, deontologia e diritto. Per un nuovo codice professionale del medico, Milano, 1999. 49
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Innovazione, senza dubbio straordinaria, è quella che introduce nel codice vigente la “medicina potenziativa ed estetica”. Allo stesso tempo, un nuovo “titolo” (Titolo XVI) e una nuova norma (l’art. 76): la norma che abbiamo preso come punto di partenza della nostra ricerca. È giunto, ora, il momento di chiederci: qual è il significato deontologico, quale la portata operativa di questa norma, che non nasconde l’ambizione di costituire un vero e proprio nuovo “titolo” del codice deontologico? Una “radiografia” (ci sia consentito il termine medico) del primo comma, posta a confronto con quella del secondo, da anzitutto l’impressione di una gestazione faticosa della formulazione definitiva del suo dettato, di una divergenza di opinioni di partenza non perfettamente ricomposta50; e pone l’interprete di fronte ad alcune difficoltà di lettura. Come si concilia con i “principi di etica medica” e con il “giuramento professionale”, contemplato come “parte costitutiva del codice” dall’art. 1, un rapporto che prende le mosse da una “richiesta di intervento” di un qualsiasi individuo, in ipotesi perfettamente sano, in ottemperanza alla quale il medico è chiamato a “operare”? Come riescono a coesistere, nello stesso contesto, una richiesta di intervento (che sta a connotare un’autodeterminazione individuale) e l’acquisizione di un consenso informato (che sta a connotare una risposta all’iniziativa del medico)? Come si giustifica l’esclusione di un “previo accertamento delle necessità terapeutiche” (arg. ex art. 18, confrontato con la corrispondente norma dell’edizione del 2006) nella previsione generale del primo comma a fronte dell’espresso riferimento all’“esercizio di attività diagnostico-terapeutiche” nella previsione speciale del secondo comma, indirizzato a “finalità estetiche”? Per dissipare l’ambiguità complessiva della previsione non rimane all’interprete che la scelta tra due diverse letture della norma.
Donisi, Tecnoscienze, human enhancement e scopi della medicina, in De Giovanni-Donisi (a cura di) Atti dell’incontro di studi su Convergenza dei saperi e prospettive dell’umano, Napoli, 2015, 139 ss.
Saggi e pareri
Una prima lettura, dando per scontata la fedeltà alla “definizione” (art. 1) del codice in cui la norma è inserita e riconoscendo nel riferimento al consenso informato il pernio di una relazione di cura, suggerirebbe di ricondurre, nonostante il silenzio, la c.d. medicina potenziativa nell’ambito delle nuove, e innovative, prospettive di attività diagnostico-terapeutiche offerte dal progresso della tecnica. Una seconda, e contrapponibile, lettura imporrebbe di riconoscere alla norma l’intento di andare oltre i principi di etica medica menzionati dall’art. 1 (e, forse, anche oltre quelli tracciati per la medicina estetica) senza disconoscerne la persistente valenza ma prendendo atto al tempo stesso dell’avvento, con il progresso della tecnica, di una nuova medicina (appunto, potenziativa) e anticipandone i principi e i relativi limiti.
5. Interrogativi senza risposta attorno a un problema controverso di interpretazione di una norma “ambigua” La conclusione della nostra ricerca non è, dunque, quella che l’ipotetico lettore potrebbe aspettarsi. La “nuovissima” norma dell’art. 76 non è in grado di offrire una soluzione certa a un problema controverso. Denuncia piuttosto, e paradossalmente proprio con la sua ambiguità, l’irriducibile diversità di culture ed esperienze: consapevoli dell’esigenza di misurarsi con l’avvento delle nuove tecnologie, ma diversamente orientate nel modo di farvi fronte. Carl Elliott, filosofo e bioeticista, ha scritto che “the treatment-enhancement distinction does not hold up well. The new biotechnologies prove too slippery for rigid binaries and absolute hierarchies. Enhancement can become more desirable and more valuable than treatment”; e lancia un messaggio: “We need to understand the complex relationship between enhancement technologies, the way we live now, and the kinds of people we have become”51.
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Elliott, op. cit., 21.
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Le “Enhancement technologies”
Paolo Vineis, medico e ricercatore, ha scritto: “L’uomo nuovo creato dalle enhancement technologies potrebbe (o forse dovrebbe) avere un’idea molto diversa di etica rispetto a quella attuale. Queste tecnologie prospettano agli uomini un vantaggio selettivo, superando la lotteria naturale (le imperfezioni biologiche nella sfera della zoe, della vita biologica) in vista della lotteria sociale (la bios, la vita di relazione)”52. Ma c’è chi pensa diversamente, muovendo da culture ed esperienze diverse. Angelo D. Marra, avvocato e ricercatore, membro del comitato scientifico della Rivista italiana di Studi sulla Disabilità, ha scritto: “Una chiusura totale e a priori alla possibilità di combinare elementi umani e tecnologici per superare un deficit è – lo si dice sommessamente – improponibile. Bisognerà, però, porre particolare attenzione a non ritenere che la soluzione dei problemi legati alla disabilità possa consistere in una ‘miracolosa’ implantologia di ausili capaci di ‘rimettere in sesto’ un essere umano che si assume compromesso. Ciò, oltre a costituire una chimera poiché non disponiamo della tecnologia in grado di annullare tutte le fragilità corporee, costituirebbe una negazione della fragilità quale caratteristica intrinseca dell’essere umano”53. Carlos Fernández Sessarego e Olenka Woolcott Ovague, giuristi peruviani (rispettivamente maestro e ex-allieva) che hanno appena dato alle stampe un poderoso Derecho médico ove si da conto delle nuove tendenze di “cirugía embellecedora”, si mostrano contrari a “tratar el ser humano como un consumidor qualquiera (como el comensal de un restaurante)”: non li soddisfa “el criterio llamado ‘promesa de felicidad’”; propendono piuttosto per l’adozione di un criterio consistente nel rigoroso controllo di simili iniziative in misura proporzionale “a la lejania en que éstas se sitúen de una finalinad terapéutica”54.
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È in discussione dunque, prima ancora della salute, l’identità della persona umana. La sfida tecnologica alla ricerca di una nuova identità ispirata a un principio di felicità individuale si contrappone a una tecnologia posta a servizio della qualità della vita in vista della piena realizzazione di un’identità personale rispettosa delle proprie peculiari fragilità. Personalmente, confesso di stare dalla seconda parte55.
Vineis, Equivoci bioetici, Torino, 2006, 45.
Marra, Disabilità, bioetica e ragionevolezza. Ragionamenti minimi di diritti umani, evoluzione tecnologica e vita quotidiana, Padova, 2016, 181. 53
Fernández Sessarego-Woolkott Oyague, Derecho médico, Lima, 2017, cap. XXIV. 54
Busnelli, Recensione a Marra, Disabilità, bioetica e ragionevolezza. Ragionamenti minimi di diritti umani, evoluzione tecnologica e vita quotidiana, in Riv. dir. civ., 2017, 725 ss.; Busnelli, Prologo a Fernandez Sessarego - Woolkott Oyague, op. cit., 4 ss. 55
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i g Saggi e pareri Saggi e pareri ag i s rer e a Emoderivati infetti: p le responsabilità in fase di produzione Arianna Fusaro
Professoressa nell’Università di Padova
Sommario: 1. Una premessa: dalla lavorazione al controllo alla somministrazione. – 2. Il pericolo immanente alla «cosa» e la responsabilità da esercizio di attività pericolose. – 3. Dal pericolo dell’attività al difetto del prodotto. Questioni relative all’applicazione della disciplina sulla responsabilità del produttore. – 4. Responsabilità da prodotto difettoso o disciplina più favorevole al consumatore? La rilevanza dell’art. 127 c. cons. – 5. Responsabilità da prodotti difettosi e onere della prova: l’inevitabile curvatura verso la responsabilità da attività pericolose.
Abstract: L’analisi è volta ad individuare le regole di riferimento della responsabilità del produttore di farmaci emoderivati infetti. Le alternative sono sostanzialmente due: al produttore potrebbe essere imputata una responsabilità da esercizio di attività pericolosa (art. 2050 c.c.) ovvero potrebbe trovare applicazione la disciplina dettata dal codice del consumo in caso di anomalia o difetto del prodotto, vale a dire le regole in tema di responsabilità da prodotti difettosi (artt. 114-127 c. cons.). E questo in quanto la presenza di un virus nel farmaco emoderivato potrebbe essere letta non soltanto quale concreto materializzarsi nel prodotto di un pericolo già presente nella fase di lavorazione della sostanza ematica, ma come una grave anomalia del prodotto stesso, del tutto simile ad un difetto del prodotto. Nello scritto vengono indagate le ragioni per cui la giurisprudenza tende a prediligere l’applicazione dell’art. 2050, anche attraverso una interpretazione della norma poco aderente al suo tenore letterale, ed al contempo vengono analizzate le possibilità di far ricorso alle regole sulla responsabilità del produttore, nonché gli evidenti limiti di quest’ultima disciplina.
The aim of this study is to identify liability rules related to the production of infected blood products. Two types of liabilities of the producer can be envisaged: liability for dangerous activities under article 2050 c.c. or liability for the defect in the product, on the basis of art. 114-127 consumer code. The question is if the presence of a virus in the blood is a danger arising from the product or it has to be considered a defect of the product itself. Italian case law states that processing blood is a dangerous activity, so the application of art. 2050 is generally preferred. But the presence of a virus in the blood product can be a “defect”, a serious anomaly of the product. In this sense, the author analyses the possibility to apply product liability rules and the reasons why judges do not apply them.
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1. Una premessa: dalla lavorazione al controllo alla somministrazione Il problema dei danni subiti da pazienti a seguito della somministrazione di sangue o emoderivati infetti ha avuto la sua fase di emersione in Italia tra gli anni Settanta e Ottanta a seguito del contagio da epatite B di una serie di pazienti che avevano assunto il medicinale Trilergan1 ed è pertanto ben conosciuto non soltanto dai giuristi, per la lunga serie di contenziosi che ne è seguita, ma dall’opinione pubblica in genere, per il giusto scalpore che la notizia ha suscitato sul piano mediatico2. Si tratta, come noto, del problema determinato dal contagio di malattie ematiche (quali l’epatite C o l’HIV) subito da pazienti attraverso la trasfusione di sangue o per l’utilizzo di prodotti farmaceutici derivati dal sangue o dal plasma (c.d. prodotti farmaceutici emoderivati)3. Sul piano giuridico, le
Si trattava di un farmaco contenente gammaglobuline utilizzato contro la cefalea, diventato noto per aver cagionato il contagio da epatite B di un numero di pazienti stimabile intorno ad alcune centinaia. Tra i casi oggetto di giudizio si v. App. Trieste, 16.6.1987, in Resp. civ. e prev., 1989, 344; Trib. Torino, 5.3.1993, in Dir. ed econ. ass., 1993, 561; Trib. Parma, 30.9.1998, in Danno e resp., 1999, 455 ss. 1
La questione giuridica è stata affrontata ancor prima negli Stati Uniti, ove alcune vicende giudiziarie originate dal contagio di epatite si collocano tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (per una analisi dell’esperienza americana in chiave comparatistica Di Costanzo, Il danno da trasfusione ed emoderivati infetti, Napoli, 1998). 2
Più precisamente si intendono per emoderivati i «farmaci plasmaderivati ovvero le specialità medicinali estratte dall’emocomponente plasma mediante processo di lavorazione industriale» e per emocomponenti i «prodotti ricavati dal frazionamento del sangue con mezzi fisici semplici o con aferesi» (l. 21 ottobre 2005, n. 219, Allegato 1, art. 1). Vanno però distinti i casi di soggetti emofiliaci che vengono curati mediante l’assunzione di farmaci derivati dal plasma (di produzione industriale) dai casi di soggetti talassemici cui vengono effettuate trasfusioni periodiche di sangue (Mantelero, I danni di massa da farmaci, nel Trattato di Biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, Le responsabilità in medicina, a cura di Belvedere e Riondato, Milano, 2011, 508 s.), tenendo presente che anche in questi ultimi casi peraltro la trasfusione non consiste necessariamente nella somministrazione di unità di sangue, ma soltanto di alcuni singoli componenti previamente estratti dal sangue. 3
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questioni più controverse riguardano la responsabilità dei soggetti che, a vario titolo, risultano coinvolti nella causazione del danno: il medico curante, la struttura sanitaria presso la quale viene effettuato il trattamento, il produttore e il distributore del farmaco emoderivato e financo il Ministero della Salute (in precedenza Ministero della Sanità) per omessa vigilanza. Per ognuno dei soggetti coinvolti si pone il problema, che certamente non si arresta al tema specifico dei danni da sangue o da emoderivati infetti, relativo al titolo della eventuale responsabilità. Attraverso una elaborazione giurisprudenziale e dottrinale complessa, che non ha ragione in questa sede di essere riproposta, si è sostanzialmente disegnata una responsabilità «a doppio binario» per il medico e per la struttura sanitaria4: al medico è stata in genere imputata una responsabilità di natura contrattuale o, alternativamente, ex art. 2043, che con ogni probabilità sarà in futuro definitivamente risolta verso la responsabilità extracontrattuale in ragione del recente intervento del legislatore5, mentre per la struttura sanitaria si propende per l’applicazione delle regole in materia di responsabilità contrattuale6.
Si parla in questi casi di una responsabilità “a doppio binario” (De Matteis, Responsabilità e servizi sanitari, nel Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da Galgano, Padova, 2007, in part. 253 ss. Per quanto riguarda la responsabilità del medico, si veda anche, della stessa a., La responsabilità medica, Padova, 1995). 4
È probabilmente superfluo ricordare che il riferimento all’art. 2043 per la responsabilità del medico era previsto dall’art. 3, comma 1°, d.l. 13 settembre 2012, convertito in l. 8 novembre 2012, n. 189, c.d. legge Balduzzi, secondo cui «l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo». Se pure la norma aveva lasciato permanere qualche margine di ambiguità, oggi la natura extracontrattuale della responsabilità del medico è sancita espressamente dalla legge 8 marzo 2017 n. 24 (art. 7, comma 3°). 5
Cass., sez. un., 11.2.2008, n. 577, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 612, con nota di De Matteis, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emostrasfusione, in 6
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Emoderivati infetti
Per quanto riguarda le responsabilità del Ministero, invece, la regola di riferimento viene solitamente individuata nell’art. 2043, perché al Ministero competono funzioni di vigilanza e di controllo e funzioni complementari a queste ultime, come quella di autorizzare l’importazione e l’esportazione del sangue o dei suoi derivati o di fissare il prezzo delle unità di sangue sul territorio nazionale7. Sul piano legislativo, i compiti di indirizzo e di programmazione delle attività trasfusionali spettanti al Ministero della Salute sono ora espressamente elencati nell’art. 10 della legge n. 219/2005. Non va dimenticato poi che il problema delle responsabilità dello Stato è oggi ridimensionato (anche se non certo superato) in virtù dell’applicazione della l. 25 febbraio 1992, n. 210, che prevede un indennizzo a favore dei soggetti contagiati da HIV per effetto di somministrazione di sangue o suoi derivati e a favore di coloro che abbiano subito danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali. Il tema di indagine prescelto in questo scritto è rappresentato dall’analisi dalle responsabilità in concreto ascrivibili al produttore di farmaci emoderivati.
Resp. civ. e prev.,2002008, 849, con nota di Gorgoni; in Foro it., 2008, I, 455. Trib. Roma, 14.6.2001, in Guida al dir., 2001, fasc. 27, 54. D’altro canto, come noto, la Cassazione a Sezioni Unite si è pronunciata in maniera molto netta sotto questo profilo, affermando il seguente principio di diritto: “Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinché fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standards di esclusione di rischi, il giudice, accertata l’omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata – infine – l’esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’evento” (Cass., sez. un., n. 581/2008). 7
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Da questo punto di vista, la questione può essere riassunta come segue: se al produttore debba essere imputata una responsabilità da esercizio di attività pericolosa (art. 2050 c.c.), come sembra orientata a fare la nostra giurisprudenza, ovvero se sia in alternativa ipotizzabile l’applicazione delle regole dettate dal nostro codice del consumo in caso di anomalia o difetto del prodotto, vale a dire le regole in tema di responsabilità da prodotti difettosi (artt. 114-127 cod. cons.). E questo in quanto la presenza di un virus nel sangue trasfuso o nel farmaco emoderivato potrebbe essere letta non soltanto quale concreto materializzarsi nel prodotto di un pericolo già presente nella fase di lavorazione della sostanza ematica, ma – in virtù di un diverso approccio – come una grave anomalia del prodotto stesso, del tutto simile ad un difetto del prodotto.
2. Il pericolo immanente alla «cosa» e la responsabilità da esercizio di attività pericolose Come anticipato, per quanto riguarda la fase produttiva, vale a dire l’attività di lavorazione del plasma svolta dai centri e dalle aziende autorizzati, la giurisprudenza propende per una lettura delle eventuali responsabilità attraverso la lente dell’art. 2050 c.c., assumendo dunque che l’attività in questione sia pericolosa di per sé o per la natura dei mezzi adoperati. Gli elementi che conducono la giurisprudenza verso tale risultato applicativo possono essere riassunti come segue. Innanzitutto, a testimoniare della natura pericolosa dell’attività si pongono norme di legge e regolamentari che disciplinano puntualmente le fasi di produzione, commercio, importazione ed esportazione di prodotti emoderivati. Una dettagliata disciplina dell’attività trasfusionale e dell’attività di produzione di emoderivati è contenuta oggi nella l. 21 ottobre 2005, n. 219, Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati, che ha sostituito quasi integralmente la precedente l. 4 maggio 1990, n. 107, Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la produzione di plasmaderivati. Ma, anche prima Responsabilità Medica 2017, n. 3
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dell’emanazione delle due leggi richiamate, numerose norme disciplinavano le attività dei centri trasfusionali, le modalità di raccolta del sangue e il procedimento di lavorazione dei prodotti derivati dal sangue, oltre che prevedere specifici obblighi di vigilanza a carico del Ministero della Sanità8. Per quanto riguarda in particolare gli emoderivati, la puntuale regolamentazione del procedimento di lavorazione del plasma sanguigno e della conseguente fase di produzione di farmaci attraverso l’utilizzo di gammaglobuline sarebbe dettata – ad avviso della giurisprudenza – proprio allo scopo di prevenire il rischio connesso ad una attività altamente pericolosa e potenzialmente dannosa per la salute dell’uomo. Ed anche se lo specifico rischio, per esempio il possibile contagio da epatite B, non risulti previsto espressamente da norme di legge, esso ricade sotto l’ampia previsione delle regole in materia ed obbliga il produttore ad adottare «tutti quei metodi di analisi e di controllo che la scienza medica è in grado di esercitare, a prescindere dal costo o dalla perfezionabilità»9. Trattandosi infatti di attività che non si esaurisce nella produzione di farmaci a scopo di ricerca scientifica, ma che si estende al commercio del prodotto stesso, è ovvia conseguenza che «quell’attività diffonde nel pubblico un rilevante pericolo di malattia, derivato dalla natura del mezzo adoperato»10. In questo senso, aggiunge la giurisprudenza, non risulterebbe ostativo all’applicazione dell’art. 2050 il fatto che il prodotto sia ormai uscito dalla sfera di controllo dell’esercente l’attività pericolosa, non solo perché la circolazione del prodotto è compresa nell’attività considerata, ma anche perché nel caso degli emoderivati «i prodotti conservano in loro stessi, propagandola, quella medesima potenzialità lesiva che caratterizza il mezzo
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adoperato e, per esso, l’attività che li ha come oggetto, alla quale, in definitiva, necessariamente si collegano»11. L’interpretazione avallata dalla nostra giurisprudenza con riferimento agli emoderivati riproduce il percorso argomentativo utilizzato ormai da tempo in materia di esercizio di attività pericolose e che ha finito con l’ampliare l’ambito di applicazione dell’art. 2050 oltre quei confini che sembravano esserle propri12. Il tenore letterale della disposizione, infatti, sembra definire in maniera abbastanza netto il novero delle attività da qualificarsi come pericolose, laddove utilizza l’espressione «svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati». In sostanza, il pericolo dovrebbe essere riferito allo svolgimento dell’attività in sé, che presenta una elevata potenzialità lesiva in ragione dei mezzi utilizzati ovvero per la natura stessa dell’attività. Ma la lavorazione di sostanze pericolose rappresenta, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai piuttosto radicato, anche la premessa per individuare il trasferimento di un pericolo immanente dell’attività fino al prodotto destinato all’utente finale. L’art. 2050 ne costituirebbe in questo senso il referente normativo, anche se la cosa pericolosa è ormai passata nella completa disponibilità dell’utente, senza che all’esercente l’attività pericolosa sia dato svolgere un ruolo attivo di controllo sulla cosa. Senonché il principio viene applicato rispetto a prodotti che conservano una carica di pericolosità elevata presente con certezza anche al momento del processo produttivo, come nel caso delle bombole di gas. Ma viene utilizzato anche rispetto alla lavorazione di sostanze in cui il pericolo im-
Cass., 15.7.1987, n. 6241, cit. Nello stesso senso Cass., 27.1.1997, n. 814, in Mass. Giust. civ., 1997, che ha riconosciuto la responsabilità solidale del produttore finale del prodotto emoderivato e del soggetto che produce una componente del farmaco; Cass., 27.7.1991, n. 8395, in Giur. it., 1992, I, 1, c. 1332 e in Nuova giur. civ. comm., 1992, I, 569. 11
Si vedano, ad esempio, l’art. 1, comma 1°, della l. 13 marzo 1958, n. 296; l’art. 1 della l. 14 luglio 1967, n. 592; il d.p.r. 24 agosto 1971, n. 1256; l’art. 4 della l. 23 dicembre 1978, n. 833. 8
Cass., 20.7.1993, n. 8069, in Giust. civ., 1994, I, 1307; in Resp. civ. e prev., 1994, 61 e in Foro it., 1994, I, 455. 9
Cass., 15.7.1987, n. 6241, in Foro it., 1988, I, 144; in Nuova giur. civ. comm., 1988, I, 475; in Resp. civ. e prev., 1988, 406. 10
Per una più ampia disamina dei nuovi confini applicativi dell’art. 2050 v. Ar. Fusaro, Attività pericolose e dintorni. Nuove applicazioni dell’art. 2050 c.c., in Riv. dir. civ., 2013, 1337 ss. 12
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manente dell’attività non è di sicura evidenza. Un primo esempio è dato dall’attività di produzione e successiva distribuzione di farmaci emoderivati, cui la giurisprudenza attribuisce il carattere della pericolosità, come detto, sulla base di alcuni elementi: a) l’attività è sottoposta ad una puntuale regolamentazione; b) il mezzo adoperato è pericoloso; c) l’attività non esaurisce i suoi effetti nella produzione in sé, ma si estende alla commercializzazione o successiva distribuzione del farmaco13. Quest’ultimo elemento permette poi alla giurisprudenza di dilatare il principio formulato con riferimento alle res periculosae anche rispetto ad attività che con certezza non presentano un rilevante pericolo di danno nella fase della produzione. Così avviene, anche se in base ad un orientamento minoritario della giurisprudenza, con riferimento alla produzione e successiva commercializzazione di sigarette, la cui pericolosità viene dedotta dal serio e rilevante pericolo di danno che può comportare il consumo abituale della sigaretta. In questo modo, la commercializzazione diviene l’elemento chiave per argomentare che il «mezzo» adoperato è pericoloso e, di conseguenza, lo è l’attività diretta alla sua produzione14. In realtà, nel corso degli anni il principio formulato dalla giurisprudenza con riferimento alle cose pericolose ha finito col mostrare elementi di ambiguità e, in alcuni estremi applicativi, la sua ratio pare quasi interamente risiedere in una logica di protezione del soggetto danneggiato. Impossibile però non chiedersi se l’art. 2050 sia davvero regola capace di abbracciare tutte le ipotesi contemplate dalla giurisprudenza nel novero delle attività pericolose (ed in questo senso sia necessario formularne una più moderna lettura). O piuttosto se alcune delle ipotesi ricondotte dalla giurisprudenza nella cornice dell’art. 2050 debbano ricadere nella
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sfera applicativa di altre regole, in particolare di quelle che nel nostro ordinamento prefigurano la responsabilità da prodotto difettoso. Specie per quelle ipotesi ove il pericolo risieda nel difetto della «cosa» piuttosto che nel «mezzo» adoperato. Nel caso del prodotto emoderivato, in particolare, l’applicazione dell’art. 2050 si giustifica sulla base della considerazione per cui il prodotto conserva una pericolosità intrinseca già presente al momento del processo produttivo per il rischio connesso al mezzo adoperato. Anche se – a voler dilatare troppo il concetto – si dovrebbe ritenere che la lavorazione di qualsiasi farmaco, per il pericolo che può comportare sulla salute dell’uomo, debba essere annoverata tra le attività pericolose. Inoltre, anche per il prodotto emoderivato è necessario chiedersi se la presenza di un virus indichi che si è al cospetto di una attività intrinsecamente pericolosa per la natura del mezzo adoperato oppure di un «prodotto difettoso dalla notevole potenzialità lesiva»15. In questo secondo caso infatti sarebbe forse più opportuno il riferimento alla responsabilità da prodotto difettoso che trova la sua disciplina nel Codice del consumo16.
3. Dal pericolo dell’attività al difetto del prodotto. Questioni relative all’applicazione della disciplina sulla responsabilità del produttore Dopo aver tracciato i punti più significativi dell’applicazione della regola sulla responsabilità da attività pericolose al danno da sangue o emoderivati infetti, occorre ritornare su una questione sollevata in precedenza e chiedersi se il referente normativo dei danni cagionati dal «pericolo della cosa» sia senza dubbio l’art. 2050, «modernamente» ed estensivamente interpretato, o se sia possibile fare applicazione della disciplina sulla
Cass., 27.7.1991, n. 8395, cit.; Cass., 15.7.1987, n. 6241, cit.
Cass., 17.12.2009, n. 26516, in Foro it., 2010, I, c. 869, con nota di Palmieri; in Corr. giur., 2010, I, 482, con nota di Ponzanelli; in Danno e resp., 2010, p. 569, con nota di D’Antonio e ivi, 2011, p. 57, con nota di Monateri; in La resp. civile, 2010, 569, con nota di Fantetti; in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 660, con nota di Covucci. 14
Recano, La responsabilità civile da attività pericolose, Padova, 2001, 194. 15
Franzoni, L’illecito, nel Trattato della responsabilità civile, diretto da Franzoni, Milano, 2004, 580. 16
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responsabilità del produttore. E questo sulla base della constatazione per cui la presenza di un virus nel prodotto destinato alla somministrazione rappresenta una grave anomalia del prodotto stesso, più che la conseguenza di un pericolo nella fase di lavorazione della sostanza ematica. Il danno determinato dal difetto del prodotto potrebbe dunque ben trovare la sua naturale collocazione negli artt. 114-127 del codice del consumo. Né va dimenticato che l’art. 103 dello stesso codice prescrive l’obbligo per il produttore di immettere sul mercato un prodotto sicuro, ossia un prodotto che «in condizioni di uso normali o ragionevolmente prevedibili… non presenti alcun rischio oppure presenti unicamente rischi minimi, compatibili con l’impiego del prodotto e considerati accettabili nell’osservanza di un livello elevato di tutela della salute e della sicurezza delle persone». In particolare, occorre chiedersi se il regime di responsabilità oggi previsto dal Codice del consumo (artt. 114-127) sia davvero inapplicabile ai casi in questione e quali siano le ragioni che spingono la giurisprudenza a rifuggire dall’applicazione di tale disciplina. Un primo problema è dato da un elemento quasi testuale del codice del consumo e più precisamente dall’art. 118 cod. cons., il quale prevede che la responsabilità sia esclusa quando «il produttore non ha fabbricato il prodotto per la vendita o per qualsiasi altra forma di distribuzione a titolo oneroso». L’esimente così prevista sembra infatti offrire una chiave esegetica della definizione di «prodotto» agganciata al requisito della onerosità ed in questo senso diviene ostacolo per l’applicazione della disciplina rispetto al sangue umano ed agli emocomponenti, ossia i prodotti ricavati dal frazionamento del sangue con mezzi fisici semplici ovvero attraverso tecniche di rimozione di alcune componenti del sangue (c.d. aferesi)17. Infatti, l’art. 2 della l. n. 219/2005, l. 21 ottobre 2005, n. 219, Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati, riprendendo quanto disposto dall’art. 1
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della l. n. 107/1990, stabilisce che le attività trasfusionali «sono parte integrante del Sistema Sanitario Nazionale» e si basano sul principio della donazione «gratuita del sangue umano e dei suoi componenti». Nel caso specifico quindi non si potrebbe parlare di prodotti destinati alla vendita o alla distribuzione a titolo oneroso18. Anzi, l’assenza di una fase di commercializzazione dovrebbe permettere di escludere con una certa sicurezza che si possa in concreto parlare di un «prodotto»19, non rivestendo lo scopo di profitto «alcun ruolo propulsivo nel sistema che in Italia si fa carico di gestire tutti i passaggi necessari affinché il prezioso liquido diventi terapeutico e giunga al suo destinatario finale»20. A sostegno di tale interpretazione sembra porsi anche la definizione contenuta all’art. 3 c. cons., secondo la quale il prodotto deve essere «fornito o reso disponibile a titolo oneroso o gratuito nell’ambito di un’attività commerciale». Il ruolo che tale norma gioca nella questione in oggetto, tuttavia, non deve essere sopravvalutato, dato che la definizione generale di prodotto enunciata all’inizio del codice del consumo, e che pure dovrebbe essere passibile di una applicazione generalizzata, sembra non pienamente compatibile con la disciplina della responsabilità da prodotto difettoso, ove la definizione di prodotto si collega
Sul tema cfr. quanto argomentato amplius da Izzo, La precauzione nella responsabilità civile. Analisi di un concetto sul tema del danno da contagio per via trasfusionale, Trento, 2007, in part. 434 ss. e da Querci, Sicurezza e danno da prodotti medicali, Torino, 2011, in part. 246 ss. V. anche Recano, La responsabilità civile da attività pericolose, cit., 201 ss. 18
Guizzi, I danni da «contagio» da sangue infetto (e da impiego di «emoderivati») e quelli da «fumo attivo»: due ipotesi a confronto, in Vettori (a cura di), Il danno risarcibile, Padova, 2004, 1287 s.; Cabella Pisu, Ombre e luci nella responsabilità del produttore, in Contr. e impr., 2008, 624 s. Secondo Monateri, La responsabilità civile, nel Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 1998, 710, con la separazione dal corpo il sangue acquista “le caratteristiche della cosa mobile” e può dunque rientrare nella definizione di prodotto contenuta nel codice del consumo. 19
Izzo, La precauzione nella responsabilità civile. Analisi di un concetto sul tema del danno da contagio per via trasfusionale, cit., 443. 20
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Art. 1, lett. d) l. 21.10.2005, n. 219.
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inevitabilmente, oltre che alla definizione generale di cui all’art. 11521, all’art. 118, che lo disegna nei termini di un bene che è stato fabbricato “per la vendita o per qualsiasi altra forma di distribuzione a titolo oneroso”22. Prima di escludere l’applicazione della disciplina di cui agli artt. 114 ss. c. cons. al sangue e agli emocomponenti, occorre però considerare ulteriori elementi. Innanzitutto, le attività di raccolta e distribuzione delle unità di sangue a fini trasfusionali, pur caratterizzate dalla gratuità nei confronti del paziente, si inseriscono in processi che prevedono anche una serie di scambi commerciali. Si pensi alle cliniche private, che ottengono le singole unità di sangue dai centri di raccolta del Sistema sanitario nazionale pagando un determinato corrispettivo (secondo quanto previsto dal d.m. 1° settembre 1995). Certamente anche in questo caso rimane fermo quanto stabilito dall’art. 4 della l. n. 251/2005, secondo cui “le spese sostenute per la produzione e la distribuzione del sangue e dei suoi prodotti (…) non sono addebitabili al ricevente ed escludono comunque addebiti accessori ed oneri fiscali, compresa la partecipazione alla spesa sanitaria”. Ed infatti i pazienti delle cliniche private possono richiedere il rimborso di queste specifiche spese al Sistema Sanitario Nazionale. Tuttavia è evidente che in qualche misura, prima dell’eventuale rimborso, i costi ricadono nel cor-
rispettivo che il paziente versa alla clinica privata per la prestazione complessiva che ha ricevuto23. Secondo alcuni autori, inoltre, anche nelle ipotesi di trasfusioni di sangue avvenute nelle strutture ospedaliere pubbliche, si registrano elementi che denotano indici di onerosità. Infatti, pur essendo la prestazione effettuata a favore del paziente “non onerosa” per previsione legislativa, il costo sostenuto ricade in ultima analisi sul paziente sotto forma di imposizione fiscale24. Quest’ultima tesi pare tuttavia poco persuasiva, perché forza in maniera eccessiva quanto disposto in forma molto esplicita dall’art. 4 della l. n. 251/2005, ove si legge che le spese sostenute per la produzione e distribuzione di sangue e dei suoi derivati non possono essere poste a carico del ricevente ed “escludono comunque addebiti accessori ed oneri fiscali, compresa la partecipazione alla spesa sanitaria”. A mio parere risulta invece determinante il rilievo secondo cui non si pone una necessaria coincidenza tra carattere gratuito della prestazione ed assenza di una fase di commercializzazione dell’attività. Il prodotto offerto all’utente finale potrebbe essere oggetto di uno scambio non oneroso, come nel caso del sangue umano, ma ciò non implica necessariamente che l’attività che conduce alla somministrazione di sangue si svolga in assenza di una fase di commercializzazione. Si pensi al caso di una struttura ospedaliera pubblica che acquista da centri trasfusionali esteri
Arietti, Sieropositività conseguente a trasfusione della moglie e successivo contagio del marito: profili di responsabilità civile in una recente sentenza del BGH, in Foro it., 1992, I, c. 808. 23
È probabilmente superfluo ricordare che, in base alla direttiva 99/34/CE, recepita in Italia dal d.lgs n. 25/2001, è stata adottata una definizione piuttosto ampia di “prodotto” (“ogni bene mobile”) e ne sono inclusi anche i prodotti agricoli del suolo e quelli dell’allevamento, della caccia e della pesca (art. 115, comma 2-bis). 21
In questo senso De Cristofaro, Il ‘cantiere aperto’ codice del consumo: modificazioni e innovazioni apportate dal d. legisl. 23 ottobre 2007, n. 221, in Studium iuris, 2008, 269, il quale ritiene che la definizione generale di cui all’art. 3 cod. cons. sia in realtà «destinata a veder circoscritto il proprio ambito ti operatività alla sola regolamentazione (pubblicistica) della sicurezza dei prodotti». L’art. 115 presenta in tal senso un carattere di specialità rispetto alla definizione generale di cui all’art. 3 (Cabella Pisu, Ombre e luci nella responsabilità del produttore, in Contr. e impr., 2008, 624 s.). 22
Biscione, Hiv da trasfusione, emoderivati e responsabilità civile, in Danno e resp., 1996, II, 279 ss.; Arietti, Sieropositività conseguente a trasfusione della moglie e successivo contagio del marito: profili di responsabilità civile in una recente sentenza del BGH, cit., I, c. 808. Secondo Di Costanzo, Il danno da trasfusione ed emoderivati infetti, Napoli, 1998, 152 s., l’attività di raccolta e distribuzione del sangue umano, pur realizzandosi in situazione di non concorrenza tra servizi sanitari, si modella sul presupposto della onerosità degli scambi di unità di sangue, in quanto la l. n. 107/1990 esclude soltanto che vi siano “addebiti accessori ed oneri fiscali aggiuntivi”; ma, continua l’autrice, tali costi sono già inclusi nelle prestazioni sanitarie effettuate. 24
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oppure, per richiamare l’esempio precedente, alla clinica privata che acquista dal Sistema Sanitario Nazionale. In tal senso depone inoltre una interpretazione dell’art. 118 c. cons. che non attribuisce eccessivo valore al concetto di «onerosità» della prestazione25. Sul punto, tra l’altro, la trasposizione della direttiva appare non rispondente alla formula utilizzata dal legislatore europeo, ove si parla di «distribution for economic purpose»26. Ancora, l’interpretazione della norma deve avvenire secondo criteri uniformi nell’ambito del territorio dell’Unione Europea. E proprio sul punto la Corte di Giustizia ha assunto una posizione inequivocabile27: in un caso olandese avente ad oggetto un liquido di perfusione difettoso fabbricato da un ospedale pubblico ed utilizzato per il trapianto di un rene, ha ritenuto applicabile la direttiva europea sul presupposto che le esimenti previste dall’art. 7 lett. c della Direttiva non operano nel caso di una struttura sanitaria che fabbrica un prodotto nell’ambito di una attività economica e professionale. Ad avviso della Corte, infatti, la circostanza per cui i prodotti siano fabbricati «per una prestazione medica concreta non pagata direttamente dal paziente, ma il cui finanziamento è garantito da fondi pubblici versati dai contribuenti, non può essere tale da far venire meno il carattere economico e professionale della fabbricazione di tali prodotti»28.
Dellacasa, Sulle definizioni legislative nel diritto privato, Torino, 2004, in part. 300 s. 25
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Art. 7 dir. n. 85374/CEE.
Corte giust., 10.5.2001, causa C-203/99, Veedfald, in Nuova giur. civ. comm., 2002, I, 181 ss., con nota di Klesta Dosi, Trapianto di rene e responsabilità per danno da prodotti difettosi: un’interpretazione ardita della Corte di Lussemburgo; in Resp. civ. e prev., 2001, 843, con nota di Bastianon, La responsabilità dell’ente ospedaliero alla luce della normativa comunitaria in tema di prodotti difettosi. 27
Corte giust., 10.5.2001, causa C-203/99, Veedfald, cit. Anche perché, continua la Corte, un Ospedale privato, nelle medesime circostanze, “sarebbe senza alcun dubbio responsabile del difetto del prodotto”. Sulla pronuncia cfr. amplius Izzo, La precauzione nella responsabilità civile, cit., 437 ss., il quale ritiene tuttavia che, nella sua estrema laconicità, siano state “enfatizzate alcune porzioni del decisum”. Innanzitutto perché, ad avviso 28
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E d’altro canto, questa interpretazione è in linea con quell’indirizzo dottrinale sostanzialmente dominante nel nostro ordinamento secondo cui, nella lettura delle cause di esclusione dalla responsabilità contemplate all’art. 118 c. cons., è necessaria la ricorrenza del requisito della «vendita» (o della «distribuzione a titolo oneroso») e quello dell’«esercizio di una attività professionale». Secondo questa tesi, i due elementi menzionati dalla norma in esame dovrebbero sussistere congiuntamente, potendosi ravvisare esonero dalla responsabilità a) quando il prodotto non sia destinato alla distribuzione a titolo oneroso e b) quando il produttore non abbia fabbricato il prodotto nell’esercizio di una attività professionale. In tal modo, pur in assenza di una fase di commercializzazione e di uno scopo di profitto, il produttore di sangue infetto non potrebbe essere esonerato da responsabilità in quanto l’attività che egli svolge riveste il carattere della professionalità29. Una interpretazione di segno contrario, tra l’altro, avrebbe un effetto per nulla favorevole al consumatore, perché consentirebbe alle imprese di andare esenti da responsabilità nel caso in cui un bene sia prodotto senza scopo di lucro, per esempio ai fini di una donazione a favore di una orga-
dell’autore, la Corte sembra disgiungere i due requisiti su cui si fonda l’esimente prevista all’art. 118 c. cons. in contrapposizione rispetto a quanto affermato da vari autori (su cui v. infra, nota seguente e testo corrispondente). Ed in secondo luogo in quanto il caso deciso verteva su un prodotto difettoso fabbricato e subito impiegato “nell’ambito di una prestazione medica”, che è caso ben diverso rispetto alla trasfusione di sangue (ibidem, 438). Sulla pronuncia cfr. anche Querci, Sicurezza e danno da prodotti medicali, cit., 132 ss. ed, in senso favorevole alla posizione espressa dalla Corte, Klesta Dosi, Trapianto di rene e responsabilità per danno da prodotti difettosi: un’interpretazione ardita della Corte di Lussemburgo, cit., in part. 187 s. Bin, L’esclusione della responsabilità, in La responsabilità del produttore, a cura di Alpa, Bin e Cendon, nel Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da Galgano, Padova, 1989, 129 ss.; Verardi, Esclusione della responsabilità, in La responsabilità per danno da prodotti difettosi, a cura di Alpa, Carnevali, Di Giovanni, Ghidini, Ruffolo, Verardi, Milano, 1990, 72 ss.; Troiano, nel Commentario breve al diritto dei consumatori, a cura di De Cristofaro e Zaccaria, Padova, 2013, sub art. 118, 778. Contra, Izzo, La precauzione nella responsabilità civile, cit., 436 ss. 29
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nizzazione assistenziale30 oppure «nelle frequenti ipotesi in cui un prodotto viene offerto gratuitamente al pubblico dei consumatori per favorirne la prossima diffusione sul mercato (si pensi ai campioni omaggio)»31. Molti elementi dunque inducono a propendere per la soluzione che annovera il sangue umano e gli emocomponenti nella categoria dei «prodotti». Il dibattito italiano in materia è certamente ricco di contrapposizioni, ma il quesito non appare pienamente risolto nemmeno in altri paesi europei32, se non laddove sia stata inserita una previsione legislativa ad hoc per far ricadere i prodotti del corpo umano nella disciplina della responsabilità del produttore33. Sicuramente meno problemi assume la qualifica di prodotto, con relativa responsabilità, per il settore degli emoderivati. Si è qui in presenza di veri e propri farmaci realizzati attraverso un processo di lavorazione industriale del plasma sanguigno (art. 1, lett. c., l. 21 ottobre 2005, n. 219). Nel complesso, tuttavia, non sembrano porsi ragioni per escludere l’applicazione della disciplina sulla responsabilità da prodotto difettoso ai casi delle bombole di gas, degli emoderivati ed, in ultima analisi, nemmeno per il sangue umano. Di conseguenza, non si ravvisano – quantomeno sul piano formale – ragioni giustificative di quell’in-
Troiano, nel Commentario breve al diritto dei consumatori, a cura di De Cristofaro e Zaccaria, cit., sub art. 118, 778. 30
Dellacasa, Sulle definizioni legislative nel diritto privato, cit., 301. A supporto della tesi l’autore offre anche un esempio interessante: il caso di un bambino danneggiato da un’altalena difettosa costruita in un’officina pubblica e collocata in un giardino pubblico. In tale ipotesi, il bene non può essere alienato a titolo oneroso, né offre prospettive di guadagno per lo Stato (fa parte del suo patrimonio indisponibile). Negare per il caso in questione la possibilità di avvalersi della azione di responsabilità da prodotti difettosi risulterebbe ingiustamente limitativa delle possibilità di azione del danneggiato (ibidem, 303). 31
Un simile percorso, ricco da contrapposizioni, si è registrato nell’ordinamento inglese (cfr. l’analisi di Dellacasa, Sulle definizioni legislative nel diritto privato, cit., 298 ss.). 32
È il caso del legislatore francese che, nel recepire la direttiva comunitaria all’interno del code civil ha espressamente escluso che il produttore sia esonerato da responsabilità quando «le dommage a été causé par un élément du corps humain ou par les produits issus de celui-ci» (art. 1386-12).
dirizzo giurisprudenziale che propende per l’applicazione dell’art. 2050 al danno provocato dalle c.d. res periculosae. A contrario, il significato della regola sulla responsabilità da attività pericolose sembra soffrire, nelle interpretazioni fornite dalla giurisprudenza, di una trasposizione dell’indice di pericolosità dall’attività ai prodotti pericolosi. Sul piano sostanziale, tuttavia, la questione si complica. Per due ragioni. La prima risiede nella possibilità concessa al danneggiato dall’art. 127 c. cons. di invocare un regime di responsabilità più favorevole rispetto alla responsabilità da prodotti difettosi. La seconda, che inevitabilmente si lega alla prima, sta invece nella evidente posizione di favor in cui viene a trovarsi il danneggiato di fronte alla responsabilità dell’esercente un’attività pericolosa: una posizione che non gli è assicurata invocando una responsabilità da prodotti difettosi, specie per l’importanza attribuita in tale settore al c.d. rischio da sviluppo.
4. Responsabilità da prodotto difettoso o disciplina più favorevole al consumatore? La rilevanza dell’art. 127 c. cons. Una prima indicazione che pare giustificare l’orientamento giurisprudenziale si rinviene nell’art. 127, il quale stabilisce che le regole del Titolo II, Responsabilità per danno da prodotti difettosi, «non escludono né limitano i diritti attribuiti al danneggiato da altre leggi». La regola, che ripropone in maniera pressoché fedele l’enunciato contenuto all’articolo 13 della corrispondente direttiva 85/374/CEE (“la presente direttiva lascia impregiudicati i diritti che il danneggiato può esercitare in base al diritto relativo alla responsabilità contrattuale o extracontrattuale o in base ad un regime di responsabilità esistente al momento della notifica della direttiva”), sembra lasciare al danneggiato la libertà di scegliere tra una richiesta di risarcimento danni ai sensi degli artt. 114127 c. cons. ovvero proporre una domanda giudiziale sulla base delle norme di diritto comune34.
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Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità oggettive, Fatti il-
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Sull’interpretazione della norma si registra un orientamento dominante da parte della nostra dottrina, in linea con l’opzione ermeneutica avvalorata anche in altri paesi europei, che tuttavia sembra oggi porsi in contrasto con la posizione assunta sul punto dalla Corte di Giustizia. La dottrina italiana è pressoché compatta nel ritenere che la norma vada interpretata nel senso di consentire al danneggiato da un prodotto difettoso di proporre un’azione di responsabilità disgiunta dagli artt. 114 ss. c. cons. Dunque, rimarrebbe salva la possibilità di ricorrere al regime di responsabilità contrattuale o anche alla responsabilità extracontrattuale in base alle regole di diritto comune (artt. 2043, 2049, 2050, 2051). Una dottrina minoritaria ritiene invece che una tale possibilità sarebbe consentita soltanto laddove esistano norme di legge ad hoc per determinate categorie di prodotti, mentre sarebbe preclusa una applicazione dei rimedi generali previsti dal codice civile35. La giurisprudenza italiana sembra sostanzialmente avallare quanto sostenuto dalla dottrina maggioritaria, ammettendo che si possa ricorrere alla regola generale di cui all’art. 2043 a fronte di un danno da prodotto difettoso36. Il problema è però oggi determinato dalla posizione assunta dalla Corte di Giustizia UE, in una nota pronuncia37. Un giudice di Oviedo, chiamato a decidere su un caso avente ad oggetto proprio il contagio da epatite subito da una paziente a seguito della somministrazione di sangue infetto, solleva di fronte alla Corte di Giustizia una questione pregiudiziale avente ad oggetto l’art. 13 della Direttiva. La Spagna si trova infatti ad avere due testi di legge sulla responsabilità del produttore:
uno antecedente alla disciplina europea, più favorevole al consumatore (l. 19 luglio 1984, n. 26), ed uno di attuazione della direttiva (l. 6 luglio 1994, n. 22), per cui la questione pregiudiziale verte sulla possibilità per il danneggiato di avvalersi della disciplina più favorevole ai sensi dell’art. 13. La Corte fornisce però una interpretazione restrittiva dell’art. 13, affermando che i Paesi membri possono continuare ad applicare una disciplina più favorevole a quella prevista dalla direttiva solo quando essa si basi su fondamenti diversi. Ciò significa che si potrebbe fare applicazione della disciplina prevista per taluni, specifici, settori produttivi e sarebbe consentito il ricorso a regole generali come la garanzia per vizi occulti o la responsabilità per colpa, ma non potrebbe trovare applicazione un regime di responsabilità del tutto analogo a quello derivante dalla disciplina europea sulla responsabilità da prodotto difettoso38. In sostanza, l’art. 13 non consentirebbe il ricorso ad “un regime di responsabilità del produttore che si basi sullo stesso fondamento della disciplina attuata dalla direttiva e che non sia limitato a un settore produttivo determinato”39. Con riferimento alla responsabilità del produttore, la Corte ha dunque adottato una linea interpretativa volta ad ottenere la massima armonizzazione sugli aspetti disciplinati dalla direttiva, al fine di evitare che il gioco della concorrenza tra operatori economici sia falsato da una tutela differenziata dei consumatori40. Lo stesso obiettivo peraltro è ben chiaro nelle due pronunce della Corte recanti la stessa data, ove vengono sanzionati i comportamenti di Francia e Grecia per aver recepito la direttiva europea con disposizioni di favore per
leciti: le responsabilità oggettive, nel Commentario di diritto civile, fondato da Schlesinger, Milano, 2009, 251.
38
Corte Giust. UE, 25 aprile 2002, causa C-183/00, cit.
39
Corte Giust. UE, 25 aprile 2002, causa C-183/00, cit.
Galgano, La responsabilità del produttore, in Contr. e impr., 1986, III, 1011. 35
Cass., 29.4.2005, n. 8981, in Giust. civ., 2006, I, 617; Trib. Venezia, 14.2.2005, in Danno e resp., 1005, 1125. 36
Corte Giust. UE, 25.4.2002, causa C-183/00, in Foro it., 2002, IV, 294, con nota di Palmieri-Pardolesi; in Danno e resp., 2002, 725, con nota di Ponzanelli; in Resp. civ. e prev., 2002, 980, con nota di Bastianon; in Nuova giur. civ. commentata, 2003, I, 119, con nota di Lenoci. 37
In antitesi rispetto a quanto enunciato nel diciottesimo considerando della direttiva, che peraltro, secondo l’interpretazione della stessa Corte, sembra avere portata limitata agli aspetti non disciplinati dalla direttiva europea (Corte Giust. CE, 21.12.2011, causa C-495/10, in Danno e resp., 2012, 957, con nota di Frata, Il danno da prodotto difettoso nelle prestazioni sanitarie: la Corte di Giustizia e l’armonizzazione “totale”). 40
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il consumatore41, mentre una differente opzione ermeneutica sembra emergere in pronunce più recenti42. La pronuncia è stata fortemente criticata dalla dottrina italiana, perché sembra propendere per una interpretazione anacronistica della direttiva sulla responsabilità da prodotto difettoso, che di fatto tende a privilegiare la posizione dell’impresa rispetto al consumatore, in una logica di depotenziamento dell’approccio pro-consumeristico attuato negli ultimi decenni dal legislatore europeo43. Inoltre, nella posizione assunta dalla Corte di Giustizia si registra una palese distonia tra un obiettivo di armonizzazione totale nel campo della re-
I legislatori francese e greco avevano omesso di inserire nelle leggi di recepimento della direttiva europea la franchigia che esclude dalla risarcibilità i danni a cose inferiori a 500 euro (Corte Giust. CE, 25.4.2002, causa C-154/00 e Corte Giust. CE, 25.4.2002, causa C-52/00, in Foro it., 2002, IV, 294, con nota di Palmieri-Pardolesi). 41
Corte Giust. UE, 4.6.2009, causa C-285/08, in Resp. civ. e prev., 2010, 1006, con nota di Venchiarutti, Applicazione estensiva della direttiva sulla responsabilità dei danni da prodotti difettosi: un nuovo equilibrio tra competenze comunitarie e interne?; in Danno e resp., 2010, 125, con nota di Arbour, Armonizzazione del diritto e prodotti difettosi. 42
Particolarmente critici nei confronti della posizione assunta dalla Corte sono Palmieri- Pardolesi, Difetti del prodotto e del diritto privato europeo, in Foro it., 2002, IV, 295: “il fatto è che la Corte di giustizia legge la direttiva come se il calendario segnasse sempre l’anno 1983. Dalla sua emanazione sono trascorsi più di tre lustri, nei quali il Trattato di Roma ha cambiato volto e, in particolare, la protezione dei consumatori è uscita dalla semiclandestinità, per affermarsi come uno degli obiettivi complementari alla realizzazione del mercato comune, fino al punto di ricevere una definitiva consacrazione con l’inclusione nella “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”. Critiche si leggono anche in Ponzanelli, Armonizzazione del diritto v. protezione del consumatore: il caso della responsabilità del produttore, in Danno e resp., 2002, 728 ss., in particolare 730; Arbour, Corte di giustizia e protezione delle tradizioni giuridiche nell’interpretazione della Direttiva CEE/374/85, in Danno e resp., 2003, 375 ss. Sulla questione cfr. anche Jourdain, nell’articolo dall’eloquente titolo Une Loi pour rien? (à propos de la loi du 19 mai 1998 relative à la responsabilité du fait des produits défectueux), in Responsabilité civile et assurances, 1998, Chronique 16. Una posizione favorevole rispetto alla decisione della Corte di Giustizia è invece formulata da Cabella Pisu, Ombre e luci nella responsabilità del produttore, cit., 622 s. 43
sponsabilità del produttore ed un’interpretazione dell’art. 13 della direttiva che fa salva l’applicazione “di altri regimi di responsabilità contrattuale o extracontrattuale”. La Corte nega al danneggiato la possibilità di avvalersi di una disciplina che abbia lo stesso fondamento della direttiva europea, e cioè un regime di responsabilità che preveda l’onere per il danneggiato di fornire prova “del danno, del difetto e della connessione causale tra il suddetto difetto e il danno”44, ma ammette il ricorso a regole che si bano su elementi diversi, come la colpa o la garanzia per vizi occulti. In tal modo, tuttavia, il confine tra regole compatibili e regole incompatibili con la direttiva europea viene segnato da un criterio per nulla inequivocabile, come quello del diverso fondamento della responsabilità45. Non può non rilevarsi, infatti, come di incerta definizione appaiono i criteri di imputazione della responsabilità diversi dalla colpa e come la linea che conduce dalle responsabilità oggettive alla responsabilità per colpa sia segnata da una notevole diversificazione dei criteri di imputazione (dalla presunzione di colpa alla responsabilità semi-oggettiva)46. Va ricordato, tra l’altro, che la stessa disciplina europea non si fonda su una ipotesi tipica di responsabilità oggettiva47, perché al danneggiato compete l’onere di fornire la dimostrazione della difettosità del prodotto48. Lo spazio che residua per discipline proprie dei singoli ordinamenti nazionali diviene così di incerta definizione e la rigida interpretazione della Corte di giustizia finisce col rendere sempre meno incentivante il ricorso ad una responsabilità che nel corso degli anni ha ricevuto scarsissima applicazione, a favore di un ricorso a regole maggiormente “sicure” per il danneggiato.
44
Corte Giust. UE, 25.4.2002, causa C-183/00, cit.
Parla di un criterio “da un lato evanescente, dall’altro inidoneo ad una selezione così impegnativa” Dellacasa, Sulle definizioni legislative nel diritto privato, cit., 275. 45
Dellacasa, Sulle definizioni legislative nel diritto privato, cit., 275 s. 46
È solo la direttiva 99/34/CE, all’ottavo considerando, che parla espressamente di responsabilità oggettiva. 47
48
Cfr. infra, ult. paragrafo.
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È su questo terreno che si gioca la partita dell’art. 2050. La regola, che costituisce anch’essa un chiaro esempio di come la responsabilità oggettiva non sia passibile di rigide definizioni normative, viene invocata con riferimento a prodotti difettosi o pericolosi. Ma in presenza di un difetto del prodotto è possibile, ex art. 127 c. cons., fare applicazione dell’art. 2050 c.c.? Stando a quanto affermato dalla Corte di Giustizia una tale opzione interpretativa dovrebbe essere esclusa, trattandosi di un regime di responsabilità che di fatto si sovrappone a quello previsto in materia di product liability. Ciò significa che per i danni cagionati da sangue o emoderivati infetti oppure per lo scoppio di una bombola di gas difettosa, si potrebbe far ricorso all’art. 2043 oppure alla garanzia per vizi occulti, ma non alla regola di cui all’art. 2050. Di conseguenza, non solo l’art. 127 c. cons. non potrebbe essere la chiave di lettura della posizione assunta dalla nostra giurisprudenza, ma addirittura tale regola dovrebbe escludere il ricorso ad una ipotesi di responsabilità oggettiva che non sia quella da prodotto difettoso. Ora, si è già detto di come appaia poco convincente, per una serie di ragioni tanto formali quanto sostanziali, la posizione assunta dalla Corte di Giustizia. In primis, perché non è definita con sicurezza la linea di confine tra la responsabilità ex art. 2050 e la responsabilità da prodotto difettoso di cui alla Direttiva comunitaria. Ed in secondo luogo, perché la vocazione pro-consumeristica della product liability verrebbe definitivamente ad infrangersi contro una rigida interpretazione dei criteri che consentono il ricorso a regole di responsabilità più favorevoli per il consumatore. E con ciò si finisce inevitabilmente per interrogarsi sulla seconda ragione, questa volta sostanziale, che conduce la nostra giurisprudenza, sospinta in questo senso dagli avvocati dei danneggiati, a percorrere la strada della responsabilità ex art. 2050. La vera ratio dell’orientamento giurisprudenziale in discussione è rappresentata dalla evidente posizione di favor in cui viene a trovarsi il danneggiato qualora l’attività da cui promana il danno sia definita pericolosa. A differenza di quanto accade nella responsabilità per danno da
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prodotti difettosi, che conosce due tasselli forieri di problemi per il danneggiato: al produttore è consentito liberarsi attraverso la dimostrazione del rischio da sviluppo e il danneggiato, in base alla lettera della legge ma anche di una rigida interpretazione della Suprema Corte, deve dimostrare il difetto del prodotto.
5. Responsabilità da prodotti difettosi e onere della prova: l’inevitabile curvatura verso la responsabilità da attività pericolose In realtà, la vera ragione che spinge i nostri Giudici (sollecitati in tal senso dagli avvocati dei danneggiati) a chiedere l’applicazione dell’art. 2050 in luogo degli artt. 114-127 c. cons. è la evidente posizione di favor in cui viene a trovarsi il danneggiato di fronte alla responsabilità dell’esercente una attività pericolosa. Sul piano formale, il problema è dato in particolare dal c.d. rischio da sviluppo, che costituisce prova liberatoria per il produttore ai sensi dell’art. 118, lett. e), c. cons., mentre l’esercente di una attività pericolosa può liberarsi soltanto dimostrando di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Dunque, la dimostrazione che lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche non permetteva di rilevare il difetto del prodotto potrebbe non costituire prova liberatoria per l’esercente l’attività pericolosa, il quale deve fornire dimostrazione di un fatto inquadrabile nel caso fortuito. Il che si traduce nella necessità di dimostrare che nel momento di lavorazione del prodotto non esisteva alcuna possibilità, nemmeno mediante il ricorso a tecniche nuove, di individuare il «difetto» del prodotto. Tale diversità nel regime probatorio è particolarmente significativa nel settore degli emoderivati e giustifica la tendenza dei legali a chiedere l’applicazione dell’art. 205049.
In argomento cfr. Querci, Responsabilità per danno da farmaci: quali i rimedi a tutela della salute?, in Danno e resp., 2012, 356 ss. 49
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Ma il problema non è limitato al dato formale. Sul piano del diritto applicato, si è assistito nel corso degli anni ad una tendenza giurisprudenziale a rendere ancor più complessa la posizione del danneggiato, per le difficoltà incontrate nel fornire la prova del difetto del prodotto. Sul punto, infatti, la Corte di Cassazione, a differenza della giurisprudenza di merito, sembra attestarsi su un orientamento piuttosto rigoroso: nel richiedere la prova del difetto, insieme alla prova del danno e della connessione causale tra difetto e danno (come previsto dall’art. 120 cod. cons.), esclude che il difetto sia dimostrato quando il danno risulti eziologicamente collegato al prodotto e non sia possibile individuare una diversa causa alla quale ascrivere il danno occorso al consumatore50. Nelle applicazioni della giurisprudenza si è assistito nel corso degli anni ad un graduale distacco da quel regime di responsabilità oggettiva che pareva essere la base portante della responsabilità del produttore51. E le pochissime decisioni rese dalla giurisprudenza52
Per una analisi più completa sia consentito rinviare ad Ar. Fusaro, Responsabilità del produttore: la difficile prova del difetto, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 896. 50
Si veda in proposito Cass., 8.10.2007, n. 20985, in Foro it., 2008, I, 1, 143 e Cass., 15.3.2007, n. 6007, in Foro it., 2007, I, 2415, ove si scorgono elementi (come la necessità che il danneggiato dia prova del difetto del prodotto) che fanno propendere per una non completa ricostruzione della responsabilità del produttore nei termini di una responsabilità oggettiva. Cfr. Palmieri, Difetto e condizioni di impiego del prodotto: ritorno alla responsabilità per colpa?, in Foro it., 2007, I, 2415; Maietta, Scoppio di bombola a gas: esercizio di attività pericolosa o danni da prodotto difettoso?, cit., 658 s. Si v. però anche Caruso-Pardolesi, Per una storia della Direttiva 1985/374/CEE, in I 25 anni di products liability, a cura di Pardolesi e Ponzanelli, numero speciale di Danno e resp., 2012, ove gli autori rilevano come sin dall’origine, al di là del dato formale, la direttiva europea mostrava elementi tali da testimoniare come “la seduttiva semplicità del paradigma di responsabilità oggettiva … andava evaporando” (15). 51
Basti pensare che negli anni novanta si registra meno di una decina di decisioni (Trib. Monza, 20.7.1993, in Foro it., 1994, I, c. 251; in Contratti, 1993, 539; in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, 124; Trib. Milano, 23.3.1995, in Contratti, 1996, 374; Trib. Monza, 11.9.1995, in Resp. civ. e prev., 1996, 371; Trib. Roma, 17.3.1998, in Foro it., 1998, I, c. 3660). Cfr. amplius le analisi di Palmieri-Pardolesi, Difetti del prodotto e del diritto privato europeo, cit.; Cabella Pisu, Ombre e luci nella responsabilità del produttore, cit., 617 ss. 52
sulla base di tale disciplina ben testimoniano di quale ne sia il deludente bilancio a 25 anni dall’emanazione della direttiva. È pur vero che negli ultimi anni la responsabilità da prodotto difettoso sembra conoscere una nuova stagione, con un numero crescente di pronunce rese dai nostri giudicanti. Ed è altresì significativo che nuovi strumenti della responsabilità civile, dal risarcimento del danno non patrimoniale alla possibilità di agire collettivamente con l’azione di classe, possano porre le basi per un utilizzo meno sporadico di tali regole53. Ma nel complesso le decisioni in cui si registra applicazione della disciplina di derivazione comunitaria rimangono al momento piuttosto scarse. È possibile che le regole sulla responsabilità da prodotto difettoso conoscano in futuro nuovi percorsi interpretativi, maggiormente favorevoli alla posizione del danneggiato, ad opera della giurisprudenza. Non è escluso nemmeno che il legislatore europeo intervenga sulla direttiva proprio in tema di onere della prova. La Quarta relazione sull’applicazione della Direttiva54, infatti, ha evidenziato un problema in vari ordinamenti, tra cui l’Italia, proprio con riferimento a tale specifica questione: si legge che per i danneggiati è “notevolmente difficile provare che il danno è stato causato da un difetto del prodotto” e che pertanto “bisognerebbe modificare la direttiva per inserire una presunzione di responsabilità del produttore o un meccanismo di rovesciamento dell’onere della prova”.
Ponzanelli, in I 25 anni di products liability, cit., 5 ss. Cfr. anche l’analisi di Querci, Responsabilità da prodotto negli Usa e in Europa. Le ragioni di un revirement “globale”, in Nuova giur. civ. comm., 2011, II, 115 ss. 53
Ad oggi la Commissione europea ha già predisposto quattro relazioni sull’applicazione della dir. n. 374/1985 CE, di cui l’ultima, la quarta, si riferisce al periodo 2006-2010 ed esamina l’applicazione della direttiva nei 27 stati membri (Quarta relazione sull’applicazione della direttiva 85/374/CEE del Consiglio, del 25 luglio 1985, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, modificata dalla direttiva 1999/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 10 maggio 1999). 54
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Al momento tuttavia le carenze della disciplina sulla responsabilitĂ del produttore sul piano della tutela effettiva del consumatore spiegano le ragioni per cui in sede di richieste di risarcimento danni da emoderivati infetti vi sia una chiara tendenza a prediligere la strada della responsabilitĂ da attivitĂ pericolose.
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i g Saggi e pareri Saggi e pareri ag i s rer e a Autodeterminazione p dell’incapace ed effettività della tutela: gli obblighi della P.A. Marco Azzalini
Professore nell’Università di Bergamo Sommario: 1. Corsi e ricorsi: la fase “postuma” del caso Englaro. – 2. La responsabilità della Pubblica Amministrazione per inattuazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica. – 3. Responsabilità della Pubblica Amministrazione: l’elemento soggettivo tra “dolo lato” e nuove declinazioni della colpa. – 4. Ineludibilità dell’obbligo assistenziale in capo alla Pubblica Amministrazione. – 5. Obbligo di tutela del paziente e limiti alla discrezionalità della P.A. – 6. Obiezione di coscienza nell’attuazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica? Spunti critici. – 7. Osservazioni conclusive.
Abstract: Il contributo affronta il più recente – e verosimilmente ultimo – sviluppo del caso Englaro, esaminando l’articolata presa di posizione del Consiglio di Stato in ordine alla ritenuta illiceità della condotta della Pubblica Amministrazione, e alla conseguente responsabilità anche sul piano risarcitorio, laddove si sottragga ai propri obblighi assistenziali nei confronti di un paziente incapace che rivendichi il diritto all’autodeterminazione terapeutica. This analysis tackles the last developments of the Englaro case: it examines the position of the Consiglio di Stato on the public administration’s liability that arises from the breach of its duty of care to an incompetent patient who claims his/her right of self determination in health care.
studiosi in ragione di una ulteriore pronuncia della giustizia amministrativa relativa alla nota vicenda che ha avuto per protagonisti la paziente in coma da molti anni e il padre, tutore determinato a ottenere per la figlia quella sospensione del trattamento di sostegno vitale che secondo quanto ricostruito nel corso di una articolatissima vicenda giudiziaria, la giovane non avrebbe mai accettato di subire. Ecco che a oltre otto anni dalla morte di Eluana Englaro, il Consiglio di Stato, tornando ad esprimersi con riguardo ad uno specifico aspetto della vicenda1, ha recentemente arricchito di un ulteriore, importante tassello il quadro giuridico di un caso fattosi simbolo della “lotta” per il rico-
La pronuncia da cui muovono le nostre riflessioni è Cons. Stato, III sez., 21.6.2017, n. 3058: ma in precedenza il Consiglio di Stato si era già espresso censurando il contegno della Regione Lombardia con riguardo al caso de quo: cfr. Cons. Stato, III sez., 2.9.2014, n. 4460, in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 74; cfr. sul punto quantomeno anche il contributo di Ferrara, Il caso Englaro innanzi al Consiglio di Stato, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, 11. 1
1. Corsi e ricorsi: la fase “postuma” del caso Englaro Come in una storia che pare non finire mai, il caso Englaro torna all’attenzione delle cronache e degli
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noscimento del diritto all’autodeterminazione terapeutica nel nostro paese2. Con la sentenza n. 3058/2017 si è infatti pervenuti alla definizione di quella che dovrebbe rappresentare l’ultima, ben delimitata questione ancora sub iudice in relazione al noto caso, vale a dire la decisione definitiva “concernente l’eventuale responsabilità risarcitoria della Regione Lombardia, in conseguenza dei danni asseritamente derivanti dal provvedimento illegittimo annullato dalla citata sentenza n. 214/2009, confermata in appello”. Trattasi dunque del segmento della vicenda relativo al diniego a suo tempo opposto da parte della Regione Lombardia a fornire alla paziente l’assistenza sanitaria necessaria a eseguire la pronuncia3 che aveva riconosciuto in capo alla medesima il diritto alla sospensione dei trattamenti di nutrizione e idratazione che la tenevano in vita, in una condizione riconosciuta incompatibile con il suo profilo identitario come ricostruito in esito ad una compiuta istruttoria, e con la visione del mondo e dell’esistenza e il complesso valoriale da costei fatto proprio prima dell’incidente che ne aveva determinato l’estremo grado di infermità. Gran parte di questo ulteriore percorso giudiziario, innestatosi sul primo, ha dunque trovato sviluppo dopo la morte di Eluana Englaro, divenendo dunque un sorta di costola “postuma” di una vicenda che ha assunto sempre più i caratteri del vero e proprio leading case italiano in matria. In particolare, il Consiglio di Stato ha confermato nel complesso, seppure con alcune precisazioni
La vicenda Englaro è assai nota e la letteratura sul punto appare oramai sterminata. Ad ogni modo, per un esame della vicenda nella sua prima fase, nonché per una presa di posizione sui temi di fondo inerenti il caso, si permetta il rinvio ad Azzalini, Tutela dell’identità del paziente incapace e rifiuto di cure: appunti sul caso Englaro, in Nuova giur. civ. comm., 2008, II, 331 ss. e riferimenti ivi indicati. 2
Una pregevole disamina critica della vicenda e delle questioni connesse è operata da Molaschi, Riflessioni sul caso Englaro. Diritto di rifiutare idratazione ed alimentazione artificiali e doveri dell’amministrazione sanitaria, in Foro amm., 2009, 981 ss.; l’intervento è a commento di T.A.R. Lombardia, III sez., 26.1.2009, n. 214, ibidem; per un ulteriore approfondimento dei molteplici risvolti della vicenda, taluni anche sconcertanti, cfr. Rodotà, Il caso Englaro: una cronaca istituzionale, in Micromega, 2009, 81 ss. 3
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e modifiche specie concernenti la qualificazione dell’elemento soggettivo dell’illecito e la quantificazione del danno risarcibile, l’impostazione già fatta propria dalla precedente pronuncia del T.A.R. della Lombardia oggetto di impugnazione dal parte della Regione4, tornando a censurare e qualificare in termini di illiceità il contegno della Pubblica Amministrazione, considerato tale da aver leso, ad un tempo, sia il fondamentale diritto della paziente all’autodeterminazione terapeutica, che il suo diritto all’effettività di quella tutela giurisdizionale che già le avrebbe dovuto essere stata garantita da ben due importanti pronunce, la prima resa dalla Corte di cassazione e la seconda resa della Corte d’appello di Milano, quale giudice del rinvio. Con quest’ultima pronuncia, la giustizia amministrativa torna ad occuparsi sostanzialmente di tutti i temi chiave del caso, quasi vi fosse, anche al di là dell’oggetto specifico del giudizio, la necessità di ulteriormente ribadire i principi già precedentemente fissati in più sedi.
2. La responsabilità della Pubblica Amministrazione per inattuazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica A un attento sguardo, la recente pronuncia del Consiglio di Stato non sembra annoverare, tra i suoi temi centrali, quello concernente il problematico inquadramento teorico della responsabilità risarcitoria in capo alla Pubblica Amministrazione per lesione di interessi legittimi o financo di diritti assoluti. Da un lato, il dibattito sviluppatosi negli anni in ordine all’ascrivibilità di tale fattispecie all’ambito della responsabilità contrattuale, della responsabilità extracontrattuale o a quello di un non sempre ben definito tertium genus – dibattito noto, articolato, interessante e per molti versi ricco di spunti di riflessione concernenti pure l’intera struttura e architettura sistematica della responsa-
Cfr. T.A.R. Lombardia, III sez., 6.4.2016, n. 650, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 1194 ss., con nota di Favilli, La responsabilità della pubblica amministrazione nel caso Englaro. 4
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bilità civile, riguardate anche in una prospettiva evolutiva5 – sembra porsi per così dire “a monte” della pronuncia, in una chiave tale da non divenire, quantomeno nella prospettiva fatta propria dal Consiglio di Stato, decisivo per la medesima: e ad ogni modo la questione viene ritenuta superata dal giudicante attraverso un puntuale riconoscimento, nel caso di specie, di tutti gli elementi caratterizzanti lo “schema” dell’illecito civile tradizionalmente inteso, com’era del resto avvenuto nel giudizio di primo grado. E con ciò in realtà il Consiglio di Stato pare fare propria l’idea che la cosiddetta “specialità” della responsabilità risarcitoria della Pubblica Amministrazione vada in fin dei conti ricondotta comunque all’ambito dell’illecito aquiliano, pur con taluni adattamenti legati, da un lato, alle caratteristiche peculiari del soggetto che si afferma essere autore dell’illecito, vale a dire la Pubblica Amministrazione, e, dall’altro, allo sfuggente ed ondivago inquadramento del rapporto talvolta preesistente col privato6; il
Nel mare magnum delle prese di posizione in subiecta materia, ci limiteremo a qualche indicazione essenziale: nel senso della riconducibilità della responsabilità in questione al paradigma extracontrattuale, già Busnelli, Dopo la sentenza n. 500. La responsabilità civile oltre il muro degli interessi legittimi, in Riv. dir. civ., 2000, I, 335 e Id., La responsabilità per esercizio illegittimo della funzione amministrativa vista con gli occhiali del civilista, in Dir. amm., 2012, 531; cfr. anche, per una recente riflessione sulla “specialità” della fattispecie, Saviotti, La natura speciale della responsabilità civile della Pubblica amministrazione. Incompatibilità con i modelli di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in Dir. mar., 2015, 605 ss.; per un approfondimento tematico cfr. Fracchia, Risarcimento dei danni da c.d. lesione di interessi legittimi: deve riguardare i soli interessi a «risultato garantito»?, in Foro it., 2000, II, 479 ss.; ragiona nel senso della riconduzione del fenomeno alla responsabilità contrattuale L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003; cfr., in generale, anche Zito, Il danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa. Riflessioni sulla tutela dell’interesse legittimo, Napoli, 2003, passim; cfr. anche già Castronovo, Responsabilità civile per la pubblica amministrazione, in Jus, 1998, 651 ss. 5
L’ambiguità cui accenno nel testo risiede nel fatto che il c.d. preesistente rapporto col privato può trovare svariati fondamenti, in realtà non sempre riconducibili al fenomeno contrattuale propriamente inteso, ma piuttosto ad una dimensione di contatto o provvedimentale; tuttavia è su si6
che del resto avviene anche con riguardo altri tipi e ambiti di responsabilità, anche piuttosto eterogenei, che, pur riconducibili alla “galassia” dell’illecito, differiscono per particolari caratteri della fattispecie o della disciplina da quello schema tradizionale che non sempre appare più in grado di esprimere a pieno il senso e la complessità di talune situazioni7. Più che dedicarsi a questioni di inquadramento sistematico della responsabilità della Pubblica Amministrazione, tuttavia, anche in questa pronuncia, come fu per la precedente riguardante il caso Englaro, il Consiglio sembra voler tornare, seppure da una angolazione diversa, legata all’oggetto specifico del giudizio, sulla questione di merito legata alla centralità del diritto all’autodeterminazione terapeutica anche con riguardo alla posizione della persona incapace, e in particolare sugli ineludibili obblighi attuativi di tale diritto sussistenti in capo alla Pubblica Amministrazione: e non a caso il Collegio ripropone, in seno alla pronuncia, ampi passi della ormai celebre sentenza n. 21748/2007 con cui la Corte di cassazione non solo riconobbe la piena sussistenza del diritto all’autodeterminazione terapeutica in capo anche alla persona incapace, ma tracciò una sorta di dettagliato percorso argomentativo concernente la dinamica di possibile estrinsecazione di tale diritto, affrontando in maniera compiuta e puntuale, in una analisi organica, un nodo di questioni eviden-
mili fenomeni che pare fondarsi talora l’idea di una possibile matrice contrattuale della responsabilità in questione, cfr. ex multis già Cons. Stato, 6.8.2001, n. 4239, in Foro it., 2002, III, 1 con nota di Casetta e Fracchia, Responsabilità da contatto, profili problematici; più di recente cfr. Cass., 21.7.2011, n. 15992, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 172 ss. con nota di Montani, Tra responsabilità civile e contrattuale: il contatto sociale. Si pensi anche solo, a mero titolo esemplificativo, alla fattispecie volta ad accordare il ristoro del pregiudizio conseguente all’irragionevole durata del processo, laddove la normativa di riferimento, la c.d. legge Pinto, peraltro più volte oggetto di interventi riformatori e di interventi della Consulta, appare caratterizzata da peculiarità tali da renderla non sempre omogenea allo schema tradizionale cui faccio riferimento nel testo. Sul punto sia consentito il rinvio ad Azzalini, L’eccessiva durata del processo e il risarcimento del danno: la legge Pinto tra stalli applicativi e interventi riformatori, in Resp. civ. e prev., 2012, 1702 ss. 7
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temente assai delicate e di non facile soluzione in un sistema nel quale il quadro delle fonti andava adeguatamente inteso e interpretato e in un contesto caratterizzato da una ridda di polemiche non sempre pertinenti e quasi mai capaci di cogliere le questioni di fondo attorno a cui ruotava la delicata e importante pretesa che Beppino Englaro era deciso a far valere quale tutore della figlia. Viene dunque ripercorso quel sentiero argomentativo tracciato a suo tempo dalla Supr. Corte, ma affrontandolo da una angolatura diversa, e considerandolo ai fini dell’accertamento dell’illiceità del contegno di quell’Amministrazione che non garantì ad Eluana Englaro la tutela effettiva di un diritto essenziale, al punto che il padre-tutore della paziente dovette adoperarsi al fine di trovare accoglienza e tutela altrove, il che poi, come noto, avvenne a seguito della disponibilità manifestata da una struttura del Friuli-Venezia Giulia. In definitiva, al centro dell’argomentazione della sentenza n. 3085/2017 del Consiglio di Stato, anche a prescindere da altri aspetti di interesse (ad esempio concernenti i profili strettamente risarcitori, che noi tuttavia non affronteremo nella presente sede in quanto, in fondo, a nostro modo di vedere meno rilevanti rispetto alla ricostruzione sistematica dell’illecito perpetrato dalla P.A. e ai temi connessi), non si pone tanto una astratta o aprioristica presa di posizione in ordine all’inquadramento teorico della responsabilità risarcitoria della Pubblica Amministrazione, o una disamina categoriale volta ad un inquadramento preciso del fenomeno in schemi classici, bensì un’analisi puntuale dei singoli elementi costituitivi della fattispecie di responsabilità dell’Amministrazione ove non agisca in ottemperanza di quegli obblighi che necessariamente conseguono alla sussistenza effettiva di un diritto, giudizialmente riconosciuta, rappresentandone il necessario momento attuativo: dal momento che, come già si è avuto modo di scrivere oramai un decennio fa in relazione al caso Welby – laddove il Tribunale di Roma giunse, ad un certo punto, all’affermazione dell’esistenza del diritto al rifiuto di cure, vanificandola poi in toto attraverso l’incredibile precisazione secondo cui, ad avviso del giudicante, il diritto tuttavia mancava di strumenti attuativi adeguati – un diritto privo di garanzia di attuazione finisce col non
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essere nemmeno tale, col perdere ogni portata e ogni peso8; il che, già grave per qualsiasi tipo di diritto, diventa vieppiù inaccettabile in rapporto a un diritto fondamentale qual è quello alla piena autodeterminazione terapeutica del soggetto; un diritto, non va dimenticato, che è espressione ed estrinsecazione anche di quel diritto alla salute che il Costituente scelse – unico diritto tra molti pur importanti – di qualificare espressamente, nella formulazione dell’art. 32 Cost., come fondamentale.
3. Responsabilità della Pubblica Amministrazione: l’elemento soggettivo tra “dolo lato” e nuove declinazioni della colpa I referenti essenziali per la soluzione del caso Englaro e di molti casi analoghi sono rinvenibili, come già accennato, nella fondamentale sentenza n. 21748/2007, con la quale la Supr. Corte ha chiarito, in maniera ineccepibile e affrontando le molteplici e delicate sfaccettature del problema, come il diritto di cui sopra non possa non spettare, pur in presenza di ineludibili presupposti che vanno verificati in concreto, anche alla persona che versi in stato di incapacità. Proprio per tale ragione, ci pare, il Consiglio di Stato sceglie di attribuire a quella pronuncia anche una ulteriore valenza chiave ai fini della ricostruzione dell’elemento soggettivo da riconoscersi sussistente in capo alla P.A. rispetto alla responsabilità risarcitoria. E ciò fa legando espressamente alla consapevolezza, da parte dell’Amministrazione, dell’esistenza di quella articolata ed inequivocabile pronuncia, la sussistenza, provata per tabulas, dell’elemento psicologico quantomeno della colpa nel contegno
A suo tempo, in relazione a quella vicenda ed in particolare al provvedimento assunto dal Tribunale di Roma in sede cautelare, chi scrive si espresse in senso fortemente critico, censurando l’operato di un Giudice che, di fatto, aveva abdicato al compito ermeneutico rifugiandosi in una sorta di inammissibile non liquet, dopo aver però riconosciuto, in astratto, la fondatezza delle ragioni di Welby; cfr. già Azzalini, Il rifiuto di cure: riflessioni a margine del caso Welby, in Nuova giur. civ. comm., 2007, II, 313 ss. e riferimenti ivi indicati. 8
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tenuto verso la paziente attraverso il diniego di assistenza che, come noto, costrinse poi il tutore a rivolgersi altrove per tentare di ottenere l’esecuzione della precedente pronuncia coperta da giudicato: “Non può condividersi, allora, la tesi della Regione, diretta a sostenere che, all’epoca del provvedimento di rifiuto, potessero ancora sussistere incolpevoli dubbi circa il proprio obbligo di eseguire il trattamento sanitario richiesto dalla stessa persona assistita, nell’esercizio della sua libertà di cura: tale obbligo, definito analiticamente dalle pronunce del giudice civile intervenute sulla vicenda, discende direttamente dalla natura e dall’oggetto del diritto riconosciuto alla persona assistita, alla luce dei principi costituzionali direttamente applicabili. Deve aggiungersi, inoltre, che la Cassazione aveva chiaramente ed espressamente qualificato l’attività diretta alla sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiale dell’assistito come trattamento sanitario, affrontando e risolvendo puntualmente proprio uno dei profili più discussi e delicati della questione. Sicché, all’epoca del provvedimento di rifiuto, secondo parametri di ordinaria diligenza non poteva ragionevolmente porsi in dubbio l’obbligo della Regione – che aveva già in cura la persona assistita da ben 17 anni – di adottare, tramite le proprie strutture, le misure corrispondenti al consenso informato espresso dalla persona, come definite dalle pronunce del giudice civile, che aveva accertato – con decisione passata in giudicato – l’esistenza di una idonea e valida manifestazione di volontà in tal senso”. E in altri passi della pronuncia il Consiglio di Stato sottolinea anche l’ostinazione colpevole della Regione nel non aver rivisto la propria posizione neppure a seguito delle intervenute, numerose statuizioni giurisprudenziali tutte in contrasto con le tesi fatte proprie dall’Ente. In ciò, nel rilievo determinante attribuito alla presenza di una base giurisprudenziale specifica ai fini della valutazione dell’elemento soggettivo del contegno generatore di responsabilità, sta senza dubbio un profilo di interesse del dictum in commento. Ciò che tuttavia desta qualche motivata perplessità è che, su basi siffatte, il Consiglio di Stato sia poi pervenuto alla riforma, sul punto, della pro-
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nuncia n. 650/2016 del T.A.R., ritenendo il contegno della P.A. colposo e non doloso. A tal fine, vengono delineate due accezioni di dolo: una definita “estrema”, connotata da un contegno il cui fine sia la realizzazione di un pregiudizio, ed una più “lata”, intesa “come piena consapevolezza della esistenza del dovere e della deliberata volontà di non adempierlo”. Se il primo dolo viene escluso ritenendo che con il suo diniego di assistenza la Regione avesse, “dal suo unilaterale punto di vista soggettivo” agito nella convinzione della necessità di tutelare la vita della paziente quale che essa fosse, il secondo dolo viene anch’esso escluso, in maniera per vero piuttosto fumosa, ritenendo che “le ragioni indicate nell’atto non si riduc[essero] ad una frontale e apodittica volontà di non adempiere, ma esprim[essero], comunque, l’asserita – per quanto infondata – convinzione dell’assenza di un puntuale obbligo di esecuzione”: ciò detto, il Consiglio di Stato, ritenendo non adeguatamente provata la sussistenza di un dolo “lato”, finisce con il ricondurre la condotta della Regione ad una palese carenza di diligenza, attribuendo dunque carattere colposo al diniego assistenziale. È questo, ad avviso di chi scrive, il punto più debole della sentenza, anche perché solleva molteplici interrogativi sull’ossimoro di una sorta di colpa volontaria, che appare, nel caso di specie, come ben più di una colpa cosciente, stante la ostinata pervicacia, sottolineata peraltro anche dal giudicante, con cui la Regione si ostinò nel suo diniego di tutela. Viene dunque da chiedersi se ciò non bastasse ampiamente, come ritiene chi scrive e sembra a tratti ritenere anche il Consiglio di Stato, salvo poi giungere a conclusione diversa, per confermare la sentenza del T.A.R. anche con riguardo a tale aspetto. E viene da chiedersi anche che altro vi sarebbe voluto per determinare il riconoscimento della presenza quantomeno di quel dolo “lato” cui il Consiglio di Stato si riferisce in più passaggi della pronuncia: al punto che qui sembra venir esteso in maniera eccessiva, e in bonam partem per l’Amministrazione, l’ambito concettuale della colpa, in quanto, nel caso di specie, anche ad ammettere la presenza di una negligenza inescusabile nella valutazione della situazione, non v’è dubbio che la stessa, anche ove si sia Responsabilità Medica 2017, n. 3
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determinata, sia poi stata tuttavia ampiamente superata da un contegno inequivocabilmente volitivo e pressoché irragionevolmente oppositivo che con l’idea di fondo della colpa sembra avere poco a che fare, trascolorando pressoché certamente, a nostro avviso, nella dimensione dolosa.
4. Ineludibilità dell’obbligo assistenziale in capo alla Pubblica Amministrazione Anche prescindendo comunque dal discutibile inquadramento, da parte del Consiglio di Stato, dell’elemento soggettivo connotante il contegno della Regione Lombardia, la conferma del riconoscimento della responsabilità dell’Ente rispetto alla vicenda Englaro fa emergere in ogni caso un interessante profilo, di rilevanza non solo pratica, concernente la sostanza della prestazione assistenziale sanitaria. Emerge infatti la necessità ineludibile che la stessa si atteggi e si estrinsechi in varie forme tutte tali da tutelare il diritto alla salute della persona nel senso più pieno del termine9 e tutte tali da valorizzare l’integrità della persona, anche garantendo il rispetto delle scelte identitarie della stessa, delle decisioni assunte in omaggio al diritto all’autodeterminazione terapeutica, nonché di quello che in definitiva altro non è se non il diritto a governare il “palinsesto” della propria vita anche nel percorso che conduca al termine della medesima10. Ho impiegato il termine “valorizzare” in quanto ciò che il Consiglio di Stato sembra ben mettere
Cfr. ex multis, per un approfondimento non troppo risalente, Azzalini, I malati, in Cendon, Rossi (a cura di), I nuovi danni alla persona. I soggetti deboli, Roma, 2013, 9 ss. e riferimenti ivi contenuti; cfr. sul punto già anche Zatti, Il diritto a scegliere la propria salute, in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, 2 ss.; cfr. anche Berlinguer, Etica della salute, Torino, 1997, 19 ss.
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a fuoco è il fatto che non basta aver cura, nell’apprestare (o nel sospendere) i trattamenti assistenziali, di non pregiudicare la dignità della persona o compromettere, oltrepassandoli, quei “limiti imposti dal rispetto della persona umana” che l’art. 32 Cost. impone come paletti anche al legislatore, laddove scelga di intervenire nella delicata e intricata materia del diritto alla salute. Quanto sopra, infatti, è necessario ma non sempre bastevole. Occorre pure che l’atto sanitario, anche se di mero accompagnamento alla fine della vita o anche ove lo stesso sia funzionale all’interruzione di un trattamento già in corso e del quale il paziente chiede la sospensione, si ponga come presidio positivo della libertà della persona, intesa nella sua combinazione con il diritto alla salute, all’autodeterminazione, all’identità e integrità: posizioni soggettive sulle quali mi sono soffermato più volte in altre sedi11 e che non possono essere neppure indirettamente compromesse impiegando come scusante o come non lodevole “scudo” una malintesa natura necessariamente terapeutica o apoditticamente salvifica dell’atto medico. Quando invece l’atto medico, per essere virtuoso e conforme alle esigenze di integrità della persona che emergono inequivocamente da più referenti del sistema, deve presentare quella che potremmo definire come una “morfologia cangiante”, vale a dire mutare la propria declinazione in funzione dell’interesse del paziente e dell’obiettivo effettivamente perseguito. Non a caso, il Consiglio di Stato evoca giustamente l’esempio dell’hospice quale luogo di accompagnamento nella fase finale della vita12, evidenziando come il fatto stesso dell’erogazione usuale
9
L’evocativo riferimento al “palinsesto della vita” è ripreso da Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, 250 ss., ma l’espressione è di Jasanoff, Introduction: Rewriting life, Reframing Rights, in Id., Reframing Rights. Biocostitutionalism in the Genetic Age, Cambridge-London, 2011, 1; cfr. anche, in una prospettiva di ampio respiro, non solo dal punto di vista privatistico, Honneth, Lotta per il riconoscimento, Milano, 2002, 21 ss. 10
Cfr. Azzalini, Spigolature in tema di “contenzione” della persona capace, in Rossi (a cura di) Il nodo della contenzione, Merano, 2015, 159 ss. e riferimenti ivi contenuti. 11
L’importanza, l’inquadramento e la portata del profilo assistenziale nell’ambito sanitario pubblico è sottolineata nell’interessante lavoro di Molaschi, I rapporti di prestazione nei servizi sociali. Livelli essenziali delle prestazioni e situazioni giuridiche soggettive, Torino, 2008, spec. 42 ss.; cfr. anche, in merito al dovere di solidarietà connotante il servizio pubblico sanitario e ai connessi profili di tutela anche costituzionale, Ferrari, I servizi sociali, Introduzione, materiali e coordinate, Milano, 1986, 93 ss. 12
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di tale prestazione assistenziale disveli chiaramente due elementi: da un lato, infatti, l’intervento medico deve essere incentrato sul concreto bene del paziente e non su una astratta e superata mitologia della cura, con l’ovvia conseguenza che l’opportunità e legittimità dell’intervento vanno valutate alla luce del fondamentale elemento del consenso e nell’ambito di una relazione di cura improntata alla massima considerazione della persona del paziente e della sua individuale ed irripetibile percezione del proprio sé in rapporto al mondo; dall’altro lato, il paziente che rifiuti un trattamento, ancorché di sostegno vitale, non può e non deve per questo essere abbandonato dall’Amministrazione e dalle figure deputate alla sua assistenza, ma adeguatamente assistito sino ad un esito di quella scelta che si ponga in linea con le esigenze di rispetto della persona e della sua integrità13. È, questo, un punto della massima importanza: il diritto al rifiuto di un trattamento, o all’ottenimento della sospensione di un trattamento sanitario già in essere non deve comportare, quale conseguenza automatica, la cessazione di ogni attività assistenziale, ma un mutamento dell’indirizzo della stessa nel senso auspicato dal paziente e conseguente alla scelta operata. Se così non fosse, anche al di là delle ovvie conseguenze inaccettabili sul piano della dignità della persona e non solo, si cadrebbe in un altro malinteso e si rischierebbe un altro inammissibile ricatto pubblico: l’accordare la sospensione del trattamento, non offrendo però l’assistenza necessaria a rendere tale sospensione tale da non frustrare con una stridente dissonanza, oltre che con una inammissibile crudeltà che certamente travalica il piano del giuridico, ancora una volta i segnalati diritti della persona; questione, questa, che in fin dei conti venne in rilievo sin dal caso Welby, dove il paziente espressamente pose al centro del proprio volere, oltre alla questione della sospensione del sostegno respiratorio, anche una previa adeguata sedazione da operarsi a cura di personale
specializzato14; e profilo che assunse poi toni e caratteri drammatici e ingiustificabili nel caso Nuvoli, laddove la vicenda, specie nel suo inqualificabile epilogo, finì con il disvelare proprio quella sorta di paradossale e antigiuridico “ricatto” pubblico cui si è poc’anzi accennato15. Ciò detto, la giusta preoccupazione che sembra trasparire chiaramente tra le righe della pronuncia del Consiglio di Stato è quella che il complesso armonico di posizioni giuridiche alle quali si è fatto riferimento nelle righe e pagine che precedono (salute, identità, libertà, dignità, autodeterminazione ecc.), e che potrebbe trovare espressione in una costellazione di diritti che tutti orbitano attorno alla categoria, perennemente in via di definizione, di integrità della persona, rimanga vanificato o depotenziato dall’inerzia – quando non dall’aperta opposizione, come è avvenuto nel caso di specie – della Pubblica Amministrazione. Con il che la questione da fronteggiare non è più solo e soltanto quella dell’esistenza – oramai affermata in ogni autorevole sede – del diritto all’autodeterminazione terapeutica anche con riguardo alle decisioni “critiche”, al percorso del morire, sia in capo alla persona capace che all’incapace, ma diviene quella della problematica attuazione del diritto a fronte di un sistema che sembra non averne metabolizzato l’esistenza e soprattutto la reale consistenza. La questione della responsabilità della Pubblica Amministrazione, come affrontata nella pronuncia che ha ispirato queste riflessioni, dunque, va ad inquadrarsi, se riguardata in una prospettiva più ampia, in un più articolato discorso giuridico e
L’esatta posizione assunta all’epoca dal paziente rispetto alla propria condizione personale non può trovare migliore espressione che nelle parole che egli stesso scelse di impiegare: cfr., dunque, Welby, Lasciatemi morire, Milano, 2006, passim. 14
La vicenda Nuvoli, e la sconcertante e vergognosa fine a cui il paziente fu sostanzialmente costretto dall’ostruzionismo frapposto dalla Pubblica Autorità a fronte del suo desiderio di rifiutare i trattamenti life saving, destò l’interesse della stampa dell’epoca, cui appare opportuno rinviare per un pronto richiamo: cfr. ex multis http://www.repubblica. it/2007/07/sezioni/cronaca/welby-medico/nuvoli-morto-di-inedia/nuvoli-morto-di-inedia.html. 15
La pluridimensionalità, anche semantica, del concetto di integrità è ben evidenziata nell’importante contributo di Fjellstrom, Respect for persons, respect for integrity, in Medicine, Health, care and Philosophy, 2005, 231 ss. 13
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interdisciplinare nell’ambito del quale si è autorevolmente tornati a sottolineare, anche di recente, l’obsolescente e pericolosa inadeguatezza di certi approcci sanitari e giuridico-amministrativi rispetto ai segnalati profili di tutela della persona16. Il che ad esempio ben traspare sia dal contegno a suo tempo attuato dalla Regione Lombardia, poi censurato in tutte le sedi giudiziarie cui la vicenda è approdata, sia dagli argomenti difensivi addotti dalla Regione per tentare di suffragare le proprie tesi, facendo riferimento alla asserita carenza di un elemento soggettivo adeguato a qualificare la condotta come illecita, o adducendo la complessità della situazione e delle questioni in campo a sostegno di una malintesa idea della discrezionalità amministrativa che incredibilmente, nella prospettiva della Regione, consentirebbe o il diniego vero e proprio di tutela o una sorta di inammissibile non liquet sul piano esecutivo, in attesa di una altrettanto inammissibile, eterna fase istruttoria volta alla ricerca di approfondimenti in realtà non necessari né, a ben guardare, consentiti, sol che si pensi al fatto che, nel caso di specie, si trattava non di accertare l’esistenza o meno di un diritto, ma di dare esecuzione a un provvedimento chiaro non solo nell’affermare e ben scolpire quel diritto con tutti i relativi limiti e sfaccettature, ma anche nell’indicare come procedere nella sua attuazione; con il ché anche lo spazio discrezionale dell’Amministrazione sarebbe dovuto apparire, anche alla medesima, assai ridotto, così come non v’era dubbio in ordine alla piena liceità dell’intervento assistenziale che veniva richiesto per rendere possibile l’effettiva tutela del diritto riconosciuto alla paziente.
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aspetto, purtroppo non immune, anche in tempi recenti, da tentativi di letture distorte o strumentalizzanti – come, con riguardo alla materia in questione, il concetto di discrezionalità della Pubblica Amministrazione non possa comportare il pregiudizio del diritto della persona a ottenere assistenza nella fase di interruzione del trattamento life saving apprestato invito domino. L’Amministrazione potrà semmai esercitare, ed entro certi limiti, una propria discrezionalità rispetto alle modalità o alle strutture nelle quali operare l’intervento richiesto, ma non potrà spingere la propria facoltà di scelta sino al punto di pregiudicare il trattamento spogliandosi, di fatto, del relativo obbligo. Ci si troverebbe, altrimenti, di fronte ad una doppia lesione: la lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente, costituzionalmente tutelato, confermato nella sua reale dimensione da numerose fonti anche internazionali e messo poi a fuoco dalla giurisprudenza anche con specifico riguardo alla delicata fattispecie in questione; e la lesione del diritto all’effettività della tutela giurisdizionale, dal momento che, come abbiamo visto, nei casi quali quello da cui è sorta la nota controversia con la Regione Lombardia non basta che l’Amministrazione garantisca una inerzia, ma occorre che garantisca un comportamento qualificato e professionalmente adeguato di matrice attiva, anche laddove il significato dell’azione sia finalizzato alla realizzazione o al ripristino di un contegno astensivo17. La discrezionalità dunque non può tradursi nell’elisione di questo problema attraverso un illegittimo e assoluto diniego di tutela, a pena di andare
5. Obbligo di tutela del paziente e limiti alla discrezionalità della P.A. Tenendo presenti gli aspetti già segnalati, risulterà anche più chiaro – e il Consiglio di Stato si sofferma molto opportunamente su tale importante
Cfr. Zatti, Consistenza e fragilità dello ius quo utimur in materia di relazione di cura, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, spec. 24 ss. 16
La condotta sanitaria può a volte presentare problemi di inquadramento non semplici, anche e proprio in ragione della possibile divergenza tra atto meccanicamente inteso e suo significato: tale tema è stato maggiormente studiato oltralpe: cfr. ex multis Ingelfinger, Grundlagen und Grenzbereiche des Tötungsverbots, Köln, 2004, passim; Zatti, Decisioni legali e valutazioni scientifiche, in Notizie di Politeia, 2002, 138; Stoffers, Sterbehilfe: Rechtsenwicklungen bei der Reanimator – Problematik, in Monatsschrift für das deutsche Recht, Heft 7, 1992, 621; Schneider, Tun und Unterlassen beim Abbruch lebenserhaltender medizinischer Behandlung, Berlin, 1997, passim. 17
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contro diritto e contro il buon andamento stesso della P.A.: e ciò tanto più se, come nel caso di specie, v’era un giudicato chiarissimo nella sua portata precettiva e nelle indicazioni in esso contenute; indicazioni tali, come abbiamo già evidenziato, da rendere assai modesto il margine discrezionale dell’Amministrazione, limitato, verrebbe da dire, semmai alla scelta della struttura più idonea alle operazioni da compiere, ovviamente sempre con precipuo riguardo all’interesse del paziente.
6. Obiezione di coscienza nell’attuazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica? Spunti critici Sempre su tale delicato fronte, ritengo poi opportuno anche sottolineare un ulteriore profilo, che viene lambito solo en passant nella pronuncia dalla quale trae spunto il presente scritto, ma che sembra meritare ulteriori approfondimenti e suscita molteplici spunti di riflessione, anche in una prospettiva più ampia rispetto a quella consentita dalla natura del presente intervento. Afferma il Consiglio di Stato che rispetto al diniego espresso dalla Regione Lombardia in ordine all’assistenza dovuta relativamente alla questione centrale della fase finale del caso Englaro – la “gestione” della sospensione del trattamento di idratazione e alimentazione che da anni veniva praticato nei confronti della paziente – non avrebbero trovato né troverebbero fondamento neppure argomenti – pur sollevati dall’Amministrazione – legati ad una asserita possibilità di obiezione di coscienza da parte del personale sanitario. E ciò perché, ad avviso del Giudicante (posizione peraltro già espressa nella precedente sentenza sul medesimo caso, la n. 4460/14) l’obiezione di coscienza potrebbe riguardare la posizione dei singoli operatori, dei singoli individui (che soli, dunque, potrebbero sollevarla) e non invece dell’Amministrazione Pubblica in quanto ente. Ad avviso di chi scrive, seguendo tale, pur non errata impostazione, si evita tuttavia di affrontare un ulteriore quesito di fondo, vale a dire quello riguardante l’ascrivibilità di una materia quale quella dell’attuazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica alla costellazione delle que-
stioni per le quali possa essere ritenuta legittima una obiezione di coscienza. Il tema appare complesso e non è questa la sede per un approfondimento che vada oltra la posizione del problema e una osservazione di carattere sistematico18. Ci si limita dunque a segnalare come risulterebbe per molti aspetti distonico rispetto alla ricostruzione generale del diritto al rifiuto di cure e, più in generale, all’autodeterminazione terapeutica, cui si è, nel tempo e con fatica, pervenuti, l’idea di una possibile obiezione di coscienza invocabile dal sanitario che opponga proprie intime convinzioni ostative alla pretesa astensiva del paziente, o alla richiesta di assistenza nell’interruzione di un trattamento in essere, cui pure questi abbia diritto. Infatti, se si afferma, come emerge chiaramente sin dalla sentenza n. 21748/2007 della Supr. Corte, come del resto era emerso, seppure attraverso sconcertanti tortuosità, sin dal caso Welby19, e come è stato autorevolmente ribadito anche recentemente dalla più attenta dottrina20, che le decisioni medicali assunte sulla base del criterio che pone al centro del giudizio il consenso del paziente e il criterio della cosiddetta proporzionalità vissuta appartengono senza dubbio alla buona pratica clinica, e dunque a tale buona pratica vanno ascritte anche decisioni che contemplino l’interruzione del sostegno vitale in presenza di certi presupposti e quindi pure l’assistenza alla relativa fase operativa, allora diviene a mio modo di vedere difficile individuare un nucleo di obiezione legittima, che si fondi su valori incompatibili con la buona prassi in questione, o su controvalori bilanciabili con quelli che vengono in rilievo. Per meglio avvedersi della questione, si raffronti la fattispecie in discorso con la delicata materia
Per una panoramica sul tema dell’obiezione di coscienza nell’ambito medicale, cfr. Eusebi, Obiezione di coscienza del professionista sanitario, in Aa.Vv., I diritti in medicina, nel Trattato di biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, Milano, 2010, 173 ss. 18
Cfr. Azzalini, Il rifiuto di cure: riflessioni a margine del caso Welby, cit. spec. 320 ss. 19
Cfr., Zatti, Consistenza e fragilità dello ius quo utimur, cit., 26. 20
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dell’interruzione di gravidanza, laddove la possibilità di obiezione è prevista dal legislatore; per un’altra ipotesi normativamente prevista, si pensi all’art. 16 della l. n. 40/2004, in tema di procreazione medicalmente assistita21. Con riguardo all’interruzione di gravidanza, la previsione, pur contenuta entro limiti precisi, appare sostenibile in virtù del pregiudizio definitivo che l’intervento arreca alla possibilità di sviluppo del feto; e dunque la questione di coscienza si concentra attorno all’ablazione, se non di una autonoma vita in essere – come pure alcuni sostengono – di una vita agli albori. Quanto alla procreazione medicalmente assistita, si può pensare che l’obiezione riguardi aspetti etici legati alle “artificialità” tecniche inevitabilmente connesse con lo scopo ricercato attraverso il trattamento sanitario (e l’art. 16 della l. n. 40/04 limita, si badi, la possibilità di obiezione al compimento delle procedure e delle attività specificatamente e necessariamente dirette a determinare l’intervento di procreazione medicalmente assistita, mentre non può essere oggetto di obiezione l’assistenza antecedente e conseguente l’intervento). Ma nel caso delle operazioni connesse all’attuazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica, anche al di là del silenzio normativo sul punto, non pare facile individuare un nucleo valoriale tale da legittimare in maniera persuasiva una obiezione di coscienza; e non varrebbe ravvisare una giustificazione nella ritenuta sacralità o indisponibilità della vita o della persona, perché il tema, come già si è avuto modo di sottolineare anni orsono in altra sede, è in realtà eccentrico ed estraneo alla problematica in questione, dal momento che, anche al di là di una irrealistica e malintesa idea di indisponibilità della vita22, l’au-
Anche nella delicata materia della procreazione assistita peraltro vengono in particolare rilievo molteplici profili concernenti il consenso, la disponibilità del corpo, l’identità, la libertà, in un groviglio di questioni di non sempre facile soluzione. Cfr. sul punto, di recente, Aa.Vv., La procreazione assistita dieci anni dopo. Evoluzioni e nuove sfide, a cura di Azzalini, Roma, 2015, passim. 21
Per una ferma critica all’asserita indisponibilità della vita, nel senso dell’illusoria finzione che vorrebbe evitare l’argomento, trasformandolo oltretutto in tabù, ascrivendolo alla 22
Saggi e pareri
todeterminazione terapeutica si pone proprio a presidio di una idea precisa e piena di persona, di un’idea piena e precisa dell’esistenza e del rispetto dell’individuo nella propria unicità, biografia, integrità: con il che una eventuale obiezione finirebbe, a ben guardare e con un risvolto quantomeno in parte bizzarro, per ledere in qualche misura proprio la “sacralità” che vorrebbe esprimere. E se tale aspetto andrebbe certamente approfondito, anche in relazione agli interventi normativi attualmente al vaglio del legislatore, basti qui segnalare la forte perplessità di chi scrive in ordine ad una possibilità di obiezione di coscienza che, oltre che essere certamente estranea, anche per incommensurabilità concettuale, alla struttura amministrativa, riesce difficile pensare di applicare anche ai singoli operatori, proprio per la centralità del diritto in discorso, un diritto che, come si è osservato in passato, non va a scapito di nessuno e si pone anzi quale baluardo di una prospettiva ordinamentale volta alla tutela della vita della persona intesa nel suo significato più profondo, più complesso, più integrale. Con il che, anche a voler ricondurre, come pure taluni fanno, la nozione di obiezione di coscienza ad una base giuridica costituzionalmente rilevante, non pare possibile affermare fondatamente che fattispecie quali quelle che vengono in rilievo nell’ambito del diritto al rifiuto di cure possano realisticamente confliggere con valori pur legittimanti, in altri casi, la menzionata obiezione.
7. Osservazioni conclusive Il Consiglio di Stato, dunque, attraverso una compiuta ricostruzione dell’illiceità del contegno della Pubblica Amministrazione che, dolosamente o colposamente, non garantisca all’incapace, pur in presenza dei presupposti del caso, l’attuazione del diritto al rifiuto di cure, torna a riaffermare con forza la sussistenza di tale diritto e a richia-
sfera del cosiddetto “indecidibile”, quando invece è chiaro e sotto gli occhi di tutti che la questione non è se si possa o debba decidere, ma chi debba decidere le sorti del paziente, cfr. Azzalini, Il rifiuto di cure: riflessioni a margine del caso Welby, cit., 317 ss.
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Autodeterminazione terapeutica dell’incapace
mare l’attenzione sul suo momento attuativo: non bastano infatti i pur reiterati proclami a rendere effettiva una pretesa. Il problema della notevole schisi che talora separa il riconoscimento astratto di un diritto, anche per via giudiziale, dall’ottenimento o dalla realizzazione effettiva della pretesa vantata, è questione non ignota al sistema. Senza voler indugiare in accostamenti che per molti versi riterrei concettualmente impropri tra ambiti, anche semantici, molto diversi (le categorie del diritto patrimoniale differiscono profondamente dai concetti, talora omonimi, che fondano il diritto delle persone: si pensi alla categoria del consenso23) è questione che pure spesso si pone, talora assumendo proporzioni assai consistenti e determinando effetti paradossali, nel diritto patrimoniale. Tutti sanno che una cosa è ottenere una sentenza che, accertata l’esistenza di un credito pecuniario – magari faticosamente e pressoché sempre in tempi talmente irragionevoli da vanificare già di per sé talora il senso stesso della pretesa vantata – condanni il debitore a pagare, e ben altra cosa è conseguire il pagamento effettivo o giungere all’esito soddisfacente di una procedura esecutiva. Ma se già molteplici ostacoli legati all’inefficienza delle strutture funestano la possibilità di realizzazione delle pretese dei singoli nell’ambito del diritto patrimoniale, e ciò certamente rappresenta un punctum dolens tale da inficiare per molti aspetti l’efficacia e la credibilità delle tutele normativamente previste, pare ancor più grave il quadro di un sistema nel quale i diritti fondamentali delle persone vengano pregiudicati, e talora non per mera inefficienza ma addirittura a causa di indebite resistenze della Pubblica Amministrazione, che non possono trovare non solo ragioni sostenibili ma neppure ragioni accettabili né giuridicamente, né socialmente, né umanamente. Al problema dell’affermazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica, dunque, si è assommato, per certi versi sostituendo il primo laddove
Un illuminante approfondimento su questo fondamentale aspetto è stato sviluppato da Zatti, Parole tra noi così diverse», Per una ecologia del rapporto terapeutico, in Nuova giur. civ. comm., 2012, II, spec., 148 ss. 23
finalmente il diritto in questione possa darsi per riconosciuto, quello dell’effettività della tutela, da realizzarsi attraverso una Amministrazione Pubblica che si ponga all’altezza del ruolo di garanzia che l’ordinamento non può che assegnarle. Dunque ci si trova dinnanzi a questioni di tipo organizzativo e anche a lacune di tipo culturale, in una situazione nella quale talora ha avuto un peso determinante l’intervento vicariante delle Corti, come da tempo ben si segnala in dottrina e come è stato riconosciuto in ambito non solo giuridico, attraverso la messa a fuoco di una serie di questioni relazionali di fondo che rimangono, in gran parte, ancora da affrontare, specie in un settore in continua evoluzione qual è quello del rapporto di cura24. Alcuni punti, ad ogni modo,
Cfr. al riguardo le significative parole di Livigni, I medici devono superare il tabù della morte come fallimento dell’attività terapeutica, in Bioetica, 2013, 420-421: “il cambiamento socio-culturale verificatosi ha conseguenze decisive per la pratica sanitaria, la quale deve quindi porsi al servizio del cittadino garantendogli una qualità della vita che egli consideri accettabile. Questo significa, in linea con quanto sostenuto da diversi autori, che la qualità della cura e l’appropriatezza delle prestazioni di un reparto, come per esempio quello di Terapia Intensiva, debbano essere misurate non solo su semplici dati di sopravvivenza e mortalità, ma anche sulla base della qualità della vita residua valutata con il criterio soggettivo dei pazienti che possono essere salvati e sulla qualità delle relazioni che si instaurano con i familiari dei pazienti che non possono essere salvati. Non vale più l’imperativo vitalista per cui il dovere primo del medico è prolungare la vita biologica a prescindere dalla qualità della vita biografica, piuttosto è opportuno attenersi alla dichiarazione dell’OMS secondo cui la salute viene definita come «stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia». L’operatore sanitario deve combattere contro la morte finché è possibile sperare nella vittoria e garantire all’interessato la possibilità di un’adeguata qualità della vita. Deve altresì saper riconoscere quando continuare a lottare porterebbe il cittadino a una situazione per lui insopportabile o comunque non dignitosa, sicuramente motivo di estrema sofferenza. In questi casi è di solito riconosciuta, purtroppo più a parole che nei fatti, la legittimità della desistenza terapeutica, dell’astensione o della sospensione delle cure e l’opportunità del ricorso alle terapie palliative. Di fronte ad un paziente terminale si deve rispettare l’imperativo etico di alleviare la sofferenza, concentrandosi sul come morire più che sul quando. (…) Soltanto in un clima di dialogo, senza tabù, si potrà favorire il dibattito e la crescita culturale, elementi fondamentali per garantire un vero esercizio della professione medica, il rispetto dell’autonomia del paziente e della sua volontà, evitando quei comportamenti 24
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si vanno sempre maggiormente chiarendo, e tra questi uno molto importante: “sulle strutture pubbliche, e sul relativo personale grava (…) sia un dovere di cura «in positivo», qualora il paziente decida insieme al medico di intraprendere un dato percorso terapeutico – nell’ambito di quelli garantiti dal sistema sanitario -, sia un dovere di astensione, qualora il soggetto opti invece per negare il proprio consenso ai trattamenti. Analogo discorso può formularsi nel caso in cui questi ultimi siano in corso: come affermato dal Tar Lombardia, la manifestazione del rifiuto, espresso dal paziente o, in caso di incapacità, dal suo legale rappresentante, rende «doverosa» la sospensione di quegli interventi terapeutici il cui impiego «non corrisponda con il metodo dei valori e la visione di vita dignitosa che è propria del soggetto». Si comprendono così gli sviluppi successivi del ragionamento del giudice amministrativo. Se, come rilevato, la realizzazione del diritto alla salute può avere una connotazione sia positiva che negativa, il rifiuto del ricovero ospedaliero solo per il fatto che il malato abbia preannunciato l’intenzione di avvalersi del proprio diritto alla interruzione di determinati trattamenti equivale ad una indebita limitazione del diritto stesso: «l’accettazione presso la struttura sanitaria pubblica non può infatti essere condizionata alla rinuncia del malato ad esercitare un suo diritto fondamentale»”25.
che nulla hanno a che vedere con la cura, ma che vengono assunti dai medici per timore di un giudizio morale e di conseguenze legali, dimentichi del Codice Deontologico, guida della professione e riferimento giuridico”. 25
Cfr. Molaschi, Riflessioni sul caso Englaro, cit., 995.
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i g Saggi e pareri Saggi e pareri ag i s rer e a Il metodo “Stamina” p tra libertà di cura e dovere di curare Simona Viciani
Ricercatrice nell’Università di Firenze Sommario: 1. La vicenda “Stamina”. – 2. Il punto di vista della bioetica. – 3. I punti nodali: a) I diritti fondamentali del malato e il ruolo del consenso informato. b) L’alleanza terapeutica, la libertà di cura e le cure compassionevoli.
Abstract: Nell’ambito delle cure compassionevoli vi sono situazioni, come “Stamina”, dove la tecnologia, applicata alla scienza medica, ha creato rischi incontrollabili, portando dati scientifici insufficienti o incerti. Essa ha finito con l’uscire dalle proprie competenze per arrivare, in chiave di profitto, ad un’inesauribile necessità di soddisfare gli utilizzatori, senz’altro limite se non la realizzazione dei propri scopi. Si assiste al passaggio da una visione acritica del sapere scientifico ad una consapevole della sua assenza di neutralità quando si confronta con la tutela dei diritti umani. About compassionate care, such as in the “Stamina” case, there are some situations where medical science-related technology has created untested risks, leading to insufficient or uncertain scientific data. It comes out of its own competence moving on, in a key of profit an unbreakable necessity to satisfy users without any limitation than reaching its own purposes. It is a shift from an uncritical view of scientific knowledge to a conscious idea of neutrality’s absence, when it matches with human rights protection.
1. La vicenda “Stamina” È piuttosto recente la scoperta, provata scientificamente, della possibilità di utilizzare, per la
ricerca con finalità terapeutica, cellule staminali1 provenienti da soggetti adulti. Per questo motivo, le potenzialità terapeutiche e la previsione della percorribilità e fecondità della ricerca su tale tipologia di cellule – ritenuta scientificamente più competitiva rispetto alla ricerca su embrioni – portano a considerare legittima e doverosa la loro utilizzazione. Si intravedono, così, la flessibilità, la versatilità e l’ampia possibilità di prestazioni (verosimilmente non diversa dall’uso delle cellule staminali embrionali) anche delle cellule staminali adulte. In particolare, nelle terapie avanzate a base di cellule staminali, l’attenzione è rivolta al trapianto di cellule prelevate dal midollo osseo. La vicenda, nota come “metodo Stamina”, riguarda la cura di soggetti, per lo più bambini, nati con
Le cellule staminali adulte (ASC, Adult Stem Cell), così chiamate per distinguerle da quelle di origine embrionale, sono cellule indifferenziate che si possono trovare in un tessuto o organo, terminalmente differenziato, in numero molto esiguo. Il ruolo primario delle cellule staminali adulte riguarda la loro capacità riparativa (consentono il mantenimento dei tessuti e la loro riparazione in seguito a danni), diversamente da quanto si pensava e cioè che fossero specializzate a generare tessuti solo in modo specifico. Sono cellule capaci di proliferare e produrre sia cellule uguali a se stesse sia diverse; possono essere applicate per ogni tipo di malattie e sono tendenzialmente capaci di dare origine a qualsiasi tipo di cellula. 1
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gravi patologie neurologiche molto rare e con drammaticamente scarse previsioni di sopravvivenza. Si tratta di una terapia basata sulla coltivazione di cellule staminali mesenchimali per le cosiddette “cure compassionevoli”2. Del caso si è occupata oltre all’Accademia dei Lincei3, in ambito scientifico internazionale anche Nature4 e l’Agenzia europea per i medicinali (European Medicines Agency, EMA)5. È stata pubblicata, inoltre, sul The Embo Journal6 un’analisi sul metodo proposto dalla Stamina Foundation riguardante, esattamente, la conversione di cellule staminali mesenchimali (di solito destinate alla generazione di tessuti ossei e adiposi) in neuroni dopo una breve esposizione a etanolo e acido retinoico. Cercando di ricostruire, seppure brevemente, gli accadimenti, il metodo Stamina – che dagli inizi del 2011 veniva praticato presso l’Ospedale di Brescia – venne sospeso in seguito ad una ispezione dei Nas e dell’Aifa7 rilevandone il mancato
Tema che riveste una specifica e autonoma rilevanza bioetica come attestano l’art. 37 della Dichiarazione di Helsinki, l’art. 83 reg. CE n. 726/2004, l’art. 13 cod. deont. medica, approvato dalla Fnomceo, il 23 maggio 2014. 2
Con una mozione del 10 maggio del 2013, l’Accademia dei Lincei suggerisce al Parlamento Italiano di non approvare il d.l. 25 marzo 2013, n. 24 (vedi sotto nt. 8), perché consente l’utilizzo di terapie basate su cellule staminali in modo gravemente divergente dai principi contenuti nelle norme del mondo occidentale (Europa e Nord America), marcando una clamorosa incongruenza delle norme italiane su quelle comunitarie. 3
Abbott, Sterm-cell ruling riles researcher, in Nature, 495, 2013, 418-419. 4
European Medicines Agency, Science Medicine Health, Stem-cell-therapy treatments, 22.3.2013, in http://www.ema. europa.eu. 5
Smith, Mummery, Sattler de Sousa e Brito, Cattaneo, Daley, Clevers,Goldstein, De Luca, Brustle, Lindvall, Bianco, Barker, Regulation of stem cell therapies under attach in Europe: from whom the bell tools, in The Embo Journal, 3 maggio 2013. Nell’articolo viene sottolineato come il metodo “Stamina” sia non solo inconsistente relativamente alle prove sperimentali e al razionale scientifico e terapeutico, ma manchi anche di pubblicazioni che lo “descrivano” e lo rendano riproducibile da altri; carenze metodologiche confermate anche nelle repliche alle domande di brevetto fatte dalla stessa Stamina Foundation all’Ufficio brevetti statunitense. 6
7
L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) controlla i farmaci
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rispetto dei requisiti di sicurezza e di igiene oltre alla carenza della documentazione prescritta dalla legge8. A seguito di tale ordinanza furono proposti davanti al giudice civile numerosi ricorsi ex art.700 c.p.c. – aggirando e, sostanzialmente, svalutando il requisito della scientificità della cura previsto dal decreto Turco-Fazio – le cui decisioni mostrano una propensione basata più sul libero bilanciamento dei principi costituzionali (in attuazione dell’art. 32 Cost.), anziché sulla base delle norme vigenti9. Nel maggio del 2013 la Commissione affari sociali della Camera approvava un emendamento “chiave” al decreto Balduzzi10, che dava il via libera
immessi sul mercato in Italia e garantisce la loro qualità e sicurezza. È compito dell’Agenzia autorizzare l’immissione sul mercato di nuovi farmaci, monitorare costantemente la rete di farmaco-vigilanza e vigilare sulla produzione delle aziende farmaceutiche. L’obiettivo primario di tale organismo consiste nel tutelare la salute promuovendo una nuova politica del farmaco ed una informazione corretta e indipendente sui farmaci rivolta a cittadini e operatori del settore. L’entrata in vigore del d.m. 21.12.2007 “Disposizioni in materia di autorizzazione alla produzione di medicinali”, in G.U., 20.2.2008, n. 43, introduce importanti cambiamenti nelle autorizzazioni alla produzione e nei Certificati di Conformità alla norme di buona fabbricazione (Certificate of GMP Compliance) rilasciati dall’Ufficio autorizzazioni officine dell’AIFA. Queste norme rappresentano un insieme di regole che descrivono i metodi, le attrezzature, i mezzi e la gestione della produzione dei farmaci per assicurarne gli standard di qualità appropriati. Ci si riferisce all’ord. Aifa 15.5.2012, n. 1 la quale richiama l’inottemperanza del trattamento Stamina ai requisiti richiesti dal d.m. 5.12.2006 “Utilizzazione di medicinali per terapia genica e per terapia cellulare somatica al di fuori di sperimentazioni cliniche e norme transitorie per la produzione di detti medicinali” (c.d. decreto Turco), in G.U., 9.3.2007, serie generale n. 57, sulle cure compassionevoli, reiterato nel 2008 (c.d. decreto Turco/Fazio) e, infine, modificato dal d.m. 16.1.2015 “Disposizioni in materia di medicinali per terapie avanzate preparati su base non ripetitiva” (c.d. Lorenzin), in G.U., 9.3.2015, serie generale n. 56. 8
D.m. Turco- Fazio, comme 4 lett. a), cit. sopra, che stabilisce il requisito che “siano disponibili dati scientifici, che ne giustifichino l’uso, pubblicati su accreditate riviste internazionali”. 9
D.l. 25.3.2013, n. 24 “Disposizioni urgenti in materia sanitaria”, in G.U., 26.3.2013, n. 72, convertito in legge, con modificazioni, 23.5.2013, n. 57, in G.U. 25.3.2013, n. 121. L’art. 2, comma 2°, del provvedimento legislativo (che affrontava la 10
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La “vicenda Stamina”
alla sperimentazione di terapie avanzate a base di staminali mesenchimali, usate, appunto, per il metodo della Fondazione Stamina11, stabilendo che le cellule al centro del trattamento Stamina dovevano essere trattate come farmaci e non secondo le regole dei trapianti, considerate meno rigide, per cui la loro sperimentazione risultava di competenza dell’Aifa12. Si prevedeva, inoltre, che fosse un Comitato scientifico – con la partecipazione dell’Istituto superiore di sanità, Centro nazionale trapianti e Agenzia del farmaco, oltre a vari esperti – a decidere i criteri e i dettagli della sperimentazione di Stamina13. Il Comitato scientifico – che assumeva, dunque, il compito di stabilire per quali patologie tale sperimentazione avrebbe dovuto essere avviata, i criteri per la scelta dei pazienti coinvolti e, infine, le modalità di produzione delle cellule staminali – si pronunciò14 bocciando la sperimentazione del
questione delle cure compassionevoli) autorizza le strutture pubbliche a continuare ad effettuare trattamenti che siano già iniziati oppure che sia intervenuto anche solo il prelievo delle cellule dal paziente o dal donatore, così come i casi in cui il trattamento sia stato ordinato dalle autorità giudiziarie. Ciò ha determinato per i giudici, chiamati a decidere sulle sempre più numerose richieste di accesso al metodo Stamina, problemi interpretativi sulla compatibilità o meno di tali requisiti con il requisito stabilito, invece, dal d.m. Turco–Fazio, lett. a); nei termini di dover decidere se dopo l’entrata in vigore del decreto Balduzzi le richieste di accesso a Stamina dovessero essere valutate sulla base dei nuovi criteri legislativi oppure alla stregua del precedente decreto ministeriale. D’Amico, Il volto compassionevole del diritto e la dura scientia. A proposito del metodo Stamina, in Quad. cost., 2013, 423 ss. 11
L’entrata in vigore del d.m. “Disposizioni in materia di autorizzazione alla produzione di medicinali”, 21 febbraio 2007, in G.U., 20 febbraio 2008, n. 43, introduce importanti cambiamenti nelle autorizzazioni alla produzione e nei Certificati di conformita’ alla norme di buona fabbricazione (Certificate of GMP Compliance) rilasciati dall’Ufficio autorizzazioni officine dell’Aifa. Queste norme rappresentano un insieme di regole che descrivono i metodi, le attrezzature, i mezzi e la gestione della produzione dei farmaci per assicurarne gli standard di qualità appropriati. 12
La sperimentazione è stata promossa dal Ministero della Salute assieme all’Agenzia del farmaco (Aifa), all’Istituto superiore di sanità (Iss) e al Centro nazionale trapianti (Cnt), con l’unico paletto della sicurezza dei pazienti.
metodo. Secondo il rapporto mancavano i fondamenti scientifici tali da giustificare l’avvio della sperimentazione. Tuttavia, il comitato è stato, di fatto, recusato nel dicembre 2013 dall’accoglimento da parte del Tar15 del ricorso da parte del presidente di Stamina Foundation, Davide Vannoni, perché ritenuto non imparziale essendo composto da membri che già si erano pronunciati in precedenza sul metodo. A seguito di ciò il Ministro della salute ha nominato nel mese di marzo del 2014 un nuovo Comitato scientifico per la decisione sulla sperimentazione del metodo, che ne ha definitivamente bocciato la sperimentazione (con il parere del 2 ottobre 2014) perché i protocolli proposti non soddisfano i requisiti di base per una sperimentazione clinica. Le fasi conclusive di questo tortuoso percorso vedono la sesta sezione penale della Corte di cassazione16, in tre separate sentenze, rigettare i ricorsi di alcune famiglie di pazienti avverso l’ordinanza del Tribunale di Torino17 che, nell’ambito del procedimento penale a carico di Davide Vannoni e dei principali propugnatori di Stamina, dispone il sequestro cautelare del laboratori degli Spedali Civili di Brescia dove si svolgevano le infusioni e si conservavano i materiali staminali necessari alla somministrazione della terapia.
2. Il punto di vista della bioetica La discussione bioetica sull’argomento si trova concorde nel ritenere lecita la possibilità di cercare, in tessuti umani appartenenti ad individui adulti, cellule staminali pluripotenti (nel midollo osseo, nel cervello, nel mesenchima di vari organi, nel sangue del cordone ombelicale), capaci di dare origine a più tipi di cellule, in maggioranza ematiche, muscolari e nervose. Il prelievo deve avere una finalità terapeutica e non solo sperimentale, deve presupporre il consenso informato, soprattutto se si tratta di un prelievo di tipo in-
13
Comitato scientifico per la sperimentazione del metodo Stamina, parere dell’11.8.2013. 14
15
T.A.R. Lazio, 4.12.2013, ord. n. 4728.
16
Trib. Torino, ord. 22.10.2014.
17
Cass. pen., 21.4.2015, nn. 24242/24243/24244.
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vasivo; in ogni caso il prelievo non deve mettere in pericolo la salute del paziente che si intende curare con tale metodologia. Il Comitato nazionale per la Bioetica (CNB) è intervenuto in un primo momento sull’argomento con un parere18 che ha affrontato la questione in una prospettiva interdisciplinare e pluralista. Il documento metteva in guardia sull’eccesso di ottimismo rispetto ai vantaggi terapeutici offerti dall’uso delle cellule staminali, al fine di non incoraggiare un eccesso di speranza nell’opinione pubblica e riteneva opportuno porre l’accento sul fatto che i risultati terapeutici dovessero essere resi accessibili a tutti quelli che ne potevano usufruire, senza discriminazioni di censo, istruzione, genere, ma solo in conformità a valutazioni oggettive cliniche. In un momento successivo, nel 2015, il Comitato è intervenuto in modo più specifico sul tema delle “cure compassionevoli”19 con un altro parere20 in tema di trattamenti terapeutici non validati dalle autorità regolatorie. In esordio al parere in esame il Comitato, valutando che parlare di “cure compassionevoli” non sia del tutto appropriato, suggerisce all’uopo l’espressione “trattamenti non validati ad uso personale e non ripetitivo”. Inoltre, stabilisce che le terapie compassionevoli possono essere considerate lecite e rientrare nel diritto generale della salute solo quando rispettino determinati requisiti. In sintesi, esse possono essere ammesse solo quando manca una valida scelta terapeutica in quei casi di urgenza che pongono il paziente in pericolo di vita o di grave patologia a rapida progressione, anche se esse non possono costituire una scelta diversa dalla sperimentazione clinica né possono sostituirsi ad essa. La somministrazione di tali trattamenti deve basarsi su plurime e
Si tratta del Parere su ricerche utilizzanti embrioni umani e cellule staminali, 11.4.2003. 18
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ragionevoli esigenze scientifiche; la prescrizione terapeutica deve provenire dal medico curante e avere l’approvazione del comitato etico competente per materia. Ai pazienti che vogliono avere accesso ad una “cura compassionevole” vanno garantite spiegazioni esaurienti sulla pericolosità di questo tipo di trattamenti. Procedendo con una breve analisi della posizione del CNB potremmo asserire che lo sguardo della bioetica si dirige sul principio della libertà delle cure, ma non inteso in senso generico come autodeterminazione terapeutica tout court, ma nell’ottica di considerare le varie articolazioni di tale principio in vista della diversità delle situazioni. Così, ad esempio, nel caso del rifiuto dei trattamenti sanitari il concetto di libertà di cura si identifica certamente nella tutela della dimensione “corporale” della persona come libertà psicofisica; mentre, la libertà di cura che si estrinseca nella richiesta di particolari trattamenti terapeutici implica la necessità dell’intervento del medico, il quale opera secondo criteri di appropriatezza professionale e correttezza; criteri che assumono una particolare valenza laddove le cure richieste non risultino conformi agli ordinari standard scientifici. In quest’ultimo caso diviene, quindi, cruciale il problema se, davanti ad una diagnosi infausta e in assenza di terapie validate, il “miglior interesse” del paziente, sia per la cura che per il miglioramento della qualità della vita, possa consistere o no nel ricorso a trattamenti non verificati dalla comunità scientifica.
3. I punti nodali a) I diritti fondamentali del malato e il ruolo del consenso informato La medicina costituisce una scienza applicata fondata su un insieme di conoscenze teorico-pratiche e, al contempo, sul riconoscimento di valori basilari quali la salute e il rispetto della persona umana21.
L’uso compassionevole trova riscontro nel d.m. 8.5.2003 “Uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione clinica”, in G.U., 28.7.2003, n. 173. 19
CNB, parere 27.2.2015, “Cura del caso singolo e trattamenti non validati (c.d. “uso compassionevole”)”, in www. governo.it./bioetica/pareri.html. 20
Sulla natura della medicina e su i suoi scopi vi sono due concezioni di fondo che, pur se differenti, si sono per lungo 21
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La “vicenda Stamina”
In particolare, le biotecnologie mediche aventi come campo di applicazione il corpo umano, intervengono negli aspetti più personali della vita degli individui mettendo contemporaneamente in gioco sia il “corpo” che l’identità personale e la dignità di coloro che vi fanno ricorso. Ed è proprio il principio della dignità che, coniugandosi a quello della libertà individuale22, si oppone alla strumentalizzazione degli esseri umani23. Nel rispetto assoluto della dignità della persona, dunque, il limite alla sperimentazione scientifica sull’uomo è individuato dalla regola deontologica stabilita dall’art. 4824, ovverosia, del danno permanente alla salute. Limite che può essere associato a quello contenuto nel primo comma dell’art. 5 del codice civile, il quale, però, fa riferimento al significato meno ampio d’integrità fisica; più esplicitamente, il concetto di integrità fisica presente nel codice civile si identifica nell’assenza di lesioni corporee e, in questa dimensione, rappresenta solo uno degli
tempo integrate. La prima si fonda sul presupposto che gli scopi della medicina sono rappresentati dalla risposta della pratica medica alla malattia, ispirata dal bisogno di guarire, assistere e curare, perciò, i fini sono individuati in funzione della sua intrinseca vocazione alla promozione e difesa della salute umana e della difesa del paziente. La seconda concezione, invece, ritenendo che gli scopi della medicina siano una costruzione sociale, nasce dalla constatazione che con il cambiare delle epoche e delle culture cambia anche la natura della medicina e i suoi fini. Vedi, Hanson, Callahan, The Goals of Medicine: The Forgotten Issues in Health care Reform, Georgetown University Press, Washington DC, 1999, 13 ss. Secondo Busnelli, Problemi giuridici di fine vita tra natura e artificio, in Riv. dir. civ., 2011, I, 153 ss., la dignità non deve essere lasciata all’esercizio insindacabile dell’autodeterminazione del singolo. Così, la Carta di Nizza che nell’enunciare i principi fondamentali antepone la dignità, nel Capo I, alle libertà. Della stessa opinione anche Rodotà, Bionica. Quando il corpo si fa scienza, in La Repubblica, 20.7.2007. 22
Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Bologna, 1991, 255 23
Art. 48 cod. deont., cit., “Il medico attua sull’uomo le sperimentazioni sostenute da protocolli scientificamente fondati e ispirati al principio di salvaguardia della vita e dell’integrità psico-fisica e nel rispetto della dignità della persona”. Cfr. Bellelli, Codice deontologico e tutela del paziente, in Zatti (a cura di), Le fonti di autodisciplina, Padova, 1996, 121. 24
aspetti della salute umana intesa come benessere psico-fisico dell’individuo25. Il problema principale, in questa materia, consiste nel fatto che, nella maggior parte dei casi, la sperimentazione terapeutica si interseca con la sperimentazione scientifica sul malato, perdendo di vista la salute del paziente stesso, poiché prevale l’esigenza di fornire nuove conoscenze scientifiche attraverso ciò che, invece, dovrebbe essere una ricerca terapeutica. Sebbene lo sviluppo tecnico scientifico, con la rapida introduzione di innovazioni nel sistema, consenta il trattamento di malattie in precedenza ritenute incurabili, permane, tuttavia, un limite di inguaribilità di alcune patologie, associato ad un notevole margine di errore e rischio professionale, tale da non permettere un’immediata individuazione del margine tra l’insuccesso medico e l’alea terapeutica. Com’è noto il medico, come qualsiasi altro professionista, è tenuto a fornire prestazioni di carattere tecnico e scientifico fondate su precise conoscenze ed esperienze provate dalla scienza ufficiale, che per sua natura è suscettibile di continua evoluzione26. Evidentemente, il livello di diligenza e di conoscenza cui il medico è tenuto non può essere, sempre e comunque, quello dello scienziato di chiara fama. Perciò, si è da tempo appurato che il criterio di riferimento per la valutazione della colpa medica debba essere la diligenza del “buon professionista” della stessa categoria medica a cui egli appartiene 27.
In ottemperanza alla stessa definizione di salute proposta dall’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) come uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non solo l’assenza di malattia. 25
Per questo motivo sussiste l’obbligo deontologico per il medico dell’aggiornamento professionale, previsto dall’art. 19 cod. deont., cit. 26
Il medico nel compimento della propria attività professionale è tenuto ad una diligenza che comprende il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti necessari che nel loro insieme costituiscono le legis artis della professione medica, tenendo conto che il progresso della scienza e della tecnica ha notevolmente ridotto, nel campo delle prestazioni specialistiche l’area dell’esenzione stabilita dall’art. 2036 c.c. V., Cass., 3.3.1995, n. 2466, in Giur. it., 1996, I, 1, 91. 27
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Come pure le prescrizioni e i trattamenti terapeutici devono essere ispirati al cosiddetto principio del rischio-beneficio, vale a dire che i pericoli e le controindicazioni della cura devono essere bilanciati dalla possibilità di successo o, in ogni caso, di un buon risultato della cura stessa. Ciò che si vuole evitare è, in buona sostanza, la “temerarietà” professionale, in pratica una condotta che non tiene conto delle possibili complicazioni della cura e delle conseguenze dannose, ispirata soltanto ad un’ottimistica ma non completamente fondata potenzialità della cura o dell’intervento scelto28. Cosicché, fermo restando il divieto di sperimentazioni cliniche che non presentino un beneficio reale e diretto per la salute dell’interessato con un grado minimo di rischio, l’adozione, da parte del medico, di terapie nuove deve rimanere nell’ambito della sperimentazione clinica consentita, non dovendo in alcun modo entrare nel rapporto di cura del paziente29. Nella stessa ottica, il medico è anche tenuto ad un’adeguata conoscenza dei farmaci, dei loro effetti e delle prevedibili reazioni avverse individuali. Per fare fronte a tutta questa serie di problematiche, validi strumenti che permettono di tutelare la posizione del paziente sono individuati nel consenso informato e nella responsabilità dello sperimentatore, sia penale che civile come pure deontologica30. In effetti, il terapeuta diviene titolare di una posizione di garanzia – come elemento strettamente connesso alla natura della prestazione sanita-
A tale proposito ha rilievo anche la normativa concernente l’utilizzo di medicinali off-label disciplinato dalla l. 8.4.1998, n. 94 che attribuisce al medico determinati ambiti di autonomia accompagnati da una corrispondente responsabilità individuale. Tuttavia nell’esercizio di tale autonomia il medico dovrà sempre rispettare tre requisiti concorrenti stabiliti dall’art.3, comma 2° della legge in esame: a) impossibilità di trattare il paziente in- label; b) ottenimento del consenso informato; c) conformità dell’impiego off-label rispetto a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale.
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ria – che fa nascere a suo carico l’assunzione di obblighi di protezione connessi a tale posizione, non solo verso il paziente ma anche verso i terzi coinvolti nel rapporto. In particolare, tali obblighi sono rappresentati dai generali doveri di comportamento secondo correttezza e buona fede, i quali si manifestano in varie forme secondo le diverse obbligazioni cui afferiscono e il cui tratto comune è rappresentato dall’esistenza di una “situazione relazionale” tra i soggetti, in ragione della quale, sorgono, in capo alla parte che riveste una specifica posizione o qualifica professionale, doveri di collaborazione e protezione verso l’altra, al fine di salvaguardare l’affidamento che quest’ultima ripone nella prima31. In quest’ambito, diviene, altresì, necessario che il medico informi adeguatamente il paziente riguardo ai benefici, alle modalità dell’intervento, alle possibilità di scelta tra le diverse opzioni terapeutiche e ai rischi prevedibili ad esse connesse. Allo stesso modo, egli deve essere adeguatamente informato anche sulle dotazioni a disposizione della struttura per essere in grado di poter decidere al meglio se e dove intenda sottoporsi al trattamento medico; ad esempio la mancata informazione circa un’eventuale carenza di strumentazione appropriata da parte della struttura ospedaliera può far sorgere la responsabilità del medico e/o della struttura sanitaria. In definitiva, il paziente deve conoscere32 qualsiasi elemento utile a calibrare le sue decisioni sulla proposta di cura che gli viene presentata, anche al fine di verificare il percorso che deve intraprendere
28
Art. 18 cod. deont., cit.,“I trattamenti che incidono sull’integrità psico-fisica sono attuati al fine esclusivo di procurare un concreto beneficio clinico alla persona”. 29
Su questi aspetti ci permettiamo di richiamare le osservazioni di Viciani, Errore in medicina e modelli di responsabilità, Napoli, 2016. 30
L’interpretazione cosiddetta “evolutiva” della nozione oggettiva di buona fede e correttezza trova spunto nel principio generale di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. In giurisprudenza, Cass. 9.3.1991, n. 2503, in Foro it., 1991, I, 2077. Il concetto della buona fede come obbligo di solidarietà si trova in Betti, Teoria generale dell’obbligazione, I, Milano, 1953. In particolare sui doveri di solidarietà sanciti dall’art. 2 Cost., Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 2004. 31
Secondo l’art. 33 cod. deont., comma 2°, cit. “Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza”. 32
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per essere in grado di cogliere anomalie tali da poterlo condurre anche a decisioni di segno opposto riguardo alla prosecuzione della cura stessa. Il consenso informato, quindi, ha come contenuto non solo la facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche l’eventualità di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale33. Il principio del consenso diviene, in tal modo, lo strumento essenziale per garantire il rispetto della persona quando si tratta di aspetti inerenti i valori personali essenziali per cui il potere del singolo è diretto ad arginare l’“assoggettamento” della vita umana ad opera della tecnologia, della scienza e del mercato34. Nell’ipotesi di Stamina, però, ci si domanda quanto possa essere consapevole ed informato il consenso al trattamento proposto se i pazienti non ne conoscono i presupposti scientifici, le modalità di esecuzione e gli effetti collaterali. Il consenso, difatti, non deve essere un mero assenso ad una determinata terapia, ma diviene l’esito di un percorso di coinvolgimento del paziente stesso e perciò deve essere reso dal soggetto in condizioni di piena libertà, intendendo, in tal modo, che egli possa esprimere un consenso sulla base di un input informativo “congruo” ed “idoneo”.
Ragionando proprio in termini di congruità e d’idoneità del contenuto informativo, si può anche aggiungere che non osta al dovere di completezza dell’informazione fornita dal medico il fatto che egli, nell’esercizio della propria attività medica, abbia anche ad un potere discrezionale in riferimento alla qualità e quantità delle informazioni che debbono essere fornite35. Come accade nelle cure compassionevoli, dove la particolare connotazione etica degli interessi in gioco fa nascere l’esigenza di un’attenzione ancora maggiore al contenuto dell’informazione che il medico ha il dovere di prestare, che deve essere esaustiva, trasparente e chiara. Elementi che si rilevano come indispensabili in quelle situazioni, come nel caso di Stamina, in cui non si conoscono i possibili effetti collaterali, potenzialmente dannosi, della terapia36, così da permettere al paziente di esercitare la propria autonomia in un’ottica di bilanciamento ponderato tra effetti terapeutici sperati e qualità della vita residua. Normalmente il consenso dovrà essere prestato dalla persona interessata; nell’ipotesi in cui, invece, il soggetto interessato sia un incapace assurge a rilievo la figura del tutore. Si tratta di una figura che legittimamente intrattiene la relazione con i medici e con il personale sanitario e rappresenta in un unico tempo l’unica via attraverso la quale le volontà, i desideri, lo stile di vita del soggetto incapace hanno modo di essere manifestati nell’ambito della relazione di cura.
Cfr. Rodotà, La vita e le regole, tra diritto e non diritto, Milano, 2006 (ed. ampliata, 2009), 237, evidenzia che nel nostro ordinamento esiste, oltre ad un “diritto alla cura”, anche un “diritto alla malattia” inteso “non solo come diritto ad essere curato, ma anche come diritto a non essere discriminato, perché affetto da una determinata malattia e, infine, anche “un diritto a non essere curato”. Si è, infatti, rafforzato nel tempo, il potere decisionale degli interessati con l’affermazione del principio del “consenso informato” che ha comportato “un passaggio del potere decisionale dal medico al paziente” che è colui “che ha l’esclusivo potere di accettare o rifiutare la cura, di sceglierne le modalità, evidentemente nell’ambito di ciò che è legittimamente disponibile, di determinarne i limiti”.
35
Sul punto, rodotà, Dal soggetto alla persona, Napoli, 2007. Sul ruolo dei diritti fondamentali come limite al potere dei sub-sistemi sociali, v. anche Marini, Il consenso, in Rodotà, Tallacchini (a cura di), Ambito e fonti del biodiritto, Milano, 2010, 361 ss. e Id., La giuridificazione della persona. Ideologie e tecniche nei diritti della personalità, in Riv. dir. civ., 2006, I, 359 ss.
36
33
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Cfr. Viciani, L’autodeterminazione “informata” del soggetto e gli interessi rilevanti (a proposito dell’informazione sul trattamento sanitario) cit., 304, per cui tenendo sempre in considerazione la finalità delle tutela della salute, l’informazione può essere circostanziata nei confronti del paziente e surrogata con quella ai familiari, determinandone una riduzione sia quantitativa che qualitativa. In riferimento al diritto alla salute di particolare rilevanza le considerazioni di Zatti, Il diritto a scegliere della propria salute (in margine al caso S. Raffaele), in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, 1 ss. Ferrari, Il diritto alla speranza del paziente legittima la disapplicazione della legge? Principi e responsabilità a confronto in tema di “cure compassionevoli”, in Resp. civ. e prev., 2014, 1019 ss.
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Ferma la convinzione che la capacità di decisione di soggetti minori o disabili sulle scelte terapeutiche non può essere rimessa a valutazioni astratte ma dovrà dipendere da condizioni personali da determinare caso per caso, in relazione ai tipi di trattamento, ai casi clinici, e soprattutto alle specifiche condizioni psico-fisiche del paziente, dobbiamo, nondimeno, renderci conto delle difficoltà che si presentano per tali apprezzamenti, specialmente allorquando si giunge alla condizione di assenza assoluta di qualsiasi forma di capacità naturale. Ed è proprio questa la circostanza in cuidiviene necessario che si apprestino le condizioni, non solo dal punto di vista giuridico ma anche etico, per poter rappresentare completamente la volontà del paziente incapace nel suo esclusivo interesse37. b) L’alleanza terapeutica, la libertà di cura e le cure compassionevoli La mancanza di fiducia nell’operato del medico da parte del paziente e della ricerca di un vero dialogo tra il medico e il paziente stesso, chiamano l’esercizio della professione sanitaria ad un impegno sempre più difficile38. In effetti, l’evoluzione della medicina ha portato a mettere in ombra l’elemento relazionale e ad incoraggiare l’efficienza tecnico-scientifica a scapito della comprensione dell’aspetto umano e della partecipazione alla vicenda personale del malato. In tal modo è andata emergendo e diffondendosi, specie negli ambienti specialistici e in quelli che ricorrono molto frequentemente alle tecnolo-
A tale scopo, al tutore sono rimesse sia la funzione di portatore e garante dell’esecuzione delle volontà terapeutiche proprie del diretto interessato, sia la funzione di interprete dei profili più complessi che riguardano le sue convinzioni personali, per cui sarebbe, ad esempio, vincolato al rispetto delle disposizioni anticipate di trattamento, quand’anche siano espresse in forma ipotetiche e in evidente difetto di attualità. V. sull’argomento, Santosuosso, Diritto, scienza, nuove tecnologie, Padova, 2011, 93. 37
Ecco perché Singer e Koch, nel 1997, hanno sintetizzato il rapporto medico-assistito in tre nodi cruciali: ascoltare, comprendere e spiegare; con l’aggiunta di una componente emozionale (osservazione e contatto psicologico con il paziente). Cfr. Singer, Koch, Comunicating with our patients; the goals of bioethics, in The Journal of the Florida Medical Associations, 1997, 486-487. 38
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gie più elaborate, una medicina “fredda”, assillata dell’accuratezza diagnostica e della validità delle prescrizioni terapeutiche, ma indifferente al modo in cui il paziente vive ed affronta quell’episodio fondamentale della propria vita, che è la malattia. Questo modo di professare l’arte medica, quindi, pone l’accento ed avvantaggia uno dei due aspetti basilari della medicina, quello scientifico e tecnologico, ma ignora il secondo elemento che riguarda il rapporto che nell’atto clinico viene ad istituirsi tra il medico e il paziente. Invece, l’elemento relazionale e il riconoscimento del bene autentico del paziente, vale a dire, la salute, sono strettamente connessi fra loro perché insieme contribuiscono a determinare quella che dovrà essere la decisione finale sul percorso clinico della malattia. D’altra parte, occorre, osservare che l’idea che il possibile dualismo, tra ciò che la scienza medica suggerisce e ciò cui aspira il malato, possa sempre risolversi alla luce dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente consiste, certamente in una verità, sebbene non assoluta, se si considera la natura complessa della prestazione sanitaria che a volte può andare anche oltre il momento della relazione di cura. Come, ad esempio, nel caso in cui si presenti per il medico una situazione di necessità e di urgenza in cui l’alleanza terapeutica, a causa dei tempi stringenti, non sempre è possibile da realizzare. Ancora più complessa sembra essere l’individuazione del limite oltre il quale il medico non può spingere la propria opera di persuasione per convincere il paziente a sottoporsi ad una determinata attività terapeutica. Ed, infine, estremamente complesse appaiono le situazioni in cui la cura medica entra sotto pressione poiché al medico viene chiesto di sospendere oppure, al contrario, di intraprendere trattamenti in grado di protrarre la sopravvivenza del malato, perdendo il confine tra dovere di procedere alle cure “palliative” e volontà del paziente. Nel primo caso, la volontà inequivocabilmente negativa manifestata dal paziente, ossia il rifiuto del trattamento terapeutico prospettatogli, vincola il medico a non eseguirlo, anche a rischio del sopraggiungere della morte stessa, giacché a prevalere, è la scelta personale del malato, anche se
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confliggente con l’interesse generale connesso al valore sociale dell’individuo39. Nel secondo caso, il medico si trova a dover svolgere un ruolo se vogliamo ancora più delicato perché porta su di sé il peso di una speranza di guarigione40; per cui il rapporto tra medico e paziente (o familiari del paziente) diviene di reciproca tensione: l’uno si attende un rimedio ad ogni costo e l’altro tende a fornirglielo in ogni modo. Detto ciò, non si può dimenticare che il medico ha il dovere di consigliare la migliore terapia “disponibile”41; anche se, in assenza di rimedi conosciuti e provati scientificamente il concetto di disponibilità perde i suoi confini42. Fino a dove, allora, è possibile per il medico spingersi? Come abbiamo avuto modo di osservare in precedenza, si può sostenere che si sta sempre più consolidando l’idea che gli interventi sanitari si devono basare sul concetto di rischio, di costi e di benefici43.
In questo contesto diventa concreto il “diritto di morire con dignità”, rifiutando il cosiddetto “accanimento terapeutico” e richiedendo anche terapie del dolore che possono determinare un abbreviarsi della vita, perdendo valore la “nozione di cura” fondata esclusivamente sul principio di “beneficialità”, solo apparentemente oggettivo. Dal collegamento, sempre più stretto, tra cura e volontà della persona interessata emerge, secondo Rodotà, anche il diritto di rifiutare le cure per motivi soggettivi, tra cui rientrano le ragioni religiose, anche in situazioni in cui la guarigione sarebbe sicura e piena. V. Rodotà, La vita e le regole, tra diritto e non diritto, cit., 237. In senso analogo, anche Quadri, Il codice deontologico medico, in Resp. civ., 2002, 945946, che nega che la cd. “posizione di garanzia del medico” possa legittimare un’imposizione della cura non voluta. 39
Cfr. Cendon, Cellule staminali somministrate ai bambini sofferenti di gravi malattie neurologiche, in Minorgiustizia, 2013, 2, 236. 40
41
CNB, Parere 27 febbraio 2015, cit., 21.
Le peculiarità dell’attività sanitaria è rappresentata proprio dall’unicità del rapporto esistente tra la professione medica e il suo oggetto. Così jonas, Tecnik, Medizin und Ethic. Zur Praxis des Princips Verant- wortung; Becchi-bonussi, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, Torino, 1997, 108. Secondo l’A., l’intero rapporto della professione medica con il suo oggetto costituisce un caso a sé perché “la medicina è una scienza; la professione medica è l’esercizio di un’arte fondata su di essa”. 42
Sul concetto di appropriatezza in medicina, vedi gli studi di Donebedian, The Definition of Quality and Approaches to Its Assessment, Health Administration Press, 1980. Inoltre, 43
Questo significa che il tema della qualità delle cure, l’esigenza di indirizzare i comportamenti professionali contrastando il ricorso ad interventi, non clinicamente giustificati, sono oggi, in un quadro di riduzione delle risorse, ancora più evidenti e di fatto mantengono come centrale la questione sul “come” procedere in modo che le decisioni e le scelte concretamente adottate dai clinici siano pienamente coerenti con le finalità istituzionali di cura, attraverso interventi efficaci ed appropriati, in condizioni di sicurezza e di efficienza operativa. Però, per evitare che l’analisi economica dei costi e dei benefici si riduca semplicemente ad un calcolo numerico, si deve spostare l’attenzione verso il concetto di valore della prestazione sanitaria, valutando le priorità e l’impatto delle scelte terapeutiche effettuate. La riflessione critica condotta negli ultimi decenni sulla medicina ha messo bene in luce come il medico nel prendere le sue decisioni debba sempre considerare tutti i diversi esiti che queste comportano oltre a pesarne sia il vantaggio che il danno. Non si tratta, dunque, soltanto di perseguire il fine del ripristino dello stato di salute dei pazienti, come con troppa semplicità si è pensato ed insegnato per molto tempo, ma di valutare in quale misura le possibili scelte terapeutiche incideranno sulla qualità delle loro vite44. In questo senso, una prestazione sanitaria si può definire appropriata quando viene erogata al paziente giusto, al momento giusto nella giusta quantità, a livello organizzativo ottimale45 in so-
nel Glossario a cura del Ministero della salute (fonte Manuale di formazione per il governo clinico: Appropriatezza, Dipartimento della programmazione e dell’ordinamento del Servizio sanitario nazionale, Direzione generale della programmazione sanitaria), 2012, si definisce l’appropriatezza come “un intervento sanitario (preventivo, diagnostico, terapeutico, riabilitativo) correlato al bisogno del paziente (o della collettività), fornito nei modi e nei tempi adeguati, sulla base di standard riconosciuti, con un bilancio positivo tra benefici, rischi e costi”. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Frankfurt am Main, 1979, cit, ha sviluppato ulteriormente le implicazioni etiche del “Vorsorgeprinzip”, successivamente entrato nella lingua italiana come il principio di precauzione. 44
45
Si tratta della definizione di appropriatezza secondo l’HTA
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stanza, fare le cose giuste nel momento opportuno e nel setting più adatto con il minor rischio del paziente46. In definitiva, per rispondere alla domanda da cui queste ultime riflessioni hanno preso origine, non è possibile pretendere di delineare in modo netto il margine di apprezzamento lasciato al medico nella valutazione clinica di queste situazioni assai difficili. Egli, perciò, se da una parte non può ignorare quelle prospettive terapeutiche “innovative” che appaiono plausibili per la sua competenza professionale, d’altra parte e allo stesso modo, ha non solo il diritto ma anche il dovere di non praticare una terapia “compassionevole” se, secondo scienza e coscienza, ritiene che la stessa possa essere non solo inefficace ma addirittura pericolosa per il paziente. L’introduzione di nuove tipologie terapeutiche nei processi di cura degli individui e delle comunità dei pazienti, come risultato di una ricerca autonoma e priva di conflitti d’interesse, potrebbe in qualche modo anche rappresentare un’applicazione del c.d. “principio di precauzione”, in particolare considerato nel significato di prevenire i potenziali danni conseguenti alla mancata applicazione del principio stesso per il solo scopo di profitto. Per meglio intendersi, le decisioni terapeutiche devono essere prese in seguito a considerazioni di carattere generale, nell’interesse della collettività, senza però trascurare gli interessi primari del singolo cittadino, quali il mantenimento della propria salute, la cura della malattia, la conservazione di una qualità di vita che sia la migliore possibile.
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In questo modo, la cura si configura come un aspetto di quella funzione assistenziale che fa riferimento certamente alla qualità tecnico-scientifica dei percorsi clinici, ma soprattutto alla sua accettabilità e pertinenza rispetto a persone, luoghi, circostanze e stato delle conoscenze47. Naturalmente, ai fini della sicurezza 48 e qualità delle cure, diviene imprescindibile il ricorso ai percorsi organizzativo-assistenziali49 che consentono di avere una serie di indicazioni rivolte sia alla gestione della patologia sia alle esigenze organizzative che sono alla base del soddisfacimento del bisogno complessivo di salute in campo sanitario e degli aspetti globali di assistenza della persona50.
Questo concetto è ampiamente ripreso nell’art. 3 rubricato “Buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida”, della l. 8.3.2017, n. 24 “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale” (Gelli – Bianco), in G.U., 17.3.2017, n. 24. 47
L’art. 1 della l. 8.3.2017, n. 24, cit., oltre a sancire la sicurezza delle cure come parte costitutiva del diritto alla salute, perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività, dispone che la stessa si realizzi anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative. Tale principio ha ispirato anche il nuovo codice di deontologia medica, cit., in particolare, l’art. 13 “Le prescrizioni e i trattamenti devono essere ispirati ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche tenuto conto dell’uso appropriato delle risorse, sempre perseguendo il beneficio del paziente secondo criteri di equità”. 48
Si intende, in questo caso, tutto l’insieme dei soggetti che intervengono nel processi di somministrazione delle terapie e dei farmaci, quali il Servizio sanitario nazionale, il Ministero della Salute, l’Istituto superiore della sanità, l’Aifa, le strutture ospedaliere, personale medico, i comitati etici, etc. 49
(Health Technology Assestament). Forse, però, la nozione più accreditata, anche a livello internazionale, è quella proposta dai ricercatori dell’organizzazione americana RAND Corporation (Brook, Appropriateness: the next frontier, in BMJ, 1994, 308:218), per i quali, una procedura è appropriata se: “il beneficio atteso (ad es. un aumento della aspettativa di vita, il sollievo dal dolore, la riduzione dell’ansia, il miglioramento della capacità funzionale) supera le eventuali conseguenze negative (ad es. mortalità, morbosità, ansia, dolore, tempo lavorativo perso) con un margine sufficientemente ampio, tale da ritenere che valga la pena effettuarla”. Sanmartin, Murphy, Choptain, et al., Appropriateness of healthcare interventions: concepts and scoping of the published literature, in Int J Technol Assess Health Care, 24 (3), 2008, 342-9. 46
Come, ad esempio, la Health Technology Assessment (HTA) che valuta, nell’analisi delle implicazioni cliniche, sociali, organizzative, economiche, etiche e legali delle tecnologie, l’efficacia sperimentale (in termini d’efficacia assoluta o efficacy), l’efficacia pratica (detta “efficacia relativa” o effectiveness) e l’efficienza (efficiency) di ciascuna “tecnologia” che prende in esame. Nella fattispecie, il termine “tecnologie” si riferisce tanto agli interventi terapeutici e riabilitativi quanto agli strumenti, alle apparecchiature, alle procedure mediche e chirurgiche, ai protocolli d’intervento e d’assistenza, alle applicazioni informatiche (per esempio, la cartella clinica elettronica), e non ultimo ai sistemi organizzativi e gestionali. 50
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Tale approccio consente, inoltre, di incrementare l’affidabilità del sistema e di ricollocare in una giusta dimensione le aspettative del paziente e le scelte dei professionisti, conferendo alla relazione medico-paziente una connotazione più partecipata e trasparente51.
David Naylor, presidente della Canadian Accademy of Health Sciences (CAHS), vari anni or sono si è chiesto che cosa sia una cura appropriata. E a questa domanda ha risposto con queste parole: “ciò dipende da che cosa si richieda ai medici, da dove essi vivono e lavorano, dal peso che essi danno ai diversi tipi di evidenza e agli obiettivi finali, dal fatto che essi considerino le esigenze del paziente oppure quelle della famiglia, dai livelli delle risorse presenti in un dato sistema sanitario e dai valori che prevalgono sia in quel sistema che nella società dove i medici prestano la loro opera”. Cfr. Naylor, What is appropriate care?, NEJM, 338, 1998, 1918-1920. 51
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i g Saggi e pareri Saggi e pareri ag i s rer e a L’azione di rivalsa e p l’azione di responsabilità amministrativa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria: le novità introdotte dalla l. n. 24/2017 Silvia Pari
Dottore di Ricerca Sommario: 1. Azione di rivalsa o azione di regresso? Una precisazione terminologica. – 2. L’azione di responsabilità amministrativa nel settore pubblico. – 3. L’azione di rivalsa nel settore privato: una nuova opportunità di regolazione contrattuale? Abstract: La l. n. 24/2017, all’art. 9, disciplina l’azione di rivalsa della struttura sanitaria privata nei confronti del professionista che collabori con essa, laddove questi abbia cagionato un danno. Nel privato detta azione può essere esercitata, avanti al giudice ordinario, soltanto se il sanitario abbia agito con dolo o colpa grave, entro limiti temporali e quantitativi predeterminati. Per quanto riguarda, invece, il settore pubblico, la norma richiama la figura dell’azione di responsabilità amministrativa, esercitata dal Pubblico Ministero presso la Corte dei Conti. Art. 9 of Law no. 24/2017 disciplines the action of compensation of the private healthcare structure to the health worker who collaborates with it, if he causes a damage to the patient. In the private sector, such action may be exercised in front of the civil court only if the conduct of the health worker has been characterized by fraud or gross negligence, within a period of time and an economic amount that are predetermined. As far as the public sector is concerned, the law recalls the figure of the administrative liability action, exercised by the Public Prosecutor at the Court of Auditors.
1. Azione di rivalsa o azione di regresso? Una precisazione terminologica Una delle principali novità contenute nella l. 8 marzo 2017, n. 24, recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” è rappresentata dall’azione di rivalsa che, in caso di condanna al risarcimento del danno in favore del paziente, può essere esercitata dalla struttura sanitaria privata nei confronti del professionista che si è reso materialmente responsabile dell’inadempimento. Affinché l’analisi della fattispecie risulti non soltanto efficace ma altresì corretta, occorre partire da una precisazione di carattere terminologico: quella disciplinata sotto il nome di “azione di rivalsa” dalla l. n. 24/2017 è in realtà, propriamente, una azione di regresso. Come noto, infatti, la rivalsa è figura tipica del diritto delle assicurazioni e sta a indicare il diritto in capo all’assicuratore di rivalersi sul proprio asResponsabilità Medica 2017, n. 3
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sicurato per le somme liquidate in favore di terzi in conseguenza di un evento dannoso e che siano escluse, per le più svariate ragioni, dalla copertura assicurativa. Quella che la l. n. 24/2017 disciplina all’art. 9 è in realtà, più propriamente, una azione di regresso, ossia l’azione che consente al condebitore solidale, che abbia adempiuto la prestazione (nella fattispecie la struttura sanitaria), di ottenere quanto di sua spettanza dall’altro condebitore (ossia dal professionista sanitario), ai sensi di quanto disposto dall’art. 2055 c.c. Una volta correttamente individuata la figura disciplinata dal legislatore della riforma, vediamo quali sono le condizioni e le modalità di esercizio di detta azione. Innanzitutto, l’azione di rivalsa può essere esercitata dalla struttura sanitaria soltanto laddove la condotta del professionista sia stata caratterizzata da dolo o colpa grave. La norma prosegue poi disciplinando l’ipotesi in cui il professionista non sia stato parte del giudizio (o della procedura stragiudiziale) di risarcimento del danno e prevede che, in tal caso, l’azione di rivalsa può essere esercitata dalla struttura sanitaria soltanto a pagamento avvenuto ed entro 1 anno dallo stesso. Detto termine è espressamente previsto “a pena di decadenza” e dunque, ai sensi di quanto previsto dall’art. 2966 c.c., lo stesso non può essere interrotto o sospeso se non con il concreto esercizio dell’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria. Il comma 3° dell’art. 9 specifica, inoltre, il valore da riconoscere alla decisione pronunciata nel corso del giudizio di risarcimento promosso nei confronti della struttura, affermando che la stessa “(…) non fa stato nel giudizio di rivalsa se l’esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio (…)”. Né, prosegue la norma, qualora vi sia stata transazione, la stessa può essere opposta al professionista nell’ambito del giudizio di rivalsa. La disciplina è chiara e richiama un principio tipico del nostro ordinamento in materia di obbligazioni risarcitorie: nessun atto (sia esso un contratto o una sentenza) può produrre effetti nei confronti dei terzi.
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Coerentemente con detto assunto, soltanto laddove del giudizio risarcitorio sia stato parte anche il professionista il Giudice chiamato a pronunciarsi sulla rivalsa potrà desumere argomenti di prova dalle prove assunte in detto giudizio (secondo quanto previsto dal comma 7 della norma). La competenza per il giudizio di rivalsa promosso dalla struttura privata è assegnata al giudice ordinario e la misura della rivalsa, in caso di colpa grave, non può superare “(…) una somma pari al valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguito nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo (…)”1. La misura della rivalsa non si applica con riferimento ai professionisti che operino all’interno della struttura in regime libero-professionale oppure abbiano con il paziente un rapporto contrattuale diretto.
2. L’azione di responsabilità amministrativa nel settore pubblico Per quanto riguarda, invece, le strutture pubbliche, la fattispecie di riferimento è quella dell’azione di responsabilità amministrativa, promossa dal Pubblico Ministero presso la Corte dei Conti. Detta previsione arriva a valle di un travagliato percorso parlamentare che, con riguardo alle ipotesi di rivalsa riferibili alle strutture pubbliche, è stato caratterizzato da alcuni cambi di rotta. La prima versione licenziata dalla Camera dei Deputati prevedeva, infatti, in materia, l’affermazione esclusiva della giurisdizione ordinaria e la
È evidente che, nella formulazione adottata dal legislatore con riferimento al quantum della rivalsa, vi è un errore terminologico. Con l’emendamento approvato nella giornata del 21 Settembre u.s., infatti, le parole: “(…) pari al valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguito nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo (…)” sono sostituite dalle seguenti: “(…) pari al triplo del valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguito nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo (…)”. 1
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radicale esclusione della giurisdizione della Corte dei Conti, tradizionalmente competente in tema di danno erariale. La decisione, adottata nella versione definitiva, di ricondurre l’azione di responsabilità amministrativa nell’alveo della giurisdizione della Corte dei Conti risulta, senz’altro, più logica e assai più aderente ai principi generali del nostro ordinamento giuridico (evitandosi, in particolare, il contrasto con l’art. 103 della nostra Carta costituzionale che espressamente prevede la giurisdizione della Corte dei Conti per tutte le materie che attengono alla contabilità pubblica). Per quanto riguarda, poi, la misura della rivalsa, anche qui la stessa “(…) non può superare una somma pari al valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo (…)”. Per quanto attiene al settore pubblico, poi, è prevista una sanzione – sotto forma di interdizione da alcuni incarichi professionali – in caso di accoglimento della domanda risarcitoria formulata dal paziente. In tali casi, infatti, il professionista non può essere preposto, per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della domanda risarcitoria, “(…) a incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti e il giudicato costituisce oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori (…)”.
3. L’azione di rivalsa nel settore privato: una nuova opportunità di regolazione contrattuale? L’azione di rivalsa (o, per meglio dire, di regresso) che può essere esperita dalla struttura sanitaria privata nei confronti dell’esercente la professione sanitaria – nei limiti delle rispettive colpe e dell’entità delle conseguenze dannose che ne siano derivate nei confronti del paziente – trova il proprio fondamento nell’art. 2055 c.c. in materia di obbligazioni solidali, a norma del quale “se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del
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danno. Colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri (…)”. L’azione della struttura che abbia risarcito il danno cagionato al paziente si fonda, in altre parole, sul diritto riconosciuto a ciascun corresponsabile di un evento dannoso di agire, appunto, in regresso nei confronti degli altri – secondo la ripartizione interna delle rispettive responsabilità – e non, invece, sul rapporto negoziale in essere con il professionista. In tal senso occorre, tuttavia, tenere ben presente che la struttura – che pure deve avvalersi di professionisti sanitari per adempiere le prestazioni connesse al rapporto contrattuale in essere con il paziente – non può trasferire integralmente su di essi, mediante l’azione di regresso, il rischio della propria attività di impresa. È sulla struttura sanitaria che grava, infatti, l’onere organizzativo in ordine alle risorse materiali e umane necessarie per adempiere le prestazioni oggetto del contratto di cura che conclude con i propri pazienti e, dunque, la struttura stessa non potrà pretendere che il rischio connesso alla sua attività di impresa ricada in tutto sui propri dipendenti o collaboratori. Ciò non toglie che, nel concreto atteggiarsi del rapporto contrattuale intercorrente fra struttura e professionista che con essa collabori, misura e natura del regresso possano essere oggetto di apposita e specifica disciplina. Una soluzione, in tal senso, potrebbe essere rappresentata da una attenta redazione del contratto di collaborazione professionale, al fine di definire in maniera corretta e circostanziata gli elementi in presenza dei quali è da ritenersi ricorrente quella “colpa grave” che l’art. 9 della l. n. 24/2017 pone a fondamento della possibilità per la struttura sanitaria di agire in regresso nei confronti del professionista. Se è vero, infatti, che per “colpa grave” è da intendersi una grossolana violazione di quei tradizionali doveri di diligenza, perizia e prudenza gravanti sull’esercente la professione sanitaria, è altrettanto vero che le fattispecie rientranti in tale categoria – e legittimanti, dunque, l’esercizio dell’azione di regresso da parte della struttura in caso di inadempimento – possono essere oggetto di previsione contrattuale specifica. Responsabilità Medica 2017, n. 3
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E, in tal senso, potrebbe, ad esempio, decidersi che a essere rilevanti siano non soltanto le gravi inadempienze sotto il profilo clinico-sanitario ma anche le significative inadempienze di carattere organizzativo (in relazione alla tenuta della cartella clinica, alle modalità di informazione e raccolta del consenso dei pazienti e simili). In conclusione, dunque, la nuova disciplina in ma-
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teria di rivalsa della struttura privata nei confronti dei propri collaboratori può rappresentare l’occasione giusta per rivedere e ripensare le strategie d’impresa della struttura stessa, specie con riferimento al rapporto con i professionisti che con essa collaborano, al fine di contrattualizzare – e rendere, dunque, più immediatamente ed efficacemente operativo – il regresso previsto dalla norma.
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i g Saggi e pareri Saggi e pareri ag i s rer La gestione dell’obbligo e pa informativo nelle indagini prenatali Maria Livia Rizzo
Assegnista di ricerca nell’Università di Bologna Sommario: 1. Introduzione. – 2. Diagnosi prenatale e screening prenatale. – 3. La scelta dell’indagine prenatale tra autodeterminazione della paziente e dilemmi etici. – 4. L’informazione dettagliata è sempre informazione adeguata?
Abstract: Analisi di laboratorio invasive, che diagnosticano la totalità delle anomalie cromosomiche, ma costose e comportanti un rischio di aborto, e screening non invasivi e meno costosi, ma con limitate capacità diagnostiche, rientrano entrambi nelle indagini prenatali finalizzate a identificare lo stato di salute del feto in utero. La scelta del test scaturisce da un difficile bilanciamento tra benefici e rischi, pertanto il colloquio medico-paziente deve svolgersi in modo tale che optino per la diagnosi invasiva solo le gravide che presentano una reale indicazione clinica. Invasive prenatal tests which are able to diagnose all chromosomal abnormalities, but expensive and involving a procedure-related miscarriage risk, and non-invasive and economical tests, but less accurate than invasive ones, are both part of prenatal testing aimed to identify the foetus’s condition. Which test is better for women to choose depends on the result of the balance between benefits and risks, so that the doctor-patient interview must be conducted in such a way that only the pregnant women with a clinical indication opt for invasive tests.
1. Introduzione Le indagini prenatali consistono in un insieme di analisi strumentali e di laboratorio finalizzate a identificare lo stato di salute del feto in ute-
ro e rappresentano una importante componente dell’assistenza prenatale fornita alle pazienti in stato di gravidanza. Nel periodo immediatamente successivo alla prima pubblicazione1, datata 1966, relativa alla possibilità di esaminare il cariotipo del feto in utero analizzando le cellule fetali, i test prenatali sono entrati, nei Paesi occidentali, a far parte della pratica clinica di gestione della gravidanza, evolvendosi gradualmente2. In Italia, un percorso diagnostico di tipo routinario finalizzato a rilevare la presenza di anomalie genetiche fetali viene predisposto unicamente con riferimento alla trisomia 21, nota come sindrome di Down3, sulla base di quanto stabilito dalle Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) aggiornate al 20114 e della Società Italiana di
Steele-Breg, Chromosome analysis of human amniotic-fluid cells (1996) 1 Lancet 383 ss. 1
De Jong, Prenatal screening à la carte? Ethical reflection on the scope of testing for foetal anomalities, The Netherlands, 2013. 2
La sindrome di Down è la più comune aneuploidia causa di disabilità intellettiva e ritardo nello sviluppo, v. Bui-Meiner, State of the art in prenatal diagnosis, in Leuzinger Bohleber, Engels, Tsiantis, The Janus Face of Prenatal Diagnostics. A European Study Bridging Ethics, Psycholanalysis, and Medicine, London, 2008, 61 ss. 3
ISS. Sistema Nazionale per le Linee Guida (SNLG). Gravidanza fisiologica, 2011: reperibile in http://www.salute.gov.it/ imgs/c_17_pubblicazioni_1436_allegato.pdf. 4
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Ecografia Ostetrica e Ginecologica e Metodologie Biofisiche (SIEOG) aggiornate al 20155. Nello specifico, a tutte le pazienti, indipendentemente dal rischio di partorire un feto affetto da trisomia 21, il medico è tenuto a offrire informazioni sulle possibilità di sottoporsi a screening e sulle procedure relative alla diagnosi prenatale della sindrome di Down.
2. Diagnosi prenatale e screening prenatale È opportuno, in primo luogo, distinguere le metodiche di screening dalle tecniche di diagnosi prenatale in senso stretto, in quanto, pur essendo entrambe rivolte al medesimo fine, sono caratterizzate da un assai differente grado di invasività; sono in grado di individuare, rispettivamente, una gamma più o meno ampia di anomalie; e sono dotate, in definitiva, di un diverso valore predittivo. Le metodologie di tipo diagnostico in senso stretto sono la amniocentesi, la villocentesi e la funicolocentesi o cordocentesi. La amniocentesi consiste nel prelievo di liquido amniotico dalla cavità uterina, eseguito nel secondo trimestre di gravidanza, tramite una puntura transaddominale6. La villocentesi è rivolta al prelievo dei villi coriali sotto stretto controllo ecografico attraverso una puntura transaddominale nel primo trimestre di gestazione7.
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La amniocentesi comporta un rischio di aborto che nel 1986 venne calcolato pari all’1%8 ma che studi molto più recenti hanno indicato in un range inferiore, ricompreso tra 0.5 e 1%9. Lo stesso valore è stato attribuito al rischio di aborto connesso alla villocentesi10. La funicolocentesi o cordocentesi, è invece diretta alla acquisizione del sangue fetale del cordone ombelicale attraverso la puntura di uno dei vasi del funicolo, a partire dal secondo trimestre di gravidanza, con un rischio di perdita fetale del 2%11. Proprio l’elevato rischio di aborto esclude il ricorso routinario a questo tipo di indagine, alla quale oggi si ricorre solo ove sia necessario ottenere informazioni aggiuntive determinanti per la diagnosi, che solo essa può fornire12. Gli screening prenatali sono, al contrario, test non invasivi basati sull’analisi di marcatori biochimici sul sangue materno13, integrati con indagini eco-
Tabo et al., Randomised controlled trial of genetic amniocentesis in 4606 low-risk women (1986) 1 Lancet 1287 ss. 8
Tabor-Alfiervic, Update on Procedure-Related Risks for Prenatal Diagnosis Techniques (2010) 27 Fetal Diagn Ther 1 ss. 9
10
Ibidem.
Daffos-Capella Pavlovsky-Forestier, Fetal blood sampling during pregnancy with use of a needle guided by ultrasound: a study of 606 consecutive cases (1985) 153 Am J Obstet Gynecol 655 ss.; Society for Maternal-Fetal Medicine (SMFM), Berry et al., Fetal blood sampling (2013) 209(3) Am J Obstet Gynecol 170 ss. 11
La letteratura scientifica raccomanda, in particolare, l’uso della funicolocentesi nei casi di sospetta anemia fetale severa, trombocitopenia e idrope, v. ibidem. 12
Si tratta di test di screening che utilizzano marcatori sierici materni quali la gonadotropina corionica umana (totale o frazione beta libera, hCG), la proteina plasmatica A associata alla gravidanza (PAPP-A), l’alfafetoproteina (AFP), l’estriolo non coniugato e l’inibina A, v. ISS. Sistema Nazionale per le Linee Guida (SNLG), cit. Per lo screening della sindrome di Down tra le 11 settimane e le 13 settimane e 6 giorni di gravidanza, è attualmente ritenuto indicato consigliare alle pazienti il cd. “test combinato” (composto dal bi-test biochimico – Beta hCG libero e PAPP-A – e dal test ecografico della misurazione della translucenza nucale fetale) che è in grado di calcolare la probabilità del feto di essere affetto anche da trisomia 18, o sindrome di Edwards, e dalla trisomia 13, o sindrome di Patau. Ove la prima visita venga, invece, effettuata dalla paziente in un’epoca gestazionale successiva, tra le 15 e le 20 settimane, viene ritenuto opportuno proporre un test su siero clinicamente ed economicamente effica13
SIEOG, Linee guida, 2015: reperibile in http://www.sieog. it/sieog/wp-content/uploads/2016/02/Linee-Guida-2015-xsito1.pdf. 5
6
Steele-Breg, op. cit., 383-385.
Smidt-Jensen-Hahnemann, Transabdominal fine needle biopsy from chorionic villi in the first trimester (1984) 4 Prenat Diagn 163. Il prelievo dei villi coriali veniva eseguito originariamente utilizzando una metodica descritta da Kazy-Rozovsky-Bakharev, Chorion biopsy in early pregnancy: A method of early prenatal diagnosis for inherited disorders (1982) 2 Prenat Diagn 39 ss., che prevedeva l’inserimento di una cannula all’interno del canale cervicale. Tale metodica oggi è stata completamente abbandonata a favore della procedura transaddominale. 7
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grafiche, tra cui in particolare lo studio e la misurazione della translucenza nucale fetale14. Si tratta di test che possiedono il pregio di non essere invasivi e di essere impiegati a basso costo, ma che presentano il deficit di non essere diagnostici e di essere soggetti ad un alto tasso di falsi positivi15. Inoltre, mentre tramite le tecniche invasive è possibile diagnosticare tutte le numerose anomalie cromosomiche che il feto può presentare, i test di screening intercettano solo alcune altre anomalie, oltre alla trisomia 21. Si tratta, in particolare, di anomalie cromosomiche meno frequenti della sindrome di Down, alcune delle quali sono mortali, come la trisomia 18 e la trisomia 13, altre sono asintomatiche e relativamente benigne, come le sindromi XXY, o sindrome di Klinefelter, XXX e XYY. Altre, infine, non sono significative o hanno un impatto incerto sulla salute del nascituro, e di esse è pertanto difficoltoso per il sanitario fornire una corretta interpretazione funzionale ad una loro gestione clinica16.
ce, come il triplo o il quadruplo test (National Collaborating Centre for Women’s and Children’s Health, Antenatal Care, London, 2008). La translucenza nucale è uno degli screening prenatali più utilizzati in Italia. Viene effettuato tra la undicesima e la dodicesima settimana di gravidanza e si basa sulla misurazione, mediante ecografia, dello spessore della plica nucale: maggiore è tale spessore, maggiore è la probabilità che il feto sia affetto da sindrome di Down (Ragusa-Garofalo-Montoneri. Diagnosi Prenatale e Genetica, in Keith Edmonds (a cura di), Dewhurst - Trattato di Ostetricia e Ginecologia, Roma, 2012, 99 ss.). 14
Ibidem; Grati et al., Chromosome abnormalities investigated by non-invasive prenatal testing account for approximately 50% of fetal unbalanced associated with relevant clinical phenotypes (2010) 152A American Journal of Medical Genetics 1434 ss. 15
Leung et al., Rapid aneuploidy testing (knowing less) versus traditional karyotyping (knowing more) for advanced maternal age: what would be missed, who should decide (2008) 14 Hong Kong Medical Journal 6 ss.; Caine et al, Prenatal detection of Down’s syndrome by rapid aneuploidy without a full karyotype: a cytogenetic risk assessment (2005) 366 Lancet 123 ss.
3. La scelta dell’indagine prenatale tra autodeterminazione della paziente e dilemmi etici L’analisi della probabilità che un feto sia affetto da sindrome di Down viene gestita, tramite le indagini prenatali, a due livelli, ossia in maniera differente, a seconda che la gestante abbia una gravidanza ad alto rischio oppure no17. I fattori di rischio specifici derivano da fattori genetici, come la presenza di un soggetto affetto nella famiglia o genitori portatori sani di una condizione genetica, da fattori epidemiologici, quali l’età materna avanzata – intendendosi per tale quella superiore ai 35 anni – o da fattori legati a precedenti screening prenatali esitati in un risultato positivo18. Sulla base delle raccomandazioni fornite dalle linee guida, tutte le gravide, indipendentemente dai suddetti fattori di rischio, devono essere informate della possibilità di sottoporsi alle sopra indicate metodiche di screening. Ove il test di screening fornisca un risultato negativo, i protocolli prevedono che la paziente non debba essere indirizzata ad ulteriori indagini cliniche. Qualora invece il risultato dello screening sia positivo, e dunque indichi la presenza significativamente probabile di una delle anomalie cromosomiche che questi test sono in grado di intercettare, alla paziente viene indicata la possibilità di effettuare una vera e propria diagnosi prenatale tramite una delle indagini invasive: amniocentesi o villocentesi, a seconda dell’epoca gestazionale e della scelta della paziente. A queste stesse indagini invasive possono essere direttamente indirizzate le gestanti che presentano i fattori di alto rischio sopra citati. La diagnosi prenatale invasiva confermerà o smentirà il dubbio della sussistenza di una anomalia cromosomica conseguente ai fattori di alto
16
17
ISS. Sistema Nazionale
per le
Linee Guida (SNLG), cit.
Società Italiana di Diagnosi Prenatale e Medicina Materno Fetale, Linee guida sulle indagini in diagnosi prenatale, 2006. Risulta a rischio più di una gestante su 250 (>1/250) nel primo trimestre, v. sieog, cit. 18
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rischio e/o al risultato positivo del test di screening, con certezza quasi assoluta. Da un lato, proprio in virtù della elevata capacità diagnostica delle indagini invasive, che sole possono garantire alla gestante di conoscere con sicurezza lo stato di salute del feto, la paziente può decidere di essere sottoposta ad amniocentesi o villocentesi pur non presentando alcuno dei summenzionati fattori di rischio. Del resto, il potenziamento del processo decisionale clinico e dell’autonomia di scelta della gestante rappresentano l’outcome che giustifica l’utilizzo delle tecnologie invasive e rischiose di diagnosi prenatale19. Dall’altro lato, tuttavia, alla possibilità diagnostica non sempre corrisponde una possibilità terapeutica, il che richiama il dilemma etico rappresentato dalla decisione di sottoporsi o meno agli accertamenti e di come affrontare successivamente il risultato del test20. Di fronte ad una simile scelta, che scaturisce inevitabilmente da un difficile bilanciamento tra benefici e rischi, il medico riveste un importante ruolo – non solo nell’informare la paziente del rischio di aborto e della possibilità di individuazione solo di una fascia limitata di possibili anomalie, ossia quelle cromosomiche – ma anche nel sollecitare la paziente ad esprimere le proprie preferenze circa le finalità del test diagnostico21. A tal fine, è necessario che il sanitario indaghi attentamente le motivazioni che conducono la paziente a voler effettuare tali indagini in modo tale che decidano di indirizzarsi verso la diagnosi invasiva solo le gravide che presentano una reale indicazione clinica22.
Gates, Ethical considerations in prenatal diagnosis (1993) 159 Western Journal of Medicine 391 ss. 19
Nazifi et al., Atteggiamento della popolazione italiana nei confronti della diagnosi prenatale: aspetti etici e psicologici, in Bollettino della Società Medico Chirurgica di Pavia, Comunicazione all’adunanza del 4 ottobre 2011, 2011, CXXIV(3), 589 ss. 20
21
Gates, op. cit., 391 ss.
22
Nazifi et al., op. cit., 589-595.
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4. L’informazione dettagliata è sempre informazione adeguata? Una questione che emerge dall’analisi dei vigenti protocolli in tema di indagini prenatali riguarda il grado di approfondimento dell’informazione clinica che il medico deve fornire alla gestante. Il problema maggiore si segnala in particolare nel caso in cui il test di screening mostri un esito negativo (quindi un mancato riscontro di una significativa probabilità di anomalie) in relazione a una gravidanza che la gestante interromperebbe – ove sussistenti i presupposti di cui alla l. 194 del 22 maggio 197823 – se il feto fosse affetto dalla patologia.
L’interruzione volontaria della gravidanza è prevista dagli artt. 4 e 6 l. n. 194/1978, di cui il primo considera il caso dell’interruzione entro i primi novanta giorni e il secondo l’interruzione oltre il novantesimo giorno. Le circostanze che giustificano l’interruzione sono sensibilmente diverse nelle due previsioni della legge. Nel primo caso il presupposto per l’interruzione di gravidanza è un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, che potrebbe derivare dalla prosecuzione della gravidanza, dal parto o dalla maternità. In questo caso il pericolo è collegato a fattori che non sono necessariamente di natura sanitaria. Nel secondo caso, invece, la legge prevede circostanze più gravi, vale a dire un grave pericolo per la vita della donna derivante o dalla condizione di gravidanza oppure dall’evento del parto, o un grave pericolo per la salute della stessa, conseguente ad accertati fatti morbosi, anche inerenti rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro. Per quanto concerne, nello specifico, tali anomalie o malformazioni, pare utile precisare che affinché l’aborto sia legittimo, entro i primi novanta giorni di gravidanza è sufficiente che sussistano elementi per i quali esiste una ragionevole probabilità che il concepito risulti portatore di tali processi morbosi. Dopo il novantesimo giorno questi ultimi devono essere, invece, accertati. Sul punto v. Cicognani-Fallani-Pelotti, Medicina legale, Bologna, 2014. L’importanza della sussistenza delle condizioni stabilite dalla l. 194/78 per ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza è funzionale ad evitare finalità di “selezione” del genere umano mediante una forma di aborto eugenetico, che ha corredato le possibilità fornite dalle tecniche di indagine diagnostica da dubbi e dibattiti di carattere etico. Sul punto cfr. Linee Guida per Test Genetici dell’Istituito Superiore di Sanità del 19 maggio 1998, le quali prescrivono che non deve essere accolta la richiesta di test finalizzati ad accertare condizioni non patologiche del feto, a meno che la condizione non sia connessa con un aumentato rischio di malattia per il feto medesimo. 23
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Obbligo informativo nelle indagini prenatali
Come detto, in caso di risultato negativo del test di screening, gli attuali protocolli non raccomandano di indirizzare la paziente ad approfondimenti diagnostici tramite amniocentesi o villocentesi, stante la maggiore incidenza di un rischio di aborto, dovuta all’invasività di tali indagini, rispetto alla probabilità per il feto di essere affetto da una malformazione cromosomica. La questione, tuttavia, diviene più complessa nel caso in cui la gestante dichiari al medico la propria volontà di portare a termine la gravidanza solamente a condizione che il nascituro non sia affetto da patologie. La Suprema Corte24 ha ritenuto sussistente, in simili casi, in capo al sanitario, l’obbligo di prescrivere alla paziente una procedura diagnostica invasiva. L’intento interruttivo della gravidanza acquisisce dunque il carattere di una presunzione semplice che consente di ritenere richiesta dalla gestante la sottoposizione a una delle procedure diagnostiche invasive, delineando una forma di responsabilità oggettiva del medico, gravato dall’onere probatorio – incombente peraltro in termini di probatio diabolica – di provare l’assenza della volontà materna di interrompere la gravidanza in presenza di anomalie fetali25. In tale ottica, la decisione di ritenere sottintesa la richiesta della paziente di essere sottoposta a diagnosi invasiva anche in caso di risultato negativo del test di screening, presuppone la necessità di chiarire in quale misura il medico sia tenuto, a monte, a informare la gestante circa il grado di affidabilità dei test di screening. In via generale, è noto che la prerogativa di ricevere informazioni dal sanitario, in modo tale da poter discutere insieme a lui i benefici e i rischi delle possibili opzioni, ed effettuare la scelta che, sulla base delle indicazioni cliniche ricevute, il
paziente ritiene più adatta per se stesso, è funzionale al diritto alla salute26. La fonte da cui scaturisce l’obbligo di informazione, strettamente associato al principio del consenso informato, risiedeva, secondo l’orientamento più risalente, nella previsione di cui all’art. 1337 c.c., configurando una responsabilità precontrattuale del professionista sanitario, che riporta l’obbligo civilistico di buona fede a cui le parti sono tenute nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto27. Al contrario, un oramai consolidato orientamento dottrinale e giurisprudenziale28 qualifica la responsabilità del medico per omessa informazione come ipotesi di responsabilità contrattuale per inadempimento ex art. 1218 c.c., sul presupposto che il consenso informato si inserisca all’interno di un contratto già stipulato, il cui elemento fondante è insito nel cd. contatto sociale29. Presupposto, questo, destinato peraltro a mutare in seguito
Torrey, Patients’ Rights, 2012: reperibile in http://patients. about.com/od/patientempowermentissues/a/patientsrights. htm. 26
De Matteis, Causalità e danno nella responsabilità professionale, in Visintini (a cura di), I fatti illeciti, Padova, 1999, 111 ss. e 634 ss. «L’obbligo di informazione assume rilievo nella fase precontrattuale, nel corso della quale si forma il consenso del paziente all’intervento» e «l’omessa e completa informazione configurerebbe quindi una violazione precontrattuale del medico curante, poiché l’oggetto della prestazione in senso stesso ancora non è stato eseguito» (Cass., 15.1.1997, n. 134; cfr. conformi Cass., 10.9.1999, n. 9617 e Cass., 23.5.2001, n. 7027). Sulla natura della responsabilità precontrattuale e le relative conseguenze in termini di distribuzione dell’onere probatorio v. Morano Cinque, La violazione del consenso informato: la tutela in sede penale e civile, in D’Apollo (a cura di), La responsabilità del medico, Torino, 2012, 65 ss. 27
Cfr. Cass., 19.5.2011, n. 11005 che riporta «la responsabilità professionale del medico — ove pure egli si limiti alla diagnosi ed all’illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell’intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenerne il necessario consenso informato — ha natura contrattuale e non precontrattuale». v. anche Cass., 9.2.2010, n. 2847 e Cass., 27.11.2012, n. 20984. 28
La responsabilità da contatto sociale viene fatta derivare dalla professionalità che qualifica ab origine l’opera del professionista sanitario e «che si traduce in obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento, entrando in “contatto” con lui» (Cass., 22.1.1999, n. 589). 29
Il riferimento è alla ormai celebre Cass., 2.10.2012, n. 16754, nota come “sentenza Travaglino” dal cognome del suo estensore. 24
Famularo, La responsabilià del medico nella diagnosi prenatale delle malattie genetiche, in Giust. civ., 2013, X, 2119B. 25
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all’entrata in vigore della l. 8 marzo 2017 n. 2430, limitatamente agli esercenti la professione sanitaria che non abbiano agito in adempimento di una obbligazione contrattuale assunta con il paziente31, i quali sono ora esposti a responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c. L’obbligo di informazione è inoltre desumibile in via interpretativa dagli artt. 32, comma 2, 13 e 3, Cost.32 e altresì ha trovato riscontro in documenti e strumenti normativi nazionali e sovranazionali quali, tra gli altri, il Codice di Deontologia medica33, la Convenzione per la protezione dei diritti
La l. 8.3.2017 «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie» è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 17 marzo 2017 ed è entrata in vigore il 1° aprile 2017.
Saggi e pareri
dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina firmata il 4 aprile 1997 a Oviedo34 e il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica del 20 giugno 199235, nonché in numerose sentenze della Corte Suprema36. A sua volta, il principio del consenso informato è funzionale al rispetto del diritto di ogni paziente all’autodeterminazione, riguardo a cui l’inadempimento dell’obbligo informativo espone il sanitario a una responsabilità autonoma e differente da quella derivante dall’inosservanza dell’obbligo di correttezza nell’esecuzione della prestazione37.
30
Il riferimento è al comma 3, primo periodo, dell’art. 7 della l. 8.3.2017, n. 24, che riporta “l’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”. 31
Sul punto cfr. Corte cost., 15.12.2008, n. 438 che configura il consenso informato quale vero e proprio diritto della persona che trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 Cost. quale «sintesi di due diritti fondamentali: quello all’autodeterminazione e quello alla salute in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha altresì il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e quindi la sua stessa libertà personale». 32
FNOMCeO (Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri), Codice di Deontologia medica, 2014. L’art. 33, rubricato “informazione e comunicazione con la persona assistita”, dispone: «Il medico garantisce alla persona assistita o al suo rappresentante legale un’informazione comprensibile ed esaustiva sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura. Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza. Il medico rispetta la necessaria riservatezza dell’informazione e la volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto 33
l’informazione, riportandola nella documentazione sanitaria. Il medico garantisce al minore elementi di informazione utili perché comprenda la sua condizione di salute e gli interventi diagnostico terapeutici programmati, al fine di coinvolgerlo nel processo decisionale». Consiglio d’Europa, Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina. Art. 5 «Un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero ed informato. Tale persona riceve preliminarmente informazioni adeguate sulla finalità e sulla natura del trattamento nonché sulle sue conseguenze ed i suoi rischi». La “Convenzione di Oviedo” è entrata in vigore il 1°dicembre 1999 in seguito alla ratifica di cinque Stati firmatari. L’Italia non ha ad oggi ancora proceduto ad un adattamento del diritto interno non avendo adottato i decreti attuativi previsti dalla legge di ratifica n. 145 del 28 marzo 2001. I principi contenuti nella “Convenzione di Oviedo” assurgono tuttavia a punto di riferimento per la giurisprudenza e la dottrina italiana ai fini dell’interpretazione normativa. 34
CNB (Comitato Nazionale per la Bioetica), Informazione e consenso all’atto medico, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 20 giugno 1992. Il parere riporta, in particolare, la «necessità di fornire un’accurata ed analitica “informazione” al paziente sugli aspetti della malattia, sul decorso, sulle finalità del piano di cura proposto, sulle alternative possibili, sulle modalità, sui rischi e sui benefici dei singoli interventi diagnostici e terapeutici, e così via, affinché il paziente possa essere messo in grado di recuperare gran parte di quell’”autonomia” delle decisioni che spetta alla persona umana, sia essa sana che ammalata». 35
Cfr. Cass., 31.1.2013, n. 2253; Cass., 28.7.2011, n. 16543; Cass., 2.7.2010, n. 15698; Cass., 8.10.2008, n. 24791; Cass., 23.5.2001, n. 7027; Cass., 16.5.2000, n. 6318. 36
Borsellino, Consenso informato. Una riflessione filosofico-giuridica sul tema, in Faralli (a cura di), Consenso informato in medicina: aspetti etici e giuridici, 2012, III, 17 ss.; Cfr. Cass., 14.3.2006, n. 5444 e Cass., 9.2.2010, n. 2847. 37
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Al dovere informativo il medico deve adempiere anche con riferimento agli interventi che egli esegue a scopo di diagnosi38, quali appunto le indagini prenatali. Pur non trattandosi di attività diagnostica in senso stretto, le linee guida SIEOG del 2015 raccomandano l’offerta di informazione anche con riferimento alla procedura di screening prenatale. In particolare, sulla base delle citate linee guida, l’informazione in questo contesto «deve specificare cos’è un test di screening, alla ricerca di quale patologia è rivolto, quali sono i test a disposizione e, per ognuno di essi, la sensibilità, i falsi positivi e i falsi negativi»39, con ciò verosimilmente intendendosi il dovere del medico di fornire anche informazioni di tipo prettamente numerico e quantitativo. Così come predisposta, la suddetta indicazione contenuta nelle Linee guida SIEOG appare mutuata dalla già citata discussa sentenza n. 16754/2012, pronunciata tre anni prima, che ancor più puntualmente rilevava quale onere del medico quello di «provvedere ad una completa informazione circa le possibilità (tutte le possibilità) di indagini diagnostiche, più o meno invasive, più o meno rischiose, e circa le percentuali di false negatività offerte dal test prescelto [...], onde consentire alla gestante una decisione il più aderente possibile alla realtà della sua gestazione». Non si tratta più, dunque, soltanto di comunicare alla paziente una informazione «comprensibile ed esaustiva [...] sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi»40 e «sui rischi e sui benefici dei singoli interventi diagnostici»41 così come previsto dai documenti istituzionali nazionali che trattano l’aspetto dell’informazione clinica relativa all’ambito diagnostico, i quali lasciano al sanitario la libertà di dettagliare più o meno l’informazione
sulla base della propria scienza e coscienza in relazione al singolo caso concreto. La tendenza della giurisprudenza e delle raccomandazioni riportate dalle linee guida è invece ora quella di ritenere sussistente in capo al medico l’obbligo di comunicare alla gestante veri e propri dati statistici, rappresentati dalle percentuali di falsi negativi e falsi positivi offerti dal test prescelto. Da un lato è senza dubbio condivisibile che, in presenza di un risultato negativo del test di screening, ove la gestante manifesti la propria intenzione di interrompere la gravidanza in caso di feto affetto da anomalie cromosomiche, il medico abbia l’obbligo di informare la paziente della attendibilità solo parziale del risultato dello screening e di illustrarle tutte le opzioni possibili per approfondire le condizioni di salute del feto onde addivenire ad una diagnosi prossima alla certezza42. Dall’altro lato, imporre al medico, come fa la Corte di Cassazione43, di comunicare alla gestante «le percentuali di false negatività offerte dal test prescelto» significa richiedere al sanitario di riportare alla paziente un dato statistico espresso in forma di percentuale con il rischio che l’informazione non sia accurata, non sia aggiornata, e/o non sia adeguata alle capacità di comprensione della paziente44. Da un lato, è vero che i medici sovrastimano la quantità di informazioni fornite ai pazienti45 – che al contrario spesso lamentano di essere stati scarsamente informati – ma, dall’altro, un sovraccarico di dati può ostacolare l’immediata comprensione e l’elaborazione degli stessi da parte della persona assistita.
Frati et al., Quanta informazione a fine diagnostico prenatale? La Suprema Corte statuisce che sia completa, determinante e funzionale alle richieste ed alle scelte materne, in Resp. civ. e prev., 2013, I, 335. 42
FNOMCeO, cit.; Consiglio d’Europa, Rapporto Esplicativo alla Convenzione di Oviedo, 1997: reperibile in http://www. asl.vt.it/gestRisk/riskManag/Documentazione/pdf/il-consenso-informato.pdf 38
39
SIEOG, cit.
40
FNOMCeO, cit.
41
CNB, cit.
43
Cass., 2.10.2012, n. 16754.
Coppo, Doveri informativi e natura dell’obbligo di diagnosi prenatale, in Giur. it., 2013, V, 1052. 44
Waitzkin, Information giving in medical care (1985) 26(2) Journal of Health and Social Behaviour 81 ss. 45
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A tal riguardo, lo stesso Comitato Nazionale per la Bioetica afferma che le informazioni devono essere «veritiere e complete, ma limitate a quegli elementi che cultura e condizione psicologica del paziente sono in grado di recepire ed accettare, evitando esasperate precisazioni di dati (percentuali esatte – oltretutto difficilmente definibili – di complicanze, di mortalità, insuccessi funzionali) che interessano gli aspetti scientifici del trattamento»46. Pare, inoltre, utile rilevare come l’adeguatezza dell’informazione non possa prescindere da ciò che il medico stesso, in virtù della propria esperienza professionale, delle proprie competenze specialistiche e conformandosi al criterio di diligenza, reputi sia adeguato comunicare al paziente in una determinata situazione clinica. Il rischio è, invece, che i medici seguano pedissequamente e acriticamente gli standard diagnostico-terapeutici indicati dalle linee guida e dalla giurisprudenza per tutelarsi in un’ottica di medicina difensiva47.
46
CNB, cit.
La medicina difensiva è un discusso metodo di gestione del caso clinico a cui ricorrono i sanitari a scopo cautelativo, che nel 1994 ha raggiunto negli USA livelli di diffusione nella pratica medica talmente allarmanti da essere stata oggetto di studio da parte del Congress of the United States, che la ha definita come il fenomeno che «si verifica quando il medico ordina esami, procedure o visite, o evita pazienti a rischio, o procedure ad alto rischio principalmente (ma non esclusivamente) per ridurre la propria esposizione al contenzioso legale. Quando i medici effettuano esami o procedure in eccesso, praticano la cd. medicina difensiva positiva. Quando evitano alcuni pazienti o procedure, praticano la cd. medicina difensiva negativa» (US Congress, Office of Technology Assessment, Defensive medicine and medical malpractice, Washington DC, 1994). Per un approfondimento sul tema nel contesto italiano v. Forti, Catino, D’Alessandro, Mazzucato, Varraso (a cura di), Il problema della medicina difensiva. Una proposta di riforma in materia di responsabilità penale nell’ambito dell’attività sanitaria e gestione del contenzioso legato al rischio clinico, Pisa, 2010 e Ordine provinciale di Roma dei medici-chirurghi e degli odontoiatri, La medicina difensiva in Italia in un quadro comparato: problemi, evidenze e conseguenze, 2008: reperibile in https://art.torvergata. it/retrieve/handle/2108/67598/121762/La%20medicina%20 difensiva%20in%20Italia%20in%20un%20quadro%20comparato%20_Problemi,%20evidenze%20e%20conseguenze.pdf; Pezzimenti, La responsabilità penale del medico tra linee guida e colpa “non lieve”: un’analisi critica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, I, 311. 47
Saggi e pareri
In particolare, la tendenza dei sanitari ad osservare dettami medico-legali contenuti nelle sentenze in tema di responsabilità medica senza formulare su di essi dei rilievi critici, richiama la condotta tipica della cosiddetta “medicina dell’obbedienza giurisprudenziale”, quale accettazione acritica, e conseguente cristallizzazione, di precetti di condotta medica di provenienza giurisprudenziale, spesso privi di reale fondamento nella scienza e nella prassi clinica48. Un simile fenomeno oltre a frustrare l’autonomia e la dignità professionale del sanitario49 rischia di improntare l’informazione clinica non al beneficio del paziente ma alla riduzione del pericolo di una propria esposizione ad un giudizio per responsabilità professionale. Condotta, questa, che – posta in essere dai medici allo scopo di tutelare, almeno formalmente, se stessi quali professionisti – contravverrebbe, però, a principi etici e ridurrebbe la qualità dell’assistenza, alimentando, come in un circolo vizioso, il contenzioso medico-legale. Alla stregua di quanto avviene nel caso della comunicazione al paziente non solo dei normali rischi e benefici di un trattamento ma di ogni eventualità clinica possibile50, una massiva quantità di informazioni corredata da riferimenti eccessivamente tecnici e dati statistici non consentirebbe al paziente di acquisire una consapevolezza adeguata delle implicazioni che le decisioni cliniche comportano. In particolare, l’esposizione di dati percentuali incrementerebbe l’incertezza della paziente circa la scelta da effettuare di fronte a molteplici opzioni, ostacolandone le capacità di comprensione e causandole, anzi, la sensazione di essere disinformata, alimentando così il conflitto decisionale51
Fiori, La medicina delle evidenze e delle scelte sta declinando verso la Medicina dell’obbedienza giurisprudenziale? in Riv. it. med. leg., 2007, 925 ss. 48
Roiati, Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale. Tra teoria e prassi giurisprudenziale, Roma, 2012, 98. 49
Graziadei, Il consenso informato e i suoi limiti, in Rodotà, Zatti (a cura di) Trattato di Biodiritto. I diritti in medicina, Milano, 2011, t. 1°, 254. 50
51
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tipico del processo di decision making in tema di indagine prenatale. È invece fondamentale che a ricoprire il ruolo di “fonte di controllo” nel sistema sanitario del ventunesimo secolo sia il paziente stesso52 attraverso un suo coinvolgimento nel processo decisionale condiviso con il sanitario53, funzionale, da un lato, a migliorare la sua consapevolezza in merito alla decisione clinica, e dall’altro a favorire quella che Epstein definisce “condivisione dei poteri e delle responsabilità” tra medico e paziente54. In generale, l’entusiasmo delle istituzioni per l’autonomia e l’autodeterminazione del paziente non può essere immaginato senza un coinvolgimento del paziente e senza un miglioramento delle abilità comunicative del medico55. In tal senso, un valido modello per garantire l’efficacia del rapporto medico-paziente è rappresentato da una serie di strategie di comunicazione che permettono al sanitario di oltrepassare il tradizionale approccio biomedico – che poneva enfasi unicamente sulla diagnosi e sul trattamento56 – per seguire il modello della patient-centred communication, che presta attenzione anche al
contesto psicologico e sociale in cui il quest’ultimo si trova e alle sue specifiche esigenze57. A tal proposito, già da tempo la letteratura scientifica rileva come i livelli di stress lavorativo dei sanitari, la qualità delle loro diagnosi58 e le denunce per responsabilità medica siano associati alle loro abilità comunicative59. La comunicazione nel contesto clinico ha acquistato, in definitiva, un interesse sempre maggiore nella previsione che essa sia in grado di comportare un miglioramento degli outcome del paziente diminuendone le rimostranze60. Se dunque da un lato va accolta di certo positivamente la stigmatizzazione da parte della Suprema Corte della violazione dell’obbligo informativo61, dall’altro è necessario che la quantità di informazione, e il livello di dettaglio che deve raggiungere il sanitario nel fornirla, siano calibrati di volta in volta rispetto alla singola situazione clinica e con riguardo alle esigenze di una adeguata comunicazione medico-paziente.
duo dovuto alla incertezza relativa a quale procedura intraprendere quando la scelta tra trattamenti alternativi implica rischi, danni, rimorsi, sfide o la messa in discussione di personali valori di vita, v. Carpenito, Decisional conflict, in Nursing diagnosis: application to clinical practice, Philadelphia, 2000, 312 ss.; Coppo, op. cit., 1052; Gigerenzer, Quando i numeri ingannano, Milano, 2003. Department of Health, Learning from Bristol: the department of health response into children’s heart surgery at the Bristol royal infirmary 1984-1995, London, 2002; Institute of Medicine, Health professions education: a bridge to quality, Washington, 2003. 52
Charles-Gafni-Whelan, Shared decision making in medical encounter: what does it mean? (Or it takes at least two to tango) (1997) 44 Social Science & Medicine 681 ss. 53
Epstein et al., Measuring patient-centred communication in patient-physician consultations: theoretical and practical issues (2005) 61 Social Science & Medicine 1516 ss. 54
Stiggelbout et al., Shared decision making: Really putting patients at the centre of healthcare (2012) 344 BMJ 256. 55
Kaplan, Shared medical decision-making: a new paradigm for behavioral medicine –1997 Presidential address (1999) 21 Annals of Behavioral Medicine 3 ss. 56
Epstein et al., Patient-centered communication and diagnostic testing (2005) 3(5) Annals of Family Medicine 415 ss. 57
Maguire-Pitceathly, Key communication skills and how to acquire them (2002) 325 BMJ 697 ss. 58
Levinson et al., Physician-patient communication. The relationship with malpractice claims among primary care physicians and surgeons (1997) 277 The Journal of the American Medical Association 553 ss. 59
Stewart et al., Patient-centered medicine: transforming the clinical method, Thousand Oaks, 1995. 60
61
Frati et al., op. cit., 335.
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s i r Giurisprudenza iu g den u r p Giurisprudenza
Cass. pen., IV sez., 20.4.2017 (dep. 7.6.2017), n. 28187 Annulla con rinvio G.u.p. Trib. Pistoia, 17.3.2016
Legge n. 24/2017 – Responsabilità penale – Ambito di applicazione (c.p., artt. 43, 590-sexies; l. 8.3.2017, n. 24)
La disciplina di cui alla legge n. 24/2017 (c.d. Legge Gelli - Bianco) non trova applicazione negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee guida; e neppure nelle situazioni concrete nelle quali tali raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiarità della condizione del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate. Inoltre, il novum non opera in relazione alle condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di un approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti ed appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo. Il metro di valutazione costituito dalle raccomandazioni ufficiali è invece cogente, con il suo portato di determinatezza e prevedibilità, nell’ambito di condotte che delle linee guida siano pertinente estrinsecazione. Legge n. 24/2017 – Responsabilità penale – Rilevanza della colpa - Ambito di applicazione - Fatti commessi in epoca successiva alla riforma (c.p., artt. 2, 590-sexies; d.l. 13.9.2012, n. 158; l. 8.3.2017, n. 24)
La novella del 2017 non contiene alcun riferimento alla gravità della colpa. Ai sensi dell’art. 2 c.p., il nuovo regime si applica solo ai fatti commessi in epoca successiva alla riforma. Per i fatti anteriori, sempre in applicazione dell’art. 2 c.p., può trovare applicazione, invece, quando pertinente, la normativa del 2012, che appare più favorevole con riguardo alla limitazione della responsabilità ai soli casi di colpa grave. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista
Le prime “linee guida” interpretative della Cassazione penale sulla riforma “Gelli-Bianco” Gian Marco Caletti*
Dottorando di ricerca nell’Università di Bologna
Matteo Leonida Mattheudakis* Dottore di ricerca
Il lavoro è frutto della riflessione comune degli Autori. Sono, tuttavia, da attribuirsi rispettivamente a Gian Marco Caletti i §§ 2, 3, 7, mentre a Matteo Leonida Mattheudakis i §§ 1, 4, 5, 6. *
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Giurisprudenza
Sommario: 1. Il caso alla base della pronuncia della Cassazione. – 2. La Cassazione alle prese con l’art. 590-sexies c.p. Considerazioni introduttive. – 3. Il percorso argomentativo della sentenza. L’art. 590-sexies c.p. come declinazione dell’art. 43 c.p. in ambito sanitario. – 4. I requisiti chiave del rispetto e dell’adeguatezza delle linee guida. – 5. La limitazione della disciplina speciale alle sole ipotesi di imperizia. – 6. I profili intertemporali. – 7. Una speranza conclusiva. Il “rilancio” della colpa grave per mezzo dell’art. 2236 c.c.
Abstract: La sentenza in commento costituisce la prima occasione in cui la Corte di cassazione si è interrogata sul “nebuloso” dettato del nuovo art. 590-sexies c.p., introdotto all’interno del codice dalla recente riforma “Gelli-Bianco”. La Corte sembra aver aderito alle perplessità già emerse nel dibattito dottrinale, al punto da stabilire, in una prospettiva intertemporale, la costante applicabilità della previgente disciplina – quella dell’art. 3 del d.l. “Balduzzi” – a tutti i casi verificatisi prima del 1° aprile 2017, data di entrata in vigore della riforma. Anche sulla scorta di alcune indicazioni della sentenza annotata, in particolare relative al rinnovato richiamo da parte della Corte all’art. 2236 c.c., il contributo si ripropone di ritagliare un possibile ambito applicativo dell’art. 590-sexies c.p., che tenga conto delle ineludibili difficoltà interpretative ma che, al contempo, valorizzi l’evidente ratio deflativa dell’intero intervento normativo. The commented decision represents the first occasion in which the Supreme Court of Cassation deals with the vague provision of Art. 590-sexies c.p., introduced by the recent “Gelli-Bianco” reform. The Court seems to agree with the doubts already expressed in the doctrinal debate and declares the applicability of the previous discipline – in particular, Art. 3 of the Balduzzi Act – to all the cases happened before 1st April 2017, date of entry into force of the reform. Considering some indications of the annotated decision, in particular about Art. 2236 c.c., the comment tries to suggest a plausible application of Art. 590-sexies c.p. which takes into account the interpretative difficulties but, at the same time, emphasizes the obvious deflating ratio of the entire reform.
1. Il caso alla base della pronuncia della Cassazione La sentenza che si commenta rappresenta la prima occasione colta dalla Cassazione per dedicarsi ad un approfondimento della disciplina penale
della l. 8.3.2017, n. 24 (c.d. legge “Gelli-Bianco”). Come si vedrà, si tratta di una pronuncia densa di indicazioni interpretative, ma che, al tempo stesso, ripropone, facendoli propri, alcuni punti interrogativi affiorati in dottrina. Prima di entrare nel merito di tali aspetti, pare opportuno richiamare i più essenziali profili fattuali della vicenda. L’imputazione era a carico di uno psichiatra accusato di omicidio colposo per aver reso possibile, con condotte attive ed omissive, la verificazione di un gesto cruento da parte di un paziente che egli aveva in cura, non solo quale responsabile dell’unità funzionale di salute mentale dell’Azienda Sanitaria Locale competente, ma anche quale psichiatra di riferimento del piano riabilitativo. Il paziente in questione presentava un profilo piuttosto delicato, avendo alle spalle una storia clinica con abusi di stupefacenti, esplosioni di rabbia, un tentato suicidio e, soprattutto, il violento omicidio della fidanzata nell’anno 1998; episodio che aveva prima giustificato una detenzione carceraria, poi la permanenza in un ospedale psichiatrico giudiziario e in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. L’accusa aveva ravvisato profili di colpa in alcune condotte del sanitario, consistenti, in particolare, nella riduzione del farmaco antipsicotico e nell’aver reputato adeguato il passaggio del paziente da una condizione d’internamento al soggiorno in una struttura residenziale «a bassa soglia assistenziale». Proprio lì si era consumato il dramma: una notte il paziente era riuscito ad avere accesso ad un’ascia lasciata sostanzialmente incustodita, utilizzando la quale aveva colpito a morte il proprio compagno di stanza, con cui aveva da poco avuto un diverbio. Le prime pagine della sentenza, alle quali qui si può concedere soltanto un rapido cenno, sono dedicate al dettaglio dei profili di illegittimità della pronuncia dell’udienza preliminare di non luo-
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go a procedere e alla possibilità di configurare il concorso colposo in un reato doloso altrui. Al di là delle questioni con prevalente connotazione processuale, questa parte della sentenza suscita interesse per la ricognizione e la sostanziale convalida dei più recenti orientamenti di legittimità sulla responsabilità penale dello psichiatra. In capo a questa categoria di sanitari è stata riconosciuta sussistente una posizione di garanzia, concepita, almeno in astratto, sia come posizione di protezione che di controllo del paziente, cioè vedendo in quest’ultimo tanto un soggetto debole e bisognoso di protezione per sé, quanto, eventualmente, anche un elemento di pericolo per l’incolumità di terze persone. È con riferimento a questo secondo profilo, infatti, che la giurisprudenza della stessa Cassazione, non smentita nemmeno in questo caso, è pervenuta al riconoscimento di un concorso colposo (normalmente tramite omissione) dello psichiatra nel delitto doloso commesso da altri, con l’opportuna precisazione (invero imposta dal principio di legalità) che deve comunque essere previsto il reato in questione anche in forma colposa1. Quanto a questi profili di merito, ad avviso della Corte, non possono essere condivise le nette conclusioni del giudice dell’udienza preliminare, in particolare nella parte in cui «in sentenza si rileva che nella condotta dell’imputato non emergono profili di rimproverabilità colposa e che l’azione dello psichiatra non può considerarsi come causa scatenante dell’imprevedibile gesto omicidiario» (§ 1). La Cassazione ha quindi annullato con rinvio la sentenza impugnata, imponendo la celebrazione di una nuova udienza preliminare entro i binari dalla stessa Corte tracciati.
2. La Cassazione alle prese con l’art. 590-sexies c.p. Considerazioni introduttive L’esigenza di tracciare con precisione tali binari si è posta, come noto, a seguito dell’approvazione nello scorso mese di marzo della l. n. 24 (in vigore dal 1° aprile), ormai conosciuta come legge “Gelli-Bianco” dal nome dei relatori nelle due Camere. Sul versante penale, la novità principale di questa ampia e strutturata riforma è stata l’introduzione all’interno del codice di un nuovo articolo – il 590-sexies – che, secondo le buone intenzioni del legislatore, avrebbe dovuto proseguire nel cammino di depenalizzazione della medical malpractice avviato dal decreto “Balduzzi”2. Il condizionale sembra, a maggior ragione dopo la pronuncia in esame, doveroso. Fin dai primi commenti, infatti, la nuova disposizione ha sollevato numerose perplessità, buona parte delle quali espresse da subito anche da chi scrive3. Da più parti, addirittura, era stato paventato il pericolo di “un passo indietro” rispetto alla disciplina previgente, nella prospettiva – invero, contraria ai propositi resi noti dal legislatore – di una “riespansione” della colpa penale nell’ambito dell’attività sanitaria4. È proprio in forza di questi fondati “timori” che si è creata grande attesa per la prima decisione della Corte dopo la riforma; attesa alimentata, forse, anche dalla speranza che, come accaduto per l’art. 3 del decreto “Balduzzi”, fosse la stessa Corte a far luce su un dato letterale estremamente complesso, quasi enigmatico, chiarendone i margini
Non a caso, sia a livello politico che “medico-istituzionale” la nuova legge è stata accolta con toni trionfanti. Per un resoconto delle reazioni successive all’approvazione della “Gelli-Bianco” si rinvia agli approfondimenti della Rivista online www.quotidianosanità.it. 2
Sia permesso rinviare a Caletti, Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2017, 2, 84 ss.
3
In questo senso, oltre al riferimento bibliografico della nota precedente, C. Cupelli, Alle porte la nuova responsabilità penale degli operatori sanitari. Buoni propositi, facili entusiasmi, prime perplessità, in www.penalecontemporaneo.it, 16.1.2017. 4
In argomento, a livello monografico, Cupelli, La responsabilità penale dello psichiatra. Sui rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari, Napoli, 2013. 1
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applicativi apparsi, invece, pressoché inesistenti agli occhi dei primi commentatori. In effetti, la Cassazione non si è sottratta al proprio ruolo ermeneutico, interrogandosi in profondità su ogni aspetto di criticità dell’art. 590-sexies c.p. Del fatto che si tratti di una sentenza importante anche a fini della nomofilachia, del resto, è già indicativa la composizione del Collegio, che riunisce gli estensori di molte delle più rilevanti sentenze pronunciate nel periodo di vigenza della riforma “Balduzzi”: si potrebbe quasi dire, insomma, una sorta di “Sezioni Unite” della quarta Sezione penale5. Anche per questo, quindi, nell’immediato, paiono assai poco probabili cambiamenti di rotta provenienti dalla Corte di legittimità. Come preventivabile – e d’altronde, forse, in questo caso non era possibile pretendere qualcosa di diverso – la Corte ha sostanzialmente aderito alle perplessità già evidenziate in dottrina, denotando sin dalle battute iniziali un certo disagio nel pervenire ad una lettura soddisfacente del nuovo art. 590-sexies c.p., che suscita «alti dubbi interpretativi» e presenta «incongruenze interne tanto radicali da mettere in forse la stessa razionale praticabilità della riforma in ambito applicativo» (§ 7).
Il Presidente (e “co-estensore”) Blaiotta è l’estensore della fondamentale sentenza “Cantore” (Cass. pen., 29.1.2013, n. 16237, in www.penalecontemporaneo.it, 11.4.2013), nonché della “Stefanetti” (Cass. pen., 9.10.2014, n. 47289, in Dir. pen. proc., 2015, 1141 ss.), che per prima ha ammesso l’applicabilità della “Balduzzi” anche a casi di negligenza, ribaltando così un orientamento espresso per la prima volta in “Pagano” (Cass. pen., 24.1.2013, n. 11493, in Dir. pen. proc., 2013, 691 ss.), prima pronuncia della Corte dopo la conversione in legge del decreto “Balduzzi” a fine 2012 a firma della Dott.ssa Piccialli, membro del Collegio che ha deciso il caso in esame. A firma dello stesso estensore è anche la nota sentenza “Ingrassia” (Cass. pen., 19.9.2012, n. 35922, in Dir. pen. proc., 2013, 191 ss.), ultima sentenza prima dell’avvento della “Balduzzi” e da apprezzare per il proprio riepilogo sistematico sull’impatto delle linee guida nell’ambito dell’accertamento della colpa penale del medico. Il Dott. Montagni, relatore nel caso in commento è, invece, tra le altre, l’estensore della motivazione in “Denegri” (Cass. pen., 11.5.2016, n. 23283, in www.penalecontemporaneo.it, 27.6.2016) pronuncia che ha permesso di superare definitivamente l’idea che la colpa grave fosse criterio di imputazione per le sole violazioni cautelari dovute ad imperizia. 5
Giurisprudenza
E, difatti, l’esito del percorso interpretativo sviluppato dalla Corte è quello che tutti temevano: l’art. 590-sexies c.p. – conclude la motivazione – eliminando ogni riferimento al grado della colpa, reca con sé una disciplina in ogni caso meno favorevole di quella introdotta nel 2012. Pertanto, con riguardo ai fatti accaduti prima del 1° aprile continuerà a trovare sempre applicazione, qualora siano state osservate le linee guida, il criterio di imputazione della colpa grave previsto dall’art. 3 del d.l. “Balduzzi”. Prima, però, di analizzare nel dettaglio i passaggi della motivazione, in questa sede introduttiva sembra il caso di accennare, per non abbandonarsi a (oggi più che mai) facili disfattismi, al fatto che la nuova legge presenta, oltre all’art. 590-sexies c.p., anche alcuni profili di assoluta novità ed interesse. Nella specie, gli artt. 5, 15 e 16 della “Gelli-Bianco” pongono sotto i riflettori, ognuno sotto un diverso angolo di prospettiva, alcune questioni rimaste a lungo sullo sfondo. Tra tali norme, in particolare, è l’art. 16, che vieta l’ingresso nei procedimenti giudiziari del materiale raccolto dalle indagini interne delle strutture sanitarie, a segnare il cambio di paradigma più evidente, sacrificando una prassi giudiziaria consolidata in favore di un concreto tentativo di rendere effettiva la gestione del rischio clinico (c.d. “Clinical Risk Management”)6. Questa nuova (quanto tardiva) attenzione al dato organizzativo permetterà, come avvenuto in altri ordinamenti, di scorgere in tanti “incidenti” una genesi non (o non solo) individuale e, pertanto, di non ascriverne la responsabilità al singolo sanitario7.
Con riguardo all’art. 16, sia consentito rinviare ancora, per un più puntuale approfondimento, a Caletti, Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, cit., 105 ss. Sul Clinical Risk Management, per tutti, Scorretti, Il Clinical Risk Management oggi: dal sistema alla persona. Aspetti medico-legali, in Riv. it. med. leg., 2011, 1031 ss. 6
Il rapporto tra l’errore medico ed il fattore organizzativo meriterebbe ben altro risalto. In questa sede, sia consentito richiamarsi, anche per le opportune indicazioni bibliografiche, alle recenti considerazioni espresse in Caletti, La responsabilità penale per carenze organizzative e strutturali in ambito sanitario, in Riv. it. med. legale, 2016, 737 ss. 7
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Insomma, è innegabile che l’epicentro della disciplina – è bene specificarlo: di quella penalistica – introdotta dalla “Gelli-Bianco”, l’art. 590-sexies c.p., sia una norma imperscrutabile che, come rilevato dalla Cassazione nella sentenza in commento e prospettato da parte della dottrina, rischia di essere destinata a «vita vegetativa»8. Tuttavia, come si osserverà, è la stessa sentenza che, dopo aver più volte lasciato percepire tra le righe quasi un senso di rammarico per questa formulazione poco «praticabile», si conclude con l’avvertenza che la colpa grave non è scomparsa dal nostro ordinamento, ma è ancora presente per via dell’art. 2236 c.c. Se quest’invito a “ricordarsi” di tale norma sarà recepito dalle Corti di merito o se, al contrario, esso finirà per fare compagnia al criterio della “probabilità logica” della “Franzese” tra le statuizioni di principio dall’alterna applicazione lo si scoprirà solo in seguito9. Per il momento, è necessario limitarsi all’analisi del percorso argomentativo sviluppato nella motivazione.
3. Il percorso argomentativo della sentenza. L’art. 590-sexies c.p. come declinazione dell’art. 43 c.p. in ambito sanitario La Corte si trova innanzitutto a fare i conti col rischio, già «messo in luce dagli studiosi», che la nuova norma affermi un’ovvietà: sembra chiaro, infatti, che rispettare le linee guida quando queste appaiano adeguate al caso concreto conduca ad un’esclusione della responsabilità per colpa.
In effetti, in un precedente lavoro si era rilevato che, letto in questi termini (ovvi), l’art. 590-sexies c.p. non farebbe che ricalcare i principi già sanciti dalla Corte in “Ingrassia”, ultima pronuncia prima dell’avvento della riforma “Balduzzi”10. In questo primo passaggio (§ 7), si segnala – qui solo incidentalmente, trattandosi di aspetto meglio precisato in seguito – che il ragionamento della Corte, pur non inficiando la bontà dell’approdo finale, si fa meno impeccabile che altrove: la “clausola di adeguatezza” delle linee guida contenuta dall’art. 590-sexies c.p. viene intesa in termini di “adeguamento” delle linee guida, quindi di concreta e corretta trasposizione da parte del sanitario delle istruzioni nel caso specifico e non già di idoneità in astratto delle raccomandazioni rispetto al paziente “in carne ed ossa”11. È così che la Corte giunge a rilevare la «drammatica e lampante incompatibilità logica» della nuova norma e ad interrogarsi su quell’antico paradosso, già evocato da una parte della dottrina in relazione all’art. 3 del d.l. “Balduzzi”, dell’in culpa sine culpa12. Nel (difficile) tentativo di individuare il controverso perimetro applicativo dell’art. 590-sexies c.p., la sentenza annotata propone, allora, un esempio «chiarificatore», che diviene, anche per i passaggi successivi, un punto di riferimento: «un chirurgo imposta ed esegue l’atto di asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida e, tuttavia, nel momento esecutivo, per un errore tanto enorme quanto drammatico, invece di
In effetti si era già segnalato questo rischio in Caletti, MatUna prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, cit., spec. ivi 107. Per l’“Ingrassia” si veda la nt. 5. 10
theudakis,
L’espressione è di Piras, Il discreto invito della giurisprudenza a fare noi la riforma della colpa medica, in www.penalecontemporaneo.it, 4.7.2017. Per un altro commento della sentenza in esame, Cupelli, La legge Gelli-Bianco e il primo vaglio della Cassazione: linee guida sì, ma con giudizio, in www.penalecontemporaneo.it, 13.6.2017. 8
Anche la nota sentenza “Franzese” meriterebbe ben altro spazio, anche a livello bibliografico. Per un resoconto del grado di osservanza di tale pronuncia da parte della Corte di cassazione si vedano, ad esempio, D’Alessandro, Spiegazione causale mediante leggi scientifiche, a dieci anni dalla sentenza Franzese, in Criminalia, 2012, 331 ss.; Iacoviello, La “Franzese”: ovvero quando buone teorie producono cattiva giustizia, in Crit. dir., 2014, 241 ss. 9
Lo stesso genere di ambiguità si ritrova anche in un passaggio successivo della sentenza (§ 8.2), in cui si tendono a sovrapporre i concetti di adeguatezza e di adeguamento delle linee guida, precisando che «si tratterà di valutare se esse “risultino adeguate” e siano cioè state attualizzate in forme corrette, nello sviluppo della relazione terapeutica, avuto naturalmente riguardo alle contingenze del caso concreto». 11
Cfr. Piras, In culpa sine culpa. Commento all’art. 3 I co. l. 8 novembre 2012 n. 189, in www.penalecontemporaneo.it, 26.11.2012; tesi sostanzialmente ribadita in Id., Imperitia sine culpa non datur. A proposito del nuovo art. 590 sexies c.p., ibidem, 1°.3.2017. 12
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recidere il peduncolo della neoformazione, taglia un’arteria con effetto letale» (§ 7). Il tenore letterale della nuova disposizione codicistica – sottolinea la Corte, alludendo a quanto già prospettato in dottrina – potrebbe persino consentire, in via astratta, di non punire il sanitario che ha commesso un errore così grossolano. Tuttavia, una simile impostazione, che esenterebbe da responsabilità penale anche per una colpa particolarmente grave il sanitario imperito nell’attuare le linee guida, darebbe luogo ad un contrasto con i principi di ragionevolezza e colpevolezza. Allo stesso tempo, ammettere la non punibilità del sanitario anche in casi di colpa “grossolana”, rischierebbe di «vulnerare l’art. 32 Cost., implicando un radicale depotenziamento della tutela della salute, in contrasto con le stesse finalità dichiarate dalla legge» (§ 7.3)13. La sentenza compie, poi, alcune digressioni sul ruolo da assegnare alle linee guida nel giudizio di responsabilità penale del sanitario, mostrandosi favorevole alla scelta legislativa (art. 5 l. “Gelli-Bianco”) di prevedere un elenco definito di raccomandazioni scientifiche “affidabili”, utile a soddisfare quelle esigenze di maggior tassatività della colpa penale che, da sempre, si manifestano in ambito sanitario. Sul punto, la Corte richiama alcune sue precedenti pronunce (tra cui, proprio “Ingrassia”) sul carattere meramente orientativo delle linee guida, sull’impossibilità di stabilire un automatismo tra la loro osservanza/inosservanza e l’affermazione della colpa14, nonché sul proble-
Sollevava dubbi sulla costituzionalità della norma già D’ALa responsabilità penale del sanitario alla luce della riforma “Gelli-Bianco”, in Dir. pen. proc., 2017, 578. Che nelle mire del legislatore vi fosse proprio l’affermazione di una presunzione di esclusione della colpa del medico che, non negligente o imprudente, abbia osservato le linee guida è evidenziato da Roiati, La colpa medica dopo la legge “Gelli-Bianco”: contraddizioni irrisolte, nuove prospettive ed eterni ritorni, in Arch. pen. (web), 2017, 2, 20. 13
Giurisprudenza
ma della “comorbilità”, che, non di rado, mette in crisi le raccomandazioni contenute nelle direttive cliniche, imponendo quel giudizio di “adeguatezza”, richiesto ora anche espressamente dall’art. 590-sexies c.p. Proprio l’art. 5 della legge costituirebbe, a giudizio della Corte, la vera novità della riforma, la quale, se è vero che non introduce una restrizione dell’area del penalmente rilevante, produce un «virtuoso impulso innovatore focalizzato sulla selezione e codificazione di raccomandazioni volte a regolare in modo aggiornato, uniforme, affidabile, l’esercizio dell’ars medica; e, al contempo, ad ancorare il giudizio di responsabilità penale e civile a costituiti regolativi precostituiti, con indubbi vantaggi in termini di determinatezza delle regole e prevedibilità dei giudizi» (§ 10.1). All’esito del percorso ermeneutico sviluppato, l’evidente difficoltà nel mettere a fuoco i confini applicativi dell’art. 590-sexies c.p. spinge la Corte a prendere una posizione netta sui profili intertemporali. Rispetto alla disciplina penale del d.l. “Balduzzi”, scomparsa la graduazione della colpa, la previsione dell’attuale art. 590-sexies c.p. risulterebbe sempre meno favorevole, di talché non potrebbe mai trovare applicazione nei casi precedenti alla data della sua entrata in vigore (1° aprile 2017). In fin dei conti, dalla sentenza in commento l’art. 590-sexies c.p. sembra uscire, almeno a tratti, come una «regola di parametrazione» della colpa penale in ambito sanitario, da intendersi come una mera declinazione (verrebbe da dire: una linea guida sull’applicazione) dell’art. 43 c.p., che ripropone a livello normativo quanto già affermato dalla sentenza “Ingrassia”15.
lessandro,
La sentenza in commento, quando si sofferma sul principio di colpevolezza, dedica diversi passaggi al tema della c.d. “causalità della colpa”, ovvero il duplice legame che deve riscontrarsi in termini di pertinenza e decisività tra la violazione cautelare e la verificazione dell’evento. La Corte riprende questo concetto, che ha implicazioni non limitate all’ambito specifico della responsabilità colposa del sanitario, per poi 14
declinarlo nel contesto della riforma “Gelli-Bianco” al fine di argomentare che, come il mancato rispetto di una linea guida (pure se formalmente accreditata) non indizia di per sé la colposità della condotta, la sua osservanza non esclude automaticamente la colpa. Anche approssimative esclusioni della responsabilità penale colposa, secondo la Corte, darebbero luogo ad una violazione del principio di colpevolezza. Di questo avviso, Di Giovine, Mondi veri e mondi immaginari di sanità, modelli epistemologici di medicina e sistemi penali, in Cass. pen., 2017, 2163, alla quale si rinvia anche per più diffusi riferimenti a questa soluzione ermeneutica. Ri15
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Le lancette dell’orologio, dunque, se così fosse, parrebbero tornate indietro di quattro anni e mezzo, più precisamente al novembre 2012, quando il decreto “Balduzzi”, ancora non convertito in legge, recava con sé innovazioni soltanto di stampo civilistico.
4. I requisiti chiave del rispetto e dell’adeguatezza delle linee guida Cercando di rimanere entro il sentiero ermeneutico tracciato dalla sentenza, occorre chiedersi se possa esserci spazio per una lettura dell’art. 590-sexies c.p. che non si esponga alle censure di illegittimità costituzionale prospettate dalla Corte ma che, al contempo, cerchi di valorizzare quell’impulso ad una limitazione della responsabilità penale del sanitario che indubitabilmente ha animato il legislatore e di cui si trova traccia evidente anche nella formulazione della nuova disposizione codicistica16. Gli elementi chiave su cui ragionare per sviluppare questa complicata operazione paiono decisamente quelli del “rispetto” e dell’“adeguatezza” delle linee guida. In altra sede, chi scrive ha cercato di schematizzare la casistica della “colpa sanitaria” in cui possa ipotizzarsi un’adesione alle linee guida – discorso analogo dovrebbe valere anche per le buone pratiche – in tre gruppi: adempimenti opportuni ma imperfetti, adempimenti opportuni ma non sufficienti e adempimenti non opportuni17.
tiene l’art. 590-sexies c.p. una norma “monito” dal legislatore al giudice, Salcuni, La colpa medica tra metonimia e sineddoche. La continuità tra il decreto Balduzzi e l’art. 590-sexies c.p., in Arch. pen. (web), 2, 21 e ss., al quale si rimanda per l’approfondimento di tale tesi. In merito, si vedano le considerazioni di Iadecola, Qualche riflessione sulla nuova disciplina della colpa medica per imperizia nella legge 8 marzo 2017, n. 24 (legge c.d. Gelli-Bianco), in www.penalecontemporaneo.it, 13.6.2017, 7.
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Consideriamo queste ipotesi in successione. Il sanitario che selezioni correttamente la linea guida da applicare nel caso concreto, ispirandosi cioè a raccomandazioni pertinenti rispetto alle esigenze del paziente, potrebbe commettere un errore nell’esecuzione (o, se si preferisce, nell’attuazione o adattamento) di tali raccomandazioni. In tali casi, esonerare da responsabilità penale il sanitario anche a fronte di un errore grossolano condurrebbe effettivamente ad un risultato discutibile dal punto di vista del rispetto di diversi principi costituzionali. Tuttavia, non si vede perché non si possa considerare esclusa la responsabilità penale, proprio in applicazione dell’art. 590-sexies c.p., quando l’errore esecutivo sia lieve. Se, infatti, tale (minima) inadeguatezza del sanitario – questa volta non della linea guida – si verifica nel dare attuazione ad una raccomandazione di comprovata validità scientifica e apprezzabilmente eletta dal sanitario quale faro per la propria prestazione, quantomeno la ratio (l’impronta culturale) della riforma sembrerebbe poter ammettere il ritrarsi della censura penale. Solo una lettura rigorosissima del problematico requisito del rispetto della linea guida precluderebbe qui l’operatività della nuova disposizione codicistica. Quando l’errore esecutivo è grossolano, spesso non c’è forse nemmeno bisogno di invocare la violazione del principio di ragionevolezza e degli altri canoni costituzionali indicati dalla Corte, in quanto parrebbe opporsi all’applicazione dell’art. 590-sexies c.p. un limite testuale espresso già dalla norma stessa: errore grave, in questi termini, potrebbe appunto leggersi quale sinonimo di mancato rispetto della linea guida. Se invece l’errore, pur risultando decisivo per la verificazione dell’evento, consiste in una minima divergenza dal miglior paradigma attuativo della linea guida
16
A quella sede, in particolare alla nt. 20, si permette di rinviare anche per una più puntuale giustificazione delle scelte terminologiche: Caletti, Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, cit., 91 e 104. Va segnalata anche un’altra nomenclatura, utilizzata in dottrina, che distingue tra “errore nella scelta” ed “errore nell’adattamento”: v. Caputo, I nuovi limiti alla san17
zione penale, in Lovo, Nocco (a cura di), La nuova responsabilità sanitaria, E-Book del 13.2.2017, 21 ss. Si parla, invece, di “errore a monte” ed “errore a valle” in Centonze, Caputo, La risposta penale alla malpractice: il dedalo di interpretazioni disegnato dalla riforma Gelli-Bianco, in Riv. it. med. leg., 2016, 1361 ss. Sulle “buone pratiche”, spesso trascurate dai commentatori della riforma, si vedano le osservazioni di Roiati, La colpa medica dopo la legge “Gelli-Bianco”, cit. 13 ss.
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alla quale opportunamente è comunque rimasto idealmente fedele il sanitario, quest’ultimo non dovrebbe essere giudicato con estrema severità, potendosi ugualmente ritenere rispettata la linea guida. In casi del genere, difficilmente potrebbero considerarsi le linee guida del tutto «estranee al momento topico» di realizzazione dell’imperizia, cioè, per dirla con parole altrettanto impiegate dalla Corte, non si potrebbe sostenere che le condotte decisive per la verificazione dell’evento non fossero «per nulla disciplinate in quel contesto regolativo» dalle linee guida. L’evento non avverrebbe per colpa delle linee guida – non si manifesterebbe cioè in ragione di una inadeguatezza sul piano cautelare delle raccomandazioni lì contenute – ma maturerebbe comunque nell’ambito del loro (non impeccabile) impiego. Quella appena proposta in relazione alla casistica degli «adempimenti opportuni ma imperfetti» rappresenta una soluzione interpretativa “di equilibrio”, nel senso che pare in grado di evitare effetti manifestamente irragionevoli e, al contempo, sembra riuscire a mantenere un aggancio al testo legale, valorizzandone i propositi “deflattivi” in favore del sanitario allineato al sapere scientifico ufficialmente accreditato. Il “premio” per la corretta individuazione e per l’adesione alle linee guida pertinenti sarebbe dunque una certa tolleranza nel valutarne la messa in pratica. Del resto, se si legge la nuova disposizione codicistica alla luce dell’art. 5, 1° c., della l. “Gelli-Bianco”, in base a cui «gli esercenti le professioni sanitarie […] si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida», sembrerebbe ricavarsi una conferma del fatto che la sostanziale adesione alla linea guida, ancorché macchiata da lievi imprecisioni, soddisfi il requisito del loro rispetto18. Si potrebbe così ottenere, indirettamente, un recupero dell’importanza della graduazione della colpa, peraltro in termini assonanti rispetto a quanto
Giurisprudenza
già previsto dall’art. 3 del d.l. “Balduzzi”19. Si tratta, a ben vedere, di un risultato perseguito anche dalla stessa Corte nelle battute conclusive della sentenza in commento, ancorché passando attraverso una valorizzazione della regola espressa dall’art. 2236 c.c., come si dirà meglio più avanti. Rispetto agli adempimenti opportuni ma non sufficienti, dovuti spesso alla condizione di “comorbilità” che affligge il paziente, pare problematica l’inclusione nell’ambito applicativo dell’art. 590-sexies c.p. delle ipotesi di rispetto di una linea guida ma non di un’altra (non incompatibile con la prima e) altrettanto bisognosa di essere messa in pratica nel caso concreto, perché in tal caso sarebbe forse ancor più arduo che nei casi di adempimenti opportuni ma imperfetti ritenere soddisfatto il requisito del rispetto delle linee guida. Se, invece, i profili di imperizia si innestano sull’opportuno rispetto di una linea guida e il caso concreto avrebbe semplicemente richiesto di fare qualcosa di più (che appunto non è stato fatto), si affaccia il rischio che un “premio” per l’adesione al sapere scientifico ufficialmente accreditato sia troppo generoso, considerato che – volendo mantenere aderenza alla criteriologia della Corte – in situazioni del genere tende a svanire quel nesso stretto tra la disciplina regolativa delle linee guida e l’ambito in cui si è sviluppata l’imperizia. Gli adempimenti inopportuni, infine, cioè le ipotesi di adesione a linee guida non pertinenti, sembrano trovare uno sbarramento alla luce del necessario rispetto del requisito espresso dell’adeguatezza, che non sarebbe soddisfatto quando le esigenze del paziente richiedevano di discostarsi, ab origine oppure “strada facendo”, dalle raccomandazioni delle stesse linee guida. Si tratta di capire se qui la preclusione sia del tutto rigida oppure se possa essere letta con flessibilità analoga a quella prospettata per la valutazione del requisito del rispetto delle linee guida con riferimento agli adempimenti opportuni ma imperfetti. Una
Possibilista sulla sopravvivenza di una graduazione della colpa in questi frangenti già Cupelli, Lo statuto penale della colpa medica e le incerte novità della legge Gelli-Bianco, in www.penalecontemporaneo.it, 3.4.2017, 11. 19
Per una posizione analoga, Iadecola, Qualche riflessione sulla nuova disciplina della colpa medica per imperizia nella legge 8 marzo 2017, n. 24 (legge c.d. Gelli-Bianco), cit., 6 ss. 18
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soluzione di quest’ultimo tipo, ancorché astrattamente coerente con la logica di non penalizzare troppo il sanitario aderente alle raccomandazioni ufficialmente accreditate (valide almeno in astratto), “stira” forse troppo il dato legale espresso e pare essere preclusa anche dalla Corte, la quale, valorizzando appunto le differenze testuali rispetto alla disciplina “Balduzzi” (che non parlava apertamente di adeguatezza), conclude nel senso che «quando le linee guida non sono appropriate e vanno quindi disattese, l’art. 590-sexies cit. non viene in rilievo e trova applicazione la disciplina generale prevista dagli artt. 43, 589 e 590 cod. pen.» (§ 8.1).
5. La limitazione della disciplina speciale alle sole ipotesi di imperizia La sentenza dedica alcuni passaggi anche al riferimento esplicito all’imperizia che si può leggere ora nel testo della disciplina penale introdotta dalla legge “Gelli-Bianco”. Come già rilevato in altra sede20, si tratta indubbiamente di uno dei profili più problematici della recente normativa, in grado di alimentare un vero e proprio disorientamento ermeneutico. Condivisibilmente, la sentenza in commento ritiene che il riferimento all’imperizia quale unica forma di colpa in grado di giustificare un regime speciale di valutazione della responsabilità penale del sanitario affondi le proprie radici in una prassi giurisprudenziale riscontrabile soprattutto fino agli anni ’80 del secolo scorso. Vi era cioè la tendenza a recepire anche in ambito penale la regola dell’art. 2236 c.c., che disciplina la responsabilità (civile) del prestatore d’opera, subordinandola alla presenza di dolo o colpa grave nei casi in cui si debba far fronte a problemi tecnici di speciale difficoltà: da lì il riferimento all’ambito della perizia21.
Si consenta il rinvio a Caletti, Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, cit., 101 ss. 20
21
Una precisa ricostruzione delle fasi della parabola appli-
Questo orientamento ha trovato piena convalida persino in una pronuncia della Corte costituzionale22 ed è stato sostanzialmente riproposto nelle sue linee essenziali appena è emersa una disciplina penale ad hoc (quella del 2012) che parlava apertamente di colpa grave (o, più esattamente, di colpa non lieve). Questo riferimento ha richiamato alla mente di molti interpreti le dinamiche dell’art. 2236 c.c. (pur se la riforma non faceva cenno alcuno a problemi tecnici di speciale difficoltà), così il riferimento alla categoria dell’imperizia è giunto “a rimorchio”, del tutto automaticamente, quasi come fosse un’appendice concettuale della colpa professionale e della sua valutazione in termini di gravità: buona parte della giurisprudenza, infatti, in seguito all’approvazione della riforma “Balduzzi”, ha riferito la disciplina dell’art. 3 d.l. n. 158 del 2012 alle sole ipotesi di imperizia23.
cativa dell’art. 2236 c.c. si ritrova in Manna, Medicina difensiva e diritto penale. Tra legalità e tutela della salute, Pisa, 2014, in particolare, 88 ss. e 182 ss. Tra gli scritti coevi, N. Mazzacuva, Problemi attuali in materia di responsabilità penale del sanitario, in Riv. it. med. leg., 1984, 399 ss. In argomento, recentemente, a pochi giorni dall’approvazione della recente riforma, Basile, Un itinerario giurisprudenziale sulla responsabilità medica colposa tra art. 2236 cod. civ. e Legge Balduzzi (aspettando la riforma della riforma), in www.penalecontemporaneo.it, 23.2.2017. Da ultimo, sui rapporti tra art. 2236 c.c. ed imperizia si segnala l’approfondita analisi di Massaro, L’art. 590-sexies c.p., la colpa per imperizia del medico e la camicia di Nesso dell’art. 2236 c.c., in Arch. pen. (web), 2017, 3. Corte cost., 22-28.11.1973, n. 166, in www.giurcost.org, che ha motivato la compatibilità del risultante regime giuridico con l’art. 3 Cost. proprio osservando come le eccezioni alla regola generale dell’art. 43 c.p. fossero giustificate in quanto limitate al ricorrere della sola imperizia e, quindi, non in presenza di negligenza o imprudenza. Va qui ricordato anche che, poco dopo la conversione in legge del d.l. “Balduzzi”, la Corte si è pronunciata dichiarando molto sinteticamente la manifesta inammissibilità della questione allora propostale, ma non può passare inosservato un obiter dictum in cui è stata ratificata (asseritamente «in accordo con la dottrina maggioritaria») l’interpretazione della disciplina penale del 2012 come riferibile solo alle ipotesi di imperizia: Corte cost., ord. 2-6.12.2013, n. 295, in www.penalecontemporaneo.it, 9.12.2013, con nota di Gatta, Colpa medica e linee-guida: manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto Balduzzi sollevata dal Tribunale di Milano. 22
23
In termini netti, ad esempio, Cass. pen., 24.1.2013, n.
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La dottrina più attenta non ha mancato di rilevare le insidie di una simile limitazione dello spettro applicativo della normativa penale del 2012, notando in primo luogo come si trattasse di una restrizione non supportata esplicitamente dal testo legale e determinante effetti sostanzialmente in malam partem24. Come era prevedibile, si è assistito ad una forte minimizzazione della portata della disciplina penalistica di favore, resa operativa assai meno di quanto verosimilmente auspicato dal legislatore25. Come dimostrano in pieno gli orientamenti della quarta Sezione penale della Corte di legittimità precedenti all’approvazione della riforma “Gelli-Bianco”, non si era e non si è (nemmeno oggi) ancora pronti a far dipendere il perimetro della punibilità da concetti i cui significati e confini reciproci sono stati finora tracciati nei termini più disparati26.
11493 (imp. Pagano, rel. Piccialli), cit.; più sfumatamente («Tale disciplina, naturalmente, trova il suo terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia»), ma – si ritiene – con ricadute sostanzialmente equivalenti nella giurisprudenza successiva, Cass. pen., 29.1.2013, n. 16237 (imp. Cantore, rel. Blaiotta), cit. Cfr. Cupelli, La colpa lieve del medico tra imperizia, imprudenza e negligenza: il passo avanti della Cassazione (e i rischi della riforma alle porte), in www.penalecontemporaneo.it, 27.6.2016. 24
Ciò, nello specifico, si è verificato per due fattori essenzialmente. Da un lato, in forza di un sillogismo fallace – in quanto alimentato da due premesse tutt’altro che pacifiche, che “falsano” la conclusione – così sviluppato: è agevolmente possibile distinguere le tre tradizionali forme di colpa generica, cioè negligenza, imprudenza e imperizia; le linee guida contengono prescrizioni attinenti solo all’ambito della perizia; la disciplina del 2012 è allora inapplicabile ad ipotesi di colpa per negligenza oppure imprudenza. Dall’altro lato, si è proceduto ad uno “svuotamento” di contenuto dell’imperizia, sistematicamente inquadrando i casi sotto giudizio in termini di negligenza ed imprudenza, così proponendo, di fatto, una interpretatio abrogans della disciplina concepita invece al fine di apportare finalmente una riduzione della “pressione” penale sulla classe sanitaria.
Giurisprudenza
A ben vedere, resta ancora per nulla chiarito, in particolare in ambito sanitario, se l’imperizia sia la declinazione “professionale” di negligenza ed imprudenza – secondo un’opinione tradizionale27, che però renderebbe qui sostanzialmente sterile il suo richiamo letterale, in quanto allora assai poco selettivo; proprio questo effetto, a ben vedere, potrebbe rappresentare un incentivo per l’accoglimento della lettura appena menzionata, consentendo così di limitare la compressione dello spazio applicativo del nuovo art. 590-sexies c.p.28 – oppure se debba intendersi come un concetto sui generis, un tertium genus. Nei frequenti casi di omessa o ritardata diagnosi, la giurisprudenza, anche di legittimità, ha mostrato di propendere spesso per qualificazioni in termini soprattutto di negligenza, ravvisando invece l’imprudenza nella condotta, talvolta correlata a quella di omessa diagnosi, di affrettata dimissione del paziente29. Va segnalato che nel 2016, dopo qualche precedente apertura30, il percorso evolutivo interno alla quarta Sezione penale della Corte di legittimità aveva fatto registrare un’apprezzabile presa di posizione, mettendo a fuoco tutti i punti critici di una disciplina condizionata dal riscontro dell’imperizia. In primo luogo, si è ribadita la fallacia di un’argomentazione volta a stabilire una corri-
25
Sul punto, Piras, Culpa levis sine imperitia non excusat: il principio si ritrae e giunge la prima assoluzione di legittimità per la legge Balduzzi, in www.penalecontemporaneo.it, 24.4.2015; Roiati, Prime aperture interpretative a fronte della supposta limitazione della Balduzzi al solo profilo dell’imperizia, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, 1, 231 ss. Emblematico, già “a monte”, è anche il più che consolidato approccio 26
della magistratura inquirente nella formulazione dei capi di imputazione per reati colposi, ove si trova regolarmente contestata la colpa generica, al contempo (e a prescindere dal fatto che ci si riferisca ad una o più condotte), per «negligenza, imprudenza e imperizia», come se si trattasse di una monade variopinta ma (per sua natura) indissolubile. Così M. Gallo, Colpa penale (dir. vig.), in Enc. dir., VII, 1960, 641.
27
Pur muovendo da una prospettiva non coincidente con quella qui sviluppata, sottolinea la plausibilità di questa lettura del requisito dell’imperizia Di Giovine, Mondi veri e mondi immaginari di sanità, cit., 2159 e 2163 alla nt. 28. 28
Sul punto, Piras, Culpa levis sine imperitia non excusat, cit., 4. 29
Si fa riferimento alle sentenze “Stefanetti” (Cass. pen., 9.10.2014, n. 47289, imp. Stefanetti, rel. Blaiotta) e “Manzo” (Cass. pen., 19.1.2015, n. 9923, imp. Manzo, rel. Piccialli) entrambe in Dir. pen. proc., 2015, 1141 ss., con nota congiunta di Caletti, Non solo imperizia: la Cassazione amplia l’orizzonte applicativo della Legge Balduzzi. 30
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spondenza necessaria tra linee guida e profili di perizia in senso stretto (concetto che però rimane di incerta definizione); inoltre e soprattutto si è finalmente preso atto che «la scienza penalistica non offre indicazioni di ordine tassativo, nel distinguere le diverse ipotesi di colpa generica, contenute nell’art. 43 c.p., comma 3° […] Tanto che, nella distinzione delle qualifiche di negligenza, imprudenza e imperizia, è stato pure osservato che la distinzione interna, tra negligenza e imprudenza, deve ritenersi di secondaria importanza»31. Il monito della Cassazione è rimasto però inascoltato in Parlamento e il disegno di legge, fin dall’inizio contenente un riferimento esplicito all’imperizia, è giunto alla definitiva approvazione senza variazioni sul punto32. Oggi, dunque, questo riferimento all’imperizia è divenuto “ufficiale”, ma anche la sentenza in commento non manca di essere critica sul punto, riconoscendo che quella del legislatore è sì una «scelta sovrana», ma concretizzata per mezzo di un’«espressione lessicalmente infelice» (§ 9). Certo, le preoccupazioni qui espresse sarebbero destinate a ridimensionarsi se si concepisse l’art. 590-sexies c.p. come una previsione meramente specificativa e non realmente derogatoria rispetto a quella dell’art. 43 c.p., ma si è dato conto di come una lettura alternativa non irragionevole sia forse possibile.
6. I profili intertemporali All’indomani dell’approvazione della riforma “Balduzzi”, la Cassazione aveva ritenuto che si fosse realizzata una parziale abolitio criminis, ravvisando un rapporto di genere a specie tra la disciplina previgente e quella del 2012. La parziale erosione dell’area della tipicità determinatasi giustifica-
Così la sentenza “Denegri” (Cass. pen., 11.5.2016, n. 23283, cit.) che richiama autorevole dottrina sul punto e, in particolare, la posizione di M. Gallo, Colpa penale, cit.
va dunque l’applicazione dell’art. 2, comma 2°, c.p., capace di far retroagire la nuova normativa a disciplina dei casi pregressi, anche superando il limite del giudicato penale. Per quanto riguarda la possibilità di applicare il nuovo art. 590-sexies c.p. a casi verificatisi prima della sua entrata in vigore, la posizione della Cassazione è oggi molto più chiusa. In una prima sentenza33, invero, si era sostanzialmente lasciato aperto il problema dell’individuazione della disciplina più favorevole tra tutte quelle succedutesi negli ultimi anni, facendo un generico rinvio “di metodo” all’art. 2, 4° c., c.p. Con la sentenza che si sta annotando, invece, la Cassazione ha sciolto ogni riserva, con una conclusione che è infatti netta e sintetizzabile in questi termini: poiché la novella del 2017 non consente distinzioni connesse al grado della colpa (in particolare non limita alle sole ipotesi di colpa grave la responsabilità penale), la sua applicazione è quindi da considerarsi riservata unicamente ai casi di futura verificazione (§§ 5 e 11)34. Interessante notare, in merito, le implicazioni che la Corte intravede nell’esplicita abrogazione dell’art. 3 del previgente d.l. “Balduzzi”, giungendo a parlare di «reviviscenza, sotto tale riguardo, della previgente, più severa normativa che, per l’appunto, non consentiva distinzioni connesse al grado della colpa» (§ 11). La sentenza sembra infatti individuare una sostanziale continuità tra la disciplina del 2017 e quella pre-2012, come confermano anche alcune considerazioni dedicate poco prima alla natura della previsione del nuovo art. 590-sexies c.p. Il coraggioso lessico della sentenza “Cantore”, che ravvisava apertis verbis una parziale abolitio criminis, lascia qui il posto ad espressioni molto più pallide – non si allude più ad alcuna esclusione
31
Tra le righe, si è percepita l’avvertita esigenza di non creare per i sanitari un regime di responsabilità penale irragionevole, ingiustificatamente differente rispetto a quello valido per gli altri professionisti esercenti attività in qualche misura pericolose. 32
Cass. pen., 16.3.2017, n. 16140 (sentenza “Filippini”, redatta da uno degli estensori della pronuncia qui in commento), in www.penalecontemporaneo.it, 26.4.2017, con nota di Cupelli, La legge Gelli-Bianco approda in Cassazione: prove di diritto intertemporale. 33
Sui profili intertemporali della riforma, anche Salcuni, La colpa medica tra metonimia e sineddoche, cit., 22 ss. 34
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della tipicità, o della colpevolezza, oppure ancora della punibilità in senso stretto35 – come quando si parla di «una nuova regola di parametrazione della colpa»36. Nei primi tempi di vigenza della riforma “Gelli-Bianco”, in attesa cioè che si compia il percorso di “codificazione” delle linee guida “qualificate” (che richiede diversi decreti attuativi), la nuova disciplina potrebbe da subito applicarsi (pur entro spazi ancora incerti, come visto) facendo riferimento al rispetto delle buone pratiche clinico-assistenziali, presidiate da un osservatorio nazionale, ma non bisognose di una ufficializzazione paragonabile a quella prevista per le linee guida. La Corte rileva appunto, peraltro con considerazione concepita anche per il futuro, che «il legislatore ha stornato il pericolo di stallo nell’applicazione delle novella, ponendo in campo, in via residuale, le buone pratiche clinico-assistenziali» (§ 10).
7. Una speranza conclusiva. Il “rilancio” della colpa grave per mezzo dell’art. 2236 c.c. Come già anticipato, nel paragrafo conclusivo la Corte richiama quanto già affermato più volte dalla stessa quarta Sezione penale, cioè che il criterio di affermazione della responsabilità civile del prestatore d’opera previsto dall’art. 2236 c.c. potrebbe continuare a dispiegare effetti nel giudizio penale, non tanto per effetto di un suo puro e diretto recepimento, quanto, piuttosto, «come regola di esperienza cui attenersi per valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà» (§ 11.1).
Tutte e tre queste letture (soprattutto le prime due) avevano trovato riscontri in dottrina, ove giustamente non ci si è mai spinti a ritenere che la disciplina penale del 2012 avesse introdotto nell’ordinamento una causa di giustificazione, essendosi parallelamente fatto salvo, per gli stessi casi, il diritto al risarcimento del danno; soluzione ribadita ancora oggi nel contesto della nuova normativa. 35
Non sembra un caso che nemmeno in dottrina vi siano state decise prese di posizione qualificatorie della disposizione del nuovo art. 590-sexies c.p. 36
Giurisprudenza
Questo apprezzabile tentativo di recuperare qualche spazio per la graduazione della colpa, che assume le sembianze di una sorta di “controriforma” della Cassazione, impone di sviluppare alcune riflessioni conclusive. Si tratta, a ben vedere, di un orientamento già noto, il quale, tuttavia, sembra aver riscosso negli anni più consensi ed adesioni in dottrina che presso la stessa giurisprudenza, di legittimità e di merito37. È chiaro che, qualora a seguito dell’impulso dato dalla sentenza in commento venisse a realizzarsi una certa continuità applicativa, l’art. 2236 c.c. potrebbe garantire, perlomeno in relazione ad un numero ristretto di casi, i crismi di un’imputazione davvero colpevole38. I suoi effetti benèfici, però, non vanno sopravvalutati; d’altro canto, ci sembra che nemmeno la stessa Corte, ben consapevole della portata limitata dello strumento, incappi in questo equivoco. Almeno due sono, infatti, gli ostacoli che sembrano frapporsi ad un riconoscimento frequente dell’irrilevanza penale della colpa lieve dovuto alla “speciale difficoltà” del caso affrontato. In primo luogo, non è agevole stabilire quando il caso clinico possa definirsi, appunto, di “speciale difficoltà”. A giudizio di chi scrive, le peculiarità dell’ars medica e la volubilità di ogni situazione clinica – le stesse che impongono di ritenere che le linee guida non esauriscono l’orizzonte cautelare – potrebbero ben giustificare una concessio-
Il filone giurisprudenziale in oggetto è stato inaugurato da uno degli estensori della sentenza annotata, il Presidente Blaiotta. Si registrano, negli ultimi anni, affermazioni del principio anche da parte di altri Consiglieri della quarta (ad es., recentemente, Cass. pen., 19.11.2015, n. 12478, in Foro it., 2017, 3, II, 149 ss., con nota di Brusco; Cass. pen., 23.5.2014, n. 36347, in Riv. it. med. leg., 2014, 1317 ss.), ma l’impatto per così dire “statistico” rimane, purtroppo, limitato, specie se misurato sui dati riportati in Brusco, Informazioni statistiche sulla giurisprudenza penale di legittimità in tema di responsabilità medica, in www.penalecontemporaneo.it, 14.7.2016. 37
Questo l’effetto che, solitamente, si riconosce alla colpa grave. La letteratura sul punto è ampia. A livello monografico, Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009. Di quest’avviso anche uno degli estensori della presente sentenza, Blaiotta, La responsabilità medica: nuove prospettive per la colpa, in Donini, Orlandi (a cura di), Reato colposo e modelli di responsabilità, Bologna, 2013, 313 ss. 38
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ne della “patente” di speciale difficoltà meno rigida rispetto ad altri settori. Del resto, la ricerca di uno statuto speciale per la colpa medica si fonda anche e soprattutto sul fatto che ogni paziente “in carne ed ossa” è diverso dall’altro, nonché sulla non perfetta riproducibilità delle reazioni fisiologiche alle terapie. Si ritiene, inoltre, che a rendere il caso di “speciale difficoltà” potrebbero concorrere anche le condizioni “ambientali” nelle quali il sanitario ha operato: può ben darsi, ad esempio, che un intervento del tutto routinario risulti complesso in forza della particolare urgenza con cui viene svolto o, caso più frequente di quanto non si creda, in ragione di carenze organizzative o strutturali39. A prescindere da queste prime considerazioni, appena abbozzate, è evidente come i criteri per stabilire il grado di colpa applicabile caso per caso siano tutti ancora da plasmare, col rischio che la “speciale difficoltà” risulti essere confine molto meno tassativo dell’osservanza delle linee guida prescritto dall’art. 3 del decreto “Balduzzi”. Non è, forse, nemmeno casuale che il caso affrontato dalla Corte sia maturato in ambito psichiatrico, contesto connotato quasi sempre da “speciali difficoltà” nel comprendere le reazioni dei pazienti alle cure e prevedere comportamenti auto ed etero aggressivi. Per questo, delle rare applicazioni dell’art. 2236 c.c. hanno spesso beneficiato proprio medici psichiatri40.
Sul punto, è impossibile non richiamare il testo, vera e propria pietra miliare nella letteratura di lingua inglese, di Merry, McCall Smith, L’errore, la medicina e la legge, Milano, 2004 (traduzione italiana).
In secondo luogo, altro imponente scoglio alla concreta diffusione dell’orientamento proposto dalla Corte è quello – su cui ci si è già dilungati – dell’imperizia. Come già specificato, storicamente, l’associazione tra colpa grave ed imperizia, che ha comportato la sostanziale paralisi della “Balduzzi”, è maturata proprio nell’alveo del dibattito sull’art. 2236 c.c., allorquando la Corte costituzionale, nel 1973, ha avallato l’operatività della norma civilistica in ambito penale a condizione che l’errore medico sia dovuto ad imperizia e non a negligenza e/o imprudenza41. Di talché, tutte le perplessità che sono state espresse in precedenza con riguardo alla scelta legislativa di prevedere nel testo dell’art. 590-sexies c.p. il requisito dell’imperizia, possono essere qui integralmente richiamate. In definitiva, tra tutte queste incertezze pratiche sembra, comunque, emergere un’indicazione piuttosto chiara: anche la migliore giurisprudenza di legittimità è ormai propensa – certo, con maggiore prudenza rispetto alla dottrina – all’innalzamento del grado della colpa penale in ambito medico. Si legge, infatti, al § 7.3.: «è ben vero che l’ambito terapeutico è un contesto che giustifica, nell’ambito della formazione e dell’interpretazione, un peculiare governo del giudizio di responsabilità, anche in chiave limitativa»42. L’affermazione, peraltro, avviene proprio nella parte della sentenza in cui gli estensori si interrogano sulla conformità ai principi costituzionali della lettura secondo cui l’art. 590-sexies c.p. sancirebbe l’irrilevanza penale anche delle condotte conno-
39
Spesso, infatti, l’orientamento che individua nell’art. 2236 c.c. una regola d’esperienza ha trovato terreno fertile in ambito psichiatrico. Si veda ad esempio, Cass. pen., 1°.2.2012, n. 4391 (imp. D.L.M., rel. Blaiotta), in Dir. pen. proc., 2012, 1104 ss., con nota di Cupelli, La responsabilità colposa dello psichiatra tra ingovernabilità del rischio e misura soggettiva. È anche la stessa sentenza a sottolineare che la psichiatria è caratterizzata «da particolare complessità della situazione rischiosa da governare». Non solo, anche «la selezione delle regole tecniche si pone in termini ancor più problematici con riferimento alla scienza psichiatrica, giacché le manifestazioni morbose a carico della psiche sono ritenute tendenzialmente meno evidenti e afferrabili delle malattie fisiche, per cui l’individuazione del trattamento appropriato può in 40
certi casi diventare ancora più incerta che non nell’ambito dell’attività medica generalmente intesa». 41
V. nt. 22.
Sull’opportunità di prevedere uno statuto speciale di maggior favore per la responsabilità sanitaria, aspetto non accolto pacificamente nella dottrina penalistica, si veda soprattutto Di Giovine, In difesa del cd. Decreto Balduzzi (ovvero: perché non è possibile ragionare di medicina come se fosse diritto e di diritto come se fosse matematica), in Arch. pen. (web), 2014, 1, 6. Sulla tendenza a differenziare la colpa penale nei diversi ambiti in cui si manifesta, Roiati, L’introduzione dell’omicidio stradale e l’inarrestabile ascesa del diritto penale della differenziazione, in www.penalecontemporaneo. it, 1°.6.2016. 42
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tate da imperizia grave, ma avvenute nel rispetto delle linee guida. La Corte, quindi, si dice favorevole – forse, per la prima volta in termini così espliciti43 – ad uno statuto speciale della colpa penale nelle attività sanitarie. La tecnica normativa per addivenire a tale “differenziazione” è la graduazione della colpa, nella prospettiva di una restrizione della punibilità alle sole ipotesi gravi. Non è il caso di appropriarci di un’idea che nella dottrina italiana circola da moltissimi anni, al punto da essere stata definita «perennemente de lege ferenda»44, e che ha visto anche una vera e propria proposta codificatoria45, ma anche chi scrive, in sede di primo commento della riforma, aveva, proponendo un parallelo anche statistico con l’esperienza inglese, indicato questa impostazione come l’alternativa più semplice ed efficace per conseguire gli obiettivi perseguiti dal legislatore46. Anche sotto questo profilo, la Corte si è mostrata favorevole alla ricerca
Qualche prima indicazione era già stata formulata dalla Corte in Cass. pen., 19.11.2015, n. 12478, cit. 43
Espressione utilizzata da Donini, Teoria del reato, nel Dig. pen., Torino, 1999, 221 ss., e ripresa, in riferimento al tema del grado della colpa, da Castronuovo, La colpa penale, cit., 529. 44
Cfr. Forti, Catino, D’Alessandro, Mazzucato, Varraso, Il problema della medicina difensiva, Pisa, 2010.
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di nuove soluzioni, dando persino atto che «pure in ambito internazionale si mostrano soluzioni differenziate, prevalentemente caratterizzate dalla limitazione della responsabilità alla colpa grave o dal favore per strumenti propri del diritto civile» (§ 7.3). Dopotutto, nella sua versione originaria, approvata dalla Camera dei Deputati prima delle modifiche apportate durante la lettura al Senato, l’art. 6 della riforma prevedeva un’estensione generale all’attività medica del criterio di imputazione della colpa grave, peraltro da “presumere” insussistente nel caso di osservanza delle linee guida47. Il processo di depenalizzazione della malpractice lieve – su cui si trovano ora concordi dottrina, giurisprudenza ed un ramo del Parlamento – pare, dunque, avviato. Ad averlo frenato, almeno nel caso degli ultimi due interventi legislativi, è la «vittoria dei lineaguidari», ovvero la scelta di fondo di entrambe le normative di ancorare il regime di imputazione più favorevole al rispetto delle linee guida48. Tale requisito, viste le numerose criticità ancora oggi sollevate delle raccomandazioni cliniche, finisce per dar vita a testi di legge a prima vista insondabili, con difficoltà ermeneutiche che si ripercuotono sulla loro concreta applicabilità49.
45
Cfr. Caletti, Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, cit., 107. In senso adesivo, Risicato, Il nuovo statuto penale della colpa medica: un discutibile progresso nella valutazione della responsabilità del personale sanitario, in www.lalegislazionepenale.eu, 7.6.2017, 17. Sull’opportunità di un innalzamento del grado di colpa da parte della “Gelli-Bianco”, anche D’Alessandro, La responsabilità penale del sanitario alla luce della riforma “Gelli-Bianco”, cit., 578; Poli, Il D.D.L. Gelli-Bianco: Verso un’ennesima occasione persa di adeguamento della responsabilità penale del medico ai principi costituzionali?, in www.penalecontemporaneo.it, 20.2.2017. Di segno diverso le considerazioni di Brusco, La colpa penale e civile, Milano, 2017, 239: «la linea di confine tra colpa lieve e colpa grave – tanto più se si esclude una forma per così dire “media” – è talmente labile che si sarebbe finito, percorrendo questa strada, per lasciare alla discrezionalità del giudice il compito di individuare, di volta in volta, che cosa costituisca reato e ciò che sia invece penalmente irrilevante con un pregiudizio inaccettabile del principio di determinatezza. Più determinato e oggettivamente verificabile è il riferimento al rispetto delle linee guida e delle buone pratiche». 46
Per un commento della versione iniziale della “Gelli-Bianco”, Di Giovine, Colpa penale, “legge Balduzzi” e “disegno di legge Gelli-Bianco”: il matrimonio impossibile tra diritto penale e gestione del rischio clinico, in Cass. pen., 2017, 386 ss. Secondo una prospettiva medico-legale, Panti, Il d.d.l. sulla responsabilità professionale del personale sanitario: il punto di vista del medico, in Dir. pen. proc., 2016, 374. 47
L’efficace espressione “lineaguidari” si deve a Cavicchi, Linee guida e buone pratiche. Limiti, aporie, presagi, in Ventre (a cura di), Linee guida e buone pratiche. Implicazioni giuridiche e medico-legali. Cosa cambia nella sanità, raccolta degli atti di un Convegno tenutosi a Trieste, in www.quotidianosanità.it, 12.1.2017. Per una panoramica delle problematiche applicative dovute alla centralità delle linee guida nell’accertamento della colpa penale, recentemente, Palermo Fabris, La responsabilità penale del professionista sanitario tra etica del diritto ed etica della medicina, in questa Rivista, 2017, n. 2, 218 ss. 48
Esse sono, infatti, tradizionalmente “invise” tanto ai sanitari che ai giudici. Su questo disagio, in particolare, Palazzo, Responsabilità medica, “disagio” professionale e riforme penali, in Dir. pen. proc., 2009, 1063. Evidenzia i limiti funzionali delle linee guida anche Giov. De Francesco, In tema di 49
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Certo, nella prospettiva che si è appena delineata, l’introduzione dell’art. 590-sexies c.p., costituisce un’occasione persa. Tuttavia, forse, il “passo indietro” non è così marcato come si temeva nelle prime letture. Apparirà paradossale – specie in sede di commento di una pronuncia che, nella massima, sancisce che la disciplina precedente è sempre più favorevole di quella attuale – ma, come si è scritto in queste poche righe, la sentenza in commento lascia aperto lo spazio per “tenere in vita” la riforma “Balduzzi”. Quanto agli “adempimenti imperfetti”, si potrebbe, aderendo ad un’interpretazione più flessibile del “rispetto” delle Guidelines, intravedere una “tacita” graduazione della colpa. Con riguardo agli “adempimenti inopportuni”, invece, si potrebbe invocare – ovviamente non sempre, ma con una certa frequenza – l’art. 2236 c.c.: in fin dei conti, non può spesso essere di “speciale difficoltà” il caso in cui il sanitario debba discostarsi dalle migliori raccomandazioni elaborate da affidabili società scientifiche?50 Tutto ciò… imperizia permettendo!
dovere terapeutico, colpa medica e recenti riforme, in www. legislazionepenale.eu, 2.5.2017, 5 ss. Sottolinea come l’art. 2236 c.c. possa essere invocato frequentemente in casi medici, stante la consueta difficoltà media, Palermo Fabris, La responsabilità penale del professionista sanitario, cit., 220. 50
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s i r Giurisprudenza iu g den u r Salute e riserbo del p Giurisprudenza
paziente: questioni aperte in tema di cartella clinica Stefano Corso
Cultore nell’Università di Ferrara Sommario: 1. Premessa. – 2. Responsabilità medica e cartella clinica: profili probatori. – 3. Il rapporto fra diritto alla riservatezza e diritto di accesso in riferimento alla cartella clinica. – 4. Segue. Parto anonimo e diritto a conoscere le proprie origini. – 5. Osservazioni conclusive.
Abstract: Il contributo affronta, dopo una breve premessa circa la normativa di riferimento, le questioni applicative più attuali e spinose emerse in tema di cartella clinica. In particolare vengono approfondite le regole riguardanti l’onere della prova in caso di responsabilità medica per lesione della salute del paziente e i principi fondamentali relativi al rapporto fra privacy del malato e diritto di accesso alla cartella clinica. This article offers an analysis of the legal aspects of medical records and of the main principles operating on the ground, in the Italian system. It presents a review of case law on the subject, after a concise report about the relevant legislation. In particular, it focuses on the applications, made by the judges and the Data Protection Authority, of the rules by which the onus probandi is governed and of the ones connected to the relation between privacy and right to access, in reference to the medical records.
della sua salute. Informazioni indispensabili per il medico, per gli enti di assistenza sanitaria, per altre pubbliche amministrazioni – come pure quella giudiziaria – e per il paziente stesso1. Tale compito è svolto mediante la compilazione, da parte dei medici, della cartella clinica2. Per darne una definizione, si può dire che la cartella clinica è il documento contenente i dati clinici e le valutazioni condotte a partire da questi dati, riguardanti un paziente determinato, relativamente a uno o più fenomeni clinici3.
Puccini, Istituzioni di medicina legale, VI, Milano, 2003, 1032. 1
Per uno studio delle tematiche relative alla cartella clinica e alla responsabilità medica v. Occorsio, Cartella clinica e responsabilità medica, Milano, 2011. Cfr. Magliona, La cartella clinica ospedaliera nella recente giurisprudenza della Corte di cassazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1996, 95 ss. 2
Occorsio, Cartella clinica e «vicinanza» della prova, in Riv. dir. civ., 2013, II, 1249. Diverse sono le definizioni di cartella clinica formulate nel tempo. Per una maggiore comprensione dell’istituto si riporta qui anche quella offerta da Gattai, Cartella clinica, Milano, 1990, 19, secondo cui la cartella clinica è il documento che raccoglie, ad opera del medico e del personale infermieristico, «un complesso eterogeneo di informazioni, soprattutto sanitarie ma anche anagrafiche, sociali, ambientali, giuridiche» relative al paziente ricoverato «allo scopo di poterne rilevare» tutto quel che lo riguarda «in senso diagnostico-terapeutico, nel particolare momento dell’ospedalizzazione, ed in tempi successivi anche ambulatoriamente, al fine di predisporre gli opportuni interventi medici» e allo scopo di «poterne usufruire anche per le più 3
1. Premessa Nello svolgimento dell’attività professionale medica sorge la necessità di raccogliere le informazioni relative al paziente, in modo tale da poterne ricostruire un profilo, in maniera funzionale al trattamento sanitario. Informazioni utili per tracciare una sua storia, per individuare il suo percorso di cura e per costituire una “memoria”
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La normativa in tema di cartella clinica è frammentaria4. L’art. 7, comma 3°, d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128 (“Ordinamento interno dei servizi ospedalieri”) stabilisce che il responsabile della regolare compilazione della cartella clinica è il primario5. Più precisamente dispone l’art. 35 del d.P.C.m. 4 luglio 1986, n. 153 (“Atto di indirizzo e coordinamento dell’attività amministrativa delle Regioni in materia di requisiti delle case di cura private”), relativo alla disciplina delle case di cura private, secondo il quale, per ogni ricoverato, è prescritta la compilazione della cartella clinica, da cui risultino «le generalità complete, la diagnosi di entrata, l’anamnesi familiare e personale, l’esame obiettivo, gli esami di laboratorio e specialistici, la diagnosi, la terapia, gli esiti e i postumi»6. A completare il quadro viene in rilievo il Codice di deontologia medica del 2014, in particolare l’art. 26, per cui: «Il medico redige la cartella clinica, quale documento essenziale dell’evento ricovero, con completezza, chiarezza e diligenza e ne tutela la riservatezza; le eventuali correzioni vanno motivate e sottoscritte. Il medico riporta nella cartella clinica i dati anamnestici e quelli obiettivi relativi alla condizione clinica e alle attività diagnostico-terapeutiche a tal fine praticate; registra il decorso clinico assistenziale nel suo contestuale manifestarsi o nell’eventuale pianificazione anticipata delle cure nel caso di paziente con malattia progressiva, garantendo la tracciabilità della sua redazione. Il medico registra nella cartella clinica i modi e i tempi dell’informazione e i termini del
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consenso o dissenso della persona assistita o del suo rappresentante legale anche relativamente al trattamento dei dati sensibili, in particolare in casi di arruolamento in protocolli di ricerca»7. La natura giuridica della cartella clinica può dirsi non ancora determinata con sicurezza. In particolare è discusso se debba considerarsi atto pubblico munito di fede privilegiata o semplice documento ospedaliero di rilevanza tecnico-sanitaria oppure attestazione equiparabile a una certificazione amministrativa8. In ragione della sua originaria funzione organizzativa, essa conserva il valore di atto amministrativo sanitario. Nell’ottica invece del diritto penale, ad esempio con riguardo a determinate fattispecie criminose9, viene ad acquistare la funzione di atto pubblico, originario e autonomo, formato e proveniente da un pubblico ufficiale, nonché dotato di efficacia dichiarativa in ordine a quanto nell’atto stesso è contenuto e registrato10.
Sul valore e il ruolo delle norme deontologiche e relativa bibliografia v. Thiene, Nuovi percorsi della responsabilità civile. Dalla condotta allo status, Padova, 2006, 170 ss.; Occorsio, Cartella clinica e «vicinanza» della prova, cit., 1250, nt. 4. L’art. 26 del Codice deontologico quindi prevede espressamente in capo al medico l’obbligo di proteggere il riserbo dei dati che sono contenuti nella cartella clinica e questa va redatta con completezza, chiarezza e diligenza. V. Thiene, Salute, riserbo e rimedio risarcitorio, in Riv. it. med. leg., 2015, 1420, nt. 62. 7
8
Puccini, op. cit., 1033.
Fattispecie quali la rivelazione di segreti di ufficio (art. 326 c.p.), l’omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.), la falsità materiale in atti pubblici (art. 476 c.p.) o la falsità ideologica in atti pubblici (art. 479 c.p.). 9
varie indagini di natura scientifica, statistica, medico legale e per l’insegnamento». Le fonti normative in cui possono rinvenirsi elementi per definire la “cartella clinica” sono svariate. Cfr. Frè, La cartella clinica nel sistema sanitario italiano, in Rass. giur. san., 2008, 352 ss. 4
Norma analoga era già contenuta nell’art. 24, comma 2°, lett. e), r.d. 30 settembre 1938, n. 1631, secondo cui il primario «cura, sotto la propria responsabilità, la regolare tenuta delle cartelle cliniche e dei registri nosologici». 5
Norma analoga era già dettata dal d.m. 5 agosto 1977, all’art. 24, secondo cui per ogni ricoverato era prescritta la compilazione della cartella clinica, completa di dati anagrafici e rilievi clinico-terapeutici, la loro numerazione progressiva, e la loro conservazione da parte della Direzione Sanitaria. 6
V. Cass. pen., 16.6.2005, n. 22694, in DeJure, secondo cui «la cartella clinica redatta da un medico di un ospedale pubblico è caratterizzata dalla produttività di effetti incidenti su situazioni soggettive di rilevanza pubblicistica nonché dalla documentazione di attività compiute dal pubblico ufficiale che ne assume la paternità: trattasi di atto pubblico che esplica la funzione di diario dell’intervento medico e dei relativi fatti clinici rilevanti, sicché i fatti devono essere annotati conformemente al loro verificarsi». In quella occasione la S.C. ha avuto modo di precisare anche che il fatto di non aver annotato nella cartella clinica un prelievo mal riuscito in un’amniocentesi configura falso ideologico. Cfr. Cass. pen., 3.5.1990, n. 6394, in Riv. pen., 1991, 311 ss., la quale chiarisce che «la cartella clinica, della cui compilazione è responsabile il primario, adempie la funzione di descrivere il decorso della malattia, di attestare la terapia praticata e tutti gli altri 10
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Continuare a vedere però nella cartella clinica solamente un atto dotato sì di rilievo giuridico ma prevalentemente su un piano tecnico-burocratico può essere limitativo. Infatti essa è venuta ad acquistare sempre più nel tempo significati e valori ulteriori, come quello di strumento veicolante il rapporto fra medico e paziente e pubblica amministrazione. Addirittura alla cartella clinica è affidato il compito di testimoniare, oltreché lo stato di salute del paziente, le sue intime scelte: in essa infatti confluisce il suo consenso informato11. Si può dire allora che la cartella clinica esprima, in un certo qual modo, una parte dell’identità personale del paziente12. Si comprende allora come la presenza all’interno della cartella clinica di un insieme tanto variegato di dati relativi al paziente renda questo atto il documento sanitario con il maggior numero di informazioni personali13. In esso infatti confluiscono dati comuni, come le informazioni anagrafiche, e dati sensibili, come le condizioni di salute della persona. Perciò non si può non guardare alla cartella clinica come a un istituto chiamato a rispondere dei rapporti fra diritto di accesso e diritto alla riservatezza. Il d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (“Codice in materia di protezione dei dati personali”, c.d. Codice della privacy) detta a riguardo specifiche disposizioni. L’art. 92 recita infatti come segue: «1. Nei casi in cui organismi sanitari pubblici e privati redigono e conservano una cartella clinica in conformità
fatti clinici rilevanti e, tra questi, rientrano le informazioni che il paziente fornisce al sanitario ai fini della ricostruzione della anamnesi. La cartella clinica, inoltre, acquista il carattere della definitività una volta compilata e sottoscritta, ed in relazione ad ogni singola annotazione, con la conseguenza che ogni successiva alterazione del suo contenuto costituisce il reato di falso materiale in atto pubblico, di cui all’art. 476 c.p.». Si pensi alla possibilità di prevedere che nella cartella clinica siano annotati dati inerenti a dichiarazioni anticipate di trattamento (c.d. testamento biologico). 11
Occorsio, Cartella clinica e «vicinanza» della prova, cit., 1252.
12
Sartoretti, La cartella clinica tra diritto all’informazione e diritto alla privacy, nel Trattato di Biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, Salute e sanità, Milano, 2010, 579.
alla disciplina applicabile, sono adottati opportuni accorgimenti per assicurare la comprensibilità dei dati e per distinguere i dati relativi al paziente da quelli eventualmente riguardanti altri interessati, ivi comprese informazioni relative a nascituri. 2. Eventuali richieste di presa visione o di rilascio di copia della cartella e dell’acclusa scheda di dimissione ospedaliera da parte di soggetti diversi dall’interessato possono essere accolte, in tutto o in parte, solo se la richiesta è giustificata dalla documentata necessità: a) di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria ai sensi dell’articolo 26, comma 4, lettera c), di rango pari a quello dell’interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile; b) di tutelare, in conformità alla disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi, una situazione giuridicamente rilevante di rango pari a quella dell’interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile». Alla cartella clinica sono quindi rivolte apposite norme del d.lgs. n. 196/2003, le quali si pongono in relazione alla l. 7 agosto 1990, n. 241 (“Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”), che introduce il diritto di accesso, fondato sull’interesse alla trasparenza e alla circolazione delle informazioni14. L’art. 24 della l. 241/1990 richiama infatti, al 7° comma, il Codice della privacy, stabilendo che va «garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale». E l’art. 60 del d.lgs. n. 196/2003 esprime il principio di cui il citato art. 92 può considerarsi declinazione, cioè: «quando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di
13
14
Sartoretti, op. cit., 581.
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salute o la vita sessuale, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile». Dunque il diritto di accesso al documento “cartella clinica” viene riconosciuto dalla legge a chi lo richieda avendo la necessità di tutelare una “situazione giuridicamente rilevante”, che sia almeno di “pari rango” rispetto ai diritti dell’interessato o consistente “in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”, o la necessità di “far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria” che abbia le medesime caratteristiche, in conformità all’art. 26, comma 4°, lettera c) del Codice della privacy. E tale diritto è riconosciuto nei limiti in cui l’accesso sia “strettamente indispensabile”. Se questi sono i tratti che presenta l’istituto in esame alla luce del rapporto fra diritto di accesso e diritto alla riservatezza, profili ancora diversi emergono quando si consideri il suo adeguarsi all’evoluzione della tecnologia e al progresso dei sistemi informatici, cui si assiste negli ultimi anni. Il riferimento non può che essere al cosiddetto Fascicolo Sanitario Elettronico e al Dossier Sanitario. La creazione di sistemi nazionali di sanità “elettronica” se da un lato garantisce un accesso più facile all’assistenza sanitaria con il rapido reperimento delle informazioni relative al paziente, dall’altro espone la sicurezza dei dati personali al rischio di compromessi che potrebbero portare a ingerenze nella sfera privata dell’intimità e a speculazioni proprio sui dati relativi all’identità della persona15.
Ibidem. In tema di Fascicolo Sanitario Elettronico e Dossier Sanitario v. Guarda, Fascicolo Sanitario Elettronico e protezione dei dati personali, Università degli Studi di Trento, Trento, 2011; Peigné, Il fascicolo sanitario elettronico, verso una «trasparenza sanitaria» della persona, in Riv. it. med. leg., 2011, 1520 ss.; Comandé, Nocco, Peigné, Il fascicolo sanitario elettronico: uno studio multidisciplinare, in Riv. it. med. leg., 2012, 105 ss.; Thiene, Salute, riserbo e rimedio risarcitorio, cit., 1419 ss. 15
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Avendo presenti anche solo queste poche nozioni, descritte sommariamente e in modo più che sintetico, si può cogliere quale sia il peso della cartella clinica nelle vicende relative alla vita del paziente e quanto questo istituto giochi un ruolo fondamentale nell’individuare le declinazioni, non solo processuali ma anche sostanziali, del diritto alla salute. La giurisprudenza ha svolto nel tempo e continua a svolgere l’importante compito di definire i contorni dell’istituto in esame. Partendo dalle sue applicazioni, dal mutevole dispiegarsi della realtà concreta e dalla risoluzione dei casi, evidenzia l’impatto che ha, nel prisma della tutela dei diritti del paziente, alla salute e alla riservatezza.
2. Responsabilità medica e cartella clinica: profili probatori Una serie di questioni che si è posta agli interpreti in merito alla rilevanza della cartella clinica attiene al suo valore probatorio e al suo rilievo in termini processuali. Premesso che, prima dell’entrata in vigore della l. 8 marzo 2017, n. 24 (“Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, c.d. legge Gelli), la responsabilità tanto della struttura sanitaria quanto dell’esercente la professione sanitaria era qualificabile come contrattuale – per la prima in forza del contratto di spedalità e per il secondo in virtù del contatto sociale16 –, la distribuzio-
In merito alla qualificazione della responsabilità medica giova ricordare come la teoria della responsabilità del medico come responsabilità da “contatto sociale” è stata accolta dalla giurisprudenza di legittimità con la celebre sentenza 22 gennaio 1999, n. 589, della Corte di cassazione, per la quale il passato inquadramento della responsabilità medica come responsabilità extracontrattuale rivela tutta la sua inadeguatezza nella misura in cui «riduce al momento terminale, cioè il danno, una vicenda che non incomincia con il danno, ma si struttura prima come rapporto, in cui il paziente, quanto meno in punto di fatto, si affida alle cure del medico e il medico accetta di prestargliele». La pronuncia si trova commentata in Contratti, 1999, 999 ss., con nota di Guerinoni, Obbligazione da “contatto sociale” e responsabilità contrattuale nei confronti del terzo; in Corr. giur., 1999, 441 ss., con nota 16
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ne dei carichi probatori seguiva allora lo schema della responsabilità ex art. 1218 c.c. In estrema sintesi, il paziente danneggiato che agiva domandando il risarcimento doveva provare l’esistenza del contratto o del contatto relativi al rapporto di cura, il danno, il nesso eziologico fra inadempimento dell’obbligazione e danno, mentre bastava che allegasse l’inadempimento, gravando sul medico o sulla struttura sanitaria convenuti l’onere di provare l’esatto adempimento o che l’inadempimento fosse stato determinato da impossibilità
di Di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione; in Danno e resp., 1999, 294 ss., con nota di Carbone, La responsabilità del medico ospedaliero come responsabilità da contatto; in Foro it., 1999, I, 3332 ss., con nota di Lanotte, L’obbligazione del medico dipendente è un’obbligazione senza prestazione o una prestazione senza obbligazione? e con nota di Di Ciommo, Note critiche sui recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità del medico ospedaliero; in Danno e resp., 1999, 777 ss., con nota di De Matteis, La responsabilità medica tra scientia iuris e regole di formazione giurisprudenziale; in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, 334 ss., con nota di Thiene, La Cassazione ammette la configurabilità di un rapporto obbligatorio senza obbligo primario di prestazione. Sulla medesima sentenza cfr. ancora Forziati, La responsabilità contrattuale del medico dipendente: il “contatto sociale” conquista la Cassazione, in Resp. civ. e prev., 1999, 661 ss.; Fiori-D’Aloja, La responsabilità professionale dei medici dipendenti dal servizio sanitario nazionale dopo la sentenza della Cassazione civile n. 589/1999 detta del «contatto sociale». Trentadue anni dopo il fatto il medico apprende che la sua responsabilità non era extracontrattuale, bensì contrattuale: con le relative conseguenze, in Riv. it. med. leg., 2001, 831 ss. Per l’elaborazione dottrinale circa la responsabilità del medico come responsabilità contrattuale da contatto sociale e la teorizzazione dell’obbligazione senza prestazione, v. Castronovo, Obblighi di protezione e tutela del terzo, in Jus, 1976, 143 ss.; Castronovo, voce «Obblighi di protezione», in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma, 1990; Castronovo, L’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, in Scritti in onore di Luigi Mengoni, I, Le ragioni del diritto, Milano, 1995, 151 ss.; Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006; Castronovo, Danno esistenziale: il lungo addio, in Danno e resp., 2009, 5 ss.; cfr. De Matteis, La responsabilità medica, un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995, passim; Thiene, Nuovi percorsi della responsabilità civile, cit., 167 ss.; Thiene, Inadempimento alle obbligazioni senza prestazione, nel Trattato della responsabilità contrattuale, a cura di Visintini, Padova, 2009, I, 317 ss.
della prestazione derivante da causa non imputabile ai sanitari17. Un primo tentativo di superare il modello della responsabilità da contatto sociale, secondo l’avvertita esigenza di arginare la c.d. medicina difensiva, si è avuto con la l. 8 novembre 2012, n. 189, di conversione del d.l. 13 settembre 2010, n. 158 (c.d. decreto Balduzzi), ma il richiamo operato allora dal legislatore all’art. 2043 c.c. in merito alla responsabilità del medico è stato interpretato dalla Corte di cassazione come mera volontà di «escludere l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale»18 e non come intenzione di riqualificazione della responsabilità del medico19. Il tenore della l. 24/2017 è invece diverso: qui infatti il legislatore stesso sembra procedere a qualificare la responsabilità del medico come extracontrattuale20, ove, all’art. 7, comma 3°, dispone che l’esercente la professione sanitaria «risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente». Non è sicuro tuttavia che le decretata fine dell’era della responsabilità contrattuale del medico significhi anche, insieme a un nuovo regime relativo all’onus probandi, un effettivo cam-
Sul riparto dell’onere della prova nel giudizio di risarcimento del danno per responsabilità medica cfr. ex multis Cass., 4.4.2017, n. 8665, in http://www.rivistaresponsabilitamedica.it/, con annotazioni di Corso. In tale pronuncia la S.C. precisa che «l’attore ha l’onere di allegare e di provare l’esistenza del rapporto di cura, il danno ed il nesso causale, mentre ha l’onere di allegare (ma non di provare) la colpa del medico; quest’ultimo, invece, ha l’onere di provare che l’eventuale insuccesso dell’intervento, rispetto a quanto concordato o ragionevolmente attendibile, è dipeso da causa a sé non imputabile». 17
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Cass., 17.4.2014, n. 8940, in Foro it., 2014, I, 1413.
Sull’evoluzione della qualificazione della responsabilità del medico, dall’intervento della l. 189/2012 alla legge Gelli, v. Scognamiglio, Il nuovo volto della responsabilità del medico. Verso il definitivo tramonto della responsabilità da contatto sociale?, in questa Rivista, 2017, 35 ss. 19
La tecnica usata qui dal legislatore è anomala, dal momento che non predispone una vera e propria disciplina, ma qualifica direttamente la responsabilità del medico, per così dire sostituendosi all’interprete, in particolar modo al giudice. V. Scognamiglio, op. cit., 40 s. 20
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biamento della prassi esistente a livello processuale21. Ma appunto, prima che intervenisse la l. 24/2017, la distribuzione dei carichi probatori seguiva i principi anzidetti e, nell’ambito di quella cornice normativa, la giurisprudenza ha sviluppato alcuni criteri in ordine alla valutazione della cartella clinica sul piano della prova. Nel 2000 la Corte di cassazione si è pronunciata con sentenza n. 12103, del 13 settembre, precisando un importante aspetto in merito al rapporto fra cartella clinica e onere probatorio. Si trattava di fatti accaduti nel 1987: in quell’anno moriva una paziente per omessa tempestiva diagnosi di una patologia, per cui non era stata curata. Agiva quindi la figlia chiedendo la condanna solidale dei medici e della struttura ospedaliera al risarcimento dei danni, ma il giudice di primo grado rigettava la domanda e così pure la Corte d’appello di Milano, sulla base del mancato accertamento della sussistenza del nesso causale tra i comportamenti omissivi dei sanitari e la morte della paziente. L’attrice aveva prodotto in giudizio la documentazione sanitaria, compresa la cartella clinica, ma quest’ultima risultava incompleta e inidonea a provare il nesso eziologico. La Supr. Corte allora intervenne affermando che la «valutazione dell’esattezza della prestazione medica concerne, infatti, anche la regolare tenuta dalla cartella clinica: ove dalla sua imperfetta compilazione derivi l’impossibilità di trarre utili elementi di valutazione in ordine all’accertamento della causa della morte, le conseguenze non possono in via di principio ridondare in danno di chi vanti un diritto in relazione alla morte del creditore della prestazione sanitaria. […] Più specificamente: la possibilità, pur rigorosamente prospettata sotto il profilo scientifico, che la morte della persona ricoverata presso una struttura sanitaria possa essere intervenuta per altre, ipotetiche cau-
Giurisprudenza
se patologiche, diverse da quelle diagnosticate ed inadeguatamente trattate, che non sia stato tuttavia possibile accertare neppure dopo il decesso in ragione della difettosa tenuta della cartella clinica o della mancanza di adeguati riscontri diagnostici (anche autoptici), non vale ad escludere la sussistenza di nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici in relazione alla patologia accertata e la morte, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla»22. Con ciò la Cassazione sostenne che l’impossibilità della prova derivante da omissioni imputabili agli stessi medici o alla struttura sanitaria (nel caso di specie, dalla difettosa tenuta della cartella clinica) non influisce sull’accertamento in questione nel senso che si ritenga non provato il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento23. Ove vi sia la provata idoneità della condotta colposa dei medici a determinare il danno, non si può escludere la sussistenza del nesso di causalità sulla base della possibilità che l’evento lesivo o il decesso si sia verificato per cause diverse che è stato impossibile accertare proprio in ragione di una tenuta della cartella clinica difettosa. Tale indirizzo è stato ribadito dai giudici di legittimità nel 2003, con la sentenza n. 11316 del 21 luglio. Il caso riguardava un bambino colpito alla nascita, a seguito di ipossia anossica, da microencefalite e tetraparesi spastica, che determinavano un grado di invalidità pari al 100% e un deficit intellettivo gravissimo, cui seguiva poi il decesso. Agivano quindi in giudizio i genitori, in proprio e quali eredi del figlio, per il risarcimento dei danni da essi e da quest’ultimo subiti in conseguenza dello stato patologico sviluppato, che imputavano alle carenze nell’organizzazione della struttu-
Cass., 13.9.2000, n. 12103, in Dir. e giust., 2000, 33 ss., con nota di Rossetti, Un nesso causale sconfinato per la responsabilità medica. Può bastare una cartella clinica incompleta?; in Rass. giur. san., 2000, 151; in Danno e resp., 2001, 320. 22
Franzoni, La nuova responsabilità in ambito sanitario, in questa Rivista, 2017, 10 s. Per una disamina dei profili della responsabilità medica riformati dalla legge Gelli e delle diverse qualificazioni ad essa date nel tempo v. Gorgoni, La responsabilità in ambito sanitario tra passato e futuro, in questa Rivista, 2017, 17 ss. 21
Sulla regolare tenuta della cartella clinica già si era pronunciata la S.C. nel lontano 1975, precisando che sul medico grava l’obbligo della sua esatta compilazione e quando egli venga meno a tale obbligo va considerato inadempiente a un’obbligazione di carattere strumentale. V. Cass. 18.6.1975, n. 2439, in Giur. it., 1976, I, 1, 953. 23
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ra sanitaria privata in cui era avvenuto il parto e alla condotta omissiva e negligente del medico di fiducia. La sentenza del giudice di primo grado, che disponeva la condanna al risarcimento, veniva riformata in appello con l’esclusione della responsabilità del sanitario, per il mancato conseguimento della prova circa l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e l’evento lesivo e ciò era dovuto a una riconosciuta carenza e contraddittorietà della documentazione clinica. La Corte di cassazione, cui i genitori si rivolgevano proponendo ricorso contro la sentenza della Corte d’appello di Napoli, ebbe modo di chiarire, facendo esplicito riferimento alla precedente sentenza n. 12103 del 2000, come, nell’ambito della responsabilità professionale medica, una tenuta della cartella clinica che sia difettosa non può valere ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei sanitari in relazione alla patologia accertata e la morte, quando risulti provata l’idoneità di tale condotta a determinarla, ma consente anzi il «ricorso alle presunzioni tutte le volte che la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato», secondo quella che individuò come «una linea evolutiva in ordine alla distribuzione dell’onere della prova che, fermi i principi, va sempre più accentuando la considerazione della “vicinanza alla prova” (nel senso di effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla)»24. L’anno seguente la Supr. Corte ebbe occasione di ritornare sull’argomento con la sentenza n. 12273 del 5 luglio, rilevando, «in relazione alla ritenuta impossibilità di accertare l’omissione colposa della diagnosi della lesione […] da parte dei medici del Pronto Soccorso per le incompletezze della cartella clinica dagli stessi redatta, che tali lacune non possono esser utilizzate per ritenere non raggiunta la prova dell’esistenza della loro colpa, come […] hanno ritenuto i giudici di appello, poi-
Cass., 21.7.2003, n. 11316, in Nuova giur. civ. comm., 2004, I, 265 ss., con nota di Pasquinelli, Responsabilità medica: la Cassazione torna ad interrogarsi sui temi della colpa e della causalità omissiva; in Rass. giur. san., 2004, 616. 24
ché il medico ha l’obbligo di controllare la completezza e l’esattezza del contenuto della cartella, la cui violazione configura difetto di diligenza ai sensi del secondo comma dell’art. 1176 c.c. ed inesatto adempimento della corrispondente prestazione medica»25. Nel 2008 si sono pronunciate le sezioni unite con un paio di sentenze che possono definirsi “storiche” nell’ambito della disciplina della responsabilità medica, per aver chiarito il concreto atteggiarsi della distribuzione dei carichi probatori, il valore della distinzione fra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato26 e l’applicabilità del principio di riferibilità o vicinanza della prova27.
Cass., 5.7.2004, n. 12273, in Giur. it., 2005, 1409, con nota di Perugini. Nel caso di specie, un bambino, a causa della rottura accidentale del vetro di un balcone, riportava una grave ferita al braccio destro e veniva ricoverato in Pronto Soccorso, dove i medici lo sottoponevano a un intervento chirurgico, che aveva esiti infausti. Agiva quindi il padre dinanzi al Tribunale di Napoli, in proprio e quale esercente la potestà genitoriale (oggi responsabilità genitoriale), domandando la condanna della struttura sanitaria al risarcimento dei danni subiti, ma il giudice rigettava la domanda. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli che aveva rigettato il gravame proposto nei confronti della pronuncia del giudice di primo grado, era proposto ricorso per Cassazione. I giudici di appello, in particolare, avevano ritenuto non raggiunta la prova della colpa dei sanitari, in virtù delle lacune presenti nella cartella clinica prodotta in giudizio. 25
Relativamente alla distinzione fra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, si rammenta che già nel 2005 si erano pronunciate le sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 15781 del 28 luglio. Si rilevava allora che la tradizionale impostazione dicotomica «non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni. In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicché molti autori criticano la distinzione poiché in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l’impegno che il debitore deve porre per ottenerlo». Cass., sez. un., 28.7.2005, n. 15781, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 828 ss., con nota di Viglione, Prestazione d’opera intellettuale e disciplina applicabile, tra obbligazioni di mezzi e di risultato. 26
In merito all’importanza innovativa delle Sezioni Unite del gennaio 2008 e per una lettura ragionata della causalità in ambito medico nella giurisprudenza della Cassazione v. Ia27
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La sentenza 11 gennaio 2008, n. 577 riguardava un caso di contagio da HCV per trasfusione di sangue infetto avvenuta in occasione di un intervento chirurgico. Il Tribunale di Roma rigettava la domanda di risarcimento dei danni avanzata dal paziente e il giudice di secondo grado rigettava l’appello, ritenendo che l’attore non avesse provato il nesso eziologico tra l’emotrasfusione e la contrazione del virus dell’epatite C, in base alla documentazione prodotta. Pertanto, avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, veniva proposto ricorso per Cassazione. Nell’argomentare circa l’accoglimento del ricorso, le sezioni unite della Cassazione recepiscono l’orientamento precedentemente espresso in tema di tenuta della cartella clinica. Va «condiviso l’orientamento giurisprudenziale […], secondo cui la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici e la patologia accertata, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza alla prova”, e cioè la effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla»28.
La causalità nella responsabilità civile del medico, in Giur. merito, 2010, 2057 ss. decola,
Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 612 ss., con nota di De Matteis, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emotrasfusione; in La resp. civ., 2008, 397 ss., con nota di Calvo, Diritti del paziente, onus probandi e responsabilità della struttura sanitaria; in La resp. civ., 2008, 687 ss., con nota di Dragone, Le S.U., “la vicinanza della prova” e il riparto dell’onere probatorio; in Giur. it., 2008, 1653 ss., con nota di Ciatti, Crepuscolo della distinzione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato; in Giur. it., 2008, 2197 ss. con nota di Cursi, Responsabilità della struttura sanitaria e riparto dell’onere probatorio; in Danno e resp., 2008, 788 ss., con nota di Vinciguerra, Nuovi (ma provvisori?) assetti della responsabilità medica; in Danno e resp., 2008, 871 ss., con nota di Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di ri28
Giurisprudenza
Del medesimo principio si fa applicazione con la sentenza n. 582 dell’11 gennaio 200829. Il caso era analogo: a seguito di emotrasfusioni, un paziente accertava di essere affetto da epatite C e agiva in giudizio chiedendo la condanna del soggetto che fosse risultato responsabile del contagio al risarcimento dei danni patiti. I giudici di merito rigettavano la sua domanda poiché ritenevano che non fosse stata raggiunta la prova del nesso di causalità. La Corte di cassazione, a sezioni unite, accoglieva il ricorso, ripetendo che, qualora la condotta dei sanitari fosse risultata idonea a provocare la patologia, la tenuta della cartella clinica rivelatasi difettosa avrebbe consentito di ricorrere al meccanismo presuntivo circa la prova del nesso eziologico, conformemente al principio di riferibilità o vicinanza della prova. È interessante anche il caso risolto dalla Supr. Corte con ordinanza 18 settembre 2009, n. 20101. Una paziente conveniva dinanzi al Tribunale di Rieti la struttura sanitaria e il medico domandandone la condanna al risarcimento dei danni che asseriva di aver subito come conseguenza dell’errato iter diagnostico-chirurgico cui era stata sottoposta, ma il giudice rigettava la domanda e la Corte d’appello di Roma, chiamata a pronunciarsi in relazione al gravame avanzato, rigettava l’appello, tra l’altro dichiarando inammissibile la querela di falso proposta dagli appellanti (eredi) avente ad oggetto un referto e una cartella clinica sulla base dell’assunto per cui l’eventuale accertamento della loro falsità, nei termini delineati dalla querela, non avrebbe esplicato alcun rilievo né in ordine alla valutazione della fondatezza dell’impugnazione, né sulle responsabilità del chirurgo convenuto o della struttura presso la quale era stato eseguito l’intervento. La Cassazione, nell’accogliere il ricorso presentato avverso tale ultima sentenza, ha precisato che non è vero «che l’eventuale accertamento della falsità
sultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico; in La resp. civ., 2009, 221 ss., con nota di Miriello, Nuove e vecchie certezze sulla responsabilità medica. Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 582, in La resp. civ., 2008, 687 ss., con nota di Dragone, Le S.U., “la vicinanza della prova” e il riparto dell’onere probatorio. 29
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delle cartelle cliniche e del referto radiografico, nei termini prospettati dal querelante, non esplicherebbe alcun rilievo in ordine alla valutazione della fondatezza o meno dell’impugnazione perché il medico ha l’obbligo di controllare la loro completezza e l’esattezza del loro contenuto, venendo altrimenti meno ad un proprio dovere e venendo a configurarsi un difetto di diligenza ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2 e un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione medica […]. E la difettosa tenuta della cartella clinica, se non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici, in relazione alla patologia accertata, ed il danno, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarlo, consente anzi il ricorso alle presunzioni»30. La Supr. Corte è intervenuta ancora nel 2010 con due ulteriori pronunce degne di nota. Con sentenza 26 gennaio 2010, n. 1538, si è infatti occupata di un caso in cui veniva in rilievo la difettosa tenuta della cartella clinica. Un paziente, rivoltosi a una struttura sanitaria per risolvere alcuni problemi di deambulazione e di erezione, era sottoposto a due interventi, che terminavano con esito infausto. La moglie, in qualità di suo tutore, e i figli agivano in giudizio per ottenere dall’Azienda Usl, dal medico e dalla compagnia assicurativa il ristoro dei danni che essi stessi e il loro congiunto, interdetto proprio dopo le lesioni e l’invalidità riportate conseguentemente alle suddette operazioni, avevano patito. Il giudice adito rigettava la domanda di risarcimento e la Corte d’appello di Bologna respingeva il gravame proposto. La pronuncia del giudice di secondo grado era quindi impugnata mediante ricorso per Cassazione. I giudici di legittimità hanno fatto il punto. «Questa Corte, chiamata ad occuparsi di casi in cui la ricostruzione delle modalità e della tempistica della condotta del medico non poteva giovarsi delle annotazioni contenute nella cartella clinica, a causa della lacunosa redazione della stessa, ne ha costantemente addossato al professionista gli effetti, vuoi attribuendo alle omissioni nella com-
pilazione della cartella il valore di nesso eziologico presunto […], vuoi ravvisandovi una figura sintomatica di inesatto adempimento, essendo obbligo del medico – ed esplicazione della particolare diligenza richiesta nell’esecuzione delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale ex art. 1176 c.c. – controllare la completezza e l’esattezza delle cartelle cliniche e dei referti allegati […]. In proposito è stato segnatamente precisato come la difettosa tenuta della cartella non solo non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra condotta colposa dei medici e patologia accertata, ma consente il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei princìpi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova e al rilievo che assume a tal fine il già richiamato criterio della vicinanza della prova, e cioè la effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla […]»31. Con sentenza 27 aprile 2010, n. 10060, la Cassazione si è pronunciata in merito alla incompletezza della cartella clinica. In quel caso non era diagnosticata in tempo utile una sofferenza fetale, che determinava nella neonata l’insorgenza di lesioni cerebrali irreversibili. Pertanto agivano i genitori e la sorella domandando il risarcimento dei danni patiti dalla piccola e di quelli subiti in proprio. Tanto il Tribunale di Pescara quanto la Corte d’appello di L’Aquila respingevano la domanda: non era provato il nesso di causalità per via della lacunosità della cartella clinica prodotta in giudizio e, in particolare, dell’assenza, riscontrata in sede di consulenza tecnica d’ufficio, del tracciato cardiotocografico. Per i giudici di legittimità non «si può ritenere che l’incompletezza della cartella clinica ed in specie l’assenza del suddetto tracciato cardiotocografico possa escludere il nesso di causalità. È infatti giu-
Cass., 26.1.2010, n. 1538, in La resp. civ., 2010, 592 ss., con nota di Zauli, Responsabilità professionale da contatto sociale, attività medica e riparto dell’onere probatorio; in La resp. civ., 2010, 665 ss., con nota di Gorgoni, Gli obblighi sanitari attraverso il prisma dell’onere della prova. 31
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Cass., 18.9.2009, n.20101, in Rass. giur. san., 2011, 189.
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risprudenza ormai consolidata che in tema di responsabilità professionale del medico la difettosa tenuta della cartella clinica non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta colposa del sanitario e il danno, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocare il danno stesso […]. Si è anzi affermato in giurisprudenza che la sussistenza del nesso eziologico tra la patologia accertata dal medico, verosimilmente idonea a cagionare un pregiudizio al paziente, e il pregiudizio stesso, si deve presumere allorché sia impossibile accertare e valutare altri ipotetici fattori causali proprio in conseguenza della lacunosa compilazione della cartella clinica»32. Nel 2015, nel rigettare questa volta il ricorso, la Corte di cassazione, con sentenza n. 12218 del 12 giugno, sottolinea come «l’incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice di merito può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza d’un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente. Non in modo automatico, però: affinché quella incompletezza rilevi ai fini del decidere, è necessario che: (a) l’esistenza del nesso di causa tra condotta del medico e danno del paziente non possa essere accertata proprio a causa della incompletezza della cartella; (b) il medico abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a causare il danno […]»33.
32
Cass., 27.4.2010, n. 10060, in DeJure.
Cass., 12.6.2015, n. 12218, in DeJure. La sentenza riguarda il caso di un paziente cui era eseguita un’estrazione dentaria, a seguito della quale contraeva una grave infezione. Al termine del processo di guarigione residuavano postumi permanenti, quali perdita della vista all’occhio sinistro e ipoacusia bilaterale. Agiva allora in giudizio, insieme alla moglie e al figlio, davanti al Tribunale di Monza, chiedendo la condanna della società che aveva gestito il servizio odontoiatrico e la struttura sanitaria al risarcimento dei danni subiti. Il giudice di prime cure però, con sentenza 3 febbraio 2003, n. 417, rigettava la domanda, ritenendo insussistente sia la colpa dei convenuti, sia il nesso di causa tra l’operato di questi e il danno lamentato dagli attori. I soccombenti impugnavano tale pronuncia, ma la Corte d’appello di Milano, con sentenza 6 settembre 2010 n. 2462, rigettava il gravame, per motivi analoghi. In particolare la Corte d’appello qualificava “chiara e completa” l’indagine compiuta nel corso dell’istruttoria (dunque mancava una incertezza indotta dalla difettosa tenuta della cartella clinica) ed escludeva che una condotta 33
Giurisprudenza
Più di recente i giudici di legittimità hanno ribadito «che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può tradursi, sul piano processuale, in un pregiudizio per il paziente […] e che è anzi consentito il ricorso alle presunzioni “in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato” […]; tali principi, che costituiscono espressione del criterio della vicinanza alla prova nel più ampio quadro della distribuzione degli oneri probatori, assumono speciale pregnanza in quanto sono destinati ad operare non soltanto ai fini della valutazione della condotta del sanitario (ossia dell’accertamento della colpa), ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la condotta medica e le conseguenze dannose subite dal paziente […]»34. In quella circostanza hanno riaffermato l’esistenza, nell’ordinamento italiano, del «criterio secondo cui l’imperfetta compilazione della cartella clinica non può tradursi in uno svantaggio processuale per il paziente (anziché per la parte cui il difetto di annotazione è imputabile), traducendosi in un inammissibile vulnus al criterio che onera la parte convenuta della prova liberatoria in merito all’esattezza del proprio adempimento».
alternativa dei sanitari avrebbe potuto evitare il danno, conseguentemente escludendo anche la “astratta idoneità” della loro condotta concreta a causare il danno. Cass., 31.3.2016, n. 6209, in Riv. it. med. leg., 2016, 1706 ss., con nota di Ferrara, Onere della prova invertito in caso di imperfetta compilazione della cartella clinica? La recente sentenza della Suprema Corte n. 6209 del 31 marzo 2016; in Danno e resp., 2016, 781. Nel caso di specie, a causa di asfissia perinatale, una neonata subiva gravi lesioni. Agivano perciò in giudizio i genitori, in proprio e in qualità di esercenti la responsabilità genitoriale nei confronti dei figli minori, chiedendo la condanna dei medici e della struttura sanitaria al risarcimento dei danni conseguiti a quanto patito dalla figlia in occasione del parto. Il Tribunale di Torino rigettava la domanda e la Corte d’appello di Torino confermava tale sentenza di rigetto. La Corte di cassazione ha ritenuto errata, in particolare, l’affermazione, fatta propria dai giudici di appello, secondo cui era plausibile che la neonata fosse stata ben monitorata, nonostante un vuoto di sei ore nelle annotazioni della cartella clinica, indice di un probabile abbandono della piccola. 34
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Questioni in tema di cartella clinica
In un’altra sentenza del 2016, la n. 22639 dell’8 novembre, la Corte di cassazione ha avuto modo di ripercorrere quanto da essa stabilito nelle passate pronunce, in tema di difettosa tenuta della cartella clinica e onere della prova. In questo caso – scrive la Cassazione – l’impostazione della corte territoriale, che ha fatto gravare l’incompletezza della cartella clinica sul paziente, deducendone l’assenza della prova del nesso causale, «non corrisponde al consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Suprema Corte, che nella incompletezza della cartella clinica – che è obbligo del sanitario tenere invece in modo adeguato – rinviene proprio, in considerazione anche del principio della prossimità della prova, il presupposto perché scatti la prova presuntiva del nesso causale a sfavore del medico, qualora la condotta dello stesso sia astrattamente idonea a cagionare quanto lamentato»35. Come si può notare dunque scorrendo le varie pronunce della Cassazione, che, nel corso degli anni, hanno affrontato il rapporto fra la cartella clinica e l’onere probatorio, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente sostenuto che una difettosa tenuta della cartella clinica non solo non può tradursi in un’esclusione della sussistenza del nesso di causalità, ma anche, più in generale, non può costituire alcuno svantaggio, sul piano processuale, per il paziente danneggiato che agisca domandando il risarcimento. Anzi, qualora a causa dell’incompletezza della cartella clinica non vi sia la possibilità di accertare l’esistenza del nesso eziologico fra la condotta del medico e il danno e si riscontri in astratto un’idoneità verosimile di tale condotta a cagionare il danno del paziente,
è consentito il ricorso alle presunzioni. Il meccanismo presuntivo però – si è detto anche – non opera in modo automatico: è infatti necessario che ricorrano i due presupposti anzidetti, cioè l’impossibilità di provare la sussistenza del nesso di causalità determinata dalle lacune della cartella clinica e la verificata idoneità della condotta dei sanitari a provocare il danno. È stato anche più e più volte affermato che la regolare tenuta della cartella clinica nonché il controllo circa la sua completezza ed esattezza costituiscono un obbligo a carico del medico e un’esplicazione della particolare diligenza richiesta nell’esecuzione delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale ex art. 1176 c.c. La presunzione relativa all’accertamento del nesso di causalità36, derivante da una tenuta della cartella clinica rivelatasi difettosa, è stata ricondotta ai principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova e, in particolare, a quello di riferibilità o vicinanza della prova, che valorizza la effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla. In virtù di tali principi, infatti, in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, è possibile ricorrere alle presunzioni37.
Cass., 8.11.2016, n. 22639, in http://www.quotidianogiuridico.it. Qui, il Tribunale di Napoli respingeva la domanda di risarcimento dei danni cagionati a una paziente, per errore professionale compiuto dai sanitari in due interventi chirurgici. La Corte d’appello rigettava il gravame per mancato adempimento dell’onere della prova da parte degli appellanti in ordine al nesso causale tra gli interventi e il danno, ritenendo che, anche se il rapporto era contrattuale (e non extracontrattuale come aveva ritenuto il giudice di primo grado), su di essi gravava tale onere probatorio. Perciò, avverso la sentenza dei giudici di appello era proposto ricorso per Cassazione.
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Sull’accertamento presuntivo del nesso causale v. Pucella, La causalità «incerta», Torino, 2007, 68 ss.; Cassano-Posteraro, La responsabilità civile del medico, in Cagnazzo (a cura di), Trattato di diritto e bioetica, Napoli, 2017, 699 s. Sulla presunzione che deriva da una cattiva tenuta della cartella clinica v. anche Gorgoni, Sulla cattiva tenuta della cartella clinica quale presunzione di responsabilità professionale, in Rass. giur. san., 2012, 159 ss. 36
Non si può non richiamare a tal proposito il parere espresso da Occorsio, Cartella clinica e «vicinanza» della prova, cit., 1271 s., secondo cui «l’esigenza di tutela della parte debole che sta alla base della svolta compiuta dalla Cassazione a favore del paziente negli ultimi anni (quanto all’obiettivo, condivisibilissma), comporta il rischio che il medico si procuri una serie di «scudi» giuridici nei confronti della persona che dovrebbe curare (è la c.d. medicina difensiva, sia essa «positiva» o «negativa», con i relativi costi), con il risultato che, anziché conseguire una miglior sanità, si otterrebbero prestazioni incomplete e insufficienti, e la tutela del diritto costituzionale alla salute risulterebbe non già valorizzata, ma
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Applicazioni delle anzidette regole elaborate dalla giurisprudenza di legittimità si ritrovano anche nella giurisprudenza di merito. Così il Tribunale di Genova, con sentenza 25 maggio 2017, n. 141538, si è pronunciato in merito a un caso di errori nella compilazione e nella tenuta della cartella clinica. In concreto, un minore, dopo la diagnosi di “linfoadenopatia laterocervicale bilaterale”, veniva ricoverato per “asportazione di linfonodi regionali” e dimesso con lettera di dimissione Day Surgery dalla quale risultava “esame istologico in corso”. I genitori sollecitavano poi l’invio della cartella clinica con allegato il relativo esito dell’esame istologico, onde poter procedere alle eventuali conseguenti cure, ma solo dopo mesi di richieste ricevevano dall’Azienda ospedaliera la documentazione sanitaria. Si faceva sapere che il motivo dell’iniziale dichiarata mancanza di reperibilità del reperto era dipeso dall’errore relativo al cambiamento dei dati anagrafici sul referto istologico precedentemente intestato, “per errore”, ad altra persona. Agivano allora i genitori insieme al figlio domandando il risarcimento dei danni patiti. Il giudice ha considerato pacifica la negligenza nell’attribuire un referto istologico ad un diverso paziente e la trasmissione del referto a mesi di distanza e ha ritenuto che, nell’attesa di sapere la negatività o meno di un accertamento di grande rilievo sulle conseguenze che il paziente avrebbe dovuto affrontare o meno, si poteva desumere certamente uno stato di ansia, aggravatosi con il passare del tempo. Affermando la responsabilità della struttura sanitaria, il Tribunale ha richiamato proprio quei principi relativi alla difettosa tenuta della cartella clinica, cui la giurisprudenza di legittimità ha dato forma. Ha ripreso le parole della menzionata sentenza n. 10060 del 2010: «In tema di responsabilità professionale del medico, il nesso causale sussiste anche quando, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si possa ritenere che l’opera
Giurisprudenza
del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto fondate possibilità di evitare il danno; a tal fine, la difettosa tenuta della cartella clinica non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta del medico e le conseguenze dannose sofferte dal paziente, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocare il danno, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, assumendo rilievo, al riguardo, il criterio della “vicinanza alla prova”, cioè della effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla». Così come ha ripreso quelle della più recente sentenza n. 6209 del 2016: «La difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente». Diverso, ma altrettanto significativo, il caso affrontato dal Tribunale di Palermo con la sentenza 5 luglio 2017, n. 361239. A causa di “asfissia intrapartum” un neonato riportava gravi danni alla salute, per i quali i genitori agivano in giudizio, in proprio e quali esercenti la responsabilità genitoriale sul minore, chiedendo la condanna dall’Azienda sanitaria al risarcimento. La cartella clinica si rivelava lacunosa, giacché non riportava i protocolli normalmente seguiti in casi come questo, consistenti in tre tracciati e tre visite di controllo nel periodo compreso tra il ricovero ed il parto, dando conto esclusivamente della diagnosi di asfissia. Il Tribunale, riconoscendo la responsabilità della struttura sanitaria, ha avuto modo di richiamare i consolidati principi relativi alla cartella clinica risultata incompleta, alla luce dei quali le valutazioni dei consulenti tecnici d’ufficio sono apparse
compromessa». Trib. Genova, 25.5.2017, in http://www.rivistaresponsabilitamedica.it/, con annotazioni di Corso. 38
Trib. Palermo, 5.7.2017, in http://www.rivistaresponsabilitamedica.it/, con annotazioni redazionali. 39
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maggiormente condivisibili. Ha fatto riferimento allora a quanto enunciato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 6209 del 2016: «In tema di responsabilità medica, la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente». Anche solo limitandosi a prendere in considerazione queste due pronunce dei giudici di merito, si può comprendere come l’insegnamento della Suprema Corte in materia sia imprescindibile, qualora ci si accosti al tema dell’onus probandi in materia di responsabilità medica, per cogliere lo stretto legame fra tenuta della cartella clinica e onere della prova. È evidente, nella costruzione di tali strutture giuridiche, l’intento della giurisprudenza di soccorrere, in ambito processuale, la parte debole del rapporto, cioè il paziente danneggiato che chiede il risarcimento. Eppure, a bene vedere, nihil sub sole novum. Si resta comunque all’interno dei principi generali circa la ripartizione dei carichi probatori e, più nel dettaglio, si procede a declinare il principio di vicinanza della prova. Ci si può chiedere se questa soluzione continuerà a valere con l’avvento della disciplina dettata dalla legge Gelli40, che, come si è visto, qualifica la responsabilità civile del medico come extracontrattuale. Ma il problema sembra essere già in sé superato, nel momento in cui si consideri che la difettosa tenuta della cartella clinica può tradursi, quando ne ricorrono i presupposti, in un’attivazione del meccanismo presuntivo in ordine al nesso di causalità, nesso costituente elemento
Per una panoramica generale della responsabilità del sanitario in ambito civile, tenuto conto di quanto disposto dalla legge Gelli, v. Cassano-Posteraro, op. cit., 671 ss. 40
oggettivo della responsabilità civile, la cui prova normalmente è a carico dell’attore sia per quel che riguarda la responsabilità contrattuale sia per quanto riguarda quella extracontrattuale41.
3. Il rapporto fra diritto alla riservatezza e diritto di accesso in riferimento alla cartella clinica Un’ulteriore serie di questioni poste con riguardo all’istituto della cartella clinica attiene, come si è detto precedentemente, alla relazione fra diritto alla riservatezza e diritto di accesso42. Considerando in primo luogo il rapporto fra cartella clinica e diritto alla riservatezza43 è opportu-
Ritengono che si dovrà tener conto della tesi suesposta, circa il nesso di causalità “presunto” nei casi in cui venga in gioco la difettosa tenuta della cartella clinica, nonostante il superamento della qualificazione della responsabilità del medico come contrattuale, operato dalla legge Gelli, Cassano-Posteraro, op. cit., 699 s. 41
In merito alla tematica in esame v. Baice, La cartella clinica tra diritto di riservatezza e diritto di accesso, in La resp. civ., 2008, 169 ss.; Sartoretti, op. cit., 579 ss. Per uno studio della stessa, con approfondimento dei profili relativi all’impiego della tecnologia, v. Filauro, Telemedicina, cartella clinica elettronica e tutela della privacy, in Danno e resp., 2011, 472 ss. 42
Giova rammentare che il concetto di privacy non è più da intendere oggi solamente come right to be let alone, secondo la nota formulazione di Louis Brandeis e Samuel Warren, bensì va considerato anche nelle sue evoluzioni di significato – dovute specialmente ai progressi della tecnologia – come controllo sui modi e sulle condizioni di diffusione e conservazione delle informazioni relative alla persona. A testimoniare lo sviluppo giuridico e, prima ancora semantico, di “privacy”, con particolare riguardo ai dati inerenti alla salute, si richiama qui la sentenza della Corte di cassazione n. 10947 del 19 maggio 2014, secondo cui i dati sensibili idonei a rivelare lo stato di salute ai sensi dell’art. 4 del Codice della privacy, la cui tutela è posta a protezione dei diritti fondamentali alla salute e alla riservatezza, possono essere diffusi e conservati solo con l’uso di cifrature o numeri di codici non identificabili. Questa modalità costituisce la misura minima idonea ad impedire il danno e, qualora non vi si ricorra, obbliga chi compie l’attività di trattamento dei dati, che deve essere considerata pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., al relativo risarcimento. In quel caso si ritenne violata la disciplina del trattamento dei dati personali da parte della Regione e della banca perché queste ultime, rispettivamente nella diffusione e nella conservazione dei dati stessi, non avevano fatto uso di cifrature o numeri di codice non identificabili (ex 43
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no sottolineare che proprio il Garante per la protezione dei dati personali è intervenuto numerose volte definendo i diritti della persona con riferimento al trattamento dei dati che viene effettuato mediante la compilazione della cartella clinica. Così il 12 ottobre 1999 ha chiarito che «i dati contenuti nelle cartelle cliniche non possono essere cancellati, ma è ammessa una loro rettifica o integrazione»44. Tale principio è stato stabilito dal Garante in un provvedimento con cui è stato dichiarato infondato il ricorso presentato da un cittadino che aveva chiesto ad una Asl la cancellazione di tutte le informazioni personali che lo riguardavano. «La richiesta, avanzata dal ricorrente, di provvedere alla cancellazione o, in subordine, al blocco dei dati, traeva origine dal fatto che le informazioni contenute nella propria cartella clinica sarebbero state confuse, non chiare e fondate su valutazioni estranee al campo medico e diagnostico e, comunque, non necessarie all’attività di salvaguardia dell’incolumità pubblica e del soggetto interessato». Il Garante non ha accolto
art. 22 Codice della privacy). «Nella specie, il dato, che la Regione ha rivelato e la Banca ha riportato, riguardava la legge n. 210 del 1992, che riconosce il diritto ad un indennizzo a chi abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie, una menomazione permanente dell’integrità psicofisica o a chi risulti contagiato da infezioni HIV, a seguito di somministrazione di sangue o derivati, nonché gli operatori sanitari che, in occasione e durante il servizio, abbiano riportato danni permanenti, conseguenti ad infezione a seguito di contatto con sangue o derivati provenienti da soggetti affetti da HIV. Da quanto osservato emerge l’illegittimo trattamento dei dati, della Regione e della Banca, che, secondo le indicazioni dell’art. 22, avrebbero dovuto rispettivamente diffondere e conservare i dati stessi, utilizzando cifrature o numeri di codice non identificabili». Cass., 19.5.2014, n. 10947, in Giust. civ.com, 2015, con nota di Lombardi, L’evoluzione tecnologica, il danno alla privacy e il danno da errore sanitario nel prisma della tutela della persona fisica e della sua personalità; in Famiglia e diritto, 2016, con nota di Astiggiano, Illecito trattamento di dati “supersensibili” e risarcimento del danno, 468 ss. Per un approfondimento in tema di diritto alla riservatezza, in relazione anche a quanto previsto nel reg. UE. n. 679/2016, v. Thiene, Segretezza e riappropriazione di informazioni di carattere personale: riserbo e oblio nel nuovo regolamento europeo, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 410 ss. Comunicato del Garante per la protezione dei dati personali del 12 ottobre 1999 (Cartelle cliniche e cancellazione dati sensibili), in http://www.garanteprivacy.it. 44
Giurisprudenza
la richiesta di cancellazione o di blocco dei dati della cartella clinica, perché il trattamento è avvenuto nel rispetto della legge e nell’ambito delle attività istituzionalmente affidate all’Azienda sanitaria locale. «L’Autorità ha precisato che è comunque consentito all’interessato di ottenere l’eventuale aggiornamento, rettifica, oppure, per motivi legittimi ed oggettivi, l’integrazione dei dati contenuti nella cartella sanitaria: ad esempio, attraverso l’inserimento di annotazioni sulle risultanze di accertamenti successivamente effettuati presso altri organismi sanitari accreditati». I dati inseriti nella cartella clinica però devono essere corretti e rispondenti alla realtà e ciò vale per tutti i dati, non solamente per quelli di natura strettamente sanitaria. L’interessato ha infatti diritto ad ottenere la rettifica pure dei dati relativi alle circostanze in cui si è verificato l’incidente che ha portato il paziente a ricoverarsi. In questo senso si è orientato il Garante con il provvedimento del 19 maggio 200545. Circa la conservazione delle cartelle cliniche, il Garante ha chiarito, con il provvedimento del 13 luglio 2006, che essa è obbligatoria, «anche alla luce delle disposizioni in materia di archivi, delle indicazioni emergenti dalle direttive sinora impartite dal Ministero competente (cfr. circolare del Ministero della sanità 19 dicembre 1986, n. 61), nonché delle disposizioni di cui al d.m. 27 ottobre 2000, n. 380 (“Regolamento recante norme concernenti l’aggiornamento della disciplina del flusso informativo sui dimessi dagli istituti di ricovero pubblici e privati”)»46. E tale obbligo di
Decisione del Garante per la protezione dei dati personali del 19 maggio 2005 [doc. web n. 1151236], in http://www. garanteprivacy.it. Nel caso di specie, il ricorrente aveva chiesto la rettifica di un dato personale relativo al proprio figlio minore contenuto nella cartella clinica redatta dalla struttura ospedaliera resistente a seguito di una visita di pronto soccorso. In occasione di tale visita, aveva dichiarato al medico di turno al pronto soccorso che il minore si era infortunato cadendo da una giostra e che il medico aveva invece annotato nella cartella clinica una frase diversa (“APP: oggi riferita caduta accidentale”). Perciò era stata chiesta la rettifica, per inserire l’indicazione delle esatte circostanze del sinistro. 45
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conservazione prevale sulla richiesta di cancellazione o trasformazione in forma anonima dei dati personali contenuti nella cartella clinica, quando il trattamento e la conservazione siano effettuati con l’osservanza della disciplina sancita dal Codice della privacy. Una questione diversa è stata affrontata dal provvedimento del 30 settembre 200247. Con esso, infatti, l’Autorità ha affermato che, nel caso in cui la grafia con la quale è stata redatta una cartella clinica risulti incomprensibile per l’interessato, questi ha il diritto di ottenere da parte della struttura sanitaria una trascrizione dattiloscritta o, comunque, comprensibile delle informazioni ivi contenute, che debbono essergli comunicate tramite un medico all’uopo designato, dal momento che la leggibilità dei dati richiesti è la prima condizione, necessaria ancorché non sufficiente, per la loro comprensione. Questi interventi del Garante per la protezione dei dati personali delineano, specificandoli, alcuni dei tratti dell’istituto in relazione al trattamento dei dati del paziente contenuti nelle cartelle e attestano le molteplici declinazioni del diritto alla riservatezza in ambito sanitario. Tale diritto però deve fare i conti con altre esigenze, specialmente di carattere pubblico, come quelle che si sono affermate nel tempo per effetto di una nuova concezione dell’operato della pubblica amministrazione, visto non più quale svolgimento di attività trincerato nella segretezza, ma come procedimento caratterizzato dal valore della
del 13 luglio 2006 [doc web n. 1320728], in http://www.garanteprivacy.it. È interessante osservare che in quel caso la cartella clinica dei cui dati si chiedeva la cancellazione o la trasformazione in forma anonima era stata redatta in occasione di un ricovero avvenuto nel 1985 e risultava conservata sino al 2006, quando veniva presentato il ricorso. Decisione del Garante per la protezione dei dati personali del 30 settembre 2002 [doc web n. 1066144], in http://www. garanteprivacy.it. Il ricorrente lamentava di non avere ricevuto idoneo riscontro dall’Azienda ospedaliera ad una istanza, formulata ai sensi dell’art. 13 della legge n. 675/1996, con la quale aveva chiesto di ottenere la comunicazione in forma intelligibile dei dati personali che lo riguardavano contenuti nella cartella clinica rilasciata dalla detta azienda. «Tale cartella è risultata infatti “illeggibile per la pessima grafia degli autori”». 47
trasparenza48. È in questo scenario che va preso in considerazione il diritto di accesso. Definito all’art. 22 della l. n. 241 del 1990 (così come sostituito dall’art. 15, comma 1°, l. 11 febbraio 2005, “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa”) come il «diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi», il diritto di accesso viene inevitabilmente a relazionarsi con il diritto alla privacy, nella misura in cui questi diritti si trovano a dover rispondere delle diverse logiche che sottendono49.
Di trasparenza, quale valore di cui il diritto di accesso è espressione, ha parlato anche Antonello Soro, Presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, nel suo discorso annuale del 2015. Ha affermato, in particolare, come, «declinato spesso – ma non del tutto a ragione – in forma di ossimoro, il binomio trasparenza e privacy rappresenta uno dei temi di maggiore rilievo in un tempo, come il nostro, di crisi dei modelli politici, dell’idea di cittadinanza, degli stessi legami sociali. L’affermazione del principio di “visibilità del potere” ha rappresentato in questo senso una risposta importante a un’istanza partecipativa e di sindacato diffuso sulla gestione della cosa pubblica, estendendosi da ambiti limitati sino a divenire forma dell’agire amministrativo. La disciplina sulla trasparenza ha così subito una progressiva estensione, che ha portato a un’esigenza di razionalizzazione e ridefinizione degli obblighi di pubblicità». Oggi il diritto alla riservatezza – ha aggiunto – «viene ancor più compresso con l’istituzione dell’accesso “universale”, che diversamente da quello civico legittima chiunque ad accedere non solo ai dati soggetti a pubblicazione obbligatoria, ma ad ogni dato e documento ulteriore comunque detenuto da una pubblica amministrazione, salvo necessità di tutela di alcuni interessi tra i quali la protezione dati. Nella sua genericità e in assenza di precisazioni o di una motivazione sottesa all’istanza, che orienti il bilanciamento cui è tenuta la pubblica amministrazione, tale parametro rischia di determinare interpretazioni eccessivamente discrezionali e differenziate, quando non addirittura arbitrarie, con conseguenze paradossali e violazioni di un diritto fondamentale quale appunto la protezione dati». Relazione annuale del Garante per la protezione dei dati personali del 2015, Discorso del Presidente, La protezione dei dati diritto di libertà, in http://www.garanteprivacy.it, 14 s. 48
Giova riportare qui le definizioni di “interessati”, “controinteressati” e “documento amministrativo” che lo stesso art. 22 offre: «si intende […] per “interessati”, tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso», «per “controinteressati”, tutti i soggetti, individuati o facilmente 49
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Se in prima battuta si è portati a vedere nel rapporto fra questi diritti un conflitto da risolvere mediante una scelta da operare sulla base di una scala gerarchica definita astrattamente, a uno sguardo più attento si può cogliere come sia preferibile procedere invece per mezzo di un bilanciamento che tenga conto delle specificità del caso concreto e delle circostanze in cui vengono esercitati tali diritti50. Il criterio stabilito dal legislatore nel garantire il diritto di accesso, a fronte del diritto alla riservatezza, è quello del “pari rango” della situazione giuridica che si intende far valere. Le disposizioni del Codice della privacy, richiamate dalla l. n. 241 del 1990, prevedono infatti – come già accennato – che il diritto di accesso alla “cartella clinica” sia riconosciuto a chi lo richiede avendo la necessità di tutelare una “situazione giuridicamente rilevante”, che sia almeno di “pari rango” rispetto ai diritti dell’interessato o consistente “in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”, o la necessità di “far va-
individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza» e «per “documento amministrativo”, ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale». Sartoretti, op. cit., 591. In tal senso, per esempio, Cons. Stato, VI sez., 30.3.2001, n. 1882, in Cons. Stato, 2001, I, 806 ss., che ritiene, nell’alternativa fra le due opzioni ermeneutiche in ordine alla valutazione degli interessi in gioco, in astratto oppure in concreto, più «corretta, ragionevole ed opportuna la seconda delle indicate prospettive interpretative, la sola idonea ad evitare il rischio di soluzioni precostituite poggianti su una astratta scala gerarchica dei diritti in contesa, non sempre, tuttavia, idonea a tener conto delle specifiche circostanze di fatto destinate a connotare il singolo caso concreto». V. anche Cons. Stato, VI sez., 19.8.2008, n. 3960, in Foro amm., 2008, 2170, secondo cui, ai sensi dell’art. 24, l. n. 241 del 1990, ai fini del bilanciamento tra esigenze di riservatezza e diritto di accesso, occorre «di volta in volta un’attenta valutazione, circa la stretta funzionalità dell’accesso alla salvaguardia di posizioni soggettive protette, che si assumano lese, con ulteriore salvaguardia, attraverso i limiti così imposti, degli altri interessi coinvolti, talvolta rispondenti a principi di pari rango costituzionale rispetto al diritto di difesa».
Giurisprudenza
lere o difendere un diritto in sede giudiziaria” che abbia le medesime caratteristiche, in conformità all’art. 26, comma 4°, lettera c) del Codice della privacy. Tale diritto poi è riconosciuto nei limiti in cui l’accesso sia “strettamente indispensabile”. Limpidamente si è espresso il Garante per la protezione dei dati personali nella pronuncia del 9 luglio 2003. Ha infatti affermato che, in caso di richiesta di un terzo di conoscere dati sulla salute o la vita sessuale, oppure di accedere a documenti che li contengono, quali la cartella clinica, il «destinatario della richiesta, nel valutare il “rango” del diritto di un terzo che può giustificare l’accesso o la comunicazione, deve utilizzare come parametro di raffronto non il “diritto di azione e difesa” che pure è costituzionalmente garantito (e che merita in generale protezione a prescindere dall’“importanza” del diritto sostanziale che si vuole difendere), quanto questo diritto sottostante che il terzo intende far valere sulla base del materiale documentale che chiede di conoscere. Ciò chiarito, tale sottostante diritto […] può essere ritenuto di “pari rango” rispetto a quello dell’interessato – giustificando quindi l’accesso o la comunicazione di dati che l’interessato stesso intende spesso mantenere altrimenti riservati – solo se fa parte della categoria dei diritti della personalità o è compreso tra altri diritti o libertà fondamentali ed inviolabili»51.
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Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 9 luglio 2003 [doc web n. 29832], in http://www. garanteprivacy.it. Prosegue poi considerando che «nella prevalenza dei casi riguardanti meri diritti di credito non sia possibile accogliere l’istanza di accesso o di comunicazione, e che si possa invece valutare, con cautela, caso per caso, l’effettiva necessità di consentire l’accesso ad una cartella clinica – prima della sua probabile acquisizione su iniziativa del giudice – in caso di controversia risarcitoria per danni ascritti all’attività professionale medica documentata nella cartella. Il riferimento normativo ai diritti della personalità e ad altri diritti e libertà fondamentali è collegato ad un “elenco aperto” di posizioni soggettive individuabile in chiave storico-evolutiva, e presuppone una valutazione in concreto, in modo da evitare per le amministrazioni, gli altri destinatari delle richieste e per il giudice stesso in caso di impugnazione, “il rischio di soluzioni precostituite poggianti su una astratta scala gerarchica dei diritti in contesa” (cfr. Cons. Stato, Sez. VI n. 1882/2001 e 2542/2002)». 51
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Quindi è chiaro che non giustifica l’accesso al documento amministrativo contenente i dati sulla salute il preteso esercizio del diritto di azione e difesa, sancito all’art. 24 Cost., bensì può giustificarlo il diritto sostanziale che si intende far valere, anche per mezzo del diritto di azione, purché tale diritto sottostante appartenga alla sfera dei diritti della personalità o sia annoverato fra altri diritti o libertà fondamentali e inviolabili52. Nel medesimo provvedimento il Garante ha aggiunto che la «valutazione sull’istanza di accesso o di comunicazione non deve essere circoscritta al raffronto fra i diritti coinvolti, ma deve basarsi anche sull’ulteriore verifica volta ad appurare – anche ai fini dell’accoglimento solo parziale dell’istanza – se i dati o tutti i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale oggetto di richiesta siano effettivamente “necessari” al fine di far valere o difendere gli equivalenti diritti in sede contenziosa». Nel fare ciò, fra i rimandi alla giurisprudenza amministrativa, ha richiamato la pronuncia del T.A.R. Emilia-Romagna n. 1207 del 6 dicembre 200153. Ivi è stato sostenuto che non sussiste il diritto di accesso del datore di lavoro agli atti relativi ad un procedimento presso l’INAIL di malattia professionale riguardante un dipendente, poiché l’esigenza di tutela della riservatezza prevale sull’interesse del datore di visionare i documenti al fine di evitare paventati pregiudizi economici che potrebbero derivare dal procedimento. Non pare quindi meritevole di accoglimento la richiesta di accesso che si basa sulla tutela di semplici diritti di credito o aventi natura patrimoniale. Non così, invece, per quel che riguarda il diritto al lavoro. È quanto emerge dalla decisione del Con-
siglio di Stato del 27 ottobre 2006, n. 6440. Nel caso di specie, un’insegnante di scuola d’infanzia aveva chiesto l’accesso alla documentazione relativa al punteggio ex art. 33 l. 5 febbraio 1992 n. 104 attribuito a tre colleghe, che la precedevano nella graduatoria interna per la individuazione dei docenti soprannumerari. L’Amministrazione le aveva poi negato l’accesso, motivando che la documentazione richiesta riguardava lo stato di salute di terze persone, pertanto sarebbe sottratta all’accesso, a norma dell’art. 65, comma 5°, del Codice della privacy e avverso tale diniego l’insegnante aveva proposto ricorso dinanzi al T.A.R. Lazio, per l’accertamento del diritto ad accedere alla documentazione anzidetta. La sentenza del T.A.R., che aveva accolto il ricorso, veniva poi impugnata. Nel confermare la sentenza appellata, che aveva garantito il diritto di accesso ritenendolo qui prevalente rispetto al diritto alla riservatezza, il Consiglio di Stato ha considerato come l’insegnante, «chiedendo di accedere alla documentazione concernente (anche) lo stato di salute del genitore cui la controinteressata ha dichiarato di prestare assistenza, agisse a tutela del proprio diritto al lavoro, e dunque di un diritto al quale va riconosciuto senz’altro un rango almeno pari a quello relativo alla riservatezza dei dati concernenti la salute»54. Altra situazione giuridica considerata di rango almeno pari è quella corrispondente al fine di scioglimento del vincolo discendente dal matrimonio. In questo senso ha statuito il Consiglio di Stato nella pronuncia del 14 novembre 2006, n. 6681. Il caso riguardava un’istanza di accesso, volta a prendere visione ed estrarre copia della cartella
Cons. Stato, VI sez., 27.10.2006, n. 6440, in Foro amm., 2006, 2889 s. In particolare va sottolineato come, nel caso in questione, l’accesso richiesto dall’insegnante «appare strumentale al conseguimento di un posto di lavoro, che potrebbe essere assegnato alla richiedente ove alla controinteressata […] non sia riconosciuto il beneficio di cui alla legge 104/1992, in relazione al quale è stato azionato il diritto d’accesso». Rendono conto del caso Sartoretti, op. cit., 601 s. e Baice, op. cit., 174. Nello stesso senso, circa il riconoscimento al diritto del lavoro di un rango almeno pari a quello relativo alla riservatezza dei dati concernenti la salute, v. Cons. Stato, IV sez., 6.5.2010, n. 2639, in Foro amm., 2010, 1007. 54
Cfr. Cons. Stato, VI sez., 9.2.2009, n. 736, in Foro amm., 2009, 507, per il quale non sono sufficienti «esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad una effettiva necessità di tutela di interessi che si assumano lesi ed ammettendosi solo nei limiti in cui sia “strettamente indispensabile” la conoscenza di documenti, contenenti “dati sensibili e giudiziari”». V. anche Cons. Stato, IV sez., 17.7.2014, n. 3772, in DeJure; T.A.R. Sicilia, 28.4.2016, n. 1183, in DeJure. 52
T.A.R. Emilia-Romagna, 6.12.2001, n. 1207, in Foro amm., 2001, 3250. 53
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clinica intestata alla moglie del richiedente, avanzata al fine di dare avvio e coltivare un’azione giurisdizionale innanzi al tribunale ecclesiastico, per conseguire la declaratoria di nullità del matrimonio, viziato dal fatto che i disturbi psichici da cui la predetta sarebbe stata affetta da tempo sarebbero stati sempre sottaciuti. Secondo il Consiglio di Stato, in «una situazione siffatta deve, invero, ritenersi sussistente l’interesse personale che legittima la proposizione della domanda di accesso, senza che sia necessaria alcuna penetrante indagine in merito alla essenzialità o meno della documentazione richiesta, né circa le prospettive di buon esito del rito processuale concordatario; quel che rileva è che, attraverso l’accesso, sia data al richiedente la possibilità di supportare nei termini più concreti la propria instauranda azione giudiziale, senza potersi operare alcun previo giudizio prognostico circa l’esito dell’azione stessa»55. In termini analoghi si è pronunciato con la decisione del 28 ottobre 2008, n. 5374, con cui ha ribadito che il fine dello scioglimento del vincolo matrimoniale (religioso) costituisce «una situazione giuridica di rango almeno pari alla tutela del diritto alla riservatezza dei dati sensibili relativi alla salute, in quanto involgente un significativo diritto della personalità»56. La valutazione in merito al rango della situazione giuridica per cui si esercita il diritto di accesso dev’essere compiuta anche quando si faccia richiesta per accedere alla cartella clinica di un soggetto deceduto, salvo alcune eccezioni.
Cons. Stato, V sez., 14.11.2006, n. 6681, in Foro amm., 2006, XI, 3063 ss. Con chiarezza si afferma qui che, per quanto atteneva al caso di specie, «il fine dello scioglimento del vincolo matrimoniale costituisce certamente una situazione giuridica di rango almeno pari alla tutela del diritto alla riservatezza dei dati sensibili relativi alla salute, in quanto involgente un significativo diritto della personalità». 55
Cons. Stato, V sez., 28.10.2008, n. 5374, in Foro amm., 2008, 2733 s. Nello stesso senso, v. anche Cons. Stato, V sez., 28.9.2010, n. 7166, in Fam. e dir., 2011, 498 ss., con nota di Long, Accesso a dati sensibili e annullamento del matrimonio: il diritto alla prova prevale sulla tutela della riservatezza. 56
Giurisprudenza
L’art. 9, comma 3°, del Codice della privacy stabilisce che i diritti di cui all’articolo 757 «riferiti a dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell’interessato o per ragioni familiari meritevoli di protezione». Vengono quindi individuate tre classi di soggetti cui è permessa la comunicazione dei dati del de cuius: a) chi ha un interesse proprio; b) chi agisce a tutela dell’interessato; c) chi agisce per ragioni familiari meritevoli di protezione. Si ritiene che la rilevanza dell’interesse di cui la persona è portatrice vada considerato alla stregua della valutazione del rango per i
Art. 7. Diritto di accesso ai dati personali ed altri diritti. – 1. L’interessato ha diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile. 2. L’interessato ha diritto di ottenere l’indicazione: a) dell’origine dei dati personali; b) delle finalità e modalità del trattamento; c) della logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici; d) degli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’articolo 5, comma 2; e) dei soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati. 3. L’interessato ha diritto di ottenere: a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati; b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati; c) l’attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato. 4. L’interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte: a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta; b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale. 57
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soggetti che richiedano l’accesso avendo un interesse proprio e non invece negli altri due casi58. A tal proposito appare opportuno richiamare quanto deciso dal Garante per la protezione dei dati personali con il provvedimento del 16 marzo 2006. In quel caso, in qualità di “parente più prossima”, una signora aveva chiesto di conoscere i dati personali di una persona deceduta contenuti nella sua cartella clinica e nella corrispondente documentazione, dal momento che era sorta una controversia intorno alla validità di un testamento olografo. La fondazione cui era avanzata tale richiesta opponeva il rifiuto, ritenendo di non potervi aderire «in quanto tale richiesta perverrebbe non da un erede legittimo, ma da una “parente più prossima non legittimata”, avrebbe “un intento sostanzialmente esplorativo” per approntare la difesa di un diritto attualmente non ancora posto in discussione e, soprattutto, non soddisferebbe i requisiti di cui all’art. 92 del Codice con particolare riguardo al “rango” dei diritti (sostanzialmente patrimoniali) che sarebbero fatti valere»59. Il Garante, nel disattendere le argomentazioni della resistente, ha ritenuto che la ricorrente era «legittimata ad accedere ai dati personali, anche di natura sensibile, della defunta; ciò, ai sensi dell’art. 9, comma 3, del Codice». Ella infatti richiedeva l’accesso come nipote della de cuius e tale richiesta pare quindi riconducibile a quella formulata da parte di chi agisce per ragioni familiari meritevoli di protezione60.
4. Segue. Parto anonimo e diritto a conoscere le proprie origini Una questione ulteriore attiene invece al rapporto fra la tutela della riservatezza dell’identità delle madri che al momento del parto si sono avvalse del diritto di non essere nominate e l’accesso alla cartella clinica di nascita da parte degli interessati.
58
Il Garante si è occupato di un caso di questo tipo con il provvedimento del 12 maggio 2016. A fronte del ricorso presentato dall’interessata, con cui costei chiedeva l’ottenimento della cartella clinica riguardante la sua nascita, in forma chiara ed intellegibile con annessi dati della madre biologica, archiviata presso un’Azienda ospedaliera, l’Autorità, dopo aver rilevato, in via preliminare, come le richieste in esame si sostanziassero «nel volere ottenere l’accesso: a) ai dati relativi alla propria nascita contenuti nella cartella clinica; b) ai dati inerenti la propria madre biologica»61, ha affermato che «il diritto di accesso ai sensi dell’ art. 7 del Codice consente all’interessato di ottenere la comunicazione dei soli dati personali che lo riguardano e che i dati attinenti alla madre biologica, che abbia dichiarato di non voler essere nominata, sono sottratti dall’ambito di applicazione dell’anzidetta norma». Pertanto ha accolto il ricorso, ma solo parzialmente, in relazione cioè ai soli dati riferiti all’evento della sua nascita. Lo ha dichiarato infondato, invece, in ordine alla richiesta di accesso integrale alla cartella clinica con annessi dati della madre biologica. Non si può non rammentare poi come di tale aspetto abbia reso conto anche la Relazione annuale del Garante per la protezione dei dati personali del 2016, circa la sua attività, nel paragrafo dedicato alla sanità e, nello specifico, alla tutela della dignità della persona. «In tale ambito, specifico interesse è stato prestato al trattamento dei dati personali delle donne che decidono di partorire in anonimato, con riferimento alla tutela della loro dignità e riservatezza (art. 30, comma 1, d.P.R. n. 396/2000). L’attività ha riguardato in particolar modo le richieste di soggetti − nati da donne che al momento del parto si sono avvalse del diritto di non essere nominate − di accedere alla documentazione sanitaria relativa alla propria madre biologica per motivi di tutela della salute. In tali casi, è stato ricordato che la tutela della riservatezza dell’identità delle madri, che al momento
Cfr. Baice, op. cit., 172 s.
Decisione del Garante per la protezione dei dati personali del 16 marzo 2006 [doc web n. 1271603], in http://www.garanteprivacy.it. 59
60
Baice, op. cit., 172 s.
Decisione del Garante per la protezione dei dati personali del 12 maggio 2016 [doc web n. 5185339], in http://www. garanteprivacy.it. 61
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del parto si sono avvalse del diritto di non essere nominate, è attualmente prevista dal combinato disposto dell’art. 28, comma 7, l. n. 184/1983 (così come modificato dall’art. 177, comma 2, del Codice) e dall’art. 30, comma 1, d.P.R. n. 396/2000. A tali disposizioni si aggiunge la previsione del Codice secondo cui non possono essere resi noti, se non decorsi cento anni dalla formazione del documento, il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, a meno che in essi non vengano oscurati i dati personali che rendono identificabile la madre naturale che abbia esercitato il diritto a non essere nominata (art. 93)»62. Giova ricordare che il rapporto fra riservatezza e accesso ha avuto un peculiare sviluppo in considerazione al diritto di conoscere le proprie origini, il quale è stato oggetto di un percorso giurisprudenziale formatosi non solo a livello nazionale, ma anche europeo. Merita, al riguardo,
Relazione annuale del Garante per la protezione dei dati personali del 2016, in http://www.garanteprivacy.it, 59. La disciplina, in tema, come illustrato anche dal Garante, si può comprendere con la lettura dell’art. 28, 7° comma, l. 4 maggio 1983, n. 184 (“Diritto del minore ad una famiglia”) e dell’art. 30, 1° comma, d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (“Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127”). La prima di tali disposizioni stabilisce che «l’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo»; mentre la seconda recita: «La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata». Completa il quadro normativo di riferimento l’art. 93 del Codice della privacy, il quale dispone, ai commi 2° e 3°, che «il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento. Durante il periodo di cui al comma 2 la richiesta di accesso al certificato o alla cartella può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile». 62
Giurisprudenza
di essere ricordata la sentenza 25 settembre 2012, con cui si è pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo (Godelli c. Italia). In quel caso la cittadina italiana ricorrente sosteneva che il segreto della sua nascita e la conseguente impossibilità per lei di conoscere le sue origini costituivano violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Esemplare la sua storia: all’età di dieci anni, avendo appreso di non essere la figlia biologica dei suoi genitori, domandò loro di poter conoscere le sue origini, ma non ottenne alcuna risposta. Un giorno scoprì che viveva nel suo stesso paese una bambina, nata nel suo stesso giorno, che era stata abbandonata e poi era stata affiliata da un’altra famiglia. Ella sospettava potesse trattarsi della sua sorella gemella. I genitori adottivi delle due bambine impedirono i contatti fra loro e lei conservò sempre il desiderio di conoscere le sue origini. Nel 2006 domandò all’ufficio dello stato civile informazioni sulle sue origini, conformemente all’art. 28 della l. 4 maggio 1983 n. 184, e l’ufficiale le consegnò il suo atto di nascita, in cui però non compariva il nome della madre biologica, dal momento che quest’ultima non aveva acconsentito alla divulgazione della sua identità. Il Tribunale per i minorenni adito negò l’accesso alle informazioni sulle sue origini perché la madre, al momento della sua nascita, aveva dichiarato di non volere divulgare la sua identità e la Corte d’appello confermò tale decisione, sottolineando che il comma 7 dell’art. 28 mirava a garantire il rispetto della volontà della madre e il divieto, per la ricorrente, di accedere alle informazioni riguardanti le sue origini rispondeva anche a un interesse pubblico. Ella non presentò ricorso per Cassazione, ma si rivolse alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima, nell’accogliere il ricorso, riconoscendo la violazione dell’art. 8 CEDU, ha affermato che «in assenza di meccanismi destinati a bilanciare il diritto della ricorrente a conoscere le proprie origini con i diritti e gli interessi della madre a mantenere l’anonimato, viene inevitabilmente data una preferenza incondizionata a questi ultimi. […] Nel caso di specie, la Corte osserva che, se la madre biologica ha deciso di mantenere
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l’anonimato, la normativa italiana non dà alcuna possibilità al figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita di chiedere l’accesso a informazioni non identificative sulle sue origini o la reversibilità del segreto. In queste condizioni, la Corte ritiene che l’Italia non abbia cercato di stabilire un equilibrio e una proporzionalità tra gli interessi delle parti in causa e abbia dunque oltrepassato il margine di discrezionalità che le è stato accordato»63. Nel 2013 è intervenuta la Corte costituzionale, con la sentenza n. 278 del 22 novembre. Con tale pronuncia ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7°, l. n. 184/1983, come sostituito dall’art. 177, comma 2°, del Codice della privacy, nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1°, del d.P.R. n. 396/2000 – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione. In quella circostanza, il giudice delle leggi, facendo riferimento anche alla menzionata sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha precisato che con la disposizione censurata «l’ordinamento pare, infatti, prefigurare una sorta di “cristallizzazione“ o di “immobilizzazione” nelle relative modalità di esercizio: una volta intervenuta la scelta per l’anonimato, infatti, la relativa manifestazione di volontà assume connotati di irreversibilità destinati, sostanzialmente, ad “espropriare” la persona titolare del diritto da qualsiasi ulteriore opzione; […] mentre la scelta per l’anonimato legittimamente impedisce l’insorgenza di una “genitorialità giuridica”, con effetti inevitabilmente stabilizzati pro futuro, non appare ragionevole che quella scelta risulti necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla “genitorialità naturale”: potendosi quella scelta riguardare, sul piano di
Corte eur. dir. uomo, 25.9.2012, ric. 33783/09, in Giust. civ., 2013, I, 1597 ss., con nota di Ingenito, Il diritto del figlio alla conoscenza delle origini e il diritto della madre al parto anonimo alla luce della recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. 63
quest’ultima, come opzione eventualmente revocabile (in seguito alla iniziativa del figlio), proprio perché corrispondente alle motivazioni per le quali essa è stata compiuta e può essere mantenuta»64. Entrambe le suddette pronunce sono state richiamate dalla Corte di cassazione, nelle sentenze del 21 luglio 2016 e del 9 novembre 2016, rispettivamente n. 15024 e n. 22838. Con la prima, la Supr. Corte ha affermato che, in caso di c.d. parto anonimo, «non può non discendere dalla chiara individuazione compiuta dal giudice delle leggi la impossibilità di ritenere operativo, oltre il limite della vita della madre, il termine previsto dal ricordato d. lgs. n. 196 del 2003, art. 93, comma 2°, perché la conseguenza della morte della madre che ha partorito in anonimo sarebbe quella di reintrodurre quella cristallizzazione della scelta per l’anonimato che la Corte costituzionale ha ritenuto lesiva degli artt. 2 e 3 della carta fondamentale. […] Va ribadito infatti che, nella ricostruzione della Corte costituzionale, ciò che è rilevante e decisivo è la reversibilità del segreto, condizione che, purtroppo, la morte non rende più attuale e ipotizzabile nel futuro. Non si può d’altra parte non sottolineare l’effetto paradossale che provocherebbe una lettura della norma ritenuta incostituzionale basata sui presupposti che hanno orientato i giudici del merito. L’immobilizzazione della scelta per l’anonimato che verrebbe in tal modo a determinarsi post mortem verrebbe a realizzarsi proprio in presenza dell’affievolimento, se non della scomparsa,
Corte cost., 22.11.2013, n. 278, in Corr. giur., 2014, IV, 471 ss., con nota di Auletta, Sul diritto dell’adottato di conoscere la propria storia: un’occasione per ripensare alla disciplina della materia; in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 279 ss., con nota di Marcenò, Quando da un dispositivo d’incostituzionalità possono derivare incertezze, e con nota di Long, Adozione e segreti: costituzionalmente illegittima l’irreversibilità dell’anonimato del parto; in Fam. e dir., 2014, 11 ss., con nota di Carbone, Un passo avanti del diritto del figlio, abbandonato e adottato, di conoscere le sue origini rispetto all’anonimato materno; in Dir. fam. e pers., 2014, 13 ss., con nota di Lisella, Volontà della madre biologica di non essere nominata nella dichiarazione di nascita e diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini. 64
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di quelle ragioni di protezione, risalenti alla scelta di partorire in anonimo, che l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre proprio in ragione della revocabilità di tale scelta. Ciò che provocherebbe, per citare ancora la Corte costituzionale, la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere alla propria storia parentale – diritto che “costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona” perché “il relativo bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona”»65. Per la Corte di cassazione quindi, quando la madre che abbia scelto l’anonimato muore, al figlio va garantito, allo scopo di conoscere le proprie origini, il diritto di accedere alle informazioni relative all’identità personale della stessa e non si può considerare operante, oltre la morte della madre che lo ha generato in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, contenenti i dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, previsto dall’art. 93, comma 2°, del Codice della privacy. Con la seconda, i giudici di legittimità hanno ribadito l’orientamento espresso in precedenza e hanno formulato il seguente principio di diritto: «Il diritto dell’adottato – nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata D.P.R. n. 396 del 2000, ex art. 30, comma 1 – ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l’identità della madre biologica sussiste e può essere concretamente esercitato anche se la stessa sia morta e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta
Cass., 21.7.2016, n. 15024, in Corr. giur., 2017, 24 ss., con nota di Carbone, Con la morte della madre al figlio non è più opponibile l’anonimato: i giudici di merito e la Cassazione a confronto; in Fam. e dir., 2017, 15 ss., con nota di Andreola, Accesso alle informazioni sulla nascita e morte della madre anonima.
Giurisprudenza
di conservare il segreto, non rilevando nella fattispecie il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, commi 2 e 3, salvo il trattamento lecito e non lesivo dei diritti di terzi dei dati personali conosciuti»66.
5. Osservazioni conclusive Alla luce di quanto si è potuto esaminare accostandosi alle disposizioni che regolano i diversi aspetti relativi alla cartella clinica, alla loro interpretazione, datane soprattutto dalla giurisprudenza, e alle applicazioni concrete, si può comprendere quale ruolo giochi questo istituto, non solo nell’ambito del diritto sanitario, ma anche nell’ordinamento giuridico italiano, nel suo complesso. Nell’ambito della responsabilità medica – terreno considerato da sempre scivoloso per i costanti mutamenti della disciplina e gli oscillanti orientamenti giurisprudenziali e oggi reso ancor più incerto a seguito dei recenti interventi normativi dagli esiti indistinti – la cartella clinica riveste una funzione del tutto centrale. Essa infatti viene a costituire uno dei principali mezzi con cui ricostruire il reale svolgimento dei fatti e ricercarne la verità. L’accertamento circa la sussistenza o l’insussistenza della responsabilità del medico e della struttura sanitaria si può basare quasi sempre sui dati che emergono proprio dalla cartella clinica. Una volta redatta allora, essa contiene i dati mediante i quali è possibile ripercorrere la vicenda del paziente. Tale istituto però non ha solo rilevanza sul piano processuale – come si è visto, determinando in caso di sua difettosa o incompleta tenuta la possibilità di ricorrere a presunzioni circa l’accertamento del nesso eziologico –, perché ben può acquistare importanza in altri ambiti, quale quello della riservatezza della persona cui si riferisce e della tutela di situazioni giuridiche o dell’esercizio
65
Cass., 9.11.2016, n. 22838, in Fam. e dir., 2017, 15 ss., con nota di Andreola, Accesso alle informazioni sulla nascita e morte della madre anonima. 66
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di determinati diritti per cui se ne domanda l’accesso. E su questo versante è possibile cogliere la varietà di rapporti giuridici che si snodano attorno ad esso, dal diritto al lavoro agli interessi di carattere familiare, dai diritti della personalità alle situazioni più delicate e allo stesso tempo emblematiche, come il diritto di conoscere le proprie origini, un diritto così strettamente legato alla vita privata della persona e alla sua intimità da non potersi non annoverare fra i diritti fondamentali. Diritti e situazioni giuridiche che vanno valutati, soppesati, bilanciati, affinché sia dato ascolto tanto alle ragioni della privacy quanto a quelle della trasparenza e dell’accesso. Diritti e situazioni giuridiche così apparentemente diversi e lontani sembrano allora ritrovarsi e riunirsi attorno a questo istituto, che a un primo sguardo si potrebbe ritenere solamente strumentale, se non marginale, in un sistema giuridico, e ciò si spiega se si tiene in considerazione il fatto che la cartella clinica è proprio il luogo in cui confluiscono le informazioni relative al paziente, alla sua malattia, alla sua terapia, alla sua cura. Diritti e situazioni giuridiche ora convergenti ora configgenti, i quali devono inevitabilmente porsi in relazione, attraverso tale istituto, con uno dei più alti diritti della persona: il diritto alla salute. È con questa chiave di lettura che si trova il senso delle norme relative alla cartella clinica e si può capire come queste siano state e vadano ancora applicate. La salute, oggi intesa non più come mera conservazione dell’integrità fisica ma come valore che comprende elementi dinamici e relazionali e che si riferisce a uno stato di benessere non solo fisico e mentale, ma anche sociale67,
Secondo la definizione dell’OMS, «health is a state of complete physical, mental and social well-being and not merely the absence of disease or infirmity». V. Thiene, Salute, riserbo e rimedio risarcitorio, cit., 1412, nt. 21. Mettono in luce la completezza e l’attualità dei tre elementi (fisico, psichico e sociale) che compongono la previsione, Durante, Dimensioni della salute: dalla definizione dell’OMS al diritto attuale, in Nuova giur. civ. comm., 2001, II, 132 ss.; Durante, Salute e diritti tra fonti giuridiche e fonti deontologiche, in Pol. dir., 2004, IV, 563 ss. Circa l’arricchimento semantico v. Zatti, Rapporto medico-paziente e “integrità” della persona, in Nuova giur. civ. comm., 2008, II, 403 ss.; Zatti, Dimensioni 67
è parte integrante ed essenziale dell’esistenza di ciascuno ed è quando viene intaccata o viene a mancare che ci si rivolge alla scienza medica. La cartella clinica, redatta dal medico, svolge questa funzione, racconta la storia del paziente e la sua identità. Bisogna rammentare, dopotutto, come la considerazione dell’identità del paziente, delle sue inclinazioni personali e della sua storia – che viene massimamente in rilievo considerando l’importanza della cartella clinica – sia al centro del suo rapporto con il medico, le funzioni del cui sapere, messo al servizio della persona, si prestano a una costante rilettura, che «consente di delineare un modello di condotta sempre lucidamente governato, sullo sfondo, dal rispetto dei valori della dignità, dell’integrità e dell’identità del malato»68.
ed aspetti dell’identità nel diritto privato attuale, in L’identità nell’orizzonte del diritto privato, supplemento alla Nuova giur. civ. comm., 2007, 1 ss. Al riguardo v. anche Posteraro, Il diritto alla salute e l’autodeterminazione del paziente tra guarigione effettiva e pericoloso sviluppo della tecnologia, in Medicina e morale, 2015, 4 s.: «Per salute non si intende più soltanto qualcosa di fine all’organicità, al corpo, e alla fisicità strettamente considerata; con essa, anzi, si fa riferimento anche alla mente del soggetto malato, analizzato come essere interagente (fisicamente e psicologicamente) con un ambiente circostante fatto di altri soggetti tutti appartenenti ad una specifica realtà biologica, interrelazionale e naturale: l’uomo è più d’una semplice somma di organi fisici; l’uomo è una persona, adesso, un essere la cui dimensione biologica (fusasi con quella psicologica e sociale) merita di essere valutata appieno, a trecentosessanta gradi. In una tale visione sistemica della salute umana, allora, si porta in primo piano la necessità di adottare, nei confronti dei problemi dell’individuo, un approccio di tipo olistico, unitario e globale; ed è per questo che la tutela della Costituzione va assolutamente al di là della mera conservazione dell’integrità fisica, affiancando al carattere statico di quest’ultima, un elemento dinamico e relazionale che consente di superare ottimamente la precedente – errata – coincidenza di salute ed assenza di malattia e fa sì che possa essere ricompresa, nella prima, ogni “stato di benessere che poggi sull’equilibrio di soma e psiche”». Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 84. 68
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o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo i d dic sti i e r Un buon diritto alla fine m giu
della vita. Ci vorrebbe un legislatore? Cristina Pardini Dottore di ricerca
“Law should be the servant of reality, not its master. It does not exist for lawyers. Its real business is not with the university library, the lecture hall or the PhD thesis: it is in the heat and sweat and blood of the hospital”1. Così il giurista inglese Charles Foster, nel volume “Choosing life, Choosing death. The Tyranny of Autonomy in Medical Ethics and Law”, mette a nudo il pericolo di fare del diritto il “padrone della realtà” in un ambito – quale quello della relazione tra medico e paziente – nel quale il rigore dei concetti giuridici è fatalmente destinato a scontrarsi con “il calore, il sudore e il sangue” dei letti di un ospedale. La suggestione di Foster mi è apparsa particolarmente indicata rispetto all’invito di Paolo Malacarne: “immaginate di trovarvi in un reparto di Rianimazione [..]”. Un reparto in cui “il medico rianimatore deve decidere quali terapie intraprendere (dalla esecuzione di una tracheotomia alla possibile amputazione di un arto, dall’esecuzione di un intervento neurochirurgico sul cervello alla esecuzione di un intervento chirurgico di resezione intestinale con posizionamento di una stomia definitiva, ecc.) ma è nella oggettiva impossibilità di informare il malato e di chiedere il consenso/ dissenso informato”. Cosa deve fare, dunque, il personale sanitario? Quali risposte si attendono
Foster, Choosing life, Choosing death. The Tyranny of Autonomy in Medical Ethics and Law, Hart Publishing, Oxford, 2009, 10 ss. (corsivo aggiunto).
dal giurista? Quale contributo potrebbe giungere da un futuro, eventuale legislatore? Ai molti e densi interrogativi di Paolo Malacarne cercherò di rispondere, da un lato, con riferimento al diritto “che c’è già”2 e, dall’altro, attraverso il confronto con il disegno di legge in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento approvato dalla Camera nell’aprile 2017. 1. La prima questione posta dal Medico riguarda la necessità o meno di una normativa specifica in materia di Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (inde DAT): in che modo una legge può essere realmente “di aiuto alla relazione di cura senza essere da un lato talmente generica da risultare inutile per il medico (e il malato) o peggio pericolosa per la eccessiva indeterminatezza [..] e dall’altro talmente minuziosa ed “entrante” da mettere vincoli tali da risultare coercitiva e limitante?” Senza dubbio, i vantaggi di una “buona legge” che, oltre a regolare le DAT, tocchi più in generale i nodi fondamentali della relazione di cura, sgombrando il campo da dubbi e incertezze applicative, sarebbero molteplici. Innanzitutto, si metterebbe a disposizione di chiunque, senza discriminazioni, uno strumento giuridico riconosciuto su tutto il territorio nazionale, mediante il quale poter
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Cfr. Zatti, Un diritto diverso? C’è già, in questa Rivista, 2017, n. 1, 165 ss. 2
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dare indicazioni in ordine ai trattamenti sanitari ai quali si desidererà o meno essere sottoposti, con la certezza di vedere accolte, o quantomeno sempre esaminate, le proprie richieste, siano esse rivolte al prolungamento delle cure o alla loro interruzione. Inoltre, il medico stesso avrebbe maggiore sicurezza nel dar corso alle istanze di non attivazione o di sospensione di un determinato trattamento sanitario, senza timori di incorrere in possibili censure al proprio operato. Ma, su questo rassicuro il Medico, non intendo certamente fare riferimento ad un legislatore “invasivo”, ansioso di appropriarsi di territori che appartengono alla sfera di libertà, di autonomia individuale o di imporre risposte univoche in ambiti caratterizzati da un imprescindibile pluralismo. Del resto, ciò che manca in materia di relazione di cura non è il “diritto”. Non siamo di fronte ad un vuoto normativo che deve necessariamente essere colmato, bensì alla necessità di valorizzare e dare una cornice di maggiore certezza ai principi costituzionali e sovranazionali già elaborati dalla giurisprudenza in materia, a partire soprattutto dai leading cases italiani in tema di fine vita: da un lato, la vicenda di Piergiorgio Welby che ha affrontato il problema della richiesta, da parte dello stesso paziente, di interrompere i trattamenti sanitari deputati al suo mantenimento in vita3; dall’altro lato, il lungo e controverso iter giudiziario che ha infine portato la Cassazione ad autorizzare il distacco dei presidi di sostegno vitale su richiesta del padre-tutore di Eluana Englaro4, del tutto impossibilitata ad esprimersi. Con la sentenza della Cassazione sul caso Englaro e la sentenza del Tribunale di Roma che ha prosciolto l’anestesista Riccio nel caso Welby si è assistito ad un momento di vero e proprio spartiacque nella giurisprudenza: erano molti già i passi in avanti compiuti dalle Corti in tema di consenso alle cure, ma mai si era fatta una tale chiarezza sui limiti e sull’estensione del diritto a rifiutare
G.u.p. Roma, 23.7.2007, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 65. 3
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Cass.,16.10.2007, n. 21748, in Danno e resp., 2008, 421.
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terapie salvavita, sia per i soggetti capaci che per quelli incapaci di esprimersi. A distanza di dieci anni dalle pronunce, la chiarezza di quei principi si è riverberata nella successiva giurisprudenza di merito – soprattutto in tema di amministrazione di sostegno e di rifiuto delle terapie – e ha trovato spazio nell’interpretazione della Corte costituzionale e del Consiglio di Stato. È mancato, invece, negli anni quell’intervento del legislatore da più parti auspicato, anche se il dibattito sulle DAT si è riaperto con una certa vivacità in Parlamento e, nell’aprile scorso, la Camera ha approvato un disegno di legge in tema di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento che nasce dall’unificazione e rielaborazione di ben 16 proposte precedenti. Esiste una corrispondenza tra le regole contenute nel nuovo disegno di legge e la direzione tracciata dalla giurisprudenza e dalla cornice di principi di riferimento? Mi soffermerò su alcune delle questioni di maggiore interesse. a) La sentenza della Cassazione sul caso Englaro – così come la coeva sentenza Welby – ha tracciato con chiarezza la distinzione tra il diritto di autodeterminazione del paziente e il principio di indisponibilità della vita umana, traendo forza dai principi sovranazionali e costituzionali e con specifico riferimento al combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione, alla Convenzione di Oviedo, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ed anche alle norme contenute nel Codice di deontologia medica. Si è sgombrato il campo da un possibile equivoco di fondo: non vi è spazio nel nostro ordinamento per un right to die fondato sul diritto alla privacy, così come nella giurisprudenza di oltreoceano. Piuttosto, il diritto di autodeterminazione prevale sul principio di indisponibilità della vita solo quando è espressione dell’autodeterminazione in materia di trattamento sanitario: non si tratta di attribuire ad un soggetto la possibilità di scegliere la morte piuttosto che la vita, ma di permettergli di esercitare il proprio diritto alla salute nei limiti dell’art. 32 comma 2° della Costituzione che sancisce il rispetto della persona umana. Come afferma in modo lapidario la sentenza Welby, l’indisponibilità della vita – vale a dire la di-
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fesa che l’ordinamento appronta anche contro lo stesso titolare del bene protetto – incontra un “limite invalicabile nell’autonomo ed equipollente diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario”. Fondamentale, poi, che la possibilità del rifiuto di un trattamento sanitario si estenda a tutti i trattamenti, compresa la nutrizione e l’idratazione artificiale, poiché allo stesso modo incidono sull’intangibilità del corpo. b) La sentenza Englaro non si è arrestata di fronte all’incapacità di esprimersi del paziente. Piuttosto, ha delineato un modello di “rappresentanza” dell’incapace che non si sostanzia né nel criterio del substituted judgment delle corti americani, né nel solo criterio del best interest delle corti inglesi, ma costituisce una soluzione dai tratti originali che si discosta anche dall’idea di rappresentanza come sostituzione del diritto privato classico: non si tratta di decidere al posto dell’incapace o per l’incapace, ma “con l’incapace”, quindi facendo in modo che il rappresentante possa restituirne la voce perduta all’esterno, attraverso la ricostruzione della personalità, dello stile di vita, delle inclinazioni, dei valori di riferimento e delle convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche. La pronuncia traccia una sorta di modello interpretativo da seguire laddove ci si trovi di fronte ad un soggetto che non può più esprimersi in modo attuale rispetto ai trattamenti sanitari. Devono prendersi in considerazione – da parte del personale sanitario, in primis, ma anche del giudice eventualmente chiamato a decidere – due criteri fondamentali: un elemento di natura oggettiva che si basa su una valutazione di natura squisitamente medica e un elemento soggettivo, costituito dalla ricostruzione della “voce” del paziente secondo elementi il più possibile chiari, precisi e concordanti. Non può certamente dirsi che il paziente abbia rilasciato una propria volontà, ma il contributo – anche indiretto – che questi potrà dare alla decisione medica dovrà essere valorizzato. c) Sempre nella sentenza Englaro si trovano importanti indicazioni in ordine alla relazione medico paziente. L’espressione utilizzata dalla Corte è quella del “dualismo nel processo di elaborazione della decisione medica”: tra medico che deve informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità
terapeutiche, e paziente che, autonomamente o – se non è in grado – attraverso il legale rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati. Non vi è spazio per la solitudine di chi deve decidere, ma, piuttosto, è necessaria una continua interazione tra tutti i soggetti coinvolti per addivenire alla scelta maggiormente rispettosa dei diritti fondamentali della persona in ambito sanitario. d) La sentenza Englaro apre, infine, il campo sia alla validità di dichiarazioni di volontà anticipata formalizzate in ordine ai trattamenti medici, sia all’idea che possa esistere un soggetto terzo che garantisca – a chi non è in grado di farlo – di compiere atti di esercizio del diritto personalissimo alla salute, sempre valorizzando al massimo gli elementi non tanto della volontà – il soggetto non ha sicuramente espresso una volontà riferita alle cure proposte – quanto dell’identità del paziente incapace, intesa come “diritto ad essere sé stessi [..], con le acquisizioni di idee ed esperienze, con le convinzioni ideologiche, religiose, morali e sociali che differenziano, ed al tempo stesso qualificano, l’individuo”5. Quanto di questi principi, dunque, è riuscito a penetrare nel nuovo disegno di legge approvato alla Camera? A mio parere, l’articolato normativo ha il merito di tracciare in modo lineare alcuni dei punti fondanti della “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”, nella quale “si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico” (art. 1 comma 2) e nella quale il tempo della comunicazione è considerato “tempo di cura”. Paolo Malacarne esprimeva la sua preoccupazione rispetto al “possibile conflitto tra talune disposizioni presenti nelle DAT e la deontologia professionale del medico”. Ebbene, il disegno di legge, allo stesso articolo uno, è netto nell’affermare che “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alle deontologia professionale o alle buone pratiche clinico assistenziali;
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Corte cost., 3.2.1994, n. 13.
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a fronte di tale richieste, il medico non ha obblighi professionali”. La normativa, inoltre, è di estrema chiarezza quanto all’estensione del rifiuto di cure che riguarda tutti i trattamenti (compresi quelli di nutrizione e idratazione forzata), sempre nell’ottica di un rapporto dialogico con il medico: nel rispetto della scelta del paziente, il personale sanitario può pur sempre prospettare alternative possibili e promuovere azioni di sostegno al malato. Sembrano prendere vita le parole della Suprema Corte nel caso Englaro, laddove afferma puntualmente che di fronte al rifiuto netto e consapevole della cura da parte dell’interessato rimane solo lo “spazio – nel quadro dell’alleanza terapeutica che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico”6. L’articolato esclude qualsiasi riferimento a pratiche eutanasiche, ma valorizza il ricorso alle cure palliative e ribadisce la necessità di alleviare le sofferenze anche quando le stesse siano causate dall’interruzione di una terapia, come ad esempio la cessazione dei presidi di ventilazione meccanica che presuppongono la necessità di una sedazione. Si riconosce anche la possibilità di ricorrere alla sedazione palliativa profonda con il consenso del paziente in caso di sofferenze refrattarie. Il disegno di legge prevede, poi, sia la figura di un fiduciario che possa farsi interprete della volontà espressa nelle direttive anticipate – ma anche seguire il malato nelle diverse fasi della terapia – sia il ricorso alla pianificazione anticipata delle cure. A fronte di una normativa per molti versi equilibrata, spicca che, proprio in materia di DAT, le norme si facciano meno convincenti e il testo prenda
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una deriva pressoché “burocratizzante”, in quanto le stesse “devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo”. La prescrizione di tutta una serie di adempimenti formali per la stesura e la conservazione dei documenti di dichiarazione anticipata di trattamento non aiuta certamente la loro diffusione e finisce per svuotare di significato quelle DAT che non sono espresse secondo le regole previste dalla legge. A dare maggiori garanzie in questo ambito non sono tanto le previsioni formali, quanto una modalità di attuazione del contenuto delle DAT che preveda il coinvolgimento del fiduciario, del personale sanitario e dei familiari, in modo che possano accordarsi sulle modalità con le quali rispettare le volontà del disponente in riferimento alla situazione concreta. Nel caso di incertezze o dissidi, in ultima battuta può farsi ricorso al giudice, sempre tenendo conto che, anche laddove non si riscontri una esatta corrispondenza tra decisioni anticipate e circostanze del caso concreto, le DAT rimangono espressione della “identità complessiva del paziente” e del “suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”7, alla luce dei quali la decisione finale va il più possibile orientata. 2. Se anche una norma venisse approvata, si domanda il Medico in che modo poter valorizzare il ricorso alle DAT, in considerazione di un generale scarso utilizzo dello strumento anche laddove sia stato regolato dalla legge. Si pensi, ad esempio, al ruolo delle direttive anticipate negli Stati Uniti che, ad oggi, è messo in crisi da un ineliminabile dato di fatto: “most individuals do not complete advance directives”8. Eppure, il dibattito che negli Stati Uniti accompagna i problemi legati alla fine della vita ha una lunga storia e molte pratiche – dall’informed consent al c.d. living will – hanno visto la luce, sia pure
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Cass., 16.10.2007, n. 21748, cit.
Così Pope, Legal fundamentals of surrogate decision making, in Chest, 141(4), 2012, 1078. 8
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secondo le coordinate tipiche di un diverso sistema di valori, proprio oltreoceano, con un anticipo di almeno un ventennio rispetto ai tentativi di introdurre una discussione organica nel nostro ordinamento. Sebbene il Patient Self Determination Act – una legge federale che riconosce, su tutto il territorio statunitense, il principio del consenso informato e il diritto di formulare direttive anticipate di trattamento – preveda l’obbligo per le strutture ospedaliere di informare ogni paziente sulla possibilità di compilare una DAT, numerosi studi empirici dimostrano che il tentativo di implementare il ricorso ai documenti di direttive anticipate non ha portato ai risultati sperati9. Di fatto, le decisioni mediche sui pazienti incapaci sono quasi sempre affidate ai rappresentanti, nominati dagli interessati o, più spesso, scelti con il meccanismo di liste stabilite a livello statale. L’esiguo numero di direttive anticipate disponibili è una realtà anche in molti paesi europei all’interno dei quali l’istituto ha trovato una compiuta disciplina legislativa10. Una possibile soluzione al problema, quantomeno per quanto riguarda i soggetti già affetti da una patologia, può essere rappresentata dal ricorso alla programmazione anticipata delle cure – ipotesi che rientra nella valorizzazione del processo di comunicazione e di decisione che dovrebbe accompagnare ogni scelta medica, attuale o anticipata – come regola generale del rapporto tra medico e paziente. Iniziare a costruire un percorso terapeutico in un momento in cui il paziente è consapevole delle
Cfr. Fagerlin-Schneider, Enough: The Failure of the Living Will, in Hastings Center Report 34, no. 2 (2004): 30-42, e la bibliografia ivi reperibile. La percentuale di individui che compilano una direttiva anticipate di trattamento è più alta tra gli anziani, specie se residenti in “retirement homes”. 9
Cfr. due studi che riguardano Germania e Spagna, due paesi europei che hanno disciplinato le direttive anticipate di trattamento rispettivamente nel 2009 e nel 2002: cfr. Simon-Lord et al., Advance directives in Spain. Perspectives from a medical bioethicist approach, in Bioethics, 2008; 22(6):346-54; Evans et. al. (project PRISMA), A critical review of advance directives in Germany: attitudes, use and healthcare professionals’ compliance, in Patient Educ Couns., 2012 Jun; 87(3):277-8. 10
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conseguenze e dei possibili scenari da affrontare nel futuro prossimo toglierebbe alle direttive anticipate quell’aura di indeterminatezza che, pur senza dimenticare il valore di strumenti che testimoniano l’identità del soggetto, ne rende spesso difficoltosa l’applicazione concreta. Sempre negli Stati Uniti, si sta diffondendo l’utilizzo di più accurate forme di manifestazione anticipata delle preferenze rispetto alle terapie alle quali il soggetto intende o meno essere sottoposto, quali i POLST (Physician Orders for Life-Sustaining Treatment), che vedono una maggiore partecipazione del medico al processo di formazione delle scelte: siffatti documenti, infatti, sono compilati dall’interessato sotto la guida del medico di fiducia che informa, ascolta e, alla fine, sottoscrive le direttive accanto al paziente. Al di là della pianificazione anticipata delle cure e delle modalità per valorizzare il ricorso alle direttive anticipate – ad esempio con il coinvolgimento dei medici di base che potrebbero fornire le prime informazioni sullo strumento – emerge un dato fondamentale: in mancanza di una volontà espressa dal paziente, l’intervento di un soggetto terzo (familiare, persona vicina, rappresentante legale) – chiamato a farsi interprete, testimone o, talvolta, sostituto del paziente che non è più in grado di comunicare – è pressoché ineliminabile e, anzi, è una pratica conforme ai principi costituzionali e sovranazionali. Nelle decisioni della giurisprudenza sul caso Englaro, ma anche nelle pronunce relative al ruolo dell’amministratore di sostegno negli scenari di fine vita, il rappresentante legale ha assunto il compito primario di restituire all’esterno i tratti principali che davano sostanza all’identità personale dell’incapace, in modo che le decisioni mediche potessero avvalersi anche del “contributo” dell’interessato, secondo modalità del tutto peculiari di ricostruzione della “volontà”. A fronte di tali considerazioni, colpisce che il disegno di legge recentemente approvato alla Camera nulla dica in ordine al caso in cui un paziente sia sprovvisto di direttive anticipate di trattamento, non abbia nominato un fiduciario e non abbia intrapreso alcun percorso di pianificazione anticipata delle cure, magari perché vittima di un trauma improvviso. Si pensi alla posizione Responsabilità Medica 2017, n. 3
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del medico rianimatore sulla quale si interroga Paolo Malacarne: come può decidere se “non conosce in alcun modo né la biografia né la storia sanitaria del malato che improvvisamente ha in cura?” E se quest’ultimo non ha rilasciato direttive anticipate di trattamento? Sul punto, ad esempio, si esprime con chiarezza la legge tedesca sulla Patientenverfügungen, laddove prevede che, nei casi in cui “non sussista una Patientenverfügung o le disposizioni non riguardino le condizioni attuali di vita e di salute, l’amministratore di sostegno deve accertare le cure mediche desiderate o la volontà presunta dell’amministrato e prendere su tali basi la decisione se consentire o rifiutare un trattamento sanitario”. Si tratta di un’operazione di ricostruzione che consiste nel vagliare “le precedenti dichiarazioni sia orali che scritte, le convinzioni etiche e religiose e gli altri principi di valore personali dell’amministrato”. Nella normativa tedesca, dunque, in mancanza di disposizioni scritte, a farsi portatore della volontà del malato è l’amministratore di sostegno (Betreuer), ma la “base della decisione da prendersi” – come si legge espressamente all’art. 1901b del BGB – è costituita dal “colloquio per l’accertamento della volontà del paziente” che intercorre tra il medico curante, tenuto a individuare “quale trattamento sanitario sia indicato con riferimento allo stato complessivo e alla prognosi del paziente”, e il Betreuer. Proprio per ampliare la schiera degli elementi da prendere in considerazione al momento della decisione, il codice permette di coinvolgere nel rapporto tra medico e amministratore, quando possibile, anche i parenti stretti e le altre persone di fiducia dell’amministrato che hanno la possibilità di “pronunciarsi sull’accertamento della volontà del paziente”11. 3. Con riferimento alla valenza da attribuire alle DAT, Paolo Malacarne si domanda “come è possibile in modo giuridicamente corretto uscire dal possibile dall’impasse generato dell’incertezza prognostica? In altri termini, quale valore vincolante dare ad una Dat?”.
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Art. 1901b comma 2 del BGB.
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Il problema dell’efficacia – vincolante o meramente orientativa – da attribuire agli intendimenti contenuti nelle direttive anticipate di trattamento si colloca, senz’altro, tra i temi più spinosi del dibattito sulle DAT. Gli argomenti a sostegno dell’impossibilità di attribuire un valore immediatamente precettivo alle direttive anticipate di trattamento si incentrano, in particolare, sull’inevitabile carattere di inattualità che assume la volontà in esse espressa. Del resto, la funzione stessa di tali dichiarazioni presuppone la sussistenza di un intervallo temporale, più o meno ampio, tra il momento in cui si rilasciano anticipatamente le proprie scelte in ordine alle cure mediche e il momento in cui, di fronte al sopravvenire dell’incapacità di esprimersi del disponente, le decisioni prese in precedenza sono destinate a diventare operative. In questa prospettiva, in effetti, potrebbero sorgere forti perplessità quanto alla persistenza della manifestazione volitiva contenuta nella dichiarazione anticipata, la quale potrebbe trovare applicazione in un contesto potenzialmente assai diverso rispetto a quello che il soggetto interessato aveva di fronte. Basti pensare a tutte quelle circostanze che sono suscettibili di intervenire una volta che un paziente si trovi già in stato di incapacità decisionale – quindi ormai impossibilitato a revocare quanto espresso precedentemente – alla luce delle quali le scelte anticipate possono apparire non più conformi alla volontà che egli avrebbe ragionevolmente espresso se fosse venuto a conoscenza delle nuove condizioni createsi in concreto. A ben vedere, però, non è né opportuno, né necessario stabilire in modo meccanicistico e una volta per tutte se le DAT debbano avere un valore vincolante o meramente orientativo dell’operato del medico. Anzi, il problema dell’efficacia delle direttive anticipate dovrebbe risolversi, più che in relazione a queste due astratte categorie concettuali, attraverso un costante riferimento alla situazione concreta, da valutarsi caso per caso, nella quale le volontà anticipate vengono ad essere applicate. In questo senso, si comprende il riferimento ad un concetto di attualità intesa come un “requisito logico e non meramente cronologico-temporale”, secondo il quale è necessario dar conto non solo delle volontà rilasciate nell’im-
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mediatezza dell’intervento medico, ma anche di quelle che “mantengono la loro attualità”12. Si pensi, ad esempio, alle differenze che intercorrono tra le dichiarazioni anticipate manifestate da un soggetto in buona salute – quindi in modo del tutto astratto rispetto ad una possibile, futura patologia che ne comprometta la capacità di intendere e di volere – rispetto a quelle che sono, invece, espresse da un paziente – magari ricoverato presso una struttura ospedaliera – al quale sia stata diagnosticata una malattia dagli esiti se non del tutto certi, quantomeno facilmente prevedibili. Più correttamente, quest’ultimo caso si colloca nell’ambito della pianificazione anticipata delle cure, una modalità di comunicazione e condivisione delle decisioni che si snoda lungo un percorso dai confini stabiliti. Un’espressione anticipata di volontà formata nell’ambito di un rapporto terapeutico già instauratosi, peraltro nella piena consapevolezza – sia da parte del medico che da parte del paziente – del decorso evolutivo caratteristico della patologia in atto, solleva assai meno dubbi. In questo modo, risulta garantito un effettivo grado di certezza e di precisione della volontà del paziente rispetto al quadro clinico che si va delineando, dal momento che questi può essere edotto sia sull’oggetto delle proprie decisioni, sia sulle reali condizioni nelle quali esse troveranno, in un futuro prossimo, applicazione concreta. Le considerazioni che precedono non possono certamente essere riferite, senza un ulteriore approfondimento critico, alle ipotesi in cui la determinazione di volontà anticipata sia stata rilasciata da un soggetto in buona salute e in riferimento a stati clinici eventuali, solo astrattamente prevedibili. Basti pensare, ad esempio, ai numerosi casi in cui un soggetto può trovarsi in stato di incoscienza a seguito di eventi improvvisi e accidentali, rispetto ai quali possono trovare spazio tutti quei rilievi critici sull’effettiva persistenza di un’antecedente manifestazione di volontà dal contenuto meramente ipotetico.
Così si esprime il Comitato Nazionale di Bioetica nel parere del 2003. 12
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È chiaro che non possono essere sottovalutate le perplessità legate alla possibile genericità, astrattezza e scarsa informazione delle dichiarazioni anticipate di volontà dal contenuto ipotetico, rilasciate da soggetti sani e in un momento che può precedere di molto quello (peraltro solo eventuale) della perdita di capacità. A tale proposito, è necessario fare una considerazione di fondo: la funzione delle DAT non si esaurisce in una mera manifestazione di volontà in ordine a specifici trattamenti terapeutici dei quali il soggetto disponente deve essere perfettamente a conoscenza. Questa ipotesi può semmai verificarsi, nella realtà, solo all’interno di un percorso di pianificazione anticipata delle cure. In tutti gli altri casi, l’istituto in esame rappresenta, più correttamente, una valida opportunità per ciascuno di portare avanti un personale “progetto di vita” – sia pure in condizioni del tutto peculiari – attraverso l’espressione diretta della percezione complessiva che ognuno ha di se stesso e delle proprie idee di dignità, di identità, di libertà personale, con riferimento ad ipotetici trattamenti sanitari futuri. Il valore di dichiarazioni siffatte non può essere determinato apriori, ma dipende dalla situazione concreta nella quale si trovano ad essere applicate. L’opera di interpretazione e contestualizzazione delle direttive anticipate è, quindi, imprescindibile e deve tenere conto di due diversi profili: da una parte, si dovrà considerare l’effettiva condizione clinica in cui versa il disponente e, dall’altra, sarà necessario ricostruire tutti quegli elementi soggettivi che, anche se non riferiti esattamente allo specifico trattamento proposto dal personale sanitario, permeano le scelte compiute dal soggetto nel tempo antecedente alla perdita della possibilità di esprimersi a riguardo. Il ruolo del medico è, senza dubbio, fondamentale per quanto riguarda il primo profilo, dal momento che egli è tenuto a valutare la situazione del soggetto incapace in relazione alla situazione clinica e agli eventuali sviluppi della tecnologia o della ricerca che possano essere intervenuti successivamente. Rispetto al secondo profilo, invece, si coglie l’importanza di designare il c.d. fiduciario per la salute, chiamato a vigilare sulla corretta applicazione delle dichiarazioni dell’interessato. Il fiduciario costituisce una sorta di alter ego del paziente, con Responsabilità Medica 2017, n. 3
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la funzione primaria di ripristinare, almeno in parte, quel “dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica”13, suscettibile di realizzare al meglio gli interessi del soggetto incapace. Attraverso la designazione del fiduciario, dunque, si garantisce – a partire dal momento in cui le direttive anticipate di trattamento diventano operative – la presenza preziosa di un soggetto in grado di interagire costantemente con il personale sanitario e di ricevere tutte le informazioni in ordine alla concreta situazione clinica dell’incapace che, peraltro, potrebbe essere variata di molto rispetto a quella che l’interessato aveva preteso di regolamentare in via anticipata. Nell’esplicare la propria funzione, il fiduciario dovrà utilizzare come punto di partenza obbligato il contenuto delle dichiarazioni anticipate e verificare, attraverso un attento dialogo con il personale sanitario che ha in cura l’incapace, se esse risultino o meno compatibili con il quadro clinico e le relative strategie terapeutiche prospettate dai medici. Anche laddove non si riscontri una esatta corrispondenza tra decisioni anticipate e circostanze del caso concreto, l’intervento del fiduciario può evitare il rischio di un totale svuotamento di significato delle DAT, dal momento che – presumibilmente scelto dall’interessato tra i soggetti a lui più vicini – è in grado restituire, nel dialogo con i medici, gli elementi soggettivi legati alla personalità del paziente incapace. In questo senso, è decisamente apprezzabile l’articolo 4, comma 5 del d.d.l. del 2017, nella parte in cui afferma che “il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”. Si tratta di un rispetto che impegna il medico, ma non lo vincola ottusamente, lasciandogli la possibilità di valutare
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l’attualità della DAT sia pure nel dialogo con il fiduciario. 4. Altro interessante spunto di riflessione posto da Paolo Malacarne riguarda l’asimmetria insita nella relazione di cura e in che modo “una norma giuridica può incardinare questa “asimmetria” in modo che risulti parte certamente oggettivamente presente ma non eccessivamente condizionante”. Al tema della fragilità di ogni paziente si lega la preoccupazione di valutare se una scelta sia stata compiuta “con cognizione di causa, in particolare se siamo in presenza di soggetti “fragili”, “vulnerabili” o con situazioni psichiatriche “borderline?”. Senza dubbio, la relazione terapeutica è fisiologicamente caratterizzata dall’asimmetria informativa tra colui che si affida alle cure e il medico, detentore privilegiato delle conoscenze tecniche e scientifiche, oltre che investito di una posizione di c.d. garanzia dalla quale discende il corrispondente obbligo di protezione nei confronti del paziente. L’asimmetria informativa, però, non giustifica mai l’esclusione del diretto interessato dal processo decisionale in ordine alle terapie – ciò sarebbe in contrasto con le statuizioni del diritto, oltre che con ogni principio di buona pratica medica14 –, ma impone di cercare dei metodi più efficaci di coinvolgimento dello stesso, proprio per colmare un divario che non può essere ignorato se davvero si vuole costruire un diritto modellato sulla realtà dei contesti di cura. In questo senso, soprattutto le decisioni alla fine della vita si pongono in una posizione di forte eccezionalità. Il paziente morente può essere colui che vive sospeso negli hospices o nei reparti di cure palliative; talvolta è il paziente che entra ed esce dalla terapia intensiva; in altri casi ancora è un soggetto anziano, magari con un’insufficienza d’organo cronica che comporta numerosi e defatiganti ricoveri ospedalieri. Si tratta di uno scenario che è spesso – ma, si badi bene, non sempre – carat-
Si pensi all’art. 20 del Codice di Deontologia medica, significativamente rubricato “Relazione di cura”, nel quale si legge che “la relazione tra medico e paziente è costituita sulla libertà di scelta e sull’individuazione e condivisione delle rispettive autonomie e responsabilità”. 14
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Così Cass., 16.10.2007, n. 21748, cit.
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Un buon diritto alla fine della vita
terizzato da situazioni di fragilità decisionale del paziente, nel quale il rischio di “danni e abusi” si fa più tangibile15. Ciò non significa che alla debolezza del paziente, specie se morente, debba necessariamente corrispondere una misura di protezione, quale il ricorso all’amministrazione di sostegno. Piuttosto, credo sia necessario porre l’accento sulla necessità di migliorare e promuovere procedure di coinvolgimento, rafforzamento e sostegno del paziente adeguate “alle concrete e quotidiane vicende individuali di malattia”16. A tale proposito, è opportuno distinguere casi diversi, ai quali l’interprete deve guardare con strumenti diversi. In primo luogo, vi sono circostanze nelle quali la fragilità decisionale non sussiste. Ciò vale soprattutto quando ci si trova di fronte alle scelte poste in essere da soggetti che, se pure attraversano l’esperienza dolorosa di una malattia fortemente invalidante, non stanno vivendo le ultime fasi della loro esistenza, ma si trovano in una situazione in cui la prossimità della morte dipende proprio dalla decisione nel senso di interrompere (o non somministrare) una terapia di sostegno vitale. In molti altri casi, invece, bisognerà colmare la fragilità “fisiologica” di cui si diceva attraverso
Per una prospettiva clinica sul caso dei pazienti che si trovano a vivere le fasi finali della loro esistenza si veda il documento rilasciato dalla SIAARTI, Le cure di fine vita e l’Anestesista Rianimatore: Raccomandazioni SIAARTI per l’approccio al malato morente, in Minerva Anestesiologica, 2006, 1 ss. 15
Così Orsi et al., Le cure di fine vita in Italia: il problema e la sua possibile soluzione nella prospettiva dei clinici, in Rivista di BioDiritto, 2015, 227. La stessa SIAARTI, nel documento Le cure di fine vita e l’Anestesista Rianimatore: Raccomandazioni SIAARTI per l’approccio al malato morente, suggerisce l’utilizzo di “ausili alla comunicazione: il ricorso a strumenti come opuscoli e video che illustrino le attività della TI e i principali problemi dei ricoverati”. Nell’esperienza clinica nord-americana, si riscontrano diversi studi volti a dimostrare come l’utilizzo di supporti video per garantire una migliore informazione al paziente aumentino significativamente l’accuratezza delle decisioni nei contesti di fine vita. Cfr. sul punto Jain et al., Video decision aids to assist with advance care planning: a systematic review and meta-analysis, in British Medical Journal Open, 2015, 5(6):e007491. DOI: 10.1136/bmjopen-2014-007491.
un’opera di comunicazione adeguata da parte dei medici, in modo da coinvolgere sia il malato morente, sia i familiari che, nel contesto del rapporto di cura, assumono la qualifica di protettori naturali e rivestono spesso un importante ruolo di supporto, anche psicologico, per il paziente. In altre ipotesi ancora, senza dubbio più complesse, l’affievolimento “patologico”, più o meno intenso, della capacità decisionale del soggetto può essere tale da rendere necessario l’intervento di una figura istituzionalizzata. Il riferimento va, in primo luogo, all’amministrazione di sostegno, che, come osserva la giurisprudenza, “è una forma di tutela ampia [..], propositiva e non inibitoria, personalizzata, modulabile e non standardizzata, frutto di una concezione dei diritti delle fasce deboli della popolazione veramente conforme ai fini costituzionali di promozione del pieno sviluppo della persona umana”17. Si tratta di una misura dal contenuto elastico, che prevede il coinvolgimento del beneficiario, per quanto possibile, sia nella fase della nomina che nel successivo svolgersi dell’attività dell’amministratore e ha già trovato applicazione rispetto alla “sostituzione/accompagnamento nelle scelte terapeutiche”. La stessa categoria medica riconosce nell’amministrazione di sostegno uno strumento con forti potenzialità, in grado di favorire il dialogo con i professionisti sanitari18. In alcuni sistemi, la legge prevede una figura ad hoc alla quale sono affidati profili di assistenza e sostegno del malato. In Francia, ad esempio, si apprezza il ruolo della personne de confiance, scelta dal paziente tra la schiera dei soggetti a lui più vicini (i c.d. proches), che non si limita ad
16
Così una delle prime pronunce in materia di amministrazione di sostegno: Trib. Pinerolo, 4.11.2004 e 9.11.2004, in Nuova giur. civ. comm., 2005, I, 1 ss. 17
Il documento SIIARTI su Grandi insufficienze d’organo “end stage”: cure intensive e cure palliative?, approvato nel 2013 e reperibile in www.siaarti.com., 12, inserisce l’amministratore di sostegno, accanto ai prossimi congiunti e ai fiduciari, in quella che viene definita la “rete di prossimità del malato” e gli attribuisce il ruolo di “rappresentarne al meglio quando necessario, interessi e volontà secondo una visione delle cure centrate sul malato e sulla sua famiglia e non più sul medico e/o sulla malattia”. 18
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esplicare le proprie funzioni solo quando l’interessato non sarà “più in grado di esprimere la sua volontà e di ricevere le informazioni necessarie a tal fine”19, ma può intervenire – laddove il malato lo desideri – anche nei momenti precedenti alla perdita di capacità decisionale, per assistere il designante nei colloqui con i medici e aiutarlo nelle scelte. A tale proposito, appare particolarmente significativo il testo del d.d.l. recentemente approvato alla Camera, nella parte in cui favorisce il coinvolgimento, in tutte le fasi della relazione di cura e se il paziente lo desidera, dei “familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia nel paziente medesimo”. L’accertamento della capacità di prendere decisioni in ambito sanitario è una questione di primaria importanza che incide fortemente sull’esplicazione dell’autonomia del paziente, quantomeno rispetto alle scelte attuali, anche nelle fasi finali della sua esistenza. Si tratta di una materia troppo complessa per essere trattata in questo contesto, quindi mi limiterò ad un paio di considerazioni. In primo luogo, il compito di valutare spetta ai professionisti sanitari, in particolare psichiatri e neuropsicologi clinici, chiamati ad esprimersi sia, ad esempio, nel ruolo di consulenti dell’eventuale procedimento di nomina di un rappresentante legale per l’incapace, sia nei casi di dubbia capacità che si presentano nel corso della relazione di cura. Gli strumenti a disposizione dei clinici, però, devono essere utilizzati per favorire una valutazione mirata e contestualizzata che deve giungere solo in via successiva ed eventuale rispetto all’instaurarsi di un dialogo tra malato e personale sanitario, all’interno del quale si evidenziano da una parte rischi, benefici, aspettative delle terapie prospettate e si fugano possibili erronee supposizioni, dall’altra emerge l’effettivo grado di comprensione del paziente: il fatto che un soggetto rifiuti le cure proposte, ad esempio, non si traduce automaticamente in un possibile affievolimento della sua capacità decisionale, ma può dipende-
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re dall’adesione ad un sistema di valori personali che egli può riuscire ad esprimere validamente anche con difficoltà e secondo un percorso non lineare. La semplice rilevazione di un’alterazione nel funzionamento cognitivo del paziente, l’eventuale decisione contraria alle proposte dei medici, la situazione di debolezza e fragilità della malattia non possono mai essere separati da un’attenta valutazione funzionale di ciò che il soggetto è effettivamente in grado di fare nelle circostanze concrete in cui le sue competenze trovano espressione. Ed è sempre doveroso approntare strategie comunicative e relazionali adatte alle peculiarità dei diversi soggetti e delle diverse circostanze. Si apprezzano, a tale proposito, le limpide affermazioni della sentenza del Consiglio di Stato con riferimento al caso di Eluana Englaro20: all’obiezione secondo la quale il paziente non avrebbe “alcuna consapevolezza e, comunque, alcuna signoria, men che mai di natura medica, sul sé e sul proprio corpo, si può e deve rispondere che tale critica, quand’anche fondata, mai potrebbe costituire un motivo per espropriare l’individuo, ad opera dello Stato, dell’autorità sanitaria o del medico, di quel poco o tanto dominio, che pur gli sia concesso, sulla sua vita, sulla sua sofferenza e sulla speranza e sul bisogno di vivere secondo la propria visione dell’esistenza finanche l’esperienza più dolorosa della malattia”.
Cons. Stato, 2.9.2014, n. 4460, in Foro amm., 2014, 2229. Per un commento alla sentenza si veda Zatti, Consistenza e fragilità dello ius quo utimur in materia di relazione di cura, in Nuova giur. civ. comm., II, 2015, p. 20 cit., p. 20 ss. 20
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Così si legge all’1111-6 del Code de la santé publique.
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anticipate di trattamento Paolo Malacarne
Direttore U.O. Anestesia e Rianimazione Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana Immaginate di trovarvi in un reparto di Rianimazione nel quale un vostro familiare, fino ad oggi sano, è ricoverato a seguito di un grave incidente stradale: è in coma per un trauma cranico grave che determinerà certamente sequele invalidanti sul piano cognitivo/comportamentale sulla cui entità non c’è, in fase acuta, certezza, e ha diverse altre lesioni potenzialmente invalidanti su piano motorio: il medico rianimatore deve decidere quali terapie intraprendere (dalla esecuzione di una tracheotomia alla possibile amputazione di un arto, dall’esecuzione di un intervento neurochirurgico sul cervello alla esecuzione di un intervento chirurgico di resezione intestinale con posizionamento di una stomia definitiva, ecc.) ma è nella oggettiva impossibilità di informare il malato e di chiedere il consenso/dissenso informato. In questa situazione cosa fa il medico rianimatore? Deciderà da solo sulla base della sua deontologia professionale (...in scienza e coscienza…) e si limiterà ad “informare” voi familiari delle sue decisioni. Oppure vi “coinvolgerà” in vario modo nelle decisioni terapeutiche, ad es. facendovi firmare un foglio prestampato di “consenso informato” pensando così di tutelarsi sul piano legale, o scaricando su di voi il peso e la responsabilità delle decisioni chiedendovi poi di firmare in cartella, o (cosa oggi non frequente) vi chiederà di ricostruire la volontà del malato, di essere voi “microfono” per la voce del malato. Certamente sarà molto difficile che il medico rianimatore vi chieda se il vostro familiare ha redatto una Disposizione Anticipata di Trattamento (D.A.T.), perché oggi in Italia quasi nessuno ha redatto un simile documento. Allora la questione che il medico rianimatore pone al giurista è la seguente: in assenza di una legge (vuoto normativo?) che normi le D.A.T., qual
è il comportamento giuridicamente corretto che dovrebbe tenere in quella situazione? E se già oggi esiste una modalità di comportamento giuridicamente corretta, che cosa aggiunge in termini giuridici una legge specifica in materia di D.A.T.? La posizione del rianimatore prima descritta è quella di un medico che non conosce in alcun modo né la biografia né la storia sanitaria del malato che improvvisamente ha in cura; in tutt’altra posizione si trova invece il “medico di famiglia” che conosce la biografia e la storia sanitaria della persona, o il medico specialista (cardiologo, pneumologo, ecc.) che magari da anni segue, in collaborazione con il medico di famiglia, il malato per la sua malattia cronica. Questa posizione di “privilegio” offre a questi medici l’opportunità di instaurare con il malato una relazione di cura che può aiutare il malato a decidere, sulla base delle proprie convinzioni, preferenze, volontà e sensibilità e conseguentemente a lasciare D.A.T. che se da un alto non possono essere esaustive di tutte le possibili opzioni diagnostico-terapeutiche presenti (e qui si inserisce tutto il tema delle disposizioni date “ora per allora”), essendo però incardinate in una relazione di cura lasciano comunque al medico e al fiduciario un chiaro indirizzo da seguire anche in situazioni non previste esplicitamente nella D.A.T. stessa: è ciò che nella letteratura medica si definisce “Pianificazione Anticipata e Condivisa delle Cure” (P.A.C.). La questione che il medico di famiglia o lo specialista di malattia cronica pone al giurista è la seguente: perché è necessaria una legge che affronta il tema della “relazione di cura” e soprattutto in che modo può essere di aiuto alla “relazione di cura” senza essere da un lato talmente generica da risultare inutile per Responsabilità Medica 2017, n. 3
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il medico (e il malato) o peggio pericolosa per la eccessiva indeterminatezza che lascerebbe aperti enormi spazi per un contenzioso legale, e dall’altro talmente minuziosa ed “entrante” da mettere vincoli tali da risultare coercitiva e limitante? Cosa significa “una legge che definisca una cornice di legittimità giuridica alla P.A.C e alle D.A.T.” ? L’esperienza di molti paesi stranieri che hanno da anni normato le D.A.T. evidenzia come questo strumento è poco utilizzato e spesso, anche quando presente, di dubbia efficacia per la difficoltà di contestualizzare il documento scritto alla situazione concreta; d’altra parte anche i registri delle D.A.T. che diversi Comuni italiani hanno promosso sono di fatto rimasti semivuoti: queste osservazioni devono far riflettere: non basta dare alle persone/malati la possibilità di utilizzare lo strumento “D.A.T.” a loro tutela: occorre che le norme giuridiche che lo regolano siano “favorenti” il suo utilizzo: come questo possa avvenire in termini giuridici è un’altra questione posta dal medico al giurista. E ancora: nella “relazione di cura” esiste una oggettiva asimmetria tra il medico, che conosce la malattia, la sua evoluzione, la prognosi, le terapie e i loro effetti collaterali, e il malato che ha dalla sua “solo” la conoscenza di sé stesso: in questo senso la persona che redige la sua D.A.T. può essere realmente libera e autodeterminata? L’esperienza del “consenso informato” è in questo senso esemplare: oggi questo strumento è nella maggior parte delle situazioni un documento burocratico e asettico sottoposto dal medico, interessato a tutelarsi sul piano legale, ad un malato che poco sapeva e poco continuerà a sapere dopo aver firmato il consenso; ed inoltre, proprio stante la “asimmetria” nella conoscenza, è esperienza comune verificare come a seconda del modo con cui il medico propone al malato una determinata terapia (sia nelle parole che usa, sia nelle accentuazioni di taluni effetti rispetto ad altri, sia nel modo di atteggiarsi durante il colloquio) il malato può essere indotto a acconsentire o non acconsentire: in che modo una norma giuridica può incardinare questa “asimmetria” in modo che risulti parte oggettivamente presente ma non eccessivamente condizionante la redazione
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di un T.B. e, più in generale, la relazione di cura e la P.A.C.? Come la norma giuridica può rendere conto del fatto che il malato ha scelto con cognizione di causa, in particolare se siamo in presenza di soggetti “fragili”, “vulnerabili” o con situazioni psichiatriche “borderline”? Alla base della P.A.C. e della redazione di un T.B. sta la certezza della prognosi: la prognosi è per sua natura probabilistica, e questo fatto lascia un margine di incertezza che non è colmabile: si tratta di decidere fino a che punto accettare questo margine ritenendolo ininfluente nella decisione: questo elemento di incertezza è spesso presente ad es. in molte situazioni di grave lesione cerebrale acquisita (traumatica o spontanea) durante la fase acuta (che può durare diverse settimane) e talvolta rimane anche per diversi mesi dopo l’evento acuto; la questione da discutere è quale valore vincolante dare ad una D.A.T. nella quale ad es. si afferma di non voler vivere con una tracheotomia e un supporto ventilatorio invasivo in presenza di incertezza prognostica sul possibile miglioramento delle condizioni cliniche a distanza di tempo tali da permettere la chiusura della tracheotomia. D’altra parte non ci si può neppure trincerare dietro la “incertezza prognostica” per non dare corso ad una precisa D.A.T., perché estremizzando il tema della “incertezza prognostica” si va incontro ad un’impasse paralizzante ogni decisione di limitazione delle cure. La questione della incertezza della prognosi traslata sul piano giuridico significa: come è possibile in modo giuridicamente corretto uscire dall’impasse generato dall’incertezza prognostica? Una ipotesi da prendere in considerazione è il possibile conflitto tra talune disposizioni presenti nelle DAT e la deontologia professionale del medico che si trova ad avere in cura il malato non più cosciente: il medico non può instaurare una “relazione di cura” con quel malato, e deve prendere atto delle volontà precedentemente espresse con le quali il malato potrebbe rifiutare cure che il medico ritiene invece appropriate: sul piano etico questo conflitto porta in gioco il tema della “proporzionalità delle cure”, tema in base al quale il malato può lecitamente ritenere per lui troppo onerose sul piano psico-fisico, e quindi
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sproporzionate, cure comunque clinicamente appropriate; ma sul piano giuridico, quale potrebbe essere la norma che, pur lasciando intatta la autonomia decisionale del malato, non impone al medico un comportamento contrario alla propria deontologia? È possibile immaginare sul piano giuridico una situazione nella quale, sempre rispettando l’autonomia decisionale del malato non più competente,
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si possa instaurare una “relazione di cura/ dialogo” tra il medico che ritiene di dover ridiscutere taluni disposizioni presenti nelle DAT e il fiduciario, tenendo presente che le DAT dovrebbero essere frutto della P.A.C. nella quale il malato ha comunque espresso “convinzioni, preferenze e sensibilità” utili per ricostruire comunque la volontà del malato?
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i r o t a v o r Osservatorio normativo e internazionale v i Osservatorio normativo e internazionale sse at o rm zio Criminal liability in a no rna e t medical context: in the Italian law’s approach* Stefano Canestrari
Professore nell’Università di Bologna Sommario: 1. Introduction: in search of a balance point. – 2. The initial picture: pervasive punishment of medical negligence and «defensive medicine». – 3. The recent reforms. The 2012 «Balduzzi Act»: in between guidelines and gross negligence. – 4. Critical issues of the «Balduzzi Act». – 5. (follows): the 2017 «Gelli-Bianco Act». – 6. The constitutional legitimacy of a discipline applying exclusively to medical practitioners. – 7. Concluding remarks.
Abstract: The Italian legal system has been for many years at the forefront of the patients’ protection from medical malpractice. This has led medical practitioners to engage in defensive medicine, in order to compensate for their overexposure to legal disputes. From 2012, the Italian legislator has tried to lighten the practitioners’ criminal liability, by emending in their favour the discipline concerning negligence. These amendments have though raised several critical issues, in particular in the reference they make to the ambiguous parameter of medical guidelines; indeed, the respect of the guidelines is now a necessary condition for the application of such favourable discipline.
1. Introduction: in search of a balance point The criminal liability of medical practitioners has undoubtedly been among the most burning is-
Il presente contributo costituisce la relazione tenuta dall’Autore al Convegno internazionale svoltosi a Lione nell’aprile 2017, dal titolo: French Law with the perspective of comparative law: for a renovated medical criminal law?
sues of the Italian criminal law in the last years. The medical context has indeed been a «laboratory», where some of fundamental categories of the criminal law – causality, omission and negligence – have been tested. It has also been the object of two major legislative reforms, designed to reduce the scope of criminal liability for medical errors: the 2012 «Balduzzi Act» and the very recent «Gelli-Bianco Act», approved in March 2017.
2. The initial picture: pervasive punishment of medical negligence and «defensive medicine» These legislative reforms became necessary in order to contrast the overexposure to legal disputes of Italian medical practitioners, who had responded by engaging in so-called «defensive medicine» – that is, a series of medical practices designed to prevent potential legal disputes rather than to protect the patients’ health1. Famously, defensive medicine has developed into two different paradigms: a «positive» one, whereby physicians on a
*
Palazzo, Responsabilità medica, “disagio” professionale e riforme penali, in Dir. pen. proc., 2009, XV, 1063. 1
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purely preventive basis recommend clinical tests that do not appear to be necessary for the patient’s medical condition; and a «negative» one, whereby «high-risk patients» are simply refused any form of medical assistance. This has had negative repercussion on both the quality of healthcare and the public budget, the latter having to bear unnecessary severe costs2. From a legal standpoint, «defensive medicine» stemmed from the fact that the legal framework and the interpretation thereof by the case-law were too rigorous. Indeed, Article 43 provides that «a crime shall be negligent, i.e. contrary to intention, when the event, even though foreseen, is not desired by the actor and occurs because of carelessness, imprudence, lack of skill, or failure to observe laws, regulations orders or instructions». As a result, fault by negligence in criminal law is in many ways similar to that of the civil law, as it doesn’t provide greater selectivity and instead pervasively punishes any form of negligence, though slight it may be. Nor has the case-law tried to limit the scope of criminal liability, particularly in recent years. This tendency is exemplified by the long distances travelled by Article 2236 of the Italian Civil Code in the criminal case-law. Such provision states: «should the performance of the contract require overcoming particularly complex technical difficulties, no liability for damages shall be borne by the provider, unless they are caused by intentional wrongdoing or gross negligence». The problem with this provision being applied to criminal liability is that there is no legal equivalent within the Italian Penal Code. In a first phase, more or less until the seventies, the Court of Cassation held that Article 2236 could be applied to criminal cases, thereby leading to the punishment of only gross medical mistakes. Later on, the Court gradually dismissed such attitude of «deference» towards medical practitioners and went as far as to holding that, even in particularly difficult cases, physicians could be held
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criminally liable for minor medical mistakes – that is, also for slight negligence. This approach was further harshened by a particular understanding of the assessment of causality in medical cases. Indeed, medical practitioners were held liable whenever their conduct had «heightened the risk» of the negative event, rather than actually causing it. It is worth noting that such rigor of the case-law had been probably prompted by the difficulties faced by patients when seeking compensation for damages within a reasonable time in civil proceedings. The criminal case-law acted as a «surrogate» of civil judges; as a consequence, criminal and civil negligence in medical cases (and elsewhere) ultimately overlapped both in structure and in their envisaged purpose. The criminal law scholarship has long time stressed the inadequacies of such result, also from a constitutional perspective, and advocated that criminal liability of medical practitioners be limited to exceptional cases, i.e. only cases of gross negligence. According to Italian the scholarship, this is the only way by which criminal and civil negligence can be properly distinguished and by which criminal liability can maintain its character of culpability and ultima ratio3.
3. The recent reforms. The 2012 «Balduzzi Act»: in between guidelines and gross negligence The Parliament tried to redress this situation in 2012, with Article 3 of Law n. 189 of 2012 (the cocalled «Balduzzi Act»); this provision states that «the medical practitioner who, in the performance of his/her activities, abides by guidelines and best practices that are well-established within the scientific community shall not be held criminally liable for slight negligence»4.
Forti et al., Il problema della medicina difensiva, Pisa, 2010. 3
Manna, Medicina difensiva e diritto penale. Tra legalità e tutela della salute, Pisa, 2014. 2
Caletti, La colpa professionale del medico a due anni dalla Legge Balduzzi, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, I, 170 ss. 4
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With the brief exception of the application within the case-law of Article 2236 of the Civil Code, it was the first time that the Italian legislator had expressly stated that a higher degree of negligence be applied when evaluating criminal liability. The objective of the legislator, apart from reducing the scope of criminal liability, was to define with more clarity the negligent punishable conduct in medical cases, by pointing out – through the reference to guidelines – the rules the practitioner must abide by in order to avoid liability. In the eyes of the legislator, the reference to the guidelines would help the judge’s decision, as the assessment of the negligence could be based on written rules. Nevertheless, the interpretation of the provision has proven to be all but unambiguous. One of the first commentators even suggested that the provision be de facto avoid of meaning, putting forward an interpretation known as «in culpa sine culpa» («negligent without negligence»). The Author pointed out that a medical practitioner could not be held liable for negligence – let alone gross negligence – while at the same time abiding by guidelines, which are instruments designed to provide the best medical guidance for each disease5. According to this line of reasoning, the «Balduzzi Act» was simply void of any meaning. In reality, the Court of Cassation has long addressed the question of medical guidelines, stating that any reference thereto can never automatically lead to the conviction nor to the acquittal of the defendant. In other words, the mere fact that a medical practitioner has abided by guidelines – or has failed to do so – does not in itself exclude or prove his/her negligence: indeed, deciding whether or not to follow the guidelines is a choice of the physician, and the judge’s decision to convict or to acquit cannot be based solely on this aspect. The very nature of the guidelines and of the leges artis they try to «formalise» seem to point in this
direction: the rules provided for by the guidelines only sketch a path that the therapy can follow, thus providing general guidance, which is by definition unable to reflect the full variety of clinical cases. Therefore, the «suggestions» they provide can never be exhaustive and are ultimately undercut by the uncertainty of any specific clinical case. Fort this reason, guidelines can hardly be considered as being binding for any medical practitioner, something that would also be at odds with the physician’s freedom to advise. It is therefore well possible to be held negligent while abiding by medical guidelines6. This line of reasoning was confirmed by the Court of Cassation in the famous «Cantore» decision, issued after the approval of the «Balduzzi Act»7. According to this ruling there are essentially two cases in which a medical practitioner can be held negligent despite having followed the guidelines: «it can well be possible that the practitioner made the correct diagnose, chose the appropriate medical treatment, relied on scientifically established therapeutic strategies, identified the problem in its general outline and that nevertheless he/she made a mistake when implementing the relevant guidelines and adapting them to the specificities of the case. In this circumstance, the conduct shall have criminal relevance only when the mistake is not modest. It can also be possible that, although the guidelines suggest a certain therapeutic strategy against one particular disease, the specificities of the case require that the practitioner radically depart from the envisaged standard – that is, that he/ she do not follow the suggested course of action. Such an occurrence is not difficult to imagine, such as when other pre-existing conditions require taking other risks into account and therefore taking medical decisions that deviate from common medical practice». From this perspective, the «Balduzzi Act» specifically concerns cases of «imperfect compliance»
Caputo, Filo d’Arianna o flauto magico? Linee guida e checklist nel sistema della responsabilità per colpa medica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2012, III, 875 ss. 6
Piras, In culpa sine culpa. Commento all’art. 3, comma 1°, l. 8 novembre 2012, n. 189, in www.penalecontemporaneo.it, 26 novembre 2012. 5
7
Cass. pen, 29.1.2013, n. 16237.
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and «inappropriate compliance» with medical guidelines8. In these circumstances, it is crucial that the degree of fault be assessed, in order to understand if the negligence is gross or slight. Also this particular question has been addressed by the «Cantore decision»: despite no definition of gross negligence can be found in the Italian legislation, the ruling has outlined some parameters to assess the degree of negligence. Such evaluation is twofold. At a first level, the objective level of the «actus reus», the judge is to evaluate how much the conduct of the practitioner has departed from the required abstract standard. At a second level, the subjective side of fault, the judge’s assessment is to be tailored on the circumstances of the conduct and consider all the peculiarities of the case, in order to understand if the practitioner could be reasonably expected to meet the required standard. This second aspect has been regarded by the scholarship as one of the most interesting innovations of the «Balduzzi Act»: indeed, it requires the judge to consider a series of subjective parameters when evaluating negligence, which in the Italian criminal law has instead been understood as having a primarily objective character9.
4. Critical issues of the «Balduzzi Act» Some aspects of the 2012 reform appear to rather controversial and have indeed sparked considerable controversy at the time of the approval. First of all, the restriction of criminal liability to gross negligence concerns an excessively limited number of cases, as too many condition are required by the relevant provision: the compliance with the guidelines, the negative event, the negligence of the medical practitioner. The scope of application of the reform is further restricted by a – rather objectionable – interpretation put for for-
Pulitanò, Responsabilità medica: letture e valutazioni divergenti del Novum legislativo, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2013, IV, 73 ss.
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ward by the Court of Cassation, which held that this discipline can only apply when negligence derives from lack of skill (as mentioned above, Article 43 of the Italian Criminal Code states that «a crime shall be negligent, i.e. contrary to intention, when the event, even though foreseen, is not desired by the actor and occurs because of carelessness, imprudence, lack of skill […]»). Another controversial issue concerns the guidelines the practitioner has to follow in order to be accorded a more favourable evaluation of his/her negligence. The «Balduzzi Act» only indicates that the guidelines must be «well-established among the scientific community», but makes no reference to forms of accreditation by the competent government authorities. The world of guidelines is though very crowded: many actors are involved in their development and some of them, pharmaceutical companies in particular, do no pursue the purely therapeutic interest of the patient. According to the 2012 reform, it is to the judge – more specifically, to the appointed medical expert – to assess whether or not the relevant guidelines are scientifically established10.
5. (follows): the 2017 «Gelli-Bianco Act» In order to address these critical issues – the discipline’s limited scope of application and the difficulty in identifying the relevant medical guidelines – the Legislator has recently approved another reform of the criminal liability of medical practitioners. The reform, know as «Gelli-Bianco Act», received a rather enthusiastic welcome among politicians and medical practitioners. Such enthusiasm is though hardly justified, considering that the reform appears to be under many circumstances a clear setback with respect to the 2012 reform.
8
9
Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009.
Veneziani, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, in Marinucci, Dolcini, Trattato di diritto penale. Parte Speciale, Padova, 2003, t. 2°, I delitti colposi, 167 ss. 10
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Criminal liability
Article 6 of the «Gelli-Bianco Act» has introduced into the Italian Penal Code Article 590-sexies, under the title «Death or personal injury in a medical context». Such provision states: «(1) Whenever the acts disciplined by Articles 589 and 590 are committed in the performance of medical activities, the relevant sanctions shall apply, unless otherwise provided for by in the second paragraph of this Article. (2) In case the negative event has been caused by lack of skill, criminal liability shall be excluded whenever the actor has followed the indications coming from the guidelines that are defined and published under the law or – should these guidelines not be available – from therapeutic and medical best practices, insofar as such indications appear to be appropriate to the specificities of the relevant case»11. Notably, all reference to gross negligence has been left out. In addition, the new provision – which by the way expressly repeals Article 3 of the «Balduzzi Act» – seems to re-state the obvious: that the medical practitioner who correctly follows the guidelines that are appropriate to the medical case he/she is facing cannot be held liable. There is fundamentally no fault and, therefore, there can be no liability. The 2017 reform breaks the link between guidelines and gross negligence, which the «Balduzzi Act» had established, but maintains some of the elements that less appear to be able to restrict the scope of negligent liability. This is all the more disappointing when considering that the draft approved by the Chamber of Deputies – later modified by the Senate – was far more convincing and seemed to continue along the path set by the «Balduzzi Act». The initial draft stated that «After Article 590-bis of the Penal Code the following provision shall be introduced: Article 590-ter – (Liability for death or personal injury in a medical context) The medical practitioner who, in the execution of his/her activity, causes
Caletti-Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, in www.penalecontemporaneo.it, 9 marzo 2017. 11
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death of personal injury as a consequence of lack of skill shall be punished for the crimes provided for by Articles 589 and 590 only in case of gross negligence. To the purpose of the first paragraph, gross negligence shall be excluded whenever the best medical practices and the indications coming from medical guidelines defined and published under the law have been followed, unless otherwise required by the specificities of the relevant clinical case». Clearly, the development of such recent discipline ultimately depends on its application within the case-law. Notwithstanding the critical issues mentioned above and awaiting for the Cassation’s interpretation of the two centrepieces of the entire provision (the compliance to guidelines and the appropriateness of the same), it is fair to underline the following. The bedrock of the entire reform appears to be the development of risk management systems (the so-called «clinical risk management»), designed to prevent future accidents. This is the path chosen by the legislator in order to curb public expenditure. Indeed, the guidelines are tightly connected to both the risk management, which they represent a fundamental tool for, and the spending review, as their prerogative is to optimize public spending.
6. The constitutional legitimacy of a discipline applying exclusively to medical practitioners Before providing some concluding remarks, one particular aspect, which is shared by both reforms and characterises the overall approach of the Italian legislator, invites further reflection. Is it constitutionally legitimate, from the perspective of the principle of equality, for a more favourable discipline to apply exclusively to medical practitioners? We believe it would be preferable that the criteria of gross negligence apply in general – that is, to all cases. It is though fair to say that the medical context appears to be, at the moment, the sector that most urgently requires such a step. Indeed, taking care of a patient is completely different from – let us say – building a bridge. The human Responsabilità Medica 2017, n. 3
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Osservatorio normativo e internazionale
body is the most complicated organism of all and, with all its differences, it requires that all physiological specificities be taken into consideration. Indeed, the guidelines themselves have been said to be unable to reflect the full range of therapeutic options. It is on the basis of this argument that the – temporary – application of a more favourable discipline solely to medical practitioners appears to be constitutionally legitimate12.
7. Concluding remarks In conclusion, the recent Italian legislative reforms have proven to be far too conservative. The assessment of the medical practitioner’s criminal liability is based on guidelines, rather than on an appropriate distinction between the level of fault required in criminal and civil liability. The critical issues raised in the opening of this paper appear to be still unresolved; all the more after the 2017 reform, which has left out all reference to gross negligence. In this respect, the best hope against defensive management lies with the Clinical Risk Management practices that this reform appears to encourage.
Di Giovine, In difesa del cd. Decreto Balduzzi (ovvero: perché non è possibile ragionare di medicina come se fosse diritto e di diritto come se fosse matematica), in Arch. pen., 2014; Palermo Fabris, La responsabilità penale del professionista sanitario tra etica del diritto ed etica della medicina, in questa Rivista, 2017, n. 2, 211 ss. 12
Responsabilità Medica 2017, n. 3
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