Rivista Responsabilita medica 2/2018

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Aprile- Giugno 2018

Diritto e pratica clinica 2 RESPONSABILITÀ MEDICA

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ISSN 2532-7607

RESPONSABILITÀ MEDICA

Diritto e pratica clinica IN QUESTO NUMERO 1958-2018: sessant’anni di responsabilità medica, di Francesco Donato Busnelli La copertura dei rischi della attività sanitaria nella legge Gelli-Bianco, di Paoloefisio Corrias L’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, di Mauro Paladini La crisi dell’assicurazione per la responsabilità sanitaria, di Italo Partenza La responsabilità penale sanitaria nelle motivazioni delle Sezioni Unite, di Riccardo Borsari

Aprile-Giugno 2018 Rivista trimestrale diretta da Roberto Pucella

Pacini


INDICE Editoriale Francesco Donato Busnelli, 1958-2018: sessant’anni di responsabilità medica. Itinerari di confronto tra diritto e medicina per la tutela della salute ...................................................... pag. 91

Saggi e pareri Mirko Faccioli, La dimensione “organizzativa” del consenso informato ................................ Paoloefisio Corrias, La copertura dei rischi della attività sanitaria nella legge Gelli-Bianco..... Italo Partenza, La crisi dell’assicurazione per la responsabilità sanitaria, ovvero la necessità di un nuovo modello riparatorio........................................................................... Mauro Paladini, L’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria........ Roberto Simone, Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge GelliBianco (l. 24/2017). Il punto di vista, da vicino, del giudice................................................ Lorena Forni, Diritto, diritti, vaccini. È giusto vaccinare i minori?........................................ Anna Chiara Zanuzzi, Responsabilità sanitaria e quantificazione del danno non patrimoniale........................................................................................................................

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Giurisprudenza Cass., sez. un. pen., 22 febbraio 2018, n. 8770, con nota di commento di Riccardo Borsari, La responsabilità penale in ambito sanitario nelle motivazioni delle Sezioni Unite. Considerazioni rapsodiche................................................................................................... » 189 Trib. Matera, 19 dicembre 2017, con nota di commento di Maddalena Fascì, I difficili confini delle competenze in laboratorio: la figura del biologo............................................... » 205

Dialogo medici-giuristi Franco Maria Zambotto, Gli ostacoli della legge n. 219/2017.......................................................... » 215 Chiara Bertoncello, Luci ed ombre della legge n. 219/2017............................................................. » 217 Silvia Pari, Le opportunità (oltre gli ostacoli) della legge n. 219/2017........................................... » 221

Osservatorio medico-legale Alessia Viero, Massimo Montisci, Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli Bianco (L. 24/2017). L’apporto medico-legale............................................... » 223



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1958-2018: sessant’anni di responsabilità medica. Itinerari di confronto tra diritto e medicina per la tutela della salute*

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Editoriale Editoriale

Francesco Donato Busnelli

Professore Emerito nella Scuola Superiore Sant’Anna Sommario: 1. Dalla “responsabilità del medico” alla “responsabilità medica”. – 2. Alle origini della “storia infinita” della risarcibilità del danno biologico. – 3. Dal danno biologico al danno non patrimoniale. L’itinerario scandito dalle sentenze nomofilattiche della Corte di cassazione. – 4. Dalla “responsabilità medica” alla “responsabilità sanitaria”. – 5. La svolta giurisprudenziale di fine secolo: la responsabilità da “contatto sociale”. – 6. La Corte costituzionale e il principio di autodeterminazione. – 7. Due itinerari a confronto: “medicina dell’obbedienza giurisprudenziale” e “risveglio del legislatore”. – 8. Dalla “legge Balduzzi” alla “legge Gelli-Bianco”. – 9. “Legge Gelli-Bianco” e Loi Kouchner. La legge italiana a confronto con il “modello d’oltralpe”. – 10. L’ammonimento di Richard Epstein.

1. Dalla “responsabilità del medico” alla “responsabilità medica” Chi si chiede se l’evoluzione della responsabilità medica abbia seguito una linea continua oppure se si sia sviluppata per salti – cioè con interruzioni e “secche” riprese – deve guardare al passato. Chi si pone in una prospettiva d’indagine storica degli ultimi sessant’anni potrebbe, ragionevolmente, concludere per la prevalenza di cambiamenti, segnati da sviluppi “a gradini”. Nell’arco di questi decenni, infatti, si sono registrate – tanto in dottrina quanto in giurisprudenza – prese di posizione che potrebbero essere considerate momento indicativo di diverse fasi di una metamor-

fosi; cioè del susseguirsi di stadi distinti che a loro volta potrebbero indurre a chiedersi se abbia un senso parlare di continuità. Nel passare in rassegna questi stadi che scandiscono il percorso nel tempo della responsabilità medica occorre prendere le mosse dal 1958, anno in cui venne pubblicato il libro di un autorevole civilista milanese – Giovanni Cattaneo – che aveva incentrato la propria ricerca sulla “responsabilità del professionista”1, dedicando allo studio della “responsabilità del medico” un’ampia e approfondita trattazione, articolata per argomenti scelti per la loro attualità: “limiti di liceità dell’attività medica; il consenso del paziente; la responsabilità per inadempimento e la responsabilità per atto illecito;

Il saggio è destinato agli “Scritti in onore di Roberto Pardolesi”.

1 Cattaneo, La responsabilità del professionista, Milano, 1958.

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la colpa nell’esecuzione della prestazione medica; responsabilità degli ospedali e delle case di cura”. In quella preziosa ricerca si colgono in particolare due aspetti di novità. Un primo profilo è da individuarsi nell’apertura alla dimensione deontologica ai fini della valutazione dell’operato del sanitario; si recuperano regole extralegali per verificare la correttezza della prestazione anche in termini di attesa del paziente. Un secondo profilo – significativo soprattutto in un periodo di c.d. paternalismo medico – è poi rappresentato dalla valorizzazione del consenso del paziente; per la prima volta viene espressamente dato rilievo alla sua posizione di “creditore”, riportando su di un piano paritetico la relazione di cura così da affrancare la persona curata da una posizione di soggezione inconsapevole alle scelte terapeutiche e d’intervento di cui il curante è “debitore”.

2. Alle origini della “storia infinita” della risarcibilità del danno biologico Gli anni ’70 vedono l’inizio di una vicenda giurisprudenziale che prende le mosse dalla rivolta di una “giurisprudenza alternativa” promossa dal Tribunale di Genova2, seguito dal Tribunale di Pisa3, che sostenevano la piena risarcibilità del danno alla salute (o biologico) in contrapposizione all’indirizzo (allora) dominante in dottrina come in giurisprudenza4. Radicale e ammonitrice fu la reazione: “Errare humanum est; perseverare diabolicum”5. Ma i giudici “riottosi” perseverarono, avvalendosi del supporto scientifico tratto dai risultati di una ri-

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cerca pisana pubblicati nel 1978 in un volume su “Tutela della salute e diritto privato”6: il quale valse a corroborare, al tempo stesso, la conclusione vittoriosa, con l’avallo della Corte costituzionale (sentenza Dell’Andro: 1986)7, della sfida alla piena risarcibilità del danno alla salute (o biologico), e lo sviluppo di un nuovo percorso a spettro più ampio destinato a interessare l’arco dei due secoli scandendo l’evoluzione di quella che è stata definita “l’infinita storia del danno non patrimoniale”8. È una storia movimentata, altalenante, ben lontana dal potersi dire conclusa. Fino alla fine del secolo scorso, la “regia” è rimasta nelle salde pronunzie della Corte costituzionale che, procedendo all’insegna della continuità con la sentenza Dell’Andro, hanno sviluppato e consolidato per un verso la distinzione tra danno biologico e danno morale – approfondendo il senso e i limiti della distinzione tra l’art. 2043, suscettibile in linea di massima di estensione ai “danni non patrimoniali connessi alle violazioni del diritto alla salute”, e l’art. 2059, “interpretato in senso ristretto al danno morale soggettivo” (sentenza Mengoni: 1994)9 –, e per altro verso quella tra “il diritto al risarcimento pieno del danno riconosciuto dall’art. 2043 e il diritto a un equo indennizzo, discendente dall’art. 32 Cost. in collegamento con l’art. 2” (sentenza Zagrebelsky: 1996)10.

Aa. Vv., Tutela della salute e diritto privato, Busnelli e Breccia (a cura di), Varese, 1978 e, ivi, 515 ss., Busnelli, Diritto alla salute e tutela risarcitoria. 6

Corte cost., 14.7.1986, n. 184, in Foro it., 1986, I, 2053 ss.: “Il danno biologico – distinto sia dai danni morali sia da quelli patrimoniali in senso stretto – deve essere risarcito sulla base del combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 c.c.”. 7

Travaglino, Il danno alla persona tra diritto e realtà, in questa Rivista, 2017, 73. 8

Trib. Genova, 25.5.1974, in Giur. it., 1975, 53 ss. con il commento favorevole di Bessone, Roppo, Lesione della integrità fisica e “diritto alla salute”.

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Trib. Pisa, 10.3.1979, in Resp. civ. e prev., 1979, 356, con nota di Ponzanelli, Fermenti giurisprudenziali toscani in tema di valutazione del danno alla persona. 3

4 App. Genova, 17.7.1975, in Giur. it., 1976, 443 ss., con nota contraria di Alpa, Danno “biologico” e diritto alla salute. Un’ipotesi di applicazione diretta dell’art. 32 della Costituzione.

Scalfi, Errare humanum est, perseverare diabolicum, in Resp. civ. e prev., 1976, 469 ss.

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Corte cost., 27.10.1994, n. 372, in Resp. civ. e prev., 1994, 976 ss., con nota di Navarretta, Dall’esperienza del danno biologico da morte all’impianto dogmatico sul danno alla persona: il giudizio della Corte costituzionale, 1006, la quale argomenta nel senso che “la confluenza del danno alla salute nella disposizione restrittiva dell’art. 2059 c.c. finirebbe in realtà per eludere la serietà dell’accertamento medico e per spostare la quantificazione del pregiudizio dall’equità guidata, propria del danno alla salute, all’equità pura, tipica del danno morale”.

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Corte cost., 18.4.1996, n. 118, in Resp. civ. e prev., 1996,


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3. Dal danno biologico al danno non patrimoniale. L’itinerario scandito dalle sentenze nomofilattiche della Corte di cassazione Con l’inizio del nuovo secolo “la Corte costituzionale cede il passo alla Corte di cassazione”11, la quale si attribuisce la prerogativa di gestire in piena autonomia la regolamentazione del danno alla persona nel procedere con le sue sentenze lungo un itinerario accidentato ma tendenzialmente orientato verso il superamento della centralità del danno biologico a favore della risarcibilità di un danno non patrimoniale dalle dimensioni sempre più ampie e inesplorate, inseguendo l’obiettivo (o il miraggio?) della c.d. integralità del risarcimento. Tre sono i punti di svolta più significativi, che rievocherò con una terminologia che mi appartiene. a) I “chiaroscuri d’estate” 2003. Sono le “sentenze gemelle” della terza Sezione12 che, muovendo dall’idea che “la tradizionale restrittiva interpretazione dell’art. 2059 … non può essere ulteriormente condivisa”, passano ad affermare che “una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante la riserva di legge di cui all’art. 185 c.p. se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti”, per poi precisare che in questo contesto deve essere ricondotta la tutela risarci-

576 ss.; in Foro it., 1996, I, 2326 ss., con nota di Ponzanelli, “Pochi, ma da sempre”: la disciplina sull’indennizzo per il danno da vaccinazione, trasfusione o assunzione di emoderivati al primo vaglio di costituzionalità, il quale – nel commentare il riferimento della sentenza al concetto di “equo ristoro derivante dall’inderogabile dovere di solidarietà” – osserva come “questa riduzione, basata su una valutazione standardizzata del pregiudizio, … trova la sua ragione giustificativa nel fatto che il sistema di sicurezza sociale basa il suo funzionamento su un novero più ristretto di risorse economiche, laddove il sistema di responsabilità civile conosce soltanto i limiti propri di ogni sistema di mercato, tenendo ad assicurare al soggetto danneggiato una riparazione di tipo integrale”. Ponzanelli, Ricomposizione dell’universo non patrimoniale: le scelte della Corte di cassazione, in Danno e resp., 2003, 829.

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Cass., 31.5.2003, nn. 8827/8, in Danno e resp., 2003, 816 ss., con nota di Busnelli, Chiaroscuri d’estate. La Corte di cassazione e il danno alla persona. 12

toria del “cosiddetto danno biologico”, abbandonando un orientamento – quello collaudato dalla Corte costituzionale – che “non appena ne sarà fornita l’occasione, merita di essere rimeditato”. E i “chiaroscuri” possono riferirsi anche alla “ancillare” decisione della Corte costituzionale (sentenza Marini)13 che, riconoscendo a dette sentenze “l’indubbio pregio di ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona”, prendono atto della “astratta previsione di una norma [l’art. 2059 appena riformulato] tesa a ricomprendere … sia il danno morale soggettivo …, sia il danno biologico in senso stretto … conseguente ad un accertamento medico [il corsivo è aggiunto], sia il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”. b) Le quattro “sentenze di San Martino”14. L’estate di San Martino, com’è noto, è per sua natura ingannevole ed effimera. Tali sono risultate, a distanza di tempo, queste sentenze delle Sezioni Unite, nonostante l’imponente, e apprezzabile, sforzo nomofilattico che le caratterizza15. È ingannevole radicalizzare il principio dell’integralità del risarcimento del danno, quando ci si riferisce indistintamente a una categoria generale e unitaria di danno non patrimoniale, “non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate”: basti riflettere, per esempio, sull’evidenza che “non esiste una tabella universale della sofferenza”16. Effimera risulta d’altro canto la pretesa di smentire la peculiarità di figure di danno non patrimoniale che il diritto recepisce da altre

13 Corte cost., 11.7.2003, n. 233, in Danno e resp., 2003, 939 ss., con nota di Ponzanelli, La Corte costituzionale si allinea con la Corte di cassazione. 14 Cass., sez. un., 11.11.2008, nn. 26972/5, in Aa.Vv., Il danno non patrimoniale. Guida commentata alle decisioni delle S.U. 11 novembre 2008, nn. 2672/3/4/5, Milano, 2009, e ivi il commento di Busnelli, … e venne l’estate di San Martino, 91 ss.

Busnelli, Non c’è quiete dopo la tempesta. Il danno alla persona alla ricerca di uno statuto risarcitorio, in Riv. dir. civ., 2012, I, 129 ss. 15

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Travaglino, Il danno alla persona, cit., 77.

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discipline scientifiche, come accade quando si scrive che “è solo a fini descrittivi che nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico”, e si aggiunge un argomento fallace quanto inutile (la non vincolatività dell’accertamento medico-legale “al quale correntemente si ricorre”). Vero è, invece, che il danno biologico incontra “il limite della patologia”, in ordine al quale “si tratta poi di comprendere il ruolo che riveste la consulenza tecnica d’ufficio”, fermo restando il vantaggio indiscutibile offerto “dalla scienza medico-legale, capace di paragonare su una base omogenea di valori un caso con l’altro, il che agevola enormemente il processo di conversione monetaria del danno alla salute”17. c) Le “tabelle milanesi”. Per ovviare al diffondersi, nella prassi, di tabelle risarcitorie adottate dai singoli uffici giudiziari, spesso divergenti tra di loro, la Corte di cassazione18 ha ritenuto che fosse “suo specifico compito … fornire ai giudici di merito l’indicazione di un unico valore medio di riferimento da porre a base del risarcimento del danno alla persona, quale che sia la latitudine in cui si radica la controversia”, ed ha pertanto deciso che “i valori di riferimento per la liquidazione del danno alla persona adottati dal Tribunale di Milano … costituiranno d’ora innanzi [2011] il valore da ritenersi ‘equo’ ”. Conseguentemente – conclude la sentenza – le “tabelle milanesi” (“significativamente denominate, in ossequio ai principi enunciati dalle Sezioni Unite nel 2008, non più ‘Tabella per la liquidazione del danno biologico’ bensì ‘Tabella per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante dalla lesione all’integrità psico-fisica’”) vengono assunte, “con operazione di natura sostanzialmente ricognitiva, a parametro in linea generale attestante la conformità della valutazione del danno in parola alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056, comma

Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la complessità dei danni non patrimoniali, in Resp. civ. e prev., 2009, 74.

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2°, c.c.”, essendo a tali tabelle “già nei fatti riconosciuta una sorta di vocazione nazionale”. Poteva sembrare che la “storia infinita” del risarcimento del danno alla persona finisse qui. Non è stato così. Il 2011, l’anno delle “tabelle milanesi”, è stato anche l’anno in cui si è scatenata una nuova “tempesta”: la Suprema Corte – o, più precisamente, la terza Sezione della stessa – è diventata una palestra di sentenze che veicolano dottrine agevolmente ricollegabili alla diversa personalità scientifica dei relatori. Disorientante è la vistosa e difforme libertà interpretativa dei fragili capisaldi enucleati dalle Sezioni Unite, talvolta sconfinante in un criptico travisamento o in un esplicito superamento. E sempre più bussava alle porte del diritto e delle sue categorie formali – insiste Giacomo Travaglino – “la doppia dimensione fenomenologica del danno alla persona: la sofferenza interiore e le dinamiche relazionali di una vita che cambia”19.

4. Dalla “responsabilità medica” alla “responsabilità sanitaria” Riprendendo il filo del discorso, gli anni ’80 ci conducono nuovamente a Pisa, dove alla (odierna) Scuola superiore Sant’Anna si era svolto un convegno che ebbi l’idea di promuovere d’intesa con Gianguido Scalfi, allora direttore della rivista “Responsabilità civile e previdenza”, e come tale sensibile non solo alle tematiche della responsabilità civile ma anche alle sempre più strette implicazioni assicurative. Quel convegno – che non a caso avevamo intitolato “La responsabilità medica”20 – voleva essere occasione di riflessione in una prospettiva che superava la dinamica – e la patologia – del rapporto tra il singolo sanitario e chi gli chiedeva una prestazione di diagnosi e cura. Vi parteciparono autorevoli studiosi (oltre a Giovanni Cattaneo, Guido Calabresi e Pietro Rescigno), giovani docenti destinati a un luminoso futuro (Marcello

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Cass., 7.6.2011, n. 12408, in Danno e resp., 2011, 939 ss., con nota di Ponzanelli, Le tabelle milanesi, l’inerzia del legislatore e la supplenza giurisprudenziale.

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Travaglino, Il danno alla persona tra diritto e realtà, cit., 74 e 76. 19

I cui atti sono raccolti in Aa. Vv., La responsabilità medica, Busnelli, Scalfi (a cura di), Milano, 1982.

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Clarich, Antonio Gambaro, Massimo Paradiso) e molti allievi della Scuola. La misura del mutamento d’impostazione ben può essere apprezzata dalla lettura di alcuni passi di presentazione dell’iniziativa: “Parlando di responsabilità medica, si vuol significare anzitutto che non si è più in presenza di un semplice capitolo di una trattazione generale, dedicata alla responsabilità del professionista, ma che qui viene in considerazione, piuttosto, un aspetto della tutela della salute dell’individuo, in relazione ai problemi connessi con lo svolgimento di un’attività medica o, più in generale, di un trattamento sanitario. È mutato il quadro normativo di riferimento, il quale non si esaurisce più nella logica patrimonialistica e sinallagmatica della disciplina di un contratto d’opera intellettuale, ma tende, irreversibilmente, a coordinarsi con i principi e con gli obiettivi del Servizio sanitario nazionale, ora specificati negli articoli 1 e 2 della legge n. 833 del 1978, e a trarre ispirazione diretta dalla previsione fondamentale dell’articolo 32 della Costituzione”. La considerazione del quadro costituzionale e della disciplina primaria d’attuazione della Carta fondamentale portavano a maturare una diversa idea di salute; questa passava da uno stadio in cui aveva una dimensione essenzialmente conservativa ad uno in cui la si concepiva anche in termini di proiezione, orientata verso un obiettivo di benessere, ed il tutto in coerenza con l’evoluzione di una sensibilità diffusa al livello ultranazionale. Il diritto alla salute, unico diritto ad essere espressamente qualificato come “fondamentale” dalla nostra Carta costituzionale (art. 32), e al tempo stesso significativamente tutelato come “interesse della collettività”, supera gli originari ed angusti confini segnati – in negativo – dall’assenza di malattia per diventare espressione di un diritto alla “sanità”, a garanzia del miglior stato di benessere del paziente; e la responsabilità medica si evolve in responsabilità sanitaria, capace di “garantire cure gratuite agli indigenti”. E ciò, è da sottolineare, così allineandosi alle indicazioni dell’atto costitutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità – del 1948 – ove la salute è intesa come “(…) stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in un’assenza di malattia o di infermità”.

5. La svolta giurisprudenziale di fine secolo: la responsabilità da “contatto sociale” Procedendo per “salti storici”, ci si imbatte in una svolta giurisprudenziale di fine secolo (correva l’anno 1999), che rivoluzionò il “piccolo mondo antico” della responsabilità medica, tradizionalmente ancorata alla distinzione tra una responsabilità contrattuale delle strutture per il danno subito dal paziente (ai sensi dell’art. 1218 c.c.), ed una responsabilità extracontrattuale del medico dipendente ospedaliero chiamato a rispondere della propria colpa (ai sensi dell’art 2043 c.c.). La terza Sezione della Corte di cassazione21, criticando frontalmente l’indirizzo tradizionale – “considerare proprio colui (il medico) che si presenta al paziente come apprestatore di cure, all’uopo designato dalla struttura sanitaria, come l’autore di un qualsiasi fatto illecito (un quisque) sembra cozzare contro l’esigenza che la forma giuridica sia il più possibile aderente alla realtà materiale” – e prendendo spunto da “un orientamento della dottrina [secondo cui] nei confronti del medico, dipendente ospedaliero, si configurerebbe pur sempre una responsabilità contrattuale nascente da ‘un’obbligazione senza prestazione’22, giunse ad affermare il principio secondo cui “la responsabilità del medico dipendente ospedaliero deve qualificarsi contrattuale … non già per l’esistenza di un pregresso rapporto obbligatorio insorto tra le parti, bensì in virtù di un rapporto contrattuale di fatto originato dal contatto sociale”. Il nuovo principio giurisprudenziale, pur manifestando fin dall’origine “la fragilità del suo impianto teorico”23 (e il superficiale provincialismo di un generico richiamo a una “espressione – contatto sociale – risalente agli scrittori tedeschi”), non tar-

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Cass., 22.1.1999, n. 589, in Foro it., 1999, I, 3332 ss.

Trasparente è il riferimento a Castronovo, L’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, in Studi in onore di Luigi Mengoni, Milano, 1995, 147 ss.; Id., La nuova responsabilità civile, III, Milano, 2006, 443 ss. e 467.

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Di Ciommo, Note critiche sui recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità del medico ospedaliero, in Foro it., 1999, I, 3336.

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dò ad attecchire, soprattutto in virtù di una ratio di facilitazione sul piano probatorio della parte – il paziente – considerata “debole”; e passò ad espandersi “in tanti settori del sistema civilistico e anche amministrativo, dimostrando un tipo di modernizzazione, anche in uso in altri paesi europei”24. Ma ad una fase – durata almeno tutti i primi dieci anni del nuovo secolo – di “irresistibile ascesa” è subentrato “un rapido declino”25. A un certo punto, il vento è cambiato. L’obiettivo di tutela della parte “debole” si è venuto modificando, spostandone il fulcro dalla persona del paziente alla corporazione dei medici: i quali avevano progressivamente manifestato il loro disagio nei confronti di una giurisprudenza passata dal tradizionale “paternalismo” a un opposto atteggiamento di “accanimento giudiziale”26, provocando una reazione “barricadiera” a cui venne dato il nome di “medicina difensiva”. Ma siccome l’individuazione del soggetto “debole”, e in quanto tale bisognoso di tutela, postula una scelta di politica del diritto, prioritariamente affidata al legislatore, è stato necessario attendere la seconda decade del secolo nuovo perché la questione trovasse una soluzione (almeno apparentemente) definitiva.

6. La Corte costituzionale e il principio di autodeterminazione L’evoluzione del pensiero sempre attento alla tutela del paziente (qui non tanto sul piano della “debolezza” quanto piuttosto su quello della “libertà”) è proceduta – si potrebbe dire – in modo “carsico” per riaffiorare qualche anno più tardi – nel 2008 – tra le righe di una sentenza della Corte costituzionale, chiamata a valutare la compatibilità con la Carta fondamentale di una disposizione regionale che pretendeva di stabilire minuziose modalità burocratiche per la prestazione del consenso da parte dei genitori o tutori in relazione a

Carbone, La responsabilità del medico pubblico dopo la legge Balduzzi, in Danno e resp., 2014, 471.

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taluni trattamenti sanitari con sostanze psicotrope su bambini e adolescenti27. Con quella pronuncia d’illegittimità costituzionale la Consulta, nel rivendicare la competenza esclusiva del legislatore statale in ordine alla “conformazione del consenso informato [come] principio fondamentale in materia di tutela della salute”, ne ha sottolineato “la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute”. Il riferimento al principio di “autodeterminazione” (termine, questo, per la verità ignoto al lessico della Costituzione) nella motivazione di quella sentenza è servito a far nascere un indirizzo interpretativo vòlto a promuovere il valore dell’autonomia individuale come fonte di diritto “rivoluzionaria” in grado di provocare un “trasferimento di poteri” che, “modificando le gerarchie sociali ricevute”, varrebbe a conferire al singolo individuo “il diritto al governo della propria vita, al pieno esercizio della sovranità sul proprio corpo”28. Per la verità, il messaggio “rivoluzionario” che viene desunto da questa sentenza, così come dalle argomentazioni addotte, un anno prima, dalla Corte di cassazione per determinare i presupposti e i limiti di una notissima decisione in materia di interruzione dei trattamenti di supporto vitale (con riferimento al noto caso concernente Eluana Englaro)29, non trova puntuale riscontro nelle rispettive rationes decidendi: dalla prima delle quali si evince chiaramente, e semplicemente, che l’autodeterminazione desumibile dall’art. 32 Cost. è essenzialmente autodeterminazione terapeutica, imperniata su un consenso (informato), e come tale destinata a consentire di chiudere, con un rifiuto, una vicenda procedimentale aperta da una proposta del medico in presenza di una situazione patologica; mentre la seconda, lungi dal sancire un antagonistico “trasferimento di poteri” dal medico al singolo individuo, rivendica e ribadi-

Corte cost., 23.12.2008, n. 438, in Giur. cost., 2008, 4952.

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Barcellona, Trattato della responsabilità civile, Torino, 2011, 534.

Rodotà, Il nuovo Habeas corpus: la persona costituzionalizzata e la sua autodeterminazione, nel Trattato di biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, Ambito e fonti del biodiritto, Rodotà e Tallacchini (a cura di), Milano, 2010, 176 ss.

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Barni, La responsabilità medica verso il difficile approdo all’assicurazione obbligatoria, in Resp. civ. e prev., 2000, 830 ss.

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Cass., 16.10.2007, n. 21748, in Foro it., 2007, I, 3025 ss.


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sce “l’istanza personalistica [che sta] alla base del principio del consenso informato”. Sta di fatto, comunque, che codesto “messaggio rivoluzionario” si è ulteriormente consolidato imprimendo una nuova svolta al confronto tra diritto e medicina sul versante della proiezione giuridica della tutela della salute: una proiezione che si è venuta sdoppiando lungo due itinerari paralleli, ma autonomi nei loro presupposti e nelle loro modalità di sviluppo. Negli ultimi anni, parallelamente a un “risveglio del legislatore, che ha mostrato di voler rimettere i panni di autentico signore del diritto”30, la giurisprudenza costituzionale ha promosso una tutela della salute (in particolare, psichica) basata su scelte personali di individui (non necessariamente pazienti in senso stretto) – come, emblematicamente, la scelta di una coppia di diventare genitori –, “espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi”31, che ha rinvenuto il suo fondamento nelle sentenze impegnate in un progressivo “intervento demolitorio”32 di una legge “autoritaria”: la legge n. 40/2004, dettante “norme in materia di procreazione medicalmente assistita”33. La programmata “demolizione” ha assunto nel giro di pochi anni la dimensione di una crescente erosione, da parte della Corte costituzionale, di competenze istituzionalmente ascrivibili al legislatore. Se la prevedibilità medica di un possibile pregiudizio alla salute della donna ha potuto offrire una plausibile giustificazione – anche a costo di introdurre “una deroga al principio generale di divieto di crioconservazione” degli embrioni, non potendo immaginare, forse, il rischio di aprire nel tempo una voragine (una crescente massa di embrioni c.d. soprannumerari) – alla dichiarazione di

Pardolesi, Simone, Nesso di causa e responsabilità della struttura sanitaria: indietro tutta!, in Danno e resp., 2018, 6. 30

illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 32 Cost. della norma, palesemente “autoritaria”, che condizionava l’accesso alla procreazione medicalmente assistita di tipo omologo all’impianto in utero di un numero di embrioni “comunque non superiore a tre” (art. 14, comma 2°)34, quanto meno discutibile appare l’avvenuta caducazione, mediante analoga decisione, del divieto legale di ricorso alla p.m.a. di tipo eterologo ai sensi dell’art. 4, comma 3°, giudicato lesivo della “libertà fondamentale di autodeterminarsi e di formare una famiglia con figli”, nonché fonte di possibile pregiudizio alla “salute della coppia, anche in riferimento all’accertamento dell’esistenza di una lesione del diritto alla salute psichica”35. Il novello principio di autodeterminazione, insomma, viene disinvoltamente inteso come “traduzione” della norma europea che assicura a ogni individuo “il rispetto della sua vita privata e familiare” (art. 8 della CEDU, non a caso contemplato dalla decisione in esame per “assorbimento dei motivi di censura”) e assunto come fondamento nostrano di un diritto “to fulfil the whish for a child”. Dalla “cultura del desiderio” alla “cultura dello scarto” il passo, poi, è breve; ed è stato rapidamente compiuto dalla sentenza che, riconoscendo alle coppie fertili affette da gravi patologie genetiche ereditarie l’obiettivo di procreare un figlio “sano”, ha ravvisato nella legge 40 (artt. 1, commi 1° e 2°, e 4, comma 1°) una violazione dell’art. 32 Cost. “per il mancato rispetto del diritto alla salute della donna portatrice (ella o l’altro soggetto della coppia) della malattia”, senza porsi il problema di riscontrare, “in termini di bilanciamento, un’esigenza di tutela del nascituro [scartato], il quale sarebbe comunque esposto all’aborto”36. La progressiva demolizione dell’impianto della legge 40 ad opera di una Corte costituzionale convinta di poter fare a meno del legislatore ha finalmente portato a una capitolazione, che non ha messo in discussione l’asse costituito dal binomio “autodeterminazione – salute” (della

31 Corte cost., 10.6.2014, n. 162, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 802 ss. 32 Corte cost., 8.5.2009, n. 151, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 1123 ss.

Alle sentenze appena citate hanno fatto seguito Corte cost., 5.6.2015, n. 96 (in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 933 ss.) e Corte cost., 13.4.2016, n. 84, in Foro it., 2016, I, 1509 ss. 33

34

Corte cost., 8.5.2009, n. 151, cit.

35

Corte cost., 10.6.2014, n. 161, cit.

36

Corte cost., 5.6.2015, n. 96, cit.

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donna o della coppia), ma ne ha evidenziato le conseguenze negative: in particolare, “la realtà concreta dell’esistenza, nei centri italiani di procreazione assistita, di migliaia di embrioni destinati irrimediabilmente al deterioramento”37. La Corte costituzionale, chiamata a risolvere al riguardo una questione di legittimità costituzionale sollevata fin dal 2012 da un’ordinanza del tribunale di Firenze38 – “l’annosa questione … inerente il [sic] bilanciamento costituzionalmente ragionevole tra tutela dell’embrione crioconservato e interesse alla ricerca scientifica finalizzata alla tutela della salute (individuale e collettiva)” – ha deciso di “gettare la spugna” invocando, finalmente, l’intervento del legislatore: “una scelta di così elevata discrezionalità, per i profili assiologici che la connotano, si sottrae, per ciò stesso, al sindacato di questa Corte”39. Ragione della capitolazione è, dunque, una “scelta tragica” che consegue al “crescendo” demolitorio della legge 40; non certo, un ripensamento circa i limiti del principio di autodeterminazione: il quale, anzi, si è “progressivamente esteso fino a sfociare nel volontarismo puro, smarrendosi entro un individualismo esasperato e assolutizzante”40. Non a caso, un appello indiscriminato a tale principio nel campo della responsabilità medica tende ora ad assumere un più generale riscontro nella prospettiva di una “medicina potenziativa”, implicante – secondo una norma introdotta nell’ultima versione del Codice di deontologia medica – “interventi medici finalizzati al potenziamento delle fisiologiche capacità psico-fisiche” richiesti da un “individuo” – ovviamente, sano – “nel rispetto dell’autodeterminazione della persona” (art. 76, comma 1°)41.

37 Pardini, Libertà di ricerca scientifica e tutela dell’embrione, in Nuova giur. civ. comm., 2016, II, 796.

Trib. Firenze, 12.12.2012, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 598. 38

39

Corte cost., 13.4.2016, n. 84, in Foro it., 2016, I, 1509.

Gorgoni, La responsabilità in ambito sanitario tra passato e futuro, in questa Rivista, 2017, 30 ss.

40

Busnelli, Il fattore “potenziamento”: salute, medicina e deontologia al vaglio delle nuove tecnologie, in questa Rivista, 2017, 315 ss.

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7. Due itinerari a confronto: “medicina dell’obbedienza giurisprudenziale” e “risveglio del legislatore” Cruciale è, dunque, il momento attuale del confronto tra diritto e medicina sul versante della proiezione giuridica della tutela della salute. All’itinerario giurisprudenziale che si pone idealmente “dalla parte del paziente” – considerato come “parte debole”, talvolta come “consumatore” – fino al punto di fondare sul principio dell’autodeterminazione individuale il fulcro ideale di una tutela della salute congeniale a una “medicina dell’obbedienza giurisprudenziale”42 si giustappone – come si è già avuto occasione di accennare – l’itinerario di un “nuovo legislatore” che aspira a porsi super partes (ma, forse, più precisamente a servizio dell’“interesse della collettività”), avviando dapprima (2012) una riforma “per frammenti” della disciplina della “responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie” (c.d. Legge Balduzzi43) per poi procedere, dopo un lustro (2017), a una riconsiderazione innovativa di tale disciplina (c.d. Legge Gelli-Bianco44) ponendosi l’obiettivo pragmatico “di garantire la sicurezza delle cure come parte costitutiva del diritto alla salute, aumentando le garanzie e le tutele per gli esercenti le professioni sanitarie e assicurando al paziente la possibilità di essere risarcito in tempi più rapidi e soprattutto certi, a fronte di danni sanitari eventualmente subiti”45.

Fiori, La medicina delle evidenze e delle scelte sta declinando verso la medicina dell’obbedienza giurisprudenziale”, in Riv. it. med. leg., 2007, 925.

42

43 D.l. 13 settembre 2012, n. 158; l. 8 novembre 2012, n. 189 (“Conversione in legge, con modificazioni”). 44

L. 8 marzo 2017, n. 24.

Gelli, Prefazione, in Nocco, Lovo (a cura di), L’erogazione della prestazione medica tra diritto alla salute, principio di autodeterminazione e gestione ottimale delle risorse sanitarie, Il Sole 24ORE – E-Book, 2017, 4.

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8. Dalla “legge Balduzzi” alla “legge Gelli-Bianco” È difficile, anche perché è troppo presto, stabilire se, e in che misura, questo obiettivo possa dirsi perseguibile; e, soprattutto, se esso sia idoneo a realizzare quella istanza di giustizia che richiederebbe il superamento dell’attuale mancanza di dialogo tra itinerari che si pongono per strade diverse alla ricerca di una ottimale tutela della salute. È possibile, invece, prendere atto anzitutto di alcuni dati significativi rilevabili da un confronto tra i due interventi legislativi, che mettono in evidenza come il secondo abbia apportato correzioni, precisazioni e integrazioni ai frammenti di riforma introdotti dal primo, tenendo conto delle criticità emerse nel frattempo tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. Val la pena di segnalare qui di seguito i più rilevanti. a) L’incondizionata subordinazione del medico alle “linee guida e buone pratiche”, prevista dalla legge Balduzzi (art. 3, comma 1°) come garanzia di esenzione dalla responsabilità penale per colpa lieve, che aveva suscitato critiche pressoché unanimi, è stata trasformata, dalla legge Gelli – Bianco, in una esclusione della punibilità “a causa di imperizia” facendo salva una valutazione delle “specificità del caso concreto” (art. 6). b) Le linee guida e le buone pratiche – ora distinte, queste ultime, in b.p. “sulla sicurezza nella sanità” (art. 3) e b.p. “clinico-assistenziali” (art. 5) – non sono più semplicemente avallate da un mero accreditamento da parte di una generica “comunità scientifica” ma vengono sottoposte ad apposite discipline demandate alla decretazione ministeriale (artt. 3 e 5). c) La salvezza del riferimento alle “specificità del caso concreto” diviene principio generale che funge da limite all’obbligo del professionista di attenersi, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie, alle “raccomandazioni previste dalle linee guida” (art. 5). “Il riformatore le ha degradate a raccoman-

dazioni” 46, che il medico non può ignorare ma che – come ha avuto modo di affermare la Corte di cassazione47 – “non fanno venir meno l’autonomia del professionista nelle scelte terapeutiche”. È da ritenersi, pertanto, “conclusa la stagione che ha visto contrapporsi i fautori delle linee guida e i detrattori: le linee guida formalmente entrano nel sistema delle fonti del diritto, ma sostanzialmente conservano una cogenza e un’efficacia diversa da quella di qualsiasi altra norma di diritto positivo, sia per efficacia che per origine”48. d) La legge Gelli-Bianco è intervenuta risolutamente per sciogliere il groviglio normativo creato dalla “legge Balduzzi”, in ordine alla natura giuridica della responsabilità civile del professionista, con l’avvenuta sostituzione in meno di due mesi del riferimento all’art. 1176 – nella chiara prospettiva funzionale di una responsabilità contrattuale (art. 3, comma 1°, del decreto legislativo n. 158/2012) – con la perentoria, quanto ambigua affermazione che “resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043” (stessa norma – art. 3 – modificata in sede di conversione da parte del “frettoloso legislatore”49). Nel chiarire in modo inequivocabile che “l’esercente la professione sanitaria risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043” l’art. 7, comma 3°, ha posto fine a una breve stagione caratterizzata da sentenze di merito disorientate e contraddittorie nonché al triste spettacolo di una pronunzia della Corte di cassazione che non esitava a stabilire e a confermare il principio che “la materia della responsabilità civile segue le sue regole consolidate … anche per la c.d. responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale”50. La risolutezza del

46

Gorgoni, op. cit., 24.

V., per tutte, Cass. pen., 19.9.2012, n. 35922, in Dir. pen. proc., 2013, 191 ss. 47

Franzoni, Colpa e linee guida nella nuova legge, in Danno e resp., 2017, 276 ss.

48

49

Carbone, La responsabilità del medico pubblico, cit., 387.

Cass., 19.2.2013, n. 4039, in Danno e resp., 2013, 367. Ma gli strascichi del precedente orientamento nonostante tutto continuano: Cass., 9.11.2017, n. 26517, in Giur. it., 2017, I, 2567 s.: (“In tema di responsabilità medica non è onere dell’attore provare la colpa del medico”). 50

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chiarimento, rafforzata dalla “ombrosa e inelegante” sottolineatura della natura “imperativa” della norma chiarificatrice51 – che rivela una sorda vis polemica nei confronti di una giurisprudenza rimasta affezionata alla teoria del “contatto sociale”–, ha indotto a considerare quest’ultima come “rigetto ‘locale’ del contatto sociale qualificato” imposto allo scopo di “restituire serenità agli esercenti la professione sanitaria, almeno sul versante della loro esposizione risarcitoria”52; ma potrebbe anche venire interpretata estensivamente come definitivo congedo (a mio avviso, senza rimpianto53) dalla teoria della c.d. responsabilità civile da contatto sociale, pur se non manca un recente invito a “rimeditare l’orientamento, radicalmente critico nei confronti della medesima, che sembra essersi da ultimo accreditato in dottrina”54. Val la pena, in ogni caso, di menzionare al riguardo l’evoluzione in corso nell’esperienza francese, caratterizzata da una tradizione giurisprudenziale risalente al famoso arrêt Mercier55 a favore della responsabilità contrattuale. Orbene, la riforma legislativa del code civil in corso con riferimento alla responsabilità civile sembra imprimere una svolta decisiva nella direzione extracontrattuale: l’art. 1233, comma 2°, del progetto di riforma (pubblicato il 13 marzo 2017) conferma la regola innovativa proposta dall’Avant-Projet del 2016 secondo cui “le dommage corporel est réparé sur le fondement des règles de la responsabilité extracontractuelle”, salvo ad apportare un’eccezione prevedendo che “la victime peut invoquer les

Pardolesi, Chi (vince e chi) perde nella riforma della responsabilità sanitaria, in Danno e resp., 2017, 265. 51

Pardolesi, Chi (vince e chi) perde nella riforma della responsabilità sanitaria, cit., 264. 52

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dispositions expresses du contrat qui lui sont plus favorables que l’application des règles de la responsabilité extracontractuelle”. “Una porta viene così aperta alla responsabilità contrattuale – si è commentato in dottrina – ma è stretta”56, “rari essendo – si è aggiunto – i contratti che prevedono esplicitamente a carico del debitore un’obbligazione di proteggere l’integrità fisica del creditore”57. Trova conforto, quindi, in questa consonanza con l’ultima fase di evoluzione dell’esperienza francese, la previsione nostrana dell’art. 7, comma 3°, che, nell’affermare il principio della responsabilità extracontrattuale del professionista, fa salve le ipotesi in cui esso “abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”.

9. “Legge Gelli-Bianco” e Loi Kouchner. La legge italiana a confronto con il “modello d’oltralpe” È possibile, per altro verso, saggiare “la capacità di riallineare la legislazione italiana a quella degli altri Paesi europei”, attingendo ancora all’esperienza francese, e più specificamente alla disciplina introdotta dalla Loi Kouchner “relativa ai diritti dei malati e alla qualità del sistema sanitario”58. Il confronto con questo “modello d’oltralpe” può servire a individuare silenzi, fragilità e … “spirito di avventura” della neonata legge Gelli-Bianco. a) Assordante è il silenzio costituito dalla mancanza di una regolamentazione delle ipotesi di danno ai pazienti non ascrivibili a colpa (del professionista o della struttura) ma riconducibili a quella che la legge francese individua come “alea terapeutica”: “accidenti terapeutici, affezioni iatrogene, infezioni nosocomiali”.

Busnelli, Azioni risarcitorie e “principi giurisprudenziali”, in Contr. e impr., 2014, 17 ss.

53

54 Scognamiglio, Il nuovo volto della responsabilità del medico. Verso un definitivo tramonto della responsabilità da contatto sociale?, in questa Rivista, 2017, 35 ss.

Cass., 20.3.1936, in Recueil Dalloz, 1936, 88: “Il se forme entre le médecin et son client un véritable contrat comportant pour le praticien l’engagement de donner des soins attentifs …: la violation, même involontaire, de cette obligation contractuelle est sanctionnée par une responsabilité de même nature, également contractuelle”. 55

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Carval, Le projet de réforme du droit de la responsabilité civile (2017) La semaine juridique 706.

56

Borghetti, Un pas de plus vers la réforme de la responsabilité civile: présentation du projet de réforme rendu public le 13 mars 2017 (2017) Recueil Dalloz 14.

57

58

Legge n. 2002-303 del 4 marzo 2002.


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“Spetta allora al legislatore, per non lasciare le vittime senza riparazione – aveva osservato all’inizio del nuovo secolo Denis Mazeaud nel commentare una sentenza della Cassazione59 –, immaginare un sistema di indennizzo indipendente da ogni idea di responsabilità e fondata su quella di solidarietà”60. “Raramente – questa è l’efficace chiosa di Vincenzo Zeno-Zencovich – invocazioni del giurista accademico sono state così prontamente esaudite”61: nel giro di neppure due anni la Loi Kouchner è riuscita a inserire nel Code de la santé publique una norma (art. 1142-1) che accorda al paziente, in presenza di tali ipotesi di danno, presentanti un determinato carattere di gravità, il diritto a ottenere un indennizzo a titolo di “solidarietà nazionale”. Niente di tutto ciò è contemplato dalla nostra legge, che pure dedica i suoi primi articoli alla “sicurezza delle cure in sanità”. Non sono sufficienti a coprire esiti che – come icasticamente sottolinea Roberto Pardolesi – “si candidano a vero ‘buco nero’ dell’odierna sanità”62 i richiami, generici e indiretti, dell’art. 1 a una “sicurezza delle cure che si realizza anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie” (comma 2°), e ad “attività di prevenzione … [a cui] è tenuto a concorrere tutto il personale” (comma 3°); né “l’eco smorzata intercettata dal richiamo dell’art. 1218 c.c. contenuto nell’art. 7”63. Qui la legge mostra di essere “manchevole: inadatta, cioè, a tener conto della progressiva autonomia della responsabilità del nosocomio”64; e la giurisprudenza, nei casi che si vanno facendo sempre più frequenti, è costretta a “faticosi percorsi con riferimento all’accertamento del nesso

causale”65 per giungere a soluzioni che, “per arginare la deriva di azioni ‘frivolous’ … minacciano di lasciare il danno là dove cade, in capo al soggetto che – come accade in tutta evidenza nel frangente dell’infezione nosocomiale – davvero nulla può per cautelarsi”66. Di fronte a queste tristi prospettive verrebbe fatto di riproporre, a distanza di quasi venti anni, il grido di allarme di Denis Mazeaud: “Fondo di garanzia, auto-assicurazione: le soluzioni non mancano, ma il tempo stringe”! Occorre, per la verità, subito aggiungere che la legge Balduzzi aveva previsto la costituzione di un fondo allo scopo di “garantire idonea copertura assicurativa agli esercenti le professioni sanitarie” in casi predeterminati (art. 3, comma 2°). Anche la legge Gelli-Bianco prevede un fondo – art. 14: “Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria” – che, peraltro, “sembra non aver nulla a che fare col precedente”67 e ancor meno, nonostante il titolo “promettente”, con quello disciplinato dalla Loi Kouchner. Infatti, mentre “l’Office National d’indemnisation des accidents médicaux” (“un fondo di garanzia che non osa dire il suo nome”!) si fa “garante della solidarietà nazionale per gli accidenti sanitari senza responsabilità”68, il fondo nostrano è chiamato ad operare, “a chiusura del sistema”, in ipotesi “residuali”; e “il fatto che il regresso sia previsto (e, dunque, non escluso) nei confronti del responsabile del sinistro significa che il fondo non abbia una vera e propria funzione di solidarietà sociale per le vittime”69.

Davola, Infezioni nosocomiali e responsabilità della struttura sanitaria. Il commento a Trib. Roma, 22 novembre 2016, n. 21481, in Danno e resp., 2017, 361.

65

59

Cass., 8.11.2000 (2001) 2 JCP 10403.

Mazeaud, Observations a Cass. 8.11.2000 cit. (2001) Recueil Dalloz 2236.

60

61 Zeno-Zencovich, Una commedia degli errori? La responsabilità medica fra illecito e inadempimento, in Riv. dir. civ., 2008, 328. 62

Pardolesi, Chi (vince o chi) perde, cit., 264.

63

Gorgoni, op. cit., 28.

64

Gorgoni, op. cit., 27.

Pardolesi, Simone, Nesso di causa e responsabilità della struttura sanitaria: indietro tutta!, in Danno e resp., 2018, 13. 66

Gagliardi, L’obbligo di assicurazione e le garanzie per operatori, aziende e danneggiati, in Nocco, Lovo (a cura di), op. cit., 70.

67

Lambert-Faivre, L’indemnisation des accidents médicaux (2002) Recueil Dalloz 1173. 68

69

Gagliardi, op. cit., 69 s.

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b) Preoccupante è la fragilità che mina alla base il compromesso risultante dalla disciplina dell’obbligo di assicurazione delle strutture sanitarie ai sensi dell’art. 10 della legge Gelli-Bianco, che ammette come alternativa alla “copertura assicurativa … altre analoghe misure”. Il confronto con la legge francese, qui, è inquietante. “Un obbligo di assicurazione serio deve essere corroborato da un obbligo di assicurare imposto all’assicuratore”: così si legge in un commento all’art.1142-2 del Code de la santé publique, fermo restando che l’art. 252-1 del Codice delle assicurazioni private prevede che, “per evitare che l’assicuratore possa eludere tale obbligo fissando premi eccessivi, un Ufficio centrale per la tariffazione deve poter fissare il premio adeguato al rischio garantito”70. L’ammaestramento che proviene d’oltralpe è chiaro: la mancanza di un’assicurazione bilateralmente obbligatoria “svuota di certezza la norma prescrivente l’obbligo assicurativo”71; né appare persuasiva la “crescente tendenza, diffusa soprattutto nel mondo politico, a ritenere più efficiente, efficace ed economica un’azione amministrativa diretta”: tendenza che è stata efficacemente contrastata da chi ha avuto modo di “porre in luce le molteplici sfaccettature della problematica della gestione del rischio sanitario”72. Questo è “il vero impasse della legge”: per uscirne, occorre sperare che il decreto previsto dal comma 6° dell’art. 10 allo scopo di determinare “i requisiti minimi delle polizze assicurative”, “pur non potendo creare a carico delle compagnie un vero e proprio obbligo, favorisca la nascita di un mercato assicurativo che, oggi, non è presente”73. c) “Avventurosa” appare la scelta, tutta italiana, di estendere alla responsabilità medica regole dettate dal Codice delle assicurazioni nel Titolo X in

70

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materia di “assicurazione obbligatoria per i veicoli a motore e i natanti”. Più precisamente, già la legge Balduzzi si era riferita alle “tabelle di cui agli artt. 138 e 139” (art. 3); la legge Gelli-Bianco ha confermato tale estensione (art. 7, comma 4°) e vi ha aggiunto un riferimento all’art. 144 in tema di “azione diretta del danneggiato” (art. 12). Si è così creato un raccordo normativo “poco persuasivo”74 tra i rischi inerenti alla circolazione stradale e quelli derivanti dall’esercizio dell’attività sanitaria. Ma se l’acquisizione di uno strumento di azione diretta da parte del paziente, pur “fieramente avversata dalle compagnie assicurative, presenta importanti spunti di positività” evidenziando “l’intendimento di agevolare l’indennizzazione dei danneggiati”75, l’estensione delle tabelle risarcitorie relative al danno non patrimoniale – che introducono per il settore r.c. auto una deroga al principio dell’integrale riparazione del danno – al risarcimento dei danni sofferti dal paziente suscita forti perplessità circa la correttezza, a monte, dell’assimilazione tra una ipotesi di doppio obbligo di assicurazione (a carico del proprietario del veicolo e dell’impresa di assicurazione) e un’ipotesi in cui l’obbligo “è posto a carico del solo esercente la professione sanitaria [nonché della struttura], e non certo a carico del paziente”76. Vi è dunque una palese asimmetria che si ripercuote sulla diversa ratio che sta alla base del ricorso alle tabelle e alla conseguente limitazione risarcitoria. Mentre nella prima ipotesi sussiste una correlazione – tanto per intenderci, “più alto è il risarcimento, più alti saranno inesorabilmente i premi”77 – che coinvolge entrambe le parti obbligate (rendendole parimenti interessate alla suddetta limitazione), nella seconda ipotesi ciò non accade: la limitazione del risarcimento, qui, “trova la sua più genuina giustificazione nel favor riconosciuto

Lambert-Faivre, op. cit., 1369.

Comandé, La riforma della responsabilità sanitaria al bivio tra conferma, sovversione, confusione e…no-blame giurisprudenziale, in Riv. it. med. leg., 2016, 15.

71

Romagnoli, Autoassicurazione della responsabilità medica: compatibilità con i principi di diritto interno ed europeo, in Danno e resp., 2017, 329 s. 72

73 Ponzanelli, Medical malpractice: la legge Bianco Gelli. Una premessa, in Danno e resp., 2017, 270.

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Ponzanelli, La responsabilità medica: dal primato della giurisprudenza alla disciplina legislativa, in Danno e resp., 2016, 820. 74

75

Pardolesi, Chi (vince e chi) perde, cit., 266.

Ponzanelli, L’applicazione degli articoli 138 e 139 Codice delle assicurazioni alla responsabilità medica: problemi e prospettive, in Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 149. 76

77

Ponzanelli, L’applicazione, cit., 148.


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alla struttura sanitaria e al professionista”78, mentre è difficilmente giustificabile – anche, e soprattutto, sotto il profilo della legittimità costituzionale – nei confronti del paziente. Né vale a scongiurare del tutto questo pericolo il recente intervento legislativo79 che, procedendo finalmente a riformare la previsione dell’art. 138, cit., relativo al “danno non patrimoniale per lesioni di non lieve entità”, sembra discostarsi dalla ratio limitativa del risarcimento dettando una nuova tabella improntata “al fine di garantire il diritto delle vittime dei sinistri a un pieno risarcimento del danno non patrimoniale effettivamente subito”. La menzione congiunta del fine di “razionalizzare i costi gravanti sul sistema assicurativo”, nonché l’irrinunciabile – e qui confermata – vocazione delle tabelle a fissare criteri di predeterminazione valutativa del quantum risarcibile, pur se redatte “tenuto conto dei criteri di valutazione del danno non patrimoniale ritenuti congrui dalla consolidata giurisprudenza di legittimità”, non consente di concludere senz’altro nel senso di un sostanziale superamento della logica tabellare della limitazione risarcitoria. I silenzi normativi in ordine ai profili solidaristici della moderna responsabilità medica, le fragili alternative alla copertura assicurativa delle strutture sanitarie, le escogitazioni avventurose per il contenimento dei costi risarcitori valgono a segnalare i punti di distacco della nostra legge dalla Loi Kouchner, ossia dal “modello d’oltralpe” al quale per grandi linee mostra di ispirarsi. Comune ad entrambe è stata la consapevolezza di dover costruire un sistema normativo sul magmatico terreno di confine tra responsabilità civile e sicurezza sociale soppesando costi e benefici delle scelte operate nell’una o nell’altra direzione. La legge francese ha optato per una costruzione imperniata su un doppio regime: il primo, a conferma di un principio tradizionale di responsabilità per colpa delle strutture e dei professionisti della salute; il secondo, autonomo e innovativo, diretto a introdurre un meccanismo di indennizzo

a titolo di solidarietà nazionale degli accidenti sanitari gravi non dovuti a colpa. La legge italiana ha preferito optare per un regime complesso di responsabilità civile, inserendo all’interno della costruzione del sistema i meccanismi di sicurezza sociale necessari a realizzare l’obiettivo della “sicurezza delle cure in sanità”. Nessuno dei due sistemi si è lasciato attrarre dal modello esclusivo di indennizzo no fault dei pazienti per i danni alla salute comunque subiti in ambito sanitario; non lo ha fatto la legge italiana per il motivo ideale di non compromettere la funzione deterrente della responsabilità civile e per quello, meno nobile ma altrettanto incombente, di non essere in grado di sostenere il peso economico di tale modello; e neppure la legge francese (contrariamente a quanto talvolta si legge), che fin dall’Exposé des motifs teneva a chiarire che “dès lors que le présent projet permet aux victimes d’accidents graves et sans faute d’être indemnisées, il importe d’asseoir la responsabilité en matière médicale sur ses bases les plus classiques, c’est-à-dire sur la notion de faute”80.

10. L’ammonimento di Richard Epstein La legge francese fu accolta da un “profluvio di commenti critici”81, ma ha resistito nel tempo. Criticare la legge italiana è molto facile, e la dottrina ha già iniziato a esercitarsi in una critica spesso radicale delle singole norme che la compongono. Personalmente, l’impresa non mi diverte. Ritengo che sia più opportuno prendere atto, anzitutto, delle difficoltà incontrate dal legislatore nell’avventurarsi in una riforma consapevolmente imperniata su interessi e valori difficilmente conciliabili e inevitabilmente destinata a confrontarsi con l’attuale crisi del tradizionale sistema codicistico delle fonti del diritto, specialmente in settori – come quello emblematico della responsabilità

Jourdain, La réforme de l’indemnisation des dommages médicaux et la place de la responsabilité médicale, in Aa. Vv., Le nouveau droit des malades, Paris, 2002, 87. 80

Ponzanelli, Vittime della strada versus pazienti: una difficile equiparazione, in questa Rivista, 2018, 3 ss.

78

79

L. 4 agosto 2017, n. 124, comma 17°.

81

V. Zeno-Zencovich, op. cit., 329.

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medica – che coinvolgono interessi privati e doveri pubblici, valori individuali e esigenze collettive, diritti della persona e costi economici. Non è più tempo, in questo contesto, per leggi “autoritarie”. Fin dall’inizio del secolo presente la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità di una legge regionale in quanto inosservante delle “acquisizioni scientifiche e sperimentali” su cui “la pratica dell’arte medica si fonda”82: acquisizioni – ha avuto poi modo di ribadire la Consulta – che “sono in continua evoluzione” e “pongono limiti alla discrezionalità legislativa”83. Il legislatore ha scelto, per così dire, un altro modo di legiferare, appellandosi al principio di sussidiarietà, inserito nella Carta costituzionale ad opera della legge cost. n. 3/2001 che, sulla scorta del paradigma europeo, mira a privilegiarne la dimensione funzionale e organizzativa, così da favorire l’innesto nel sistema di nuove fonti di diritto in grado di regolare autonome iniziative responsabilmente indirizzate allo svolgimento di attività di interesse generale; ed ha altresì indirizzato l’operatività del principio verso nuove prospettive valoriali che chiamano in causa la scienza e la tecnologia: a detta della Corte di cassazione “le uniche fonti certe, controllabili, affidabili”84. La scelta, in certo senso obbligata, presenta inevitabilmente due “costi”: comporta un’accentuata complessità del sistema e determina l’incompiutezza del dettato normativo. Ne scaturisce l’immagine di una “costruzione” non ancora uscita dal “cantiere”; fuor di metafora, “una sorta di soft law esortativa”85; “una riforma animata da buoni propositi e tutto sommato abbastanza equilibrata nei suoi intendimenti di fondo”86. Il passaggio dal messaggio “esortativo” e dai “buoni propositi” alle dinamiche applicative di un di-

Editoriale

segno legislativo – come si è detto – complesso e (tuttora) incompiuto è ancora tutto da monitorare. Qui servirà una giurisprudenza che smetta di difendere ad oltranza il (falso) dogma della responsabilità da contatto sociale87 per impegnarsi in un dialogo rispettoso e proficuo con un legislatore che ha mostrato di “rispettarne le conclusioni raggiunte negli ultimi venti anni”88, accogliendone da ultimo le più recenti determinazioni89. Servirà una dottrina che rinunzi a coltivare il “sogno” di un modello italiano di no-fault – “una riforma assai ambiziosa e lungamente attesa” – per tornare alle proverbiali “nozze con i fichi secchi”90 senza per questo “azzerare le potenzialità della riforma”. Servirà una normativa secondaria – in particolare quella dettagliata dall’emanando decreto interministeriale determinante “i requisiti minimi delle polizze assicurative” nonché “i requisiti minimi di garanzia … delle altre analoghe misure (art. 10, comma 6°) – in grado di determinare “tutti gli elementi che dovrebbero arginare quel presunto ampio margine di scelta che nel recente passato aveva portato gli erogatori di prestazioni sanitarie ad attuare soluzioni la cui idoneità era evidentemente dubbia”91. Servirà una Corte costituzionale sempre più “incline ad attenuare il rigore richiesto alla legge nella definizione dei criteri destinati a contenere la discrezionalità amministrativa” onde scongiurare (o ridurre) le violazioni del principio della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., che “in uno con quello di legalità, impediscono di delegare puramente e semplicemente al regolamento la fissazione delle classi di rischio e massimali minimi”92.

87

Retro, nt. 50.

Ponzanelli, Medical malpractice: la legge Bianco-Gelli, ibidem.

88

Corte cost., 26.6.2002, n. 282, in Foro it., 2003, I, 394 ss. e 413. 82

83

Corte cost., 8.5.2009, n. 151, cit.

Cass. pen., 29.1.2013, n. 16237, in Cass. pen., 2014, 1670 ss. 84

Ponzanelli, Medical malpractice: la legge Bianco-Gelli, in Contr. e impr., 2017, 362. 85

86

Gorgoni, op. cit., 34.

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89

Retro, nt. 79.

90

Comandé, op. cit., 22.

Romagnoli, Il ruolo delle pubbliche amministrazioni e dei loro atti nella c.d. legge Gelli in materia di sicurezza delle cure, della persona assistita e di riforma della responsabilità sanitaria (L.N. 24/2017), in Resp. civ. e prev., 2017, 2026 e, v. retro, nt. 73. 91

92

Romagnoli, Il ruolo delle pubbliche amministrazioni, cit.,


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Più in generale, alla dottrina è affidato prioritariamente il compito di un vaglio critico, per quanto possibile “costruttivo”, che valga a fronteggiare il temibile esito di “un corto circuito dagli effetti perversi, scandito da una nuova babele giurisprudenziale, da scelte di accoglienza ospedaliera difensiva, dalla deresponsabilizzazione dei singoli operatori nonché da nuovi contenziosi tra medici e strutture”93; un compito da svolgere, tuttavia, muovendo dalla consapevolezza che soluzioni alternative alla legge non sembrano al momento prospettabili e dalla convinzione che, comunque, la ricerca di soluzioni ottimali è destinata all’insuccesso. *** Richard Epstein scriveva quarant’anni fa: “C’era un’epoca nella quale potevamo forse nutrire grandi speranze sulla capacità del sistema giuridico o della professione medica di elaborare una serie di regole che avrebbero dato soddisfazione a tutte le pretese giuste e solo a quelle. Ma la responsabilità medica è una materia che per la sua stessa sfuggente natura può dare solo risultati molto imperfetti. La domanda dunque non è come costruire un sistema perfetto perché ciò non può essere fatto. L’unica domanda che vale la pena porsi è come possiamo rendere il sistema migliore di quanto non lo sia oggi”94. È un ammonimento sul quale val la pena riflettere.

2024. 93

Gorgoni, op. cit., 34.

Epstein, Medical malpractice: The Case for Contract, 1976 (citato da Zeno-Zencovich, op. cit., in fine). 94

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Saggi e pareri

Saggi e pareri

La dimensione “organizzativa” del consenso informato

g g sa re e a p

Mirko Faccioli

Ricercatore nell’Università di Verona Sommario: 1. Introduzione: il duplice intreccio tra consenso informato e contesto organizzativo della struttura sanitaria. – 2. L’obbligo del medico di informare il paziente delle deficienze organizzative della struttura sanitaria. – 3. Segue: Il risarcimento del danno conseguente all’inadempimento dell’obbligo informativo. – 4. Il dovere della struttura di organizzarsi in modo da consentire l’adeguato svolgimento della relazione informativa tra medico e paziente.

Abstract: Il contesto organizzativo della struttura sanitaria nella quale si svolge la relazione di cura incrocia il tema del consenso informato e dell’autodeterminazione del paziente sotto due diversi punti di vista: da un lato, le caratteristiche strutturali e organizzative del nosocomio entrano a far parte del contenuto delle informazioni che vanno comunicate al paziente prima dell’esecuzione del trattamento; dall’altro, lo stesso apparato organizzativo dell’ospedale dev’essere modellato (anche) in modo da garantire l’adeguato ed efficace svolgimento delle procedure di acquisizione del consenso informato dei destinatari delle prestazioni sanitarie erogate al suo interno. The organizational context of the healthcare structure in which the healthcare relation takes place crosses the issue of informed consent and patient self-determination from two different points of view: on one side, the structural and organizational characteristics of the hospital become part of the content of the information that must be communicated to the patient before the treatment is performed; on the other side, the same organizational apparatus of the hospital must be shaped (also) in order to guarantee the adequate and effective carrying out of the procedures for acquiring the informed consent of the beneficiaries of the health services provided.

1. Introduzione: il duplice intreccio tra consenso informato e contesto organizzativo della struttura sanitaria A partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso ha iniziato ad assumere sempre maggiore importanza sia pratica che teorica la prospettiva che vede l’ospedale (tanto pubblico quanto privato) assumere, nell’ambito del c.d. contratto di spedalità (o di assistenza sanitaria) intercorrente con il paziente, un dovere di “buona organizzazione”1, vale a dire l’obbligo di predisporre un apparato organizzativo e strutturale2 di livello

Che nei tempi più recenti sembra avere pure trovato un (seppur indiretto) riconoscimento normativo nelle previsioni dell’art. 1 l. n. 24/2017 che impongono di perseguire l’obiettivo della «sicurezza delle cure» (anche) tramite «l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative» a disposizione degli ospedali.

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Dal punto di vista, in particolare: della sicurezza dell’ambiente ospedaliero, degli strumenti e dei prodotti utilizzati per le cure (in modo da evitare che il paziente rimanga vittima di eventi quali il malfunzionamento dei macchinari medici, le infezioni nosocomiali, il contagio di patologie conseguente ad emotrasfusione e somministrazione di emoderivati, la caduta all’interno dei locali dell’ospedale, e simili); dell’attitudine ad assicurare la protezione dei malati privi della capacità di autotutela (ad iniziare da minori, anziani e malati di mente); della disponibilità di risorse umane e materiali adeguate ai compiti da svolgere sia dal punto di vista

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corrispondente alla ragionevole aspettativa che il “grande pubblico” può legittimamente riporre nei confronti del nosocomio di volta in volta considerato alla luce di tutte le circostanze del caso concreto quali, innanzitutto, la tipologia e le dimensioni della struttura, il suo bacino d’utenza, le caratteristiche del servizio prestato dagli ospedali affini, lo stato di avanzamento dell’evoluzione scientifica e tecnologica del momento storico, e così via. Sulla scorta di queste premesse, dottrina e giurisprudenza hanno allora evidenziato come il profilo dell’(in)adempimento degli obblighi organizzativi facenti capo all’ente nosocomiale possa e debba essere valutato separatamente rispetto al giudizio concernente la corretta esecuzione del trattamento sanitario da parte del personale medico e paramedico che opera al suo interno: è pertanto un risultato ormai acquisito che, oltre alla responsabilità vicaria per fatti dannosi imputabili a quest’ultimo, alla struttura sanitaria è addebitabile pure un’autonoma e diretta responsabilità per “difetto di organizzazione” che può tanto accompagnarsi alla responsabilità dei sanitari coinvolti quanto prescindere da quest’ultima, così come innescare l’errore individuale pure in casi nei quali parrebbe a prima vista sussistere soltanto la malpractice di uno o più singoli operatori3. Sulla scorta dell’impostazione che si è appena finito di tratteggiare, è possibile rilevare come il contesto organizzativo della struttura sanitaria all’interno della quale si svolge la relazione di cura incroci pure il tema del consenso informato e della libertà di autodeterminazione del paziente.

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Quella che potrebbe essere chiamata la dimensione “organizzativa” del consenso informato si presenta, più precisamente, sotto due diversi ma complementari aspetti: da un primo – e senz’altro più noto – punto di vista, le caratteristiche strutturali e organizzative del nosocomio entrano a far parte del contenuto delle informazioni che vanno comunicate al paziente prima dell’esecuzione della prestazione sanitaria della quale egli abbisogna; sotto un secondo – e meno conosciuto – profilo è, poi, lo stesso assetto organizzativo della struttura sanitaria che dev’essere modellato (anche) in considerazione della necessità di consentire un’adeguata esplicazione del processo di acquisizione del consenso informato dei destinatari delle prestazioni mediche che vengono erogate al suo interno.

2. L’obbligo del medico di informare il paziente delle deficienze organizzative della struttura sanitaria Com’è stato poco sopra accennato, da tempo si riconosce che il medico, prima di eseguire un determinato trattamento diagnostico o terapeutico sul paziente, ha l’obbligo di accertarsi dell’adeguatezza dell’apparato organizzativo e strutturale dell’ospedale nel quale opera4 e, qualora abbia constatato che tale apparato non è adeguato al caso clinico da affrontare5, deve informarne il paziente stesso indicandogli un altro nosocomio che sia meglio attrezzato6, in modo che quegli pos-

Questo obbligo può essere considerato un’epifania del generale principio che vede il debitore incorrere in responsabilità nel caso di “colposa inettitudine iniziale all’adempimento”, ovverosia nel caso in cui l’obbligazione rimasta inadempiuta richieda specifiche capacità e/o determinati mezzi materiali, la cui disponibilità il soggetto abbia intenzionalmente o negligentemente trascurato di verificare prima di assumere l’obbligazione stessa: sul punto v., per tutti, Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, Milano, 2012, 66 s.

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quantitativo che sul piano qualitativo (e questo non soltanto rispetto a quanto abbisogna per l’esercizio dell’attività medica secondo criteri di normalità e ordinarietà, ma anche con riguardo all’eventualità di dover fronteggiare emergenze o complicanze); dell’utilizzazione efficiente e razionale delle risorse a propria disposizione (in modo che siano assicurate, fra le altre cose, l’adeguatezza della programmazione dei turni di lavoro, l’efficienza del sistema di guardia medica notturna, la tempestiva esecuzione dei trattamenti sanitari, la razionale dislocazione dei reparti e degli impianti, e così via). Per una più approfondita trattazione di queste tematiche, v. Faccioli, La responsabilità civile per difetto di organizzazione delle strutture sanitarie, Pisa, 2018.

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Ciò che, ovviamente, potrebbe anche essere avvenuto a prescindere da un’apposita verifica, in ogni caso producendo le conseguenze sul piano informativo di cui si dirà subito infra nel testo.

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Nello svolgimento di questi compiti il medico dovrebbe


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sa scegliere in piena consapevolezza la struttura presso la quale sottoporsi alle cure7: le disfunzioni e le carenze della struttura sanitaria costituiscono, infatti, rischi dell’intervento alla pari delle complicanze naturali legate allo stesso atto medico da eseguire, sicché appare condivisibile ritenere che, anche in funzione della tutela della libertà di scelta del luogo di cura facente capo al cittadino utente del S.S.N.8, il paziente debba essere reso edotto tanto delle une quanto delle altre9.

poter contare sulla stessa struttura sanitaria in cui egli opera, in giurisprudenza essendo stato riconosciuto che quest’ultima ha l’obbligo di predisporre un’efficiente organizzazione per la ricerca di un nosocomio adeguatamente attrezzato verso il quale dirottare il paziente del quale non sia in grado di farsi carico (Cass., 14.7.2004, n. 13066, in Danno e resp., 2005, 537 ss.). Va da sé che, nel caso in cui il paziente non sia in grado (per esempio, perché in stato di incoscienza) di assumere la decisione relativa al luogo nel quale farsi curare, sarà il medico a doversi attivare perché egli venga trasportato in un nosocomio più adeguato alle sue esigenze. È, poi, altrettanto evidente che, nella varietà delle fattispecie concrete, non sarà sempre opportuno che il medico, in considerazione delle carenze strutturali e organizzative dell’ospedale in cui egli opera, rifiuti di prestare il trattamento e consigli al paziente il trasferimento in un altro nosocomio (oppure proceda in prima persona a disporlo nel caso in cui il paziente non sia in grado di prendere la relativa decisione): circostanze quali le condizioni del malato, la mancanza di strutture meglio attrezzate in un raggio di chilometri particolarmente ampio o l’impossibilità di raggiungerle in un lasso di tempo ragionevole potrebbero infatti sconsigliare lo spostamento del paziente stesso e/o il differimento del trattamento sanitario, in quanto eventi suscettibili di esporre il suo stato di salute a conseguenze ancora peggiori. In queste ipotesi, il medico avrà allora il dovere di adeguare le modalità e il livello di diligenza della propria condotta alle inefficienze organizzative dell’ente adottando, nei limiti in cui ciò sia tecnicamente possibile, quegli accorgimenti che siano in grado di porvi (anche solo parzialmente) rimedio. Su tutto questo e per ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza in tal senso, v. Faccioli, L’incidenza delle carenze strutturali e organizzative dell’ente sanitario sui doveri e sulle responsabilità individuali del medico, in Resp. civ. e prev., 2016, 1854 ss. 7

8 D’Onofrio, Libertà di cura e autodeterminazione, Padova, 2015, 101.

Cfr., su questi aspetti, Rossi, voce «Consenso informato (il)», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., Agg., VII, Torino, 2012, 204; Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 217 ss.; Gorgoni, La responsabilità della struttura sanitaria, in Danno e resp., 2016, 809; Fin, I requisiti del consenso al trattamento medico, in Quagliariello, Fin, Il consenso informato. Un’indagine antro9

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Merita di essere sottolineato che l’obbligo informativo di cui si discute non viene espressamente stabilito dalle disposizioni dedicate al consenso informato dalla recente l. n. 219/2017. Ciononostante, non sembrano esservi dubbi sul fatto che il dovere in parola tuttora possa e debba essere ricostruito sulla scorta dell’elaborazione giurisprudenziale (e dottrinale) antecedente all’avvento del provvedimento normativo appena menzionato: come viene da più parti riconosciuto, quest’ultimo è infatti «coerente con il telaio di principi […] su cui si reggeva il diritto della relazione di cura ormai consolidato in giurisprudenza, a monte della nuova legge: la quale dunque non contiene disposizioni in contrasto con quel diritto, ma ne traduce in norme una parte saliente, e può, anzi deve, essere interpretata e integrata nella luce di quel prisma»10. Un altro aspetto da evidenziare riguarda i destinatari del dovere in esame, i quali non si identificano soltanto con i dipendenti della struttura ma comprendono pure il c.d. medico di fiducia del paziente, vale a dire il libero professionista che, avvalendosi delle apparecchiature nonché del personale paramedico e infermieristico messogli a disposizione da una clinica alla quale egli non è però legato da alcun rapporto di lavoro o di servizio, provvede ad eseguire il trattamento diagnostico o terapeutico promesso direttamente al proprio cliente sulla base di un contratto d’opera

pologica e giuridica, Bologna, 2016, 170 s. In giurisprudenza, un ragionamento di questo tipo si può rinvenire nella motivazione di Cass., 30.7.2004, n. 14638, in La resp. civ., 2007, 688, ove peraltro la responsabilità dell’ospedale per difetto di organizzazione non veniva concretamente in rilievo. Così Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e le DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 247 (corsivi dell’A.). Per analoghe considerazioni, v. pure Foglia, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico, Torino, 2018, passim; Azzalini, Legge n. 219/2017: la relazione medico-paziente irrompe nell’ordinamento positivo tra norme di principio, ambiguità lessicali, esigenze di tutela della persona, incertezze applicative, in Resp. civ. e prev., 2018, 9 s. e 13; Casonato, Introduzione: la legge 219 fra conferme e novità, in Riv. Biodir., 2018, 12; Santosuosso, Questioni false e questioni irrisolte dopo la legge n. 219/2017, ivi, 86; Piccinni, Biodiritto tra regole e principi. Uno sguardo «critico» sulla l. n. 219/2017 in dialogo con Stefano Rodotà, ivi, 137. 10

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intellettuale. In diverse occasioni la giurisprudenza ha difatti rimproverato a questa figura – della cui malpractice comunque risponde anche la stessa casa di cura in virtù di quanto oggi prevede, recependo un (invero discutibile) orientamento giurisprudenziale antecedente al suo avvento, l’art. 7, comma 1°, l. n. 24/201711 – il fatto di avere assistito il paziente all’interno di un determinata clinica senza prima avere verificato l’adeguatezza dell’apparato organizzativo della stessa o, addirittura, di essere a conoscenza del fatto che il nosocomio prescelto accusava disfunzioni e inefficienze suscettibili di mettere a rischio la salute del proprio cliente12: per giustificare questa conclusione, secondo i nostri giudici, «è sufficiente […] considerare che, di norma, l’individuazione della Casa di cura dove il medico eseguirà la prestazione promessa costituisce parte fondamentale del contenuto del contratto stipulato tra il paziente ed il professionista, nel senso che ciascun medico opera esclusivamente presso determinate cliniche e che, a sua volta, ciascuna Casa di cura accetta solo i pazienti curati da determinati medici […]. Ciò comporta che deve ritenersi consustanziale al dovere di diligente espletamento della prestazione l’obbligo del medico di accertarsi preventivamente che la Casa di cura dove si appresta ad operare sia pienamente idonea, sotto ogni profilo,

11 In questi casi, quindi, l’oggetto del contratto di spedalità viene espunto dell’elemento costituito dalla prestazione stricto sensu sanitaria, la clinica obbligandosi soltanto a mettere a disposizione del paziente l’apparato organizzativo necessario per l’espletamento della prestazione stessa da parte del suo medico di fiducia, dell’operato del quale essa finisce comunque per rispondere in ragione di una vistosa estensione ex lege dei limiti tradizionalmente apposti al campo d’applicazione dell’art. 1228 c.c. Per maggiori dettagli riguardo a questi profili, v. Faccioli, La responsabilità civile per difetto di organizzazione, cit., 38, nel testo e in nota 44, nonché, per una più approfondita e parzialmente diversa (ma sotto profili comunque irrilevanti nell’ambito della nostra indagine) ricostruzione delle fattispecie in esame, Cerdonio Chiaromonte, Responsabilità per fatto degli ausiliari e incarico contrattuale diretto al medico: il dubbio ruolo della casa di cura privata, in Riv. dir. civ., 2017, 489 ss.

V., tra le altre, Cass., 16.5.2000, n. 6318, in Resp. civ. e prev., 2000, 940 ss.; Cass., 17.2.2011, n. 3847, in Giust. civ., 2011, 1719 ss.; Cass., 26.7.2012, n. 10616, in Danno e resp., 2013, 839 ss. 12

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Saggi e pareri

ad offrire tutto ciò che serve per il sicuro e ottimale espletamento della propria attività»13. Fatte queste precisazioni, va rilevato che l’obbligo del medico di informare il paziente delle carenze organizzative dell’ospedale nel quale dev’essere eseguito il trattamento viene sovente inteso in termini particolarmente rigorosi da parte della giurisprudenza. Nelle aule di giustizia è stata, per esempio, più volte affermata la responsabilità del medico per le infezioni nosocomiali riportate dal paziente nel caso in cui egli abbia omesso di controllare le condizioni igieniche dell’ambiente ospedaliero e degli strumenti utilizzati per le cure oppure abbia prestato le medesime quando le condizioni di cui sopra avrebbero, invece, sconsigliato l’esecuzione della prestazione sanitaria in considerazione dell’incremento del rischio infettivo14. In un caso particolarmente significativo, la responsabilità del medico di fiducia del paziente è stata fondata sull’omesso controllo del bisturi elettrico da usare in un intervento chirurgico, nel corso del quale un malfunzionamento dello strumento aveva provocato gravi ustioni ed esiti cicatriziali permanenti all’assistito15; e in una fattispecie per molti versi simile, all’operatore sanitario è stato poi addebitato il fatto di aver sottoposto un paziente ad un trattamento anticellulitico a base di ossigeno-ozono all’interno di una struttura sanitaria inadeguata, senza informare il cliente di tale situazione che avrebbe dovuto imporre di indirizzarlo ad altra struttura idonea16. Diverse pronunce emesse in materia riguardano casi di danni da parto, nei quali il personale medico è stato condannato per non avere informato la gestante, tra le altre cose, dell’incapacità del nosocomio di fornire le prestazioni specialistiche necessarie per affrontare un parto prematuro17, della

13

Sono parole di Cass., 26.7.2012, n. 10616, cit.

V., per ampi riferimenti in materia, Ronchi, La responsabilità civile della struttura e del medico per le infezioni nosocomiali - II parte, in Resp. civ. e prev., 2007, 1805. 14

15

Cass., 26.7.2012, n. 10616, cit.

16

Cass., 28.8.2014, n. 18304, in Foro it., 2015, I, 232.

17

Trib. Genova, 30.3.1998, in Resp. civ. e prev., 1999, 997.


La dimensione “organizzativa” del consenso informato

mancanza di un’adeguata struttura di rianimazione neonatale18 e della temporanea indisponibilità del cardiotografo19. In tema di controlli ecografici sul feto ai fini della relativa diagnosi morfologica, è stato, ancora, più volte affermato che il sanitario, qualora formuli una diagnosi di normalità morfologica del feto anche sulla base di esami strumentali che non hanno consentito, senza sua colpa, di visualizzare il feto nella sua interezza, ha l’obbligo di informare la gestante della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, in vista dell’esercizio da parte di costei del diritto di interrompere la gravidanza20. Evidenziando la necessità di delimitare entro confini ragionevoli e ben definiti qualsivoglia dovere “correttivo” delle deficienze organizzative dell’ospedale si ritenga ricostruibile in capo al medico21, in dottrina sono state allora avanzate diverse proposte finalizzate a circoscrivere in maniera più precisa l’obbligo di informazione e (re)indirizzamento verso altre strutture del paziente ora in esame, senza tuttavia giungere alla formulazione

18

Cass., 17.2.2011, n. 3847, cit.

Cass., 16.5.2000, n. 6318, cit. Per un caso del tutto analogo v., inoltre, App. Milano, 17.12.1991, in Arch. civ., 1992, 439. 19

20 Cass., 13.7.2011, n. 15386, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, 1252. Una recente decisione ha, peraltro, puntualizzato che il suddetto obbligo d’informazione sorge solamente in ragione dell’esistenza dell’inadempimento, addebitabile unicamente alla struttura sanitaria, di aver assunto la prestazione diagnostica pur non disponendo di attrezzature all’uopo adeguate, così da ingenerare nella paziente l’affidamento che il risultato diagnostico ottenuto (di normalità fetale) sia quello ragionevolmente conseguibile in modo definitivo: di conseguenza, è stata esclusa la responsabilità del professionista per non aver informato la gestante di malformazioni fetali che non erano tecnicamente diagnosticabili con i macchinari disponibili presso i nosocomi italiani all’epoca dei fatti di causa (Cass., 8.3.2016, n. 4540, in Resp. civ. e prev., 2016, 1632, con nota di Gorgoni, Malformazioni fetali non diagnosticabili con l’uso degli ecografi nella disponibilità degli ospedali all’epoca in cui si svolsero i fatti e profili di responsabilità sanitaria). Per una più ampia trattazione di queste tematiche, v. Foglia, Nascita indesiderata e danno al nascituro – Parte prima, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 276 ss.; Id., La lesione dell’interesse a non nascere del concepito – Parte seconda, ivi, 436 ss.

Sono considerati tali anche gli obblighi illustrati supra, alla nota 7: al riguardo v., amplius, Faccioli, L’incidenza, cit., 1857 ss. 21

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di un criterio univoco e ben definito: secondo alcuni, il medico dovrebbe procedere in questo modo soltanto nelle ipotesi in cui le inefficienze dell’ospedale siano caratterizzate da una significativa gravità e siano, pertanto, suscettibili di mettere concretamente in pericolo la salute del malato22; secondo altri, il dovere in parola insorgerebbe soltanto in caso di mancanza di posti letto o di prestazioni specialistiche particolari che la struttura non è attrezzata per erogare in modo adeguato23; altri ancora ritengono doversi fare riferimento, in senso ancor più restrittivo, solamente ai «casi estremi, nei quali la carenza di una determinata strumentazione faccia correre al paziente non rischi puramente ipotetici (e ovviabili con la dovuta profusione di un adeguato sforzo da parte del professionista), ma prevedibilmente non evitabili con l’utilizzo delle richieste capacità professionali»24; un’ulteriore voce è, infine, intervenuta per precisare che il medico non sarebbe tenuto a fornire al paziente informazioni relative alla casistica del reparto o del nosocomio in cui opera, in quanto detta casistica dipenderebbe da una varietà di fattori che prescindono dalla qualità organizzativa dell’ente sanitario e non sarebbe pertanto idonea a rappresentare quest’ultima25. Nella scia della dottrina e della giurisprudenza tedesche26, sembra che una più soddisfacente

Nocco, La responsabilità delle e nelle strutture, in Comandé, Turchetti (a cura di), La responsabilità sanitaria. Valutazione del rischio e assicurazione, Padova, 2004, 92 s. 22

Fiori, La Monaca, L’informazione al paziente ai fini del consenso: senza più limiti, in Riv. it. med. leg., 2000, 1312 s., i quali proseguono affermando che invece «è da ritenere si richieda davvero troppo se la pretesa riguarda prestazioni comuni (come l’assistenza al travaglio ed al parto) e se al medico si addossa addirittura il compito di mettere in guardia i paziente da tutte le possibili deficienze, contingenti e croniche, del proprio ospedale di cui egli abbia conoscenza e che direttamente od indirettamente potrebbero incidere sulla salute ed anche più latamente sul disagio del paziente».

23

24 Lepre, La responsabilità civile del primario e del medico di fiducia dipendente della struttura ove si è verificato il danno, in Nuova giur. civ. comm., 2002, I, 207.

Graziadei, Il consenso informato e i suoi limiti, nel Trattato di biodiritto, diretto da Rodotà, Zatti, I diritti in medicina, Lenti, Palermo Fabris, Zatti (a cura di), Milano, 2011, 254 s. 25

26

Per i relativi riferimenti v. Faccioli, La responsabilità civile

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soluzione della questione in esame possa essere peraltro rinvenuta osservando come il problema presenti uno stretto collegamento con il riconoscimento della variabilità del livello organizzativo che può essere concretamente e legittimamente preteso da ciascuna struttura sanitaria27 nonché con il dovere del medico di comunicare al paziente l’eventuale esistenza di una pluralità di trattamenti diagnostici e terapeutici alternativi28: sulla scorta di questi rilievi, si possono invero distinguere e trattare diversamente due differenti situazioni. La prima ricorre quando la struttura sanitaria non presenta le caratteristiche organizzative che dovrebbe invece possedere e che sono necessarie per eseguire correttamente il trattamento richiesto dal paziente: in questo caso ci si trova di fronte ad un vero e proprio deficit organizzativo, che dev’essere senz’altro portato a conoscenza della controparte affinché decida di conseguenza. Diversamente accade quando l’ospedale offre al paziente lo standard organizzativo sufficiente per la prestazione di cui ha bisogno, la quale potrebbe però essere svolta pure in altri nosocomi caratterizzati da una migliore dotazione di mezzi e/o di personale. Secondo il maggioritario e condivisibile orientamento della dottrina tedesca, in queste ipotesi il paziente non ha senz’altro diritto di essere informato di come stanno le cose ed essere (re)indirizzato verso l’ospedale meglio attrezzato, perché questo significherebbe negare il carattere variabile dello standard organizzativo esigibile dagli ospedali e riconoscere che il malato ha sempre diritto di ricevere le cure al più elevato livello disponibile sul territorio nazionale. L’obbligo di informare e (re)indirizzare il paziente, quindi, dovrà considerarsi sussistere solamente nei casi in cui, alla luce delle condizioni sue e della sua patologia, si possa affermare che il trattamento, se

per difetto di organizzazione, cit., 143. 27

V. supra, § 1.

Con riguardo al nostro ordinamento, vale la pena ricordare che l’obbligo appena menzionato nel testo, dapprima elaborato dalla riflessione dottrinale e giurisprudenziale, è stato poi espressamente recepito dall’art. 1, comma 3°, l. n. 219/2017. 28

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Saggi e pareri

eseguito presso una struttura sanitaria di migliore qualità, presenta (anche) un significativo margine di maggiori possibilità di successo e/o di minori rischi di esito infausto.

3. Segue: Il risarcimento del danno conseguente all’inadempimento dell’obbligo informativo Pronunciandosi in tema di danni da parto, ma affermando un principio di portata senz’altro più generale, la giurisprudenza ha inoltre precisato che il medico risponde per non avere informato il paziente del deficit organizzativo del nosocomio nel quale è stato eseguito il trattamento rivelatosi dannoso – non automaticamente, bensì – soltanto laddove si possa ritenere che il paziente stesso, se correttamente informato, avrebbe deciso di farsi assistere in un’altra e meglio attrezzata struttura sanitaria29. In questo modo non si è fatto altro che allinearsi al diffuso orientamento secondo cui la responsabilità del medico per il peggioramento delle condizioni di salute del paziente, dovute al verificarsi di complicanze delle quali il malato non è stato informato prima del trattamento, è in linea di principio subordinata alla prova del fatto che una corretta informazione avrebbe portato il paziente stesso a decidere di non sottoporsi a quell’intervento, così sottraendosi al rischio delle conseguenze negative poi effettivamente concretizzatesi30.

29 Cass., 17.2.2011, n. 3847, cit. In dottrina, interviene puntualmente su questo profilo Pucella, op. cit., 242 s.: «non qualsiasi omissione fonda una pretesa risarcitoria […], ma solo quella che ha rivestito un ruolo negativo nella facoltà di autodeterminarsi del paziente: di nessun significato causale apparirà, perciò, il fatto che il medico abbia taciuto lo stato di arretratezza delle dotazioni della struttura sanitaria nella quale è stato praticato l’intervento chirurgico se il danno lamentato dal paziente attiene, invece, alla, diversa, mancata illustrazione delle conseguenze tipiche di quel tipo di operazione. Diversa sarà la conclusione qualora l’inadeguatezza delle dotazioni strutturali gli abbia precluso una scelta alternativa che avrebbe potuto esercitare od abbia comportato, ad esempio, un allungamento dei tempi di convalescenza ospedaliera fonte, per il paziente, del danno (morale, patrimoniale) poi invocato». 30

In questo senso v., in particolare, Cass., 9.2.2010, n. 2847,


La dimensione “organizzativa” del consenso informato

Le due fattispecie in esame non sembrano, peraltro, tali da poter essere completamente sovrapposte31. Nel caso in cui si concretizzino complicanze naturali legate ai limiti della scienza medica, un’informazione completa ed esauriente prima del trattamento esclude, come noto, la responsabilità del medico – così come della struttura ex art. 1228 c.c. – al quale non sia rimproverabile alcun profilo di negligenza professionale nell’esecuzione della prestazione. La comunicazione al malato delle deficienze organizzative e strutturali dell’ente sanitario pare, invece, idonea ad esonerare da responsabilità solamente il medico e non pure l’ente: per quest’ultimo, infatti, quelle deficienze rappresentano un inadempimento del contratto di spedalità stipulato con il paziente, che com’è altrettanto noto, quando presta il consenso e assume su di sé il rischio del verificarsi delle complicanze di cui si è detto appena sopra, non intende certo sollevare – né potrebbe validamente sollevare, giusto il disposto dell’art. 1229, comma 2°, c.c. nonché dell’art. 7, comma 5°, l. n. 24/2017 – da alcuna responsabilità (né il medico né) la struttura per i danni conseguenti alla scorretta e negligente esecuzione della prestazione di assistenza sanitaria32. Dev’essere, da ultimo, sottolineato che il panorama giurisprudenziale in tema di responsabilità medica per trattamento sanitario eseguito senza il consenso informato del paziente conosce – oltre al già visto danno alla salute conseguente ad un trattamento al quale il paziente non si sarebbe sottoposto se fosse stato adeguatamente informato – altri due tipi di pregiudizi risarcibili, che si potrebbero anch’essi concretizzare, sulla scorta dei ragionamenti svolti sopra, pure nelle ipotesi

in Corr. giur., 2010, 1201. Per un approfondimento di questo profilo con indicazioni di ulteriore giurisprudenza conforme, v., per tutti, Fin, La responsabilità civile del medico per trattamento sanitario arbitrario, in Quagliariello, Fin, Il consenso informato. Un’indagine antropologica e giuridica, Bologna, 2016, 201 ss. 31

Al riguardo, v. pure Faccioli, L’incidenza, cit., 1860 ss.

A questo riguardo v., fra i tanti, Graziadei, op. cit., 254; Ferrando, Informazione e consenso in sanità, in Aleo, De Matteis, Vecchio (a cura di), Le responsabilità in ambito sanitario, Padova, 2014, t. 1, 418. 32

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di difetto d’informazione relativo alle deficienze organizzative dell’ospedale. Il primo è suscettibile di emergere nelle ipotesi in cui manchi la dimostrazione del fatto che il paziente correttamente informato avrebbe rifiutato il trattamento sanitario dannoso: si tratta del c.d. “danno da impreparazione”33, che per la precisione consiste nella (maggiore) sofferenza interiore che il paziente patisce nel momento in cui si trova di fronte ad una conseguenza negativa dell’intervento – nel nostro caso derivante dal deficit organizzativo del nosocomio del quale non è stato informato – che egli non ha avuto la possibilità di prepararsi ad affrontare in quanto la medesima non gli è stata, per l’appunto, prospettata dal medico al momento dell’acquisizione del consenso34. Il secondo può venire in rilievo nelle ipotesi di esito fausto del trattamento, nelle quali non si tratta pertanto di risarcire un danno all’integrità psico-fisica del paziente quanto, piuttosto, i danni che il malato può comunque avere sofferto, pur essendo stato sottoposto ad un intervento che ha migliorato il suo stato di salute, in virtù della lesione del diritto all’autodeterminazione conseguente all’inadempimento dell’obbligo informativo da parte del medico35: si pensi, per esempio, all’ipotesi del

33 Utilizzano questa terminologia, tra gli altri, Ferrando, op. cit., 423; Cacace, I danni da (mancato) consenso informato, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 791; Omodei Salè, La responsabilità civile del medico per trattamento sanitario arbitrario, in Jus Civile, 2015, 807. In giurisprudenza v., per tutte, Cass., 9.2.2010, n. 2847, cit. 34 Rovesciando i termini del discorso, si può affermare che, se il medico avesse correttamente adempiuto l’obbligo informativo circa la possibilità del verificarsi di tali conseguenze, il paziente avrebbe comunque deciso di sottoporsi a quell’intervento, ma al contempo avrebbe anche avuto la possibilità di prepararsi ad affrontare quelle conseguenze e le stesse gli avrebbero procurato minori sofferenze e turbamenti interiori. 35 Al riguardo v., ancora, Cass., 9.2.2010, n. 2847, cit., secondo cui «non potrebbe in assoluto escludersi la risarcibilità del danno non patrimoniale da acuto o cronico dolore fisico […] nel caso in cui la scelta del medico di privilegiare la tutela dell’integrità fisica del paziente o della sua stessa vita, ma a prezzo di sofferenze fisiche che il paziente avrebbe potuto scegliere di non sopportare, sia stata effettuata senza il suo consenso, da acquisire in esito alla rappresentazione più puntuale possibile del dolore prevedibile, col bilanciamento reso necessario dall’esigenza che esso sia prospettato

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paziente che, non informato della mancanza nella struttura dell’apparecchiatura necessaria ad eseguire un determinato trattamento sanitario suscettibile di provocare una sofferenza fisica modesta (quando non, addirittura, nessuna sofferenza fisica)36, acconsenta a sottoporsi ad un diverso trattamento, dall’esito benefico equivalente ma assai più doloroso37, così venendo privato della possibilità di sottrarsi a quel patimento facendosi assistere in un altro nosocomio dotato dell’apparecchiatura di cui sopra. Com’è stato correttamente evidenziato e nonostante alcune pronunce sembrino adombrare l’opposta soluzione, pure la risarcibilità di questa tipologia di danno deve comunque ritenersi condizionata – alla pari della risarcibilità del danno alla salute – alla prova del fatto che il paziente non si sarebbe sottoposto al trattamento se fosse stato adeguatamente informato38.

4. Il dovere della struttura di organizzarsi in modo da consentire l’adeguato svolgimento della relazione informativa tra medico e paziente

Saggi e pareri

to a cogliere l’importanza della seconda epifania della dimensione “organizzativa” del consenso informato che abbiamo messo in luce all’inizio del nostro discorso e, per lungo tempo, ha approfondito questa materia soltanto nella tradizionale prospettiva del rapporto dualistico intercorrente tra il medico e il malato39. L’allontanamento da questa limitativa impostazione consente invece di riconoscere che la trasmissione al paziente delle informazioni necessarie all’esercizio del diritto all’autodeterminazione e l’acquisizione del suo consenso alle cure costituiscono parte integrante del contratto di assistenza sanitaria intercorrente con la struttura nosocomiale40, la quale deve pertanto organizzarsi in modo da far sì che tali procedure possano svolgersi in maniera appropriata41. L’analisi della prassi ospedaliera, del resto, mette chiaramente in luce che le problematicità riscontrabili in questo settore sono molto spesso dovute a disfunzioni e manchevolezze organizzative, indipendenti dalla condotta del personale sanitario coinvolto, quali l’assenza di spazi e tempi adeguati per l’instaurarsi di un autentico dialogo tra medico e paziente, il sovraffollamento dei reparti, la mancanza di coordina-

A differenza di quanto può dirsi con riguardo all’aspetto esaminato nelle pagine precedenti, la riflessione dottrinale e giurisprudenziale ha tarda Per rilievi in tal senso v., oltre alle opere citate nelle note successive, Graziadei, op. cit., 229 ss.; Ferrando, op. cit., 381; Gorgoni, Il trattamento, cit., 747 s. Le ragioni di questo fenomeno vengono ampiamente illustrate da Pioggia, Consenso informato ai trattamenti sanitari e amministrazione della salute, in Riv. trim. dir. pubbl., 2011, 127 ss., spec. 137 ss. 39

con modalità idonee a non ingenerare un aprioristico rifiuto dell’atto terapeutico, chirurgico o farmacologico». Altra pronuncia di grande interesse in materia è, poi, Cass., 12.6.2015, n. 12205, in Danno e resp., 2016, 394 ss., con nota di Gazzara, Responsabilità per omessa o insufficiente informazione pre-operatoria, la quale ha riconosciuto a una paziente, recatasi in ospedale per l’asportazione di una cisti ovarica e operata senza il suo consenso per la rimozione di un tumore maligno scoperto durante l’intervento, il danno rapportato, tra le altre cose, alla privazione della possibilità di rivolgersi ad un centro specialistico per l’oncologia ginecologica. Per maggiori dettagli in argomento, v., ex multis, Pucella, op. cit., spec. 108 ss., 123 ss., 153 ss.; Fin, La responsabilità, cit., 206 ss.; Gorgoni, Il trattamento sanitario arbitrario nella morsa tra diritto vivente e diritto vigente, in Resp. civ. e prev., 2017, 753 ss. 36

Per esempio, il trattamento radioterapico di un tumore.

Per esempio, la rimozione chirurgica della massa tumorale di cui alla nota precedente. 37

38

Omodei Salè, op. cit., 806 s.

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Trib. Venezia, 13.12.2004, in Corr. mer., 2005, 407, con nota di Meani, L’obbligo di informazione in campo medico e danno non patrimoniale in capo ai congiunti del malato terminale; Trib. Venezia, 4.10.2004, in Danno e resp., 2005, 863, con nota di Cacace, Contenuti e funzioni del consenso informato: autodeterminazione individuale e responsabilità sanitaria; App. Genova, 5.4.1995, ivi, 1996, 215, con nota di De Matteis, Consenso informato e responsabilità del medico; Partisani, Dal contratto di spedalità, al contatto sociale al contratto con effetti protettivi, in Franzoni (diretto da), Le responsabilità nei servizi sanitari, Bologna, 2011, 174; Foglia, Consenso e cura, cit., 64 s. 40

De Matteis, Responsabilità e servizi sanitari. Modelli e funzioni, nel Trattato Galgano, XLVI, Padova, 2007, 261 e 303 ss.; Rodolfi, Il consenso informato, in Gelli, Hazan, Zorzit (a cura di), La nuova responsabilità sanitaria e la sua assicurazione. Commento sistematico alla legge 8 marzo 2017, n. 24 (cd. Legge Gelli), Milano, 2017, 437 s.; Foglia, Consenso e cura, cit., 645.

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La dimensione “organizzativa” del consenso informato

mento nell’adempimento degli obblighi informativi tra i diversi professionisti che si prendono cura dello stesso malato42, la frammentarietà, l’eccessiva complessità quando non l’irrazionalità delle procedure di acquisizione del consenso informato43, la mancanza di formazione professionale del personale sanitario in questo specifico ambito, e così via44. La struttura sanitaria ha, quindi, il dovere di prevenire e rimuovere questi ostacoli all’esplicazione del diritto all’autodeterminazione del paziente tramite l’adozione di appropriate misure organizzative, quali, in particolare: la destinazione di adeguate risorse in termini di spazio e di tempo alle procedure di informazione del paziente e di acquisizione del consenso alle cure; la ponderata scelta del momento – rectius dei momenti, considerata l’insindacabile facoltà del paziente di mutare la propria decisione in ogni istante – in

Sicché può accadere che al paziente talune informazioni vengano fornite più volte (ed eventualmente in termini non del tutto coincidenti), mentre altre non vengano mai comunicate perché ciascuno dei medici coinvolti nella cura di quel malato è convinto che saranno/siano già stati gli altri a farlo. Esemplare in tal senso è la fattispecie decisa da Cass., 14.3.2006, n. 5444, in Giur. it., 2007, 343, con nota di Petri, La corretta prestazione medica in assenza di informazione non esonera da responsabilità, relativa ad un trattamento radioterapico eseguito senza una piena informazione su una paziente con patologia oncologica avanzata, nella quale il medico che aveva praticato il trattamento sosteneva che l’informazione avrebbe dovuto essere fornita dall’oncologo che lo aveva consigliato, mentre quest’ultimo sosteneva che tale adempimento fosse a carico del radioterapista. 42

43 Un fenomeno che merita di essere segnalato è, in particolare, quello che si verifica quando l’ordine delle informazioni e dei consensi sottoposti all’attenzione del paziente non segue la successione cronologica dei trattamenti proposti ma la disponibilità del personale ospedaliero, in quanto si punta soltanto a che il paziente faccia, con il minor aggravio di tempo possibile, il “giro dei professionisti” coinvolti (per esempio, se uno dei chirurghi è libero per incontrare il paziente, l’illustrazione dell’atto operatorio e la firma del relativo consenso finiscono per precedere gli analoghi adempimenti riguardanti l’anestesia).

Su tutto questo v., ampiamente, Quagliariello, La raccolta del consenso informato: limiti e complessità della prassi ospedaliera, in Quagliariello, Fin, Il consenso informato. Un’indagine antropologica e giuridica, Bologna, 2016, 75 ss.; Rizzo, Guadagnini, Pelotti, Il processo decisionale condiviso come modello per la scelta informata in medicina, in Riv. it. med. leg., 2016, 869 ss.; Foglia, Consenso e cura, cit., 29 ss.

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cui tali procedure hanno luogo; lo svolgimento di attività di formazione professionale su questi temi e il possibile affiancamento al medico di altri soggetti esperti; l’attenta pianificazione delle modalità e delle tempistiche con le quali il paziente viene reso edotto delle informazioni necessarie a prendere la propria decisione e successivamente ad esprimerla45. Prendendo spunto da quanto viene da lungo tempo rilevato dalla dottrina e dalla giurisprudenza tedesche46, si può in definitiva affermare che la struttura sanitaria deve organizzarsi, anche tramite l’emanazione di apposite indicazioni al personale sanitario, in maniera tale da assicurare che le procedure di informazione e di acquisizione del consenso del paziente si svolgano in conformità all’ordinamento giuridico e che, pertanto, vengano rispettati i requisiti che quest’ultimo impone in tema di contenuto, di forma, di tempo, di legittimazione a fornire e ricevere le informazioni. È importante sottolineare che anche nel nostro ordinamento le idee finora esposte sono state recentemente fatte proprie dapprima dalla giurisprudenza e successivamente pure dal legislatore. La magistratura ha avuto modo di muoversi in tal senso in occasione dell’epilogo dell’assai nota vicenda relativa al “caso Englaro”, avvenuto di fronte al giudice amministrativo in conseguenza del rifiuto della Regione Lombardia di mettere a disposizione una struttura sanitaria pubblica per attuare il diritto all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale che era stato a quella paziente riconosciuto dalla Cassazione civile47. Attraverso

45

V., in particolare, Pioggia, op. cit., 165 ss.

Per i relativi riferimenti v. Faccioli, La responsabilità civile per difetto di organizzazione, cit., 67.

46

Nell’economia del presente lavoro non sarebbe né possibile né utile soffermarsi a ricostruire dettagliatamente tutti gli aspetti della vicenda in discorso, peraltro assai conosciuti anche al di fuori della cerchia di quanti si occupano da vicino di questi temi. Ai fini della nostra riflessione, è sufficiente limitarsi a ricordare che la pronuncia di Cass., 16.10.2007, n. 21748, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 83, ha in conclusione stabilito che il giudice può autorizzare il tutore – in contraddittorio con un curatore speciale – di una persona interdetta, giacente in persistente stato vegetativo, ad interrompere i trattamenti sanitari che la tengono artificialmente in vita, ivi compresa l’idratazione e l’alimentazione artificiale 47

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due pronunce del T.A.R. e due sentenze del Consiglio di Stato48, è stato infatti affermato che, a fronte del diritto inviolabile che il paziente ha di rifiutare le cure interrompendo un trattamento sanitario non (più) voluto, corrisponde un preciso obbligo dell’amministrazione sanitaria di attivarsi e di attrezzarsi perché tale diritto possa essere concretamente esercitato49, obbligo al quale l’amministrazione stessa non può sottrarsi adducendo né una propria ed “autoritativa” visione della cura o della prestazione sanitaria che, in termini di necessaria beneficialità, contempli e consenta solo la prosecuzione della vita (e non, invece, l’accettazione della morte da parte del consapevole paziente), né il rifiuto di procedere da parte dei singoli sanitari motivato sulla base della c.d. obiezione di coscienza50, tale problema potendo

a mezzo di sondino, sempre che: a) la condizione di stato vegetativo sia accertata come irreversibile, secondo riconosciuti parametri scientifici; b) l’istanza sia espressiva della volontà del paziente, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dai suoi convincimenti. Si tratta, per la precisione, di Cons. Stato, III sez., 21.6.2017, n. 3058, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1532; T.A.R. Lombardia, 6.4.2016, n. 650, ivi, 2016, I, 1194; Cons. Stato, III sez., 2.9.2014, n. 4460, in Foro amm., 2014, 2229; T.A.R. Lombardia, 26.1.2009, n. 214, in Giorn. dir. amm., 2009, 267. Per un’approfondita disamina di queste pronunce e dei principi dalle stesse affermati, v. Azzalini, Autodeterminazione dell’incapace ed effettività della tutela: gli obblighi della P.A., in questa Rivista, 2017, 341 ss.; Azzalini, Molaschi, Autodeterminazione terapeutica e responsabilità della p.a. Il suggello del Consiglio di Stato sul caso Englaro, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1525 ss.; Vettori, Il diritto alla salute alla fine della vita: obblighi e responsabilità dell’amministrazione sanitaria, in Riv. it. med. leg., 2016, 1463 ss. 48

In particolare, secondo Cons. Stato, III sez., 2.9.2014, n. 4460, cit., l’individuo ha «diritto ad una prestazione positiva da parte dell’Amministrazione, prestazione complessa che va dall’accoglimento del malato alla comprensione delle sue esigenze e dei suoi bisogni, dall’ascolto delle sue richieste alla diagnosi del male, dall’incontro medico/paziente alla nascita all’elaborazione di una strategia terapeutica condivisa, alla formazione del consenso informato all’attuazione delle cure previste e volute, nella ricerca di un percorso anzitutto esistenziale prima ancora che curativo, all’interno della struttura sanitaria, che abbia nella dimensione identitaria del malato, nella sua persona e nel perseguimento del suo benessere psico-fisico, il suo fulcro e il suo fine».

Saggi e pareri

e dovendo essere superato organizzandosi in maniera tale che sia sempre disponibile un medico disposto a farsi carico della procedura di interruzione del trattamento sanitario voluta dal paziente. A fronte del riscontrato inadempimento di questi obblighi da parte della Regione lombarda, al genitore e tutore della paziente che si era visto illegittimamente rifiutare l’interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione forzata è stato, quindi, accordato un cospicuo risarcimento sia iure hereditario, per la lesione del diritto fondamentale di autodeterminazione in ordine alla libertà di scelta di non ricevere cure, oltre che della salute e del diritto all’effettività della tutela giurisdizionale, sia iure proprio per la lesione del rapporto parentale con la figlia. Com’è stato in precedenza accennato, la decisiva influenza esercitata dalla componente organizzativa della struttura sanitaria sul processo di acquisizione del consenso informato e sull’esercizio dell’autodeterminazione da parte del paziente è stata infine riconosciuta anche dal formante legislativo con la già ricordata l. n. 219/2017, la quale dedica al profilo in discorso le disposizioni contenute nei commi 8°, 9° e 10° dell’art. 1. La prima di esse stabilisce, «limpidamente e molto opportunamente»51, che «il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura», così imponendo di informare a questo fondamentale principio non solo le condotte individuali dei professionisti sanitari, ma pure i profili concernenti l’organizzazione del lavoro, gli orari

49

50 Va sottolineato che nel caso in esame – interruzione di trattamenti sanitari necessari per la permanenza in vita del

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paziente – non viene in rilievo un’ipotesi di obiezione di coscienza prevista dalla legge, bensì la c.d. clausola di coscienza prevista dai codici deontologici, la quale attribuisce al medico non il diritto di rifiutarsi senz’altro di svolgere un determinato compito, ma soltanto la pretesa a che l’amministrazione sanitaria prenda in adeguata considerazione la sua richiesta. Per un approfondimento di questo profilo v., in riferimento al “caso Englaro”, Benciolini, Obiezione di coscienza?, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, 3 ss., nonché, con riguardo alla disciplina della l. n. 219/2017, Paris, Legge sul consenso informato e le DAT: è consentita l’obiezione di coscienza del medico?, in Riv. Biodir., 2018, 31 ss. 51

Azzalini, Legge n. 219/2017, cit., 12.


La dimensione “organizzativa” del consenso informato

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di servizio, i turni di avvicendamento del personale, la formazione degli organigrammi, e così via52. Il comma 9° del sopra menzionato art. 1 prosegue con lo stabilire che «ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale»; ed alla parte finale di questa disposizione si salda poi il comma successivo53, nel quale si prevede che «la formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie comprende la formazione in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative»54. Pure queste disposizioni rivestono un’importanza cruciale, in quanto – insistendo, in particolare, sulla necessità di un’adeguata formazione del personale sanitario in materia55 – mettono in risalto quell’obiettivo di costruire un’organizzazione del servizio sanitario in grado di rispondere in maniera veramente efficace alle esigenze di autodeterminazione del paziente che può essere forse considerato «la vera sfida per il futuro» aperta dalla nuova legge56: obiettivo il raggiungimento del quale, tuttavia, appare fin dall’origine pesantemente ostacolato dalla presenza, nell’art. 7 l. 219/2017, dell’immancabile (ed immancabilmente irrealistica) «clausola di invarianza finanziaria»57.

Cfr. Cavicchi, Le disavventure del consenso informato. Riflessioni a margine della legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento, in Riv. Biodir., 2018, 100. 52

Che trattando di comunicazione tra medico e paziente è, comunque, strettamente collegato anche con il comma 8° del medesimo art. 1: cfr. Canestrari, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: una “buona legge buona”, in Corr. giur., 2018, 305; Zatti, op. cit., 248. 53

54 Con riguardo a questi ultimi aspetti, v. pure quanto prevede l’art. 2 l. n. 219/2017.

Per un approfondimento di questo profilo, v. Zamperetti, Giannini, La formazione del personale sanitario (commento all’articolo 10, commi 9 e 10), in Riv. Biodir., 2018, 36 ss. 55

56

Piccinni, op. cit., 139, 146.

Cfr. Azzalini, Legge n. 219/2017, cit., 35; Francesconi, Commento alla clausola di invarianza finanziaria (Art. 7) della Legge 14 dicembre 2017: Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, in Riv. Biodir., 2018, 78 ss.

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Saggi e pareri

Saggi e pareri

La copertura dei rischi della attività sanitaria nella legge Gelli-Bianco*

g g sa re e a p

Paoloefisio Corrias

Professore nell’Università di Cagliari Sommario: 1. La legge Gelli-Bianco e il binomio responsabilità-assicurazione. – 2. I profili di rilievo assicurativo della legge. – 3. L’assicurazione obbligatoria: destinatari e caratteri. – 4. Le misure di copertura del rischio diverse dal contratto di assicurazione.

Abstract: Nel contributo vengono illustrati i diversi profili di interesse assicurativo contenuti nella l. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. Legge Gelli), i quali attengono ai caratteri del modello di assicurazione obbligatoria contemplato dall’art. 10, ai problemi interpretativi sollevati dalle “analoghe misure” di copertura del rischio (alternative al modello assicurativo) consentite dallo stesso art. 10, all’operatività temporale della garanzia assicurativa disposta dall’art. 11, alle peculiarità dell’azione diretta concessa al soggetto danneggiato nei confronti dell’assicuratore, contemplata dall’art. 12 ed, infine, al Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria di cui all’art. 14. Particolare attenzione è rivolta ai primi due profili, ossia ai caratteri del modello di assicurazione obbligatoria previsto dalla legge e alle misure di copertura del rischio alternative al modello assicurativo. The paper shows the several insurance outlines contained in the law 8th March 2017, no. 24 (the so-called “Gelli Law”). More specifically, the analysed topics are the features of the mandatory insurance model consid-

Il testo riproduce l’intervento al Convegno “Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli-Bianco (l. n. 24/2017)”, tenutosi a Padova il 6 e 7 dicembre 2017. *

ered by the art. 10; the hermeneutical problems about the “analogous measures” of hedging (alternative to the insurance model) allowed by the same art. 10; the temporal functioning of the insurance guarantee provided by the art. 11; the peculiarity of the direct action granted to the damaged against the insurer, pursuant to the art. 12; and, in the end, the “Guarantee Fund” for the damages originated by medical liability provided by the art. 14. A particular attention is reserved to the first two features: i.e. the mandatory insurance model provided by the law and the hedging measures alternative to the insurance model.

1. La legge Gelli-Bianco e il binomio responsabilità-assicurazione L’obiettivo della c.d. legge Gelli-Bianco1 è la prevenzione e la gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie (art. 1, comma 2°). Tali attività, infatti, concorrono a realizzare la sicurezza delle cure che costituisce la finalità

L. 8.3.2017, n. 34, d’ora innanzi Legge Gelli. Sull’iter di formazione della stessa cfr. Alpa, Ars interpretandi e responsabilità sanitaria a seguito della nuova legge Bianco-Gelli, in Contr. e impr., 2017, 728 ss.

1

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fondamentale della legge (art. 1, comma 1°) ed è parte costitutiva del diritto alla salute2. Occorre, dunque, sempre tener presente, in ragione delle diverse implicazioni che ne derivano, che la legge è posta a presidio di un diritto fondamentale e inviolabile dell’uomo, tutelato in primis dalla Costituzione (artt. 2 e 32). In particolare essa è stata emanata con lo scopo specifico di contrastare la medicina difensiva3, ossia una pratica che ostacola la sicurezza delle cure (e, quindi, il diritto alla salute) non solo in quanto aggrava i costi della sanità4 ma soprattutto perché pregiudica gravemente il paziente, dal momento che impedisce al medico di svolgere la sua attività serenamente e, quindi, nel modo più efficace possibile. Appuntando l’attenzione, in questa sede, sul solo profilo della gestione dei rischi (e tralasciando, quindi, quello relativo alla prevenzione) possiamo osservare che esso oltre che nel ricordato comma 1° dell’art. 1, è evocato in diverse altre parti del testo legislativo. Segnatamente, nell’art. 2, comma 4°, che prevede l’istituzione in ogni Regione del Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente e nell’art. 3, comma 2°, che contempla l’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, ossia l’organismo deputato ad acquisire i dati che pervengono dai Centri regionali e a formulare linee di indirizzo che individuano buone misure per la prevenzione e la gestione del rischio5. Siffatta gestione del rischio viene concretamente realizzata, sul piano giuridico, mediante la com-

Non reputiamo necessario, in questa sede, menzionare la cospicua letteratura sul diritto alla salute, ad eccezione del recente contributo sul tema di Busnelli, Il fattore “potenziamento”: salute medicina e deontologia al vaglio delle nuove tecnologie, in questa Rivista, 2017, 315 ss. 2

Cfr. Pucella, È tempo per un ripensamento del rapporto medico-paziente?, in questa Rivista, 2017, 3 s.

3

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penetrazione tra il variegato regime di responsabilità (sia delle strutture che dei medici) previsto dall’art. 7 e le due modalità tecniche di copertura del rischio contemplate dall’art. 10, ossia il meccanismo assicurativo – che indubbiamente costituisce principale mezzo tecnico-giuridico deputato allo scopo, contemplato nel nostro sistema – e le “analoghe misure”, alternative all’assicurazione, che costituiscono uno degli aspetti più originali ed interessanti introdotti dalla legge. Può dunque osservarsi che anche con riguardo ai rischi derivanti dalla attività sanitaria, assume un pregnante rilievo il noto e tradizionale binomio responsabilità-assicurazione, il quale descrive le numerose e profonde interferenze che sussistono tra i due istituti; binomio che è stato oggetto di grande attenzione da parte della dottrina, la quale ha espresso in proposito diverse e talvolta dissonanti chiavi di lettura, sulle quali, tuttavia, non è consentito soffermarsi in questa sede6. Ci si può limitare a rilevare, in maniera sintetica, che il principale condizionamento esercitato dall’istituto della responsabilità civile sull’assicurazione (e viceversa) riguarda l’incidenza che la presenza di un contratto assicurativo a copertura dell’obbligo risarcitorio dell’eventuale responsabile determina sulla funzione assegnata alla responsabilità (soprattutto ma non solamente) aquiliana nel nostro ordinamento7. In proposito viene generalmente osservato che la possibilità di ricorrere al meccanismo assicurativo ha consentito o, comunque, favorito notevolmente il passaggio dall’idea tradizionale della responsabilità civile, essenzialmente deterrente-sanzionatoria, alla concezione prevalentemente compensativa-riparatoria attualmente, seppure con diverse sfumature, riconosciuta dalla dottrina prevalente; concezione che, come è noto, si è manifestata, in una delle sue espressioni più importanti, nella estensione e nella valorizzazione delle ipotesi di responsabilità oggettiva avvenuta con la teorizza-

Implicando esami diagnostici e ricoveri spesso non necessari. Cfr., in proposito, Astone, Riflessi civilistici della responsabilità sanitaria (Riflessioni a margine della l. 8 marzo 2017, n. 24), in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 1115.

4

Cfr., sul punto anche Bugiolacchi, Le strutture sanitarie e l’assicurazione per la R.C verso terzi: natura e funzione dell’assicurazione obbligatoria nella legge n. 24/2017 (legge “Gelli-Bianco”), in Resp. civ. e prev., 2017, 1035. 5

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Sia consentito, anche per i necessari riferimenti, rinviare a Corrias, Responsabilità civile e contratto di assicurazione, in Riv. dir. civ., 2011, 249 ss. 6

7

V., ampiamente, Corrias, op. cit., 252 ss.


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zione del rischio d’impresa8. Secondo questa nota prospettiva, l’imprenditore andrebbe considerato il soggetto più adatto a farsi carico dei costi del fatto dannoso, anche quando non abbia posto in essere alcun comportamento colpevole, in quanto egli, nell’ambito della sua attività, avrebbe la possibilità di ripartire tali costi su di una pluralità di soggetti, proprio mediante la stipulazione di contratti di assicurazione a condizioni più convenienti rispetto a quelle alle quali potrebbero accedere i singoli soggetti esposti all’evento dannoso9. In definitiva, secondo siffatta lettura della responsabilità operata con i noti canoni dell’analisi economica del diritto, la possibilità di ricorrere all’assicurazione condiziona la scelta dei criteri di imputazione della responsabilità segnando, in particolare, il passaggio da quello soggettivo (colpa) a quello oggettivo (rischio d’impresa)10.

Non essendo consentito soffermarsi sulle ulteriori e rilevanti interferenze tra i due istituti, occorre però sottolineare l’importanza e l’efficacia di un virtuoso coordinamento tra gli stessi. Quando, infatti, si raggiunge un punto di equilibrio, è possibile governare al meglio fenomeni assai complessi sul piano tecnico-giuridico e alquanto rilevanti sul piano sociale quali, appunto, in precedenza la determinazione del criterio di imputazione della responsabilità e, attualmente, la responsabilità derivante dell’esercizio dell’attività sanitaria. Ebbene, reputiamo di dover dare atto che la legge Gelli – pur con i limiti che indubbiamente presenta – sotto questo delicato profilo si è posta nella direzione giusta, cercando una efficace interazione tra i due istituti, mediante la previsione di variegate ipotesi di responsabilità alle quali corrispondono altrettanti modelli di copertura del rischio.

Si tratta della nota impostazione di Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, 34 ss.; dello stesso A., Sul significato economico dei criteri di responsabilità contrattuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1970, 513 ss., successivamente sviluppata, in uno dei principali studi di analisi economica del diritto, da Calabresi, Costo degli incidenti e responsabilità civile (Analisi economico giuridica), Milano, 1975, passim, spec. 399 ss. e 401, il quale riconosce esplicitamente di aver privilegiato un approccio al tema analogo a quello di Trimarchi (p. 17, nt. 1). 8

9

2. I profili di rilievo assicurativo della legge L’introduzione, nel nostro sistema dell’ulteriore e importante ipotesi di assicurazione obbligatoria in oggetto11 alla quale, peraltro, non corrisponde un obbligo a contrarre12 per le imprese assicuratri-

V. Calabresi, op. cit., 73 ss.

È appena il caso di rilevare che tale scelta del criterio di imputazione oggettiva nell’ambito della responsabilità d’impresa, è stata successivamente confortata sul piano dogmatico – con precipuo riferimento alla responsabilità contrattuale (o per inadempimento) – da Mengoni, Responsabilità contrattuale, in Castronovo, Albanese, Nicolussi (a cura di), Scritti II Obbligazioni e negozio, Milano, 2011, 343 s. (originariamente in Enc. del dir., XXXXIX, Milano, 1988, 1072 ss.); dello stesso A., Le obbligazioni, in Castronovo, Albanese, Nicolussi (a cura di), op. cit., 363 s. (originariamente in I cinquant’anni del codice civile [atti del convegno di Milano, 4-6 giugno 1992], I, Milano, 1993, 238 ss.), il quale ha addotto come uno degli esempi più efficaci e lineari dell’apertura dimostrata dal nostro impianto codicistico verso le nuove esigenze che si manifestano nella prassi, la ristrutturazione dogmatica mediante la quale viene ricavata, da una serie di norme contenute nella parte speciale dei contratti, una regola di imputazione dell’inadempimento delle obbligazioni connesse a prestazioni d’impresa, modulata sul concetto oggettivo di rischio. Tale visione ha consentito di affiancare tale parametro oggettivo di imputazione dell’inadempimento al principio (generale) della colpa, stante la duttilità dell’art. 1218 c.c., che si limita a enunciare il requisito dell’imputabilità al debitore dell’impos10

sibilità sopravvenuta della prestazione senza però indicare il criterio di imputazione. In siffatto contesto argomentativo, le norme disseminate nella disciplina dei singoli contratti sono state, quindi, considerate non come mere eccezioni al principio della responsabilità per colpa, bensì come la base normativa per l’affermazione di un diverso principio – appunto della responsabilità oggettiva – che opera in un proprio ambito. Tale ipotesi ricostruttiva segna il passaggio dall’argomentazione razionale condotta sulla base dell’analisi economica del diritto (Trimarchi e Calabresi) alla verifica sul piano della moderna dogmatica (Mengoni), necessaria per riscontrare la compatibilità della soluzione originariamente indicata con l’assetto normativo espresso dal nostro sistema (sul punto cfr. Mengoni, Problemi del metodo nella ricerca civilistica oggi in Italia, in Castronovo, Albanese, Nicolussi (a cura di), Scritti I – Metodo e teoria giuridica, Milano, 2011, 179 ss., spec. 194 s.). 11 Per una rassegna esaustiva delle numerose ipotesi di assicurazioni obbligatorie attualmente previste nel nostro ordinamento, cfr. Rossetti, Il diritto delle assicurazioni, 3, Milano, 2013, 755 ss. 12

Come, invece, avviene ex art. 132 c. ass, nel modello pa-

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ci13, manifesta, a nostro modo di vedere, quattro importanti questioni di interesse assicurativo: (i) i caratteri di siffatto modello di assicurazione obbligatoria e delle “analoghe misure” destinate a realizzare la copertura richiesta; (ii) l’operatività temporale della garanzia assicurativa; (iii) le peculiarità dell’azione diretta concessa al soggetto danneggiato nei confronti dell’assicuratore; (iv) la struttura del Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria. In questa sede appunteremo l’attenzione sul primo punto. Occorre, peraltro, tener presente che il regime normativo di cui alla legge Gelli risulta, allo stato, decisamente incompleto, in quanto la definizione del funzionamento della maggior parte degli istituti da essa introdotti presuppone l’emanazione della regolamentazione secondaria contenuta nei quattro decreti ministeriali previsti dai commi 5°, 6° e 7° dell’art. 10 e dal comma 2° dell’art. 14. Essi attengono: (i) ai criteri e alle modalità per lo svolgimento delle funzioni di vigilanza e controllo dell’IVASS sulle imprese di assicurazione che intendono esercitare questo tipo di polizze (comma 5°, art. 10); (ii) ai requisiti minimi che debbono presentare tali polizze con l’individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati, ai requisiti minimi di garanzia e alle condizioni generali di operatività delle misure di assunzione diretta del rischio14, alle regole per il trasferimento del rischio in caso di subentro contrattuale di un’impresa di assicurazioni, nonché alla previsione nel bilancio delle strutture di un fondo rischi e di un fondo costituito dalla messa a riserva per la competenza dei risarcimenti relativi ai sinistri denunciati (comma 6°, art. 10); (iii) all’individuazione e alle modalità di trasmissione all’Osservatorio nazionale delle buone pratiche dei dati relativi alle coperture (ed al loro aziona-

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mento) da parte dei professionisti e dalle strutture sanitarie nonché alle modalità ed ai termini per l’accesso a tali dati (comma 7°, art. 10); (iv) infine, alle modalità di funzionamento del Fondo di garanzia (comma 2°, art. 14). Anticipiamo che tra questi atti regolamentari il più importante è indubbiamente quello che attiene alla determinazione dei requisiti minimi delle polizze e delle condizioni generali di operatività delle altre analoghe misure (ii). Per un verso, infatti, solo sulla base di tale disciplina secondaria sarà dato capire l’intensità e la tipologia della copertura garantita ai terzi danneggiati, per altro verso alla emanazione del decreto, prevista entro centoventi giorni dalla entrata in vigore della legge, è condizionata, per espressa disposizione di legge (art. 12, comma 6°), l’operatività dell’azione diretta. Essendo, tuttavia, l’emanazione della menzionata normativa secondaria alquanto in ritardo rispetto ai tempi stabiliti15, non si può che dare atto della disciplina parziale desumibile dalla legge.

3. L’assicurazione obbligatoria: destinatari e caratteri La legge pone l’obbligo di stipulare la polizza di responsabilità professionale a carico delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private (art. 10, comma 1°), nonché di ciascun esercente la professione sanitaria, operi esso in regime di libera professione (art. 10, comma 2°), oppure in qualità di dipendente di tali strutture (art. 10, comma 3°). In continuità con la precedente legge in materia16, vengono, dunque, coinvolte nel sistema della copertura obbligatoria tutte le figure rilevanti dell’attività sanitaria, seppure con garanzie aventi oggetti diversi.

Tutti e quattro i decreti, infatti, avrebbero dovuto trovare attuazione entro agosto 2017 e, allo stato, risultano ancora incerti i tempi di recepimento. 15

radigmatico, nel nostro sistema, delle assicurazioni obbligatorie, ossia la RC auto. 13 Circostanza correttamente segnalata come uno dei principali limiti dell’intervento normativo. Cfr., tra gli altri, Granelli, La riforma della disciplina della responsabilità sanitaria: chi vince e chi perde?, in Contr., 2017, 377 s. 14

Infra, par. 4.

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Si fa riferimento al c.d. decreto Balduzzi (art. 3, comma 2°, d.l. 13.9.2012, n. 158 convertito con modificazioni dalla l. 8.11.2012, n. 189) successivamente modificato dall’art. 27 del c.d. decreto semplificativo (d.l. 24.6.2014, n. 90 convertito dalla l. 11.8.2014, n. 114). 16


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Le prime due figure – le strutture e i liberi professionisti – sono tenute a garantire la copertura dell’intero rischio relativo all’esercizio della loro professione. Le strutture, in particolare, assumono tutti i rischi relativi alla propria responsabilità civile verso terzi e verso i prestatori d’opera17, tanto per i danni derivanti da “fatto proprio” (carenze organizzative, infezioni dovute all’ambiente e simili), che per quelli cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso le stesse (responsabilità vicaria ex art. 1228 c.c.). L’ampiezza di tale obbligo è conforme al disposto dell’art. 7, commi 1° e 2°, della legge, che prevede a carico di entrambe le figure una responsabilità di natura contrattuale, o, più propriamente, per inadempimento (artt. 1218 e 1228 c.c.): poiché, invero, queste sono responsabili dell’organizzazione per i servizi che rendono al paziente e in tali termini sono, appunto, tenuti a rispondere, la copertura assicurativa deve avere un oggetto corrispondente a tali caratteri della responsabilità. Il sanitario dipendente, invece, poiché risponde a titolo di responsabilità extracontrattuale verso il paziente (art. 7, comma 3°), è tenuto a stipulare, con costi a proprio carico, una polizza che copra il solo rischio della sua responsabilità per colpa grave. Gli altri rischi derivanti dalla sua attività sono, infatti, coperti dalle polizze stipulate dalla struttura, aventi un raggio di copertura assai più ampio. Lo scopo dell’assicurazione del dipendente, del resto, è dichiarato esplicitamente dal legislatore e consiste nel garantire l’efficacia alle azioni di rivalsa di cui all’art. 9 della struttura nei confronti dello stesso; rivalsa che, come è noto, può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave. Per completare il quadro occorre, infine, segnalare una importante novità introdotta dalla legge: l’ultima parte del comma 1° dell’art. 10, stabilisce che la copertura fornita dalla struttura – mediante polizza assicurativa o mediante analoga misura – deve comprendere anche la responsabilità verso terzi, prevista dal comma 3° dell’art. 7, nella quale dovessero incorrere gli esercenti ex art. 2043 c.c.

Conseguentemente la struttura deve accollarsi, in via definitiva, non solo i costi economici della propria responsabilità ex art. 1218 c.c. (e art. 1228 c.c.) per i danni cagionati ai terzi dagli esercenti la professione sanitaria (art. 7, comma 1°), ma anche quelli derivanti dai danni che questi ultimi sono tenuti a risarcire ai terzi, rispondendo del proprio operato ex art. 2043 c.c. (art. 7, comma 3°), a meno che tali danni non siano dovuti a colpa grave. La copertura da parte della struttura anche di tali rischi – che in precedenza non era obbligatoria ma era lasciata agli accordi raggiunti in sede di contrattazione collettiva18 – e che si concreta, quando si fa ricorso al modello assicurativo19, in una assicurazione per conto dei dipendenti20, è particolarmente significativa21 in quanto, nel complessivo assetto voluto dalla legge e fondato, come rilevato, sul binomio responsabilità-assicurazione, ha colmato la lacuna che avrebbe potuto manifestarsi nell’ipotesi – a dire il vero di improbabile verificazione – nella quale il danneggiato scegliesse di perseguire in via autonoma ed esclusiva il medico dipendente – seppure nei limiti della sua responsabilità extracontrattuale – anziché rivolgersi all’impresa di assicurazioni e/o alla struttura sanitaria. In siffatto ipotetico scenario, infatti, qualora il paziente riuscisse a dimostrare, assolvendo l’onere probatorio a proprio carico di cui all’art. 2043 c.c., il comportamento imperito o negligente del medico, questi potrebbe essere condannato a risarcire il danno ma, in assenza del menzionato obbligo per la struttura di garantire la copertura anche della responsabilità aquiliana del medico (che non si traduca in una

18 Cfr., anche per il puntuale richiamo dei contratti collettivi in oggetto, De Luca, D’Aiello, Schiavottiello, Le assicurazioni in ambito sanitario (artt. 10-15, l. 8 marzo 2017, n. 24), in Nuove leggi civ. comm., 2017, 790. 19

E non alle misure alternative di copertura.

20

V., in tal senso, Bugiolacchi, op. cit., 1035 e 1038.

E viene, infatti, opportunamente sottolineata da GagliarL’obbligo di assicurazione e le garanzie per operatori, aziende e danneggiati, in Lovo, Nocco (a cura di), La nuova responsabilità sanitaria (Le modifiche introdotte dalla legge Gelli), Milano-Roma, 2017, 63 e 66. 21

di,

17 “Compresi coloro che svolgono attività di formazione aggiornamento nonché di sperimentazione e di ricerca clinica”.

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colpa grave), non potrebbe22 rivalersi sull’impresa di assicurazioni (o sulla struttura); con il risultato che le conseguenze economiche dell’atto illecito rimarrebbero completamente e definitivamente a suo carico. Con questa disposizione viene, dunque, posto l’ultimo e fondamentale tassello nell’impianto della legge che, nella prospettiva dei costi dei rischi relativi alla attività, mira ad accollare alle strutture gli oneri economici definitivi della copertura – attuata mediante lo strumento assicurativo o i modelli alternativi di gestione del rischio – dei danni provocati al paziente dalle carenze organizzative delle strutture medesime e/o dalla negligenza o dalla imperizia del medico e al medico medesimo i soli costi della copertura assicurativa dei danni dovuti alla sua colpa grave. La filosofia di fondo di questo intervento legislativo, infine, prevede che siano convogliate verso l’impresa di assicurazione, invece che sulla struttura o sul sanitario responsabile, le richieste risarcitorie dei danneggiati. In tale direzione depone l’istituto fondamentale dell’azione diretta del paziente danneggiato verso l’assicuratore prevista dall’art. 12, supportata dagli obblighi di trasparenza che l’art. 10 comma 4°, pone a carico della struttura e che si estrinsecano nel dovere di rendere noti ai pazienti, mediante pubblicazione sul sito internet dell’azienda, i dati dell’impresa di assicurazione, nonché le condizioni essenziali di polizza (massimali, esclusioni di copertura, franchigie, rivalse e simili).

4. Le misure di copertura del rischio diverse dal contratto di assicurazione La previsione di strumenti alternativi a quello assicurativo per la copertura del rischio – espressa dalla formula “altre analoghe misure” – rappresenta, a nostro modo di vedere, il profilo più significativo dell’obbligo di assicurazione disciplinato dall’art. 10 della Legge Gelli.

Fatta salva un’apposita pattuizione tra medico e struttura, magari derivante da accordi sindacali. 22

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Saggi e pareri

Essa, peraltro, non costituisce una novità assoluta, essendo stata introdotta per la prima volta nel nostro ordinamento nel 2014 dall’art. 3, comma 1 bis, del già menzionato decreto Balduzzi23, il quale aveva stabilito l’obbligo “per ciascuna azienda del SSN, struttura od ente privato operante in regime autonomo o di accreditamento o per ciascuna struttura o ente che, a qualsiasi titolo, renda prestazioni sanitarie a favore di terzi, di dotarsi di copertura assicurativa o di misure analoghe per responsabilità civile24 verso terzi, e verso i prestatori d’opera, a tutela dei pazienti e del personale”25. In tale direzione, quantunque non in termini così espliciti, va anche menzionato il precedente art. 3 bis del decreto Balduzzi risalente al 201226 dedicato alla gestione e al monitoraggio dei rischi sanitari, il quale prevedeva che le aziende sanitarie, nell’ambito della loro organizzazione, dovessero analizzare i rischi sanitari e adottare “le necessarie soluzioni per la gestione dei rischi medesimi, per la prevenzione del contenzioso e la riduzione degli oneri assicurativi”. L’adozione di strumenti di gestione del rischio alternativi a quello assicurativo, d’altro canto, è stata esplicitamente contemplata, in ambito europeo, in altri settori. In tema di sperimentazione clinica di medicinali per uso umano, ad esempio, l’art. 76 del reg. UE, n. 536/201427, ha disposto, al par. 1, che “gli Stati membri garantiscono l’esistenza di sistemi

Come modificato dall’art. 27 del d.l. n. 90/2014 (c.d. decreto semplificativo). 23

24

Corsivo aggiunto.

Si ricorda, in proposito, che l’art. 3, comma 5°, lett. e), d.l. 13.8.2011, n. 138, convertito dalla l. 14.9.2011, n. 148, ha introdotto l’obbligo di assicurazione della responsabilità professionale per i professionisti e il d.l. 24.9.2014, n. 90, convertito nella l. 11.8.2014, n. 114, ha precisato cha tale obbligo non trova applicazione “nei confronti del professionista sanitario che opera nell’ambito di un rapporto di lavoro dipendente con il Servizio sanitario nazionale” (art. 3, comma 4°, del decreto Balduzzi). 25

Introdotto nel testo originario del decreto (in ordine al quale cfr., tra i tanti, Gagliardi, Profili di rilevanza assicurativa nella riforma “Balduzzi”: poca coerenza e scarsa attenzione al sistema, in Riv. it. med. leg., 2013, 771 ss.). 26

27 Reg. UE n. 536/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014 sulla sperimentazione clinica di medicinali per uso umano e che abroga la direttiva n. 30/2001 CE.


La copertura dei rischi nella legge Gelli-Bianco

125

di risarcimento dei danni subiti da un soggetto a causa della partecipazione a una sperimentazione clinica condotta nel loro territorio sotto forma di assicurazione, garanzia o di meccanismi analoghi che siano equivalenti, quanto a finalità, e commisurati alla natura e alla portata del rischio28” e, al par. 2, ha aggiunto che “il promotore e lo sperimentatore utilizzano i sistemi di cui al paragrafo 1 nella forma adeguata per lo Stato membro interessato in cui è condotta la sperimentazione clinica”. Inoltre, l’art. 10, par. 4 della recente dir. n. 97/2016 UE del Parlamento e del Consiglio, del 20 gennaio del 2016, sulla distribuzione assicurativa, ha disposto che “gli intermediari assicurativi e riassicurativi devono essere in possesso di un’assicurazione per la responsabilità professionale valida in tutto il territorio dell’Unione o di analoga garanzia29 per i danni derivanti da negligenza nell’esercizio della loro professione ...”. Ebbene, l’ingresso graduale nel nostro ordinamento – avviato dal decreto Balduzzi, consolidato dal decreto semplificativo e adesso consacrato, appunto, nella Legge Gelli – della possibilità, per le strutture sanitarie, di adottare misure alternative all’assicurazione per tutelarsi contro i rischi derivanti dalla responsabilità civile verso terzi e verso prestatori d’opera, evoca il concetto di autoassicurazione, il quale ha riscosso, in tempi recenti, un notevole interesse da parte della dottrina30. È appena il caso di ricordare che tale fenomeno è emerso e si è diffuso a seguito delle difficoltà che lo strumento assicurativo ha progressivamente incontrato ad operare con efficacia in ambito sanita-

rio31. La principale ragione di tali difficoltà, che non possono essere adeguatamente illustrate in questa sede, ha alla base l’incremento esponenziale, negli ultimi anni, delle richieste di risarcimento dei danni nei confronti delle strutture e dei medici che vi operano. Ciò ha determinato una notevole diminuzione dell’interesse delle imprese di assicurazione ad esercitare in tale settore e, comunque, un sensibile innalzamento dei premi e, quindi, dei costi per la copertura assicurativa a carico delle Aziende sanitarie. A questo deve poi aggiungersi, come causa non secondaria, la tendenza di una parte significativa degli assicuratori ad opporre resistenza al pagamento degli indennizzi a fronte dell’accadimento del sinistro, sollevando, al momento del coinvolgimento nella gestione delle conseguenze dello stesso da parte dell’assicurato, eccezioni di vario genere, non di rado infondate o aventi scopo dilatorio. Tale prassi ha determinato un sensibile aumento dei contenziosi tra assicurati ed assicuratori, al quale è conseguita una grave situazione di ritardo e di incertezza dei pagamenti che si è riverberata sulla posizione dei terzi danneggiati. In definitiva, lo strumento assicurativo è divenuto per un verso poco appetibile sia per le imprese che per le strutture, per altro verso poco sicuro per i terzi danneggiati. Tali ragioni hanno indotto alcune Regioni, già sulla base della previgente disciplina, ad imboccare la strada dell’autoassicurazione, tanto effettuando interventi, per la gestione dei rischi sanitari, aggiuntivi rispetto alla stipulazione di contratti assicurativi (c.d. autoassicurazione parziale), quanto adottando regimi di ritenzione integrale del rischio e rinunciando quindi del tutto a questi ultimi (autoassicurazione totale)32. Considerata l’esigenza primaria di tutelare adeguatamente gli eventuali pazienti danneggiati, queste scelte e, segnatamente, la più radicale descritta per ultima, hanno suscitato notevole preoccupazione.

28

Corsivo aggiunto.

29

Corsivo aggiunto.

Cfr., tra gli altri, Velliscig, Autoassicurazione e rischio sanitario. Riflessioni critiche alla luce dell’esperienza statunitense, in Resp. civ. e prev., 2017, 666 ss.; Onnis Cugia, Responsabilità civile del medico, responsabilità della struttura sanitaria e contratto di assicurazione dopo la legge Balduzzi, ivi, 2016, 1776 ss.; Romagnoli, Autoassicurazione della responsabilità medica: compatibilità con i principi di diritto interno ed europeo, in Danno e resp., 2015, 329 ss.; Gagliardi, I riflessi dell’autoassicurazione (e dell’obbligo di assicurazione) sul mercato e sulle logiche assicurative, in Riv. it. med. leg., 2014, 1221 ss. Si vedano anche i diversi contributi contenuti in Landini (a cura di), Autoassicurazione e gestione del rischio, in Quaderni Cesifin, 2015. 30

Cfr., sul punto, Colaianni, Autoassicurazione e assicurazione nella responsabilità civile medica, in Landini (a cura di), op. cit., 38 ss.; precedentemente, Di Gaspare, Problemi e prospettive della tutela assicurativa della responsabilità sanitaria, in Amministrazione in cammino, 2010, 1 ss.

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32

Cfr. Onnis Cugia, op. cit., 1773 ss.

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È stata, infatti, sottolineata, a fronte della genericità delle “analoghe misure” previste dal legislatore, la necessità di precisare i caratteri di questi mezzi alternativi di gestione del rischio e, soprattutto, ci si è domandati se essi siano idonei a garantire un risultato analogo, in termini di sicurezza, a quello offerto dallo schema assicurativo33. Lo sviluppo di siffatta tematica, così ricca di implicazioni, richiederebbe, su un piano generale, un approfondimento tanto del modello del risparmio in rapporto a quello del trasferimento del rischio34, quanto delle tecniche di gestione del rischio che non necessitano della peculiare organizzazione imprenditoriale richiesta alle imprese di assicurazione. Inoltre occorrerebbe considerare le importanti indicazioni ricavabili dalle altre esperienze giuridiche nelle quali, da tempo, viene praticato il modello della self-insurance35. Non essendo, tuttavia, consentite tali verifiche e limitandoci ad appuntare l’attenzione sulle peculiarità del nostro sistema, ci limitiamo ad osservare che il grado di efficacia e sicurezza di tali modelli alternativi dipenderà dai criteri di calcolo del rischio e dalle regole di gestione delle risorse raccolte che i soggetti sui quali incombe l’obbligo di copertura saranno tenuti ad adottare, qualora optino per la gestione diretta, anziché affidarsi ad una impresa di assicurazioni.

V. Velliscig, op. cit., 680 ss.; Romagnoli, op. cit., 335 s.; GaI riflessi dell’autoassicurazione, cit., 1222; Astone, op. cit., 1123.

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gliardi,

34 È appena il caso di ricordare che il meccanismo aleatorio assicurativo, che realizza il trasferimento del rischio, prevede la soddisfazione dell’interesse del contraente che ha necessità della copertura a “costo parziale”, ossia mediante lo scambio tra una prestazione incerta dell’impresa, adeguata a far fronte al bisogno derivante dall’evento contemplato, ed una prestazione certa alla quale egli è tenuto (il pagamento del premio), ma di entità notevolmente inferiore alla prima. In alternativa a questo schema si pone il meccanismo del risparmio, il quale è fondato sul semplice accantonamento delle risorse necessarie per far fronte al bisogno eventuale, il quale viene, appunto, soddisfatto “a costo pieno”. Sia consentito, su questi aspetti, di rinviare a Corrias, Il contratto di assicurazione (Profili funzionali e strutturali), Napoli, 2016, 26 ss., spec. 29. 35 Sulle quali, con particolare riguardo all’esperienza americana, v. ampiamente Velliscig, op. cit., 667 ss.

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Escludendo, infatti, che possa essere ritenuto adeguato allo scopo un semplice accantonamento di risorse effettuato senza adeguata consapevolezza e professionalità nella valutazione delle possibili passività o, peggio, affidandosi a criteri empirici – quali l’ammontare delle somme che sarebbero state destinate al pagamento dei premi qualora fossero stati stipulati contratti assicurativi36 –, siamo persuasi che i requisiti minimi essenziali per l’efficacia di tali strumenti alternativi consistano: (i) nella assunzione da parte delle strutture sanitarie di competenze specifiche ed adeguate nel calcolo, nel controllo e nella gestione dei sinistri mediante una apposita struttura di autovalutazione dei rischi (c.d. clinical risk management); (ii) nella effettiva capacità di costituire, investire e proteggere (mediante un fondo destinato o separato) siffatte risorse nella misura richiesta dai calcoli statistici ed attuariali effettuati dalla struttura interna di autovalutazione. Si tratta di una logica non dissimile da quella che caratterizza la gestione professionale del rischio da parte delle imprese di assicurazioni37 che, ricordiamo, si scinde nelle due fondamentali fasi di valutazione dei rischi e di calcolo delle poste passive (riserve tecniche) necessarie a far fronte ai sinistri (artt. 36 bis ss. c. ass.) e di approntamento e di gestione dei valori patrimoniali (attivi) corrispondenti a tali poste (copertura delle riserve tecniche – art. 38 c. ass.). Il tutto rafforzato dalla segregazione patrimoniale di siffatti attivi, attuata mediante l’iscrizione degli stessi nel registro a copertura delle riserve tecniche (art. 42, comma 2°, c. ass.). Considerata la profonda differenza tra la struttura organizzativa dell’azienda sanitaria e quella dell’impresa di assicurazioni è, peraltro, del tut-

36 In senso critico verso l’adozione di tali criteri, affatto condivisibilmente, cfr. Romagnoli, op. cit., 337 e Velliscig, op. cit., 681.

In tale direzione anche De Luca, D’Aiello, Schiavottiello, op. cit., 803, i quali rilevano che la determinazione degli accantonamenti da parte delle strutture sanitarie non può non tenere conto delle tecniche attuariali utilizzate dalle imprese di assicurazione per il calcolo del premio puro, il quale nelle assicurazioni contro i danni è effettuato in base alle previsioni relative alla frequenza e al costo medio dei sinistri.

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La copertura dei rischi nella legge Gelli-Bianco

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to evidente che le prime possono riprodurre in modo solamente embrionale ed incompleto il sistema di gestione del rischio delle seconde38. D’altro canto, come si è anticipato, mancano allo stato indicazioni legislative sulle misure di carattere gestionale e patrimoniale al quale sono tenute le Aziende che intendano gestire direttamente i rischi sanitari, essendo stato demandato al decreto del Ministro dello sviluppo economico – di concerto con il Ministro della salute e del Ministro dell’economia e delle finanze – il compito di stabilire “i requisiti minimi di garanzia e le condizioni generali di operatività delle altre analoghe misure anche di assunzione diretta del rischio” (comma 6°, art. 10). Per poter esprimere una valutazione consapevole sulla efficacia delle “altre analoghe misure”, occorre quindi necessariamente attendere il tenore delle regole che saranno poste a carico delle Aziende, osservando, tuttavia, già da ora che il successo o l’insuccesso della gestione non assicurativa del rischio, sarà, a nostro avviso, determinato dalla misura nella quale i criteri di calcolo dei rischi e di gestione interna delle risorse per far fronte agli stessi che il legislatore secondario sceglierà di adottare, saranno prossimi o quantomeno conformi – almeno nelle logiche di fondo – a quelli, oramai affatto collaudati, ai quali si debbono attenere le imprese di assicurazione. Qualora ciò avvenisse e i criteri stabiliti dal regolamento risultassero conformi a quelli imposti alle imprese di assicurazione, peraltro, occorre far presente che si sarebbe dinnanzi ad una gestione “assicurativa” del rischio operata da un soggetto non autorizzato all’esercizio dell’attività assicurativa né sottoposto alla vigilanza dell’IVASS e che ciò costituirebbe una rilevante eccezione al mo-

dello generale al quale è improntato il nostro sistema finanziario considerato nel suo complesso. Ricordiamo, infatti, che le operazioni di gestione e copertura del rischio in senso stretto, in ragione della specificità tecnica con la quale devono essere attuate e della delicatezza degli interessi dei soggetti coinvolti, è consentita unicamente alle imprese di assicurazione. In particolare, è vietata agli altri intermediari (banche, imprese di investimento, intermediari ex art. 106 t.u.b.) che operano nel mercato finanziario, quantunque per un verso essi siano sottoposti, al pari delle imprese di assicurazione, a un rigoroso regime di vigilanza volto a preservare la loro stabilità e solidità finanziaria e per altro verso vada registrata, con riguardo a diverse altre operazioni finanziarie, la tendenza verso un regime di sostanziale fungibilità dei soggetti legittimati a porle in essere39. Ebbene, in questo contesto caratterizzato dal mantenimento della riserva delle operazioni di gestione e copertura dei rischi in favore delle imprese di assicurazione, fa riflettere la scelta in controtendenza di consentire operazioni di questo genere alle strutture sanitarie.

38 A tacer d’altro mancherebbe, nel sistema alternativo di gestione del rischio, un istituto analogo al requisito patrimoniale di solvibilità (artt. 45 bis ss. c. ass.) che, in ambito assicurativo, ha la funzione di rimediare ad eventuali patologie del funzionamento delle riserve tecniche (ossia della misura patrimoniale destinata ad operare nelle situazioni di funzionamento fisiologico dell’impresa). Si pensi, inoltre, al rilievo, ai fini di un corretto calcolo dei requisiti patrimoniali in ambito assicurativo, del ruolo svolto dalla funzione attuariale contemplata dall’art. 30 sexies c. ass.

39 V., in argomento, Condemi, Pariotti, Stanziale, Prodotti a capitale garantito: titoli strutturati, gestioni individuali e fondi comuni garantiti, in L’innovazione finanziaria (Gli amici in memoria di Gabriele Berinonne), Milano, 2003, 593 ss., spec. 600 s., i quali si soffermano sulle differenze tra le gestioni garantite e analoghe operazioni che comportano l’assunzione di una garanzia suscettibili di essere poste in essere dagli intermediari finanziari abilitati (banche, imprese di investimento e SGR) e l’attività assicurativa vera e propria di gestione del rischio, sottoposta a riserva.

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Saggi e pareri

Saggi e pareri

La crisi dell’assicurazione per la responsabilità sanitaria, ovvero la necessità di un nuovo modello riparatorio

g g sa re e a p

Italo Partenza

Avvocato in Milano Sommario: 1. Premessa. – 2. L’analisi economica del diritto e le aporie dei sistemi “no fault”. – 3. La necessità di un nuovo modello riparatorio e di un differente strumento assicurativo.

Abstract: La responsabilità civile oggettiva – intesa come strumento per una maggiore tutela della collettività in tutti i casi di danni conseguenti all’esercizio di attività intrinsecamente pericolose ma utili – si è rivelata uno strumento inadeguato. Ciò è ancor più vero nell’ambito della responsabilità professionale ove la serenità del lavoro e la prevenzione degli eventi avversi richiedono semmai un sistema “no blame”. Di conseguenza anche l’assicurazione di responsabilità civile risulta totalmente inidonea a tutelare il terzo, posto che tale obiettivo è assai meglio perseguibile con l’assicurazione in favore di terzo associata ad un generale esonero dell’operatore sanitario salvo diritto di rivalsa in casi di colpa grave. Strict liability and any “no fault” liability system are proving useless in regulating damages caused running a firm or in any dangerous activity, permitted as socially useful. Especially in the health system a “no blame” culture should take the place of “no fault” systems in order to grant serenity on the job and the right cooperation in loss prevention. Liability insurance itself is proving useless and its place should be taken by a coverage on behalf of the third party, together with a waiver for doctors excepting gross fault cases.

1. Premessa La recente legge di Riforma della responsabilità medica, nota con il nome di Legge Gelli, ha dedicato una particolare attenzione alla disciplina degli obblighi assicurativi di professionisti e strutture sanitarie pubbliche e private. Le scelte operate in questo senso dal Legislatore presentano non pochi punti oscuri, sia sotto un profilo sistematico, che logico, come già evidenziato da chi scrive in questa rivista1. Tali punti oscuri sono la conseguenza del tentativo da un lato di salvare prassi createsi nel mercato ed al momento non altrimenti rimediabili2, dall’altro di una scarsa comprensione dei meccanismi di funzionamento del mondo assicurativo di RC (come amano chiamarla gli addetti ai lavori).

Partenza, L’assicurazione della responsabilità sanitaria post Riforma Gelli e le criticità del mercato: una mancata risposta ai bisogni reali, in questa Rivista, 2017, 49 ss.

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La legge Gelli sembra non poter smentire le esperienze in auto ritenzione del rischio proprie della Toscana, Emilia Romagna ed in parte Lombardia, invero ispirate più a necessità (mancanza di assicuratori) che a precisa scelta, e a criteri di calcolo del costo dei sinistri e delle garanzie non sempre univoci e privi delle necessarie valutazioni di sostenibilità economico finanziaria nel medio periodo.

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A tali incomprensioni si aggiunge la mancanza di una riflessione profonda sul significato e sul ruolo della responsabilità civile, essendo tutte le attenzioni (e forse anche le competenze) dedicate al tema della sicurezza delle cure, della prevenzione degli eventi avversi, che costituiscono una parte fondamentale del mondo ospedaliero, ma che attengono solo in parte ai profili risarcitori ed assicurativi. È presente infatti, nella legislazione degli ultimi anni3, una particolare attenzione all’assicurazione della RC professionale vista in un’ottica di tutela del terzo e di garanzia sociale di solvibilità del responsabile civile e di sufficiente liquidità all’interno del sistema, tale da garantire il funzionamento dello stesso sotto il profilo del ristoro dei danni. Questa pia missione, che il Legislatore ha inteso riprendere dai desiderata europei come espressione di un moderno solidarismo sociale il cui costo è traslato sulle imprese e sui professionisti, presenta – a parere di chi scrive – connotazioni spesso “ideologiche” e che si caratterizzano per una sostanziale misconoscenza dei necessari equilibri entro i quali assicurazione danni – assicurazione di RC e responsabilità civile possono coesistere e produrre buoni risultati. La realtà di un mondo assicurativo di fatto estraneo al rischio della responsabilità sanitaria fa sorridere rispetto agli obblighi assicurativi imposti dalla legge, cui il mercato allo stato non dà riscontro o lo fornisce in modo molto parziale. Il Legislatore, voce che grida nel deserto senza esser Giovanni Battista, distribuisce qua e là obblighi assicurativi, azioni dirette e – fra un po’ – opponibilità parziali o totali di franchigie e SIR, mescolando istituti tra di loro non sempre compatibili4.

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L’art. 12 della l. n. 247/2012 ne è un chiaro esempio.

A volte i metodi di elaborazione parlamentare dei testi normativi, fra “navette” ed emendamenti nelle commissioni parlamentari producono risultati che – senza alcuna intenzione di risultare irriguardosi – ricordano un po’ quelli dei goffi apprendisti stregoni delle fiabe quando mischiavano in un alambicco polvere d’oro, ali di pipistrello e code di lucertola e che infastidiscono quei noiosi giuristi che operano sul campo ogni giorno, cercando un senso nelle disposizioni normative, e che si ritrovano a vagare, come splendidamente

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Poiché è più facile criticare che proporre e la matita perfetta è quella che non ha mai scritto, si cercherà di disegnare e suggerire una pars construens che non lasci la necessaria pars destruens ad adagiarsi in un platonico lamento. Peraltro, questa rivista nasce con il nobile e condiviso intento di favorire un dialogo fra professionisti sanitari e giuristi che non si arrocchino nello sterile ed algido esame di norme finalizzate a tutelare situazioni di fatto, ma tentino una comprensione delle realtà e dei vissuti quotidiani. Con questo spirito, chi scrive ritiene sia giunto il tempo di un nuovo manifesto della responsabilità civile che parta dalla presa d’atto della sua inadeguatezza a svolgere pur importanti e necessarie finalità solidaristico-sociali per giungere all’affermazione dell’importanza del momento assicurativo – come strumento di gestione dei rischi introdotti nel mercato nell’esercizio di attività pericolose ma utili – ma con nuove modalità. Nel tentativo di illustrare schematicamente il contenuto e le ragioni di un nuovo modello riparatorio del danno si farà poco ricorso a note ed a riferimenti bibliografici, dal momento che per una volta si desidera guardare ad un futuro che prende lo spunto, più che da autorevoli precedenti, da esperienze fallimentari. È tempo di ridiscutere alcuni degli assiomi della responsabilità oggettiva e di ridare valore al concetto di colpa, avendo il coraggio di rispondere alle esigenze solidaristiche con una logica assicurativa, ma non di ispirazione RC.

2. L’analisi economica del diritto e le aporie dei sistemi “no fault” Come noto, la responsabilità civile è divenuta negli ultimi decenni uno strumento finalizzato a favorire comportamenti ritenuti virtuosi attraverso l’utilizzazione del risarcimento del danno, il cui costo è stato allocato in capo a soggetti ai quali l’ordinamento aveva consentito lo svolgimento di attività pericolose in ragione della loro utilità sociale.

narra Pessoa, come persi nella nebbia...


La crisi dell’assicurazione per la responsabilità sanitaria

L’imprescindibile tema, quindi, della necessaria individuazione del soggetto che possa o debba sopportare il costo dell’evento avverso determinato dallo svolgimento di attività imprenditoriali delle quali non è possibile fare a meno, ma che al tempo stesso introducono un maggior rischio nella società, è centrale nella comprensione dei moderni istituti della responsabilità civile. La contrattualizzazione della responsabilità sanitaria, la responsabilità oggettiva del produttore di beni difettosi, la responsabilità senza colpa nel danno ambientale o la responsabilità del datore di lavoro alla luce di un’interpretazione quanto mai estensiva dell’art. 2087 c.c.5 altro non sono che la manifestazione di un’idea generale che vede la responsabilità senza colpa (a volte addirittura

Nell’ambito dell’azione esercitabile dall’INAIL dobbiamo, infatti, ricordare che la Corte costituzionale ha ampliato i margini di cognizione del reato “incidenter tantum” da parte del Giudice civile (Corte cost., 11.12.1995, n. 499, in Resp. civ. e prev., 1996, 265, con nota di Merlin; Corte cost., 30.4.1986, n. 118, ivi, 1987, 60; Corte cost., 19.6.1981, n. 102, in Dir. lav., 1982, 301; Corte cost., 9.3.1967, n. 22, consultabile all’indirizzo: www.giurcost.org), sicché, se per un verso è vero che il t.u. n. 1124/1965 prevede l’esonero di responsabilità del datore di lavoro e che, quindi, l’INAIL potrebbe, in astratto agire solo in presenza di una sentenza che abbia accertato la responsabilità penale del datore di lavoro, è vero anche che, in virtù di tale facoltà riconosciuta al giudice civile, l’Istituto può sempre agire civilmente ex artt. 10 e 11 del t.u. e chiedere al Giudice civile, nei casi descritti dalla Corte, che, incidenter tantum, accerti l’eventuale sussistenza degli estremi di un reato, al solo fine di far venir meno l’esonero e, dunque, di vedere accolta la propria richiesta risarcitoria. Tale richiesta risulta, di fatto, accoglibile “in re ipsa” posto che la sola violazione dell’art. 2087 c.c., anche avendo rispettate le eventuali norme specifiche, comporta una responsabilità civile, ma integra anche gli estremi della colpa penale (Il collegamento fra reato e violazione dell’art. 2087 c.c. è ribadito in modo chiaro da Cass., 19.8.1996, n. 7636, in Riv. inf. mal. prof., 1996, 85), per giunta con violazione di norme antinfortunistiche e, dunque, con perseguibilità d’ufficio del reato stesso. Ciò significa che l’INAIL, per vedere accolte le proprie richieste e far così venir meno l’esonero, doveva semplicemente far accertare al giudice l’esistenza di una colpa ex art. 2087 c.c. come se l’esonero non esistesse posto che la condizione per farlo sempre venir meno si attua, come abbiamo visto, per effetto stesso della presunzione di colpa civile. In altri termini, anche per quanto attiene al regresso dell’INAIL, l’esonero di responsabilità del datore di lavoro, di fatto, non è mai applicabile, posto che è astrattamente sempre possibile far coincidere la sua colpa civile con quella penale.

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anche senza nesso causale6) come uno strumento per risolvere il problema del costo degli accidents7 ispirandosi da un lato alle teorizzazioni, prima nord americane e poi europee ed italiane in particolare, dell’analisi economica del diritto e, dall’altro, all’antico brocardo del cuius commoda eius et incommoda.

Si veda ad esempio la giurisprudenza che in tema di danno ambientale prevede una responsabilità dominicale del proprietario del sito a prescindere da qualsivoglia riferibilità dell’inquinamento ad una sua attività pregressa o attuale: Cons. Stato, VI sez., 15.7.2010, n. 4561, in Foro amm. Cons. Stato, 2010, 1602 ss.; T.A.R. Lazio, 14.3.2011, n. 2263, in Amb. e svil., 2011, 543 ss. Ricorda in questo senso Russo, “chi inquina paga?”: la multiforme applicazione del principio nella giurisprudenza nazionale in tema di ripartizione degli obblighi di risanamento ambientale, in Riv. giur. ed., 2017, 889b, nota a Cons. Stato, VI sez., 5.10.2016, n. 4099, che “Il proprietario incolpevole non ha alcun obbligo di dare impulso al procedimento di messa in sicurezza e bonifica di un sito potenzialmente contaminato, in quanto, a mente dell’art. 245 cod. amb., è tenuto soltanto a comunicare agli Enti locali la soglia di rischio raggiunta per il terreno e l’eventuale contaminazione, dando corso alle sole misure di prevenzione secondo la procedura di cui all’art. 242. Tuttavia, sia il proprietario incolpevole sia altri interessati non responsabili dell’inquinamento si vedono riconosciuta, proprio dall’art. 245 succitato, la facoltà di intervenire in qualunque momento per la realizzazione degli interventi di bonifica e messa in sicurezza su base volontaria; la peculiarità e la differenza con il diverso regime obbligatorio previsto per il responsabile dell’inquinamento risiede nella possibilità – per il soggetto non responsabile che abbia avviato volontariamente l’attività di bonifica – di interrompere altrettanto volontariamente la bonifica intrapresa. Difatti, l’iniziativa volontaria non fa sorgere in capo alla P.A. poteri autoritativi nei confronti del soggetto non responsabile che si sia attivato per far fronte all’inquinamento, rientrando nella piena discrezionalità dell’interessato la valutazione della convenienza circa il proseguimento dell’attività di bonifica volontariamente intrapresa (in senso conforme, v. T.A.R. Lombardia, Sez. IV, 8 luglio 2014 n. 1768). Pertanto, nel caso di avvio volontario del procedimento di bonifica da parte del proprietario incolpevole o di altro soggetto interessato, non viene meno il dovere della P.A. di attivarsi – dopo aver ricevuto comunicazione dell’avvenuta contaminazione ai sensi dell’art. 245 cod. amb. – per ricercare l’effettivo responsabile dell’inquinamento, al fine di obbligarlo ad effettuare le operazioni di bonifica cui è tenuto ex lege.”.

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Calabresi, The Cost of Accidents: A Legal and Economic Analysis, New Haven, 1970. Per un’analisi aggiornata dell’approccio economico alla Responsabilità civile si veda Faure, Tort Law and Economics, I, in Encyclopedia of law and economics, Cheltenham, 2009.

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In questa teorizzazione l’assicuratore della responsabilità civile dovrebbe costituire uno strumento ineludibile capace di regolare il mercato, individuando le imprese meritevoli di assicurazione distinguendole da quelle più pericolose che finirebbero, quindi, per essere espulse dal mercato in quanto non assicurabili ed introducendo nel mercato stesso una liquidità idonea a garantire la solvibilità dell’assicurato e quindi l’effettiva riparazione del danno. Questa visione, i cui limiti andremo presto ad esaminare, non ha trovato di fatto attuazione in nessuno degli ambiti sopra citati: non l’ha trovata in ambito di responsabilità da prodotto difettoso come dimostrano le difficoltà per un imprenditore nel rinvenire una copertura assicurativa in caso di prodotti esportati in alcuni importanti paesi del mondo (USA, Canada e Messico, per esempio), non l’ha trovata in tema di assicurazione inquinamento, se si pensa che gli assicurati son così pochi che per avere i numeri sufficienti a quotare il rischio è stato necessario creare un consorzio di imprese denominato Pool, e non l’ha trovata nell’ambito che maggiormente interessa questa rivista, ovvero nella responsabilità sanitaria, ove l’esperienza passata è stata fallimentare8 e quella presente è talmente rarefatta da non essere effettivamente valutabile. A questo proposito, chi scrive è convinto che le cause di questi insuccessi siano da riferire nell’ordine all’inadeguatezza: i) della responsabilità civile a svolgere funzioni di natura solidaristica o sociale o previdenziale: non è attraverso l’estensione dei criteri di accertamento della responsabilità che si realizzano obiettivi sociali; ii) dell’assicurazione di responsabilità civile a perseguire i medesimi obiettivi sociali, solidaristici o previdenziali; iii) dello strumento degli istituti della obbligatorietà dell’assicurazione di RC e della azione diretta del terzo danneggiato nei confronti dell’assi-

Partenza, L’assicurazione di responsabilità civile in un mercato in evoluzione, in Brusoni et al. (a cura di), R.C. Gestione, Ritenzione e assicurazione del rischio: alla ricerca di una prospettiva integrata, OASIS, 2012. 8

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Saggi e pareri

curatore di RC: l’applicazione massiva del modello RC Auto al mondo professionale ed aziendale è un macroscopico esempio di sottovalutazione dei problemi in parte legato alla diffusa convinzione che tutto ciò che è assicurazione è assimilabile alla copertura del rischio da circolazione auto. Nell’ambito sanitario è fortunatamente oramai diffusa la consapevolezza che un sistema colpevolizzante – o se si preferisce responsabilizzante in via sanzionatoria – non è il metodo migliore per garantire l’obiettivo primario dell’attività medica in senso lato, ovvero la sicurezza delle cure e del paziente. Non è qui il caso di riprendere l’enorme bibliografia9 creatasi prima in sede di valutazione dei rischi nell’industria aeronautica e poi giunta fino al mondo delle cure sanitarie, mediante la quale gli studiosi del settore hanno aiutato a comprendere che nelle attività pericolose e complesse l’evento avverso molto raramente dipende dalla colpa individuale di qualcuno, quanto piuttosto da una combinazione di elementi che insieme concorrono alla realizzazione di un rischio temuto. Troppo spesso, ancora, si fa riferimento al concetto di colpa per valutare eventi che costituiscono la realizzazione di un pericolo che poteva e do-

Ex multis Reason, Human error: models and management (2000) 320 BMJ 768 ss.; Waring, Beyond blame: cultural barriers to medical incident reporting (2005) 60 Social Science and Medicine 1927 ss.; Elmqvist, Rigaudy, Vink, Creating a no-blame culture through medical education: a UK perspective (2016) 9 J Multidiscip. Health 345 s.: “The aviation and automobile industries currently make use of real-time error reporting in order to document and analyze errors, with the objective to prevent similar occurrences in the future. In order for this to be possible in the health care setting, a no-blame culture is necessary. Yet, as demonstrated by Walton, the extent of professional responsibility for mistakes is still not fully understood. More than one “never-event” still occurs every day in the UK National Health Service (NHS), indicating that the system is allowing for them to happen. This poses the question: why has the aviation industry achieved “Ultra Safe” status, while health care trails behind in the rate of fatal adverse events? We identify two reasons why the no-blame culture is not yet present in the NHS: Leotsakos et al. emphasize the importance of a comfortable and safe professional environment in which patient safety can be improved. Yet in the NHS, the hierarchical style of management tends to deter staff from reporting mistakes, often for fear of possible repercussions”. 9


La crisi dell’assicurazione per la responsabilità sanitaria

veva essere gestito attraverso la comprensione dei meccanismi organizzativi10. Tutta la cultura dell’Hospital Risk Management si fonda non già sulla deresponsabilizzazione degli operatori, ma sul loro pieno coinvolgimento nella comprensione dei potenziali eventi avversi (i c.d. near missed) in una logica che tutto è tranne che colpevolizzante, in quanto ha come obiettivo la comprensione del problema, la prevenzione dell’evento avverso e non già la punizione di un capro espiatorio. Il nostro Legislatore, per evidenti esperienze professionali sicuramente più sensibile a questo tema che a quello assicurativo, ha opportunamente disciplinato la non producibilità in giudizio degli audit clinici11, dando attuazione proprio a questa logica: se voglio sempre meglio comprendere il rischio e favorire la prevenzione, devo poter contare sulla fiducia degli operatori coinvolti, che non può poi essere tradita con successive colpevolizzazioni, se non altro per l’elementare brocardo di civiltà del nemo se detegere tenetur. Purtroppo la cultura no blame del Legislatore finisce qui e l’operatore sanitario, sia pure “alleggerito” da una disciplina penalistica sostanzialmente più favorevole ma ancora presente, rimane assoggettato alla spada di Damocle della rivalsa della Corte dei Conti che, di fatto, influenza la gran parte delle scelte decisionali delle strutture sanitarie coinvolte nel momento in cui son chiamate a dover decidere in merito a quella forma di tutela del diritto alla salute che è il risarcimento del danno provocato dal proprio personale. È un dato di fatto che ogni volta in cui non è operante una garanzia assicurativa le cosiddette analoghe misure12 si rivelano inidonee a garanti-

10 Kohn, Corrigan, Donaldson, To err is human: building a safer health system, Washington D.C., 2000. 11

Art. 16, comma 1°, l. 8.3.2017, n. 24.

Art. 10 (Obbligo di assicurazione) 1. Le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private devono essere provviste di copertura assicurativa o di altre analoghe misure per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d’opera, ai sensi dell’articolo 27, comma 1-bis, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, anche per danni cagionati dal persona12

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re il giusto risarcimento in tempi accettabili, dal momento che la cultura del sospetto e della punizione – di cui il procedimento inquisitorio del Giudice contabile è emblema – preclude scelte decisionali tempestive che vengono impropriamente traslate al Giudice civile, sovente anche oltre il primo grado di giudizio. Ciò in quanto la struttura sanitaria, alla quale ancora si applica un regime di strict liability in virtù di una “lata” interpretazione della responsabilità contrattuale, tende a rimandare eventuali necessarie ammissioni di responsabilità civile, sapendo che ciò implicherà una rivalsa di natura semi penalistica, seppur solo economica, nei confronti dei propri dipendenti. Ciò determina un ritardo nei risarcimenti, un incremento nel costo dei sinistri simile se non peggiore di quello attuato e sofferto dalle Compagnie di assicurazione ed un clima ben diverso sotto il profilo della serenità operativa per i professionisti sanitari, nonostante la non producibilità degli audit. Il criterio scelto dal Legislatore ed avallato dalla Magistratura (o forse dovremmo dire il contrario, essendo la responsabilità contrattuale aziendale una elaborazione in primis giurisprudenziale), che in teoria dovrebbe costituire una maggiore garanzia per il cittadino, produce in realtà due risultati opposti: un ingiustificato ritardo nel conseguimento del giusto risarcimento per il danno alla salute patito ed il permanere di una situazione

le a qualunque titolo operante presso le strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche e private, compresi coloro che svolgono attività di formazione, aggiornamento nonché di sperimentazione e di ricerca clinica. La disposizione del primo periodo si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina. Le strutture di cui al primo periodo stipulano, altresì, polizze assicurative o adottano altre analoghe misure per la copertura della responsabilità civile verso terzi degli esercenti le professioni sanitarie anche ai sensi e per gli effetti delle disposizioni di cui al comma 3 dell’articolo 7, fermo restando quanto previsto dall’articolo 9. Le disposizioni di cui al periodo precedente non si applicano in relazione agli esercenti la professione sanitaria di cui al comma 2.

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di insicurezza per gli operatori sanitari, che certo non giova alla sicurezza delle cure. Per quanto riguarda il profilo assicurativo è un dato di fatto che quanto più la responsabilità civile si orienta verso modelli di strict liability o di responsabilità oggettiva, tanto più l’assicuratore di responsabilità civile si allontana dalla disponibilità a garantirne i rischi. Per comprendere quanto l’interesse dell’assicuratore di RC sia inversamente proporzionale rispetto allo svilupparsi di ipotesi di responsabilità “aggravata”, occorre tenere presente che questo tipo di assicurazione ha come obiettivo il contenimento e la gestione del rischio non tanto attraverso un controllo sulle modalità di fare impresa dell’assicurato, se non in fase di valutazione preassuntiva del rischio, non avendo di fatto alcuna influenza sui processi aziendali, quanto invece attraverso la gestione dei sinistri, poiché la negoziazione con la controparte per conto dell’assicurato all’interno del cosiddetto “patto di gestione della lite”13 in punto an è l’unico strumento effettivo per incidere sul rischio contenendo gli esborsi in maniera molto più significativa di quanto possano essere incrementati i premi. Di fatto, la vera redditività di un programma assicurativo risiede in una oculata gestione dei sinistri, piuttosto che su logiche di prevenzione del danno che l’assicuratore non può calcolare a suo vantaggio. Infatti, i sinistri mai nati – in quanto evitati “a monte” – sono un vantaggio per la collettività, ma non per l’assicuratore, in quanto incidono molto poco nel calcolo del premio, a differenza di quelli che statisticamente comunque si verificano, ma che – opportunamente gestiti in punto responsabilità – possono portare importanti vantaggi. L’assicuratore di RC calcola il premio infatti alla luce di ciò che è stato senza tenere conto di ciò che avrebbe potuto esserci.

13 La Corte di cassazione, intervenuta sul tema, ha statuito che “... il patto con cui l’assicuratore assume la gestione della lite configura un negozio atipico accessorio al contratto di assicurazione, costituendo un mezzo attraverso il quale viene data esecuzione al rapporto stesso”, Cass., 17.11.1994, n. 9744, in Giur. it., 1995, 1202.

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Saggi e pareri

È quindi di tutta evidenza che al ridursi dei margini di trattativa sulla responsabilità dell’assicurato, in considerazione di criteri particolarmente severi nell’accertamento ora della colpa ora dello stesso nesso di causalità, l’assicuratore di RC vede drammaticamente ridursi le opportunità di intervento e contenimento del rischio. L’assicurazione di responsabilità civile, per poter funzionare adeguatamente, richiede quindi un forte collegamento con la colpa, poiché quanto più la responsabilità civile si oggettivizza, tanto meno redditizia diviene la sua assicurazione, non essendo questa legata in termini di quotazioni alle mere chances di accadimento, come invece avviene per le altre coperture del ramo danni che invece valorizzano le minori possibilità di accadimento. Se forte è il collegamento dell’assicurazione R.C. con la colpa allo stesso tempo essa deve ricorrere in poche reali ipotesi e non essere “oggettivizzata” come strumento di allocazione dei costi risarcitori poiché, in tal caso, il costo della copertura diviene insostenibile ed al tempo stesso si demoliscono i vantaggi per la collettività della cultura del “no blame”. La rottura dell’alleanza fra questo tipo di assicuratore ed assicurato, rappresentata dall’introduzione di vaste aree di non assicurazione, rende ancor più evidente questa discrasia. Anche l’idea originalmente nata nel mondo anglosassone di coprire solo i cosiddetti rischi di punta, ovvero i sinistri più gravi, eliminando dalla garanzia tutti gli eventi di minor valore economico caratterizzati da alta frequenza di accadimento, si sta rivelando un clamoroso boomerang, poiché se un tempo assicurato ed assicuratore navigavano sullo stesso vascello, nello stesso mare, condividendo gli stessi rischi ora, a tempesta in corso, hanno obiettivi fra loro contrastanti: l’uno aspira al non affondamento della nave, l’altro spera di poterne preservare integre anche le più piccole strutture, dovendole altrimenti riparare a proprio costo, mentre considera un male minore l’affondamento perché in quel caso sa che il danno complessivo non graverà tutto su di sé. Ciò influenza le scelte decisionali, sicché l’assicuratore ha convenienza a vedere transatti sinistri al di sotto dell’area di assicurazione, onde non vedere impegnata la propria copertura, l’assicu-


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rato – ossessionato dal timore della Corte dei Conti – tenta di negare il più possibile le proprie possibilità, talvolta ritardando ingiustamente il risarcimento al terzo, sapendo che comunque non rischierà importi maggiori della soglia al di sopra della quale entrerà in gioco il suo assicuratore. Che ciò avvenga sistematicamente sarebbe disonesto affermarlo, ma che tali deplorevoli prassi siano presenti nel mercato sarebbe altrettanto ingiusto negarlo. Il mandato in rem propriam che l’assicurato concedeva all’assicuratore attraverso il patto di gestione della lite si è trasformato in un permanente conflitto di interessi che preclude una piena tutela del danno alla salute al terzo ed una efficiente gestione dei sinistri, alla quale è legata la remuneratività della polizza. Anche la decisione di voler maggiormente tutelare il terzo attraverso l’introduzione di una azione diretta nei confronti della Compagnia assicuratrice, evidentemente replicata dall’ineffabile mondo RC Auto, si rivela quanto mai improvvida, poiché esacerba la conflittualità fra assicurato ed assicuratore, anche in ragione di quanto sopra accennato in tema di aree di non copertura e preclude i benefici ed auspicati effetti di una co-gestione del rischio e del sinistro. Parimenti, l’obbligatorietà a senso unico della copertura assicurativa rappresenta una evidente finzione, sia sotto il profilo della sua non cogenza, data l’opportunità di adottare analoghe misure, sia sotto quello del disinteresse effettivo delle Compagnie rispetto agli obblighi dei propri potenziali assicurati.

3. La necessità di un nuovo modello riparatorio e di un differente strumento assicurativo Chi scrive è convinto che il superamento dell’assicurazione di responsabilità civile come strumento per garantire il rischio che il terzo debba sopportare i costi di un evento avverso provocato da un’attività imprenditoriale lecita ma pericolosa non comporti la rinuncia alla tutela del terzo ma, anzi, il ritorno all’utilizzo di una forma di copertura – che trova chiara disciplina all’interno delle norme codicistiche che regolano il contratto di

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assicurazione – che possa meglio garantire la società dal rischio degli eventi avversi. Tale nuovo modello riparatorio dovrebbe fondarsi su un generale esonero di responsabilità – civile e penale – del professionista sanitario – salvo macroscopiche ed evidenti ipotesi di colpa grave – ed al tempo stesso prevedere una tutela di natura assicurativa – ma non di RC – finalizzata all’indennizzo del danno alla salute legato all’insita insicurezza delle cure, a prescindere dalla colpa, sempre che – ovviamente – il peggioramento della salute altro non sia che il naturale evolversi di una patologia non altrimenti curabile o evitabile. L’assicuratore – ovviamente del ramo danni – avrebbe altresì diritto ad usufruire del diritto di rivalsa previsto dall’art. 1916 c.c.14, mediante il quale potrebbe recuperare l’indennizzo versato all’assicurato, qualora tale pagamento sia stato influenzato da condotte talmente irresponsabili del proprio contraente da alterare lo stesso rischio. Tale diritto di surroga assolverebbe anche alla funzione di regolare il mercato rispetto a comportamenti particolarmente negligenti a tutela ancora una volta della collettività e della qualità delle cure. Lo strumento attraverso il quale è possibile raggiungere questo obiettivo può essere individuato nel ricorso alle disposizioni di cui all’art. 1891 c.c., che prevede l’assicurazione per conto altrui15.

“La surrogazione ex art. 1916 costituisce una peculiare forma di successione a titolo particolare nel diritto al risarcimento dell’infortunato, che si realizza nel momento in cui l’assicuratore abbia comunicato al terzo responsabile che l’infortunato è stato ammesso ad usufruire dell’assistenza e degli indennizzi previsti dalla legge, al contempo manifestando la volontà di avvalersi della surroga. Nella conseguente azione non ha pertanto rilievo il rapporto assicurativo di carattere pubblicistico concernente gli infortuni sul lavoro, ma soltanto la responsabilità aquiliana dell’autore dell’atto illecito, obbligato a risarcire il danneggiato o l’assicuratore che ne abbia anticipato l’indennizzo, sicché il responsabile non è legittimato ad opporre all’assicuratore eccezioni concernenti il contenuto del rapporto, salvo che esse incidano sulla misura del risarcimento del danno cui egli sarebbe tenuto nei confronti del danneggiato.” Cass., 29.4.2015, n. 8620, in Resp. civ. e prev.,2015, 968. 14

15 Art. 1891 c.c. “Se l’assicurazione è stipulata per conto altrui o per conto di chi spetta, il contraente deve adempiere gli obblighi derivanti dal contratto, salvi quelli che per loro

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Il modello, in realtà, non risulta affatto dissimile da quello originariamente previsto in un ambito altrettanto pericoloso rispetto a quello sanitario, ovvero quello dell’infortunistica sul lavoro e delle malattie professionali, ove il lavoratore gode di un’assicurazione infortuni e malattia stipulata obbligatoriamente dal suo datore di lavoro, sul quale grava il costo del rischio – quantificato dal premio – ed il timore di un’azione di regresso ex artt. 10 e 11 del t.u. n. 1124/65 in caso di comportamenti particolarmente gravi. Anche tale modello, in realtà, è stato di fatto demolito dalla Giurisprudenza allorché la rivalsa è divenuta la regola, sia per la possibilità attribuita all’INAIL di ottenere un accertamento incidenter tantum del fatto-reato al solo fine di poter esperire l’azione di regresso, sia per l’interpretazione particolarmente ampia e colpevolizzante data dalla Giurisprudenza all’art. 2087 c.c.16 Ciò che appare rilevante, tuttavia, è che il sistema della tutela antinfortunistica in sé rappresentava e tutt’ora rappresenta un valido connubio fra la tutela della collettività ed il superamento del concetto di colpa, attraverso l’istituto dell’esonero di responsabilità del contraente, che si vede così liberato dal rischio incolpevole degli eventi avversi.

natura non possono essere adempiuti che dall’assicurato. I diritti derivanti dal contratto spettano all’assicurato, e il contraente, anche se in possesso della polizza, non può farli valere senza espresso consenso dell’assicurato medesimo. All’assicurato sono opponibili le eccezioni che si possono opporre al contraente in dipendenza del contratto. Per il rimborso dei premi pagati all’assicuratore e delle spese del contratto, il contraente ha privilegio sulle somme dovute dall’assicuratore nello stesso grado dei crediti per spese di conservazione”. 16 Ricorda a riguardo la Suprema Corte che “… Questa Corte ha ripetutamente chiarito che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente (v., fra le tante, Cass., 21 maggio 2002 n. 7454; 27 febbraio 2004 n. 4075; 17 aprile 2004 n. 7328; 14 marzo 2006 n. 5493)”. Cass., 11.1.2007, n. 399, in Mass. Giust. civ., 2007, 1.

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L’intero modello fondato sulla oggettivazione dell’obbligo risarcitorio e sulla illusoria prospettiva di una sua traslazione assicurativa nell’ambito di una copertura RC costituisce un errore logico ed interpretativo del reale: quando un’attività – come quella sanitaria – è allo stesso tempo utile e rischiosa, non deve essere la responsabilità civile a dover gestire il costo dei danni ad essa addebitabili, salvo che gli stessi non siano stati causati da negligenze talmente gravi da meritare un addebito e, dunque, un approccio sanzionatorio. Il costo degli accidents deve essere gestito con strumenti diversi rispetto a quelli proposti dall’ordinamento, allorché per colpa si sia violato il principio del neminem laedere. Se non vi sono rimproveri evidenti da muovere al gestore dell’attività, un moderno ed efficiente sistema giuridico sa ricorrere a strumenti assicurativi obbligatori che possano distribuire il peso economico di eventi statisticamente non evitabili, né più né meno dei rischi di un incendio o di un’alluvione o di un infortunio. Allorché all’interno della struttura sanitaria si siano verificate gravi violazioni degli obblighi di diligenza e di prudenza o sia colpevolmente mancato un appropriato governo della sfera dei rischi affidati alla propria responsabilità, determinando un danno al terzo, sarà dunque ammissibile un’azione di rivalsa/surroga nei confronti del responsabile civile. Al di fuori di questi casi, la gestione dei costi delle attività sanitarie deve essere gestita assicurando la collettività con premi posti a carico della struttura, facendo così salvo l’antico principio del cuius commoda eius et incommoda. Assicurazione diretta del terzo ed esonero di responsabilità dell’assicurato, salvo i casi di evidente e macroscopica negligenza che giustificheranno l’azione di rivalsa dell’assicuratore, rappresentano un’antica soluzione assai più valida degli equivoci attuali. È tempo, dunque, di un nuovo modello che prenda coscienza del fatto che non è la responsabilità civile e, tantomeno, la sua versione oggettivista dell’analisi economica del diritto a dover realizzare obiettivi di politica sociale, che vanno invece perseguiti esattamente con lo stesso modello pensato per i regimi previdenziali.


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Appare quindi opportuno, senza le zone grigie create in occasione della legislazione sul danno da sangue infetto17, ragionare in termini di copertura assicurativa in favore del paziente, allorché l’esito delle cure sia stato peggiorativo rispetto all’inizio delle stesse, ponendo il relativo premio a carico della struttura erogante la prestazione e riconoscendo il diritto dell’assicuratore di rivalersi verso il proprio contraente, ma soltanto in evidenti casi di negligenza dello stesso. Niente più inutili colpevolizzazioni, più nessuna copertura assicurativa fittizia che lasci l’assicurato in balìa di eventi incerti ed ulteriori rispetto al rischio in sé18, nessun ritardo nel ristoro del danno alla salute subito dal paziente, al contrario maggiore ed effettiva serenità degli operatori, rapidità e certezza nell’erogazione del giusto ristoro del diritto alla salute violato, costi degli “accidents”

17 Ricorda la Suprema Corte a riguardo che “Il diritto al risarcimento del danno conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto ha natura diversa rispetto all’attribuzione indennitaria regolata dalla legge n. 210 del 1992; tuttavia, nel giudizio risarcitorio promosso contro il Ministero della salute per omessa adozione delle dovute cautele, l’indennizzo eventualmente già corrisposto al danneggiato può essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (“compensatio lucri cum damno”), venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo.” Cass., 14.3.2013, n. 6573, in Mass. Giust. civ., 2013 e ancora “ Nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della salute per il risarcimento del danno conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, l’indennizzo di cui alla legge n. 210 del 1992 non può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (“compensatio lucri cum damno”), qualora non sia stato corrisposto o quantomeno sia determinato o determinabile, in base agli atti di causa, nel suo preciso ammontare, posto che l’astratta spettanza di una somma suscettibile di essere compresa tra un minimo ed un massimo, a seconda della patologia riconosciuta, non equivale alla sua corresponsione e non fornisce elementi per individuarne l’esatto ammontare, né il carattere predeterminato delle tabelle consente di individuare, in mancanza di dati specifici a cui è onerato chi eccepisce il “lucrum”, il preciso importo da portare in decurtazione del risarcimento” Cass., 14.6.2013, n. 14932, ibidem.

Il riferimento a taluni eccessi attuati dalle compagnie di assicurazione in tema di eccezioni contrattuali fondate sulla data di pervenimento del claim è evidente. 18

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certi e diritto di rivalsa nei confronti del responsabile civile in evidenti ipotesi di colpa grave. Un’ipotesi di assicurazione sociale del paziente per casi di inadempimento sanitario (che altrimenti avrebbe dato luogo a responsabilità civile) con esonero dei responsabili salvo casi di manifesta colpa grave, consentirebbe di traslare tutto il sistema in un’ottica assicurativa e prevenzionale, eliminando del tutto la “contaminatio” della rivalsa della Corte dei Conti, vero strumento di disturbo – teorico e pratico – dell’intero sistema19. Dal ristoro del danno alla salute da prestazioni sanitarie il modello potrebbe essere esteso alle altre ipotesi di responsabilità aziendale, riportando il mondo assicurativo nel mercato in una modalità più efficiente ed utile per la collettività e ponendo fine ad un ideologico “imperialismo della responsabilità civile”20 o a goffe imitazioni della garanzia RC Auto, per aprire una nuova stagione della responsabilità civile fondata sulla colpa alla quale si affianchi una tutela assicurativo indennitaria della collettività mediante il ricorso a garanzie del Ramo Danni21 in favore di terzo.

La previsione di una copertura assicurativa di natura sociale farebbe venir meno l’esborso da parte dell’erario e dunque il presupposto stesso dell’azione del Giudice contabile. 19

20 Ponzanelli, L’imperialismo della responsabilità civile, in Danno e resp., 2016, 221.

Come noto il contratto di assicurazione prevede coperture appartenenti al Ramo Vita aventi natura previdenziale e del Ramo Danni (delle quali l’assicurazione RC è un particolare micro settore) fondate sul principio indennitario. 21

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L’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria

g g sa re e a p

Mauro Paladini

Professore nell’Università di Brescia Sommario: 1. Premessa. L’esclusione della rivalsa nel giudizio penale a carico dell’esercente la professione sanitaria. – 2. Domanda risarcitoria del danneggiato e tipologia delle azioni di rivalsa. – 3. Il limite soggettivo dell’azione di rivalsa: il dolo o la colpa grave. – 4. Il limite “causale” della rivalsa: le carenze organizzative della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica. – 5. Il limite oggettivo della rivalsa. – 6. I limiti temporali. – 7. I limiti probatori della rivalsa. – 8. L’azione del danneggiato nei confronti dell’esercente la professione sanitaria e il problema dell’intervento e della chiamata in causa. – 9. Conclusioni.

Abstract: Nella prospettiva di contenere il fenomeno della c.d. “medicina difensiva” e proteggere i medici dal rischio di esborsi conseguenti ad azioni risarcitorie per errori professionali, la legge n. 24 del 2017 – oltre all’obbligo di assicurazione per l’esercente la professione sanitaria (art. 10, comma 2° e 3°) – ha introdotto severi presupposti dell’azione di rivalsa, che la struttura sanitaria può proporre nel caso di avvenuto risarcimento della parte danneggiata (art. 9). In particolare, è previsto che la rivalsa possa essere esercitata soltanto in caso di dolo o colpa grave, e nel ridotto termine di un anno dall’avvenuto risarcimento in favore del danneggiato. Tuttavia, nonostante tale restrittiva disciplina, la legge non esclude, nel caso in cui la vittima non abbia convenuto in giudizio il medico, né la sua chiamata in causa da parte della struttura (art. 106 c.c.) né il suo intervento volontario in giudizio (art. 105 c.p.c.). L’esame complessivo della normativa, quindi, pone il duplice dubbio (i) se non fosse stata più opportuna la coraggiosa scelta di escludere del tutto la legittimazione passiva diretta del personale sanitario e (ii) se la convenienza processuale della struttura sanitaria di coinvolgere il medico nel giudizio risarcitorio non finisca col privare di effettività la disciplina della rivalsa o

col relegarla alla sola ipotesi del giudizio contabile nei confronti del medico pubblico dipendente. Law no. 24/2017 introduced – in addition to the insurance obligation for doctors and other healthcare professionals (art. 10, co. 2°-3°) – severe constraints to the act of recours that the health facility can bring in the event of occurred compensation of the part affected (art. 9), in order to reduce the phenomenon of defensive medicine and to protect doctors from the risk of legal actions caused by malpractice. Amongst other things, the Law requires that the act of recours can be applied in cases of intentional fault and serious misconduct and within one year of the compensation in favor of the injured party. However, despite this restrictive regulation, the Law does not preclude, in case the victim did not sue the doctor, a legal action by the health facility (art.106 c.c.), or his intentional action (art. 105 c.p.c.). The overall assessment of the regulation raises two issues: first if it would be more appropriate to totally exclude the direct passive legitimacy of the healthcare professionals; second if the procedural advantage of the health facility for involving the doctor inside the judgment for damages could make less effective the regulation of the recours or limit it to accounting judgment for doctor as public employee.

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1. Premessa. L’esclusione della rivalsa nel giudizio penale a carico dell’esercente la professione sanitaria Con la l. 8 marzo 2017, n. 24 è stato portato a compimento un disegno di riorganizzazione normativa della responsabilità sanitaria – già intrapreso con il d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, in l. 8 novembre 2012, n. 18 (c.d. legge Balduzzi) – che, negli auspici, non doveva limitarsi soltanto a definire la vexata quaestio della natura giuridica della responsabilità del medico, ma intendeva dettare una regolamentazione organica (quale non si rinveniva addirittura a far tempo dalla legge n. 833/78 istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale), della c.d. “sicurezza delle cure”, intesa come «l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative»1. In tale contesto, tuttavia, ampia parte della disciplina è stata dedicata alla responsabilità penale e civile dell’esercente la professione sanitaria e alle modalità di conseguimento del risarcimento del danno da parte del paziente. Dal punto di vista penale, il legislatore – introducendo la causa di esclusione della punibilità del rispetto delle linee guida o delle buone pratiche clinico assistenziali (art. 590 sexies, introdotto dall’art. 6, l. n. 24/2017) – ha implicitamente ribadito l’ovvia responsabilità penale di diritto comune per colui che, nell’esercizio della professione sanitaria, commetta i delitti di omicidio o di lesioni personali colpose (artt. 589 e 590 c.p.)2. Nessuna deroga o modifica è stata introdotta, tuttavia, rispetto all’ipotesi in cui il paziente/persona

Sul tema generale della relazione di cura, l’importante contributo di Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010.

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offesa intenda proporre e coltivare le proprie pretese nell’ambito del processo penale, ove potrà costituirsi, pertanto, come parte civile (artt. 74 ss. c.p.) e domandare il risarcimento del danno nei confronti dell’imputato e del “responsabile civile”, che non potrà che essere identificato nella struttura sanitaria. Peraltro, nel caso di azione risarcitoria promossa nel giudizio penale, deve ritenersi inapplicabile la condizione di procedibilità consistente nel ricorso ex art. 669 bis c.p.c. o nell’alternativo tentativo di conciliazione (entrambi previsti dall’art. 8, l. n. 24/2017), posto che la predetta condizione è espressamente sancita rispetto a «chi intende esercitare un’azione innanzi al giudice civile…». Tuttavia, qualora intervenga la revoca della costituzione di parte civile (art. 82 c.p.), la relativa azione può essere proposta davanti al giudice civile, ma in tal caso deve ritenersi che la proposizione dell’azione torni ad essere sottoposta alla condizione di procedibilità di cui all’art. 8. Occorre sottolineare, inoltre, che nel giudizio penale la facoltà di citare nel processo il soggetto civilmente responsabile spetta alla sola parte civile (o, eccezionalmente, al Pubblico Ministero, ove il danneggiato sia incapace per infermità di mente o per età minore e manchi temporaneamente il legale rappresentante: art. 77, co. 4°, c.p.c.), sicché, da un lato, deve affermarsi la facoltà del danneggiato/parte civile di citare la struttura sanitaria in qualità di responsabile civile e, dall’altro, deve escludersi, invece, che il medico, imputato nel giudizio penale, possa eventualmente citare la struttura per essere dalla stessa manlevato o per sentire accertare di aver operato, in ipotesi, in «situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa» (art. 9, comma 5°, l. n. 24/2017)3.

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Sui profili penali della legge n. 24/2017, Caputo, La responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria dopo la L. n. 24 del 2017… “Quo vadit”? Primi dubbi, prime risposte, secondi dubbi, in Danno e resp., 2017, 293 ss. 2

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Sebbene con riferimento a un’ipotesi specifica, Corte cost., 29.9.2004, n. 300, in Giur. cost., 2004, 5, ha dichiarato manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3, 24 e 97 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 83 c.p.p., nella parte in cui non riconosce all’imputato la facoltà di chiedere la citazione del responsabile civile.

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L’azione di rivalsa

In tale contesto normativo, deve parimenti escludersi che la struttura sanitaria, citata dalla parte civile nella qualità di responsabile civile, possa proporre domanda di rivalsa nei confronti dell’imputato, proprio in considerazione della peculiare ratio della presenza del responsabile civile nel giudizio penale, che – alla luce della giurisprudenza sopra richiamata – risiede nella sola esigenza di tutela delle ragioni del danneggiato e non può estendersi, pertanto, a un globale accertamento dei rispettivi ambiti di responsabilità e alla definizione dei rapporti interni tra medico e struttura sanitaria. Anche in caso di contestuale presenza del medico-imputato e della struttura civilmente responsabile, all’interno del processo penale, dunque, ogni eventuale pretesa di rivalsa dovrà essere rimandata in sede civile e disciplinata dall’art. 9, l. n. 24/2017.

2. Domanda risarcitoria del danneggiato e tipologia delle azioni di rivalsa Nella più frequente ipotesi di giudizio civile di responsabilità l’interprete si trova dinanzi al problema del non semplice coordinamento tra la previsione dell’art. 7 – ai sensi del quale il danneggiato può agire tanto nei confronti della struttura sanitaria (comma 1°), quanto dell’esercente la professione sanitaria (sebbene a titolo extracontrattuale, «salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta col paziente») – e quella dell’art. 9, secondo cui «l’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave» e, «se l’esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno, (…) soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale [nonché] a pena di decadenza, entro un anno dall’avvenuto pagamento». In primo luogo, dall’art. 7, comma 3° – norma discussa e criticata per il “doppio regime” di re-

sponsabilità4 che introduce (contrattuale per la struttura sanitaria; extracontrattuale per il medico) – pare evincersi, infatti, che il medico e la struttura sanitaria possano essere convenuti entrambi direttamente in giudizio dal danneggiato, nel qual caso si pone il problema se la struttura possa far valere immediatamente le proprie ragioni di rivalsa nei confronti del medico. In secondo luogo, tale possibilità del contestuale giudizio risarcitorio nei confronti del medico e della struttura pone l’ulteriore interrogativo se, qualora il danneggiato preferisca agire soltanto nei confronti della struttura, quest’ultima possa chiamare in causa il medico per proporre immediatamente nei suoi confronti la domanda di rivalsa: possibilità che – laddove ammessa – porrebbe seri dubbi di effettività dei limiti sanciti dall’art. 9 per l’ipotesi della rivalsa promossa successivamente alla definizione del giudizio risarcitorio nei confronti della struttura. Per tentare di fornire una risposta a tali interrogativi, occorre preliminarmente analizzare i presupposti e i limiti dell’azione di rivalsa della struttura nei confronti del medico, introdotta dall’art. 9, l.. n. 24/20175, che – secondo il suo tenore letterale – sembra presupporre che il danneggiato abbia proposto la domanda risarcitoria soltanto nei confronti della struttura sanitaria e che l’esercente la professione sanitaria, oltre a non essere stato originariamente convenuto in giudizio, non

Sulla questione della natura giuridica della responsabilità, prima e dopo le leggi del 2012 e del 2017, nell’amplissima bibliografia, cfr. Ponzanelli, Medical malpractise: la legge Bianco-Gelli, in Contr. e impr., 2017, 356; Pucella, I difficili assetti della responsabilità medica, in Nuova giur. civ. comm., 2007, II, 445 ss.; i contributi di Calvo, La «decontrattualizzazione» della responsabilità sanitaria, Cicero, La presunta eclissi della responsabilità, tra contratto e torto, da contatto sociale e Guaglione, La responsabilità da contatto sociale nell’evoluzione dell’ordinamento, in Volpe (a cura di), La nuova responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli-Bianco (legge n. 24/2017), Bologna, 2018. 4

La previsione e la disciplina dell’azione di rivalsa costituiscono elementi di novità della legge del 2017. Per un’accurata analisi della disciplina della rivalsa prima della legge n. 24/2017, cfr. D’Adda, Solidarietà e rivalse nella responsabilità sanitaria: una nuova disciplina speciale, in Corr. giur., 2017, 773.

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sia neppure intervenuto volontariamente (art. 105 c.p.c.) e non sia stato chiamato in causa (art. 106 c.p.c.). Peraltro, proprio la discussa diversificazione del titolo di responsabilità tra struttura e medico potrà indurre probabilmente il danneggiato a preferire (salvo il caso della diretta stipulazione del contratto con l’esercente la professione sanitaria) il promovimento dell’azione nei soli confronti della struttura e/o dell’impresa assicurativa6, al fine di sottrarsi al più complesso onere probatorio che, almeno astrattamente o secondo le intenzioni del legislatore, l’attore dovrebbe assolvere per ottenere l’accertamento della responsabilità del medico7. L’azione di rivalsa può essere intentata da soggetti diversi e in ipotesi diverse: a) nel caso di medico dipendente di struttura pubblica, l’azione di rivalsa sarà esercitata – come già in precedenza – dalla Procura presso la Corte dei Conti; b) nel caso di struttura sanitaria privata, quest’ultima avrà azione di rivalsa nei confronti del medico dipendente (o che abbia agito all’interno della struttura in regime di libera professione); c) infine, nel caso di risarcimento corrisposto dall’impresa assicurativa, sarà quest’ultima a poter agire verso il medico, surrogandosi ex art. 1916 c.c. nei diritti della struttura assicurata nei confronti del medico stesso. L’art. 9, comma 2°, vincola l’azione di rivalsa a una serie di presupposti sostanziali e limitazioni processuali. In primo luogo, il presupposto sostanziale della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria è costituito dal dolo o dalla colpa grave. L’azione può essere esercitata soltanto successivamente al pagamento del risarci-

Ciò che induce autorevole dottrina a valutare la disciplina della rivalsa come “un punto di favore nei confronti dei medici”: Franzoni, Colpa e linee guida nella nuova legge, in Danno e resp., 2017, 279.

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Sul punto e, in particolare, sulle apparenti differenze del regime probatorio, la lucida analisi di Breda, La responsabilità civile delle strutture sanitarie e del medico tra conferme e novità, in Danno e resp., 2017, 283 ss. Sull’onere della prova nella responsabilità medica, in generale, ex plurimis, Barbarisi, L’onere della prova nella responsabilità sanitaria, in Contratti, 2017, 217 ss.

Saggi e pareri

mento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale, a pena di decadenza entro un anno dall’avvenuto pagamento. Dal punto di vista processuale, inoltre, nel giudizio in cui non sia stato parte il medico, le prove assunte non possono assurgere neppure ad argomenti di prova (i), la sentenza non fa stato in ordine ad alcun accertamento o statuizione (ii) e neppure la transazione è opponibile all’esercente (iii).

3. Il limite soggettivo dell’azione di rivalsa: il dolo o la colpa grave Nel giudizio che il danneggiato eventualmente proponga nei confronti del medico, quest’ultimo risponde per dolo o colpa, secondo gli ordinari presupposti previsti dall’art. 2043 c.c. e, qualora sia accertata la sua responsabilità anche solo per colpa, il medico sarà condannato al risarcimento integrale del danno in via solidale con la struttura sanitaria. Viceversa, nel caso in cui sia convenuta e condannata soltanto la struttura sanitaria, quest’ultima può agire successivamente in rivalsa, ma la responsabilità del medico presuppone l’accertamento del dolo o della colpa grave. Nonostante l’assenza di tale nozione nell’ambito della legge Balduzzi e l’espressa riproposizione nella legge n. 24/2017 della rilevanza delle Linee Guida (art. 5), il legislatore ha ritenuto di reintrodurre, nell’ambito della rivalsa, la nozione classica di “colpa grave”, che – com’è stato autorevolmente scritto8 – «rimanda a una gradazione, in negativo, della diligenza (della prudenza e della perizia)». Può ragionevolmente escludersi, tuttavia, che la nozione di colpa grave riporti le lancette del giudizio di accertamento della responsabilità medica al tempo dell’applicazione dell’art. 2236 c.c. e alla necessità di valutare se la prestazione medica presenti problemi tecnici “di particolare difficoltà” (da considerarsi tali perché trascendono la preparazione media o perché non sono stati

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Cfr. Costanza, Colpa grave fra esonero ed imputazione di responsabilità, in Volpe (a cura di), La nuova responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli-Bianco (legge n. 24/2017), Bologna, 2018, 143. 8


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ancora studiati o sperimentati a sufficienza, ovvero dibattuti con riguardo ai metodi da adottare)9. Deve ritenersi, al contrario che il criterio della colpa grave sia «del tutto indipendente dalla complessità della prestazione richiesta al medico»10, posto che l’impianto complessivo della legge impone necessariamente di reinterpretare la condotta del medico alla luce della rilevanza che normativamente assumono le linee guida e le buone pratiche clinico-assistenziali11. È molto probabile che si consolidi, dunque, l’interpretazione secondo la quale sussiste colpa grave quando il medico: i. non si attenga alle linee guida o alle buone tecniche clinico-assistenziali; ii. si attenga alle linee guida o alle buone tecniche clinico-assistenziali, quando esse non risultino adeguate alla specificità del caso concreto; iii. si attenga alle linee guida o alle buone tecniche clinico-assistenziali, ma dando attuazione alle stesse con macroscopiche negligenze. Nell’ambito della rivalsa, peraltro, la colpa grave costituisce la condicio sine qua non dell’affermazione di responsabilità, a differenza di quanto previsto in materia di quantificazione del danno nel giudizio promosso dal danneggiato, ove si prevede che «Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria

In giurisprudenza, Cass., 10.5.2000, n. 5945, in Dir. e giust., 2000, 51; Cass., 12.8.1995, n. 8845, in Mass. Giust. civ., 1995, 1517. La dottrina più recente ha opportunamente parlato di «sgretolamento dell’originaria portata applicativa dell’art. 2236 c.c.»: Volpe, Introduzione, in Volpe (a cura di), La nuova responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli-Bianco (legge n. 24/2017), cit., XII. Nella stessa opera, si veda, poi, ampiamente Calvo, La «decontrattualizzazione» della responsabilità sanitaria, cit., 4 ss. 9

Costanza, Colpa grave fra esonero ed imputazione di responsabilità, cit., 143. 10

Sul punto, si vedano le disamine già compiute in seguito alla legge Balduzzi: Gorgoni, Colpa lieve per osservanza delle linee guida e delle pratiche accreditate dalla comunità scientifica e risarcimento del danno, in Resp. civ. e prev., 2015, 173; Nocco, Le linee guida e le “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica” nella “legge Balduzzi”: un opportuno strumento di soft law o un incentivo alla medicina difensiva?, in Riv. it. med. leg. e dir. san., 2013, 781, 790 11

ai sensi dell’articolo 5 della presente legge» (art. 7, comma 3°). In tale diverso contesto processuale, infatti, la condotta del medico non potrà che essere relativa, per l’appunto, all’obbligo di attenersi alle raccomandazioni contenute nelle linee guida pubblicate con decreto ministeriale o, in mancanza, alle buone pratiche clinico-assistenziali. Rispetto alla quantificazione del risarcimento – che sia eventualmente ridotta in considerazione della condotta osservante delle linee guida o delle buone tecniche clinico-assistenziale, occorre domandarsi se la possibilità di siffatta riduzione proporzionata alla valutazione della condotta del danneggiante costituisca una disposizione “eversiva” nell’ambito del sistema di quantificazione del danno e, inoltre, se tale previsione possa incidere sul problema della qualificazione della natura della responsabilità. Dal primo punto di vista, non v’è dubbio che dottrina e giurisprudenza abbiano sempre sottolineato la necessità che l’integralità del risarcimento non patisca deroghe derivanti dalla condotta dell’obbligato. Anche nell’applicazione delle norme sulla responsabilità del debitore da valutarsi con “minor rigore” in funzione della natura gratuita del contratto – come, ad esempio, in tema di mandato (art. 1710 c.c.) – la Suprema Corte12 ha precisato che la valutazione della responsabilità per colpa del mandatario con minor rigore, è ispirata ad un riguardo verso la posizione del mandatario, cui non sarebbe equo fare carico di una colpa di entità trascurabile nell’esecuzione dell’incarico prestato per amichevole favore, ma non importa che, accertata la colpa del mandatario, in ordine all’adempimento del mandato, sia pure attraverso una valutazione di minor rigore, lo stesso non debba rispondere dell’intero danno sofferto dal mandante, che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, secondo il principio generale di cui all’art. 1223 c.c. La tesi dell’impossibilità di tenere conto del grado della colpa per graduare l’ammontare del

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Cass., 3.4.1980, n 2200, in Mass. Giust. civ., 1980.

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risarcimento era già propugnata da Chironi13 – nella sua storica opera del 1897 dedicata alla colpa nell’illecito civile – il quale, peraltro, nel sancire con veemenza, a proposito della responsabilità extracontrattuale, che “la responsabilità tende alla riparazione del danno ingiustamente cagionato: or se l’ingiuria esiste sempre quando concorra la colpa, e se il grado di leggerissima che in questa sia ne misura l’intensità, senza alterarne l’essenza, è certo, e la legge lo afferma, che la colpa leggerissima impone l’obbligo del risarcimento a quello stesso modo lo imporrebbe la grave”, confutava la diversa autorevole opinione di Laurent, secondo cui “il giudice ha per officio suo autorità di valutare il grado della colpa onde inferirne la misura del risarcimento”. In quel tempo, del resto, alcune norme del Codice civile austriaco e della Legge Federale Svizzera sulle obbligazioni consentivano con ampiezza riduzioni di risarcimento dovute alla condotta del danneggiante e ammettevano che il giudice potesse “conoscere del grado della colpa, allo scopo di proporzionarvi la misura dell’indennità”. Un breve sguardo storico-comparatistico sembra smentire, pertanto, che il legislatore non possa stabilire limitazioni risarcitorie correlate al grado della colpa dell’autore dell’illecito, allo stesso modo in cui tali limitazioni sono già previste in dipendenza di condotte del danneggiato (quali il concorso colposo alla produzione dell’evento o all’aggravamento del danno). Allo stesso modo, tale prospettiva storico-comparatista contraddice la tesi – pur accuratamente argomentata dopo l’entrata in vigore della legge Balduzzi14 – secondo cui la diversificazione dell’obbligo risarcitorio, a seconda della maggiore o minore “riprovevolezza” della condotta dell’autore di osservanza o divergenza dalle linee guida e dalle buone pratiche, sarebbe incompatibile con la qualificazione della responsabilità come

Saggi e pareri

extracontrattuale, posto che l’art. 1225 c.c. (che, nell’ambito della responsabilità contrattuale, limita la risarcibilità dei danni imprevedibili alle sole ipotesi di inadempimento doloso) non è richiamato dall’art. 2056 c.c. a proposito dell’illecito extracontrattuale. Oltre al rilievo15 per cui anche in tale settore della responsabilità il Codice assume il parametro della gravità della colpa nell’ambito dell’art. 2055 c.c., al fine di graduare la misura della responsabilità dei coautori dell’illecito, non si rinvengono nel sistema ragioni plausibili per affermare che il principio dell’integralità della riparazione del danno, legislativamente modulato nella responsabilità contrattuale, debba trovare indefettibile applicazione, invece, in ambito extracontrattuale. In definitiva, deve ritenersi che l’art. 7, comma 3°, legge n. 24/2017 (come già in precedenza l’art. 3, comma 1°, legge Balduzzi) costituisca un’eccezione alla regola dell’irrilevanza del grado della colpa nella quantificazione del risarcimento, ma un’eccezione consentita e legittima sia sul piano costituzionale sia su quello sistematico. E non v’è dubbio che il legislatore abbia introdotto siffatta limitazione risarcitoria nella consapevolezza di limitarne l’applicazione alla sola responsabilità del medico e non a quella della struttura sanitaria, per la quale la responsabilità resta di natura contrattuale e non patisce riduzioni derivanti dal grado della colpa dell’operatore.

4. Il limite “causale” della rivalsa: le carenze organizzative della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica Altra limitazione risarcitoria introdotta dall’art. 9, all’interno del giudizio di rivalsa, consiste nella necessità che il Giudice – in caso di evento verificatosi all’interno di strutture pubbliche, ai fini del-

13 Chironi, La colpa nel diritto civile odierno, Torino, 1897, 2° ed., I, 358 ss.

Nocco, Le linee guida e le “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica” nella “legge Balduzzi”: un opportuno strumento di soft law o un incentivo alla medicina difensiva?, in Riv. it. med. leg. e dir. san., 2013, 781, 790.

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Gnani, L’art. 2055 c.c. e il suo tempo, in Danno e resp., 2001, 1037; Id., Commento sub art. 2055, in Commentario al codice civile Schlesinger-Busnelli, Milano, 2005, 39 ss., 187 ss. e 201 ss. 15


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la quantificazione del danno, tenga conto «…delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, in cui l’esercente la professione sanitaria ha operato». La norma non brilla per nitore logico16 e, al contrario, si rivela da un lato, inutile e, dall’altro, vagamente “populista”. È inutile nella misura in cui l’impossibilità di addebitare al singolo esercente le carenze organizzative della struttura è già direttamente desumibile dall’art. 1227 c.c.: norma che, in quanto espressione del principio di causalità, impedisce che l’esercente possa essere ritenuto responsabile del danno per quel segmento di danno riconducibile causalmente – secondo il parametro del più probabile che non – alle carenze organizzative della struttura17. Anche l’art. 2055 c.c., a sua volta, non consente di includere nella “colpa” del medico le situazioni di fatto o le carenze riferibili alla struttura. L’afflato populista si rinviene, invece, nell’esclusivo riferimento alle carenze organizzative delle strutture pubbliche, con singolare esclusione di quelle private, per le quali, a contrario, si dovrebbe prevenire alla paradossale (oltre che inaccettabile) conclusione secondo cui il medico debba rispondere anche per quella porzione di danno ascrivibile alle carenze organizzative della struttura.

5. Il limite oggettivo della rivalsa Oggettivo è, invece, il limite quantitativo della rivalsa nei confronti del medico18, posto che l’art. 9

Anche secondo D’Adda, Solidarietà e rivalse nella responsabilità sanitaria, cit., 778, la disposizione non è «del tutto nitida» e, inoltre, «potrebbe indurre ad ulteriormente ridimensionare, riducendola rispetto all’evocato limite, la responsabilità del singolo sanitario, “annacquata” in un contesto di più ampia difficoltà connessa ai servizi prestati nell’ambito della “offerta” sanitaria pubblica».

prevede che non possa essere superato, in caso di colpa grave (e non di dolo): a. nel caso di struttura pubblica, una somma pari al valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo; b. nel caso di struttura privata o nei confronti dell’impresa di assicurazione titolare di polizza con la medesima struttura, la somma pari al valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguito nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo. Si tratta di un limite riconducibile alla tutela delle condizioni economico-patrimoniali dell’esercente19 e, nello stesso tempo, delle sue concrete possibilità di conseguire la copertura assicurativa con esborsi ragionevoli e proporzionati alla capacità reddituale.

6. I limiti temporali La norma prevede, altresì, termini di decadenza per l’esercizio dell’azione di rivalsa, che deve essere esercitata entro un anno dall’avvenuto pagamento da parte della struttura o della compagnia di assicurazioni (art. 9, comma 2°). Occorre considerare, inoltre, il termine di dieci giorni per la comunicazione della notifica dell’atto di citazione del danneggiato, nonché per la comunicazione dell’avvio di trattative con il danneggiato e l’invito a prendervi parte. Si tratta di termini chiaramente posti a garanzia dell’esercente la professione e anche, verosimil-

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Sul tema delle concause, Pucella, Il perimetro dell’accertamento causale tra colpa, concause e danno risarcibile, in Resp. civ. e prev., 2016, 1112 ss.

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18 Lo considera «uno dei profili più innovativi della disciplina», D’Adda, Solidarietà e rivalse nella responsabilità sanitaria, cit., 777.

Afferma, sul punto, Costanza, Colpa grave fra esonero ed imputazione di responsabilità, cit., 145, che «la parziale impignorabilità del credito da lavoro viene qui rafforzata, ritenendosi evidentemente insuperabile la garanzia alla quale ha diritto chi svolge attività lavorativa di non sopportare oneri economici che non gli consentirebbero di sostenere sé e la propria famiglia. La ratio è comprensibile se osservata nello spirito della riforma: ridurre i costi della “medicina difensiva”». 19

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mente, per la non riferibile esigenza di consentire all’esercente la possibilità di far valere decadenze e salvaguardare integralmente la propria posizione. Con particolare riferimento al termine di comunicazione dell’avvio di trattative stragiudiziali, la previsione è assai vaga, posto che non si comprende come individuare il momento in cui possano considerarsi avviate le trattative. In ogni caso, pare anche inopportuno per il medico che egli partecipi alle trattative stesse, perché la conseguenza consisterebbe nell’opponibilità dell’eventuale transazione, con impossibilità quindi di sfruttare possibili eccezioni di successiva decadenza dell’azione di rivalsa.

7. I limiti probatori della rivalsa L’art. 9, comma 7°, infatti – che prevede che «nel giudizio di rivalsa e in quello di responsabilità amministrativa il giudice può desumere argomenti di prova dalle prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria o dell’impresa di assicurazione se l’esercente la professione sanitaria ne è stato parte». Anche da tale norma si ricava la chiara convenienza del medico a non partecipare al giudizio, affinché le prove assunte – ove sfavorevoli per l’accertamento della sua responsabilità – non possano assurgere neppure ad argomenti di prova nel successivo giudizio di rivalsa. Al contrario, infatti, ove il medico sia stato parte del giudizio (o per originaria citazione del danneggiato o per successiva chiamata in causa da parte della struttura) gli accertamenti probatori saranno evidentemente efficaci e opponibili per il semplice fatto che tali prove si formeranno con la partecipazione e nel contraddittorio del medico. La norma è probabilmente ridondante, posto che l’inopponibilità dovrebbe pianamente discendere dalla mancata partecipazione del medico al giudizio, ma appare comunque opportuna a fugare la tentazione che ragioni di economia processuale (o di decisione sommaria) possano indurre alla valorizzazione probatoria del materiale raccolto in un giudizio nel quale la parte convenuta in rivalsa non sia stata parte. Responsabilità Medica 2018, n. 2

Saggi e pareri

A fortiori la sentenza emessa nel giudizio in cui il medico non sia stato convenuto o chiamato non è opponibile nella successiva causa di rivalsa.

8. L’azione del danneggiato nei confronti dell’esercente la professione sanitaria e il problema dell’intervento e della chiamata in causa I descritti limiti di efficacia e di opponibilità delle prove e della decisione emessa nel giudizio tra il danneggiato e la struttura sanitaria costituiscono indiretti incentivi al coinvolgimento del medico all’interno del giudizio, sicché si pone il problema se l’esercente la professione sanitaria possa essere direttamente coinvolto nel giudizio risarcitorio. A prima vista, infatti, la severa disciplina dell’azione di rivalsa porterebbe a ritenere l’inammissibilità della chiamata del medico nell’ambito del giudizio promosso dal danneggiato: sembrerebbe troppo semplice, cioè, “prevenire” l’ostacolo dei predetti presupposti dell’azione di rivalsa attraverso la mera citazione in causa dell’esercente la professione sanitaria da parte della struttura. Sennonché, la complessiva disamina della disciplina legislativa non pare poter condurre ad esito diverso da quello affermativo in ordine all’ammissibilità della chiamata in causa dell’esercente da parte della struttura convenuta dal danneggiato, nonché della domanda riconvenzionale interna nel caso di azione già direttamente proposta da parte del danneggiato stesso anche nei confronti del medico. In favore della tesi favorevole alla chiamata in causa del medico depongono i seguenti argomenti. In primo luogo, occorre ritenere che, qualora il legislatore avesse inteso escludere la legittimazione passiva del medico, anche soltanto in via di rivalsa, sarebbe stata dettata un’espressa previsione normativa, come disposto, ad esempio, nel caso dell’insegnante di scuola pubblica20. Un’espressa previsione legislativa si sa-

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Art. 61, l. n. 312 del 1980.


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rebbe resa vieppiù necessaria, tenuto conto che dall’art. 7 si evince chiaramente la legittimazione passiva dell’esercente sanitario nel giudizio promosso dal paziente danneggiato. Risulterebbe a dir poco anomalo, invero – anche alla luce del principio costituzionale del giusto processo e di comuni esigenze di economia processuale – che, a fronte del potere del danneggiato di agire nei confronti del medico e/o della struttura sanitaria, quest’ultima fosse impedita alla domanda di rivalsa nell’ambito del medesimo giudizio e che tale domanda fosse proponibile soltanto in seguito all’avvenuto pagamento del risarcimento del danno in favore del paziente. Nello stesso senso si pongono taluni argomenti letterali desumibili dal testo normativo. L’incipit dell’art. 9, comma 2° – secondo cui «se l’esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno…» – non avrebbe significato là dove l’esercente la professione sanitaria non potesse essere parte del giudizio risarcitorio. Parimenti, l’art. 9, comma 3° – che stabilisce che «La decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura sanitaria o sociosanitaria o contro l’impresa di assicurazione non fa stato nel giudizio di rivalsa se l’esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio» – presuppone che, nel caso in cui invece l’esercente sia stato parte del giudizio, la decisione gli sia opponibile, ma sarebbe incomprensibile che, nonostante l’opponibilità della sentenza, la struttura non possa proporre domanda di rivalsa all’interno del giudizio risarcitorio e sia costretta ad instaurare un posteriore separato giudizio soltanto dopo aver pagato al paziente quanto dovuto a titolo risarcitorio. Altro argomento sistematico e letterale risiede nell’art. 9, comma 7, ai sensi del quale «nel giudizio di rivalsa e in quello di responsabilità amministrativa il giudice può desumere argomenti di prova dalle prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria o dell’impresa di assicurazione se l’esercente la professione sanitaria ne è stato parte»: posto, dunque, che la norma ammette espressamente la partecipazione dell’esercente al giudizio risarcitorio, sarebbe irragionevole

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non consentire che, nell’ambito di tale giudizio, la domanda di rivalsa possa essere immediatamente proposta. Infine, si consideri che – ai sensi dell’art. 13 – le strutture sanitarie e le imprese di assicurazione devono comunicare all’esercente la professione sanitaria l’instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato, entro dieci giorni dalla ricezione della notifica dell’atto introduttivo; così come devono parimenti comunicare, entro dieci giorni, l’avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato, con l’invito a prendervi parte. Tale invito risulta evidentemente funzionale a consentire al medico l’intervento in causa, ai sensi dell’art. 105 c.p.c. e, ove il medico decida di intervenire, egli potrà richiedere tutte le attività istruttorie necessarie a dimostrare l’assenza di sua responsabilità o, di aver agito con colpa grave. In pratica, la scelta di intervenire nel giudizio non appare consigliabile, posto che l’intervento potrebbe stimolare, da un lato, la proposizione della domanda risarcitoria da parte del danneggiato e, dall’altro, l’immediata proposizione della domanda di rivalsa da parte della struttura. A fronte della comunicazione di cui all’art. 13, converrà che il medico si limiti a fornire alla struttura una relazione sull’attività svolta e sugli aspetti che possano incidere sull’accertamento della sua eventuale responsabilità, ma si astenga dell’intervenire in giudizio, sperando nello stesso tempo di non essere chiamato in causa. In definitiva, appurato che la legge consente non soltanto che il medico possa essere citato in causa direttamente dal danneggiato, ma possa altresì essere chiamato in causa dalla struttura (ex art. 106 c.p.c., sul presupposto di “comunanza di causa”) o intervenire in giudizio (art. 105 c.p.c.), occorre analizzare a quali attività ed esiti tale presenza possa preludere. In caso di citazione congiunta da parte del danneggiato o di chiamata in causa da parte della struttura, quest’ultima potrà proporre domanda riconvenzionale “interna” di rivalsa, volta a fare accertare la colpa grave del medico e sentirlo condannare ad essere “manlevata” delle somme che la struttura stessa sia condannata a pagare –

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e paghi effettivamente21 – nei confronti del danneggiato. Peraltro, nel caso di esercente sanitario dipendente di struttura pubblica, deve escludersi l’ammissibilità della domanda interna di rivalsa per la sola ragione processuale consistente nella competenza della Corte dei Corti a decidere del rapporto tra la Pubblica Amministrazione e il proprio dipendente. In ogni altro caso, invece, nulla osta all’azione di rivalsa promossa in via riconvenzionale verso l’esercente dalla struttura privata (o dalla compagnia di assicurazione) all’interno del giudizio risarcitorio instaurato dal danneggiato. Poiché la rivalsa, peraltro, è limitata al “dolo o colpa grave” del medico, deve ritenersi che il medico possa avere l’interesse ad intervenire in giudizio proprio allo scopo di formulare, a sua volta, domanda verso la struttura di accertamento negativo della propria responsabilità ed ottenere così un titolo che – nell’ipotesi di condanna e pagamento nei confronti del danneggiato – gli consenta di recuperare quanto eventualmente corrisposto in base alla pronuncia resa nei rapporti interni. Una simile evenienza può apparire effettivamente remota, considerato che il pagamento del risarcimento avverrà presumibilmente, nella quasi totalità dei casi, da parte delle compagnie di assicurazioni, ma poiché anche la responsabilità dell’esercente per colpa grave è soggetta ad obbligo assicurativo (art. 10, comma 3°), potrà configurarsi l’interesse dell’assicuratore dell’esercente ad intervenire nel giudizio risarcitorio per sentire accertare l’assenza della colpa grave. Altra conseguenza dell’ipotesi processuale di contestuale presenza della struttura e dell’esercente (o delle rispettive compagnie di assicurazione), consiste nell’opponibilità della sentenza emessa all’esito del giudizio (a contrario ex art. 9, comma 3)22. Ovviamente si fa riferimento alla

Saggi e pareri

sentenza passata in giudicato e non semplicemente alla pronuncia di primo grado. Infatti, il cumulo delle domande nei confronti della struttura e del danneggiato determina un litisconsorzio facoltativo che, in sede di successivi gradi di giudizio, dà luogo a causa scindibili (art. 332 c.p.c.), con la conseguenza che, nel caso di mancata partecipazione del medico al giudizio di secondo grado, la sentenza definitiva tornerà a non essergli opponibile nel successivo giudizio di rivalsa. In considerazione di quanto esposto, può affermarsi che le numerose limitazioni dell’efficacia della sentenza e dell’utilizzabilità del materiale probatorio nei confronti del medico (qualora questi sia convenuto in rivalsa dopo la definizione del giudizio risarcitorio) rischiano di risultare vane e apparenti in virtù della convenienza processuale della struttura a chiamare immediatamente in causa l’esercente, proprio per non incorrere in quei limiti previsti per l’ipotesi in cui il medico non sia parte del giudizio risarcitorio.

9. Conclusioni L’esame complessivo della normativa – oltre a quello specifico dell’art. 9 – pone, in definitiva, il dubbio se non fosse stata più opportuna una scelta più coraggiosa e radicale, non dissimile da quella a suo tempo accolta con riguardo al personale docente, direttivo, educativo e non docente delle scuole statali, per il quale la l. n. 312/80 ha ascritto la responsabilità per i danni subiti per comportamenti degli alunni sottoposti alla vigilanza alla sola Amministrazione, così escludendo la legittimazione passiva diretta del personale scolastico nelle azioni promosse dai terzi e limitando il regresso dell’Amministrazione ai soli casi di dolo o colpa grave. Un intervento legislativo in tal senso non soltanto avrebbe più efficacemente contrastato il fenomeno della c.d. “medicina difensiva”23, ma

21 Afferma D’Adda, Solidarietà e rivalse nella responsabilità sanitaria, cit., 775, che la domanda di rivalsa è, in tal caso, “condizionata” all’effettivo pagamento. 22 Sull’opponibilità di sentenze e transazioni nei rapporti interni, D’Adda, Solidarietà e rivalse nella responsabilità sanitaria, cit., 775-777.

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23 Per un’arguta analisi degli effetti positivi e negativi della l. n. 24 del 2017, Pardolesi, Chi (vince e chi) perde nella riforma della responsabilità sanitaria, in Volpe (a cura di), La nuova


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avrebbe preso atto, altresì, della prassi giudiziaria che, in concreto, sempre più spesso vede escluso il medico dipendente dal novero dei convenuti e riferisce in toto alla struttura ospedaliera la responsabilità per i danni subiti dal paziente per errori diagnostici o terapeutici e, più in generale, per l’inadempimento delle ampie e variegate obbligazioni derivanti dal c.d. contratto di spedalità.

responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli-Bianco (legge n. 24/2017), 37 ss.

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Saggi e pareri

Saggi e pareri

Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli-Bianco (l. 24/2017)* Il punto di vista, da vicino, del giudice

g g sa re e a p

Roberto Simone

Presidente della III sezione civile del Tribunale di Venezia Sommario: 1. Il ritorno del legislatore. – 2. Spunti in tema di responsabilità e risarcimento. – 3. I vuoti non colmati dalla legge. – 4. Dove non arriva il legislatore, a proposito di causalità e onere della prova. – 5. Doppia linea di causalità.

Abstract: Con la legge n. 24/2017, meglio nota come legge Gelli-Bianco, il legislatore cerca di riappropriarsi del settore della responsabilità medica per decenni territorio dominato da una giurisprudenza sempre più incline ad assecondare una tendenza espansiva. La legge, nata per arginare i pericoli della medicina difensiva, ha al suo interno molte ombre e poche luci, perché non introduce uno statuto speciale della responsabilità delle strutture sanitarie con predeterminazione degli oneri di allegazione e prova, ma mira solo a dar corso ad una rifondazione del sistema all’insegna di una maggiore calcolabilità del diritto. In questa stessa direzione, una recente pronuncia della Suprema Corte resa sul versante dell’onere della prova del nesso causale introduce un doppio livello di causalità costitutiva/ estintiva di chiaro sfavore per l’attore, chiamato a fornire una prova piena anche se in condizione di asimmetria informativa.

Through the Act 24/2017, also known as the Gelli-Bianco Act, the lawmaker means to take back the control over the field of medical malpractice, which has been ruled for decades by a jurisprudence increasingly inclined to support an expansive trend. The Act, created in order to restrain the dangers of defensive medicine, presents many shadows and few lights: first of all, it does not introduce a special statute of liability on the part of health facilities through the detection of burdens of allegation and proof, aiming exclusively to implement a re-foundation of the system in the name of a greater calculability of law. In the same direction, a recent judgement of the Supreme Court, regarding the causation test, introduces a double level of constitutive/ extinctive causation unfavourable for the plaintiff. In fact, the plaintiff seems to be called to provide full proof despite his condition of information asymmetry.

1. Il ritorno del legislatore

Il testo riproduce l’intervento al Convegno “Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli-Bianco (l. n. 24/2017)”, tenutosi a Padova il 6 e 7 dicembre 2017. *

A conclusione di queste due lunghe e fruttuose giornate manca solo l’ultimo miglio. Quest’ultimo tratto, tuttavia, corrisponde allo sguardo dal basso di chi stando in primo grado ha la prospettiva del mattone e nelle aule giudiziarie si confronta, con grande entusiasmo ma con grande difficoltà per Responsabilità Medica 2018, n. 2


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la scarsità di mezzi, con una materia sempre più soggetta ad una crescita tumultuosa. Ecco allora, qual è il punto di vista del giudice di primo grado rispetto alla legge n. 24/2017 meglio nota come legge Gelli-Bianco? Potremmo considerare la legge per un verso come il risveglio di un ‘signore del diritto’ (Van Caenegem, I signori del diritto – Giudici, legislatori e professori nella storia europea, (trad. it), Milano, 1991). Uso il termine risveglio, poiché a fronte di una crescita esponenziale della responsabilità civile e di alcuni interventi normativi speciali, penso primariamente alla responsabilità del produttore, il problema della responsabilità in campo sanitario è stato ignorato fino al 2012. In questa prospettiva, si può parlare di un tentativo da parte del legislatore di riappropriarsi del controllo della situazione. Per altro verso, si potrebbe dire tanto ‘rumore per nulla’. Infatti, in primo luogo il legislatore da tempo non fa che cristallizzare in norme positive orientamenti emersi in sede giurisprudenziale. Esempi di questa tendenza sono, per rimanere a quelli più vicini, la riforma della legge fallimentare e la legge n. 124/2017 (legge annuale per il mercato e la concorrenza), dove all’art. 1, comma 17, di riscrittura dell’art. 138 c. ass. si (ri)prevede il varo della tabella unica nazionale per le menomazioni superiori al 10%, “tenuto conto dei criteri di valutazione del danno non patrimoniale ritenuti congrui dalla consolidata giurisprudenza di legittimità”. Quali siano i consolidati criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità non è dato sapere se pensiamo alle molte anime presenti all’interno della terza sezione civile. Un legislatore dunque che cerca di riappropriarsi della scena, ma lo fa inseguendo i giudici e con il dichiarato fine di porre un argine all’anarchia giudiziale che domina sovrana nella materia della responsabilità sanitaria.

2. Spunti in tema di responsabilità e risarcimento Quali sono i tratti salienti della legge? L’incipit è molto importante, perché marca la cifra della riforma. L’art. 1 recita “La sicurezza delle cure è parte integrante del diritto alla salute”. Si potrebbe leggere la norma dal lato del paziente o da quello del medico -- forse qualche elemento Responsabilità Medica 2018, n. 2

Saggi e pareri

all’interno di questa legge che porti a ritenere che si sia pensato e legiferato solo ed esclusivamente per dare un sollievo ai medici c’è davvero, abbiamo più di un indizio in questo senso - ma in ogni caso l’obiettivo della “sicurezza delle cure” non può essere considerato autonomamente dalla salute, perché ne è “parte integrante”. C’è forse una qualche eco della vecchia proposta direttiva europea degli anni ’90 a proposito della responsabilità del prestatore di servizi, che a suo tempo tendeva ad introdurre una presunzione di colpa a carico del debitore e mirava a valutare il comportamento del prestatore di servizi secondo uno standard rigoroso quale soggetto che assicura “in condizioni normali e ragionevolmente prevedibili la sicurezza che si può legittimamente attendere”. Se all’interno di una norma manifesto si parla di “sicurezza delle cure”, forse una qualche ricaduta sul piano dell’interpretazione di questa responsabilità, comunque la si voglia inquadrare, ci sarà, ma questo è un effetto collaterale, forse neppure immaginato, dal ritrovato ‘signore del diritto’. Deve essere senz’altro apprezzata l’attenzione per il risk management, cioè l’approccio sistemico e la gestione del rischio clinico in un’ottica di comparazione costi/benefici per prevenire situazioni di rischio. Dove e come investire in precauzioni? Qui si guarda alle strutture, perché sono loro le tasche profonde, ossia quelle che possono investire e non il singolo sanitario. Per certi aspetti la legge sembra ispirata da un approccio orientato alle conseguenze in base al quale la funzione di deterrenza della responsabilità marcia insieme a quella compensativa. Analogamente deve essere apprezzato l’obiettivo della raccolta dei dati. È stato già detto, assisteremo alla nascita di una nuova biblioteca di Alessandria, non delle dimensioni di Google books, ma sicuramente sarà una banca dati sterminata con il rischio di burocratizzare il sistema della scienza medica, e per soprammercato di municipalizzarlo. Abbiamo sentito prima il punto di vista del medico legale: il consulente tecnico d’ufficio del giudice sulla base di un mandato specifico, ossia avendo a riferimento il quesito assegnato, ha sempre fatto una disamina delle linee guide, della letteratura scientifica non solo italiana ma anche internazionale. Già da questo punto di vi-


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Prospettive della responsabilità sanitaria

sta si possono intravvedere i rischi di burocratizzazione e soprattutto di delimitazione del campo di indagine scientifica al solo livello municipale. Si diceva prima che più di un indizio porta ritenere che con la legge n. 24/2017 si sia cercato di lanciare un segnale di distensione verso i medici. Ecco il punto, il cambio di passo, o meglio la grande innovazione della legge Gelli-Bianco, è il sistema del doppio binario, ossia il trade off tra contratto e illecito aquiliano. In realtà potremmo dire che da più di quarant’anni nel campo della responsabilità medica regna sovrana, per dirla con il lessico del comparatista, la categoria dei contort delineata da Grant Gilmore (La morte del contratto, trad. it, Milano, 1988). Viviamo cioè in un’epoca in cui gli elementi di entrambe le forme di responsabilità si sono fusi in un ircocervo. Volando basso, come promesso, alcuni anni fa commentando due pronunce della Cassazione sul tema delle nascite indesiderate (Simone, Nascite dannose: tra inadempimento (contrattuale) e nesso causale (extracontrattuale), nota a Cass., 10.11.2010, n. 22837, e Cass., 2.2.2010, n. 2354, in Danno e resp., 2011, 382) si è parlato di responsabilità medica tra inadempimento contrattuale e nesso di causalità extracontrattuale. Che lo si voglia, o no, ha ragione il dottor Antenucci, che esprime il punto di vista dell’assicuratore, ossia di quello che alla fine, una volta implementato tutto il sistema ipotizzato dal legislatore, sarà la tasca profonda del sistema. Non importa tanto sapere come e dove inquadrare la responsabilità, o meglio qual è il contenitore giuridico di questa responsabilità, a noi interessa avere una disciplina della responsabilità in campo sanitario. Il sistema della responsabilità medica vive di questi continui incroci. Forse, gelando un po’ l’aspirazione dei medici a vivere la professione con una minore esposizione al rischio di azioni, non sarà la canalizzazione verso l’art. 2043 c.c. a consentire loro di dormire sonni meno agitati, non foss’altro perché in ambito contrattuale c’è una norma - molto spesso dimenticata - che è l’art. 1225 c.c. in base alla quale, salvo il caso del dolo, il contraente risponde del danno prevedibile. In ambito extracontrattuale non c’è questa barriera, poiché si è in presenza di una relazione accidentale, del tutto causale,

sì che il danneggiante risponde anche dei danni non prevedibili al momento del fatto. Parlando di barriere, quella prevista nell’articolo 7 in tema di risarcimento del danno, dove è contenuto il richiamo degli articoli 138 e 139 c. ass., è molto porosa. In primo luogo, sappiamo che forse non c’è la volontà politica di varare la tabella unica nazionale, ma tant’è, nottetempo può succedere di tutto. Sicuramente però nella tabella unica nazionale, almeno nella versione così come ci viene delineata dall’articolo 138 c. ass., non ci sono tutti i danni. Non ci sono il danno parentale e il danno terminale, né c’è il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione. Insomma, l’aspirazione dell’assicuratore a blindare la stima dei danni attesi ed il computo di premi e riserve è messa a repentaglio dal fatto che nell’art. 138 c. ass. e nella tabella unica nazionale non ci sarà tutto, anche se in prospettiva ci sarà la componente morale e questo, per certi aspetti, è un passo in avanti con il dovuto rispetto per quanti all’indomani delle sentenze delle sezioni unite del 2008 proclamarono la morte del danno morale. Meglio lasciare nell’ombra un aspetto che va oltre i limiti di chi vi parla, nel senso che non è semplice esprimersi adeguatamente intorno alla portata applicativa dell’articolo 7, comma 3, ossia se tale infelice trapianto normativo (un vero e proprio copia ed incolla fatto dalla legge Balduzzi) abbia introdotto, o no, un danno punitivo. Meglio cercare di vedere più nel concreto cosa manca nella legge Gelli Bianco.

3. I vuoti non colmati dalla legge Si diceva prima molto rumore per nulla perché si è persa l’occasione per cominciare a normare un fenomeno in atto da quarant’anni. Manca, al di là dello scontato richiamo al contratto e all’illecito aquiliano, uno statuto speciale per la responsabilità delle strutture sanitarie. Di questo avrebbe dovuto occuparsi un legislatore attento a scongiurare il rischio della medicina difensiva, per tacere che per tranquillizzare i medici forse la soluzione praticabile poteva essere una estensione del modello previsto nella legge n. 312/1980 con riferimento alla responsabilità dei precettori. In caso di infortunio scolastico l’azione si promuove Responsabilità Medica 2018, n. 2


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contro il Ministero e non contro i singoli precettori, secondo il lessico del codice civile, privi di legittimazione passiva. Questo avrebbe consentito al medico strutturato di vivere con più serenità il rapporto con il paziente, evitando il rischio di azzardi morali, perché c’è sempre la tagliola del danno erariale, e qualsiasi riserva mentale in chiave difensiva. Mettendo in secondo piano questo aspetto, manca drammaticamente una specifica disciplina della responsabilità della struttura, perché dagli anni ‘90 il sistema sanitario è stato connotato da controlli di qualità, requisiti minimi strutturali e si parla ormai da decenni di una responsabilità autonoma delle strutture. In fondo si tratta di una attività di impresa, sia pur pubblica, in regime di concorrenza con quella privata. Le strutture rispondono anche del danno anonimo, c’è la responsabilità per le infezioni nosocomiali che pesano e non poco, ma quello che fa realmente la differenza sul campo giudiziario sono i temi evidenziati questa mattina: l’onere di allegazione e prova. Su questo specifico versante la giurisprudenza dal 1978 ha dato il via a grandi trasformazioni che però rischiano oggi di diventare, a mio sommesso avviso, fonte di disorientamento se non di aperta restaurazione di un sistema che si pensava di avere alle spalle. Quasi per porre rimedio a qualche eccesso compiuto nell’approccio solidaristico/riparatorio nella materia della responsabilità civile, da qualche anno la Cassazione sembra aver invertito la rotta. Non sarà un caso se Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577 (in Foro it., 2008, I, 455) sia stata resa in una vicenda di emotrasfusioni anche se vedeva coinvolta una struttura ospedaliera, quindi non soltanto il Ministero della salute. Come ci ricordava prima il professor De Cristofaro è importante conoscere preventivamente le regole del gioco quando si va in tribunale e sapere con esattezza chi deve allegare, cosa deve allegare e soprattutto che cosa deve provare. Questo è sicuramente un aspetto su cui il legislatore avrebbe potuto dire qualcosa, non nel senso di fornire un’interpretazione autentica degli articoli 1218 e 1176 c.c., quanto, piuttosto, delineare uno statuto speciale della responsabilità delle strutture ospedaliere pubbliche, stabilendo una presunzione di Responsabilità Medica 2018, n. 2

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responsabilità in presenza di un esito diverso da quello che ragionevolmente si sarebbe dovuto verificare e allo stesso tempo precisare gli oneri probatori per poterla superare. In breve, fissare le regole del gioco a cui le parti ed il giudice devono attenersi.

4. Dove non arriva il legislatore, a proposito di causalità e onere della prova La recente sentenza Cass., 26.7.2017, n. 18392, nonostante un primo commento favorevole (Zorzit, La Cassazione e la prova del nesso causale: l’inizio di una nuova storia?, in Danno e resp., 2017, 700), si inserisce in una tendenza in atto di ridimensionamento della materia, ma è fonte di qualche perplessità. Non c’è solo un problema di chi deve allegare e che cosa deve provare, ma c’è di mezzo anche la stratificazione in tema di nesso di causalità generata negli ultimi lustri dalla Cassazione. Non è il momento di chiedersi cosa sia la causalità. È sufficiente ricordare alcune non recenti pronunce della Cassazione (Cass., 18.4.2005, n. 7997, Foro it., Rep., 2005, voce Professioni intellettuali, n. 212; 16.10.2007, n. 21619, id., Rep., 2008, voce Responsabilità civile, n. 219, per esteso in Danno e resp., 2008, 43, annotata da Pucella) con le quali il S.C. ha operato una netta divaricazione tra accertamento della causalità nel campo civile ed in quello penale sulla base della diversa morfologia e funzione delle due responsabilità. Sentenze da rileggere con attenzione ed in grado di generare un certo autocompiacimento in quanti sono fautori della tesi secondo cui le regole sostanziali e processuali possono essere orientate alle conseguenze ed essere modulate in funzione deterrente, ossia creando i presupposti per prevenire situazioni di rischio. La causalità in ambito penale non può prescindere da un modello di spiegazione individualizzante e quindi richiede un livello di certezza maggiore rispetto al campo civile, dove si risarcisce un danno e dove si possono segnalare degli incentivi al potenziale danneggiante per agire in prevenzione. Quando si dice che in ambito penale vale la regola dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre nel civile vale quella del “più probabile che


Prospettive della responsabilità sanitaria

non”, ma non si individua una soglia percentuale, questo significa imprimere alla responsabilità civile una funzione non solo compensativa ma anche deterrente. Questo approccio polifunzionale finisce per legarsi al tema della prova del nesso causale che deve essere fornita dall’attore. Deve essere una prova non in termini di rigorosa certezza assoluta, ma una prova che muovendo dall’alta o ragionevole probabilità si è poi configurata come quella del “più probabile che non”, almeno così si diceva fino a qualche tempo fa in Cassazione. La sentenza n. 18392/2017, invece, ipotizza un doppio binario della causalità, che riporta in auge, anche se non espressamente, l’antica distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, ma lo fa per mano di un dotto estensore, assicurando di voler dare continuità ad un filo narrativo coeso. Si segue un percorso e lo si aggiorna, ma la trama è sempre la stessa, non c’è incoerenza, si dice, e soprattutto non vi è discontinuità nel pensiero della Corte.

5. Doppia linea di causalità La vicenda esaminata da Cass., n. 18392/2017 aveva ad oggetto un intervento chirurgico di rimozione della prostata nel corso del quale si verificava una lesione iatrogena che provocava una grave emorragia. Il paziente decedeva tre giorni dopo, si legge, per un arresto cardiocircolatorio. È un evidente truismo, perché si scambia l’effetto per la causa. Tutti morendo hanno un arresto cardiocircolatorio, il problema è capire perché c’è stato l’esito mortale. La domanda di risarcimento proposta dagli eredi del paziente - perché purtroppo il soggetto operato è deceduto – è stata rigettata in primo grado. L’appello è stato dichiarato inammissibile ex art. 348 bis c.p.c., perché manifestamente infondato. Il ricorso in Cassazione è stato poi respinto perché non risultava data dagli attori la prova del nesso causale tra la condotta del sanitario e il decesso. Questa vicenda è emblematicamente espressiva di quello che si diceva prima: il gioco inizia secondo un sistema di regole, ma questo cambia strada facendo. C’era un tempo, si potrebbe dire, la regola operazionale inaugurata da Cass., n.

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6141/1978, ancora di recente richiamata dal S.C. (Cass., 13.10.2017, nn. 24073 e 24074, in Foro it., Le banche dati, archivio Cassazione civile), ossia quella secondo cui l’esito anomalo in presenza di interventi di routine induce una doppia presunzione di colpa e causalità, sì che incombe sul debitore l’onere della prova liberatoria. Questa regola operazionale, che in common law si declina in termini di res ipsa loquitur, è stata abbandonata sul presupposto di un ritrovato “tronco comune” delle due forme di responsabilità. Nella vicenda affrontata da Cass., n. 18392/2017 il consulente tecnico aveva concluso che la causa del decesso era incerta, ma, non avendo gli attori fornito la prova del nesso di causa tra l’evento morte e la condotta del sanitario, l’esito della lite è stato sfavorevole. Qui arriviamo al cuore della decisione e alla continuità, o asserita tale, tra una serie di pronunce a cominciare anche da Cass., n. 577/2008, che segna lo zenith di un orientamento pro-attore e avverso ai sanitari: l’attore deve provare il nesso di causalità materiale tra l’evento di danno e la condotta del sanitario quale elemento costitutivo della sua domanda e solo dopo grava sul convenuto la prova della causalità estintiva, cioè la prova dell’impossibilità di effettuare la prestazione per una causa a lui non imputabile. Appare singolare pensare alla condotta del sanitario come posta su una linea di causalità diversa e distinta rispetto a quella che deve essere narrata come elemento costitutivo della pretesa attorea, ma soprattutto non convince la logica del tutto o nulla, perché svincolata da qualsiasi scenario probabilistico. Già la sentenza Amatucci (Cass., 9.2.2010, n. 2847, in Foro it., 2010, I, 2113. Nello stesso senso più di recente Cass., 5.7.2017, n. 16503, id., Rep., 2017, voce Professioni intellettuali, n. 29) in tema di consenso informato in campo medico aveva ipotizzato un doppio binario della prova, secondo cui se si invoca la lesione del diritto all’autodeterminazione basta allegarlo e sarà sempre risarcibile (il danno da sofferenza), perché il sanitario o la struttura non sono (quasi) mai in grado di provare di averlo raccolto adeguatamente verbalmente o per iscritto. Se, invece, si invoca il danno alla salute, allora l’attore deve provare che se tempestivamente informato avrebbe deciso diversamente. Anche nel campo Responsabilità Medica 2018, n. 2


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delle nascite indesiderate le sezioni unite si sono orientate nello stesso, ossia riversando sull’attore l’onere della prova del legame causale tra l’omissione informativa e l’evento di danno (Cass., sez. un., 22.12.2015, n. 25767, in Foro it., 2016, I, 494). Queste pronunce sono espressive della tendenza ormai dominante di porre un argine all’esplosione della responsabilità medica, ma il doppio binario della causalità elaborato dalla decisione del 2017, se troverà conferma, rischia di diventare la ‘scopa del sistema’. Ora, assumiamo che questo sia lo scenario futuro, in una direzione che intercetta la canalizzazione legislativa tra contratto e fatto illecito, come collochiamo l’evoluzione giurisprudenziale in materia di definizione del nesso di causalità in termini di “più probabile che non”? Cosa fare del danno evidenziale, intendendo la perdita, e talvolta la sottrazione della prova da parte del sanitario o della struttura? Chi deve provare quello che è accaduto in sala operatoria? Cosa succede se la cartella clinica misteriosamente svanisce, perché, spirato il termine dell’obbligo di conservazione, l’archivio “casualmente” la manda al macero? Chi subisce le conseguenze di questa perdita del materiale probatorio? C’è, per farla breve, tutta una serie di tessere all’interno di questo mosaico che vanno ricomposte. All’interno di questo mosaico, che lo si voglia o no, anche se non è più tempo per slanci da parte di giudici attivisti, perché viviamo nell’era dell’aziendalismo giudiziario, la giurisprudenza continuerà a svolgere un ruolo di riempimento di un’esile trama legislativa, però l’aspirazione enunciata inizialmente, quella di conoscere preventivamente le regole del gioco, di sapere quando e come si risarcisce, perché la prevedibilità delle decisioni ne favorisce la calcolabilità e l’assicurabilità, è destinata a rimanere frustrata. A mo’ di conclusione, parafrasando una nota canzone sanremese, direi che il legislatore avrebbe dovuto fare di più, ma questo probabilmente sarà il prossimo capitolo di questa storia che si succede da decenni.

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Saggi e pareri


Saggi e pareri

Saggi e pareri

Diritto, diritti, vaccini. È giusto vaccinare i minori?

g g sa re e a p

Lorena Forni

Ricercatrice nell’Università di Milano – Bicocca Sommario: 1. Vaccini, diritto e scelte individuali: un primo sguardo al tema. – 2. Obbligo vaccinale e resistenze, tra persuasione e coercizione. – 3. Analisi delle principali obiezioni. – 4. Il timore, infondato, di una correlazione tra vaccini e autismo. – 5. Obiezioni minori, tra paure irrazionali e cospirazioni inesistenti. – 6. Osservazioni conclusive.

Abstract: La recente sentenza della Corte costituzionale del 18 gennaio 2018 è l’occasione per affrontare la questione dei vaccini sui minori. Questo paper si propone di discutere il complesso tema in una prospettiva etico – giuridica. Con gli strumenti propri dell’analisi bioetica, saranno passate in rassegna le principali obiezioni alla pratica vaccinale, per capirne la sostenibilità e per opporre altre ragioni giustificanti. The recent ruling by the Italian Constitutional Court of 18 January 2018 is an opportunity to address the issue of vaccines in children. This paper aims to discuss the complex theme from an ethical - legal perspective. With the proper tools of bioethical analysis, the main objections to the vaccination practice will be reviewed, to understand its sustainability and to oppose other justifying reasons.

zionale ha depositato le motivazioni con cui ha argomentato la propria decisione (anticipata in un comunicato stampa lo scorso 22 novembre 20171) di dichiarare inammissibili i ricorsi presentati dalla Regione Veneto, relativamente al decreto legge n. 73 del 2017, convertito nella legge n. 119 del 20172, in materia di vaccinazioni obbligatorie per i minori fino a 16 anni di età. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 5 del 20183, ha chiarito gli argomenti sostenuti a proposito della valutazione di legittimità e di ragionevolezza rispetto all’obbligo di vaccinazioni, quale condizione per accedere alle scuole dell’infanzia e alla scuola primaria. Va preliminarmente ricordato che la legge n. 119 del 2017 ha stabilito4 che sono gratuite e obbligatorie, per i minori di età compresa tra zero e sedici anni e per tutti i minori stranieri non ac-

L’orientamento della Corte nel considerare conforme alla Costituzione la legge n. 119 del 2017, era già stato anticipato nel comunicato stampa della Corte del 22 novembre 2017. Cfr. il testo del Comunicato stampa della Corte costituzionale è integralmente consultabile all’indirizzo: www.cortecostituzionale.it.

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1. Vaccini, diritto e scelte individuali: un primo sguardo al tema Il tema dei vaccini, e della loro obbligatorietà, è tornato di recente al centro non solo della polemica politica, in periodo di campagna elettorale, ma anche dell’interesse istituzionale e giuridico del nostro Paese. Al riguardo, infatti, va segnalato che lo scorso 18 gennaio 2018 la Corte costitu-

Cfr. il testo della legge n. 119/2017, Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale, di malattie infettive e di controversie relative alla somministrazione di farmaci, è consultabile all’indirizzo: www.gazzettaufficiale.it.

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Corte cost., 18.1.2018, n. 5, consultabile all’indirizzo: www.cortecostituzionale.it.

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Cfr. art. 1, comma 1°, e art. 1 bis l. n. 119/2017, consultabile all’indirizzo: www.gazzettaufficiale.it.

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compagnati, dieci vaccinazioni: anti-poliomielitica, anti-difterica, anti-tetanica, anti-epatite B, anti-pertosse, anti-Haemophilus influenzale di tipo B, anti-morbillo, anti-rosolia, anti-parotite e anti-varicella. La Corte, entrando nel merito specifico dell’obbligatorietà vaccinale prescritta nella legge n. 119 del 2017, oltre a ribadire «il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività5, nonché, nel caso di vaccinazioni obbligatorie, con l’interesse del bambino, che esige tutela anche nei confronti dei genitori che non adempiono ai loro compiti di cura (ex multis, sentenza n. 258 del 1994)», ha precisato che la legge che obbliga ad un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost. in presenza di alcune condizioni. La liceità e la conformità costituzionale sono garantite se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute di terzi; se, inoltre, il trattamento non incide negativamente sullo stato di salute di colui che vi è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, infine, qualora si verifichi un danno, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria6. I valori costituzionali coinvolti nella dibattuta questione delle vaccinazioni sono molteplici e riguardano la libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte sulle cure, la tutela della salute individuale e collettiva (tutelate dall’art. 32 Cost.), non meno che il best interest (il miglior interesse) del minore, «da perseguirsi anzitutto nell’esercizio del diritto-dovere dei genitori di adottare le condotte idonee a proteggere la salute dei figli (artt. 30 e 31 Cost.), garantendo però che tale libertà non determini

Su questo aspetto, cfr., da ultima, Corte cost., 14.12.2017, n. 268, consultabile all’indirizzo www.costecostizionale.it

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Cfr., al riguardo, Corte cost., 18.1.2018, n. 5; cfr., tra le altre, Corte cost., 29.6.1994, n. 258 e Corte cost., 27.6.1990, n. 307, consultabili all’indirizzo: www.cortecostituzionale.it.

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Saggi e pareri

scelte potenzialmente pregiudizievoli per la salute del minore»7. Secondo la Corte, il legislatore ha discrezionalità «nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie8, volte a garantire l’effettività dell’obbligo»9. Questa discrezionalità deve essere esercitata in stretto riferimento alle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte e dalle acquisizioni della ricerca medica, in costante evoluzione, che devono orientare adeguatamente il legislatore nell’esercizio delle sue scelte. Alla luce di tali rilievi, è stata considerata ragionevole la scelta legislativa del 201710, non mancando la Corte di evidenziare che, al mutare delle condizioni epidemiologiche e sociali generali, tale scelta possa essere rivalutata e riconsiderata11. La ricostruzione puntuale e argomentata riguardo alla complessa attività di normazione italiana12 ha

Ibidem. Sulla responsabilità genitoriale in ambito di cura e di scelte appropriate per i figli minori riguardo alla salute, cfr., ad esempio, ord. Corte cost., 22.7.2004, n. 262, consultabile all’indirizzo www.cortecostituzionale.it.

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Le sanzioni, di natura amministrativa e pecuniaria, per chi non fa vaccinare i minori di cui è responsabile sono stabilite all’art. 1, comma 4, l. n. 119/2017.

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Cfr., al riguardo, Corte cost. n. 5/2018, cit.

Cfr. il punto 8.2.2 del Considerato in diritto Corte cost. n. 5/2018, cit., nel quale si legge che: «Valutata alla luce del contesto descritto nei suoi tratti essenziali, la scelta del legislatore statale non può essere censurata sul piano della ragionevolezza per aver indebitamente e sproporzionatamente sacrificato la libera autodeterminazione individuale in vista della tutela degli altri beni costituzionali coinvolti, frustrando, allo stesso tempo, le diverse politiche vaccinali implementate dalla ricorrente. Il legislatore, infatti, intervenendo in una situazione in cui lo strumento della persuasione appariva carente sul piano della efficacia, ha reso obbligatorie dieci vaccinazioni: meglio, ha riconfermato e rafforzato l’obbligo, mai formalmente abrogato, per le quattro vaccinazioni già previste dalle leggi dello Stato, e l’ha introdotto per altre sei vaccinazioni che già erano tutte offerte alla popolazione come “raccomandate”». 10

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Cfr. Corte cost. n. 5/2018, cit.

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Sul punto, si rinvia alle motivazioni della sentenza della


È giusto vaccinare i minori?

messo in luce anche il fatto che non si è trattato di un’attività volta a colmare, con un intervento improvvisato, una preesistente lacuna. Si deve infatti ricordare che gli obblighi vaccinali generali per la popolazione in età pediatrica, fino all’entrata in vigore della legge n. 119 del 2017, erano quelli previsti da precedenti disposizioni, alcune risalenti addirittura agli anni Trenta. I primi vaccini obbligatori e “storici”, infatti, sono stati individuati nel corso di molti decenni, e sono quelli contro la difterite, il tetano, la poliomielite e l’epatite virale di tipo B13; pertanto, si può affermare che vi sia stata una graduale estensione delle vaccinazioni obbligatorie, proposte peraltro gratuitamente e attivamente alla popolazione, estensione che ha incluso, oltre alle quattro principali poco sopra menzionate, quelle ulteriori prescritte nella legge n. 119 del 2017. La ragionevolezza della scelta normativa italiana è riscontrabile, secondo la Corte, anche in relazione all’impianto sanzionatorio previsto dalla legge n. 119 del 2017. Infatti, modificando in sede di conversione l’iniziale prescrizione del decreto originario, il legislatore ha ora stabilito solo sanzioni pecuniarie e amministrative e, inoltre, ha ritenuto di dover preservare un adeguato spazio di comunicazione e di dialogo, con i cittadini, per offrire informazioni puntuali e per favorire il confronto e la persuasione14. Il breve inquadramento fin qui tratteggiato, tuttavia, consente di portare attenzione anche ad alcune, centrali, questioni correlate al tema dei

Corte cost. n. 5/2018, cit., in particolare al Considerato in diritto, dal punto 3.1 al punto 3.3. 13 Gli interventi legislativi riguardo l’obbligatorietà vaccinale in età pediatrica risalgono alle prescrizioni dalla l. 6.6.1939, n. 891, Obbligatorietà della vaccinazione antidifterica, a cui è seguita la l. 5.3.1963, n. 292, Vaccinazione antitetanica obbligatoria. Si deve inoltre ricordare la l. 4.2.1966, n. 51, Obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica e la l. 27.5.1991, n. 165, Obbligatorietà della vaccinazione contro l’epatite virale B, come peraltro sottolineato anche dalla Corte cost. n. 5/2018, cit., nel Considerato in diritto, punto 3.1 ss.

Cfr. art. 1, comma 4, l. n. 119/2017. Si veda, inoltre, l’art. 2 della stessa legge che promuove iniziative di comunicazione d’informazione istituzionale per favorire la conoscenza dei contenuti della legge sui vaccini. 14

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vaccini, e sono l’occasione per formulare qualche osservazione di carattere generale a proposito dell’esacerbata contrapposizione di due fronti, l’uno accusato di essere ideologicamente a favore di ogni vaccinazione, senza tener conto di possibili, gravi criticità legate a tali prassi e, viceversa, l’altro ritenuto responsabile di una campagna di disinformazione e di scelte irresponsabili, che porterebbero a risultati devastanti, in termini sia di salute individuale (e dei minori, nello specifico), sia di salute pubblica. Rispetto al secondo fronte, anche se non sarà oggetto di trattazione analitica in questa sede, è utile distinguere tra posizioni “no vax” e “free vax”. Per i primi, i vaccini sono sempre e comunque uno strumento pericoloso e sbagliato, da rifiutare per sé e per i propri figli; per quanto riguarda la componente “free vax”, invece, bisogna chiarire che non rifiuta per principio lo strumento vaccinale, ma obietta riguardo all’obbligatorietà dello stesso. I “free vax”, in breve, ritengono di dover esercitare la responsabilità di scelta, per sé e per i minori, decidendo caso per caso e di preferire, come strumento di politica sanitaria, la persuasione e la discussione, più che avallare l’imposizione di un obbligo giuridico. Una volta delineata, seppur a grandi linee, questa distinzione di posizioni presenti nel fronte “critico” riguardo ai vaccini, e dopo aver dato conto delle ragioni giuridiche che hanno considerato ragionevole e coerente la scelta legislativa del nostro Paese, è ora possibile iniziare a dipanare alcuni fili di un discorso che si presenta piuttosto aggrovigliato.

2. Obbligo vaccinale e resistenze, tra persuasione e coercizione Una volta chiarito che la normazione interna si inserisce in un lungo percorso di azioni di sanità pubblica, volte al contenimento di epidemie e tese a favorire la salvaguardia della salute, individuale e collettiva, restano tuttavia da esaminare alcune serie obiezioni, che meritano di essere debitamente considerate e approfondite. Ad esempio, a chi obietta che la persuasione, e non l’obbligatorietà, sarebbe stata una scelta maggiormente rispettosa della libertà personale degli individui e più efficace come opzione di sanità Responsabilità Medica 2018, n. 2


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pubblica, è possibile opporre una serie di argomenti. I dati epidemiologici raccolti negli ultimi anni hanno dato conto della inadeguatezza e inefficacia di politiche sanitarie improntate prevalentemente alla persuasione, poiché è stata riscontrata una tendenza al calo delle coperture vaccinali. Si pensi, ad esempio che, secondo quanto rilevato dall’ultimo Piano Nazionale per la Prevenzione e i Vaccini (PNPV) relativo al triennio 2017-201915, le coperture vaccinali sono cresciute, tra il 2000 e il 201216, fino a stabilizzarsi, raggiungendo in alcuni casi la copertura, considerata ottimale, del 95%, ma che tali dati non riguardano alcune patologie molto serie. In particolare, non si è raggiunta un’adeguata copertura per la vaccinazione contro il morbillo, la parotite e la rosolia. Per contro, i dati più recenti (riferiti al 2015 e riguardanti la coorte 2013) hanno confermato una tendenza di forte decrescita, negli ultimi tre anni. In proposito, anche il Report sull’attività vaccinale dell’anno 2016 – Copertura vaccinale a 24 mesi (coorte 2014) della Regione Veneto17 ha registrato «un continuo trend decrescente»18, rispetto al quale «per la prima volta dopo anni si rileva un cambio di tendenza»19. La situazione fortemente fluida, che ha caratterizzato – e continua a farlo – la realtà italiana, era inoltre già stata considerata con preoccupazione, ad esempio, anche dal Comitato nazionale per la bioetica (CNB), che aveva allertato il Governo con la mozione L’importanza delle vaccinazioni

Cfr. il documento relativo al Piano Nazionale per la Prevenzione e i Vaccini, pubblicato dal Ministero della salute il 17 gennaio 2017, è consultabile all’indirizzo: www.salute. gov.it. 15

16 Cfr. il documento relativo al Piano Nazionale per la Prevenzione e i Vaccini, cit., 21.

Cfr. il testo del Report della Regione Veneto, Report sull’attività vaccinale dell’anno 2016, copertura vaccinale a 24 mesi (coorte 2014), dati divulgati a marzo 2017, il cui integrale resoconto è consultabile all’indirizzo: repository.regione.veneto.it. 17

Cfr. Report della Regione Veneto, Report sull’attività vaccinale dell’anno 2016, copertura vaccinale a 24 mesi (coorte 2014), cit., 6. 18

19

Ibidem.

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Saggi e pareri

dell’aprile 201520. Sulla questione, inoltre, si era espresso anche il Consiglio della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, che aveva elaborato un Documento sui vaccini approvato, anch’esso all’unanimità21, l’8 luglio 2016 e, infine, aveva preso posizione anche l’Accademia nazionale dei Lincei, che il 12 maggio 2017, vale a dire poco prima della legge n. 119 del 2017, aveva stilato un rapporto specifico, proprio sul tema dell’obbligo vaccinale22. Pur nella varietà delle analisi formulate, questi documenti hanno tutti rilevato il calo delle coperture e hanno raccomandato la necessità di promuovere azioni istituzionali per educare alla responsabilità a favore della diffusione delle vaccinazioni, per contrastare efficacemente malattie prevenibili e per tutelare sia i singoli, sia la collettività. Se, tuttavia, da una parte c’è un solido fronte giuridico ed istituzionale a favore dei vaccini, dall’altra parte possiamo trovare, non solo posizioni apertamente “no vax”, quanto piuttosto sostenitori di politiche in senso ampio “free vax”. Quest’espressione denota non solo prese di posizione di singoli cittadini, che vorrebbero intendere la vaccinazione come esercizio di una facoltà e che non ritengono condivisibile, pertanto, l’imposizione di doveri vaccinali, ma anche qualche orientamento presente in alcune parti del mondo istituzionale e scientifico23, che sta dibattendo sull’efficacia e la proponibilità dell’obbligo vaccinale come stru-

20 Il testo integrale del documento del CNB è consultabile al seguente indirizzo: bioetica.governo.it. Il precedente intervento del CNB sul tema dei vaccini risaliva al 1995, col documento Le vaccinazioni, integralmente consultabile all’indirizzo: bioetica.governo.it.

Il testo integrale dei documenti è consultabile all’indirizzo: www.quotidianosanita.it. 21

Il testo del rapporto dei Lincei è consultabile all’indirizzo: www.quotidianosanita.it. 22

Sul punto, si rinvia, ad esempio, alle esternazioni del senatore Maurizio Romani, medico, vicepresidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato, che ha espresso severe critiche, nei lavori d’aula (seduta al Senato n. 856) del 12 luglio 2017, in occasione della conversione in legge del d. l. 7.6.2017, n. 73, rispetto all’obbligo dei dieci vaccini individuati nella normativa italiana vigente. La trascrizione integrale del suo intervento è consultabile all’indirizzo: www. liberascelta.org. 23


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mento davvero incisivo per questioni di sanità pubblica e che pone criticamente in discussione l’estensione dell’obbligo ad un numero elevato di vaccini24. Va tuttavia ricordato, come abbiamo chiarito nel paragrafo precedente, che chi si sente più vicino a opzioni in senso lato “free vax” non nega, in linea di principio, la validità scientifica, clinica e terapeutica dell’uso dei vaccini, ma ritiene che debbano essere fatti importanti distinguo e che si possano conseguire migliori obiettivi, in termini di salute individuale e collettiva, attraverso lo strumento della persuasione, e non imponendo un obbligo riguardo ai vaccini. Viceversa, chi è fortemente critico, se non addirittura radicalmente contrario al loro impiego (i c.d. “no vax” in senso stretto), non argomenta il proprio dissenso limitandosi a censurare alcune modalità con cui si somministrano e, a ben guardare, non è primariamente interessato a dibattere se la pratica vaccinale debba essere normata attraverso precisi obblighi giuridici o se possa essere lasciata al buon senso, sulla base di semplici raccomandazioni della comunità scientifica. Gli argomenti addotti per giustificare il rifiuto delle vaccinazioni possono essere raggruppati in due ampie categorie che, sinteticamente, possiamo delineare nel modo seguente: una prima gamma di ragioni contrarie – più spesso avanzate dal fronte “no vax”, ma talora, rispetto ad alcuni profili specifici, fatte proprie anche da quello “free vax” – riguarderebbe il fatto che, in taluni casi, la malattia non sarebbe trasmissibile dal “contagiato” da virus ad altri, indipendentemente dal vacci-

Cfr., ad esempio, Bonati, L’obbedienza non è più una virtù, in Ricerca & Pratica, 2017, XXXIII, 99 ss.; cfr. anche Donzelli, Forzature sull’obbligo vaccinale ex DL 73/2017: il caso emblematico dell’antimeningococco B, in Ricerca & Pratica, 2017, XXXIII, 149 ss. Posizioni critiche riguardo alle modalità di attuazione, più che all’opportunità, dell’obbligo vaccinale sono state espresse, ad esempio, da Manfredi, Vaccinazioni obbligatorie e precauzione, in Giur. it., 2017, VI, 1418 ss. Criticità di ordine diverso, vale a dire riferite non alla efficacia, quanto alla copertura economica dei piani vaccinali obbligatori sono state formulate da Garattini et al., Aumentare la copertura vaccinale e diminuire i costi, in Ricerca & Pratica, 2016, XXXII, 195 ss.

no; il soggetto, in altri casi, invece, trasmetterebbe comunque il virus, nonostante la vaccinazione; vi sarebbero, inoltre, per la maggior parte delle patologie della prima infanzia, basse condizioni di rischio di contagio e, infine, per alcuni dei virus considerati, il vaccino non produrrebbe il cosiddetto effetto da immunità di gregge25. La seconda categoria di argomenti “contro” – generalmente più vicini alle posizioni “no vax” in senso stretto – si compone di ragioni diverse. Chi le sostiene afferma che i vaccini sono dannosi, perché producono eventi avversi di enorme gravità, rispetto ai presunti benefici che apporterebbero; sarebbero, in breve, anziché un argine a gravi malattie, specie per i minori, un pericolo per i bambini stessi. Inoltre, migliori condizioni igienico-sanitarie e sociali, di per sé, sarebbero la migliore e più efficace soluzione per evitare il diffondersi di eventuali contagi e infine, i vaccini, ammesso che in alcuni casi non siano del tutto inutili, sono comunque pericolosi, poiché sarebbero resi obbligatori solo per compiacere lobby farmaceutiche, il cui unico scopo è il profitto economico e finanziario.

3. Analisi delle principali obiezioni Prima di entrare nel merito delle obiezioni richiamate, si deve premettere che non si entrerà nel dettaglio di analisi scientifiche e di dati relativi a studi sul problema. Certamente, buona parte delle contro obiezioni che verranno mosse si fondano sulla ricerca e sui dati ad oggi disponibili, ma si cercherà di dimostrare che, al di là dei dati scientifici, vi sono buoni o cattivi argomenti, nella discussione sui vaccini, che esulano dall’ambito strettamente biomedico e che si prestano anche,

24

Su questo aspetto specifico, la discutibilità dell’obbligo vaccinale riguarderebbe 8 dei 10 vaccini oggetto della legge n. 119/2017. Si tratterebbe, dunque, di ragionare sugli effetti dell’obbligo dei vaccini contro il tetano, la difterite, la poliomelite, la pertosse, la varicella, l’Hemophilus influenzae di tipo B, l’epatite B e la parotite. In poche parole, si riterrebbe giustifica la pratica vaccinale limitatamente al vaccino anti-morbillo e a quello anti-rosolia. 25

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e soprattutto, a considerazioni di tipo etico-giuridico e di etica pubblica. Come abbiamo menzionato, vi sarebbero casi in cui, come per il batterio del tetano, ad esempio, il vaccino non proteggerebbe dalla contaminazione, ma solo dagli effetti della tossina. Inoltre, sarebbe proprio questo il caso tipico di malattia la cui tossina non è direttamente trasmissibile tra ospiti e, pertanto, la vaccinazione non potrebbe proteggere indirettamente altri soggetti, non producendo, come conseguenza ulteriore, alcun “effetto gregge”26. A questi argomenti si aggiunge, spesso, l’osservazione che, se anche si arrivasse alla copertura vaccinale del 100%, non si eradicherebbe il virus, che resta nell’ambiente e nelle feci animali27. Ad una prima impressione, le ragioni esposte non sembrano irrazionali e peregrine. Tuttavia, sono viziate da un problema di fondo. Il vaccino non è inteso, sempre e comunque, come strumento di eradicazione totale di certe patologie, attraverso l’eliminazione definitiva degli agenti patogeni che le provocano. Non è e non deve essere così inteso per la semplice ragione che un tale obiettivo sarebbe impossibile. Il punto, infatti, non è tanto quello di “cancellare definitivamente” alcuni virus o batteri (operazione che risulterebbe illogica e contraria alle conoscenze scientifiche ad oggi in nostro possesso, perché spesso gli agenti mutano, e si presentano sotto nuove forme e con DNA più resistente ai vaccini o agli antibiotici individuati, ad esempio). Il punto dovrebbe essere, invece, promuovere e mettere in atto politiche di sanità pubblica e scelte individuali che vadano nella direzione di contenere, con opzioni proporziona-

Con tale espressione si intende, in medicina, la protezione indiretta che si verifica quando la vaccinazione di una parte significativa di una popolazione diviene la tutela anche degli individui che non hanno sviluppato direttamente l’immunità. Sul punto, cfr. John, Samuel, Herd immunity and herd effect: new insights and definitions (2000) 7 Eur. J. Epidemiol., 601 ss. 26

Questi sono considerati gli “effetti aspecifici” dei vaccini. Cfr. Mogensen et al., The Introduction of Diphtheria-Tetanus-Pertussis and Oral Polio Vaccine Among Young Infants in an Urban African Community: A Natural Experiment (2017) 17 EBioMedicine, 192 ss.

Saggi e pareri

te e ragionevoli, gli effetti peggiori e le conseguenze devastanti a cui ci si espone in assenza di vaccini, conseguenze che si devono intendere in termini di sofferenza e di scarsa sopravvivenza, specie nella popolazione più giovane non vaccinata28. Dunque, se anche non riuscissimo mai a debellare la malattia, perché la tossina resterebbe comunque nell’ambiente intorno a noi, una protezione diffusa di soggetti fragili dovrebbe essere un valore condiviso e, al contrario, dovrebbe essere un disvalore diffuso non intervenire per evitare dolori lancinanti e morti dolorose legate ad una scarsa copertura vaccinale. Non si tratta, in poche parole, di sostenere che il vaccino è la risposta contro ogni virus o batterio, bensì di capire che contro alcuni virus e batteri particolarmente nocivi per la salute dei singoli e per l’intera società i vaccini sono una risposta appropriata, da preferire, che può e deve essere considerata, anche in senso lato, giusta.

4. Il timore, infondato, di una correlazione tra vaccini e autismo Chi sostiene che i vaccini siano sempre pericolosi, lo fa perché ritiene che essi producano eventi avversi di enorme gravità, e che dunque altro non siano se non un pericolo, per gli adulti, ma specialmente per i bambini. Nessuno ha mai negato che talvolta ci possano essere degli effetti gravi, legati alla somministrazione vaccinale. Del resto, non solo vi sono prescrizioni specifiche, al riguardo, nella legge n. 119 del 2017, ma va ricordato che, oltre ai vaccini, eventi avversi sui minori (e su maggiorenni!) si verificano in relazione a qualunque farmaco. Gli eventi avversi nei vaccini, tuttavia, si verificano in soggetti che hanno spesso, anche se non sempre, particolari condizioni (comorbilità, predisposizioni genetiche non preventivamente diagnosticate), non sempre evidenziate in sede di vaccinazione. Se prendessimo per buono l’argomento che, potenzialmente, un

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Cfr. Aa. Vv., Measuring progress and attainment on the basis of past trends of the health-related Sustainable Development Goals in 188 countries: an analysis from the Global Burden of Disease Study 2016 (2017) 390 The Lancet, 1423 ss.

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evento avverso si può verificare sempre e comunque, e se considerassimo prevalente l’interesse ad evitare effetti collaterali rispetto alla prevenzione/ immunizzazione ottenibile col vaccino, dovremmo altresì ritenere inaccettabile che le autorità di sanità pubblica continuino a permettere la prescrizione e la somministrazione di altri presidi o farmaci, se anche da questi ultimi ci si può aspettare qualche grave effetto collaterale. Anche questo ragionamento risulta viziato, perché confonde gli obiettivi: ciò che si persegue con i vaccini è una condizione di salute individuale e collettiva migliore, non certo una pratica dannosa estesa e diffusa. In breve, anche questo argomento è più simile ad una illazione complottistica, non suffragata da evidenze logiche o empiriche, più che ad argomenti razionali, di documentata evidenza. Davvero vorremmo che non si somministrassero più antipiretici o antibiotici, perché è provato che, in alcuni casi circoscritti, ci sono stati e ci potrebbero essere danni? Se accettassimo questa conclusione, vivremmo nella paura da farmaco/trattamento, dovremmo considerare i medici come sadici nemici, e dovremmo ritenere che chiunque di noi, mosso solo da ipotetici sospetti, abbia competenze e conoscenze altrettanto se non addirittura superiori a chi fonda la propria missione professionale sull’evidenza scientifica, sul controllo farmacologico, sull’informazione e sulla corretta valutazione rischi/benefici. Arriveremmo anche alla non condivisibile conclusione che solo quei trattamenti/ farmaci che non hanno effetti collaterali sarebbero da considerarsi giusti, approvabili e, pertanto, prescrittibili. Se prendessimo per buone queste premesse, però, non potemmo avvalerci più di alcun medicinale o trattamento medico. Questa sarebbe una posizione non certo a favore del progresso e dell’avanzamento delle conoscenze medico-scientifiche e, tra l’altro, dovremmo chiederci a quale valore di fondo potrebbe dirsi ispirata una tale presa di posizione. Inoltre, significherebbe mettere in dubbio la fiducia tra istituzioni e cittadini – fruitori dei servizi socio-sanitari. Si dà per scontato che vi siano questioni opache sottese alle campagne vaccinali, ai limiti del cospirazionismo, senza che sia stata data mai nemmeno una prova di tali presunti accordi

tra istituzioni e produttori di vaccini, messi in atto a scapito di tutta la popolazione, e per giunta portati avanti, letteralmente, “sulla pelle dei bambini”. Il caso più eclatante, su questo punto, è stata la presunta correlazione tra vaccinazioni in età pediatrica e l’insorgenza dell’autismo. Chi ne propugnava la connessione si basava su uno studio di A. J. Wakefiled, medico britannico che aveva pubblicato i risultati della propria ricerca sulla prestigiosa rivista The Lancet nel 199929. Ci sono voluti alcuni anni di riletture accurate dei dati forniti da Wakefield e di scrupolose verifiche, a seguito delle quali, tuttavia, nel 2011, è stato dimostrato che il suo studio non aveva alcun elemento per poter sostenere, in modo razionale e documentato, la correlazione tra vaccinazioni e insorgenza dell’autismo. In primo luogo, era stato condotto solo su 12 bambini, ai quali era stato somministrato il vaccino trivalente (contro morbillo, parotite e rosolia) e, dunque, non aveva le caratteristiche di numerosità minima accettabile per poter essere considerato scientificamente attendibile. Inoltre, la comunità scientifica aveva raccolto evidenze che contraddicevano i dati di Wakefield e che hanno bollato come “fraudolente” le conclusioni a cui egli era pervenuto, nel senso che è stato dimostrato che egli aveva alterato, se non addirittura falsificato, i risultati dei test che avrebbe condotto30. Wakefield, inoltre, consigliava un vaccino “alternativo”, a suo dire sicuro, pulito, che

Cfr. Wakefield, MMR vaccination and autism (1999) 354 The Lancet, 949 s.

29

Tra i numerosi articoli che hanno dimostrato l’infondatezza della correlazione tra autismo e vaccinazione trivalente, cfr. Godlee, Smith, Marcovitch, Wakefield’s article linking MMR vaccine and autism was fraudulent: Clear evidence of falsification of data should now close the door on this damaging vaccine scare (2011) 342 BMJ, 64 ss. Già dai primi anni 2000 la comunità scientifica aveva documentato la insussistenza delle affermazioni di Wakefield, come ad esempio Halsey, Hyman, Conference Writing Panel in Measles-mumps-rubella vaccine and autistic spectrum disorder: report from the New Challenges in Childhood Immunizations Conference convened in Oak Brook (2001) 5 PubMed Pediatric, consultabile al seguente indirizzo: www.ncbi.nlm.nih.gov, ma solo nel 2011 le evidenze sono state così lampanti da sconfessare ogni affermazione fino ad allora sostenuta, con tenacia, da Wakefield. 30

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avrebbe scongiurato qualunque sindrome autistica e che, guarda caso, egli stesso aveva proposto ad una casa farmaceutica per essere brevettato31. Alla luce di questi fatti, parlare di cospirazione perpetrata a danno dei bambini da parte delle società scientifiche o farmaceutiche appare paradossale. Se una strumentalizzazione c’è stata, non è certamente per mano di biologici, medici, farmacologi seri; piuttosto, bisognerebbe distinguere tra la sete di notorietà e di ricchezza di pochi, sconsiderati, soggetti e la serietà e dedizione di coloro che, lontano dal clamore mediatico, lavorano costantemente per evitare di mettere a repentaglio la credibilità della scienza. A proposito della presunta correlazione tra vaccinazioni e autismo, va ricordato che, in Italia, sono stati di recente posti solidi argini giuridici a pericolose derive. La sezione VI della Corte di cassazione civile, con l’ordinanza del 25 luglio 2017, n. 18358, ha respinto il ricorso di due genitori che chiedevano un risarcimento per i danni da insorgenza di malattia autistica che avrebbe subito loro figlio, a seguito, a loro dire, della somministrazione di una vaccinazione obbligatoria. La Corte ha motivato il rigetto dell’istanza sulla base dell’argomento che la scienza medica non consente, allo stato attuale, di ritenere che vi sia un nesso di causalità, certo e provato, tra la pratica vaccinale e il danno alla salute lamentato (l’autismo)32. Nello specifico, la Corte, riproponendo gli argomenti addotti già dalla Corte di Appello di Salerno, ha concluso di trovarsi di fronte ad una patologia, «[…] di cui non è tuttora ipotizzabile una correlazione con alcuna causa nota in termini statisticamente accettabili e probanti»33 e ha poi aggiunto che «vi concorre un possibile ruolo di fattori genetici, mentre non sussistono ad oggi studi epidemiologici definitivi che consentano di

Cfr. Di Grazia, La leggenda dell’autismo causato dai vaccini, su Il fatto quotidiano, consultabile all’indirizzo: www. ilfattoquotidiano.it.

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Cfr. Cass. (Ord.), 25.7.2017, n. 18358, consultabile all’indirizzo: www.foroitaliano.it. 32

33

Ibidem.

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Saggi e pareri

porre in correlazione la frequenza dell’autismo con quella della vaccinazione[…]»34. Dunque, chi rifiuta i vaccini per i propri figli sulla convinzione di preservare la loro salute, o di optare per un minor danno (si preferisce far correre il rischio di qualche danno alla salute, ma in conseguenza di malattie insorte naturalmente, e non come eventi avversi del vaccino), lo fa basandosi su dicerie, su pregiudizi, su affermazioni irrazionali, dettate dalla paura, ma lontane dalla realtà dei fatti. Potrebbe, a dire il vero, riscontrare che ci sono elementi che sfatano i pregiudizi a cui si affida: sebbene, infatti, rischi da vaccino ci siano e, purtroppo, in limitati casi si sono verificati danni alla salute, le vaccinazioni di massa hanno consentito ad un numero enorme di consociati di godere dei benefici di tale scelta. Il bilanciamento, in questo caso, va a favore della più ampia copertura della collettività, riconoscendo un indennizzo a coloro che hanno subito un danno da vaccinazione.

5. Obiezioni minori, tra paure irrazionali e cospirazioni inesistenti Secondo i sostenitori di posizioni critiche riguardo all’ampia categoria di patologie per le quali sono previsti i vaccini, alcuni studi indicherebbero, come ragioni ulteriori di diffidenza, che condizioni igieniche della società e degli ambienti ospedalieri (es. per il tetano) o un’immunità passiva artificiale (cioè conseguita non attraverso il vaccino, bensì con antibiotici e la somministrazioni di anticorpi, come nel caso della difterite) sarebbero concause rilevanti nell’aver positivamente inciso sulla diffusione, sempre meno presente, dei patogeni considerati35. Altri studi, invece, indicherebbero, come nel caso della pertosse, che il vaccino è stato sì efficace,

34

Ibidem.

Cfr. Mogensen et al., The Introduction of Diphtheria-Tetanus-Pertussis and Oral Polio Vaccine Among Young Infants in an Urban African Community: a Natural Experiment (2017) 17 EBioMedicine.com, il cui testo integrale è disponibile all’indirizzo: www.ebiomedicine.com.

35


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È giusto vaccinare i minori?

ma non ci sarebbero evidenze tali da far sostenere che sia l’unico motivo del crollo di tale malattia; oppure, nel caso della poliomelite, si richiederebbe maggiore prudenza rispetto al vaccino, per via del fatto che non sono ancora del tutto chiari i meccanismi di patogenesi di questo batterio36; oppure, si mette in evidenza l’argomento che gli organismi che causano una malattia, secondo una prospettiva evoluzionistica, avrebbero sì interesse ad infettare i loro “ospiti”, ma senza ucciderli. Pertanto, come nel caso del vaccino antinfluenzale, pur essendo creati vaccini secondo caratteristiche “ceppo-specifiche”, vi sarebbero in ogni caso seri inconvenienti, che dovrebbero pertanto indurre ad un severo ripensamento delle vaccinazioni37. A fronte di queste perplessità, che, è bene ribadirlo, non sono avanzate da guru di qualche strampalata setta, né sono prese di posizione dogmatiche e antiscientifiche, ma provengono da scienziati, che sulla base di alcuni studi condotti hanno formulato degli interrogativi e portato nella discussione pubblica i risultati delle loro ricerche, è tuttavia possibile proporre qualche ulteriore osservazione. Il primo elemento che va preso in considerazione è che, se da una parte disponiamo di una serie di studi che mettono in guardia sulle conseguenze nella popolazione di certi vaccini o che ne criticano alcuni impieghi, dall’altra parte sono disponibili altrettanti, se non addirittura più numerosi, studi, che confutano o limitano fortemente le conclusioni delle ricerche sopra menzionate38. La questione vaccinale, tuttavia, come è stato sottolineato anche in un recente articolo di Nature, non è e non deve ridursi alla contrapposizione di

“tifoserie” nemiche39, ma investe e riguarda scelte di sanità pubblica, rilevanti anche nella vita di ciascuno di noi. Pertanto, possiamo cercare di uscire da questa impasse formulando qualche considerazione che, pur tenendo conto delle evidenze degli studi, cerca di fare un’analisi a muovere da criteri e principi etici e bioetici, che dovrebbero valere sempre, per ogni valutazione dell’operato della scienza. Ad esempio, se intendiamo dire che le conoscenze clinico-mediche e scientifiche sia sui virus o sui batteri, sia sui vaccini, sono in costante evoluzione, certamente facciamo un’affermazione corretta. Altrettanto corretta è l’osservazione che mutazioni virali e la resistenza antibiotica40 implicano ricerche e messe a punto di vaccini via via più specifici e mirati. Allo stesso modo, rilevare che complessive condizioni di salubrità, legate all’avanzamento socio-sanitario, a migliorate condizioni di vita, di lavoro ma anche di ospedalizzazione, ad esempio, incidono sulla minor diffusione dei patogeni per i quali si prescrivono le vaccinazioni, significa tenere conto dei molti fattori in gioco nel contesto vaccinale. Sarebbe tuttavia azzardato e non del tutto onesto se, partendo sia da dati controversi di natura epidemiologica, sia dalle premesse fattuali ricordate, traessimo la conclusione normativa che, allora, i vaccini sono strumenti di dubbio valore e che, di conseguenza, l’obbligo vaccinale è privo di senso o, al limite, andrebbe lasciato alla libertà individuale.

Cfr. Aa. Vv., Vaccine boosters. A new French law that makes immunizations mandatory is not the only way to improve (2018) 553 Nature, 249 s. L’articolo è consultabile al seguente indirizzo: www.nature.com. 39

Si stima che, entro il 2050, vi possa essere un grave pericolo di resistenza dei c.d. “super-batteri” agli antibiotici oggi in uso per molte migliaia di persone, come testimoniato non solo da alcuni articoli di stampa, ma anche da alcuni contributi scientifici Cfr., in merito, consultabile all’indirizzo: www. repubblica.it; cfr. anche Rossi, Tasegian, Antibioticoterapia nella riacutizzazione di bronchite cronica e polmonite comunitaria: valutazione clinica e strategia di intervento, in Rivista Società Italiana di Medicina Generale, 2017, IV, 1 ss. Cfr. anche Colonna, Folco, Marangoni, I cibi della salute, Milano, 2013; in particolare Colonna, Folco, Marangoni, op. cit., 221 ss. 40

Cfr. Cocchio, A postmarket safety comparison of 2 vaccination strategies for measles, mumps, rubella and varicella in Italy (2016) 12 Hum. Vaccin. Immunother, 651ss. 36

Cfr. Amirthalingam et al., Sustained Effectiveness of the Maternal Pertussis Immunization Program in England 3 Years Following Introduction (2016) 63 Clin. Infect. Dis., 236 ss. 37

Cfr. la ricca bibliografia al riguardo, consultabile nel volume Vaccinazioni: stato dell’arte, falsi miti e prospettive. Il ruolo chiave della prevenzione, XXVII, Roma, 2017, consultabile all’indirizzo: www.fondazionethebridge.it. 38

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Dobbiamo, infatti, rilevare che i vaccini sono stati introdotti come strumenti volti a garantire e mantenere il (fondamentale) diritto alla salute. Del resto, non solo sulla base di una costante giurisprudenza costituzionale, ma anche direttamente dalla prescrizione dell’articolo 32 della Costituzione, dobbiamo ricordare che la salute è sì un diritto personalissimo, fondamentale, di ciascuno di noi, ma è altresì un interesse della collettività. Nel caso dell’obbligo vaccinale, c’è poi una riserva di legge costituzionalmente garantita, nel senso che la legge prescrive i casi e le modalità con cui obbligare un soggetto a sottoporsi ad un trattamento. In particolare, quando un soggetto, come nel caso dei minori, non può autodeterminarsi riguardo alle scelte sulle cure, che incidono non solo sul singolo, ma che possono avere effetti di particolare gravità anche su un’ampia classe di soggetti, deve esserci un soggetto altro, (in genere, i genitori), che ne è responsabile, per la salute, e che deve provvedere al suo best interest, al suo miglior interesse. Inoltre, riguardo al trattamento sanitario obbligatorio vaccinale, affinché il legislatore si muova nell’alveo costituzionale, ci deve essere la duplice condizione che attraverso le norme previste si preservi la salute del soggetto e, allo stesso tempo, quella della collettività. Per alcuni casi, riportati dalla cronaca recente, è un fatto che una maggiore copertura vaccinale avrebbe limitato, se non impedito, il contagio, che ha purtroppo causato la malattia e in alcuni casi la morte di alcuni soggetti, più deboli e più fragili41. La questione della vaccinazione dei bambini viene spesso affrontata in modo scorretto, perché non è possibile, in relazione al minore, parlare di “scelta” riguardo alla vaccinazione o di “libertà di cura”. Questa è l’occasione per fare chiarezza e uscire da discorsi opachi, che generano confu-

I media hanno raccontato diversi episodi, tra cui quello di una bambina di sei anni, deceduta a seguito di un’infezione da meningococco C, in provincia di Milano, nel novembre 2017; molto risalto ha avuto anche il caso di un’altra bimba di sei anni, anch’essa deceduta, in provincia di Bergamo, dopo aver contratto la meningite. Gli articoli relativi a questi casi sono disponibili all’indirizzo: milano.corriere.it e all’indirizzo: www.ilgiorno.it. 41

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Saggi e pareri

sione e producono pericolosi fraintendimenti. Un soggetto adulto e capace ha libertà di scelta e di cura su di sé, può cioè fare per sé tutte le scelte che vuole, anche a rischio della propria vita (ma purché non leda posizioni giuridiche altrui e non cagioni danni a terzi). Non è così per i soggetti minori, che rispetto ai vaccini (o meglio, rispetto alla contrarietà ai vaccini) subiscono scelte, nella maggior parte dei casi ideologicamente connotate, dei propri genitori o tutori legali e che, se non trovassero una tutela giuridica rinforzata per la loro salute, non potrebbero da soli agire e far valere i propri diritti. Se, cioè, chi li rappresenta compie scelte in contrasto col loro miglior interesse, ci deve essere un intervento terzo e imparziale, a tutela della salute e della loro vita. Qualcuno potrebbe chiedersi se vaccinare i minori sia, sul serio, fare il loro miglior interesse. La risposta deve essere chiara, e positiva. Certamente si fa il loro best interest, per diverse ragioni. Innanzitutto, si corrono rischi bassissimi e, al contrario, si ha il vantaggio di essere immuni rispetto ad una gamma ampia di patologie. Inoltre, come abbiamo notato poco sopra, da sole le condizioni socio-sanitarie o igieniche non prevengono la diffusione virale o batterica. Ancora: l’immunità di gregge è possibile, a vantaggio anche dei non vaccinati, solo se vi è un alto numero di comportamenti virtuosi, messi in atto da adulti, che fanno vaccinare i propri figli non solo in nome di una scelta personale o familiare, ma perché consapevoli di essere chiamati responsabilmente a non fare del male o meglio, a fare il bene dei propri figli e, indirettamente, a fare anche il bene dei figli di altri consociati. Del resto, non ci porremmo oggi i problemi dell’opportunità e della relativa obbligatorietà vaccinale se, nei decenni scorsi, i vaccini avessero prodotto scarsi risultati. Si tratta, a dire il vero, di una situazione paradossale, nella quale, proprio il successo di precedenti campagne vaccinali sembra averne messo in discussione, oggi, la loro efficacia. Dopo molti anni in cui i vaccini hanno prodotto eccellenti risultati per la salute individuale e collettiva, proprio in ragione degli effetti positivi e dirompenti che hanno prodotto, se ne mette in discussione la validità e, di conseguenza, l’obbligatorietà. Certamente si deve


È giusto vaccinare i minori?

avere uno spirito critico riguardo alle concrete modalità di elaborazione dei vaccini e della loro somministrazione, nel senso che queste devono essere azioni messe in atto sempre per la effettiva attuazione di un diritto fondamentale e per il conseguimento e il consolidamento di un interesse socio-collettivo, alla luce delle più avanzate conoscenze medico-scientifiche. Bisogna tuttavia avere l’onestà di ammettere che si giunge allo stigmatizzare della vaccinazione adducendo argomenti ideologici, o para-scientifici, in ogni caso, di scarsa pregnanza argomentativa, che da soli non sono sufficienti per mettere in dubbio i risultati consolidati in ambito clinico e medico. Se, infatti, fossimo fino ad ora stati vittime di un grande inganno, se cioè ci fosse davvero un diverso scenario in ambito scientifico, con risultanze condivise dalla comunità medica, volte a dimostrare la infondatezza clinica dei vaccini, perché superati, o perché gli stessi risultati si potrebbero ottenere con altri trattamenti medico-sanitari, dovremmo, oltre che assistere ad una discussione aperta, dialettica, su questi temi, avere anche a disposizione molti dati a sostegno di tale affermazione, dati che oggi, semplicemente, non possediamo.

6. Osservazioni conclusive Pur ammettendo che la scienza svolga con competenza le proprie verifiche e che lavori con trasparenza e sulla base di risultati verificabili, i vaccini sarebbero comunque da guardare con sospetto, perché se anche non sono inutili, sono imposti alla popolazione solo per questioni di lobby economico-commerciali. Si dice, in breve: c’è un interesse della lobby delle case farmaceutiche, che inficia ogni dibattito serio e che non consente una discussione libera sulla questione. Se questo fosse vero, dovremmo chiarire però che in ogni ambito in cui c’è un farmaco/trattamento efficace contro certe patologie c’è sempre un interesse enorme delle case farmaceutiche. Ma rifiuteremmo una chemioterapia, efficace, che certo, in molti casi dà anche qualche effetto collaterale, solo perché c’è qualcuno (ad esempio un colosso farmaceutico) che ci guadagna? Dovremmo riflettere, in breve, se possiamo accettare il rischio di non guarire, di ammalarci, di con-

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tagiare altri, vale a dire di mettere a repentaglio la nostra salute e quella di altri a noi vicini solo perché i farmaci sono prodotti (anche) commerciali. Peraltro, i vaccini sono messi a disposizione gratuitamente, per i minori. E dunque dovremmo ritenere sfatato il mito che asserisce che le case farmaceutiche agirebbero solo per fini speculativi. Come abbiamo fin qui argomentato, ragionare sulla problematicità dei vaccini significa riflettere su aspetti che investono certamente la riflessione medico-scientifica, non meno che bioetica, filosofica e giuridica. Non si tratta, però, solo di questo, ma anche, e forse prevalentemente, di avere maggiore consapevolezza di quale politica del diritto e di salute pubblica vorremmo fosse attuata. In proposito, nonostante le criticità e le osservazioni riportate dagli studi scientifici richiamati nei paragrafi precedenti, ci dovremmo domandare se davvero incoraggiare la non vaccinazione sia una scelta non solo responsabile, ma da approvare a livello sovraindividuale. Sulla base di quali ragioni si può affermare che rifiutare le vaccinazioni sia un valore (positivo) e che effettuarle, invece, sia un disvalore? Non si tratta di avallare una forma di paternalismo generalizzato, quanto, piuttosto, di ricordare che nel nostro Paese quando si invoca la “libertà di cura”, se non chiarita e precisata, si va incontro a situazioni pericolose e drammatiche. I casi “Di Bella” e “Stamina”, del resto, avrebbero dovuto già insegnare qualcosa. Libertà di cura significa certamente facoltà di scegliere, quando si è adulti e capaci, entro limiti e secondo criteri predeterminati, cosa si vuole, o non si vuole, per sé, in un contesto di cura e di assistenza sanitaria. Non va tuttavia confusa con questa libertà la pretesa, talvolta avanzata, di chiedere qualunque trattamento o qualunque intervento, anche se non basato su evidenze medico-scientifiche. Tali richieste non sono espressione del diritto alla salute, inteso come diritto a chiedere e a ricevere prestazioni dal nostro sistema sanitario. Sono desideri senza legittimazione giuridica, che si fondano su elementi non supportati da ragioni terapeutiche e, in ogni caso, che si

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pongono al di fuori della cornice normativa della relazione di cura42. Le espressioni “libertà di cura” o “libertà di scelta” in ambito sanitario, inoltre, non significano che ad un soggetto adulto è data facoltà incondizionata di decidere per gli interventi, i trattamenti e le terapie a cui sottoporre (o non sottoporre) i soggetti minori di cui è (anche giuridicamente) responsabile. Come ha molte volte ricordato Uberto Scarpelli, libertà, significa, tra l’altro, agire con responsabilità, vale a dire tenere conto «delle prevedibili conseguenze delle azioni e (del)la strumentalità dei principi ad esse sottesi, capaci di giustificare linee di condotta rispetto a fini desiderati»43. Ci dovremmo pertanto interrogare sulle conseguenze a cui andremmo incontro se promuovessimo, oggi, una campagna vaccinale in Italia, sganciata dall’obbligatorietà, perché di certo non sarebbe una scelta di politica e di sanità pubblica priva di conseguenze e capace di evitare danni a terzi, in particolare ai soggetti fragili. Non si tratta di invocare sempre e comunque il principio di precauzione che, peraltro, in questo contesto ha senso, pensando alla tutela da offrire specialmente ai minori. Tale principio prescrive, infatti, di neutralizzare o minimizzare i rischi per la salute umana44, anche se non del tutto accertati, sulla base di condizioni particolari e concrete, condizioni che ritroviamo nel nostro contesto e che sono state anche sottolineate dalla Corte costituzionale. Si tratta, a dire il vero, di capire che non tutte le scelte possono essere giustificate, nel nome dell’autodeterminazione e della libertà, se non se ne precisano i contenuti e se non ci si cura delle possibili ricadute. Non va dimenticato, infine, che chi spesso promuove azioni o iniziative

42 Cfr. a proposito degli elementi costitutivi della corretta relazione di cura, Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto, II, Milano, 2018, in particolare il cap. 3.

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per la libertà delle vaccinazioni45 vorrebbe, invece, la completa libertà dalle vaccinazioni, perché le considera un male, e certamente non un male necessario. Chi intende “libertà” come termine che designa la “facoltà di decidere anche per i propri figli riguardo ai vaccini, nel senso di poter scegliere se sottoporli, o meno, a quelli obbligatori”, come sopra ricordato, travisa pericolosamente il significato di “libertà” ed assume una posizione fortemente problematica. Innanzitutto, ciò a cui sembra voglia tendere, perdonando il gioco di parole, non è un esercizio di libertà, bensì è l’immunità dai vaccini. Inoltre, è portata avanti da soggetti, adulti, che sono stati vaccinati quando erano minori. In buona sostanza, se oggi possono “battagliare” contro i vaccini è perché, proprio grazie ad essi, hanno goduto di una condizione di salute (relativamente) buona. Infine, se con la mia scelta (ideologica, culturale, religiosa, politica, etc.) cagiono danni ad altri non posso ritenere legittima la mia posizione. Si potrà obiettare che, specie per questa tematica, si devono contemperare eventuali interessi confliggenti in gioco. Certamente lo si deve fare, ma nel caso dei vaccini, dobbiamo considerare un ultimo elemento. Non sottoporre un minore ad un vaccino è un rischio, la cui decisione è assunta da un adulto (che ne è responsabile), ma è un rischio che si fa gravare direttamente sul minore stesso e, indirettamente, su tutti coloro (adulti o meno) che entrano in relazione con i soggetti interessati nella normale vita quotidiana. In conclusione, per quanto possa apparire una questione difficile, per certi aspetti spinosa, la pratica vaccinale ci pone di fronte a domande di grande rilevanza. Porta a chiederci che genitori, che adulti o che cittadini vogliamo essere e porta a domandare, inoltre, quale tipo di politica e di sanità pubblica vorremmo avere nel nostro Paese. Riguardo al primo interrogativo, qualcuno potrebbe arrivare a sostenere che il binomio libertà/ responsabilità genitoriale sia divenuto, forse, troppo

43 Cfr. Scarpelli, La Bioetica. Alla ricerca dei principi, in Biblioteca delle libertà, 1987, XCIX, 31. 44 Tra le molte definizioni e analisi a disposizioni riguardo al principio di precauzione, cfr. Petrini, Il principio di precauzione, in Studia Bioethica, 2016, III, 66 ss.

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45 Si vedano le campagne del Coordinamento del movimento italiano per la libertà delle vaccinazioni (Comilva), il cui sito è: www.comilva.org.


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gravoso. A questo rilievo va contrapposto l’argomento che l’esercizio di un diritto, e del diritto fondamentale alla salute, non può essere considerato gravoso. Eccessivamente oneroso, tanto in termini individuali, quanto in relazione agli effetti sulla collettività, sarebbe travisare la portata e il significato di diritto di libertà che riguarda l’esercizio – responsabile – del diritto alla salute, per sé, e per i propri figli. Riguardo al secondo interrogativo, dovremmo ritenere che la discussione scientifica argomentata e supportata da evidenze e la fiducia nell’avanzamento del sapere biomedico siano valori da tutelare e garantire. Dovremmo altresì ritenere auspicabile che vi sia un numero crescente di cittadine e di cittadini più critici, capaci di valutare e ponderare i diversi contenuti che sono offerti dai molti canali informativi e divulgativi oggi a nostra disposizione, specie quando si dibatte sul tema dei vaccini e della loro obbligatorietà. Tuttavia, non possiamo chiedere alle istituzioni, politiche scientifiche e giuridiche, di “lasciarci in pace”, e di non interferire con le nostre scelte individuali, quando le nostre scelte e azioni producono danni ad altri e, in particolare, sono dannose per i nostri figli, o per i minori in genere. Inoltre, finché il nostro ordinamento prescrive che la salute è sì un fondamentale diritto soggettivo, ma che è altresì un irrinunciabile interesse per la collettività, dovremmo accettare che particolari pratiche sanitarie, se non hanno una copertura apprezzabile, siano rese obbligatorie, perché la salute delle generazioni presenti, e di quelle future, dovrebbe essere una priorità condivisa, nelle politiche di sanità pubblica46: dovrebbe essere, in breve, ciò per cui vale la pena fare, investire, spendere e, perché no, vaccinare.

Per un approfondimento di questo profilo, in particolare in relazione a “ciò per cui vale la pena” investire risorse sia per le scelte individuali, sia per le risorse sanitarie istituzionali, cfr. Forni, La sfida della giustizia in sanità. Salute, equità e risorse, Torino, 2016, in particolare il cap. 5. 46

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Responsabilità sanitaria e quantificazione del danno non patrimoniale

g g sa re e a p

Anna Chiara Zanuzzi

Professoressa nell’Università di Padova Sommario: 1. Introduzione. – 2. La sentenza della Corte Costituzionale 16 ottobre 2014, n. 235. – 3. Modello legale e “tutela integrativa”. – 4. Gli artt. 138 e 139 d.lgs. 209/2005 nel testo riformato dalla legge annuale per il mercato e la concorrenza (l. 4 agosto 2017, n. 124). – 5. L’art. 7, comma 3° della l. n. 24/2017. – 6. Alcune conclusioni.

Il saggio indaga la disciplina della quantificazione del danno non patrimoniale contenuta nella legge Gelli-Bianco mettendone in evidenza criticità vecchie e nuove legate, soprattutto, al rinvio al modello legale di liquidazione del danno previsto agli artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni private (d.lgs. 209/2005). The essay explores the discipline of quantification of non-patrimonial damages that is included in the Gelli Bianco’s law and highlights its old and new problems related, above all, to the referral to legal model of assessment of damages covered in the articles 138 and 139 of private insurance code (d.lgs. 209/2005).

Tale circostanza si deve essenzialmente al fatto che all’art. 7, comma 4°2, della novella viene rinnovata la scelta, già operata con la legge Balduzzi3, di rinviare de plano, anche per i danni dell’ambito sanitario, ai criteri di predeterminazione dell’an e del quantum del risarcimento contenuti negli artt. 138 e 139 del d.lgs. 209/20054 e, dunque, ad un modello normativo di ristoro del danno alla persona che, elaborato per trovare applicazione in materia di sinistri stradali si caratterizza, com’è noto, per una netta riduzione dei valori liquidati

“Il danno conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1° del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo” (art. 7, comma 4°, l. n. 24/2017). 2

1. Introduzione La quantificazione del danno non patrimoniale resta anche nella legge Gelli-Bianco1 un tema centrale e problematico.

“Il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente della professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all’attività di cui al presente articolo”. Così testualmente l’art 3, comma 3°, della l. 8 novembre 2012, n. 189, legge di conversione del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, recante “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”.

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1 L. 8 marzo 2017, n. 24, recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”. Per alcune riflessioni generali sulla nuova disciplina si rinvia a Alpa (a cura di), La responsabilità sanitaria. Commento alla L. 8 marzo 2017, n. 24, Pisa, 2017; Masieri, Novità in tema di responsabilità sanitaria, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 752; Miotto, Considerazioni in tema di responsabilità medica e di relativa assicurazione nella prospettiva dell’intervento legislativo, in Resp. civ. e prev., 2017, 27.

D.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 - Codice delle assicurazioni private.

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rispetto a quelli ottenibili in base all’applicazione delle tabelle di matrice giurisprudenziale5. Vengono così subito riportate sulla scena le criticità che da sempre affliggono tali regole6: tra di esse si ripresentano, ovviamente, anche quelle legate ai dubbi di costituzionalità delle tabelle di legge, alle quali, peraltro, proprio la non omogeneità tra i diversi ambiti in cui gli artt. 138 e 139 d.lgs. 209/2005 continuano a trovare applicazione (quello dei sinistri tra veicoli senza guida di rotaie e quello della malpractice medica), infonde ora nuova linfa per la non esportabilità, come si dirà nel prosieguo (si veda infra § 2), al di fuori del settore della r.c. auto, delle argomentazioni con cui la Consulta, nella sentenza 16 ottobre 2014, n. 235, salva l’art. 139 dall’incostituzionalità7.

Con la sentenza 11.6.2011, n. 12408 (in Resp. civ. e prev. 2011, 2018, con nota di Ziviz; in Danno e resp., 2011, 939, con note di Hazan e di Ponzanelli), la Corte di Cassazione individuava nelle Tabelle di Milano il modello liquidativo da adottarsi in tutto il territorio nazionale in quanto in grado di assicurare sia l’equità “adeguatezza” – l’adattamento della legge al caso concreto –, sia l’equità “uguaglianza” – l’uniformità di trattamento di casi analoghi. Esse, infatti, esprimono “il valore da ritenersi equo, e cioè, quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutte le circostanze in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l’entità”. Nello stesso senso ex pluribus, Cass., 30.6.2011, n. 14402, in Corr. giur., 2011, 1081, con nota di Franzoni; Cass., 8.11.2012, n. 19376, in Dir. e giust., 2012, 1028, con nota di Pietroletti; Cass., ord. 4.1.2013, n. 134, in Dir. e giust. online, 2013; Cass., 25.2.2014, n. 4447, in Foro. it., 2014, I, 1834 ss.; Cass., 20.5.2015, n. 10263, in Foro. it., 2015, I, 3229 ss.; App. Roma, 21.12.2016, in Ridare.it; Cass., 23.3.2016, n. 5691. 5

Prima fra tutte, la circostanza che l’art. 138 risulti – a dodici anni di distanza dall’emanazione del Codice delle assicurazioni private – tuttora sfornito dei necessari decreti attuativi, necessitando, quindi, di essere vicariato dalle tabelle giurisprudenziali applicabili al risarcimento delle macrolesioni. Sul punto si veda infra § 4.

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Anche in relazione a questo aspetto fondamentale della disciplina contenuta nella novella sono state purtroppo disattese le indicazioni emerse dal complesso e articolato lavoro svolto dalla Commissione Ministeriale. Il testo approvato in prima lettura alla Camera, infatti, opportunamente, non prevedeva alcun riferimento alle tabelle di cui al d. lgs. 209/2005. Lo stesso dicasi per la trasposizione del dettato normativo del comma 3° dell’art. 3 della legge Balduzzi nell’attuale art. 7, comma 3° della l. n. 24/2017, del pari assente nel testo approvato prima del passaggio al Senato (su questa specifica questione si veda infra § 5).

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Il fatto poi che tale rinvio si collochi all’interno di una disciplina che, perseguendo finalità dichiarate di tutela del diritto alla sicurezza delle cure, si pone anche l’obiettivo del contrasto alla c.d. medicina difensiva8, rende il profilo della quantificazione del danno un prezioso indicatore9, non solo del livello di protezione che si è inteso assicurare al paziente danneggiato, ma anche della coerenza ed efficienza delle scelte operate in funzione degli obiettivi di cui sopra. Di questo si dirà brevemente nelle conclusioni.

2. La sentenza della Corte Costituzionale 16 ottobre 2014, n. 235 Le censure di costituzionalità sollevate nei confronti dell’art. 139 d.lgs. 209/2005 di maggior interesse per la pertinenza al tema in esame si attestano sulla pretesa violazione del principio di integralità del risarcimento cui tale norma darebbe luogo, da un lato, non consentendo il risarcimento del danno morale (essendo detto pregiudizio non espressamente contemplato nella previsione legale) e, dall’altro, imponendo rigide limitazioni alla personalizzazione di quello biologico, incrementabile, al più, fino ad un massimo del 20% del quantum ottenuto in base ai valori normativi, “con equo e motivato apprezzamento tenuto conto delle condizioni soggettive del danneggiato”.

Per l’individuazione di tale fenomeno si può utilmente richiamare la nota definizione data nel 1994 dall’Office of Technology Assessment americano, per il quale la medicina difensiva si “verifica quando i medici prescrivono test, procedure diagnostiche o visite, oppure evitano pazienti o trattamenti ad alto rischio, principalmente (ma non esclusivamente) per ridurre la loro esposizione ad un giudizio di responsabilità per malpractice. Quando i medici prescrivono extra test o procedure, essi praticano una medicina difensiva positiva; quando evitano certi pazienti o trattamenti, praticano una medicina difensiva negativa”. Per un’analisi, anche in chiave storica dell’argomento Guerra, La ‘medicina difensiva: fenomeno moderno dalle radici antiche, consultabile all’indirizzo: www.politichesanitarie.it. 8

Ciò in quanto le scelte normative sul quantum possono incidere il piano stesso dell’an, allorché esse evidenzino ammissioni meramente formali all’area del risarcimento: è l’annosa questione dell’influenza del quantum sull’an. (v. infra § 2, nel testo corrispondente alla nota 13 e il § 4, nel testo corrispondente alla nota 43).

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Quantificazione del danno non patrimoniale

Com’è noto la Corte Costituzionale con la sentenza 16 ottobre 2014, n. 23510, riterrà infondate entrambe le doglianze. In particolare, in relazione all’asserita esclusione del danno morale dall’area del risarcimento, viene premesso un richiamo alla posizione assunta dalle Sezioni Unite nelle sentenze di S. Martino del 200811 le quali ritennero che in presenza di una lesione della salute “il cosiddetto «danno morale» − e cioè la sofferenza personale suscettibile di costituire ulteriore posta risarcibile (comunque unitariamente) del danno non patrimoniale, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato” dovesse rientrare “nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente”. Tale riferimento è quanto permette alla Consulta di escludere che l’art. 139 – che testualmente si riferisce al solo danno biologico –, sia “chiusa […] alla risarcibilità anche del danno morale”, poiché, ove ne ricorrano i presupposti, il giudice potrà avvalersi “della possibilità di incremento dell’ammontare del danno biologico, secondo la previsione, e nei limiti, di cui alla disposizione del citato comma 3”. La sofferenza morale trova così riconoscimento e tutela risarcitoria in sede di personalizzazione del danno biologico in quanto apprezzabile nell’aumento percentuale del 20% di quanto liquidato per la lesione della salute. Così disponendo la Corte Costituzionale si allinea ad una tesi, già sostenuta dalla Cassazione in un obiter della sentenza 7 giugno 2011, n. 1240812, nel quale la Suprema Corte, pur riconoscendo la non sovrapponibilità della fattispecie di danno disciplinata all’art. 139 del d.lgs. 209/2005 (il

10 Corte cost., 16.10.2014, n. 235, in Europa e dir. priv., 2014, 1389, con nota di Guffanti Pesenti; in Resp. civ. e prev., 2014, 1834, con nota di Ziviz e di Scognamiglio; in Danno e resp., 2014, 1021, con nota di Frigerio; in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 172 ss., con nota di Cuocci.

Cass., sez. un., 11.11.2008, n. 26972, in Resp. civ. e prev., 2009, 38, con note di Monateri, Navarretta, Poletti e Scognamiglio. 11

Lo ricorda Ziviz, Danni alla persona, sistema tabellare e discrezionalità del giudice, consultabile all’indirizzo: www. personaedanno.it.

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solo danno biologico) a quella individuata dalle successive statuizioni delle Sezioni Unite del 2008 (il danno non patrimoniale unitariamente inteso), conclude, comunque (seppur in riferimento all’esclusivo ambito dei sinistri stradali), per l’applicabilità di tale norma – anche in relazione ai limiti di personalizzazione – non solo al danno biologico, ma a tutte le conseguenze non patrimoniali della lesione alla salute, e, dunque, anche al danno morale. È facile comprendere come tale soluzione si traduca in una diminuzione – rispetto ai suddetti parametri di diritto comune – del quantum ristorabile al danneggiato al quale, nei limiti del medesimo aumento percentuale del 20% potrà essere risarcito, non solo il danno biologico idiosincratico, ma anche il danno morale, sia nella componente standard, sia in quella idiosincratica. La distanza dalle liquidazioni del modello giurisprudenziale non è stata ridotta nemmeno in seguito alla novellazione dell’art. 139 ad opera della legge annuale per il mercato e la concorrenza13, in quanto, da un lato, non si è disposta alcuna revisione del metodo di calcolo tabellare (poiché i valori del punto di invalidità restano quelli previsti per fornire tutela alla sola lesione della salute e non anche al danno morale)14, e, in più, dall’altro, si è stabilito che la norma possa ora offrire ristoro, sempre all’interno del medesimo tetto del 20%, alla sola componente idiosincratica del danno morale, restando quella standard assorbita nella liquidazione del danno biologico. Quanto alla contestazione di legittimità legata all’insufficienza dei criteri legali di predeterminazione del quantum del risarcimento del danno biologico, la Consulta oppone l’argomentazione secondo cui le limitazioni contenute nell’art. 139 realizzerebbero un bilanciamento – rispondente a criteri di ragionevolezza15 – tra il diritto all’integra-

L. 4 agosto 2017, n. 124. Sul punto v. infra § 4, nel testo corrispondente alla nota 43.

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14 Lo evidenzia Ziviz, Le modifiche al sistema tabellare di cui agli artt. 138 e 139 cod. ass. introdotte dalla legge sulla concorrenza, in Resp. civ. e prev., 2017, 1774. 15 Sulla competenza del criterio di ragionevolezza ad esprimere ordini di preferenza e compatibilità tra principi concor-

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le ristoro del danno, quale “interesse risarcitorio particolare del danneggiato” e quello “generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi”. Si tratta di una soluzione del pari non condivisibile, in primo luogo, poiché pone sullo stesso piano, ai fini del giudizio di ragionevolezza16, due categorie – la salute (rispetto alla quale il principio di integralità del risarcimento, in ipotesi di lesione di tale diritto, rileva, evidentemente, non quale valore in sé, ma in quanto strumento attraverso il quale assicurarne l’effettività della tutela) e un interesse economico (il contenimento dei premi) – che non partecipano certo della stessa assiologia17. La necessità che il bilanciamento riguardi valori di pari rango è, peraltro, evidenziata dalla Corte Costituzionale stessa quando, nel richiamare una propria precedente decisione (resa in materia di limiti alla responsabilità del vettore aereo in tema di trasporto di persone), chiarisce “come non si configuri ipotesi di illegittimità costituzionale per lesione del diritto inviolabile all’integrità della persona ove la disciplina in contestazione sia volta a comporre le esigenze del danneggiato con altro valore di rilievo costituzionale, come, in quel caso, il valore dell’iniziativa economica privata connesso all’attività del vettore”18; rilievo costituzionale che non essendo ravvisabile nell’interesse

renti, sì da operare un ripensamento del rapporto tra principi in termini di strutturazione gerarchica e non di puro bilanciamento, P. Perlingieri, Manuale di diritto civile, VIII, Napoli, 2017, 15 ss. e 131 s. 16 In materia di ragionevolezza, anche per un consistente approfondimento del significato di tale concetto nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale, G. Perlingieri, Profili applicativi della ragionevolezza nel diritto civile, Napoli, 2015, in particolare 43 ss. e 149 ss. 17 Analogamente, Ziviz, Danni alla persona, sistema tabellare e discrezionalità del giudice, cit., 6. Per una raffinata riflessione sull’essenzialità di un approccio in chiave assiologica alla responsabilità civile, anche al fine di dare spazio all’evoluzione del sistema ordinamentale, Perlingieri, La responsabilità civile tra indennizzo e risarcimento, in Rass. dir. civ. 2004, 1084; Id, L’art 2059 uno e bino: una interpretazione che non convince, ivi, 2003, 775; Id, L’onnipresente art. 2059 e la tipicità del danno alla persona, ivi, 2009, 520. 18

Corte cost., 6.5.1985, n. 132, in Foro it., 1985, I, 1585.

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Saggi e pareri

al contenimento dei premi assicurativi rende, nel caso in esame, irragionevole il suddetto bilanciamento19. In secondo luogo, perché la relazione di consequenzialità tra la riduzione del risarcimento e quella dei premi a carico degli assicurati su cui fa leva la Corte per dichiarare l’infondatezza della censura non è poi così pacifica “dal momento che al limite normativamente imposto tramite la tabella delle microinvalidità non è stato correlato alcuno strumento legislativo finalizzato a calmierare i premi assicurativi”20 e, dunque, ad assicurare una reale corrispondenza tra riduzione dei valori liquidati e contenimento dei premi. Senza contare che tale ragionamento presuppone necessariamente che tutte le vittime della strada abbiano concluso un contratto di assicurazione per r.c. auto obbligatoria, laddove, invece, per esempio, in riferimento ad un danneggiato-terzo trasportato tale circostanza potrebbe anche non verificarsi mai. Del pari non condivisibile, appare, infine, il dictum con cui la Corte Costituzionale, ancora una volta richiamando le sentenze di S. Martino del 2008, puntualizza “come il bilanciamento tra i diritti inviolabili della persona ed il dovere di solidarietà (di cui, rispettivamente, al primo e secondo comma dell’art. 2 Cost.) comporti che non sia risarcibile il danno per lesione di quei diritti che non superi il «livello di tollerabilità» che «ogni persona inserita nel complesso contesto sociale […]

19 Come è stato opportunamente rilevato da Ziviz, Prima furon le cose, e poi i nomi, in Resp. civ. e prev., 1842, “non vale, d’altro canto, ad assicurare la ragionevolezza del sistema limitativo il fatto che – in sede comunitaria – tale disciplina sia stata ritenuta compatibile con le indicazioni derivanti dalle direttive europee in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli; il rispetto di tali principi appare – infatti – condizione necessaria, ma non sufficiente ad affermare che il sistema risulta costituzionalmente legittimo”. Sulla sentenza della Corte di Giustizia, ante sentenza Corte cost. n. 235/2014, cit., Bona, Sinistri stradali, azione diretta e tutela risarcitoria: progressi e arresti nelle ultime pronunce della Corte di Giustizia, nota a Corte giust. UE, 23.1.2014, causa C-371/12, in Resp. civ. e prev., 2014, 442.

Ziviz, Danni alla persona, sistema tabellare e discrezionalità del giudice, cit., 5.

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deve accettare in virtù del dovere di tolleranza che la convivenza impone»”. La Corte trascura di considerare che il dovere di solidarietà viene richiamato dalle Sez. Un. in riferimento al – solo – profilo dell’an e, quindi, alle condizioni di accesso all’area del risarcimento – al fine, evidente, di escludere da essa ripercussioni negative che non superino il vaglio della gravita della lesione e della serietà del pregiudizio; non certo in riferimento a quello del quantum, cui, invece, tali limitazioni si riferiscono. I pregiudizi a cui esse vengono imposte sono quelli già tabellati (per i quali, cioè, è stata possibile la riconduzione al barème medico legale) e per i quali, dunque, ex definitione deve escludersi che si possa parlare di danni bagatellari. Del resto, con l’intento di eliminare qualunque spazio per danni di questo genere, è intervenuta la nota stretta sulle modalità accertative delle micropermanenti che il legislatore – anche nell’ambito del contrasto alle cc.dd. truffe dei colpi di frusta –, ha realizzato attraverso due successive modifiche al testo dell’art. 139: la prima con il d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, così come convertito dalla l. 24 marzo 2012, n. 27 (recante “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”21), la seconda, con la citata legge annuale per il mercato e la concorrenza (l. 4 agosto 2017, n. 124). L’attuale comma 2° dell’art. 139, disponendo che “le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, ovvero visivo, con riferimento alle lesioni, quali le cicatrici, oggettivamente riscontrabili senza l’ausilio di strumentazioni, non possono dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente”

21 In relazione alle criticità oltreché ai dubbi di legittimità costituzionale di tale novella, anche in relazione alla lettura datane – in sede di obiter – dalla sentenza n. 235/2014 della Corte Costituzionale, si deve rinviare in toto a Ziviz, Le modifiche al sistema tabellare di cui agli artt. 138 e 139 cod. ass. introdotte dalla legge sulla concorrenza., cit., 1777; Bona, Lesioni di lieve entità ed accertamenti strumentali: la Consulta ignora questioni di costituzionalità manifestamente fondate, in Resp. civ. e prev., 2016, 464; Id., Micropermanenti e “prove diaboliche”: tra Cassazione e Consulta chi ha ragione?, nota a Cass., 26.9.2016, n. 18773, ivi, 2017, 144.

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pone, dunque, uno specifico sbarramento (il rispetto dei criteri di oggettivazione e apprezzabilità ivi indicati) – solo – una volta superato il quale il pregiudizio deve, però, senz’altro, ritenersi meritevole di risarcimento. Se, dunque, per quanto detto, le statuizioni della Consulta non appaiono convincenti (ancorché ne siano comprensibili le ragioni legate all’attuale insostenibilità dei costi dei risarcimenti), in riferimento al settore delle lesioni alla salute derivanti dalla circolazione di veicoli e natanti – ambito per il quale sono state specificamente ed esclusivamente formulate –, ove esse siano trasposte in quello dei danni da malpractice medica non possono che risultare, altresì, inconferenti. Tali diversi ambiti, infatti, presentano caratteristiche che li rendono non sovrapponibili già per la semplice, quanto dirimente ragione, che in capo al paziente non vi è alcun obbligo di assicurazione rispetto al quale – seguendo il ragionamento che qui si critica – potrebbe essere ragionevole limitare il risarcimento dei danni da illecito sanitario da questi subiti a fronte di un possibile vantaggio economico al contenimento dei premi posti a suo carico22. A ben vedere poi, la possibilità di lucrare dei premi più bassi, quale corrispettivo della – asseritamente ragionevole – diminuzione dell’ammontare dei risarcimenti ottenibili in base ai criteri speciali ex art. 138 (quando fosse divenuto operativo) e ex art. 139, potrebbe essere, in realtà, non facilmente realizzabile anche ove si introducesse un obbligo di assicurazione bilaterale (in capo al paziente, oltreché al medico e alla struttura). Questo in ragione delle consistenti limitazioni che l’art. 9, comma 6°, della l. n. 24/2017 comunque prevede per l’azione di surroga esperibile dall’assicurazione che abbia risarcito il paziente a seguito del vittorioso esperimento dell’azione di danni; limitazioni che è, infatti, difficile ritenere non si tradurrebbero,

22 Su questo aspetto si vedano le compiute considerazioni di Ponzanelli, L’applicazione degli articoli 138 e 139 codice delle assicurazioni alla responsabilità medica: problemi e prospettive, in Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 145 e Ziviz, Le modifiche al sistema tabellare di cui agli artt. 138 e 139 cod. ass. introdotte dalla legge sulla concorrenza., cit., 1779.

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per compensare gli esborsi non recuperati, in speculari aumenti dei premi e/o estensioni delle franchigie delle polizze sottoscritte dai pazienti, analogamente a quanto avverrà per i responsabili civili quando la riforma entrerà a regime.

3. Modello legale e “tutela integrativa” Le argomentazioni atte a contrastare l’incostituzionalità del sistema legale ex art. 139 d.lgs. 209/2005 potrebbero essere, semmai, altre. In una diversa sede23, in riferimento al sistema r.c. auto, si è messo in evidenza come, le censure di illegittimità costituzionale rivolte al carattere indennitario delle liquidazioni del modello speciale, non risultino, in realtà, pertinenti allorché si abbia riguardo a norme, come l’art. 139 del d.lgs. 209/2005 che contengono criteri di predeterminazione dell’an e del quantum del risarcimento, che, come noto, vincolano solo l’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicurazione del danneggiante24. Essendo sempre possibile rivolgersi al responsabile civile per ottenere sia l’eccedenza tra quanto indennizzato dall’assicurazione in base ai parametri normativi e quanto sarebbe dovuto in seguito all’applicazione dei criteri di quantificazione di diritto comune, sia i danni – qualitativamente – in toto estranei alla copertura assicurativa tabellare e posti ad esclusivo carico del responsabile civile (mutuando terminologia e concetti che nascono in sede previdenziale, rispettivamente i danni cc.dd. differenziali e i danni cc.dd. complementari), ciò escluderebbe a priori l’ottenimento della sola tutela affidata all’equità legale e, conseguen-

Mi sia consentito, al riguardo, rinviare a Zanuzzi, Il codice delle assicurazioni private. Commentario al d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209, Capriglione, Alpa, Antonucci (a cura di), 2, Padova, 2007, sub artt. 138 e 139, 417 s. e 429.

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temente, l’illegittimità costituzionale della disciplina speciale, in riferimento a possibili compromissioni del principio di integralità del risarcimento del danno alla persona25. Atteso quanto sopra, si tratta allora di verificare, al fine di fugare tali dubbi di incostituzionalità, se la medesima conclusione possa valere anche ove il modello legale venga applicato agli illeciti sanitari, dove l’art. 138 – una volta attuato – e l’art. 139 d.lgs. n. 209/2005 devono misurarsi con il tessuto di una disciplina speciale (quello della l. n. 24/2017) che, se da un lato sembra escludere qualsiasi spazio per forme di tutela integrativa affidate al responsabile civile, dall’altro, individua nel Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria26 – allo stato ancora non istituito – il destinatario di non ben precisate richieste risarcitorie. L’art. 14 della l. n. 24/2017, prevede, infatti, che il Fondo di garanzia risarcisca i danni cagionati da responsabilità sanitaria, tra l’altro, “a) qualora il danno sia di importo eccedente rispetto ai massimali previsti dai contratti di assicurazione stipulati dalla struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata ovvero dall’esercente la professione sanitaria ai sensi del decreto di cui all’articolo 10, comma 6”. Ora nelle more dell’adozione del decreto attuativo richiamato dal comma 6° dell’art. 10 (cui è demandato il compito di stabilire, inter alia, i requisiti minimi di polizza, e, dunque, “l’individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati”) e del regolamento istitutivo del Fondo de quo, i quali dovrebbero finalmente consentire di identificare tutti gli elementi necessari alla formulazione di un giudizio non parziale e provvisorio al riguardo, quello che, sin d’ora,

23

Corte cost., 29.12.2004, n. 434, in La resp. civ., 2005, 273, in riferimento all’omologa disciplina previgente. Sul punto, nello stesso senso, già Cass., 24.3.2003, n. 4242, in Mass. Giust. civ., 2003, 577; Cass., 18.5.1999, n. 4801, ivi, 1999, 1094.; Cass., 11.6.1990, n. 5672, ivi, 1990; Cass. 11.5.1989, n. 2150, in Foro it., 1990, I, 634 ss.; Cass., 4.3.1988, n. 2280, in Arch. giur. circ., 1988, 620 ss.; Cass., 20.2.1982, n. 1084, ivi, 1982, 475 ss.

24

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25 Altro fondamento ha, invece, l’illegittimità costituzionale allorché il carattere indennitario della disciplina ex art. 139 comprometta gli obiettivi di tutela dell’integrità del patrimonio del danneggiante e di ristoro delle ragioni del danneggiato che devono essere assicurati da un sistema di r.c. obbligatoria. Sul punto Zanuzzi, cit., 412 e 430.

In materia, per una prima disamina generale dell’istituto, Piccolo, Il nuovo Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria, in Danno e resp., 2017, 329. 26


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si può dire è che la risposta positiva al quesito che si è posto dipenderà, con ogni evidenza, dalla possibilità per il paziente di ottenere, in caso di danno, una tutela integrativa sovrapponibile in termini di an e di quantum a quella conseguibile dal danneggiato in seguito a sinistro stradale. In questo senso, poter affermare che la c.d. tutela differenziale e complementare sia attivabile anche ove i danneggianti siano strutture e/o sanitari rappresenterebbe una circostanza dirimente anche qualora il Fondo fosse deputato ad assolvere richieste di tipo diverso da quelle aventi ad oggetto risarcimenti integrativi27. Si tratta di una soluzione che, tuttavia, si porrebbe in contrasto con le finalità di contenimento del contenzioso che il legislatore ha inteso perseguire anche attraverso la riduzione delle liquidazioni dei danni da malpractice: in tal modo si (ri)allocherebbe sul responsabile civile un danno solo provvisoriamente escluso dalla tutela risarcitoria28. Senza contare poi che l’art. 10, comma 1°, non imponendo, in via esclusiva, l’obbligo di copertura assicurativa – poiché le strutture sanitarie e sociosanitarie possono scegliere di ricorrere ad “analoghe misure per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d’opera” (e, dunque ad esempio, a meccanismi di c.d. autoassicurazione29) – vanificherebbe ogni portata precettiva del rinvio agli artt. 138 e 139 per la quantificazione del danno, ove tale scelta alternativa fosse operata. Il richiamo, ex art. 7, comma 3°, l. n. 24/2017 agli artt. 138 e 139 per l’ambito sanitario vale, così, non solo a rendere applicabili i criteri legali di predeterminazione dell’an e del quantum del risarcimento all’azione diretta del danneggiato nei confronti delle compagnie di assicurazione dei responsabili civili, come avviene per i sinistri stra-

dali, ma anche ad estenderne la vincolatività30 al rapporto tra i pazienti danneggiati e le strutture e/o gli esercenti la professione sanitaria, precludendo in tal modo, nei confronti di tali soggetti, qualunque richiesta di tutela risarcitoria integrativa avente ad oggetto poste di danno ivi non previste (come ad es. il danno morale standard, nell’art. 139) o valutate con criteriologia diversa da quella afferente al modello speciale. L’esaustività e onnicomprensività della tutela legale espressa dal disposto di cui al comma 4° dell’art. 138, ripreso in identica formulazione al comma 3° dell’art. 139 non può, dunque, che riguardare anche i responsabili civili. Tali considerazioni ritengo consentano, inoltre, del pari, di escludere che possa essere il Fondo ad assumere il ruolo di (unico) interlocutore per la c.d. tutela differenziale e complementare di cui si è detto. Ancor prima che per la limitatezza delle risorse disponibili (ben evidenziata dal comma 3° dell’art 14 che, nel prevedere che il Fondo “concorre al risarcimento del danno nei limiti delle effettive disponibilità finanziarie”31, non intende certo solo riferirsi ad un generico rischio di incapienza, che può sempre verificarsi ove il danneggiato agisca nei confronti del responsabile civile), è sempre la distonia che si realizzerebbe rispetto alla suddetta ratio della disciplina speciale ad essere determinante poiché, diversamente, si porrebbe a carico, in questo caso delle compagnie di assicurazione32 (e, in ipotesi di regresso, ex art. 14, comma 2°, lett. d), nuovamente, del responsabile civile) quella tutela di diritto comune che, per le ragioni anzidette si è voluto, invece, disattivare nei confronti di tutti i soggetti potenzialmente coinvolti.

30 Per l’art. 138, con ogni evidenza, solo una volta che sarà attuato.

Per alcune considerazioni su questo aspetto, Quadri, Considerazioni in tema di responsabilità medica e di relativa assicurazione nella prospettiva dell’intervento legislativo, in Resp. civ. e prev., 2017, 45.

31 27

Sul punto si veda infra alla fine del presente paragrafo.

Sulla questione dell’idoneità del contenimento del quantum del risarcimento ad incidere sulla medicina difensiva si veda infra nelle conclusioni. 28

Su questo tema si rinvia alla diffusa trattazione di Romagnoli, Autoassicurazione della responsabilità medica: compatibilità con i principi di diritto interno ed europeo, in Danno e resp., 2015, 329. 29

“Il Fondo di garanzia è alimentato dal versamento di un contributo annuale dovuto dalle imprese autorizzate all’esercizio delle assicurazioni per la responsabilità civile per i danni causati da responsabilità sanitaria”. Così testualmente il comma 1° dell’art. 14 l. n. 24/2017. 32

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Posto che i massimali cui fa menzione l’art. 14 sono, espressamente, quelli indicati all’art. 10, comma 6° e, cioè, quelli demandati alla previsione del decreto di cui si è detto (decreto che non si vede come potrebbe non tener conto, almeno – e cioè come massimale minimo – delle quantificazioni normativamente previste dall’art. 139 del d.lgs. 205/2009), si può allora ipotizzare che uno spazio per l’intervento del Fondo possa sussistere per le eccedenze – rispetto ai massimali ex art. 10, comma 6° – collegate a danni non ancora tabellati: con riguardo ad essi, potrebbe, infatti, anche verificarsi che i suddetti massimali di polizza non consentano il ristoro di quanto liquidato in base ai criteri di diritto comune33. Alla luce di tali osservazioni, emerge, ancora una volta, come siano le diversità esistenti tra l’ambito della r.c. auto e quello della responsabilità sanitaria ad escludere che si possano superare i dubbi di costituzionalità del modello speciale ex art. 139 d.lgs. 209/2005 allorché esso venga applicato all’ambito della malpractice medica per la quantificazione dei danni derivanti da lesioni di lieve entità. Con ogni probabilità, la Consulta sarà, dunque, nuovamente chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del sistema tabellare delle micropermanenti non essendo possibile, come detto, utilmente richiamare, per gli illeciti sanitari, le valutazioni di ragionevolezza della compressione del diritto all’integralità del risarcimento del danno che hanno salvato l’art. 139 dall’incostituzionalità nel sistema della r.c. auto.

33 É questo attualmente il caso – sempre che la mancata tabellazione si protragga anche dopo l’adozione del decreto de quo –, da un lato, delle lesioni di non lieve entità ex art. 138 d. lgs. 209/2005 e, dall’altro, delle conseguenze pregiudizievoli “afferenti alle attività” sanitarie non previste dagli artt. 138 e 139 (quali ad es. i danni derivanti dalla mancata prestazione del consenso all’atto medico o dalla violazione del diritto all’interruzione di gravidanza, tipici, appunto, di questo ambito), la cui individuazione e disciplina risarcitoria sono demandate dall’art. 7, comma 3°, ad un decreto del Presidente della Repubblica.

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Saggi e pareri

4. Gli artt. 138 e 139 d.lgs. 209/05 nel testo riformato dalla legge annuale per il mercato e la concorrenza (l. 4 agosto 2017, n. 124) Il testo degli artt. 138 e 139 del d.lgs. 209/2005, attualmente modificato dalla legge annuale per il mercato e la concorrenza (l. 4 agosto 2017, n. 124) e, dunque, già in corso di revisione all’entrata in vigore della legge de qua, si presenta in una formulazione in parte diversa anche da quella all’inizio proposta all’interno del relativo disegno di legge, del quale, in sede di approvazione del testo definitivo, è stata, infatti, licenziata una versione differente. In generale si può dire, innanzitutto, che un cambio di non poco conto, rispetto alla formulazione previgente – quella richiamata dalla legge Balduzzi –, si registra già nella rubrica di tali norme (nella quale il termine “danno biologico” viene sostituito con quello di “danno non patrimoniale” – di non lieve entità, per l’art. 138, di lieve entità per l’art. 139), cui fa eco la previsione, contenuta in entrambe, secondo cui “l’ammontare complessivo del risarcimento ai sensi del presente articolo è esaustivo del risarcimento del danno conseguente alle lesioni fisiche”. L’idea di fondo che permea la disciplina affidata alle norme de quibus è quella dell’onnicomprensività e, dunque, dell’esaustività della tutela risarcitoria fornita dai criteri legali per le conseguenze non patrimoniali della lesione della salute (in relazione al significato che la previsione di esaustività assume in relazione alla tutela integrativa si veda supra al § 3). Le indicazioni più significative in questo senso si rinvengono all’art. 13834.

34 Come ricordato anche in apertura (v. sub nota 6), tale norma, nonostante l’opera di novellazione cui è stata sottoposta dalla l. n. 124/2017, continua a rimanere, ora come allora, inattuata, avendo il legislatore disposto un’ulteriore remissione in termini per la predisposizione della tabella unica nazionale prevista per la valutazione delle lesioni somatiche di non lieve entità. Detta circostanza, se, da un lato, come detto, rappresenta, senz’altro, da sempre, una delle maggiori criticità del sistema legale di liquidazione del danno, dall’altro, evidenzia l’infondatezza dell’idea che ricollega, in via


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Quantificazione del danno non patrimoniale

Tale disposizione manifesta, infatti, in modo inequivocabile, non solo quale sia la posizione del legislatore con riguardo alla composizione dell’area del danno non patrimoniale risarcibile in ipotesi di lesione alla salute, ma, altresì, l’intento di voler assicurare, anche al modello tabellare ivi contenuto (oltre, cioè, a quello codificato all’art. 139), dettato per le cc.dd. macrolesioni, la signoria esclusiva in materia di quantificazione dei pregiudizi non patrimoniali ad esse riconducibili. È a tali fini, infatti, che la norma si apre con una citazione del corredo argomentativo con cui la Consulta, nella citata sentenza n. 235/2014 (cfr. supra § 2,), aveva respinto le censure di illegittimità costituzionale sollevate nei confronti dell’art. 139. L’incipit dell’art 138, evidenziando come i criteri di predeterminazione dell’an (e del quantum, una volta adottata la tabella) ivi contenuti abbiano la finalità “di garantire il diritto delle vittime dei sinistri a un pieno risarcimento del danno non patrimoniale effettivamente subito e di razionalizzare i costi gravanti sul sistema assicurativo e sui consumatori” intende sottolinearne la rispondenza alle medesime condizioni di ragionevolezza realizzate dal sistema tabellare ex art. 139. Se da un lato, proprio tali precisazioni confermano la riferibilità delle valutazioni rese dalla Corte Costituzionale al solo ambito dei sinistri stradali, dall’altro, tuttavia, il comma 2° dell’art. 138 – prevedendo espressamente che la tabella unica nazionale sia “redatta, tenuto conto dei criteri di valutazione del danno non patrimoniale ritenuti congrui dalla consolidata giurisprudenza di legittimità” – sembrerebbe escludere che per le macropermanenti potrà sussistere, una volta adottata la tabella, quel divario così netto rispetto alle

liquidazioni di diritto comune, che continua ad affliggere, invece, le micropermanenti35. Sempre nell’ottica di cui si diceva si colloca poi quella che è la novità di maggior rilievo della riforma dell’art. 138, costituita, da un lato, dall’ingresso della sofferenza morale quale voce, autonoma ed espressamente prevista del danno alla persona, e, dall’altro dalla previsione di criteri di quantificazione specifici, che introducono dei limiti alla liquidazione di tale posta di danno. Si è voluto in tal modo rispondere – per neutralizzarne, con le conclusioni anche le ricadute applicative – a quell’orientamento, consolidatosi sin dal 2015, con cui una giurisprudenza di legittimità attenta alla complessità della “fenomenologia del danno alla persona”36, argomentando proprio dalle statuizioni della sentenza n. 235/2014 della Corte Costituzionale37 – avrebbe di fatto assicurato al controllo delle tabelle milanesi, anche una volta che l’art. 138 fosse entrato a regime38, il ri-

Per alcune riflessioni al riguardo, Ziviz, Le modifiche al sistema tabellare di cui agli artt. 138 e 139 cod. ass. introdotte dalla legge sulla concorrenza, cit., 1776.

35

36 Cass., 17.1.2018, n. 901, in Foro it., 2018, I, 911; Cass., 14.11.2017, n. 26805, ivi, 912; Cass., 20.4.2016, n. 7766, ivi, 2016, I, 2055; Cass., 9.6.2015, n. 11851, ivi, 2015, I, 2726. Prima della sentenza della Corte cost. n. 235/2014, cit., si distinguono però anche Cass., 20.11.2012, n. 20292, in Mass. Giust. civ., 2012, 1315 e Cass., 12.9.2011, n. 18641, in Giust. civ., 2012, I, 2379. In tali pronunce in cui viene offerto un vero e proprio statuto del risarcimento del danno non patrimoniale evidenziandosi come “la vera, costante essenza del danno alla persona” siano la “sofferenza interiore” e “le dinamiche relazionali di una vita che cambia.” Si tratta di “danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili, ma se, e solo se, provati caso per caso, con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (tra cui il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni) al di là di sommarie quanto impredicabili generalizzazioni. E se è lecito ipotizzare, come talvolta si è scritto, che la categoria del danno “esistenziale” risulti «indefinita e atipica», ciò appare la probabile conseguenza dell’essere la stessa dimensione della sofferenza umana, a sua volta, «indefinita e atipica».

É, infatti, la Corte Costituzionale stessa nella sentenza n. 235/2014 cit., nell’ammettere a risarcimento il danno morale, ad aver sconfessato “al massimo livello interpretativo, la tesi predicativa della unicità del danno biologico quale sorta di primo motore immobile del sistema risarcitorio”. Così, per prima, Cass., 9.6.2015, n. 11851, cit. Analogamente, le pronunce di cui alla nota precedente. 37

necessaria, ai sistemi di assicurazione obbligatoria modelli di quantificazione del danno alla persona fondati su tabellazioni di carattere normativo (sul punto anche Ziviz, Danni alla persona, sistema tabellare e discrezionalità del giudice, cit., 4): la latitanza del legislatore in materia di macropermanenti, come noto, è stata, infatti, perfettamente compensata dai criteri risarcitori del concorrente modello giurisprudenziale.

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Cass., 20.4.2016, n. 7766, cit.; Cass., 9.6.2015, n. 11851, cit.

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sarcimento del danno morale collegato a lesioni della salute con esiti di non lieve entità. Ciò in quanto, a detta della Cassazione, al di fuori del “solo, specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità”39, – nel quale, per la Consulta, la sofferenza trova comunque un proprio riconoscimento in sede di personalizzazione del danno biologico – il danno morale risulta libero da qualunque limitazione tabellare: l’art. 138, infatti, riserva, espressamente, la personalizzazione del danno – e, quindi, l’aumento del quantum del risarcimento entro il range massimo del 30% –, alle sole ripercussioni che incidano in maniera rilevante “su specifici aspetti dinamico relazionali” (id est sulla sfera esistenziale idiosincratica). Con la modifica in parola il legislatore si appropria così di territori fino a quel momento esterni all’art. 138 e lo fa agendo anche sul profilo dell’an, affrancando il danno morale, finanche solo per le macrolesioni, dal ruolo di mera componente del danno biologico apprezzabile in sede di personalizzazione40. L’art. 138 affida le modalità di quantificazione della sofferenza interiore ad un incremento, in via percentuale e progressiva per punto, del quantum liquidato a titolo di danno biologico41, laddove il coefficiente di crescita resta, tuttavia, allo stato, per forza di cose, ancora indeterminato perché legato all’adozione della tabella unica nazionale. Tale scelta non appare condivisibile in relazione all’idea di base sui cui poggia e, cioè, che la consistenza del danno morale aumenti – solo – al crescere dei postumi della lesione alla salute.

Così le sentenze di cui alla nota 37, citando, a loro volta, la sentenza n. 235/2014 della Consulta. 39

40

Cfr. supra § 2, Corte cost., 16.10.2014, n. 235, cit.

Così testualmente l’art. 138, comma 2°, lett. e) “al fine di considerare la componente del danno morale da lesione all’integrità fisica, la quota corrispondente al danno biologico stabilita in applicazione dei criteri di cui alle lettere da a) a d) è incrementata in via percentuale e progressiva per punto, individuando la percentuale di aumento di tali valori per la personalizzazione complessiva della liquidazione”. Di tale norma, nel testo novellato, fanno riferimento anche le citate Cass., 17.1.2018, n. 901, cit. e Cass., 14.11.2017, n. 26805, cit. (v. nota 36). 41

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Si tratta di una semplificazione che, più che riportare per questa voce di danno ai noti, quanto risalenti rischi di automatismi risarcitori dovuti a liquidazioni basate su una mera percentualizzazione del danno biologico (perché l’esistenza di una criteriologia valutativa di per sé non può certo esonerare dal rispetto dei principi di allegazione e prova), potrebbe invece generare fenomeni di undercompensation, per l’impossibilità di apprezzare sofferenze morali di una certa entità in riferimento a lesioni somatiche più contenute. Per far fronte alla – possibile – non corrispondenza tra entità del danno biologico ed entità del danno morale sarebbe stato quindi sufficiente prevedere la possibilità di ricorrere ad una specifica personalizzazione del pregiudizio, aumentando il quantum liquidato per il danno morale in base ai criteri tabellari, fino ad un certo valore percentuale. Tale soluzione è peraltro quella fatta propria dall’art. 139 che, tuttavia, a contrario rispetto alla norma che lo precede, individua criteri di quantificazione attivabili solo qualora la “menomazione accertata […] causi o abbia causato una sofferenza psico-fisica di particolare intensità. In tal caso “l’ammontare del risarcimento del danno, calcolato secondo quanto previsto dalla tabella di cui al comma 4, può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 20 per cento”. È evidente che la mancata considerazione nell’art. 139 della componente standard del danno morale in via autonoma e, dunque, la sua necessitata liquidazione all’interno della voce del danno biologico – senza, peraltro, che a ciò, come detto, si sia accompagnata alcuna revisione del metodo di calcolo atto ad incrementare i valori del punto di invalidità del danno biologico –, non solo si è tradotto in un netto taglio al risarcimento, poiché nel medesimo quantum deve ora trovare ristoro anche un’altra voce di danno42, ma, a ri-

In questo senso già Ziviz, Danni alla persona, sistema tabellare e discrezionalità del giudice, cit., 4 che ricorda come, invece, una diversa strada sia stata seguita per le tabelle di fonte giurisprudenziale, le quali, nel momento in cui sono state applicate ai fini di una valutazione del danno non pa42


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gore, provoca, altresì, un disallineamento rispetto al dictum della sentenza n. 235/2014 della Corte Costituzionale che, come ricordato, su questo specifico punto, salvava l’art. 139 dall’incostituzionalità proprio ritenendo che il danno morale tout court – e non solo quello che “causi o abbia causato una sofferenza psico-fisica di particolare intensità” (di cui non si ha traccia nella versione della norma precedente a quella attuale) –, possa trovare tutela in sede di appesantimento del danno biologico43. Quanto all’incidenza negativa della lesione della salute sugli aspetti dinamico relazionali, l’art. 138 novellato riprende in toto la formulazione della versione precedente: il giudice potrà, quindi, ammettere a risarcimento solo particolari compromissioni di tali specifici aspetti e liquidare fino a un massimo del 30%; non si è dunque dato seguito, in ragione della scelta di disciplinare specificamente il danno morale, di cui si è detto, alla proposta originaria del disegno di legge per il mercato e la concorrenza di regolamentare all’interno della stessa formula – mantenuta, invece, nel nuovo art. 139 – sofferenza morale e ripercussioni esistenziali44.

trimoniale inteso in maniera unitaria, hanno visto ritoccati i valori del punto, in modo da comprendere anche la componente morale. 43 A svilire ulteriormente la dignità risarcitoria del danno biologico e del danno morale, la circostanza che, sempre nel medesimo range di appesantimento del 20%, dovranno trovare posto anche le lesioni della salute che diano luogo ad alterazioni funzionali idiosincratiche.

La prima versione del testo prevedeva, infatti, che “Qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati ovvero causi o abbia causato una sofferenza psico-fisica di particolare intensità, l’ammontare del risarcimento del danno, calcolato secondo quanto previsto dalla tabella unica nazionale di cui al comma 2, può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 40 per cento”. Tale indicazione risulta utile ai fini esegetici poiché il fatto che si sia provveduto a ridurre dal 40% al 30% la percentuale di personalizzazione allorché il danno morale è stato disciplinato a parte, indica che, in riferimento all’art. 139, la medesima formula – la quale, si diceva, continua a considerare tutte e due le componenti in parola – debba essere interpretata nel senso che all’aumento massimo del 20%, soddisfatte le condizioni di allegazione e prova, si potrà 44

L’art. 139, specularmente a quanto disposto nell’art. 138 per il danno morale, si occupa, per la prima volta in modo specifico, delle ripercussioni esistenziali ammettendole a risarcimento, unitamente alle sofferenze morali – le une e le altre, in relazione ai soli esiti idiosincratici – nell’importo massimo complessivo del 20% della somma dovuta a titolo di danno biologico45. Anche per la disciplina delle micropermanenti si registra dunque una contrazione del quantum liquidato rispetto alle somme ottenibili in base al modello giurisprudenziale. La competenza degli artt. 138 e 139 a fornire la disciplina risarcitoria per i soli esiti pregiudizievoli della lesione della salute esclude, infine, che a tali norme possa essere ricondotta una consistente serie di altri danni. Si evidenzia in questo modo un’ulteriore criticità del rinvio da parte del legislatore della l. n. 24/2017 alle norme speciali del Codice delle assicurazioni per la quantificazione del danno non patrimoniale. Anche per i sinistri in medicina si perpetuano così le lacune, già manifestatesi nel d.lgs 209/2005, che, del pari, non contiene una norma per i danni da sinistri stradali diversi da quelli alla salute46. Nella legge Gelli-Bianco non trovano quindi specifica disciplina pregiudizi di esclusiva pertinenza dell’ambito sanitario (quali quelli derivanti dalla violazione dell’autodeterminazione del paziente determinata da errore diagnostico47) ov-

ricorrere, non per singola posta, ma per entrambe. 45

Sul punto si veda la nota precedente.

La lacunosità del dettato normativo del Codice delle assicurazioni involge anche il danno patrimoniale poiché in esso non si fa menzione del danno emergente e dei danni – patrimoniali – da morte. Sul punto Alberto, nel Commentario al codice delle assicurazioni, Cedam, 2006, sub artt. 138 e 139, 357. 46

Caso tipico è quello della lesione del diritto di autodeterminazione in relazione all’interruzione di gravidanza, a seguito di mancata diagnosi di malformazioni fetali. Sul punto Cass., 19.1.2018, n. 1252 la quale si colloca nell’alveo del nuovo corso inaugurato da Cass., 2.10.2012, n. 16754, in Giust. civ., 2013, I, 640, in ordine all’onere della prova del nesso causale tra la mancata informazione e la volontà della futura madre di interrompere la gravidanza (posto ora a carico di quest’ultima). Per l’orientamento previgente 47

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vero dell’obbligo di ottenimento del necessario consenso all’atto medico48, e, a maggior ragione, quelli comuni al settore della r.c. auto, mai normati (come il danno da morte49, quello ai prossimi congiunti50, che com’è noto, si sostanziano, quanto ai parenti della vittima, per lo più in danni esistenziali e in danni morali, ancor più che in danni biologici, salvo sempre che la degenerazione della sofferenza non determini un danno psichico) e che presentano una notevole incidenza anche negli illeciti sanitari. Ai grandi assenti di un tempo se ne sommano ora di nuovi. Se da un lato è vero che con l’art. 7, comma 4°, il legislatore della riforma ha rinviato, proprio per colmare tali lacune, ad un’ulteriore normativa di attuazione l’individuazione e la disciplina risarcitoria dei pregiudizi “afferenti alle attività” sanitarie non previste dagli artt. 138 e 139 (v. supra § 3), dall’altro, tuttavia, resta comunque la sensazione che si sia persa, anche in relazione ad un aspetto così delicato come quello della quantificazione

Cass., 10.5.2002, n. 6735, in Resp. civ. e prev., 2003, 117; Cass., 29.7.2004, n. 14488, in Giust. civ., 2005, I, 121, “a mente della quale risponde a regolarità causale che la gestante, se informata correttamente e tempestivamente sulla gravità delle patologie cui va incontro il nascituro, interrompa la gravidanza”. 48 Ex pluribus Cass., 31.1.2018, n. 2369, consultabile all’indirizzo: www.personaedanno.it; con nota di Todeschini, in cui è espressa molto chiaramente la distinzione, anche ai fini della prova, tra danno alla salute e danno all’autodeterminazione; Cass., 14.11.2017, n. 26827, in Ridare.it; Cass., 4.2.2016, n. 2177, in Resp. civ. e prev., 2016, 1359; Cass., 9.2.2010, n. 2847, in Foro it., 2010, I, 2113. 49 In argomento Astone, Il danno tanatologico (una controversa ricostruzione), in Dir. fam. e pers., 2017, II, 191; Galasso, Il danno tanatologico, in Nuova giur. civ. comm., 2014, II, 257. In giurisprudenza è d’obbligo il rinvio a Cass., sez. un., 22.7.2015, n. 15350, ivi, 2015, I, 1008, con note di D’Acunto e Foffa; in Corr. giur., 2015, 1203, con nota di Busnelli. 50 Ex multis Trib. Bologna, 18.7.2017, in Red. Giuffrè; Cass., 20.10.2016, n. 21230, in Foro it., 2017, I, 623; Trib. Milano, 11.2.2016, in Guida al dir., 2016, 62; Cass., 16.3.2012, n. 4253, in Foro it., 2012, I, 2393; Cass., 6.9.2012, n. 14931, in Riv. it. med. leg., 2013, 1611; Cass., 17.7.2012, n. 12236, in Mass. Giust. civ., 2012, 924; Cass., 11.11.2003, n. 16946, in Foro it., 2004, I, 434; In dottrina Iorio, Il danno risarcibile derivante dal decesso del convivente di fatto, in Resp. civ. e prev., 2017, 1092; Molinari, Il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale spetta anche alla convivente della madre della vittima, in Riv. it. med. Leg., 2016, 1726.

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del danno, l’occasione di realizzare una riforma organica, la quale, per di più, male si affida a continui interventi normativi per saltum che rischiano di frammentarla non solo dal punto di vista temporale.

5. L’art. 7, comma 3° della l. n. 24/2017 Prima di svolgere alcune considerazioni finali credo sia utile soffermarsi sull’ultimo periodo del comma 3° dell’art. 7 della l. n. 24/2017, poiché una parte della dottrina ritiene che tale disposizione assuma rilevanza in sede di quantificazione del danno. Si è infatti sostenuto che con la norma de qua – la quale prescrive che “il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’articolo 5 della presente legge e dell’articolo 590 sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge” – ora come allora (poiché essa riproduce, quasi testualmente, il terzo periodo del comma 1° dell’art. 3 della l. Balduzzi), il legislatore avrebbe previsto “un correttivo al rigore della teoria differenziale nella stima e nella liquidazione del danno”51; una regola premiale che, incentivando, l’adozione di best practices in sanità, permetterebbe di ridurre il quantum del risarcimento allorché il medico avesse rispettato le raccomandazioni previste dalle linee guida, ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali52.

Così Franzoni, Colpa e linee guida nella nuova Legge, in Danno e resp., 2017, 273.

51

Su questa linea di pensiero si vedano le riflessioni di Maop. cit., 754. Parla di “un caso molto curioso di danno punitivo rovesciato” in cui “si tiene, cioè, conto della condotta del danneggiante questa volta in modo positivo, non già per aumentare il livello del risarcimento, ma per diminuirlo” Ponzanelli, Medical malpractice: la legge Bianco Gelli. Una premessa, in Danno e resp., 2017, 269. Con riguardo alla possibilità di ridurre il risarcimento del solo danno morale Nocco, La responsabilità civile “canalizzata” verso le aziende e i nuovi “filtri” per la proponibilità della domanda risarcitoria, in Novo e Locco (a cura di), La nuova responsabilità sanitaria, Milano, 2017, 41. Nel senso che la norma rilevi solo ai fini del contenimento della “personalizzazione” del pregiudizio, Ziviz, Il rebus della determinazione del danno (nella 52

sieri,


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La considerazione del contesto complessivo in cui si collocava la corrispondente disposizione contenuta nella l. Balduzzi (l. 189/2012) consente, invece, a mio avviso, una differente interpretazione dell’una e, quindi, anche dell’altra (l’art. 7, comma 3°, della l. 24/2017), che della prima, come si diceva, è una mera trasposizione. La previsione secondo cui “il giudice, anche [corsivo aggiunto] nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo” si chiarisce, infatti, solo se si considerano proprio le due disposizioni che la precedono e che recitano: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile”. Posto che tali ultime norme si riferiscono, con ogni evidenza, al piano del giudizio di responsabilità, rispettivamente, penale e civile53, stabilen-

responsabilità civile dell’esercente la professione sanitaria), in Resp. civ. e prev., 2017, 1123. In riferimento alla corrispondente previsione della legge Balduzzi, Faccioli, La quantificazione del risarcimento del danno derivante da responsabilità medica dopo l’avvento della legge Balduzzi, in Nuova giur. civ. comm., 2014, II, 112, il quale ritiene “la condotta del convenuto, rispettosa delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, quale elemento idoneo a diminuire l’entità del quantum risarcitorio”; Breda, La responsabilità civile dell’esercente la professione sanitaria alla luce della c.d. Legge Balduzzi: ipotesi ricostruttive a confronto, in Riv. it. med. leg., 2013, 768; Paladini, Linee guida, buone pratiche e quantificazione del danno nella c.d. legge Balduzzi, in Danno e resp., 2015, 881. In giurisprudenza, in sede di obiter, Trib Rovereto, 29.12.2013, consultabile all’indirizzo: www.penalecontemporaneo.it, con nota di Masieri; Trib. Reggio Emilia, 18.5.2015, consultabile all’indirizzo: www.iusexplorer.it. In relazione alla possibilità di ricollegare a tale disposizione un’ipotesi di risarcimento punitivo si veda infra la nota 58. Il dibattito originatasi in dottrina e in giurisprudenza sul significato di tale disinvolto, quanto lapidario rinvio all’art. 2043 c.c., materializzatosi all’ultimo in sede di conversione del d.l. n. 158/2012, è noto, così come il suo epilogo dovuto all’attuale formulazione dell’art. 7, comma 1°, con cui il legislatore ha manifestato, in modo inequivocabile, la scelta del doppio binario della responsabilità in ambito sanitario: extracontrattuale per il medico dipendente di struttura e per quello operante in regime di convenzione (salvo, sempre, 53

do, quanto alla prima, in particolare, la depenalizzazione delle condotte del medico – finanche – caratterizzate da colpa lieve, ove rispettose delle linee guida e buone pratiche, la congiunzione “anche” del terzo periodo dell’art. 3 evidenzia, allora, che la “determinazione del danno”, cui il medesimo periodo fa riferimento, non può che richiamare, nello stesso modo, il piano dell’an respondeatur54, in relazione al medesimo profilo della colpa, il quale, anche in sede civile dovrà essere valutato “innanzitutto verificando se il medico abbia o meno dimostrato di conoscere e di avere adeguatamente applicato, nel caso concreto, le «linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica»”55. Il complesso delle regole contenute all’art. 3 della l. Balduzzi vale, dunque, tra l’altro, a ribadire la centralità – benché non l’esaustività o l’esclusività – della verifica dell’osservanza delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica ai fini del giudizio di responsabilità dell’ambito sanitario56.

il caso di assunzione di un’obbligazione contrattuale con il paziente), contrattuale, per strutture sanitarie e sociosanitarie. Viene così neutralizzata la portata della teoria del c.d. contatto sociale, attraverso la quale la giurisprudenza maggioritaria, per quasi un ventennio (dalla storica sentenza della Cassazione, 22.1.1999, n. 589, in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, 334), aveva incardinato la responsabilità del medico dipendente nell’alveo dell’art. 1218 c.c. Sul punto, per una ricostruzione della vicenda, si rinvia in toto alle pagine di Izzo, Il tramonto di un «sottosistema» della r.c.: la responsabilità medica nel quadro della recente evoluzione giurisprudenziale, in Danno e resp., 2005, 137. Sul tema è poi d’obbligo lo studio di Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, 159 e, in posizione contrapposta, Visintini, La colpa medica nella responsabilità civile, Contr. e impr., 2015, 532. Così anche Bona, La R.C. medica dopo il decreto-legge n. 158/2012: indicazioni per la corretta interpretazione e per la (dis)applicazione delle nuove disposizioni, in Martini, Genovese (a cura di), La valutazione della colpa medica, Santarcangelo di Romagna, 2012, 55. Nello stesso senso, sempre in riferimento alla disciplina previgente e in sede di obiter, Trib. Cremona, 1.10.2013, in Resp. civ. e prev., 2014, 1327, con nota di Galletti; Trib. Teramo, 20.5.2014, consultabile all’indirizzo: www.iusexplorer.it. 54

55

Così Faccioli, op. cit., 98.

Faccioli, op. cit., 99, il quale sul punto rinvia opportunamente anche alle considerazioni di Zoja et al., Il rispetto delle 56

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Del resto tale è la rilevanza del giudizio sulla colpa nella medical malpractice, che essa, come è stato opportunamente osservato57, è in grado di stemperare le differenze di disciplina tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale allorché, in ambito istruttorio è ormai invalsa la prassi di ricorrere alla CTU anche qualora la relativa prova tecnicamente incomba sulla vittima dell’illecito sanitario. Di contro, il fatto che anche l’ultima parte del comma 3° dell’art. 3 della l. Balduzzi attenga al giudizio di responsabilità – sub specie della colpa –, non significa che la previsione in parola, dia, in ambito civile, indicazioni diverse da quelle che le norme codicistiche affidano all’art. 2236 c.c., dove è solo l’imperizia lieve a mandare esente da responsabilità il professionista nelle ipotesi ivi previste (e, cioè, quando “la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”). Della quantificazione dei danni non si occupa, quindi, né l’ultima parte del comma 3° della l. Balduzzi, né, tantomeno, la corrispondente poco tecnica formulazione, contenuta nel secondo periodo del terzo comma dell’art. 7 della l. 24/201758 – anch’essa sconosciuta al testo appro-

linee guida e delle buone pratiche da parte dell’esercente la professione sanitaria, in Martini, Genovese (a cura di), cit., 106 e Fiori, Marchetti, Medicina legale della responsabilità medica. Nuovi profili, Milano, 2009, 303, ss. Franzoni, op. cit., 273. Nello stesso senso Ponzanelli, Medical malpractice, cit., 269.

57

Sul versante opposto, le medesime considerazioni valgono, nello stesso modo, ad escludere la possibilità di ricollegare a tale previsione l’introduzione di una nuova fattispecie di risarcimento punitivo. Nello stesso senso, ma, soprattutto, per la diversa ragione che tale scelta confliggerebbe con l’obiettivo del contrasto al fenomeno della medicina difensiva Faccioli, op. cit., 110, cui si rinvia anche per la disamina di altre argomentazioni critiche sul punto e alle indicazioni bibliografiche ivi indicate. Analogamente in posizione contraria, anche rispetto all’apertura da parte del legislatore alla possibile funzione sanzionatoria della responsabilità civile Guffanti Pesenti, Il ruolo della condotta del medico nella quantificazione del risarcimento. Note sull’art. 7 co, L. 8.3.2017 n. 24, in Europa e dir. priv., 2017, 1499. Del resto, anche in riferimento a tale ricostruzione, (v. infra nel testo quanto rilevato per l’altra lettura della norma), sempre ad adiuvandum, può essere utilmente evocato il brocardo ubi lex voluit dixit che è quanto è avvenuto all’art. 8, comma 4°, della l. n. 24/2017, il quale prevede che il giudice condanni le parti che non abbiano partecipato al procedimento di con58

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vato in prima lettura alla Camera59 – di cui non si sentiva certo il bisogno, dal momento che l’idea che le linee guida debbano considerarsi il parametro preliminare – seppur non esaustivo –, anche per la valutazione della condotta ai fini della formulazione del giudizio di responsabilità, era stata già ampiamente manifestata dal legislatore: in via generale, nella previsione di linee guida di ultima generazione (art. 5)60 cui si è voluto attribu-

sulenza tecnica preventiva, indipendentemente dall’esito del giudizio, non solo al pagamento delle spese legali, ma anche “ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione”. Esulando dal tema di questo studio, per una compiuta disamina dei punitive damages sotto il profilo delle condizioni di compatibilità con il nostro sistema ordinamentale, non può che rinviarsi, anche in relazione alle recenti statuizioni della Cass., sez. un., 5.7.2017, n. 16601, in Danno e resp., 2017, 419, ai commenti, ivi contenuti di La Torre, Corsi, Ponzanelli e Monateri. 59

V. nota 7.

In particolare si tratta di linee guida che devono essere integrate nel Sistema nazionale per le linee guida (SNLG) e pubblicate nel sito dell’Istituto superiore di sanità “previa verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto, nonché della rilevanza delle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni”. Le linee guida possono essere elaborate solo da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministero della salute, al ricorrere delle condizioni ivi previste. Non è questa la sede in cui svolgere una compiuta analisi della rilevanza giuridica delle linee guida, tuttavia, non può non osservarsi come la sempre maggior centralità ad esse riconosciuta nella nuova e più articolata disciplina di cui alla l. n. 24/2017, potrebbe celare l’esistenza di un equivoco di fondo collegato all’idea che sia possibile creare una medicina c.d. procedurale, burocratizzata, a cui affidare, in uno, tanto la sicurezza e, dunque, ex art 1 l. n. 24/2017, la salute del paziente, quanto, corrispondentemente, la protezione degli operatori sanitari e delle strutture in caso di danno. A parte i rilievi sui rischi, non trascurabili, che deriverebbero dalla creazione di una simile medicina (e sicurezza) di stato sulla dignità e autonomia della professione medica, oltreché sulla stessa medicina difensiva che, in questi termini, tornerebbe “in circolo addirittura potenziata” (sul punto Gorgoni, Colpa lieve per osservanza delle linee guida e delle pratiche accreditate dalla comunità scientifica e risarcimento del danno, in Resp. civ. e prev., 179), una siffatta concezione ipertrofica del ruolo delle linee guida tradirebbe una mistificazione delle reali potenzialità di tali regole che, per essenza, sono “norme elastiche” che, come tali, “richiedono di essere specificate in base alle circostanze del caso concreto” (Così Di Landro, Le novità 60


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ire un ruolo di spicco nella realizzazione di quel diritto alla sicurezza delle cure che è, formalmente, l’obiettivo dichiarato della legge Gelli-Bianco, ma anche in norme quali l’art. 6 (Responsabilità penale dell’esercente la professione)61 e l’art. 7 (Responsabilità civile della struttura e dell’eser-

normative in tema di colpa penale (L.189/2012, c.d. “Balduzzi). Le indicazioni del diritto comparato, in Riv. it. med. leg., 2013, 843). In questo senso, essendo la medicina un’arte che deve confrontarsi con l’estrema variabilità dell’essere umano, le linee guida non possono che limitarsi a “fornire, di fronte alla smisurata varietà delle malattie e delle loro manifestazioni nei singoli pazienti, criteri meramente orientativi e generalmente anche poco duraturi, in quanto bisognosi di continuo e costante aggiornamento” (Fiori, Marchetti, Medicina legale della responsabilità medica. Nuovi profili, Milano, 2009, 314). Del resto, come sottolineano anche Buccelli et al. (La rilevanza delle linee guida nella determinazione della responsabilità medica. Le novità introdotte dalla c.d. legge Balduzzi, le problematiche connesse, i tentativi di, in Riv. it. med. leg., 2016, 663, cui si rinvia anche per l’ampia trattazione generale del tema, unitamente, sempre per la disciplina previgente, a Caputo, “Filo d’Arianna” o “Flauto magico”? Le linee guida e check list nel sistema della responsabilità per colpa medica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2012, 875) “nell’applicazione di tali raccomandazioni al caso concreto risiede […], il diritto/dovere del medico di agire in libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità ”, ispirando “la propria attività professionale ai principi e alle regole della deontologia professionale senza sottostare a interessi, imposizioni o condizionamenti di qualsiasi natura” [Art. 4 Codice di Deontologia Medica del 18 Maggio 2014, 16; n.d.A]. Al riguardo coglie così nel segno la riflessione secondo cui “l’idea del legislatore di burocratizzare le colpa ingabbiandola nelle linee guida dà più il senso di un’occasione perduta che di una chance ben sfruttata”. Pucella, È tempo per un ripensamento del rapporto medico-paziente?, in questa Rivista, 2017, n. 1, 4. Per diffuse considerazioni sul tema Introna, Metodologia medico legale nella valutazione della responsabilità medica per colpa, in Riv. it. med. leg., 1996, 1323. In giurisprudenza, di recente, Cass., 9.5.2017, n. 11208, in Mass. Giust. civ., 2017, ha affermato il principio secondo il quale “le linee guida in ambito sanitario costituiscono un utile parametro di accertamento della perizia del sanitario e, dunque, della eventuale colpa. Tuttavia, il mero rispetto dei precetti contenuti nelle prime non esime il giudice dal valutare, nella propria discrezionalità di giudizio, se le circostanze del caso concreto non esigessero una condotta diversa da quella da esse prescritta”. 61 Per alcune riflessioni su Cass., sez. un., 22.2.2018, n. 8770, con cui viene chiarito il perimetro di applicazione del nuovo art. 590 sexsies c.p., Cupelli, L’art. 590 sexies c.p. nelle motivazioni delle sezioni unite: un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’imperizia medica (ancora) punibile, consultabile all’indirizzo: www.penalecontemporaneo.it.

cente la professione sanitaria) che, con spazi sicuramente più adeguati, ne chiariscono la rilevanza negli specifici ambiti di applicazione62. Oltre ai rilievi interpretativi evidenziati, che paiono, di per sé, decisivi, vi sono, in ogni caso, diverse altre ragioni che consentono di escludere che le norme de quibus possano permettere una riduzione del risarcimento. In primis la circostanza che il profilo della quantificazione dei danni è espressamente disciplinato in un comma diverso – e successivo –, tanto nella disciplina previgente (il terzo comma dell’art. 3), quanto in quella in vigore (il quarto comma dell’art. 7). Non si comprendono pertanto le ragioni per le quali il legislatore avrebbe dovuto frammentare la regolamentazione dell’istituto. Resta poi sempre un punto fermo la considerazione che ubi lex voluit dixit. È quanto è avvenuto all’art. 9, quinto comma della l. n. 24/2017, dove non si è certo esitato nell’indicare le circostanze suscettibili di condizionare, alleggerendone l’ammontare, la quantificazione delle somme ripetibili tramite l’azione di responsabilità amministrativa, esperibile nei confronti dell’esercente la professione sanitaria. “Ai fini della quantificazione del danno” è, infatti, possibile tener conto “delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, in cui l’esercente la professione sanitaria ha operato.” Ridurre ulteriormente (posto, cioè, che i parametri di riferimento per la liquidazione del danno sono quelli previsti dal modello legale ex art. 139 d.lgs. 209/05) il quantum liquidato al paziente danneg-

É questa la ragione per cui nel testo contenuto nella l. n. 24/2017, per la necessità di adattarne la formulazione al nuovo contesto normativo, è stata espunta la congiunzione «anche»: l’art. 7 si occupa, infatti, dei soli profili civilistici della responsabilità – e l’art. 7, comma 3°, in particolare della sola responsabilità dell’esercente la professione sanitaria – a differenza, come detto del previgente art. 3 della legge Balduzzi. Il richiamo finale alla “condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’articolo 5 della presente legge e dell’articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge” vale, dunque, solo, in modo del tutto superfluo a richiamare, in entrambi i campi, la rilevanza del rispetto delle linee guida. 62

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giato solo perché il medico – in colpa lieve – ha comunque rispettato le linee guida realizzerebbe, inoltre, il paradosso per cui fattispecie in cui sono comunque presenti tutti gli elementi dell’illecito verrebbero trattate alla stregua di quelle in cui è proprio l’assenza di uno di essi (quali l’antigiuridicità – ex art. 2045 c.c. – o l’imputabilità – ex art. 2047, comma 2°, c.c.) a consentire il superamento del diritto all’integrale risarcimento del danno, potendo in tali casi, il danneggiato ottenere, come noto, solo un’equa indennità. È dunque altresì per l’irragionevolezza cui darebbe luogo una simile compressione della funzione riparatoria della responsabilità civile che si può escludere che le norme esaminate possano introdurre nel nostro sistema una sorta di risarcimento de-punitivo in danno del paziente: si andrebbe in tal modo a premiare un soggetto che non ha – solo – uniformato il suo comportamento ai canoni delle leges artis, ma che ha – altresì – arrecato dei pregiudizi, a volte consistenti, al paziente, il quale, in tal modo, verrebbe oltretutto vulnerato anche nel suo diritto alla integrale riparazione del danno. L’introduzione di un correttivo di questo genere non sarebbe giustificabile nemmeno facendo leva su una sua pretesa coerenza con l’obiettivo del contrasto alla medicina difensiva, poiché non si può dimenticare che il centro della nuova disciplina è, in primis, come detto, la sicurezza delle cure, la quale, senz’altro, partecipa e si giova di assenza di prassi di medicina difensiva63 – in quanto le cure saranno più sicure nella misura in cui verranno neutralizzati comportamenti in cui il bene del paziente non è il primo obiettivo dell’azione del sanitario e laddove vi possono essere maggiori risorse disponibili, ottenute dal risparmio sugli sprechi connessi a una “spesa sanitaria

Saggi e pareri

difensiva” – ma, soprattutto, richiede, di per sé – proprio perché la sicurezza delle cure non coincide con la sola eliminazione della medicina difensiva –, che siano assicurati adeguati standard qualitativi della prestazione del sanitario e della struttura64 (i quali consentono il contenimento dei danni ancor prima che quello del loro valore) che potrebbero non essere propriamente incentivati da simili sconti sul quantum65.

6. Alcune conclusioni È ora il tempo di tornare all’interrogativo lasciato in sospeso alla fine del primo paragrafo e chiedersi se quella del contenimento del quantum del risarcimento, operata con il rinvio alla tabellazione normativa del d.lgs. 209/2005, sia una scelta efficiente, e cioè, idonea a contrastare – attraverso il medium dell’effetto deflattivo sul contenzioso – il fenomeno della medicina difensiva. La risposta non può che essere negativa. E questo perché far leva sulla scarsa appetibilità del ricorso alla tutela risarcitoria, tradisce l’essenza remediale e reattiva di una siffatta soluzione, che, come tale, per forza di cose, trascura di considerare che entrambi i fenomeni – quello dell’aumento del contenzioso e quello della medicina difensiva –, si alimentano reciprocamente perché partecipano della stessa eziologia, id est, della profonda, bilaterale, frattura del rapporto medico paziente. Nonostante la novella sin dalla propria rubrica66 abbia inteso proclamare che la tutela della salute in primo luogo, e, più in generale, la responsabilità medica non possono essere più solo una questione di responsabilità civile, il contrasto alla medicina

64

Sul punto v. infra nel testo sub note 75 e 76.

Senza contare che la creazione di simili sacche di privilegio, con ogni probabilità, non gioverebbe all’inaugurazione di un nuovo corso nella relazione medico-paziente. Su questo aspetto v. infra nelle conclusioni. 65

Come, opportunamente, esprime in modo inequivocabile, riferendosi a comportamenti in cui potrebbero ravvisarsi gli estremi della c.d. medicina difensiva attiva, anche il comma 2° dell’art. 1 della novella, allorché dispone che “la sicurezza delle cure si realizza” – oltreché “mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie” (in cui si allude propriamente all’attività di c.d. risk management) – anche tramite “l’utilizzo appropriato delle risorse, strutturali, tecnologiche e organizzative”. 63

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66 La quale recita “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” così sostituendo quella contenuta nella versione approvata in prima lettura alla Camera, il cui testo, invece, riportava “Disposizioni in materia di responsabilità professionale del personale sanitario”.


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Quantificazione del danno non patrimoniale

difensiva, su questo fronte, viene mantenuto e perseguito all’interno di una logica che resta emergenziale e palliativa67 e rispetto alla quale, peraltro, la compressione dei diritti risarcitori dei pazienti (che, come è stato opportunamente ricordato con amara ironia, stanno in corsie che non sono certo quelle in cui transitano le automobili e che nulla hanno, quindi, in comune con i danneggiati della strada68) nella migliore delle ipotesi risulterà a tali fini irrilevante69, quando non potenzialmente controproducente perché suscettibile di radicalizzare ulteriormente la conflittualità del paziente. Diversamente, affrontare il problema della medicina difensiva in una prospettiva proattiva, impone di ridare centralità alla relazione di cura, creando le condizioni affinché essa possa dar vita a quell’alleanza terapeutica70 che – sola –, legando inscindibilmente consenso, fiducia71 e, dunque, affidamento del paziente, da un lato, e reale presa in carico di questi da parte del medico, dall’altro, è quanto, di per sé, limiterebbe ai comportamenti percepiti come un grave vulnus ad essa la reazione del paziente e neutralizzerebbe scelte che non abbiano come fine esclusivo quello della tutela della salute. La l. n. 24/2017 sarebbe stata la sede naturale per ospitare la disciplina di questo aspetto cruciale della responsabilità medica, ma è solo con la l. 22

dicembre 2017, n. 219 (recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) che il legislatore – evidenziando ancora una volta la disorganicità degli interventi normativi in materia – vi ha provveduto per ovviare ad una lacuna di cui, comunque, si continua ad avvertire la presenza all’interno della novella72. Tra le condizioni necessarie alla costruzione dell’alleanza terapeutica rientra sicuramente la garanzia dell’esistenza di adeguati livelli di professionalità degli operatori sanitari, la quale, a sua volta, non può non richiamare l’assunzione di un ruolo e di una responsabilità specifici da parte delle strutture anche nel ripensare tempi e spazi delle prestazioni sanitarie perché troppo spesso i cc.dd. rischi di sistema73, specie se legati all’organizzazione del lavoro (carenza di personale, turni non rispettosi del dovuto riposo), oltre a dare luogo a danni di sistema74, possono, di per sé, gravemente pregiudicare, la (ri)costruzione di un’equilibrata relazione di cura – che non è altro rispetto all’attività da svolgere75, ma un quid ad essa immanente – in cui far finalmente incontrare “l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”76.

Al riguardo si vedano anche le riflessioni critiche di Quadri, op. cit., 33; Gorgoni, Il trattamento sanitario arbitrario nella morsa tra diritto vivente e diritto vigente, in Resp. civ. e prev., 2017, 739. Per una prima analisi dei vari profili della novella si rinvia ai contributi contenuti in Biolaw Journal – Rivista di biodiritto consultabile all’indirizzo: www.biodiritto.it. 72

Anche su altri versanti la prospettiva remediale della riforma evidenzia come la posizione del sanitario sia alleggerita solo momentaneamente e/o apparentemente: lo esprimono le norme sul regresso, le cui limitazioni quantitative, qualitative e temporali daranno facilmente luogo agli esiti di cui si è detto (vedi supra alla fine del § 2), lo rivela quella scelta del mutamento del titolo della responsabilità che, in realtà, il momento istruttorio, in punto di colpevolezza, tende a ridimensionare.

67

Ponzanelli, I problemi della medical malpractice e le risposte della legge Bianco Gelli, di prossima pubblicazione in atti del Convegno “Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli-Bianco (l. 24/2017)” tenutosi a Padova il 6 e 7 dicembre 2017.

68

Sul punto, per la disciplina previgente si rinvia alle riflessioni di Faccioli, op. cit., 112. 69

Per un approfondimento di questo tema Santosuosso, Il consenso informato, Ancona, 1996; Id., Corpo e libertà, Milano, 2001. 70

Per alcune riflessioni sulla fiducia nel rapporto medico-paziente, Napoli, La responsabilità sanitaria nel sistema civilistico. Punti fermi e nuove linee di riforma, in Resp. civ. prev., 2017, 78. 71

Sulla centralità dell’organizzazione di un efficiente sistema di c.d. risk management “nell’economia di qualsiasi intervento in materia sanitaria” che “aspiri ad un soddisfacente grado di organicità” Quadri, op. cit., 45. 73

Danni di sistema, troppo spesso, soprattutto in passato, posti a carico dei sanitari. Lo ricorda Franzoni, op. cit., 271. Sulla responsabilità delle strutture per le carenze strutturali ed organizzative ex multis Breda, La responsabilità civile delle strutture sanitarie e del medico tra conferme e novità, in Danno e resp., 2017, 283. 74

In questo senso l’art. 1, comma 8°, della l. n. 219/2017 dispone che “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura.” Sempre in quest’ottica, nel ribadire l’essenzialità che siano assicurate le condizioni perché possa realizzarsi un’equilibrata relazione medico paziente dispongono i due commi successivi. 75

76

Art. 1, comma 2°, della l. n. 219/2017.

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s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza

Cass. pen., sez. un., 21.12.2017, n. 8770

Colpa professionale – Colpa grave – Reato colposo in genere – Linee guida – Buone pratiche – Imperizia (c.p. art. 590-sexies; c.c. art. 2236; l. 8 marzo 2017, n. 24)

In tema di responsabilità penale, l’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista

La responsabilità penale del sanitario nelle motivazioni delle Sezioni Unite. Considerazioni rapsodiche Riccardo Borsari

Professore nell’Università di Padova Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. La vicenda, le pronunce alla base del contrasto, il dictum delle Sezioni Unite. – 3. Il (fondamentale) ruolo delle linee guida e il (necessario) ripristino del “grado della colpa”. – 4. Le ricadute intertemporali della novella. – 5. Osservazioni conclusive.

Abstract: Il contributo analizza la sentenza con la quale le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione, a meno di un anno dall’entrata in vigore della riforma della responsabilità medica, hanno cercato di dirimere il delicato contrasto sorto all’interno della Quarta Sezione in ordine all’esatto perimetro applicativo della causa di esclusione della punibilità di cui al nuovo art. 590-sexies c.p. e ai correlati profili di diritto intertemporale.

The paper analyses the judgement with which the United Chamber of the Italian Supreme Court, less than a year after the coming into force of the medical liability reform, tried to resolve the contrast arose in the Fourth Chamber with regard to the exact scope of the limitation of liability pursuant to new art. 590-sexies of the Italian Criminal Code and the related intertemporal law profiles.

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1. Considerazioni introduttive A pochi mesi dalla sua entrata in vigore, sono già intervenute le Sezioni Unite della Cassazione a chiarire l’ambito di applicazione – e le relative conseguenze sul piano intertemporale – dell’art. 590-sexies c.p.1, introdotto dalla l. n. 24/2017 (meglio nota, dal nome dei relatori nelle due camere, come “Legge Gelli-Bianco”)2. La quale, com’è noto, nell’ambito di una più ampia ed ambiziosa riforma sanitaria, a fronte delle incertezze interpretative ed applicative suscitate dall’art. 3, comma 1°, del c.d. Decreto Balduzzi (d.l. n. 158/2012, conv. in l. n. 189/2012), che rischiavano di pregiudicare l’obiettivo di prevenire, per il tramite dell’alleggerimento della pressione giudiziaria sugli operatori sanitari, il diffuso e pernicioso fenomeno della “medicina difensiva”3,

Art. 590-sexies c.p.: «(Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario). 1. Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. – 2. Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».

1

Tra i molti contributi sulla Legge Gelli-Bianco, v. Caletti, Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, in Dir. pen. cont., 2017, 84 ss.; D’Alessandro, La responsabilità penale del sanitario alla luce della riforma “Gelli-Bianco”, in Dir. pen. proc., 2017, 573 ss.; Piras, Imperitia sine culpa non datur. A proposito del nuovo art. 590 sexies c.p., in Dir. pen. cont., 2017, 269 ss. In tema, v. altresì, in generale, Caputo, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, Torino, 2017. 2

In argomento, Manna, Medicina difensiva e diritto penale, Pisa, 2014; Roiati, Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale. Tra teoria e prassi giurisprudenziale, Milano, 2012; Vallini, Paternalismo medico, rigorismi penali, medicina difensiva: una sintesi problematica e un azzardo de iure condendo, in Riv. it. med. leg., 2013, 1 ss.; Eusebi, Medicina difensiva e diritto penale «criminogeno», ivi, 2011, 1085 ss.; Bartoli, I costi «economico-penalistici» della medicina difensiva, ivi, 1107 ss.; Rotolo, “Medicina difensiva” e giurisprudenza in campo penale: un rapporto controverso, in Dir. pen. proc., 2012, 1259 ss. 3

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Giurisprudenza

aveva tra l’altro ridisciplinato lo statuto penale della responsabilità medica colposa, mediante la previsione di una procedura di accreditamento e validazione delle linee guida e, per l’appunto, l’introduzione della nuova disposizione codicistica, con contestuale abrogazione di quella appena citata. Senonché, l’infelice formulazione dell’art. 590-sexies c.p. e, in particolare, del suo capoverso, aveva immediatamente generato un grave contrasto interpretativo in seno alla stessa Quarta Sezione della Suprema Corte4, tabellarmente competente in materia di reati colposi, rendendo necessaria la chiamata in causa delle Sezioni Unite5.

2. La vicenda, le pronunce alla base del contrasto, il dictum delle Sezioni Unite La vicenda che ha offerto il destro alle Sezioni Unite per misurarsi con il dettato del nuovo art. 590-sexies c.p. trae origine da un caso – per vero privo di profili di particolare interesse6 – di lesioni

Si era nondimeno pronosticato che l’importanza, anche a fini nomofilattici, della prima sentenza di legittimità – per il grado di approfondimento con cui erano stati affrontati tutti i profili di criticità della disposizione, ma pure per la peculiare composizione del Collegio, che annoverava gli estensori di molte delle più rilevanti sentenze in materia, emesse nel periodo di vigenza del Decreto Balduzzi – rendeva poco probabile l’intervento di pronunce difformi (Caletti, Mattheudakis, Le prime “linee guida” interpretative della Cassazione penale sulla riforma “Gelli-Bianco”, in questa Rivista, 2017, n. 3, 379 ss.). 4

V., per tutti, Cupelli, L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite: un’interpretazione ‘costituzionalmente conforme’ dell’imperizia medica (ancora) punibile, in Dir. pen. cont., 2018, 246 ss.

5

6 Lo rileva, tra gli altri, Caletti, Le Sezioni Unite penali e l’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 590-sexies c.p., consultabile all’indirizzo: www.ridare.it. Premesso che il Tribunale di Pistoia aveva escluso l’applicabilità dell’art. 3 del d.l. n. 158/2012 in quanto l’imputato non si era attenuto alle linee-guida o alle best practices che gli avrebbero imposto una diagnosi tempestiva e la sollecitazione di un intervento chirurgico non ulteriormente procrastinabile, l’A. sottolinea come il caso di specie appaia «nulla più che il casus belli» che ha consentito alla Suprema Corte di ricomporre «in tempi record» il contrasto maturato


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personali colpose, deciso in prime cure dal Tribunale di Pistoia. Al ricorrente, un medico specialista in neurochirurgia condannato in entrambi i gradi di giudizio, era stato contestato di non aver diagnosticato tempestivamente al paziente la sindrome da compressione della cauda equina, con conseguente significativo differimento nell’esecuzione dell’intervento chirurgico per il quale vi era, invece, indicazione di urgenza, in base alle regole cautelari di settore. Ciò aveva cagionato al paziente un rilevante deficit sensitivo-motorio con implicazioni dirette sul controllo delle funzioni neurologiche concernenti l’apparato uro-genitale e di quelle motorie del piede destro. In vista dell’udienza nella quale era calendarizzata la discussione del procedimento, il Primo Presidente della Quarta Sezione, cui il ricorso era stato assegnato, ne sollecitava d’ufficio l’assegnazione alle Sezioni Unite, segnalando i «dubbi interpretativi» suscitati dalla l. n. 24/2017 e l’urgenza di risolvere il «significativo contrasto» insorto all’interno della Quarta Sezione in ordine alla rilevanza penale della c.d. “colpa medica” a fronte del rispetto delle linee guida dettate in materia7.

in seno alla sua Quarta Sezione circa l’ambito di operatività del nuovo art. 590-sexies c.p.; qualunque sia l’interpretazione di detta norma, chiosa infatti l’A., «l’ineffabile presupposto» per la sua applicazione è che il sanitario abbia “rispettato” delle linee guida accreditate e “adeguate” al caso concreto. Contrasto descritto nella nota di trasmissione del fascicolo processuale del 7 novembre 2017 nei termini seguenti: secondo una prima pronuncia (Tarabori) la disciplina previgente era più favorevole, in quanto escludeva la rilevanza penale delle condotte caratterizzate da colpa lieve in contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate, mentre quella sopravvenuta ha eliminato la distinzione tra colpa lieve e grave ai fini dell’attribuzione della responsabilità penale, dettando, al contempo, una nuova articolata disciplina in ordine alle guidelines che costituiscono il parametro di valutazione della colpa per imperizia in tutte le sue manifestazioni; per un’altra più recente sentenza (Cavazza), invece, è più favorevole la nuova disciplina, la quale prevede una causa di esclusione della punibilità del sanitario al ricorrere delle condizioni dell’art. 590-sexies c.p., nel solo caso di imperizia, «indipendentemente dal grado della colpa».

7

Prima di analizzare la soluzione individuata dalle Sezioni Unite8 giova ricordare, seppur brevemente, le principali divergenze emerse nelle due pronunce, specie con riferimento alla punibilità, o meno, dell’errore medico in executivis, e ai possibili dubbi di legittimità costituzionale di un’interpretazione letterale della nuova norma9. Con la sentenza Tarabori10 la Cassazione si è occupata, per la prima volta11, dello statuto pe-

Soluzione che il Primo Presidente della Cassazione, nel provvedimento di assegnazione alle Sezioni Unite (pubblicato sul sito della Rivista), aveva auspicato essere veloce e idonea a porre fine alla «situazione di incertezza interpretativa» e al conseguente «grave disorientamento» delle corti di merito e, in generale, degli operatori del settore penale.

8

Cfr. Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia medica? La legge Gelli-Bianco nell’interpretazione delle Sezioni Unite, in Cass. pen., 2018, 167 ss.

9

Cass. pen., 20.4.2017, n. 28187, consultabile all’indirizzo: www.penalecontemporaneo.it, con nota di Cupelli, La legge Gelli-Bianco approda in Cassazione: prove di diritto intertemporale, in Dir. pen. cont., 2017, 299 ss. La vicenda riguardava un’ipotesi di omissione colposa del medico psichiatra, nel caso di specie dirigente di un centro di salute mentale a bassa soglia assistenziale, ritenuto responsabile della condotta omicida realizzata da un suo paziente nei confronti di un’altra persona inserita nella struttura. Per altri commenti a questa sentenza, v. Caletti, Mattheudakis, La Cassazione e il grado della colpa penale del sanitario dopo la riforma “Gelli-Bianco”, in Dir. pen. proc., 2017, 1364 ss.; Caletti, Mattheudakis, Le prime “linee guida” interpretative, ibidem; Caputo, ‘Promossa con riserva’: la legge Gelli-Bianco passa l’esame della Cassazione e viene ‘rimandata a settembre’ per i decreti attuativi, in Riv. it. med. leg., 2017, 724 ss.; Colacurci, La legge Gelli-Bianco: tra interpretazione ‘correttiva’ della colpa medica e valorizzazione delle linee guida nella lettura della Suprema Corte, ivi, 1155 ss.; Cupelli, La Legge Gelli-Bianco in Cassazione: un primo passo verso la concretizzazione del tipo, in Cass. pen., 2017, 3164 ss.; Id., La legge Gelli-Bianco e il primo vaglio della Cassazione: linee guida sì, ma con giudizio, in Dir. pen. cont., 2017, 280 ss.; Finuoli, Responsabilità colposa in ambito sanitario: la Cassazione esclude l’impunità dell’imperizia, in Danno e resp., 2017, 736 ss.; Formica, La responsabilità penale del medico: la sedazione ermeneutica di una riforma dal lessico infelice, in Dir. pen. cont., 2017, 57 ss.; Piras, Il discreto invito della giurisprudenza a fare noi la riforma della colpa medica, consultabile all’indirizzo: www.penalecontemporaneo.it; Risicato, Colpa dello psichiatra e legge Gelli-Bianco: la prima stroncatura della Cassazione, in Giur. it., 2017, 2201 ss. 10

11 Giova peraltro ricordare che, ancor prima dell’entrata in vigore della riforma, nella sentenza n. 16140 depositata in data 16 marzo 2017 (e pubblicata sul sito della Rivista), la

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nale della colpa medica delineato dalla legge Gelli-Bianco. Le motivazioni – attese con impazienza da medici e giuristi sin dalla diffusione della relativa notizia di decisione12 – sono ricche di indicazioni interpretative ma, al tempo stesso, ripropongono alcuni interrogativi affiorati in dottrina, facendoli propri13. Paragonata, fin da subito, alla fondamentale sentenza Cantore14 che, nella vigenza del Decreto Balduzzi, aveva svolto il ruolo di “stella polare”15, essa affronta in profondità ogni aspetto critico dell’art. 590-sexies c.p., individuandone margini applicativi che, agli occhi dei primi commentatori, erano apparsi pressoché inesistenti16. Il giudizio preliminare che la Suprema Corte dà della novella e, in particolare, dell’art. 590-sexies c.p. è, a dir poco, severo: la lettura della norma suscita «alti dubbi interpretativi, a prima vista irresolubili», e «incongruenze interne tanto radicali da mettere in forse la stessa razionale praticabilità della riforma in ambito applicativo»; nella disposizione si ravvisano, infatti, tratti di «ovvietà» e di «drammatica incompatibilità logica». In primo luogo, a parere della Corte il

Quarta Sezione aveva già prospettato la problematica questione, di diritto intertemporale, riguardante i rapporti tra il nuovo art. 590-sexies c.p. e l’abrogato art. 3, comma 1°, della l. n. 189/2012. 12 Segnatamente, la n. 3 del 2017, pubblicata sul sito della Rivista.

Così Caletti, Mattheudakis, La Cassazione e il grado della colpa penale, cit., 1369.

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Giurisprudenza

nuovo art. 590-sexies c.p., come già osservato in dottrina17, «attinge la sfera dell’ovvietà» quando afferma la non punibilità dell’agente che rispetta le linee guida accreditate e adeguate alle specificità del caso concreto, giacché questi è evidentemente (già) immune da colpa. Inoltre, la disciplina risulta per i giudici di «disarticolante contraddittorietà» laddove l’«ovvio enunciato» citato venga posto in connessione con la prima parte del testo normativo, secondo cui il novum trova applicazione «quando l’evento si è verificato a causa di imperizia»: insomma, «si è in colpa per imperizia ed al contempo non lo si è, visto che le codificate leges artis sono state rispettate ed applicate in modo pertinente ed appropriato (“risultino adeguate alle specificità del caso concreto”) all’esito di un giudizio maturato alla stregua di tutte le contingenze fattuali rilevanti in ciascuna fattispecie»18. Per uscire dall’impasse, il Collegio sviluppa l’esegesi a contrario19, scegliendo di esprimersi solo su alcune ipotesi in cui la predetta disciplina non potrebbe applicarsi pena la lesione di valori costituzionalmente protetti; muove, dunque, dal tenore letterale dell’art. 590-sexies c.p., ipotizzando che il legislatore abbia voluto escludere la punibilità «anche nei confronti del sanitario che, pur avendo cagionato un evento lesivo a causa di comportamento rimproverabile per imperizia, in qualche momento della relazione terapeutica abbia comunque fatto applicazione di direttive qualificate», seppure estranee al particolare momento in cui si produce la con-

Cass. pen., 29.1.2013, n. 16237, consultabile all’indirizzo: www.penalecontemporaneo.it e in Dir. pen. proc., 2013, 651 ss. 14

Così Caputo, “Promossa con riserva”, cit., 724, che sottolinea come l’importanza della pronuncia, dallo stesso definita «ricca, colta e complessa», sia dimostrata dalla doppia firma, dal calibro degli estensori, nonché dalla varietà dei temi trattati e dal ricorso alla tecnica dell’ultra petitum: «pur potendo limitarsi a sanzionare l’inosservanza dell’art. 425 c.p.p., accogliendo la richiesta della parte civile, e per tale via annullare la sentenza di non luogo a procedere e rinviare de plano al giudice competente, la Corte coglie l’occasione offerta dalla definizione dei rapporti intertemporali tra le due discipline per rendere “Tarabori” un autentico leading case, in grado di orientare le corti di merito nell’applicazione della nuova normativa». 15

Così Caletti, Mattheudakis, La Cassazione e il grado della colpa penale, cit., 1371.

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Ex multis, Caletti, Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco”, cit., 92 ss. 17

§ 7. È così che la Corte giunge a interrogarsi sull’antico paradosso – già evocato da una parte della dottrina in relazione all’art. 3 del Decreto “Balduzzi” – dell’in culpa sine culpa (Piras, In culpa sine culpa. Commento all’art. 3, I co., l. 8 novembre 2012 n. 189, consultabile all’indirizzo: www. penalecontemporaneo.it), su cui v. anche infra, par. 3: cfr. Caletti, Mattheudakis, La Cassazione e il grado della colpa penale, cit., 1372. 18

Così Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite tra “nuovi” spazi di graduazione dell’imperizia e “antiche” incertezze, in Dir. pen. cont., 2018, 26 ss. 19


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dotta lesiva. L’esempio, chiarissimo e tratto dalla prassi, è quello di un chirurgo che «imposta ed esegue l’atto di asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida e, tuttavia, nel momento esecutivo, per un errore tanto enorme quanto drammatico, anziché recidere il peduncolo dalla neoformazione, taglia un’arteria con effetto letale». In casi del genere, rileva la Corte, «intuitivamente ed al lume del buon senso», non può ritenersi che la condotta del sanitario non sia punibile per il solo fatto che le “linee guida di fondo” siano state rispettate: una tale soluzione, implicando un «radicale esonero da responsabilità», vulnererebbe infatti il diritto alla salute del paziente (e, quindi, l’art. 32 Cost.)20, si porrebbe in contrasto con i principi fondanti della responsabilità penale (in primis quello di colpevolezza), e stabilirebbe uno statuto normativo «irrazionalmente diverso» rispetto a quello di altre professioni altrettanto rischiose e difficili. Abbandonata, dunque, la via dell’interpretazione letterale, la Corte percorre un «itinerario alternativo»21 che, facendo leva sulle finalità della riforma e sulle coordinate normative (in primis l’art. 5 della Gelli-Bianco22), riconosce al sanitario, tenuto ad attenersi alle raccomandazioni, sia pur con gli adattamenti propri del caso concreto, «la legittima, coerente pretesa a vedere giudica-

E ciò anche sul versante civilistico, posto che – per effetto del richiamo alla disciplina penale contenuto nel comma 3° dell’art. 7 della l. n. 24/2017 – il solo fatto dell’osservanza di una linea guida limiterebbe la quantificazione del danno (§ 7.4).

to il proprio comportamento alla stregua delle medesime direttive impostegli». Ciò, sulla base di un inedito inquadramento precettivo, focalizzato sulle modalità di svolgimento dell’attività sanitaria e di accertamento della colpa, che offre precise indicazioni al giudice per l’esercizio del giudizio di responsabilità23: più nel dettaglio, secondo la Corte per l’operatività dell’art. 590-sexies c.p. occorre riferirsi ad eventi che siano espressione di condotte governate da linee guida “accreditate” in virtù di quanto sancito dall’art. 5 e “appropriate” rispetto al caso concreto, in assenza di ragioni che suggeriscano di discostarsene radicalmente; le raccomandazioni generali, inoltre, devono essere “pertinenti” alla fattispecie concreta, ossia “adeguate” e correttamente attualizzate nello sviluppo della relazione terapeutica, avuto riguardo alle contingenze del caso concreto24. La soluzione – pur mostrandosi favorevole alla scelta legislativa di prevedere un elenco definito di raccomandazioni aggiornate e affidabili, utile a soddisfare quelle esigenze di maggiore tassatività che, da sempre, si manifestano in ambito sanitario – scorge nella riforma unicamente una nuova regola di parametrazione della colpa, da intendersi come una mera declinazione dell’art. 43 c.p.25: l’evocazione, nel testo legislativo, di una causa di non punibilità ancorata all’osservanza delle linee guida, dunque, non sarebbe altro che un riferimento “atecnico”, non propriamente riconducibile alla sfera dell’esclusione della pena26. D’altro

20

O, meglio, “tenta” di farlo. Come rileva infatti Caletti, Le Sezioni Unite penali, ibidem, la sentenza Tarabori non ha prospettato, in realtà, un’interpretazione “alternativa” a quella letterale, finendo per rifugiarsi in una lettura della norma «secondo ovvietà» in base alla quale il sanitario avveduto che rispetta le linee guida pubblicate sul sito del Ministero, quando queste si rivelino anche adeguate al caso specifico del paziente, non risponde penalmente.

21

Che, ad avviso della Corte, reca un vero e proprio “statuto” delle modalità di esercizio delle professioni sanitarie: «Gli esercenti le professioni sanitarie (…) si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida» accreditate, ovvero espresse da istituzioni individuate dal Ministero della salute e sottoposte a verifica dell’Istituto superiore di sanità (§7.5). 22

V. Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia medica?, cit., 169.

23

Entro queste precise coordinate, dunque, «l’agente ha diritto a vedere giudicata la propria condotta alla stregua delle medesime linee guida che hanno, doverosamente, governato la sua azione». Quando, invece, le linee guida non sono appropriate e vanno disattese, la nuova norma non viene in rilievo e trova applicazione la disciplina generale prevista dagli artt. 43, 589 e 590 c.p. (§ 8.1; § 8.2). 24

§ 10.1. Cfr. Caletti, Mattheudakis, Le prime “linee guida”, ibidem, che sottolineano come la vera novità della riforma, per la Suprema Corte, sia costituita proprio dall’art. 5. 25

Sul punto v. anche Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia medica?, cit., 170, secondo il quale la sentenza Tarabori, «tesa a valorizzare il momento soggettivo a discapito di qualsivoglia automatismo, sminuisce il riferimento te26

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canto, precisa poi la Corte, ai fini della non punibilità, non rilevano quelle condotte mediche che – sebbene poste in essere nell’ambito di relazione terapeutica governata da linee guida “pertinenti” e “appropriate” – non risultano per nulla disciplinate in quel contesto regolativo. Il principio interpretativo della Tarabori è in definitiva nel senso di escludere la punibilità quando il sanitario è imputato di imperizia e ha rispettato le linee guida dalle quali non vi erano ragioni per discostarsi nel caso concreto. All’esito del percorso ermeneutico, nell’evidente difficoltà di tratteggiare il perimetro applicativo dell’art. 590-sexies c.p., i giudici prendono infine posizione sulle ricadute intertemporali della novella: per i fatti commessi in epoca anteriore all’entrata in vigore della Gelli-Bianco, la disciplina penale del Decreto Balduzzi «appare più favorevole», quantomeno con riguardo alla limitazione di responsabilità ai soli casi di “colpa grave”; ove pertinente, dunque, detta normativa troverà ancora applicazione, per i fatti precedenti al 1° aprile 2017, ai sensi dell’art. 2 c.p., mentre la Gelli-Bianco è riservata unicamente ai casi di futura verificazione27. Venendo alla più recente sentenza Cavazza28, essa affronta un’ipotesi di imperizia nella con-

Giurisprudenza

creta esecuzione di un intervento29, ma – diversamente dalla pronuncia testé analizzata – individua proprio nell’imperita fase “esecutiva” dell’applicazione di linee guida “adeguate e pertinenti” il terreno d’elezione della causa oggettiva di non punibilità di cui all’art. 590-sexies c.p., lasciando residuare – quale unica ipotesi di permanente rilevanza penale dell’imperizia sanitaria – l’attuazione di linee guida inadeguate alle specificità del caso concreto (c.d. imperizia in eligendo)30. Il Collegio arriva a tale esito affrontando la questione in maniera molto differente – anche nello stile, più asciutto e sintetico, ma, comunque, molto incisivo – rispetto alla Tarabori31. I giudici prospettano, infatti, un’interpretazione basata sulla massima valorizzazione della lettera e delle finalità della legge, escludendo – a chiare lettere – che alla “colpa grave” possa ancora attribuirsi un differente rilievo rispetto alla “colpa lieve”, «essendo entrambe ricomprese nell’ambito di operatività della causa di non punibilità»32.

medico. Tipicità e determinatezza nel nuovo art. 590-sexies c.p., ivi, 205 ss.; Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia medica?, cit., 167 ss. Il caso affrontato dalla Suprema Corte riguardava un’imputazione per lesioni colpose gravi nei confronti di un chirurgo, a seguito dell’esecuzione imperita di un intervento di ptosi (lifting) del sopracciglio che ha cagionato alla vittima una diminuzione della sensibilità della zona frontale destra. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno riconosciuto la responsabilità dell’imputato, a causa della non particolare difficoltà dell’intervento e della gravità della colpa. Nonostante fosse maturata la prescrizione, la Cassazione ha proceduto ugualmente all’esame dei motivi di ricorso, necessario ai fini civili, procedendo a una valutazione generale sul contenuto e sugli effetti della riforma Gelli-Bianco. Per approfondimenti v. Piras, La non punibilità dell’imperizia medica in executivis, ibidem; Brusco, Cassazione e responsabilità penale del medico, cit., 11 ss. 29

stuale all’osservanza delle linee guida quale “causa di esclusione della punibilità”». 27

Cfr. Caletti, Mattheudakis, Le prime “linee guida”, ibidem.

Cass. pen., 19.10.2017, n. 50078, consultabile all’indirizzo: www.penalecontemporaneo.it, con nota di Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia? La Cassazione torna sull’ambito applicativo della legge Gelli-Bianco ed emerge il contrasto: si avvicinano le Sezioni Unite, in Dir. pen. cont., 2017, 250 ss. Per altri commenti a questa sentenza, v. Bana: La seconda pronuncia della Cassazione sulla disciplina intertemporale apre la strada alle Sezioni Unite, consultabile all’indirizzo: www.ridare.it; Grillo, La riforma ‘Gelli-Bianco’ secondo la Cassazione: qualche spunto di riflessione, in Dir. e giust., 2017, 4 ss.; Piras, La non punibilità dell’imperizia medica in executivis, in Dir. pen. cont., 2017, 139 ss. Sul contrasto, v. anche Caletti, Aspettando le Sezioni Unite penali sul riformato assetto della colpa in ambito sanitario, consultabile all’indirizzo: www.ridare.it; Cupelli, Lo statuto penale della colpa medica e le incerte novità della legge Gelli-Bianco, in Dir. pen. cont., 2017, 200 ss.; ID., Cronaca di un contrasto annunciato: la legge Gelli-Bianco alle Sezioni Unite, ivi, 244 ss. V. altresì Brusco, Cassazione e responsabilità penale del 28

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Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia medica?, cit., 170. 30

31

Caletti, Le Sezioni Unite penali, ibidem.

Secondo Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia medica?, cit., 168, la sentenza Cavazza ha portato allo scoperto una differenza di vedute analoga (anche nel nome dei giudici estensori) a quella che, nella vigenza dell’art. 3, comma 1°, del Decreto Balduzzi, si era creata in merito alla limitazione di responsabilità per colpa grave alle sole ipotesi di imperizia ovvero anche a quelle di colpa per negligenza e 32


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La novella, rammenta la Corte, «ha esplicitamente inteso favorire la posizione del medico, riducendo gli spazi per la sua possibile responsabilità penale, ferma restando la responsabilità civile»; tale risultato è stato perseguito dal legislatore con la costruzione di «una causa di esclusione della punibilità per la sola imperizia, la cui operatività è subordinata alla condizione che dal sanitario siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida, come definite e pubblicate ai sensi di legge, ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, e che dette raccomandazioni risultino “adeguate” alle specificità del caso concreto». Tale causa di non punibilità, chiosa il Collegio, si colloca al di fuori dell’area di operatività del principio di colpevolezza33 e trae giustificazione nell’esigenza di non mortificare l’iniziativa del professionista con il timore di ingiuste rappresaglie restituendogli la dovuta serenità operativa. In questa prospettiva, l’unica ipotesi di permanente rilevanza penale dell’imperizia sanitaria può essere individuata nell’assecondamento di linee guida “inadeguate” alla peculiarità del caso concreto, mentre «non vi sono dubbi» sulla non punibilità del medico che, seguendo linee guida adeguate e pertinenti, sia comunque incorso in un’imperita applicazione di queste34. Il principio di diritto della Cavazza è in definitiva nel senso dell’escludere la punibilità quando l’evento è causato da imperizia, lieve o grave, nella fase esecutiva delle linee guida. Quanto, poi, ai dubbi di legittimità costituzionale della nuova disciplina (che nella Tarabori, come si è visto, hanno rivestito un ruolo decisivo35), premesso che il legislatore ha «scelto» di prevedere in relazione alla colpa per imperi-

imprudenza: v. infra, par. 3. Assumendo, quindi, tratti oggettivi: così Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia medica?, cit., 171.

33

34 L’imperizia, precisa la Corte, non dev’essersi verificata nella “scelta” della linea guida, «giacché non potrebbe dirsi in tal caso di essersi in presenza della linea adeguata al caso di specie», bensì nella fase “esecutiva” della sua applicazione. 35 Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia medica?, cit., 172.

zia nell’esercizio della professione sanitaria «un trattamento diverso e più favorevole» rispetto alla colpa per negligenza o per imprudenza, la Corte ritiene di non doversi occupare di detta scelta36 nell’ottica del rispetto dell’art. 3 Cost., essendo irrilevante nel caso di specie. Nessun accenno, invece, è fatto alla possibile lesione del diritto alla salute garantito dall’art. 32 Cost. che, invero, nella spiegazione fornita dagli Ermellini sembrerebbe uscire addirittura rafforzato dalla novella37. Dall’analisi dei due provvedimenti appaiono evidenti le discrasie che hanno determinato il contrasto interpretativo in esame: nel tentativo (comune) di individuare un significato pratico all’oscuro testo dell’art. 590-sexies c.p., da un lato, la sentenza Cavazza ha sposato un’interpretazione fedele al tenore della norma e alla volontà di favore per la classe medica, ma fortemente indiziata di incostituzionalità38; dall’altro, nella sentenza Tarabori i giudici hanno prospettato una lettura “alternativa” della nuova disposizione costituzionalmente conforme, ma sostanzialmente sterilizzante39. In tale contesto, nell’udienza pubblica del 21 dicembre 2017, le Sezioni Unite, con la sentenza Mariotti40, hanno dunque affrontato la questione di «quale sia, in tema di responsabilità colposa

36

Da presumersi “consapevole”.

In questo senso v. anche Cupelli, Cronaca di un contrasto annunciato, cit., 247 s. 37

Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia medica?, cit., 172. 38

Ibidem. V. anche Caletti, Le Sezioni Unite penali, ibidem, secondo il quale, da questa prima valutazione, l’art. 590-sexies c.p. emergeva come «una disposizione tutto sommato “inapplicabile”, da considerare alla stregua di una mera “declinazione” dell’art. 43 c.p., cioè una istruzione di massima – verrebbe da dire una “linea guida” – su come accertare la colpa penale in ambito medico nei casi in cui vi siano linee guida riconosciute ai sensi dell’art. 5 della l. “Gelli-Bianco”». 39

40 Cass., sez. un., 21.12.2018, n. 8770, consultabile all’indirizzo: www.penalecontemporaneo.it. Per la relativa notizia di decisione v. Dir. pen. cont., 2017, 135 ss., con presentazione di Cupelli, La legge Gelli-Bianco nell’interpretazione delle Sezioni Unite: torna la gradazione della colpa e si riaffaccia l’art. 2236 c.c.

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dell’esercente la professione sanitaria per morte o lesioni, l’ambito applicativo della previsione di “non punibilità” prevista dall’art. 590-sexies c.p., introdotto dalla legge 8 marzo 2018, n. 24»41, affermando i seguenti principi di diritto: «L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico». Non resta, dunque, che ripercorrere il ragionamento attraverso cui le Sezioni Unite sono giunte a tale innovativa soluzione.

3. Il (fondamentale) ruolo delle linee guida e il (necessario) ripristino del “grado della colpa” Consapevole della delicatezza del compito assegnatole, la Corte esordisce svolgendo alcune considerazioni sulle riforme che, negli ultimi anni, hanno interessato la professione sanitaria. In particolare, i giudici osservano che la Legge Gelli-Bianco ha inteso proseguire nella volontà di «tipizzazione di modelli di colpa all’interno del codice penale» manifestatasi nell’ultima legislatura tramite l’abrogazione della previgente

41 La questione controversa è stata esplicitata nella nota di informazione provvisoria n. 31/2018 pubblicata sul sito della Rivista.

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Giurisprudenza

disciplina di cui al Decreto Balduzzi, a propria volta concepito per «normare» i limiti della responsabilità penale del medico «a fronte di un panorama giurisprudenziale divenuto sempre più severo»42. Calando l’attenzione, in particolare, sulla Gelli-Bianco, le Sezioni Unite evidenziano anzitutto l’opportunità di analizzare l’art. 643 (“responsabile” dell’introduzione, nel codice penale, dell’art. 590-sexies) alla luce delle disposizioni che lo precedono (segnatamente, degli artt. 1, 3 e 5): norme che, nell’ottica di una «migliore delineazione della colpa medica», costituiscono uno dei valori aggiunti della riforma, ponendo a servizio del suo fine principale un nuovo metodo di accreditamento delle linee-guida; queste ultime «ambiscono [infatti] a costituire non solo, per i sanitari, un contributo autorevole utile al miglioramento generale della qualità del servizio (…) ma anche, per il giudizio penale, indici cautelari di parametrazione, anteponendosi alla rilevanza delle buone pratiche clinico-assistenziali che (…) assumono oggi rilievo solo sussidiario per il minor grado di ponderazione scientifica che presuppongono». Sempre in via preliminare, la pronuncia si sofferma sul tema – per vero non investito da divergenza di interpretazioni – della natura, finalità e cogenza delle linee guida, rilevando come queste ultime abbiano assunto «rilevanza centrale nel costrutto della intera impalcatura della legge», senza perdere – pur a fronte delle significative modifiche apportate alla procedura di accreditamento e tendenti a formare un sistema dai «connotati pubblicistici» – la loro «intrinseca

Si era infatti pervenuti, nel volgere di un ventennio, ad un assetto interpretativo in base al quale la colpa medica non veniva di regola esclusa una volta accertato che l’inosservanza delle linee guida era stata determinante nella causazione dell’evento lesivo, rilevando in senso liberatorio soltanto che l’evento medesimo, avuto riguardo alla complessiva condizione del paziente, fosse, comunque, inevitabile e, pertanto, ascrivibile al caso fortuito: v. Cass. pen., 11.7.2012, n. 35922 (§ 2.1), in Guida al dir., 2013, 35 ss. 42

43 Autentica “pietra d’inciampo” del nuovo assetto della responsabilità penale del medico: così Caputo, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, cit., 371.


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essenza» di «condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi», enucleate dopo accurata selezione, pur senza pretese di fissità e vincolatività44. «Indubbia», peraltro, l’utilità del sistema delineato dal legislatore, apprezzabile, secondo la Corte, su due fronti: per un verso, le linee guida costituiscono una «guida per l’operatore sanitario, sicuramente disorientato, in precedenza, dal proliferare incontrollato delle clinical guidelines», con evidenti vantaggi sul piano della convenienza del servizio, nonché della malpractice in generale; per l’altro, la configurazione delle linee guida con un grado di affidabilità (e quindi di rilevanza) sempre maggiore offre una «plausibile risposta alle istanze di maggiore determinatezza che riguardano le fattispecie colpose qui di interesse». Attraverso tali precostituite raccomandazioni, spiega il Collegio, si hanno «parametri tendenzialmente circoscritti per sperimentare l’osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia», ed è proprio in relazione a questi ambiti che il sanitario «ha la legittima aspettativa di vedere giudicato il proprio operato, piuttosto che in base ad una norma cautelare legata alla scelta soggettiva, a volte anche estemporanea e scientificamente opinabile, del giudicante». Eppure, tiene a precisare la sentenza, non si tratta di «veri e propri precetti cautelari», capaci di generare, in caso di violazione rimproverabile, ipotesi di “colpa specifica”, «data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto», bensì di «regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente e implicanti, in ipotesi contraria, il dovere, da parte di tutta la catena degli operatori sanitari concretamente implicati, di discostarsene»: del resto, è da escludersi che il nuovo sistema sia caratterizzato da «automatismi», dipendendo l’efficacia e forza precettiva delle linee guida comunque dalla dimostrazione della loro adeguatezza al caso concreto.

44

§ 3.

Chiarito il ruolo, importantissimo, delle linee guida nel nuovo sistema delineato dal legislatore45, le Sezioni Unite ricostruiscono nel detta-

Per un’approfondita disamina sul punto, v. C aputo, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, cit., 362 ss., secondo il quale non v’è dubbio che l’edificio delle linee guida progettato dall’art. 5 rappresenti la sfida più impegnativa, sulla quale si giocherà gran parte della posta in palio: da un lato, infatti, la decisione di “puntare forte” sulle linee guida persegue un’autentica rivoluzione culturale, che obbliga i sanitari a prendere confidenza, sin dagli studi universitari, con una metodologia complessa, suscettibile di revisione ed esposta ai rischi del tempo e delle innovazioni; dall’altro lato, sul versante penalistico, l’illecito colposo guadagna una maggiore determinatezza e capacità di orientamento: il medico sa di non dover vagare alla ricerca della linea guida, come avveniva nella vigenza del Decreto Balduzzi, ma è messo nelle condizioni di confrontarsi con quella “pubblicata ai sensi di legge”. In materia di linee guida in ambito sanitario, si segnalano, altresì, nella dottrina penalistica: Di Landro, Dalle linee guida e dai protocolli all’individuazione della colpa nel settore sanitario. Misura oggettiva e soggettiva della malpractice, Torino, 2012, 62 ss.; C aputo, Filo d’Arianna o flauto magico? Linee guida e checklist nel sistema della responsabilità per colpa medica, consultabile all’indirizzo: www.penalecontemporaneo.it. Sembra peraltro opportuno rammentare in questa sede che l’art. 3 della Gelli-Bianco contempla l’istituzione dell’«Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità». Detto Osservatorio acquisisce i dati regionali relativi ai rischi e agli eventi avversi, nonché alle cause, all’entità, alla frequenza e all’onere finanziario del contenzioso. Inoltre – anche mediante la predisposizione, con l’ausilio delle società scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie, di linee di indirizzo – l’Osservatorio individua idonee misure per la prevenzione e la gestione del rischio sanitario e il monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza delle cure, nonché per la formazione e l’aggiornamento del personale esercente le professioni sanitarie. La normativa contempla, altresì, la creazione di un elenco delle società e associazioni deputate a elaborare, unitamente alle istituzioni pubbliche e private, le raccomandazioni da includere in linee guida con funzione di parametro per la corretta esecuzione delle prestazioni sanitarie a finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale. L’istituzione dell’Osservatorio e la formazione dell’elenco degli enti sono state disposte, rispettivamente, da due decreti del Ministero della Salute datati 2 agosto e 29 settembre 2017 (Gazzetta Ufficiale – Serie Generale, n. 186 del 10 agosto 2017 e n. 248 del 23 ottobre 2017): approfondimenti in Cupelli, L’eterointegrazione della legge Gelli-Bianco: aggiornamenti in tema di linee guida ‘certificate’ e responsabilità penale in ambito sanitario, in Dir. pen. cont., 2017, 266 ss. Si segnala, da ultimo, la recente approvazione dell’ulteriore Decreto del

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glio il contrasto giurisprudenziale scaturito dalle sentenze Tarabori e Cavazza46, giungendo ad affermare che, sebbene entrambe le pronunce contengano «molteplici osservazioni condivisibili, in parte anche comuni»47, ciò che manca è «una sintesi interpretativa complessiva capace di restituire la effettiva portata della norma in considerazione», individuabile attraverso un’attività ermeneutica che tenga conto, da un lato, della lettera della legge, e, dall’altro, di circostanze che, ancorché non esplicitate, sono necessariamente ricomprese in una «norma di cui può dirsi certa la ratio»48. A tal fine, la pronuncia mobilita il canone ermeneutico di cui all’art. 12 delle preleggi, chiarendo come esso, nel prevedere la valorizzazione del significato immediato delle parole, di quello derivante dalla loro connessione, nonché dell’intenzione del legislatore, ponga un solo «vincolante divieto» all’interprete: quello di «andare “contro” il significato delle parole usate»49; la norma non proibirebbe, invece, di «andare “oltre” la letteralità del testo», specie laddove l’interpretazione

Ministero della Salute del 27 febbraio 2018 (Gazzetta Ufficiale – Serie Generale, n. 66 del 20 marzo 2018), recante “Istituzione del Sistema Nazionale Linee Guida (SNLG)”. Il SNLG, la cui gestione è affidata ad un apposito Comitato Strategico, costituisce l’unico punto d’accesso alle linee guida e ne consente la valutazione, l’aggiornamento e la pubblicazione. 46

Giurisprudenza

prescelta sia l’«unica plausibile», rappresentando – come nel caso di specie – il frutto di uno sforzo necessario per giungere ad un risultato costituzionalmente adeguato, candidandosi a dar luogo al cosiddetto «diritto vivente». L’aspirazione delle Sezioni Unite, in altre parole, è quella di sperimentare un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 590-sexies c.p., che, individuando tra i possibili significati quello più coerente al dato precettivo, scongiuri la necessità – peraltro rilevata dal Procuratore generale50 e paventata subito in dottrina51 – di investire della questione la Corte costituzionale. Nell’affrontare questo compito ambizioso, la Corte si avvale del dibattito maturato nella vigenza del Decreto Balduzzi, con particolare riguardo al rapporto tra comportamento del medico e linee guida in relazione alle diverse forme di colpa generica. Ribadisce, pertanto, la necessità di valutare la rispondenza della condotta medica in relazione al parametro delle linee guida “adeguate” (se esistenti) con un giudizio ex ante, «alla luce, cioè, della situazione e dei particolari conosciuti o conoscibili dall’agente all’atto del suo intervento»52; rammenta, poi, la difficoltà di distinguere le ipotesi di colpa da negligenza da quelle di colpa da imperizia, precisando però come detta distinzione riacquisti, oggi, una «peculiare rilevanza», stante la scelta del legislatore di limitare l’operatività della nuova causa di non punibilità ai soli casi di imperizia53.

§ 4. V. supra, par. 2.

Sul punto v. Caletti, Le Sezioni Unite penali, ibidem, il quale evidenzia come, pur nel profondo contrasto tra le due pronunce, non siano in discussione due punti, ovvero che la nuova “misteriosa” esenzione da responsabilità vada applicata ai soli casi di imperizia e che, in forza dell’espressa “clausola” di adeguatezza prevista dall’art. 590-sexies c.p., gli errori nella “scelta” delle linee guida non siano riconducibili alla nuova disposizione.

47

È stato rilevato che le discrasie motivazionali delle due sentenze sono accentuate da un «sintomatico deficit di comunicazione», mancando, nella seconda, qualsiasi richiamo o menzione della prima (Cupelli, L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite, ibidem). Evidenzia bene la differente metodologia ermeneutica delle due pronunce Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica, consultabile all’indirizzo: www.penalecontemporaneo.it. 48

49 Con una modalità, dunque, che «sconfinerebbe nell’analogia», bandita nell’interpretazione del comando penale.

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Cfr., sul punto, § 5 della sentenza, ove si legge che il Procuratore generale, pur dando atto dell’inammissibilità dei motivi di ricorso volti ad accreditare una ricostruzione dei fatti alternativa a quella motivatamente emergente dalla sentenza impugnata, ha chiesto sollevarsi la questione di legittimità costituzionale dell’art. 590-sexies c.p., per contrasto con i principi posti negli artt. 2, 3, 24, 25, 27, 32, 33, 101, 102 e 111 Cost. 50

Per tutti v. D’Alessandro, La responsabilità penale del sanitario alla luce della riforma “Gelli-Bianco”, cit., 578. 51

§ 6. Passaggio di grande rilievo ma spesso sottovalutato in giurisprudenza: lo ricorda Caletti, Le Sezioni Unite penali, ibidem. Sul tema v., per tutti, Di Giovine, La responsabilità penale del medico. Dalle regole ai casi, in Riv. it. med. leg., 2013, 61 ss. 52

53 Distinzione prevista dalla legge, nonostante, sotto la vigenza del Decreto Balduzzi, la Cassazione avesse finalmente


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Entrando nel merito del contrasto giurisprudenziale, le Sezioni Unite riconoscono alla sentenza Tarabori il pregio di aver messo in luce gli «evidenti limiti applicativi» dell’art. 590-sexies, comma 2°, c.p.: «lo speciale abbuono» ivi previsto non può, infatti, essere invocato qualora «la responsabilità sia ricondotta ai diversi casi di colpa, dati dalla imprudenza o dalla negligenza; né quando l’atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche; né quando queste siano individuate e dunque selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con riferimento allo specifico caso»54. Limiti, questi, che «danno conto dell’incompatibilità della novella con qualsiasi forma di appiattimento dell’agente su linee guida che a prima vista possono apparire confacenti al caso di specie» e, quindi, con ogni forma di “automatismo” tra applicazione delle linee guida e operatività della causa di non punibilità; ciò che esclude, secondo la Corte, che il precetto in esame possa collidere con il principio costituzionale di libertà della scienza e del suo insegnamento (art. 33 Cost.) o con quello dell’assoggettamento del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.). La pronuncia Tarabori, tuttavia, commette l’errore di non rinvenire alcun residuo spazio operativo per il secondo comma dell’art. 590-sexies

preso atto che «la scienza penalistica non offre indicazioni di ordine tassativo, nel distinguere le diverse ipotesi di colpa generica, contenute nell’art. 43 c.p., comma 3»: Cass. pen., 11.5.2016, n. 23283, consultabile all’indirizzo: www.penalecontemporaneo.it, con nota di Cupelli, La colpa lieve del medico tra imperizia, imprudenza e negligenza: il passo avanti della Cassazione (e i rischi della riforma alle porte). Peraltro, la Corte opportunamente rileva come la semplice constatazione della esistenza di linee guida attinenti al caso specifico non comporta che la loro violazione dia automaticamente luogo a colpa per imperizia. Evenienza, quest’ultima, che ricomprende sia l’ipotesi in cui la scelta è stata «del tutto sbagliata», sia quella in cui la scelta sia stata «incompleta» (per non essersi tenuto conto di fattori di co-morbilità che avrebbero richiesto il ricorso a più linee-guida regolatrici o comunque la visione integrata del quadro complesso), sia, infine, l’ipotesi in cui il caso avrebbe imposto il «radicale discostarsi dalle linee-guida regolatrici del trattamento della patologia, in ragione della peculiarità dei fattori in esame» (§ 7.1). 54

c.p., giungendo alla «frettolosa conclusione» circa l’impossibilità di applicare il precetto e negando addirittura la capacità semantica dell’espressione “causa di non punibilità”; così facendo, offre un’interpretazione sostanzialmente abrogatrice della disposizione, collidente con il dato oggettivo dell’iniziativa legislativa e con l’intenzione innovatrice manifestata in sede parlamentare. Le dure censure mosse dalla sentenza alla «confusione della norma» e alla sua «incongruenza interna», poi, avrebbero dovuto trovare sfogo nella denuncia di incostituzionalità per violazione del principio di legalità; cosa che, però, non è avvenuta. Dal canto suo, la sentenza Cavazza ha il merito di aver valorizzato il dato letterale della nuova disposizione. Nel farlo, tuttavia, essa è caduta nell’errore opposto, attribuendo alla causa di non punibilità una «portata applicativa impropriamente lata»: quella di rendere non punibile qualsiasi condotta imperita del sanitario che abbia provocato la morte o le lesioni, pur se connotata da colpa grave; e questo sul solo presupposto della corretta selezione delle linee guida pertinenti al caso di specie, sì da rendere più concreti i profili d’incostituzionalità dell’esegesi stessa, quantomeno per violazione del divieto di disparità di trattamento rispetto ad altre categorie di professionisti che parimenti operano con alti coefficienti di difficoltà tecnica. Ciò premesso, secondo le Sezioni Unite la previsione, da parte della l. n. 24/2017, di una «inedita causa di non punibilità» è «esplicita, innegabile e dogmaticamente ammissibile»55. Essa si giustifica, peraltro, sul piano della ragionevolezza e della possibile disparità di trattamento rispetto ad altre categorie di professionisti, dal momento che non solo ha la finalità di porre un freno alla medicina difensiva e di promuovere la sicurezza delle cure, restituendo al sanitario la serenità di affidarsi alla propria autonomia professionale, ma risulta anche meno invasiva della soluzione individuata nel 2012, che aveva “delimitato la colpa” attraverso una sostanziale, ancorché parziale,

55

§ 8.

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abolitio criminis56: la Gelli-Bianco, invero, non deroga ai principi generali di cui all’art. 43 c.p., ma si muove sul «terreno della specificazione, ricorrendo all’inquadramento della non punibilità, sulla base di un bilanciamento ragionevole di interessi concorrenti». La Corte passa, dunque, finalmente, ad affrontare la questione principale, ovvero quale sia l’esatto perimetro applicativo della nuova disposizione normativa57. «Presupposto per l’operatività della nuova causa di non punibilità», si legge nella sentenza, è che il sanitario abbia «cagionato, per colpa da imperizia, l’evento lesivo o mortale, pur essendosi attenuto alle linee guida adeguate al caso di specie»; premessa coerente con la successiva constatazione secondo la quale «le fasi della individuazione, selezione ed esecuzione delle raccomandazioni contenute nelle linee guida adeguate sono articolate al punto che la mancata realizzazione di un segmento del relativo percorso giustifica ed è compatibile tanto con l’affermazione che le linee-guida sono state nel loro complesso osservate, quanto con la contestuale rilevazione di un errore parziale che, nonostante ciò, si sia verificato, con valenza addirittura decisiva per la realizzazione di uno degli eventi [predetti]». Per avvalorare tale assunto, la Corte si serve dell’elaborazione giurisprudenziale maturata nella vigenza del Decreto Balduzzi, richiamando, in particolare, la sentenza Cantore58, che aveva decretato il superamento della tesi – paventata nei primi commenti al Decreto e riaffiorata, in quale misura, nella pronuncia Tarabori – secondo la quale non sarebbe possibile configurare una

56

Cfr. Caletti, Le Sezioni Unite penali, ibidem.

§ 9. Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite, cit., 29, evidenziano come, rispetto al ragionamento a contrario sviluppato dalla sentenza Tarabori, risulti qui più agevole – tramite la logica e il confronto con le motivazioni della sentenza – mettere a fuoco l’esatto perimetro applicativo dell’art. 590-sexies c.p., «quantomeno a livello astratto, perché poi procedere a delle concrete e plausibili esemplificazioni del meccanismo sussuntivo rimane particolarmente problematico».

57

58

Cass. pen., 29.1.2013, n. 16237, cit.

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Giurisprudenza

colpa nell’osservanza delle linee guida (c.d. “in culpa sine culpa”)59. Quanto alla situazione delineata in tale pronuncia, tuttavia, alla stregua della novella del 2017, «l’errore non punibile non può riguardare (…) la fase della selezione delle linee-guida», ma solo quella «attuativa», poiché è proprio la scelta di linee guida adeguate ad integrare il requisito del «rispetto» richiesto dall’art. 590-sexies60. La ratio di tale conclusione, spiegano le Sezioni Unite, si rinviene nella scelta del legislatore di «pretendere, senza concessioni, che il sanitario sia non solo accurato e prudente nel seguire l’evoluzione del caso sottopostogli ma anche e soprattutto preparato sulle leges artis e impeccabile nelle diagnosi anche differenziali; aggiornato in relazione non solo alle nuove acquisizioni scientifiche ma anche allo scrutinio di esse da parte delle società e organizzazioni accreditate, dunque alle raccomandazioni ufficializzate con la nuova procedura; capace di fare scelte ex ante adeguate e di personalizzarle anche in relazione alle evoluzioni del quadro che gli si presentino». Con la puntualizzazione che detto «sindacato ex ante non potrà giovarsi di una soglia temporale fissata una volta per sempre, atteso che il dovere del sanitario di scegliere linee-guida “adeguate” comporta, per il medesimo, il continuo aggiornamento della valutazione rispetto alla evoluzione del quadro e alla sua conoscenza e conoscibilità»61. Insomma, un giudizio di adeguatezza “dinamico”, da aggiornare ad ogni passo prescritto dalle linee guida62.

59 Cfr. Caletti, Le Sezioni Unite penali, ibidem. V. anche supra, nota 18.

La sentenza si schiera, dunque, apertamente “in favore” dell’applicabilità della disciplina all’errore “nell’esecuzione” di linee guida o buone pratiche clinico-assistenziali pertinenti rispetto al caso concreto: cfr. Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite, cit., 30.

60

61

§ 6.1.

Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite, cit., 36 ss. 62


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Se, poi, tale percorso risulti correttamente seguito e, ciononostante, l’evento lesivo o mortale si sia verificato con prova della riconduzione causale al comportamento del sanitario, il residuo dell’atto medico che appaia connotato da errore colpevole per imperizia potrà, a determinate condizioni, essere oggetto della novella causa di non punibilità: nel caso descritto, infatti, si rimane nel perimetro del “rispetto delle linee guida”, essendo lo scostamento da esse marginale e di minima entità. Giunta a questo punto, la Corte avverte la «necessità di circoscrivere un ambito» che, per la sua limitata entità, sia compatibile con l’attestazione che il sanitario, in tal modo colpevole, non soggiace a sanzione penale per avere rispettato, nel complesso, linee guida adeguate al caso di specie. Di qui il recupero, in via interpretativa, della distinzione tra colpa lieve e colpa grave, che la pronuncia giustifica ricorrendo a numerosi, differenti, argomenti: tra questi, le tutele già apprestate, sul fronte civilistico, al paziente e l’incentivo a pratiche di prevenzione degli incidenti (artt. 7, 9, 12 e 16 della legge Gelli-Bianco); l’avvenuto superamento (grazie all’esperienza maturata nella vigenza del Decreto Balduzzi) delle obiezioni dogmatiche circa l’impossibilità o inutilità, nel diritto penale, di una graduazione della colpa; il timore di un ritorno agli orientamenti giurisprudenziali, fin troppo repressivi, del passato63. Secondo le Sezioni Unite, è la stessa ricerca ermeneutica che conduce a ritenere che l’art. 590-sexies c.p. continui, in realtà, a riferirsi a una nozione di “colpa lieve”64: essa sarebbe infatti rimasta “intrinseca” alla formulazione del nuovo precetto, «posto che la costruzione della esenzione da pena per il sanitario complessivamente rispettoso delle raccomandazioni accreditate in tanto si comprende in quanto tale rispetto non sia riuscito ad eliminare la commissione di errore colpevole non grave, eppure causativo dell’evento». Inoltre, puntualizza la sentenza, «la

63

Sul punto cfr. Caletti, Le Sezioni Unite penali, ibidem.

64

§ 10.

mancata evocazione esplicita della colpa lieve da parte del legislatore del 2017 non preclude una ricostruzione della norma che ne tenga conto, sempre che questa sia l’espressione di una ratio compatibile con l’esegesi letterale e sistematica del comando espresso». Al fine di corroborare ulteriormente la propria tesi, la Corte si giova anzitutto dell’indicazione proveniente dall’art. 2236 c.c.65 quale «principio di razionalità e regola di esperienza» cui attenersi nel valutare l’addebito per imperizia, laddove il caso concreto imponga la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà ovvero si versi in una situazione di emergenza66. «Con mai perduta attualità», detto precetto reputa rilevante la considerazione per cui l’attività del medico possa presentare «connotati di elevata difficoltà per una serie imprevedibile di fattori legati alla mutevolezza del quadro da affrontare e delle risorse disponibili», con la conseguenza che «vuoi sotto un profilo della non rimproverabilità della condotta in concreto tenuta in tali condizioni, vuoi sotto quella della mera opportunità di delimitare il campo dei comportamenti soggettivi alla repressione penale, sono richieste misurazioni e valutazioni differenziate da parte del giudice»67. Tale interpretazione, rammentano le Sezioni Unite, ha

Per vero rilanciato anche dalla Tarabori, che nel finale (§ 11.1) ne invocava il recupero e la valorizzazione, in chiave penalistica. 65

66 Anche in epoca antecedente al Decreto Balduzzi, la giurisprudenza aveva manifestato una certa apertura all’utilizzo della regola di esperienza ricavabile dall’art. 2236 c.c., nei casi in cui si fosse imposta la soluzione di problemi di specifica difficoltà di carattere tecnico-scientifico (fra le molte, Cass. pen., 5.4.2011, n. 16328, in Riv. it. med. leg., 2011, 859 ss.; Cass. pen., 21.6.2007, n. 39592, in Riv. pen., 2008, 842). Cfr. sul punto Cupelli, L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite, ibidem.

Osserva la Corte come già prima della formulazione della norma che ha ancorato l’esonero da responsabilità al rispetto delle linee guida e al grado della colpa si fosse accreditato, anche in ambito penalistico, il principio secondo cui la condotta tenuta dal terapeuta non può non essere parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiesto e al contesto in cui esso si è svolto: cfr. Cass. pen., 22.11.2011, n. 4391, in Guida al dir., 2012, 80 ss.; Cass. pen., 21.6.2007, n. 39592 cit. 67

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ricevuto l’avallo della Corte costituzionale68 e ha riacquisito rilevanza soprattutto a seguito della scelta, operata dalla legge Gelli-Bianco, di circoscrivere espressamente l’operatività della causa di non punibilità alla sola colpa per imperizia, pur dopo che la più recente giurisprudenza di legittimità maturata in relazione al Decreto Balduzzi aveva mostrato di propendere per l’estensione dell’irresponsabilità da colpa lieve a tutte le forme di colpa generica69. In secondo luogo, le motivazioni, premesso che il legislatore del 2012 ha espressamente utilizzato e disciplinato l’ipotesi della “colpa lieve” del sanitario come quella da sottrarre, a determinate condizioni, alla responsabilità penale, fanno leva – ancora una volta – sull’elaborazione giurisprudenziale maturata in tale contesto, la quale ha fissato criteri utili e ancora oggi attuali per individuare preventivamente e riconoscere, in sede giudiziaria, il grado lieve della colpa; tra questi, incentrati su parametri di «misurazione della colpa sia in senso oggettivo che soggettivo» e diretti a contrastare gli effetti di interpretazioni eccessivamente severe, particolare utilità è rivestita, secondo la Corte, dal metodo “quantitativo”, volto a valorizzare il quantum dello scostamento del comportamento che ci si sarebbe attesi come quello utile, per determinare il grado della colpa70.

68 Corte cost., 17.10.1970, n. 166, consultabile all’indirizzo: www.giurcost.org. 69 Cfr., tra le molte, Cass. pen., 11.5.2016, n. 23283, Denegri, consultabile all’indirizzo: www.penalecontemporaneo.it, con nota di Cupelli, La colpa lieve del medico tra imperizia, imprudenza e negligenza: il passo avanti della Cassazione (e i rischi della riforma alle porte).

Le Sezioni Unite, nel condividere l’assunto consolidato nella giurisprudenza di legittimità (v., tra le molte, Cass. pen., 8.5.2015, n. 22405, in CED cass. pen, 2015; Cass. pen., 9.10.2014, n. 47829) secondo cui la valutazione sulla gravità della colpa (generica) deve essere effettuata “in concreto”, tenendo conto dell’homo eiusdem professionis et condicionis, ricordano l’opportunità di sindacare la condotta medica alla luce delle specifiche condizioni dell’agente; del suo grado di specializzazione; della problematicità o equivocità della vicenda; della particolare difficoltà delle condizioni in cui il medico ha operato; della difficoltà obiettiva di cogliere e collegare le informazioni cliniche; del grado di atipicità e novità della situazione; dell’impellenza; della motivazione

Giurisprudenza

Anche la scelta, netta71, di circoscrivere la causa di non punibilità all’imperizia spinge ulteriormente verso l’opzione di delimitare il campo di operatività dell’art. 590-sexies, comma 2°, c.p. alle sole ipotesi di “colpa lieve”: diversamente opinando, infatti, la norma solleverebbe immediati sospetti di illegittimità costituzionale per disparità di trattamento ingiustificata rispetto a situazioni meno gravi eppure rimaste sicuramente punibili (quali quelle connotate da colpa lieve per imprudenza o negligenza); determinerebbe, inoltre, uno sbilanciamento nella tutela degli interessi sottesi; provocherebbe, infine, ingiuste restrizioni nella determinazione del risarcimento del danno addebitabile al sanitario ai sensi dell’art. 7 della Gelli-Bianco, posto che detta norma, al comma terzo, stabilisce una correlazione con i profili di responsabilità ravvisabili ai sensi dell’art. 590-sexies c.p. Da ultimo, la pronuncia esclude qualsivoglia incongruenza tra la soluzione offerta e l’eliminazione del grado della colpa avvenuta nel corso dei passaggi parlamentari72. Dall’analisi dei lavori preparatori73, infatti, non emerge alcun «ripudio tout court», da parte del legislatore, in ordine alla differenziazione del grado della colpa. All’esito dell’articolato percorso ermeneutico descritto, la conclusione che le Sezioni Unite traggono è che «la colpa dell’esercente la professione sanitaria può essere esclusa in base alla verifica dei noti canoni oggettivi e soggettivi della configurabilità del rimprovero e altresì in ragione della misura del rimprovero stesso. Ma, in quest’ultimo caso – e solo quando configurante “colpa lieve” –, le condizioni richieste sono il dimostrato corretto orientarsi nel campo delle linee-guida pertinenti in relazione al caso concreto ed il progredire

70

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della condotta; della consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa. 71 Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite, cit., 32. 72

Cfr. Caletti, Le Sezioni Unite penali, ibidem.

La Corte si riferisce, in particolare, al Parere della Commissione Giustizia del Senato e ai resoconti delle discussioni della Commissione giudiziale del Senato del 7, 8 e 21 giugno 2016.

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nella fase della loro attuazione, ritenendo l’ordinamento di non punire gli adempimenti che si rivelino imperfetti». Coerentemente, subito dopo, la motivazione enuclea i principi di diritto già sopra indicati74, dai quali, in estrema sintesi, emerge come l’esenzione da responsabilità introdotta dal nuovo art. 590-sexies c.p. scenda in campo unicamente qualora il sanitario, nel rispetto di linee guida adeguate al caso concreto, versi in colpa lieve dovuta ad imperizia75.

4. Le ricadute intertemporali della novella Particolarmente significativa è, infine, l’enucleazione dei casi «immediatamente apprezzabili» di diritto intertemporale, cui la Corte è pervenuta raffrontando l’art. 3, abrogato, della legge Balduzzi e il nuovo articolo 590-sexies c.p.76. Nel dettaglio, la disciplina abrogata risulta più favorevole ai sensi dell’art. 2, comma 4°, c.p.: a) in relazione alle condotte penalmente rilevanti del sanitario, commesse prima dell’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, connotate da negligenza o imprudenza e integranti colpa lieve; b) nell’ambito della colpa per imperizia, in caso di errore determinato da colpa lieve che sia caduto sul momento selettivo delle linee guida. Quanto, invece, alle ipotesi di imperizia lieve nella sola fase attuativa, le due norme riservano al sanitario un trattamento pressoché analogo: lo stesso, infatti, andava esente per il Decreto Balduzzi ed è oggetto di causa di non punibilità ai sensi della Gelli-Bianco, sicché pertanto, «in tale prospettiva, è ininfluente, in relazione all’attività del giudice che si trovi a decidere nella vigenza della nuova legge su fatti verificatisi prima della

sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere all’assoluzione del sanitario».

5. Osservazioni conclusive Si apprezza senz’altro lo sforzo profuso dalle Sezioni Unite per individuare un margine applicativo “ragionevole” al capoverso dell’art. 590-sexies c.p.77. La sentenza in commento, nondimeno, suscita seri dubbi sul piano del rispetto del principio di legalità in materia penale, laddove introduce interpretativamente il requisito della colpa lieve, di cui non vi è traccia nel testo di legge, in funzione di restrizione dell’ambito di applicazione della clausola di non punibilità: a destare perplessità, più che gli argomenti addotti, è il presupposto da cui muovono le Sezioni Unite, in quanto, in realtà, la riserva di legge vieta al giudice penale l’interpretazione praeter legem, quantomeno se in malam partem78. Per quanto concerne, invece, la concreta praticabilità della soluzione proposta, rimangono aperte diverse questioni poste dalla disposizione di nuovo conio, a partire79 dal criterio distintivo tra

77 Ritengono “equilibrata” la soluzione delle Sezioni Unite, peraltro anticipata in precedenti scritti, Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite, cit., 41. V. infatti Caletti, Mattheudakis, La Cassazione e il grado della colpa penale del sanitario dopo la riforma “Gelli-Bianco”, cit., 1369 ss. Secondo Caletti, Le Sezioni Unite penali, ibidem. si tratta, probabilmente, della soluzione più ragionevole concessa dal dato legale; l’unica che, verosimilmente, può garantire all’art. 590-sexies c.p. un margine applicativo che, per quanto ridotto, non desti dubbi di legittimità costituzionale.

Fortemente critico Piras, Un distillato di nomofilachia: l’imperizia lieve intrinseca quale causa di non punibilità del medico, consultabile all’indirizzo: www.penalecontemporaneo.it, 6 ss.; sul divieto di interpretazione praeter legem in sede penale, v., in effetti, nella manualistica, Pulitanò, Diritto penale, Torino, 2013, 147 ss. In termini dubitativi, invece, Cupelli, L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite, cit., 256 s. V., peraltro, pure Caletti, Le Sezioni Unite penali, ibidem, per il quale la sentenza in commento assume connotati «quasi-legislativi». 78

74 § 11, su cui v. già supra, par. 2. Le conclusioni cui le Sezioni Unite sono pervenute sono talmente articolate da rendere opportuno esprimersi al plurale, parlando, cioè, di «principi di diritto»: in questi termini Caletti , Mattheudakis , La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite, cit., 28 s. 75

Cfr. Caletti, Le Sezioni Unite penali, ibidem.

76

§ 12.

79 Per altri interrogativi, v. Cupelli, L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite, cit., 256 ss.

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imperizia e negligenza o imprudenza. Sicché, in mancanza di definizioni condivise, la punibilità resta sostanzialmente rimessa all’arbitrio del giudice (recte: del perito); con il rischio, oltretutto, di ineffettività della norma, per via della tendenza giudiziaria, manifestatasi sotto la vigenza del Decreto Balduzzi80 e che parrebbe qui confermarsi, a ravvisare in ogni caso profili di negligenza o imprudenza del sanitario81. A ridurre di fatto l’ambito di applicazione della causa di non punibilità – considerato che, nei casi di trattamenti più complessi e di maggiore incertezza diagnostica, i piani della scelta e dell’esecuzione delle linee guida finiscono per intersecarsi – contribuirà, peraltro, l’opzione delle Sezioni Unite per un giudizio “dinamico” di adeguatezza82. Per converso, tuttavia, la sentenza “rilancia” definitivamente l’applicazione in sede penale, sia pur come «regola di esperienza», della norma civilistica dell’art. 2236 c.c., per cui, nelle ipotesi di speciale difficoltà, la colpa lieve nella scelta delle linee guida non sarà comunque punibile, allo stesso modo della colpa lieve che si verifichi in contesti non regolati da linee guida83.

Giurisprudenza

In ogni caso, contrariamente alle aspettative della classe medica, nell’interpretazione delle Sezioni Unite, come attestano le conclusioni della sentenza in punto di diritto intertemporale, la Legge Gelli-Bianco rappresenta un deciso “passo indietro” sulla strada della depenalizzazione della medical malpratice, intrapresa con il Decreto Balduzzi84.

V. Basile, Un itinerario giurisprudenziale sulla responsabilità medica colposa tra art. 2236 cod. civ. e Legge Balduzzi (aspettando la riforma della riforma), in Dir. pen. cont., 2017, 173 ss. 80

Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite, cit., 32 ss., i quali, peraltro, ritengono compatibile con il tenore letterale della disposizione l’interpretazione per cui deve ravvisarsi imperizia in ogni violazione di leges artis tipiche di un contesto professionale. Critica inoltre la sentenza, perché assume un criterio distintivo di ordine processuale, arrivando a ravvisare la negligenza in mancanza della contestazione difensiva sulla qualificazione data in imputazione, Piras, Un distillato di nomofilachia, cit., 7 s. Prima dell’intervento delle Sezioni Unite, si era infatti efficacemente detto che il requisito normativo dell’imperizia avrebbe potuto fungere da «cavallo di Troia», in grado di sabotare gli intenti deflattivi della riforma (Di Giovine, Mondi veri e mondi immaginari di sanità, modelli epistemologici di medicina e sistemi penali, in Cass. pen., 2017, 2163). 81

Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite, cit., 36 ss.

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Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite, cit., 43 ss.; Cupelli, L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite, cit., 256; Piras, Un distillato di nomofilachia, cit., 7 s.

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84 Cupelli, L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite, cit., 257.


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Tribunale di Matera, 19.12.2017

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esistenziali e spirituali, generati dal clima new age che ha caratterizzato la fine del secondo millennio, a questi professionisti. I sostenitori del c.d. terapeuta alternativo non devono cadere nell’errore di trovarsi dinanzi a un soggetto dotato di qualificazione professionale in campo medico. Il presente contributo, dunque, costituisce un discrimen oggettivamente rilevabile degli atti di esclusiva competenza del medico e di quelli annoverabili nella competenza concorrente del biologo. Pertanto, sarà necessario compiere un’analisi riguardo non il “metodo scientifico utilizzato” ma circa la “natura” dell’attività posta in essere dal genetista. Orbene, la medicina convenzionale tende solitamente a concentrare la propria attenzione sulla cura delle

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malattie e su ogni altra attività che si sostanzi nella cura di patologie, tanto fisiche quanto psichiche, che siano interventi chirurgici ovvero la somministrazione di farmaci. Diversamente, il responsabile di un laboratorio di genetica non può effettuare né visite mediche né prescrizioni terapeutiche poiché questi ultimi sono atti di competenza del medico. Ne consegue che se il medesimo soggetto sconfinasse nell’ambito della professione medica, troverebbe applicazione il reato in esame. Segnatamente, della questione si sono occupati i tribunali italiani, i quali sono stati chiamati a verificare a priori quali attività potessero rientrare nella competenza del biologo. Di conseguenza, una volta avviato il procedimento penale, ritenendo erroneamente che l’attività contestata fuoriesca dal perimetro di competenza del biologo, si giungerà necessariamente ad un provvedimento di archiviazione. The medical responsibility for alleged abuse within the exercise of the profession has become, today more than ever, of vital importance for companies and specialized professionals and have now been called to respond to criteria of efficiency and timeliness. This implies the inapplicability of the criminal offense case where there is no specific supplementary legislation that defines a specific activity as a profession and prescribes, for its exercise, the state qualification and registration in the appropriate register. However, with the widespread diffusion of “alternative medicine”, a worldwide phenomenon whose boundaries are difficult to trace, the problem has been posed to support those who address their existential and spiritual questions to these professionals, generated by the new age climate that characterized the end of the second millennium. Supporters of the alternative therapist should not fall into the error of being in front of a subject with professional qualifications in the medical field. The present contribution constitutes an objectively detectable discrimen by the acts of exclusive competence of doctors and biologists. Therefore, it becomes necessary to undertake an analysis of not only the “scientific method used” but also the “nature” of the activity carried out by the geneticist. However, conventional medicine usually tends to focus on the treatment of diseases and on any other activity that is involved in the treatment of pathologies, both physical and mental, such as surgical interventions or the administration of drugs. Otherwise, the person in

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Giurisprudenza

charge of a genetic laboratory can not carry out medical examinations or therapeutic prescriptions because the latter are acts of medical competence. It follows that if the same subject encroached within the medical profession, the offense in question would apply. In particular, the Italian courts have dealt with the matter, having been asked to verify a priori which activities would fall within the competence of the biologist. Consequently, once the criminal proceeding has started, erroneously considering that the disputed activity exits from the perimeter of competence of the biologist, it will necessarily come to an archiving order.

1. Premessa Con la decisione in commento, la giurisprudenza di merito esamina uno degli aspetti più problematici del delitto di abusivo esercizio di una professione, ossia quello dell’individuazione degli atti che appartengono ad una professione c.d. “protetta” il cui svolgimento, in assenza della prescritta abilitazione, integra la fattispecie del reato in questione. In particolare, l’esercizio delle professioni sanitarie si deve espletare nel rispetto reciproco dello specifico ambito di competenza professionale, considerando che spesso risulta difficile definirne i confini. Paradigmatico, in tale senso, risulta il caso in cui la condotta del responsabile di un laboratorio di genetica possa integrare il reato di cui all’art. 348 c.p. A tale proposito, giova analizzare quali atti siano di esclusiva competenza del medico e quali rientrino nella competenza concorrente del biologo, il quale ultimo ha dovuto imporsi nel mondo del lavoro, in contesti in cui altre figure erano meglio conosciute e già operanti da tempo. Tale figura professionale, altresì, può avvalersi di leggi “strutturali” estremamente precise e dettagliate.

2. La vicenda processuale La premessa fattuale all’ordinanza di archiviazione in analisi riguardava gli accadimenti avvenuti nei confronti del responsabile di un laboratorio di


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genetica, indagato per il reato di esercizio abusivo della professione. In particolare, alla luce della ricostruzione dei fatti fornita dalla pubblica accusa, era emerso che il procedimento de quo non doveva essere instaurato dal momento che il medesimo responsabile aveva effettuato esclusivamente attività di consulenza genetica pre e post test genetico ed aveva offerto la sua collaborazione anche ai medici. La contestazione consisteva nel fatto che la motivazione del Pubblico Ministero risulterebbe viziata poiché il medesimo P.M. aveva considerato che sia il responsabile del laboratorio che la persona offesa fossero medici con specializzazioni diverse. Segnatamente, il primo è laureato in biologia, la seconda in medicina e chirurgia. La questione, giunta al vaglio del Giudice per le indagini preliminari, veniva accolta, nella misura in cui dalle indagini si evinceva che il suddetto responsabile non aveva effettuato visite mediche né prescrizioni terapeutiche, i quali ultimi sono atti di esercizio dell’attività medica.

3. Il delitto di esercizio abusivo della professione: considerazioni generali Il bene giuridico protetto dalla norma di cui all’art. 348 c.p., la quale rappresenta una novità rispetto al sistema previgente, è rappresentato dalla disciplina amministrativa delle professioni. In particolare, si vuole tutelare l’interesse pubblico che determinate attività, socialmente molto rilevanti, vengano svolte da soggetti che siano stati giudicati idonei dal punto di vista professionale e morale al loro esercizio1. In tale modo, solo indirettamente sono tutelati coloro che esercitano legittimamente la professione, gli ordini professionali che li rappresentano, nonché i privati che potrebbero avvalersi dell’opera

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del professionista abusivo2. In altri termini, il legislatore ha inteso tutelare gli interessi della collettività al regolare svolgimento delle professioni per le quali sono richieste una speciale abilitazione e l’iscrizione nell’albo3, ritenuti preminenti rispetto a quelli individuali. Tuttavia, rispetto al momento in cui è stata introdotta, allorquando assumevano rilevanza le sole professioni liberali, le cui attività di esercizio non presentavano problemi di inquadramento, la disposizione in esame ha subito una dilatazione. Tale processo dilatativo è stato conseguenza della incessante espansione delle professioni il cui accesso richiede una speciale abilitazione e l’iscrizione negli albi tenuti dai relativi consigli degli ordini. Inoltre, il suddetto processo è stato innescato da meccanismi di eterointegrazione con disposizioni extrapenali, alle quali è necessario fare riferimento per definire i profili di abusività dell’esercizio della professione4. La struttura della fattispecie è, invero, tale che essa è limitata solo alle c.d. “professioni protette”, cioè quelle il cui esercizio non è consentito a chi non abbia conseguito tale abilitazione (ad esempio, avvocato, medico, farmacista, architetto, ecc.) oppure non possieda i requisiti previsti dalla legge come equivalenti. Ne deriva l’esistenza di professioni che si pongono in una zona grigia tra la res pubblica e le industrie, i mestieri, non menzionati dalla norma, sebbene l’ordinamento per l’esercizio di queste ultime attività richieda una apposita licenza. Appurato che la normativa italiana relativa alle singole attività professionali deve essere coordinata con le norme del trattato istitutivo della Comunità europea, un profilo di grande rilievo risie-

Pagliaro, Principi di diritto penale, parte speciale, X, 1, Milano, 2000, 421.

2

In dottrina v. Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte speciale, 1, Bologna, 2002, 308; Contieri, voce Esercizio abusivo di professioni, in Enc. del dir., XV, Milano, 1966, 606; in giurisprudenza v. Cass. pen., 29.11.1983, n. 2286, in Cass. pen., 1985, 1058; Cass. pen., 18.10.1990, Lupi, in Riv. it. med. leg., 1991, 264; Cass. pen., 18.11.2004, n. 3996, in Guida dir., 2005.

3

1 Garofoli, Manuale di diritto penale. Parte generale e speciale, Roma, 2017, 529; Romano, Commentario sistematico al codice penale. I delitti contro la Pubblica Amministrazione, Milano, 2008, 144. Giova rinviare anche a Cass. pen., 15.11.1984, n. 1207, in Cass. pen., 1986, 459; Cass. pen., 29.11.1983, n. 2286, ivi, 1985, 1058.

Marconi, Abusivo esercizio di una professione, in Catenac(a cura di), Reati contro la Pubblica Amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia, Torino, 2011, 249. 4

ci

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de, inoltre, nel c.d. diritto di stabilimento, sancito dall’art. 52, par. 2, che consente al cittadino di uno Stato membro di esercitare, in un altro Paese della Comunità, attività non salariate alle medesime condizioni riservate ai soggetti che fanno parte dello Stato “ospitante”. La speciale abilitazione cui accenna l’art. 348 c.p. designa l’atto conclusivo del procedimento autorizzatorio, attraverso il quale la Pubblica Amministrazione accerta l’idoneità tecnica del soggetto all’esercizio della professione e rimuove un limite all’esercizio del diritto ad esercitare la professione. Generalmente, alla mancanza dell’abilitazione viene equiparata la mancanza di iscrizione all’albo, nel caso in cui questa sia prescritta dalla legge5. Il carattere abusivo dell’esercizio della professione, infatti, può rinvenirsi anche nella inosservanza dell’iter amministrativo che ammette il soggetto allo svolgimento della professione. A tale proposito, giova evidenziare che l’esercizio professionale da parte di chi non abbia conseguito un diploma sia diverso rispetto a chi sia in possesso del diploma ma non iscritto all’albo6. In breve, i requisiti oggettivi del reato sono rappresentati, in primis, da un presupposto normativo, ovvero dalla presenza di altre norme che qualifichino l’attività come “professione” e prescrivano una speciale abilitazione dello Stato per il suo esercizio. Inoltre, vi deve essere un presupposto del fatto, a contenuto negativo, consistente nella mancanza di capacità giuridica all’esercizio della professione del soggetto agente. Infine, la

Cfr. per tutti, Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte Speciale, 2, Milano, 2003, 406. Sul punto, anche, Cass. pen., 16.10.2008, n. 41183, in Guida al dir., 2008, 92; Cass. pen., 15.2.2007, n. 20439, ivi, 2007, 68. 5

Infatti, ai casi di mancata iscrizione all’albo o di difetto di abilitazione, si possono equiparare la radiazione o la sospensione dell’esercizio della professione, per qualsiasi causa, ritenendo sussistente l’ipotesi delittuosa anche nel caso in cui vi sia una mera violazione del regime di incompatibilità. Ad esempio, un impiegato statale, il quale svolge l’attività di geometra, essendo iscritto all’albo, nonostante il divieto. Contra, Romano, op. cit., 149, secondo il quale la norma non ha nulla a che vedere con l’eventuale inosservanza di doveri di esclusività del servizio, senza contare che una reazione sensata a questo genere di irregolarità sembrerebbe da trovare nei limiti di illeciti disciplinari o amministrativi in genere.

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Giurisprudenza

condotta, cioè il compimento di atti di esercizio della professione7. 3.1. Un terreno di scontro tra l’esercizio abusivo della professione e il principio di determinatezza Una delle questioni più importanti concernenti l’art. 348 c.p. riguarda la configurabilità della norma de quo alla stregua di una norma penale in bianco. Più nel dettaglio, secondo una prima ricostruzione, l’espressione “abusivamente” determina che la disposizione in commento non costituirebbe una norma penale in bianco8. Questa è la posizione che è stata assunta dalla Corte Costituzionale, la quale, allorquando, a causa del presunto carattere di norma penale in bianco, l’ipotesi delittuosa è stata tacciata, più volte, di incostituzionalità, ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 348 c.p.9 La medesima Corte ha sostenuto che il mero fatto che lo Stato prescriva una speciale abilitazione per l’esercizio della professione non esclude tout court che la norma in commento descriva una fattispecie perfetta in tutti i suoi connotati tipizzanti. In particolare, la Corte ha ritenuto che il provvedimento abilitativo non integra un elemento strutturale della norma incriminatrice, ma rappresenta un presupposto che “in negativo condiziona la capacità giuridica del soggetto in ordine all’oggetto di quella specifi-

Su tali profili, sia consentito il rinvio a Marani, Principio di determinatezza e norma integratrice del precetto penale, Riga, 2013, 95 ss.

7

Cfr. per una ricostruzione di questa problematica MantoL’esercizio di un’attività non autorizzata, Torino, 2003, 92; Fiandaca, Musco, op. cit., 308; Contieri, op. cit., 607; Riccio, voce Professione (esercizio abusivo di una), nel Noviss. Dig. it., XIV, Torino, 1957, 11. 8

vani,

Corte cost., 13.6.1983, n. 169, in Cass. pen., 1983, 1927: è infondata la q.l.c. dell’art. 348 c.p. “nella parte in cui tale norma penale verrebbe integrata da una disposizione di natura esclusivamente regolamentare e priva di un adeguato grado di determinatezza, in riferimento agli artt. 25 e 27 Cost.”. Tale Corte, altresì, ha recepito un orientamento accolto anche da Cass., sez. un., 29.11.1958, in Giust. pen., 1959, II, 1165.

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ca professione, qualificandone la condotta come abusiva e, perciò, illecita”10. Pertanto, questa ricostruzione non ammette che si possa parlare di norma penale in bianco. Queste ultime sono incomplete e, di conseguenza, vengono integrate da un’altra fonte. L’art. 348 c.p., invece, è una norma in sé perfetta, comprendente sia il precetto sia la sanzione11. Si è, altresì, rilevato che il delitto incorpora, tra i suoi elementi essenziali, la mancanza della speciale abilitazione richiesta, la quale ultima rappresenta un elemento del fatto costruito negativamente. Di diverso avviso la prevalente giurisprudenza di legittimità che ha ravvisato nell’art. 348 c.p. una norma penale in bianco, la quale necessita di norme giuridiche diverse, che qualifichino una determinata attività professionale, prescrivano una speciale abilitazione dello Stato ed impongano l’iscrizione in uno specifico albo. In tale modo, si configurano le c.d. professioni protette: il giudice non può colmare l’eventuale lacuna normativa, proveniente dal disinteresse del legislatore verso una determinata professione, per il cui esercizio non viene richiesta la speciale abilitazione, con la prescrizione di regole generali ed astratte12. D’altra parte, è evidente che l’accertamento del carattere abusivo ex art. 348 c.p. sia problematico. In particolare, nelle ipotesi in cui la normativa che regolamenta la specifica professione non individui con certezza gli atti e le attività che possano qualificarsi come “tipiche”, ovvero proprie di quella peculiare professione. Si è rilevato come, di frequente, le discipline professionali non comprendono prescrizioni analitiche riguardo le qualità degli atti c.d. “professionali”. Pertanto, laddove si ipotizzasse che l’elemento normativo della mancanza di abilitazione provveda sia a rendere effettivi i tratti di abusività della singola condotta professionale, sia a delineare gli

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atti tipici della professione, si finirebbe per attribuire all’elemento normativo una funzione di integrazione vera e propria della fattispecie: situazione che si pone in contraddizione con la natura di elemento normativo. 3.2. Il compimento di atti tipici è sufficiente per integrare il reato di cui all’art. 348 c.p.? In relazione alla condotta sufficiente ad integrare il delitto in oggetto, è doveroso asserire che nel rispetto del principio di determinatezza, la legge extrapenale, integratrice del precetto penale in bianco, debba elencare tutti gli atti oggetto della riserva in guisa che solo questi, se compiuti da un soggetto non abilitato, rilevino ai fini della fattispecie criminosa in analisi. D’altro canto, è opportuno dare conto di un’altra opzione ricostruttiva – maggiormente flessibile – del suddetto principio, la quale ha statuito che l’ipotesi delittuosa si limita a descrivere i caratteri generali della professione oggetto della riserva. Il fulcro della questione attiene all’individuazione del contenuto della professione tutelata dall’art. 348 c.p. Considerando gli artt. 2229, 2230, 2231 c.c., la medesima professione è rappresentata dall’attività autonoma e continuativa, di natura intellettuale, stabilmente organizzata e prestata dietro corrispettivo a chiunque chieda di usufruirne. Ne deriva una serie di atti principali ed accessori non sempre preventivamente determinabili. Dunque, secondo una parte della dottrina, la professione è “un’attività umana, caratterizzata da continuità, svolta a fine lucrativo e con autonomia, da un soggetto ritenuto competente in quanto dotato di corredo particolare di cognizioni tecnico-scientifiche”13. Ad ogni modo, a prescindere da quale sia l’indirizzo interpretativo prevalente, ci si chiede se, ai fini dell’integrazione della condotta tipica, sia necessario il compimento di un solo atto o, altrimenti, di una pluralità di essi.

Cass. pen., 20.6.2007, n. 34200, in Rass. dir. farm., 2008, 37; Corte cost., 27.4.1993, n. 199, in Foro it., 1994, I, 2980. 10

Cfr. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte speciale, 1, Delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2000, 423.

11

Cass. pen., 29.5.1996, n. 2076, in Studium iuris, 1996, 1303; Cass. pen., 3.4.1995, n. 9089, in Dir. pen. proc., 1996, 595. 12

De Vincentiis, Durante, Il delitto di esercizio abusivo della professione sanitaria dal punto di vista medico legale. Le norme e la giurisprudenza, in Giust. pen., 1972, I, 323.

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L’orientamento maggioritario predilige la tesi del compimento di un solo atto in senso di esclusività del medesimo. Ciò nonostante, accade in alcune circostanze, che il delitto venga integrato da una pluralità di condotte propedeutiche e continuative14. La distinzione tra esclusività e continuità rileva in relazione al bene posto a garanzia di una determinata professione. In virtù di ciò, un atto esclusivo incidente sul bene della salute avrà una preminenza assoluta, rispetto ad una pluralità di atti continui propri di un’altra professione, non sanitaria, incidenti su un interesse giuridico meno rilevante15. Tale premessa rimanda ad altra questione attinente alla delimitazione dell’ambito applicativo della fattispecie dell’art. 348 c.p. in relazione all’estensione concettuale degli atti di esercizio della professione per i quali è necessario la “speciale abilitazione dello Stato”. Dunque, il principale problema in ordine al rispetto del principio di determinatezza si rinviene nella determinazione degli “atti tipici”. Secondo un primo orientamento, gli atti rilevanti per configurare il reato de quo sarebbero solo quelli tipici o propri, ovvero quelli attribuiti in esclusiva ad una determinata professione, mentre si collocherebbero fuori dall’ambito di applicazione della norma incriminatrice gli atti c.d. collaterali, che, nonostante siano connessi all’esercizio professionale, non rientrano nella riserva di competenza e sono suscettibili di essere posti in essere da chiunque16. Un più recente orientamento17 dilata l’ambito di estrinsecazione delle modalità di “esercizio della professione”. La norma sarebbe formata da tutti gli atti peculiari di una specifica professione. In particolare, sia gli atti attribuiti in via esclusiva – i c.d. atti “tipici”, “propri” o “riservati” –, il cui compimento, anche se occasionale, isolato e gratuito,

14

Cass. pen., 24.10.2005, n. 7564, in C.E.D. Cass., 2006.

15

Mantovani, op. cit., 25.

Cass. pen., 3.3.2004, n. 17702, in Studium iuris, 2004, 1584; Cass. pen., 11.4.2001, n. 500, in Cass. pen., 2002, 1677. 16

Cass. pen., 8.10.2002, n. 43, in Rep. Foro it., 2003, voce Esercizio abusivo, n. 3. 17

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Giurisprudenza

integra il reato, sia quelli c.d. “relativamente liberi” che possono rappresentare un esercizio della “professione”, quando compiuti in modo continuativo, organizzato e remunerato18. Questi ultimi esulano, tuttavia, dalla ipotesi delittuosa quando siano compiuti a titolo occasionale e gratuito19. Alla luce di quanto esposto, si evince che una simile interpretazione pone diversi interrogativi circa la compatibilità con il principio di determinatezza. Non è una regola il fatto che spesso si rievoca una determinata fonte normativa per individuare le condotte concretamente punibili in ossequio al citato principio, il quale ultimo può essere violato laddove la fattispecie richiamata non permetta di individuare, per la vaghezza delle espressioni utilizzate, i connotati dell’attività da tutelare. A tale proposito, la Corte Costituzionale ha affermato che “il principio di tassatività … deve considerarsi rispettato anche se il legislatore, nel descrivere il fatto di reato, usi non già termini di significato rigorosamente determinato, ma anche espressioni meramente indicative o di rinvio alla pratica diffusa nella collettività in cui l’interprete opera, spettando a quest’ultimo determinarne il significato attraverso il procedimento ermeneutico di cui all’art. 12, primo comma, delle preleggi”20. In tale senso, si osserva che qualora la formula legislativa adoperasse locuzioni che individuano uno spazio semantico aperto, il giudice dovrà accertare se la norma possa essere tassativizzata attraverso il ricorso a canoni interpretativi conosciuti. Secondo parte della dottrina, in mancanza di specifiche norme legislative o regolamentari, si dovrà ricorrere al prudente apprezzamento del giudice, il quale dovrà esaminare quali siano state le ragioni che hanno indotto il Legislatore a stabilire l’abilitazione per l’esercizio di quella specifica professione21.

18 Significativi, in proposito, i principi della decisione della Cass. pen., 8.10.2002, n. 49, in Cass. pen., 2004, con nota di Ariolli e Bellini. 19

Cass. pen., 5.7.2006, n. 26829, in C.E.D. Cass., 2006.

Corte cost., ord. 13.6.1983, n. 169, in Cass. pen., 1983, 1927. 20

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Antolisei, op. cit., 407.


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3.3. Rapporto problematico tra il soggetto esercente la professione medica e il biologo In materia di professione medica, la questione diventa complicata dal momento che non vi sono né norme extrapenali che definiscano i concetti di “medicina” e di “professione medica” né norme che elenchino quelli che possano definirsi “atti tipici” di questa specifica categoria professionale22. Segnatamente, è opportuno osservare se sia rispettosa del principio di determinatezza la scarsa descrizione ed elencazione degli atti medici c.d. riservati. Questa affermazione trova un avallo nelle diverse normative sull’abilitazione alla professione medica, richiamate dall’art. 348 c.p., considerando casi non espressamente vietati dalla legge ma nemmeno contemplati dagli insegnamenti universitari su cui si fonda l’abilitazione alla professione medica. Infatti, maggiore sarà l’ambito della sfera professionale ex art. 348 c.p., più ristretti saranno i margini per lo svolgimento libero delle pratiche terapeutiche alternative. Pertanto, gli atti tipici della professione medica possono essere individuati in modo deduttivo, ovvero dal complesso delle norme che regolano la materia. In particolare, ogni professione ha una propria essenza e, di conseguenza, gli atti tipici sarebbero individuati nelle condotte in grado di estrinsecare, manifestare o attualizzare tale essenza. Per quando concerne la professione medica, dunque, gli atti tipici dovranno essere individuati sulla base dell’ambito della competenza e del patrimonio di conoscenza in cui la medesima professione consiste23.

22 Nonostante vi siano parecchie fonti normative relative all’attività sanitaria, non si può tacere sul fatto che in tali fonti difettino sia l’elencazione degli atti tipici, sia la stessa definizione di professione medica. Si vedano, ad esempio, il r.d. 27.7.1934, n. 1265, recante il Testo Unico delle leggi sanitarie; il r.d. 30.9.1938, n. 1652, in tema di esami fondamentali e necessari per il conseguimento della laurea in medicina e chirurgia; il d. P. R. 5.4.1950, n. 221, relativo ai requisiti per l’iscrizione agli albi degli ordini medico-chirurgici.

Questo è il pensiero di Cipolla, La responsabilità dell’omeopata per il reato di cui all’art. 348 c.p., tra principi costituzionali, disciplina positiva e orientamenti della giurisprudenza, in Giur. merito, 2006, 2547. 23

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La definizione di professione medica è frutto di rielaborazione giurisprudenziale e, negli ultimi anni, essa è stata indicata come “l’attività diretta a diagnosticare le malattie, nel prescriverne la cura, nel somministrare i rimedi anche se diversi da quelli ordinariamente praticati: così ragionando commette il reato di esercizio abusivo della professione medica chiunque esprima giudizi diagnostici e consigli, ed appresti le cure al malato”24. Quindi, l’atto di spettanza del medico viene individuato in qualsiasi atto di diagnosi e cura che sia caratterizzato da potenziali implicazioni pericolose per la salute. Orbene, non bisogna considerare le diverse tecniche utilizzate, differenziando quelle introdotte ufficialmente nei piani di studio universitari dalle c.d. pratiche non convenzionali. Ne deriva che possono reputarsi “atti liberi” solo quelli relativi al corpo o alla mente che non abbiano finalità curative e non siano pericolosi per la salute25. Nella specie, applicando tale principio, la Suprema Corte ha ravvisato il delitto qualora vi siano atti di agopuntura26, chiropratica o medicina non convenzionale27 e omeopatia28, effettuati da soggetti non medici. Inoltre, la medesima Corte ha individuato e distinto tra attività mediche finalizzate alla cura di malattie rispetto ai casi in cui sono del tutto assenti patologie nonostante la condotta sia diretta ad incidere sulla persona fisica, come per esempio attività di tatuaggio29 oppure vendita di erbe30.

24 Cfr. Cass. pen., 17.12.2010, n. 4641, in Dir. e giust., 2011; Cass. pen., 9.2.1995, n. 5838, in Cass. pen., 1997, 394. Sia consentito, inoltre, il rinvio a Crocetti et al., Manuale etico-giuridico della professione di psicologo, Bologna, 2008, 9 ss.

Come puntualmente osservato da Meneghello, Esercizio abusivo della professione sanitaria, in Belvedere, Riondato (a cura di), Trattato di biodiritto, Le responsabilità in medicina, Milano, 2011, 1384.

25

Cass. pen., 27.3.2003, n. 22528, in Riv. it. med. leg., 2003, 427. 26

Cass. pen., 4.4.2005, n. 16626, in Rass. dir. farm., 2005, 1213. 27

28

Cass. pen., 20.6.2007, n. 34200, in Cass. pen., 2008, 2412.

Cass. pen., 25.1.1996, n. 524, in Riv. giur. polizia, 1997, 234.

29

Cass. pen., 8.1.1997, n. 1557, in Rass. dir. farm., 1998, 669.

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Rimanendo nell’ambito della professione medica, è interessante verificare come, a differenza del medico, per il quale si devono considerare le fonti normative precedentemente enucleate, ben più complessa è l’individuazione delle competenze del biologo. L’attività di medicina di laboratorio fornisce informazioni su tessuti o liquidi biologici di origine umana sia per quanto concerne la prevenzione, le diagnosi e il follow up delle malattie sia per il fine della ricerca. Il tipo di prestazione effettuata nei diversi laboratori e la dotazione strumentale hanno un diverso grado di complessità che risulta commisurata alla realtà sanitaria ed alla tipologia di quesiti diagnostici posti al laboratorio. In tale situazione, gli specialisti dell’équipe multidisciplinare, compreso il biologo, discutono in modo approfondito dei casi dei pazienti, conformandosi alla normativa nazionale e regionale. Ai professionisti è richiesta una adeguata formazione, generica e specifica, che gli permetta di garantire una combinazione contestuale di qualità ed economicità del servizio, anche per sopperire a sprechi gravosi per il sistema sanitario nazionale. A tale proposito, è opportuno evidenziare che nei servizi di patologia clinica si possono distinguere tre fasi: fase pre analitica31, fase analitica32 e fase post analitica33.

In particolare, nel corso della fase immediatamente precedente quella analitica, si preleva il campione biologico del paziente, dopo averne identificato la idoneità. Verificati i requisiti identificativi di trasporto e la quantità richiesta, segue la centrifugazione o preparazione del materiale e la distribuzione. 31

Segnatamente, nella fase prettamente analitica, si effettuano le analisi richieste, con l’impiego dei metodi e della strumentazione specifica per il tipo di attività da svolgersi. Per quanto concerne la manutenzione degli strumenti, nonché dell’esame è competente tanto il biologo, quanto il personale tecnico di laboratorio.

Giurisprudenza

Inoltre, è bene rammentare come all’interno del medesimo servizio di patologia è possibile individuare delle aree specialistiche che comprendono tra le altre: ematologia, chimica clinica, microbiologia e virologia, cito/istopatologia e genetica. Segnatamente, compito del biologo genetista, operante nel laboratorio di genetica, è, ictu oculi, quello di eseguire consulenze genetiche pre e post. Tale attività non è riservata in modo esclusivo ai laureati in medicina e chirurgia con specializzazione in genetica medica, come si desume dalla normativa in materia. In primis, dall’art. 3, comma 1°, lett. c), della l. n. 396/1967, c.d. legge istitutiva dell’ordinamento della professione di biologo, il quale statuisce che “formano oggetto della professione di biologo … problemi di genetica dell’uomo, degli animali e delle piante”. Inoltre, dal documento redatto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, il quale afferma che “le richieste di test genetici rivolte a Strutture di Genetica Medica devono essere valutate dal Laboratorio di Genetica e nel caso non vi siano sufficienti informazioni o indicazioni, la richiesta va discussa con il medico che la formula” (p. 9, par. 5.2.). Vieppiù, degne di nota sono le linee guida per la diagnosi citogenetica del 2013, in cui si legge testualmente “la gestione della consulenza collegata all’esecuzione degli esami e la conservazione dei consensi informati sono sotto la responsabilità del laboratorio e, quindi, dei dirigenti sentirai sia essi biologi o medici genetisti che ne fanno parte” (p. 13 ss., par. 2.7.“Rapporti con gli utenti”). Documenti che validano quanto detto sono, altresì, l’autorizzazione n. 8/2016, cioè l’autorizza-

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Concluse le analisi, infine, si arriva alla refertazione. Dunque, nella fase post analitica si valutano i risultati ottenuti, in relazione agli standard di riferimento praticati. Si procede, poi, alla redazione del referto, in maniera facilmente intelligibile, con la precipua indicazione delle informazioni necessarie. È opportuno specificare che è di competenza del medico, e non del biologo, includere il referto nel quadro clinico del paziente; sicché è auspicabile una collaborazione tra biologo e medico. 33

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Inoltre, al fine di garantire la genuinità dell’esito delle analisi e della loro correttezza, si devono effettuare periodicamente controlli, secondo una frequenza variabile caso per caso, in modo tale da provare la strumentazione di laboratorio, il suo funzionamento, la taratura e la calibrazione dei reagenti chimici coinvolti nel processo. Su tali profili, sia consentito il richiamo a Il Biologo. Figura dinamica nel mondo del lavoro. Vademecum di orientamento alla professione, a cura della Commissione Permanente di studio, Rapporti con le Università, Ordine Nazionale dei Biologi, 14.11.2013, consultabile all’indirizzo: www.onb.it.


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Responsabilità medica ed esercizio abusivo della professione

zione generale al trattamento dei dati genetici, rilasciata il 15 dicembre 2016 dal Garante per la protezione dei dati personali (pp. 4, 5, 6 e 8) e il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sui nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), pubblicato in G. U. n. 65 del 18 marzo 2017 - supplemento ordinario n. 15, il quale ultimo fra le “Prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale” (Allegato 4), è stata finalmente fatta una differenziazione fra il termine “consulenza genetica” e “visita genetica”. Per quanto concerne la prima, identificata con il codice G9.01, fa parte della branca “Laboratorio” ed è definita “Consulenza genetica associata al test” - Consulenza Genetica in paziente con ipotesi diagnostica specifica già formulata e con prescrizione di test genetico. La suddetta consulenza può essere pre o post test. Nel primo caso, si ha la spiegazione dei vantaggi e dei limiti del test genetico e la somministrazione dei consensi informati (se non effettuati nell’ambito della visita). Nel secondo, invece, si ha la spiegazione del risultato del test genetico. Per quanto concerne la “Visita Genetica di controllo”, codice 89.01, viene descritta come “Consulenza Genetica successiva alla prima in paziente ancora senza diagnosi. Visita specialistica genetica con esame obiettivo, rivalutazione della documentazione clinica recente e remota. Consultazione della letteratura scientifica e di database di genetica clinica specifici. Affinamento dell’ipotesi diagnostica pregressa e scelta di eventuale nuovo test genetico appropriato. Spiegazione di vantaggi e limiti del test genetico e somministrazione dei consensi informati. Scrittura della relazione”. La branca medica alla quale è affidato il compito clinico è definita “ALTRE”, quindi non avendo individuato il professionista specifico la visita genetica può essere eseguita dal clinico di riferimento. Ad esempio, se l’ematologo ravvisa un sospetto di leucemia mieloide cronica decide in maniera autonoma di prescrivere l’esame cariotipo per verificare la presenza/assenza del cromosoma Philapelphia o l’indagine molecolare per verificare la presenza della malattia minima residua. Riassumendo, il responsabile di un laboratorio di genetica non può effettuare né visite mediche né prescrizioni terapeutiche dal momento che questi atti sono di competenza del medico. Pertanto,

se il medesimo responsabile invade il campo del soggetto esercente la professione medica, si applicherà l’art. 348 c.p. Dalla ricostruzione esposta, si evincono problemi da un punto di vista pratico e teorico. Per quanto riguarda il primo profilo, nella letteratura non si rinviene un criterio astratto ed univoco per determinare le attività riservate, in via esclusiva, al medico. Quindi, la soluzione sarebbe diversa a seconda della nozione di “atto medico” considerato. Invece, per quanto concerne il secondo aspetto, sorgono dubbi poiché la fattispecie, per l’individuazione del precetto rimanda ad una diversa fonte normativa, la quale per descrivere un dato essenziale della norma, cioè la nozione di atto medico “riservato”, rievochi dei criteri di giudizio non legali e neppure accreditati. Per risolvere tale problema, si potrebbe considerare il bene protetto dall’art. 348 c.p., ricavandolo dall’interpretazione e comprensione dell’elemento normativo extrapenale. In altri termini, l’interesse tutelato assume notevole rilievo per la individuazione del precetto34. Se quindi, si intendesse considerare la fattispecie delittuosa in analisi come strumento di salvaguardia dei beni giuridici costituzionali della vita, integrità e salute, ponendo quale garanzia una minaccia di sanzione nei confronti di personale addetto inesperto e privo di conoscenze adeguate a limitare la potenzialità lesiva degli atti medici, ne deriverebbe che la riserva statale consisterebbe nell’attività curativa in sé e per sé considerata. Pertanto, la professione medica rappresenta l’insieme dei doveri del medico rispetto al paziente, ai colleghi, ai cittadini. Si presuppone, dunque, che tale professione comporta valutazioni diagnostiche e curative del corpo e della psiche dell’uomo. Di conseguenza, si dovrebbe reputare “libero” qualunque atto che non abbia come fine la cura della malattia.

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Nello stesso senso Cipolla, ibidem.

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o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo ci d di st i e r Gli ostacoli della legge m giu n. 219/2017 Franco Maria Zambotto

già direttore del Dipartimento Medico e di Medicina Specialistica. Direttore di Pneumologia nell’Ospedale S.M. del Prato, Feltre

La nuova legge incontrerà difficoltà nella sua applicazione in ambiente clinico per una serie di ostacoli. Il primo ostacolo sta nella bassissima sensibilità bioetica del personale sanitario. Con ciò non intendo negare la sensibilità relazionale innata in ognuno ma intendo porre il focus della attenzione sulle carenze educazionali del cursus accademico circa le questioni bioetiche. L’impatto della nuova legge potrebbe per tale ragione essere molto duro perché le sue parole sono difficili da interpretare nella loro ratio originale e ciò conseguentemente potrebbe portare ad una mera applicazione meccanica priva di profondità relazionale umana, unica conditio a garanzia di una autentica relazione terapeutica. Il secondo ostacolo consiste in una educazione accademica imperniata in una visione scientifico-positivistica della realtà clinica che traduce bene il principio ippocratico (cata dynamin = in base al mio potere, oggi diremmo scientifico, o potere che mi deriva dalla Evidence Based Medicine) ma scotomizza completamente il parallelo principio ippocratico (cata crysin = in base al mio giudizio che, come esprime il lemma, indica la capacità, innata ma da educare col tempo, di discernere tutte le dimensioni umane del dramma clinico). La nuova legge costituisce la pretesa del bisogno dei malati di essere considerati non solo come un

insieme di reazioni biochimiche o di organi da valutare more geometrico alla Cartesio ma anche da valutare more ethico alla Aristotele. Per non dire del more religioso alla Platone, completamente trascurato; per la validità dell’affermazione che la dimensione religiosa dell’umano è trascurata basterebbe considerare il processo materiale di “espulsione delle salme dai reparti”. Il rispetto dei morti è sempre stato un ottimo indicatore religioso. Il terzo ostacolo sussiste nella dimensione manageriale dei sistemi sanitari regionali, tutti tra loro difformi, soprattutto sul piano informatico. In attesa del fascicolo sanitario individuale (FSI) tutte le informazioni che mi riguardano come paziente non mi accompagnano in ogni istante della vita, ma restano confinate nei repositories dei centri informatici delle aziende. Tali sistemi informatici non colloquiano tra loro, né tra aziende della stessa regione, né tantomeno fra regioni diverse. La ovvia conseguenza è che le mie eventuali DAT o il mio eventuale piano condiviso di assistenza sarà reso esecutivo forse solo nel mio contesto residenziale, ma con bassa probabilità di realizzarsi al di fuori di esso e/o nella stessa regione. Fuori regione sarei un perfetto sconosciuto ai sistemi sanitari e ogni mio desiderio completamente ignorato in punto di futuro in qualche modo pianificato.

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La difficoltà della gestione, della messa in chiaro, della condivisione fra tutti gli attori sanitari dei dati informatici dei pazienti potrebbe inoltre portare fuori strada i soccorritori del 118 chiamati a intervenire su pazienti che a priori abbiano già ritenuto come sproporzionati gli usuali mezzi rianimatori urgenti. Il quarto ostacolo tale da complicare ancor più la situazione è la nuova normativa sanitaria circa la c.d. privacy nella parte in cui il paziente può oscurare al personale sanitario dati potenzialmente strategici per decisioni cliniche. Se arriva in pronto soccorso un paziente, magari incosciente, con un accidente acuto suscettibile di trattamento acuto efficace, ma gli operatori sono all’oscuro di elementi clinici rilevanti ai fini prognostici, a causa di una scelta più o meno consapevole di privacy operata dal paziente, come potranno costoro prendere decisioni rispettose del suo bene complessivo, ossia appropriate e proporzionate, se il loro giudizio clinico è difettoso, mancando di elementi di giudizio rilevanti (es.: condizione di immunodepressione del paziente oppure un trapianto d’organo tenuti nascosti per non perdere il posto di lavoro)? E quale interferenza potenzialmente perniciosa potrebbe da ciò derivare nel caso di decisioni da prendere in paziente clinicamente non acuto in una prospettiva di pianificazione di cure future? Il quinto ostacolo consiste nella cultura dominante ossia il c.d main stream del pensiero della cittadinanza (ragionando alla giuridica) o al “volgo incolto e illetterato” (ragionando alla mass media) che oscilla fra i due estremi: l’affidamento incondizionato al paternalismo medico e la rivendicazione radicale di diritti contro il paternalismo medico, ossia la affermazione di una autonomia assoluta. Alla seconda posizione il sistema socio-sanitario reagisce amplificando la medicina difensiva. Alla prima opzione il sistema reagisce con la applicazione fredda delle procedure scientifiche fondate su un vitalismo medico assoluto che finisce col buttare i pazienti nel mare profondo della ostinazione diagnostico-terapeutica (il cosiddetto accanimento, id est futilità diagnostico-terapeutica). Il sesto ostacolo consiste nella dissociazione sociologico-culturale intra-famigliare. Responsabilità Medica 2018, n. 2

Dialogo medici-giuristi

Solo questo esempio pratico mostra la consistenza di tale affermazione. Paziente affetto da scoliosi grave e malattia respiratoria cronica invalidante che afferma in più occasioni di non volere né la tracheotomia né la ventilazione meccanica, ma non scrive nulla. Una sera insorge una difficoltà respiratoria più grave del solito. I familiari preoccupati chiamano il 118. Conclusione: tracheotomia e ventilazione meccanica immediata appena arrivato in ospedale. Qualche giorno dopo nella nostra sala endoscopica il paziente dice di non voler queste cose e mostra chiari segni di ritenere sproporzionato tutto ciò. Questo caso è capitato nel mio reparto non più di una settimana fa. Ho consigliato di procedere ad una analisi clinica e psicologica e a successivo meeting coi familiari per poter presentare il caso al Comitato Etico per la Pratica Clinica. Questo caso dimostra la necessità che la legge non deve assolutamente rimanere prigioniera nelle mura ospedaliere, ma uscire nelle strade ed entrare nelle case.


o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo ci d di st i e r Luci ed ombre della m giu legge n. 219/2017 Chiara Bertoncello

Ricercatrice in Igiene Generale ed Applicata nell’Università di Padova

Condivido il timore che la nuova legge troverà difficoltà di applicazione almeno finché i suoi principi ispiratori non riusciranno a permeare la nostra società sia nella componente medica che “laica”; proprio allora, tuttavia, la legge stessa dimostrerà anche tutti i suoi limiti. Limiti che nascono dal motivo stesso per cui è stata concepita: intervenire giuridicamente nella relazione di cura. Che si sentisse la necessità di fare chiarezza su questi temi era noto, non solo fra la popolazione generale, ma fra i medici stessi, tanto che la legge riprende alcuni articoli del codice deontologico dei medici 2014. Il problema è all’ordine del giorno nelle organizzazioni sanitarie: spesso le direzioni dei servizi territoriali, le direzioni dei servizi ospedalieri e fin anche le direzioni sanitarie e generali, vengono chiamate in causa quali arbitri/mediatori, in caso di conflitti fra medici e malato, fra medici e famigliari e persino tra famigliari e malato. Certamente parte del problema giace nella visione positivistica della medicina. Tanto i medici quanto i cittadini non paiono avere uno sguardo obiettivo sulla realtà e la realtà di oggi (o forse dovremo dire la realtà di sempre) è che la medicina guarisce raramente. Nella maggioranza dei casi la cura consiste nel ritardare o rallentare la comparsa di malattie e delle loro complicanze. II ruolo del cittadino, prima, e malato poi diventa fondamentale: il medico deve non solo erogare delle prestazioni, ma aiutare la persona e sostenerla nell’adoperarsi per la propria salute. Ciò non può che avvenire in una relazione che sancisca un’alleanza per la salute, che possiamo anche chiamare relazione di cura, dove per

cura dovremmo intendere il prendersi cura della persona e tutelare e promuovere la sua salute, nell’accezione più ampia del termine, sia essa piena o limitata dalla malattia. Il ruolo del medico non è per questo meno rilevante, anzi, la sua figura, supportata dalle altre figure di professionisti sanitari, è una figura che si dimostra cardine nella prevenzione e gestione delle malattie, qualora si riesca ad instaurare una relazione di stima e fiducia reciproca. Da questa relazione non vanno esclusi a priori i famigliari, che condividono con il cittadino/malato la loro esistenza e possono rappresentare un valido sostegno, talora un mediatore indispensabile. Vanno evitati gli atteggiamenti estremi: relegare i famigliari al ruolo di meri esecutori di pratiche assistenziali o stabilire una relazione prevalente con i famigliari rispetto che con il malato. L’alleanza terapeutica o alleanza di cura è una relazione umana. È una relazione che come tutte si costruisce nel tempo: di volta in volta la conoscenza reciproca si arricchisce di particolari che consolidano l’alleanza. Il tempo di una relazione non si esaurisce dunque nel tempo di un colloquio, che è certamente tempo di cura, nel senso che la cura avviene attraverso la relazione, che comprende, ma non si esaurisce nella “spiegazione” (diremo usando i termini della legge, informazione). Qual è la figura medica in grado di stabilire tale relazione con il malato? Il malato potrebbe trovare questa relazione con il proprio medico di medicina generale, ma qual è il coinvolgimento di questa figura nel modello assistenziale di oggi? Gli atti “invasivi” vengono in genere attuati da specialisti; il malato vede spesso specialisti diversi, pur essendo seguito dallo stesso servizio, a volte

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questo succede anche nell’ambito di uno stesso episodio di ricovero, ad ognuno di essi deve raccontarsi “di nuovo” ed ognuno di essi agisce in autonomia fino ad assumere decisioni diverse. La soluzione può essere rappresentata dall’introduzione dell’obbligo per l’equipe di adeguarsi alla pianificazione condivisa delle cure stipulata tra un professionista ed un malato? Uno dei limiti della nuova normativa è quello di cercare soluzioni a problemi complessi, senza tenere in considerazione lo scenario che ha generato tali problemi. Senza agire sul contesto, senza ripensare in termini di relazione vera il rapporto medico-malato, senza riorganizzare i servizi al fine di favorire questa modalità di relazione, senza ripensare e dare spazio alla collegialità nelle scelte e negli interventi, non si fa che limitare, nei professionisti sanitari, la possibilità di sentirsi partecipi in questa relazione. La domanda che l’organizzazione dovrebbe porsi è: come realizzare uno scenario in cui i professionisti collaborino insieme per garantire la miglior condizione di salute possibile per quel malato, che presenta quel quadro clinico, che ha quei desideri, che vive in quella famiglia? La sfida che ci pone la società e che ci pongono anche le evidenze in campo medico è quella di rendere possibile una relazione fra medico e cittadino sano e tra medico e cittadino malato. La relazione idealmente inizia in un momento di piena salute e si basa su un confronto sincero sull’idea di salute e sulle modalità di salvaguardia della stessa che richiederà un impegno da parte di entrambi. In questo momento di incontro risulta allora naturale anche affrontare l’eventuale necessità della persona di redigere delle DAT. Come è possibile pensare di redigere tale atto se non nell’ambito di un colloquio esteso e profondo con una figura che non sia semplicemente un medico ma un “medico di fiducia” idealmente il “tuo medico”, per usare dei termini che sono facilmente comprensibili a tutti. La relazione prosegue poi alla diagnosi di una malattia e lo scambio si intensifica nelle ultime fasi della vita. La condivisione della strada percorsa, di successi ed insuccessi, ansie e momenti di felicità, rafforzano la relazione tra medico e malato, ma anche tra medico e famigliari e permette una maggiore e più serena Responsabilità Medica 2018, n. 2

Dialogo medici-giuristi

condivisione delle scelte. Se si riuscissero a realizzare le condizioni per cui tutto ciò avvenga, si otterrebbero certamente risultati positivi sia sotto il profilo di salute, sia sotto il profilo della soddisfazione di malato, famigliari e professionisti. In questo caso DAT, consenso, pianificazione condivisa delle cure, sedazione profonda, astensione dall’accanimento diagnostico-terapeutico, rientrerebbero nel loro naturale contesto: una relazione di cura autentica, un’alleanza basata sulla stima e la fiducia reciproca. Risultati positivi si otterrebbero anche in termini di sostenibilità: si ridurrebbero i contenziosi che sappiamo essere legati principalmente a questioni di fiducia e relazione tra medico e malato, medico e famigliari; si ridurrebbero gli atti di “medicina difensiva”, si ridurrebbero i trattamenti futili, che in quanto non utili rappresentano uno spreco delle risorse del sistema sanitario. Tutto ciò premesso, vanno riconosciuti gli aspetti positivi della legge: – Dare certezze giuridiche, tanto a malati e famigliari quanto ai medici, di fronte a problematiche che frequentemente si incontrano nelle organizzazioni sanitarie, le più note e dibattute pubblicamente sono il distacco dal respiratore, la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione “artificiali”, il ricorso alla sedazione profonda, ed infine il problema, ricorrente ma poco noto al “grande pubblico mediatico”, spesso volutamente tacitato: il problema del rifiuto all’emotrasfusione. – Aver stimolato l’interesse, a questo punto obbligato, dei medici verso le DAT, spingendoli ad aderire, in misura finora mai vista, alle proposte formative delle aziende sanitarie. Poiché non è possibile una formazione di tale genere che prescinda da una trattazione ampia delle problematiche di natura etica, la speranza è che questi momenti formativi inneschino un cambiamento culturale. Molto dipenderà anche dalle modalità e dai contenuti dei corsi: maggiore sarà la capacità di lavorare con le equipe e di lavorare sul campo, maggiore sarà la possibilità di far esplorare ai partecipanti le proprie dinamiche personali e relazionali oltre che professionali. Dal punto di vista delle organizzazioni sanitarie quali le Unità operative ed i Dipartimenti, la sfida


Luci ed ombre della legge n. 219/2017

sarà colta se verrà avviato un processo riformatore a partire dall’organizzazione del lavoro dentro i singoli servizi, ripensando al lavoro di equipe, alla condivisione tra tutti i professionisti sanitari: i medici spesso conoscono e sanno giudicare il quadro clinico, altri professionisti sanitari e gli operatori socio sanitari, che stanno a fianco di malati e famigliari, possono dare un contributo fondamentale nella conoscenza del malato nella totalità delle sue dimensioni umane. Nell’ambito dei livelli superiori di organizzazione sarà necessario favorire il cambiamento attraverso l’organizzazione di eventi formativi efficaci ed il supporto nella riorganizzazione dell’attività nei servizi, tesa a dare attuazione ai principi della norma, per quanto concesso dai vincoli imposti dalle politiche regionali. Se gli interventi di Regioni e Aziende sanitarie si limiteranno ad istituire “pratiche” quali redazione di regolamenti e procedure, accessi a banche dati (per DAT e pianificazione condivisa delle cure), non si realizzerà mai una piena applicazione della norma, anche per i limiti intrinseci del sistema (come la citata lenta introduzione del fascicolo sanitario elettronico e la legge sulla privacy). Infine sarà necessario prevenire alcuni rischi: DAT sottoscritte senza un adeguato confronto con un medico; trovare nelle DAT un alibi per evitare la relazione di cura (tanto da parte del medico che del cittadino/malato); in assenza di DAT sentirsi legittimati o obbligati, come medici e come organizzazioni sanitarie, ad eseguire interventi diagnosti o terapeutici senza una adeguata valutazione del caso, comprensiva dell’analisi del contesto famigliare e di vita, della previsione della gestione futura sia sotto il profilo sanitario che sociale e non da ultimo delle volontà espresse non in forma di DAT. Per concludere molti professionisti sanitari e molte associazioni di cittadini si stanno da tempo esprimendo per rivendicare il bisogno non tanto di norme che aggiustino questo o quel problema, per quanto rilevante per la vita dei cittadini bensì di immaginare un nuovo e più attuale servizio sanitario nazionale, dove si dia legittimità ed attuazione ai diritti ed ai doveri dei cittadini, riconoscendo che le risorse principali, quelle che possono garantire la qualità del sistema, sono rap-

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presentate in sanità dalle persone che vi operano, almeno finché sarà la relazione di cura e non la prestazione a dimostrare la maggiore efficacia nel produrre salute, pensando certo alla sostenibilità ma in termini di sfida.

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o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo ci d di st Le opportunità (oltre gli ostacoli) me iuri g della legge n. 219/2017 Silvia Pari

Dottore di ricerca

Forse è davvero una deformazione professionale dei giuristi quella di vedere, oltre ogni ostacolo, una opportunità, oltre ogni complessità, una occasione. E se, dunque, non possono non condividersi le parole di chi scrive, molto correttamente e concretamente, che la vera sfida di questa legge sarà la sua applicazione pratica in un universo, quello clinico-terapeutico, in cui molto spesso il Cartesiano prevale sull’Aristotelico, occorre tentare di avere un po’ di fiducia nella portata dirompente dei principi contenuti in questo nuovo dettato normativo. Della l. n. 219/2017 – entrata in vigore il 31 gennaio scorso – si parla comunemente come di una legge sul testamento biologico (o “biotestamento”) anche se, per la verità, a tale istituto è dedicato un solo articolo (l’art. 4 sulle “disposizioni anticipate di trattamento”). Ma ciò che va rilevato è come detto principio risulti inserito in un percorso coerente che attiene all’intera relazione di cura (disegnata come momento di incontro fra “l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”), partendo dal consenso informato per arrivare sino alla pianificazione condivisa delle cure. Ed è, questa, una novità di non poco rilievo, se si considera che la l. n. 219 è venuta a colmare una lacuna nell’ordinamento giuridico italiano e a dare certezza a principi che, sino a questo momento, erano stati consolidati soltanto a livello giurisprudenziale (o all’interno dei Codici di Deontologia Medica).

È, infatti, la prima volta che il legislatore dedica una norma di legge ad hoc al consenso informato, disegnandone ambiti, confini, valenze e contenuti. E lo fa in un riuscito (almeno dal punto di vista teorico) contemperamento fra opposti: il diritto per il paziente di essere compiutamente ed esaurientemente informato, qualificandosi il tempo della comunicazione tra medico e paziente come tempo di cura, ma, altresì, il diritto di rifiutare qualsivoglia informazione; la possibilità di coinvolgere i propri familiari o una persona di fiducia ma, altresì, il diritto di indicare espressamente la propria volontà di non condividere nessuna informazione riguardante il proprio stato di salute; il diritto di acconsentire al trattamento o accertamento diagnostico-terapeutico ma, correlativamente, il paritetico diritto di rifiutare qualsiasi accertamento o trattamento (ivi compresi quelli c.d. “salvavita”, inclusi l’idratazione e l’alimentazione artificiali), sussistendo, in ogni caso, l’obbligo per il sanitario di rispettare la volontà espressa dal paziente, senza che ciò comporti alcuna responsabilità (né di carattere civile né di carattere penale). Questa legge, in altre parole, istituzionalizza la cultura del reciproco rispetto e della collaborazione fra cittadini-pazienti e professionisti sanitari, ciascuno con il proprio bagaglio di valori, esigenze, istanze e competenze. Ed è proprio in questa logica che l’alleanza terapeutica, il vero valore nodale di questa disposizione normativa, si declina in una serie di previsioni ulteriori quali il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure in caso di prognosi infausta a breve termine; lo strumento della pianificazione condivisa delle cure per i pazienti portatori di una patologia cronica invalidante oppure caratterizza-

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ta da una veloce evoluzione con prognosi finale infausta; per arrivare, infine, alle disposizioni anticipate di trattamento per i casi di futura ed eventuale incapacità del soggetto di autodeterminarsi. Certo, lo sforzo culturale per il raggiungimento di questi obiettivi non è indifferente ma il legislatore ne è ben cosciente laddove afferma che, fra gli altri, la piena e corretta attuazione della legge deve necessariamente passare per il tramite di un momento informativo (a vantaggio dei cittadini-pazienti) nonché di un momento formativo (a vantaggio del personale sanitario, sia quello già operativo all’interno delle strutture, sia quello ancora in itinere, all’interno delle Università). Ciò che occorre trasmettere alle attuali generazioni di professionisti sanitari, ma anche e soprattutto a quelle future, sono la cultura della relazione e della comunicazione con il paziente nonché l’importanza e la centralità della terapia del dolore e delle cure palliative, in una rinnovata ottica che non veda nel paziente un antagonista bensì un alleato e che non interpreti l’impossibilità di intervenire su determinate patologie (per necessità o per volontà del paziente) come una sconfitta bensì come una manifestazione di rispetto e di adempimento del proprio dovere di cura (che è “curare” ma, nello stesso tempo, “prendersi cura”).

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r o t Osservatorio medico-legale a Osservatorio medico-legale er v ico s d le s e o Prospettive della responsabilità m ga le sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli-Bianco (l. n. 24/2017). L’apporto Medicolegale Massimo Montisci*, Alessia Viero** Sommario: 1. Aspetti generali della l. 8 marzo 2017 n. 24 (c.d. Gelli-Bianco). – 2. Innovazioni sul ruolo del medico legale. – 3. Ruolo del medico legale nella CTU. – 4. Conclusioni.

Abstract: La legge Gelli-Bianco (l. 8.3.2017, n. 24) è stata promulgata al fine di fornire una risposta più esaustiva al contemperamento degli interessi in tema di responsabilità penale e civile dell’esercente la professione sanitaria, tutela alla salute e contrasto alla medicina difensiva, nonché incremento della spesa pubblica in materia sanitaria. Nel novero di tale norma, risultano di particolare interesse per il medico-legale le innovazioni apportate circa il ruolo di tale figura professionale, tra cui la gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie, l’istituzione di Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente e dell’Osservatorio nazionale sulle buone pratiche cliniche, la partecipazione di un medico di fiducia du-

* Direttore U.O.C. Medicina Legale e Tossicologia. Direttore Scuola di Specializzazione in Medicina Legale – Università degli studi di Padova. Professore Ordinario Settore scientifico, MED/43 – Medicina Legale. Dipartimento di scienze Cardiologiche, Toraciche e Vascolari. Università degli studi di Padova. ** Dottoranda iscritta al Corso di Dottorato di Ricerca in Nanoscienze e Tecnologie Avanzate. U.O.C. Medicina Legale e Tossicologia. Dipartimento di scienze Cardiologiche, Toraciche e Vascolari. Università degli studi di Padova.

rante l’esecuzione del riscontro diagnostico e l’obbligo di tentativo di conciliazione. In tale contesto risultano altresì rilevanti i contenuti della norma medesima relativi alla nomina dei Consulenti Tecnici, alla Metodologia Accertativa e Criteriologia Valutativa in tema di responsabilità professionale medica ed alla colpa grave. The Gelli-Bianco law (Law 8th of March, 2017, No. 24) was promulgated in order to provide a more comprehensive response to the balancing of interests in terms of medical liability, health protection and defensive medicine, as well as increase in public health spending. In this law, the innovations regarding the role of the medico-legal expert include the management of the risk connected to the provision of health services, the establishment of Regional Centers for clinical risk management and of the National Observatory on good clinical practices, the participation of a trusted doctor during the performance of the autopsy and the obligation to attempt conciliation. In this context, the contents relating to the appointment of Technical Consultants, to the Ascertainment Methodology and Evaluation Criteria on the subject of medical professional liability are also relevant.

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1. Aspetti generali della l. 8 marzo 2017 n. 24 (c.d. Gelli-Bianco) La legge Gelli-Bianco (l. 8.3.2017, n. 24), relativa alle «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie», pubblicata in Gazzetta Ufficiale, serie Generale, n. 64 del 17 marzo 2017, è entrata in vigore il giorno 1 aprile 2017, a distanza di poco più di quattro anni dall’approvazione della l. n. 189/2012 (c.d. legge Balduzzi) con l’ambizione di fornire una risposta più esaustiva al contemperamento degli interessi immanenti alla materia, quali la responsabilità penale e civile dell’esercente la professione sanitaria, la tutela alla salute ed il contrasto alla medicina difensiva, nonché l’incremento della spesa pubblica in materia sanitaria. Il dibattito su tale legge, da subito oggetto di attenta riflessione da parte della dottrina, si è altresì arricchito del contributo interpretativo della Cassazione, anticipato dalla pubblicazione della preliminare notizia di decisione (n. 3/2017), in cui era riportata la questione di diritto esaminata dalla IV Sezione Penale nell’udienza del 20.4.2017 (Cass. n. 16140/2017) e successivamente esplicitato nella pronuncia n. 28187 dei Giudici della medesima Sezione depositata il 7.6.2017, che ha evidenziato una critica particolarmente severa e radicale al testo normativo, con «incongruenze interne tanto radicali da mettere in dubbio la stessa razionale praticabilità della riforma»1.

2. Innovazioni sul ruolo del medico legale Entrando nel merito dei contenuti della norma in riferimento alle innovazioni apportate circa il ruolo del medico legale, si evidenzia come esse siano relative alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie (artt. 1 e

Caputo, “Promossa con riserva”. La legge Gelli-Bianco passa l’esame della Cassazione e viene “rimandata a settembre” per i decreti attuativi, in Riv. it. med. leg., 2017, 724 s.

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Osservatorio medico-legale

4), all’istituzione di Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente e dell’Osservatorio nazionale sulle buone pratiche cliniche a cui i predetti Centri hanno il dovere di relazionare annualmente (artt. 2 e 3), alla partecipazione di un medico di fiducia durante l’esecuzione del riscontro diagnostico (art. 4) ed all’obbligo di tentativo di conciliazione (art. 8). In particolare, la rilevanza di una corretta gestione del rischio sanitario da parte delle Strutture Sanitarie o Socio-sanitarie pubbliche e private, quale elemento fondamentale per il rispetto della sicurezza delle cure, è correlata all’obbligo da parte di ogni Regione di istituire un Centro per la Gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente (art. 4). Trattasi di uno strumento per lo sviluppo e la creazione di un sistema integrato di gestione del rischio clinico il cui scopo è quello di assicurare il miglioramento continuo del grado di sicurezza del paziente e la riduzione del contenzioso. Ciascun Centro Regionale per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente, costituito da un’unità di coordinamento operativo e da un Comitato tecnico scientifico con funzioni consultive, dovrebbe prevedere la gestione diretta totale centralizzata dei sinistri sanitari giudiziari e stragiudiziali in ambito civile e raccogliere i dati sui rischi, eventi avversi e sul contenzioso da ciascuna Struttura Sanitaria o Socio-sanitaria pubblica e privata per poi trasmetterli annualmente, mediante procedura telematica unificata a livello nazionale, all’Osservatorio Nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità (art. 3). Tuttavia si specifica in merito che, in accordo con quanto previsto dalle modifiche alla l. 28 dicembre 2015, n. 208 in materia di responsabilità professionale del personale sanitario riportate nell’art. 16 della legge Gelli-Bianco, i verbali e gli atti connessi alla sopracitata attività di gestione del rischio clinico non possono essere acquisiti o utilizzati nell’ambito di procedimenti giudiziari. Relativamente alla possibilità, introdotta dall’art. 4 in tema di trasparenza dei dati, di partecipazione di un medico di fiducia durante l’esecuzione del riscontro diagnostico, si evidenzia come i familiari o altri aventi titolo del deceduto


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possano scegliere, quale medico di fiducia, uno specialista in medicina legale. Pertanto, il medico legale può esperire la propria consulenza tecnica di parte non solo in ambito penale, mediante partecipazione ad autopsia giudiziaria richiesta dal Pubblico Ministero in casi di decesso per cui sussista un’ipotesi di responsabilità professionale, ma anche in ambito civile mediante partecipazione al riscontro diagnostico ai sensi del predetto art. 4. Per quanto attiene invece all’obbligo di tentativo di conciliazione, di cui all’art. 8 della legge, si sottolinea come un’azione innanzi al Giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria implichi la preliminare proposta di ricorso ai sensi dell’articolo 696 bis c.p.c. dinanzi al Giudice competente, la quale costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento fatta salva la possibilità di esperire in alternativa il procedimento di mediazione (art. 5, comma 1 bis, d.l. 4.3.2010, n. 28). Ove la conciliazione non riesca o il procedimento di mediazione non si concluda entro il termine di 6 mesi dal deposito del ricorso ai sensi dell’articolo 696 bis c.p.c., la domanda di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria diviene procedibile, con deposito del ricorso di cui all’art. 702 c.p.c.

3. Ruolo del medico legale nella CTU Nella predetta legge è stato altresì discusso il ruolo del medico legale nella Consulenza Tecnica d’Ufficio, il cui operato secondo Cazzaniga «deve essere finalizzato allo scoprimento della verità a fini di giustizia». Di particolare interesse a tal proposito risultano i contenuti della norma relativi alla nomina dei Consulenti Tecnici, alla Metodologia Accertativa e Criteriologia Valutativa in tema di responsabilità professionale medica ed alla colpa grave. Per quanto attiene alla nomina dei consulenti tecnici d’ufficio, dei consulenti tecnici di parte e dei periti nei giudizi di responsabilità sanitaria, di cui all’art. 15, si specifica come, nel novero dei procedimenti civili e penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria implicanti la valutazione

di problemi tecnici complessi, l’autorità giudiziaria debba affidare l’espletamento della consulenza tecnica o della perizia non più ad un CTU operante in autonomia (o al più affiancato da ausiliario o da un co-consulente successivamente nominato), bensì direttamente a un collegio peritale costituito da uno specialista in medicina legale e a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento, anche in ottemperanza a quanto previsto dall’art. 62 del Codice di Deontologia Medica del 20142. Previa esclusione di conflitto d’interessi nello specifico procedimento o in altri connessi, i consulenti costituenti il predetto collegio devono essere scelti tra gli iscritti negli albi dei consulenti (art. 13 disposizioni per l’attuazione del c.p.c. e disposizioni transitorie, r.d. 18.12.1941, n. 1368) e dei periti (art. 67 norme di attuazione, coordinamento e transitorie c.p.p., d.l. 28.7.1989, n. 271). In tali albi devono essere indicate e documentate le specializzazioni degli iscritti esperti in medicina ed in sede di revisione degli stessi, al fine di garantire la scelta di consulenti qualificati, deve essere indicata l’esperienza professionale maturata dagli esperti, con particolare riferimento al numero degli incarichi conferiti e di quelli revocati. I medesimi albi devono essere aggiornati con cadenza almeno quinquennale, al fine di garantire, oltre a quella medico-legale, un’idonea e adeguata rappresentanza di esperti delle discipline specialistiche dell’area sanitaria, tra i quali scegliere per la nomina alla luce della disciplina interessata nel procedimento. A tal proposito, si evidenzia altresì l’importante risoluzione proposta dalla VII Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura «in ordine ai criteri per la selezione di consulenti e periti da parte dell’autorità giudiziaria in procedimenti che riguardano la responsabilità sanitaria» ed approvata dal Consiglio in data 25 ottobre 2017. In particolare, relativamente alle indicazioni sull’iscrizione ai predetti albi, si rileva come «lo snodo essenziale del livello qualitativo offerto dai professionisti

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FNOMCeO, Codice di deontologia medica, 2014.

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iscritti sia costituito dalla fissazione di un contenuto uniforme delle indicazioni informative previste dall’albo stesso per ciascun professionista e dall’individuazione di eventuali criteri selettivi per l’iscrizione all’albo anche differenziati in relazione a ciascuna specializzazione». Si prevede a tal proposito la definizione di «indicatori del profilo professionale in relazione alle diverse specializzazioni», funzionali a consentire al Giudice di operare una selezione consapevole basata sulla consultazione di una «sorta di fascicolo del perito o del consulente da parte dell’autorità giudiziaria». In ordine alle «raccomandazioni previste dalle Linee Guida elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché da Società scientifiche e da Associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie» a cui gli esercenti le professioni sanitarie devono attenersi nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, di cui all’art. 5 della legge, risultano meritevoli di menzione per il medico legale le Linee Guida Metodologico-accertative e Criteriologico-valutative in tema di responsabilità professionale medica elaborate dalla International Academy of Legal Medicine (IALM)3. Come affermato da Fiori4, nel novero della medicina legale è proprio il metodo, con la sua rigorosa scientificità, a costituire il «cemento» della disciplina e nelle sopracitate Linee Guida di respiro internazionale è appunto dettagliatamente descritta la metodologia accertativa e la criteriologia valutativa necessaria per l’analisi della condotta medica, la ricostruzione della valenza causale e la valutazione del danno. In particolare, durante l’analisi della condotta medica risulta meritevole di attenzione il riferimento alle fonti scientifiche secondo un

Ferrara et al., Malpractice and medical liability. European Guidelines on Methods of Ascertainment and Criteria of Evaluation (2013) 127 International journal of legal medicine, 545 ss.; Ferrara, Boscolo-Berto, Viel, Malpractice and medical liability. European state of the art and guidelines, Heidelberg, 2013. 3

Fiori, La medicina legale della responsabilità medica, Milano, 1999. 4

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Osservatorio medico-legale

preciso ordine gerarchico, unitamente alla consultazione specialistica, per l’identificazione della condotta reale da comparare alla condotta ideale al fine di identificare eventuali errori, inosservanze di doverose regole di condotta e/o deficit organizzativi-funzionali mentre per quanto attiene la valutazione del danno, giovasi evidenziare la sussistenza di Linee Guida Metodologico-accertative e Criteriologico-valutative in tema di accertamento del danno alla persona, anch’esse elaborate dalla International Academy of Legal Medicine (IALM)5. Secondo quanto disposto dall’art. 5 inoltre, in mancanza di Linee Guida, gli esercenti le professioni sanitarie si devono attenere alle buone pratiche clinico-assistenziali che si inseriscono nel più ampio contesto del consenso della comunità scientifica, ovvero dell’Evidence-Based Medicine. Per quanto attiene alla responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria, di cui all’art. 6 della legge, si evidenzia come la punibilità sia esclusa «qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia nel rispetto delle raccomandazioni previste dalle Linee Guida ovvero, in mancanza di queste, delle buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Per quanto attiene invece all’azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa, di cui all’art. 9, si evidenzia come essa possa essere esercitata nei confronti dell’esercente la professione sanitaria solo in caso di dolo o colpa grave successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale entro 1 anno dall’avvenuto pagamento. In tale contesto si evidenzia come il ruolo del medico legale sia quello di fornire al Giudice, a seguito di un’attenta analisi della condotta medica in conformità con le Linee Guida sopracitate, gli strumenti tecnici per la valutazione della sussistenza di colpa grave,

5 Ferrara et al., Padova Charter on personal injury and damage under civil-tort law (2016) 130 International journal of legal medicine, 1 ss.


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quali ad esempio l’identificazione di errori non scusabili per la loro grossolanità, l’assenza delle cognizioni fondamentali attinenti la professione, il difetto di perizia tecnica minima e la sussistenza di ogni altra condotta connotata da superficialità, disinteresse o trascuratezza per i beni primari affidati alle cure di prestatori d’opera.

4. Conclusioni In conclusione, si ricorda che la responsabilità, a cui ampiamente si fa riferimento nella Legge Gelli-Bianco oggetto di discussione, è «una categoria pregiuridica e metadeontologica, rappresentando l’essenza stessa della professionalità e della potestà di curare»6.

6 Barni, Responsabilità del medico tra deontologia e diritto, Milano, 2000.

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Aggiornato con la L. 124/2017 nonché con Cass. 392/2018, 7513/2018 e 7840/2018 - Contiene le Tabelle 2018 del Tribunale di Milano

Riccardo Mazzon Prima la legge 4 agosto 2017, n. 124, che

Sapere

professionale

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conferma i contenuti cardine degli articoli 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni; successivamente le pronunce della Suprema Corte n. 7840 del 29 marzo 2018, n. 7513 del 27

Il nuovo danno non patrimoniale Il nuovo danno non patrimoniale

39 29 no ito , il nti ne no

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marzo 2018 e n. 392 del 10 gennaio 2018, le quali consacrano l’importanza fondamentale delle cc.dd. Tabelle del Tribunale di Milano (che il giudice di merito deve autonomamente reperire anche attraverso riviste specializzate, trattatistica

Aggiornato con la L. 124/2017 nonché con Cass. 392/2018, 7513/2018 e 7840/2018 Contiene le Tabelle 2018 del Tribunale di Milano Riccardo Mazzon

se e. nel ato ito

o web!); ancora, il medesimo Tribunale di Milano aggiorna le proprie “Tabelle”, pubblicando nel contempo interessanti osservazioni riguardanti il danno da premorienza, il danno terminale, il danno da diffamazione nonché la liquidazione ex art. 96 c.p.c. terzo comma (c.d. “lite temeraria”): può esser, l’anno 2018, considerato “l’anno zero”, quanto al danno non patrimoniale? Il quadro attuale, in effetti, può dirsi compiuto e piuttosto sedimentato, consentendo così all’interprete di ben individuare quali siano i danni che compongono il danno non patrimoniale: dal c.d.

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