Responsabilità Medica 3/2019

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Luglio-Sattembre 2019

Diritto e pratica clinica 3 RESPONSABILITÀ MEDICA

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ISSN 2532-7607

RESPONSABILITÀ MEDICA

Diritto e pratica clinica IN QUESTO NUMERO Analisi di sette anni di liquidazione del danno da MedMal, di Giulio Ponzanelli L’assicurazione della responsabilità civile per i rischi sanitari, di Salvatore Monticelli L’aiuto al suicidio, di Teresa Pasquino L’attività medico-chirurgica in strutture pluripersonali complesse, di Luigi Cornacchia Quando il CTU vuole fare il Giudice, di Anna Aprile Giudice e Medico-legale: necessità di un dialogo tra funzioni distinte, di Roberto Pucella

Luglio-Settembre 2019 Rivista trimestrale diretta da Roberto Pucella

Pacini



INDICE Saggi e pareri Giulio Ponzanelli, Dalla legge Balduzzi (2012) alle nuove tabelle (2019): analisi di sette anni di liquidazione del danno da medical malpractice............................................................pag. 291 Patrizia Ziviz, Il danno non patrimoniale alla luce dei recenti orientamenti della Cassazione...» 297 Salvatore Monticelli, L’assicurazione della responsabilità civile per i rischi sanitari: profili generali..............................................................................................................................................» 303 Teresa Pasquino, L’aiuto al suicidio tra norme ordinarie e deontologia medica............................» 319 Luigi Cornacchia, L’attività medico-chirurgica in strutture pluripersonali complesse....................» 329 Gianluca Romagnoli, La bozza di regolamento ministeriale d’attuazione (art. 10, comma 6, l. 24/2017).........................................................................................................................................» 341

Giurisprudenza App. Ancona, 16 gennaio 2019, con nota di commento di Nadia Busca, La spinosa questione del danno da perdita della vita si mantiene nei binari fissati dalla Cassazione..........................» 353

Dialogo medico-giuristi Anna Aprile, Quando il CTU vuole fare il Giudice...........................................................................» 369 Roberto Pucella, Giudice e Medico-legale: necessità di un dialogo tra funzioni distinte..............» 373

Osservatorio medico-legale Barbara Bonvicini, Alessia Viero, Massimo Montisci, La valutazione della preesistenza nel danno alla persona...........................................................................................................................» 377

Osservatorio normativo e internazionale Tomáš Holčapek, Liability for Medical Malpractice in the Czech Republic......................................» 383 Petr Šustek, Informed consent in the Czech Republic......................................................................» 393 Martin Šolc, Therapeutic privilege as the last bastion of paternalism.............................................» 399



Saggi e pareri

Saggi e pareri

Dalla legge Balduzzi (2012) alle nuove tabelle (2019): analisi di sette anni di liquidazione del danno da medical malpractice*

g g sa re e a p

Giulio Ponzanelli

Professore nell’Università di Milano Sommario: 1. Una breve premessa. – 2. La legge c.d. Balduzzi e la scelta: l’estensione degli articoli 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni alla responsabilità sanitaria. La mancata implementazione dell’art. 138. – 3. Segue: …e l’interpretazione riservata dalla Corte di Cassazione all’art. 139. – 4. Le novità della legge 124 del 2017 e la nuova formulazione dell’art. 138 del Codice delle Assicurazioni: a) la pienezza del risarcimento; b) il riconoscimento di un risarcimento autonomo al danno morale; c) l’esaustività del risarcimento. – 5. Le decisioni della Cassazione del 2018 e del 2019: l’allontanamento dai principi fissati nelle Sezioni Unite del 2008. – 6. Le nuove tabelle: un confronto tra le tabelle milanesi e quelle capitoline. Alcune conclusioni.

Abstract: L’a. ripercorre la dinamica legislativa relativa alla misura del risarcimento dovuto al paziente in un caso di medical malpractice. La legge del 2012 che aveva voluto limitare il risarcimento equiparando i casi di responsabilità medica a quelli della circolazione auto e che era stata poi confermata dalla legge “Gelli-Bianco” del 2017, è stata poi superata dall’ultimo intervento legislativo, sempre del 2017, che ha sancito sia per medical malpractice sia per i danni derivanti da circolazione stradale il principio di integrale riparazione del danno. Solo per le lesioni di lieve entità rimane in vigore il sistema di limitazione del risarcimento che nelle originarie intenzioni si voleva estendere a tutte le lesioni.

The essay summarizes the laws related to the actual quantification of personal injuries suffered by a patient in case of medical malpractice. At the beginning, the law of 2012 (the so called “Balduzzi law”) aimed at introducing a cap in compensation by extending to medical malpractice cases the compensation criteria provided for car accidents. The choice was confirmed in February 2017 by the law called “Gelli-Bianco”, but in the same year it was overcome by a subsequent law that set the principle of full compensation of damages. Only for small claims that fall below 9 per cent of permanent disability the compensation cap is still effective, although in the original mind of the legislator that system was meant to have a wider application.

1. Una breve premessa Queste pagine riproducono, con l’ausilio di note essenziali, la relazione tenuta a Lecce il 17 maggio 2019 in occasione dell’incontro di studio organizzato da Unimeier su “La responsabilità medica e problemi aperti”.

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Il presente contributo vuole offrire una breve storia della dinamica risarcitoria in tema di responsabilità sanitaria a partire dalle modifiche introdotte con la legge c.d. Balduzzi del 2012, per giungere, Responsabilità Medica 2019, n. 3


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in un primo momento, ai nuovi equilibri risarcitori fissati prima dalla legge 124 del 2017, che ha previsto una nuova formulazione degli articoli 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni e infine alle decisioni della Terza Sezione della Corte di Cassazione del 2018 e del 2019, che, di fatto, hanno determinato un progressivo allontanamento da quanto fissato nelle decisioni delle Sezioni Unite dell’11 novembre 2008.

2. La legge c.d. Balduzzi e la scelta: l’estensione degli articoli 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni alla responsabilità sanitaria. La mancata implementazione dell’art. 138 Nella prima riforma dedicata al tema della responsabilità sanitaria (la legge c.d. Balduzzi) fu ovviamente affrontata e definita anche la questione della misura del risarcimento spettante al paziente. Uno dei punti più discussi nell’elaborazione di un progetto di riforma della responsabilità medica era infatti costituito dalla misura concreta del risarcimento spettante al paziente perché, oltre alla regola di responsabilità fatta gravare sulla struttura sanitaria o sull’esercente la responsabilità sanitaria, anche il livello del risarcimento goduto dal paziente veniva giudicato eccessivo, contribuendo a determinare, assieme alle altre criticità presenti nel settore sanitario, una pericolosa situazione di overdeterrence. L’estensione al danno da attività sanitaria dei criteri presenti per il settore r.c. auto (attraverso l’applicazione dei criteri di cui agli artt. 138 e 139 Codice delle Assicurazioni) e la rinunzia, quindi, ad applicare il generale statuto risarcitorio, voleva chiaramente proteggere il responsabile del sinistro (sia esso la struttura sanitaria, sia l’esercente la professione sanitaria): infatti, i criteri degli artt. 138 e 139 fissavano una limitazione del risarcimento e questo costituiva chiaramente un favor nei confronti di strutture sanitarie e medici. L’equiparazione tra pazienti danneggiati da attività medica e circolazione auto era però fonte di grandi perplessità, attesa la evidente diversità strutturale tra ospedale e strade ove si svolge la Responsabilità Medica 2019, n. 3

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circolazione auto. La deroga al generale principio di uguaglianza, che esclude la sussistenza di diversi statuti risarcitori quando si sia in presenza di un danno alla persona, può essere infatti giustificata solo dalla sussistenza di precisi interessi pubblici. Nel settore della circolazione auto, ove opera un regime di assicurazione obbligatoria bilaterale, l’interesse pubblico è evidentemente costituito dal livello dei premi che si vuole ragionevolmente tenere sotto controllo. Nel campo della responsabilità sanitaria, ove l’assicurazione non è bilateralmente obbligatoria, l’interesse alla protezione della classe medica e delle strutture sanitarie e il pericolo che si possa determinare una situazione di medicina difensiva molto pesante dal punto di vista economico per il sistema di sicurezza sociale, non pare in grado di giustificare un allontanamento dal principio di integrale riparazione del danno che, proprio perché non gode di una garanzia costituzionale, può essere modificato dal legislatore solo in presenza di interessi pubblici precisi e non controversi. Ciò chiarito, la limitazione del risarcimento è stata però concretamente applicata solo per le lesioni di lieve entità (quelle che valgono meno in termini di risarcimento e che quindi sono meno in grado di creare eccessive preoccupazioni alla classe medica e alle strutture sanitarie), perché l’art. 138 e la Tabella Unica Nazionale ivi prevista, che avrebbe dovuto fissare il risarcimento spettante alle lesioni di non lieve entità, non è mai stata implementata: il nostro legislatore, evidentemente, era fortemente preoccupato non solo dalle reazioni delle tante associazioni a difesa dei diritti delle vittime della strada che avrebbero criticato qualunque implementazione riduttiva del livello del risarcimento riconosciuto dalle tabelle giudiziali, ma anche, probabilmente, dal fatto che la compromissione dei diritti della salute nelle ipotesi di lesioni di non lieve entità, a differenza di quanto previsto per le lesioni di lieve entità, per le quali una concreta limitazione del risarcimento avrebbe potuto essere più accettata, non avrebbe dovuto comportare una riduzione del risarcimento. Il ritardo nell’implementazione della Tabella Unica Nazionale non riusciva però a mettere in discussione il razionale economico sotteso alla limitazione del risarcimento in un sistema di as-


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sicurazione bilateralmente obbligatoria, che era stato previsto anche per le lesioni di non lieve entità: com’è noto, la limitazione di risarcimento fu giudicata costituzionalmente legittima per le lesioni di lieve entità nel 2014, e solo per quelle non essendo stata implementata la Tabella Unica Nazionale, con la decisione n. 235 della Corte Costituzionale, quando appunto fu dichiarata la costituzionalità dell’art. 139 del Codice delle Assicurazioni.

3. Segue: …e l’interpretazione riservata dalla Corte di Cassazione all’art. 139 Anche la norma dell’art. 139, che rispetto alla formulazione originaria del 2005 aveva comunque subito alcune importanti modifiche, subisce un’interpretazione che rende più sicuro il riconoscimento di un risarcimento a favore del microleso. Si tratta, come anticipato, di una vera e propria limitazione del risarcimento per la quale le modifiche introdotte nel 2012 avevano reso in ogni caso necessario l’accertamento della lesione attraverso un esame oggettivo clinico strumentale. Insomma, la lesione, anche se lieve, deve essere accertata in modo rigoroso e non fatta dipendere troppo da criteri non rigorosi. La Cassazione, dal 2016 ad oggi (le ultime decisioni sono del 18 aprile 2019), ha ritenuto però che “l’accertamento medico non può essere imbrigliato con un vincolo probatorio che condurrebbe a dubbi non manifestamente infondati di legittimità costituzionale posto che il diritto alla salute è un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione e che la limitazione della prova della lesione del medesimo deve essere conforme a criteri di ragionevolezza”1.

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4. Le novità della legge 124 del 2017 e la nuova formulazione dell’art. 138 del Codice delle Assicurazioni: a) la pienezza del risarcimento; b) il riconoscimento di un risarcimento autonomo al danno morale; c) l’esaustività del risarcimento Il sistema della limitazione del risarcimento, applicato sia pure con le deviazioni dovute alla generosità di una giurisprudenza disponibile a riconoscere risarcimenti anche in assenza di una verifica rigorosamente oggettiva, viene completamente abbandonato, almeno per le lesioni di non lieve entità, nel 2017. La legge 124 riformula, infatti, il testo dell’art. 138, introducendo quattro importanti modifiche al pregresso sistema: a) il risarcimento deve essere pieno, cioè integrale, volto a rimettere il danneggiato nella stessa situazione in cui si trovava prima della commissione del fatto o volendo usare un linguaggio più caro all’analisi economica del diritto, nella stessa curva di indifferenza in cui versava il soggetto leso (questa espressione è stata poi ripresa anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, quando nel maggio 2018 hanno giudicato il caso di compensatio lucri cum damno, ritenendo che, come regola, il vantaggio economico percepito dal danneggiato in virtù di un titolo normalmente contrattuale ma anche legislativo, debba essere reso oggetto di un c.d. “defalco”, cioè di una diminuzione dell’importo spettante al soggetto leso, a titolo di risarcimento: il risarcimento non può infatti eccedere la perdita economica subita); b) per realizzare il risarcimento pieno, sarà utilizzato quanto elaborato dalle tabelle maggiormente seguite sul territorio nazionale; c) dovrà essere riconosciuta una valorizzazione autonoma alla componente morale del pregiudizio alla salute; d) il risarcimento determinato mediante l’applicazione di questi criteri deve essere esaustivo. Ovviamente si è in attesa dei decreti attuativi, che sono già in ritardo di oltre un anno rispetto alla previsione della loro entrata in vigore.

Si tratta di Cass.,18.4.2019, nn.10816 e 10819.

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Comunque, il nuovo quadro legislativo, si sottolinea, ha introdotto, rispetto al 2012, scelte diverse, con l’adozione di un sistema di integrale riparazione del danno. Il favor che si voleva riconoscere alla classe medica mediante l’applicazione delle norme previste per il settore r.c. auto si è, quindi, dissolto nello spazio di soli cinque anni: da una limitazione ad un risarcimento pieno, con la chiara consapevolezza di voler eliminare e/o ridurre i diversi statuti risarcitori esistenti. Il favor per le strutture sanitarie e per l’esercente la professione sanitaria è, quindi, rimasto per le sole lesioni di lieve entità.

5. Le decisioni della Cassazione del 2018 e del 2019: l’allontanamento dai principi fissati nelle Sezioni Unite del 2008 Quanto fissato nella legge n. 124 del 2017, era in fondo già stato recepito dalla giurisprudenza italiana con le importanti decisioni rese tra il 2014 e il 2016, nelle quali non solo si era sottolineata la necessaria valorizzazione risarcitoria del “dentro” e del “fuori”, cioè del danno morale e del danno dinamico relazionale, assai vicino al pregiudizio chiamato esistenziale, ma si erano denunziati i limiti di un’interpretazione troppo rigida delle tabelle giudiziali. La giurisprudenza ha avuto, poi, modo di chiarire, anche meglio, la sua posizione nel 2018: prima con la sentenza 9012, poi con l’ordinanza 7513 (l’ordinanza c.d. decalogo) 3 e infine nel 2019 con la decisione 27884. Il danno morale deve essere apprezzato risarcito in modo autonomo e non confuso all’interno di una macrocategoria di danno non patrimoniale, il cui limite è quello di essere omnicomprensiva , pur in presenza di conseguenze lesive che si atteggiano diversamente. Si rivendica quindi l’esigenza di una valorizzazione

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autonoma del pregiudizio morale e questo pone delicati problemi con le tabelle milanesi che vengono oggi prevalentemente utilizzate in Italia per la liquidazione del danno alla persona e alle quali a partire dal 2011 la giurisprudenza della Corte di Cassazione attribuisce una validità paranormativa.

6. Le nuove tabelle: un confronto tra le tabelle milanesi e quelle capitoline. Alcune conclusioni Ad oggi, prima del “revirement” giurisprudenziale del 2018 e del 2019 e soprattutto di quello normativo, le tabelle giudiziali maggiormente applicate, per garantire certezza e giustizia, erano quelle milanesi, strutturate sulla centralità di un’unica voce di danno risarcibile, appunto quella del danno non patrimoniale e ciò sul presupposto di base accolto dalle Sezioni Unite dell’11 novembre 2008 che la categoria del danno non patrimoniale fosse unitaria e al cui interno erano state però ricondotte le valorizzazioni economiche del danno biologico e del danno morale. Le Tabelle di Milano, proprio perché non prevedono un autonomo meccanismo di calcolo del danno morale, rischiano quindi prepotentemente di non essere più in sintonia con i principi del diritto vigente e di quello vivente5. A fine 2018 sono state approvate anche le nuove tabelle romane le quali fissano in termini quantitativi un risarcimento più alto di quello milanese e offrono una autonoma valorizzazione al pregiudizio morale. Il sistema di determinazione del danno alla persona nel settore della responsabilità medica conferma quindi tutte le incertezze esistenti in materia, in questa costante contrapposizione non solo tra giurisprudenza e legislazione, ma tra scelte diverse di politica del diritto da parte del legislatore. Il quale nel 2012 fa riferimento ai criteri previsti nel Codice delle Assicurazioni perché pienamente consapevole che quei criteri limitano il risarci-

Cass., 17.1.2018, n. 901, in Foro.it., 2018, I, 923 ss.

Cass., 27.3.2018, n.7513 (ord.), in Nuova giur.civ. comm., I, 2018, 836.

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Cass., 31.1.2019, n. 2788, in Nuova giur. civ. comm., 2019, I, 279.

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Molto critica delle soluzioni accolte nelle tabelle milanesi è Trib. Roma, 7.2.2019, in Nuova giur. civ. comm., 2019, I con commento di Gagliardi, Il nuovo sistema del danno non patrimoniale e la “guerra delle tabelle”.

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mento del danno e quindi offrono una maggiore protezione alla posizione della struttura ospedaliera e dell’esercente la responsabilità sanitaria; poi cambia l’art. 138 nel 2017, elimina la limitazione di risarcimento e afferma che, almeno per le lesioni di non lieve entità, il risarcimento deve rispettare il principio di uguaglianza e che quindi statuti risarcitori differenziati non possono essere più utilizzati.

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Saggi e pareri

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Il danno non patrimoniale alla luce dei recenti orientamenti della Cassazione

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Patrizia Ziviz

Professoressa nell’Università di Trieste Sommario: 1. Oltre la nozione unitaria di danno non patrimoniale. – 2. Il danno morale. – 2.1. La liquidazione del danno morale. – 2.2. L’accertamento medico legale. – 3. Il danno dinamico-relazionale. – 4. Il danno biologico.

Abstract: La Suprema Corte riconosce la necessità di scomporre la nozione di danno non patrimoniale nelle voci descrittive del danno morale e del danno dinamico-relazionale. The Italian Supreme Court states that non-pecuniary damages must be splitted into moral and relational damage.

1. Oltre la nozione unitaria di danno non patrimoniale Grande scalpore hanno suscitato presso gli interpreti i vari interventi attraverso i quali – a partire dallo scorso anno – la Cassazione si è pronunciata sulla nozione di danno non patrimoniale, con l’intento mettere la parola fine alle diatribe che, nel corso dell’ultimo decennio, si sono intrecciate in ordine al riconoscimento della natura – unitaria oppure composita – di un simile pregiudizio. Particolare rilievo assumono, da questo punto di vista, le indicazioni formulate dai giudici di legittimità nella sentenza n. 901/2018 e nell’ordinanza n. 7513/2018, con le quali – confermando una linea di lettura già, a varie riprese, praticata in passato dalla Suprema Corte – si riconosce la duplice essenza del danno non patrimoniale. In buona

sostanza, si tratta di prendere in considerazione, da un lato, il danno dinamico-relazionale, quale modificazione peggiorativa della vita della vittima e, dall’altro lato, il profilo interiore del danno, corrispondente al patimento morale in tutti i suoi aspetti: quali dolore, vergogna, rimorso, disistima di sé, malinconia, tristezza. La sofferenza interiore e la modificazione negativa delle dinamiche relazionali rappresentano – in tale prospettiva – danni diversi e autonomamente risarcibili. A fronte di una simile affermazione alcuni interpreti hanno parlato di nomofilachia tradita e di palese negazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite nel novembre del 2008. In verità, la lettura attenta di quelle pronunce mette in evidenza una realtà ben diversa: anche nelle sentenze di San Martino troviamo, infatti, evidenziata una distinzione tra le varie voci non patrimoniali, con la precisazione che tale diversificazione assume una valenza puramente descrittiva. Lo scopo di una simile specificazione è, palesemente, quello di impedire che per le distinte voci descrittive appartenenti all’area non patrimoniale possa essere affermata una differenziazione disciplinare (come invece avveniva prima delle “sentenze gemelle” del 2003, quando il raggio di azione dell’art. 2059 c.c. era limitato al danno morale). Ora, è evidente che l’applicazione di una regola risarcitoria univoca ben può essere perseguita anche a fronte del riconoscimento circa l’esistenza di pregiudizi riconducibili a differenti ambiti fenomenologici.

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Una distinzione del genere non si traduce, infatti, nel rifiuto della più generale categoria del danno non patrimoniale: alla quale, intesa nel suo complesso, andrà applicata la regola (costituzionalmente reinterpretata) dell’art. 2059 c.c. Così conclude, del resto, la stessa Cassazione, che – nella sentenza n. 901/2018 – sottolinea come l’attribuzione di una natura unitaria al danno non patrimoniale, da parte delle Sezioni Unite, valga a sancire che è unica la disciplina di riferimento per tale voce del pregiudizio, a prescindere da quale sia il diritto costituzionalmente protetto dalla cui lesione la compromissione trae origine. Il riconoscimento – da parte della Suprema Corte – circa l’esistenza di distinte componenti dell’area non patrimoniale viene a rispecchiare la necessità di superare la generica definizione del pregiudizio attraverso la sola qualifica della “non patrimonialità”: dato, questo, espresso in termini negativi, e tale dunque da non permettere l’identificazione delle caratteristiche che connotano le compromissioni da prendere in considerazione. Da questo punto di vista, si tratta di fare riferimento a fenomeni i quali, prima di entrare nella dimensione giuridica, si manifestano nella realtà concreta; nell’ambito della quale mostrano una sostanziale differenza sul piano ontologico. Attraverso la considerazione di due componenti distinte del pregiudizio non si corre il rischio di determinare duplicazioni risarcitorie. Una volta accertata una determinata compromissione, questa appare riconducibile a una – e una sola – area del danno; per cui, ai fini liquidatori, non si presta per alcun verso a essere conteggiata più volte. A ben vedere, tale pericolo si corre semmai a fronte dell’applicazione di una nozione di danno non patrimoniale tratteggiata esclusivamente in maniera negativa: la quale, nell’impedire di porre l’accento sulle conseguenze pregiudizievoli dell’illecito, finisce per produrre il riconoscimento automatico – tramite la logica presuntiva – della sussistenza di un pregiudizio, replicabile a fronte di ciascuna singola lesione ove l’illecito assuma carattere plurioffensivo.

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2. Il danno morale Per quanto riguarda la componente morale, si tratta di fare riferimento a quelle compromissioni tradizionalmente descritte dalla giurisprudenza nei termini di patema d’animo. In buona sostanza, bisogna tener contro di tutte quelle sofferenze di carattere interiore che risultano essere state provocate dall’illecito. Con riferimento al turbamento emotivo, controversa è apparsa, in passato, la definizione della linea di demarcazione tra danno morale e danno psichico, quale specie di danno biologico. Sono note, a tale riguardo, le affermazioni delle Sezioni Unite, secondo cui la sofferenza soggettiva potrebbe essere liquidata autonomamente – sotto la veste di danno morale – ove confinata a livello di turbamento dell’animo e dolore intimo; mentre nel caso in cui si verifichino degenerazioni patologiche, tale pregiudizio rientrerebbe nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente. Sulla scorta di tali considerazioni, è stata prospettata dalle sentenze di San Martino la perdita di autonomia di quest’ultima voce nelle ipotesi in cui il torto coinvolga l’integrità psico-fisica della persona. È proprio in relazione a quest’ultima conclusione che emergerebbe, allora, un cambiamento di prospettiva: considerato che oggi i giudici di legittimità pervengono a riconoscere l’autonomia del danno morale in ogni caso, anche laddove le sofferenze di carattere emotivo risultino indotte da una lesione dell’integrità psico-fisica. Una conclusione di quest’ultimo tipo appare del tutto condivisibile, posto che va respinta l’idea – perorata dalle Sezioni Unite – secondo cui il rapporto tra pregiudizio morale e pregiudizio psichico andrebbe configurato nella logica dell’assorbimento: sicché il danno biologico sarebbe destinato a risucchiare nel suo alveo il danno morale ogni volta che la sofferenza sia tale da determinare una patologia. Basta osservare che il turbamento emotivo – prima di costituire la possibile fonte di una lesione alla salute psichica – rappresenta (in quanto generato da un illecito) l’effetto della violazione di una situazione giuridica autonomamente rilevante; ad esso va quindi attribuita la veste di


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danno-conseguenza, risarcibile quale pregiudizio di carattere morale. Laddove la sofferenza assuma una consistenza tale da incidere negativamente sull’integrità psichica del soggetto, il torto determina altresì una lesione alla salute; in tal caso, si tratterà di garantire il ristoro del pregiudizio dalla stessa generato, quale danno distinto e ulteriore. La sofferenza emotiva, quale che sia l’entità e la durata della stessa, va sempre ricondotta – sul piano giuridico – all’area morale del danno; il patema d’animo – quand’anche generi una patologia di ordine psichico – non può trasformarsi in un danno biologico, posto che quest’ultimo non è incarnato dalla lesione (psichica), bensì dalle compromissioni che quest’ultima determina nella sfera esterna del soggetto. Un ragionamento del genere trova pieno riscontro nella definizione normativa del danno biologico: la quale risulta comprensiva della negativa incidenza della menomazione sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, ma non fa alcun riferimento alle ripercussioni riguardanti la sfera emotiva di quest’ultimo. Le sofferenze emotive indotte dalla lesione alla salute rappresentano – in definitiva – un pregiudizio distinto dal danno biologico. E, da questo punto di vista, non si prestano allora a essere considerate quale elemento di personalizzazione di quest’ultimo: personalizzare significa non già trasmutare un certo tipo di fenomeno dannoso (sofferenza interiore) in un altro genere di compromissione (modifica della sfera esterna), bensì aumentare (o diminuire) la liquidazione relativa a una determinata posta del pregiudizio in ragione delle caratteristiche individuali del soggetto leso. Tale conclusione appare confermata da quelle indicazioni dei giudici di legittimità che stigmatizzano la considerazione del danno morale in termini di personalizzazione del danno biologico, posto che quest’ultima “riguarda le eccezionali conseguenze dannose che, rispetto a quelle (da ritenere) incluse nello ‘standard’ statistico sintetizzato dal punto di invalidità, permettano e anzi, quando del caso, impongano un incremento rispetto a quel range” (Cass. n. 2788/2019). La Cassazione è – dunque – pervenuta a riconoscere apertamente che, anche laddove la sofferenza emotiva sia indotta da una lesione della salute,

la compromissione da prendere in considerazione non muta la sua natura. La conclusione – sottolineata dall’ordinanza n. 7513/2018 – è che, in caso di lesione alla salute, costituiscono componente autonoma rispetto al danno biologico i pregiudizi incarnati dalla sofferenza interiore, i quali “non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente”. 2.1. La liquidazione del danno morale Vari interpreti hanno stigmatizzato le conseguenze di simili affermazioni sul piano della liquidazione del danno, paventando il rischio di duplicazioni risarcitorie. In realtà, non sussiste alcun pericolo del genere laddove si proceda a un’attenta verifica circa lo strumento utilizzato ai fini della quantificazione del pregiudizio, onde valutare se entrambe le componenti – morale e dinamico/relazionale – vengano prese in considerazione dallo stesso. Nessun problema sussiste per quanto riguarda le tabelle di Milano che – dopo le sentenze di San Martino – sono state modificate al fine di tener contro di entrambe le componenti del danno non patrimoniale derivante dalla lesione alla salute. La conversione in denaro delle stesse avviene, com’è noto, tramite la considerazione di un impatto standard; sicché si tratterà di far pesare in termini di personalizzazione l’eventuale effetto pregiudizievole che, sia sul piano morale che sul quello dinamico-relazionale, venga a superare tale soglia. La sentenza n. 901/2018, dal canto suo, sottolinea come la diversificazione tra sofferenza interiore e compromissioni relazionali resti ferma anche nelle tabelle normative, previste dall’art. 139 c. ass. in materia di micropermanenti (prodotte da sinistri stradali o responsabilità medica), nonché dall’ancora inattuato art. 138 c. ass.: norme entrambe di recente riformate ai fini di sancire l’esaustività delle relative tabelle, deputate a misurare il danno non patrimoniale derivante da lesione alla salute complessivamente inteso. Si tratta, oggi, di chiedersi se il metodo di calcolo previsto dalle due disposizioni, così come risultante dall’ultimo ritocco legislativo, permetta di fornire un effettivo riscontro anche per quanto riguarda la componente Responsabilità Medica 2019, n. 3


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morale del pregiudizio. Una risposta negativa va senz’altro formulata relativamente alla tabella delle micropermanenti. I valori del punto di invalidità da quest’ultima previsti (in passato determinati prendendo a riferimento la sola componente biologica) avrebbero dovuto essere incrementati nel momento in cui è stato modificato il fenomeno oggetto di misurazione, includendo anche la componente morale; invece, pur essendo stato esteso il raggio di azione della tabella, è rimasto invariato il precedente metodo di calcolo. Una simile lacuna appare palese alla luce di un confronto con le previsioni contenute nell’art. 138, dove il legislatore ha stabilito un incremento del valore del punto di invalidità volto a considerare il versante del pregiudizio relativo alla sofferenza. Per quanto riguarda le micropermanenti, le sofferenze emotive vengono a trovare riscontro, secondo quanto stabilito dalla lettera della norma, soltanto qualora la menomazione causi una sofferenza psico-fisica di particolare intensità. In definitiva, nessuna considerazione appare riconosciuta alla componente standard del pregiudizio: segnando così un passo indietro rispetto alla disciplina previgente, all’intero della quale la personalizzazione faceva generico riferimento alle condizioni soggettive della vittima, permettendo quindi al giudice di tener contro (sia pure entro i limiti del tetto normativo) del danno morale complessivamente inteso. La liquidazione della componente morale appare – d’altro canto – incompleta anche per quanto concerne la tabella della macrolesioni. Se, da un lato, è previsto che il valore del punto venga incrementato al fine di considerare la quota standard del danno morale, una lacuna si registra a livello di personalizzazione: la norma prevede, infatti, che il risarcimento possa essere incrementato fino al 30% esclusivamente in relazione alle compromissioni di specifici aspetti dinamico-relazionali, e non già – come avviene in seno all’art. 139 – qualora la menomazione causi una sofferenza di particolare intensità. 2.2. L’accertamento medico-legale La componente morale, secondo quanto apertamente sottolineato dai giudici di legittimità, risulta estranea alla determinazione medico-legale del grado di invalidità permanente. Si tratta, quindi, Responsabilità Medica 2019, n. 3

Saggi e pareri

di interrogarsi sul ruolo che il medico legale può rivestire ai fini dell’accertamento circa la sussistenza del danno morale. A tale riguardo va rammentata la chiara presa di posizione della SIMLA, che ha prodotto un documento attraverso il quale rivendica una specifica competenza del medico legale con riguardo alle sofferenze derivanti da lesione dell’integrità psico-fisica (precisando, in maniera del tutto condivisibile, che altre forme di sofferenza, non correlate alla lesione della salute, esulano completamente dall’ambito di competenza medico-legale). Il fenomeno da prendere in considerazione è descritto nei termini di “stato emotivo della persona, temporaneo e/o permanente, produttivo di percezione di disagio/degrado/dolore, rispetto alla condizione anteriore”. Viene qui in evidenza un dato peculiare, che caratterizza la sofferenza morale legata alla lesione alla salute; si tratta del patimento legato al proprio degrado, inteso come condizione del soggetto che – a causa della menomazione patita – non è più in grado di svolgere la propria vita come in precedenza. Rispetto a un pregiudizio del genere, il medico legale verrebbe a svolgere un compito di identificazione accertativa e descrizione quali-quantitativa, attraverso consolidati criteri di ripetibilità. La possibilità che il medico legale venga ad esprimere la graduazione della sofferenza entro una scala quantitativa – che distingua vari livelli della stessa compresi tra lieve ed elevato – è suscettibile di rappresentare un utile supporto per il giudice. Si tratta, infatti, di indicazioni che consentono a quest’ultimo di stabilire se si debba o meno procedere ad una personalizzazione dei profili morali del pregiudizio, una volta tenuto conto dell’eventuale quota standardizzata dello stesso compresa nel calcolo tabellare.

3. Il danno dinamico-relazionale Per quanto riguarda la componente dinamico-relazionale del danno non patrimoniale, i giudici di legittimità segnalano – nell’ordinanza n. 7513/2018 – come l’utilizzo di tale espressione compaia per la prima volta nell’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000: con lo scopo di precisare che la tabella delle menomazioni (sulla base delle quali stimare


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Danno non patrimoniale

il danno biologico indennizzabile dall’Inail) deve essere comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali, da intendersi quali ripercussioni sulla vita quotidiana della vittima. La medesima espressione compare, poi, nell’art. 5 della l. n. 57/2001: norma che prevede l’emanazione di una tabella delle menomazioni in seno alla quale – secondo i giudici di legittimità – il riferimento alla compromissione degli aspetti dinamico-relazionali viene utilizzato come perifrasi della nozione di danno biologico. La scelta della Cassazione di utilizzare un’etichetta del genere – effettuata nel (non dichiarato) intento di evitare il richiamo a una voce come quella del danno esistenziale – è opzione suscettibile di generare ambiguità di vario tipo. Non si tratta soltanto di evocare un possibile aggancio al danno alla vita di relazione, quale voce appartenente a un passato oramai remoto: ove il risarcimento veniva ricollegato all’attribuzione di una veste latamente patrimoniale al pregiudizio. Soprattutto, si finisce per fare riferimento a un pregiudizio che – a livello normativo – risulta essere stato radicato nel campo specifico dell’illecito lesivo della salute, con lo scopo si sancire un’ampiezza della nozione di danno biologico atta a comprendere le ripercussioni esistenziali della lesione dell’integrità psico-fisica (sicché, a fronte di quest’ultima, non potrebbe essere liquidato, oltre al danno biologico, anche un distinto danno esistenziale). Oggi, invece, all’etichetta viene attribuita valenza trasversale rispetto a tutti i campi dell’illecito (per cui, in caso di lesione del rapporto familiare, i giudici di legittimità precisano che il danno dinamico-relazionale non è un quid pluris rispetto al danno parentale, bensì rappresenta una componente dello stesso: v. Cass. n. 23469/2018). Il fatto che, parlando di danno dinamico-relazionale, i giudici di legittimità intendano comunque riferirsi al danno esistenziale è esplicitato dalla sentenza n. 901/2018, la quale riconosce la sovrapposizione tra due concetti. Per cui il danno esistenziale, oggi denominato danno dinamico-relazionale, corrisponde al “pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri,

inducendolo a scelte di vita diversa quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”.

4. Il danno biologico La classificazione bipartita dell’area non patrimoniale sembra collidere con la tripartizione – scandita, in passato, dalla giurisprudenza – nelle voci del danno morale, biologico ed esistenziale. Si tratta, in verità, di un contrasto solo apparente, legato alla circostanza che quest’ultima classificazione appare costruita sulla base di criteri non omogenei. Sul piano fenomenologico ricorre una contrapposizione, da un lato, tra danno morale, riguardante la dimensione interiore del pregiudizio, e, dall’altro lato, danno biologico e danno esistenziale: entrambi riguardanti la sfera esterna della persona. A differenziare queste ultime due voci vale esclusivamente il tipo di interesse leso: che in caso di danno biologico è quello alla salute, mentre la violazione di altri interessi costituzionalmente protetti è suscettibile di determinare un danno di carattere esistenziale. Tali considerazioni sembrano spingere verso la conclusione secondo cui sia il danno esistenziale che il danno biologico verrebbero, in tutto e per tutto, a coincidere con il pregiudizio di carattere dinamico-relazionale. Ora, se del tutto condivisibile può risultare la sovrapposizione tra danno esistenziale e danno dinamico-relazionale, più problematica appare la coincidenza tra quest’ultimo e il danno biologico. Se non vi è dubbio che il danno biologico comprenda le compromissioni di carattere dinamico-relazionale, altro è affermare che con queste ultime esso venga pienamente a corrispondere. Un’indicazione del genere finisce, infatti, per obliterare quella che in passato veniva identificata nei termini di componente statica del danno biologico. Rammentiamo che il legislatore identifica il danno biologico (anche) nei termini di lesione all’integrità psico-fisica: riferimento da leggersi alla luce del principio generale, secondo cui ogni pregiudizio non patrimoniale rappresenta una conseguenza della lesione, e non può identificarsi con quest’ultima. Considerato che la lesione alla salute incide sul corpo e/o sulla psiche della Responsabilità Medica 2019, n. 3


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vittima, il danno viene a concretizzarsi, anzitutto, nella diminuita funzionalità degli stessi. È tale disfunzionalità a incarnare quella che in passato veniva definita componente statica del pregiudizio; cui andrà a sommarsi la proiezione negativa che la menomazione stessa produce nella vita quotidiana della vittima e, più ampiamente, nella sua dimensione dinamico-relazionale. Ciò significa che un danno biologico potrebbe ben essere liquidato a fronte di un’accertata menomazione anatomo-funzionale, anche a prescindere dalla ricorrenza di ulteriori riflessi dinamico-relazionali dalla stessa indotti. Per quel che concerne il profilo dinamico-relazionale della lesione alla salute, l’ordinanza n. 7513/2018 distingue: (a) le ripercussioni comuni a tutte le persone che dovessero patire quel tipo di invalidità, le quali non giustificano alcun aumento del risarcimento di base; (b) le compromissioni peculiari del caso concreto, che andranno risarcite in sede di personalizzazione ove venga offerta prova dell’effettivo pregiudizio. Mentre queste ultime devono essere oggetto di specifica prova, e solo in tal caso il giudice potrà tenerne conto ai fini di un incremento della liquidazione, le compromissioni di carattere standard potranno essere date per scontate, sulla base di un ragionamento di carattere presuntivo. Resta da analizzare la conclusione, cui pervengono i giudici di legittimità, quanto all’inclusione delle compromissioni dinamico-relazionali di carattere ordinario all’interno del calcolo tabellare. Bisogna interrogarsi sul significato che assume il riferimento al valore medio del danno relazionale, alla luce della constatazione che – ad ogni valore percentuale del punto – corrispondono menomazioni di carattere variegato. A parità di percentuale di invalidità, potremmo – in effetti – trovarci di fronte a menomazioni suscettibili di riflettersi con portata diversificata sul piano dinamico-relazionale. Il che spinge a chiedersi se – nei casi in cui un certo tipo di menomazione comporti, ancorché sul versante ordinario, una ripercussione relazionale di particolare impatto – il valore tabellare si presti a riflettere in maniera esaustiva la componente standard di tale pregiudizio. Più in generale non sembra opportuno operare una distinzione tra attività ordinarie e straordiResponsabilità Medica 2019, n. 3

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narie, che finirebbe per premiare sul piano della personalizzazione soltanto i soggetti dediti a manifestazioni di sé ricercate e stravaganti. Non è il tipo di attività a essere rilevante ai fini di un incremento risarcitorio, bensì il peso che la stessa assume nell’economia di vita della vittima. Si tratta di valutare se l’impegno, a tale riguardo, vada al di là dell’ordinario: rendendosi in tal caso senz’altro indispensabile una considerazione in termini di personalizzazione. Del tutto condivisibili, su questo piano, risultano perciò le indicazioni formulate dai giudici di legittimità nella sentenza n. 24155/2018 ove si afferma che costituisce “pregiudizio peculiare quella limitazione del ‘facere’ areddituale che risulti connessa a un interesse o un’attività che trasmodi dal compimento degli atti della vita quotidiana o dalle attività comunemente riferibili ad un soggetto in buone condizioni di salute e di quella stessa età, per assumere un rilievo del tutto assorbente nella vita dinamica e relazionale del soggetto”. Per cui, a titolo di esempio, i giudici di legittimità definiscono come ordinario il pregiudizio arrecato dall’impossibilità di svolgere una pratica sportiva amatoriale e recarsi in palestra, mentre diviene peculiare nel caso in cui il soggetto colpito dimostri di praticare lo sport a livello agonistico o di dedicare agli esercizi in palestra un costante e prolungato impegno quotidiano.


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L’assicurazione della responsabilità civile per i rischi sanitari: profili generali*

g g sa re e a p

Salvatore Monticelli

Professore nell’Università di Foggia Sommario: 1. I problemi e le finalità sottese alla regolamentazione dei profili assicurativi contenuti nella legge 8 marzo 2017, n. 24: considerazioni introduttive. – 2. I soggetti destinatari dell’obbligo assicurativo. – 3. La quaestio dell’operatività temporale degli obblighi assicurativi introdotti dalla l. n. 24/2017. – 4. L’azione diretta nei confronti dell’assicurazione ed il Fondo di garanzia. – 5. Il contenuto minimo delle polizze in materia sanitaria e l’idoneità di esso ad individuare il modello negoziale “meritevole” e/o “idoneo” secondo le Sezioni Unite. – 6. Il problema dell’incidenza del modello di cui all’art. 11 della l. n. 24/2017 sulle polizze difformi. – 7. Nullità della clausola claims made e conformazione del contratto. – 8. I nodi problematici e le criticità in materia assicurativa della l. n. 24/2017. – 9. Le trattative con il danneggiato e l’obbligo di comunicazione al danneggiante.

Abstract: La l. 8.3.2017, n. 24, c.d. Legge Gelli, ha, quanto al profilo assicurativo, l’ambizione di determinare i connotati essenziali dell’assicurazione della responsabilità civile per i rischi sanitari e di delineare un sistema organico; tuttavia il raggiungimento di tale composita finalità è, in certa misura, condizionata all’approvazione di una disciplina di secondo grado a tutt’oggi carente. Di qui l’incertezza in ordine all’immediata operatività e cogenza degli obblighi assicurativi previsti nella legge ed in particolare dei caratteri, indicati dall’art. 11, come tipizzanti il modello delle polizze con clausola claims made in materia sanitaria. The l. 8.3.2017, n. 24, c.d. Gelli Law has, with regard to the insurance profile, the ambition to determine the essential characteristics of civil liability insurance for

Lo scritto riprende le tematiche trattate nella relazione al Convegno di Studi organizzato dall’AIDA – Associazione Italiana di Diritto delle Assicurazioni – sezione Sardegna, in Cagliari, in data 12/13.10.2018, sul tema “Diritto alla salute e contratto di assicurazione”.

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health risks and to outline an organic system; however, the achievement of this composite purpose is, to some extent, conditioned by the approval of a second-degree discipline that is still lacking. Hence the uncertainty regarding the immediate operation and cogency of the insurance obligations provided for by the law and in particular the characteristics indicated by the art. 11, as typifying the policy model with claims made clause, in health matters.

1. I problemi e le finalità sottese alla regolamentazione dei profili assicurativi contenuti nella legge 8 marzo 2017, n. 24: considerazioni introduttive La legge 8 marzo 2017, n. 24, c.d. Legge Gelli, ha, quanto al profilo assicurativo, l’ambizione di determinare i connotati essenziali dell’assicurazione della responsabilità civile per i rischi sanitari, nell’auspicato tentativo di delineare un sistema organico ove siano individuati i soggetti destina-

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tari dell’obbligo assicurativo, le caratteristiche irrinunciabili delle polizze per la copertura dei rischi connessi allo svolgimento dell’attività sanitaria, le modalità dell’espletamento dell’azione, le garanzie per i danneggiati per le ipotesi di carenza, sia pure per casi determinati, dell’operatività di una copertura assicurativa. L’obiettivo è non solo quello prioritario di garantire il pieno ristoro dei danni cagionati ai pazienti, ma anche quello di mettere ordine in un settore, da un lato investito da un massiccio incremento del numero dei sinistri e da un esponenziale aumento della misura dei risarcimenti, dall’altro caratterizzato da prassi assicurative volte non solo ad imporre, in ragione di quanto innanzi, elevate franchigie a carico degli assicurati, oltre che il pagamento di premi elevatissimi, ma anche a congegnare le clausole dei contratti di assicurazione in maniera tale da delimitare fino, talvolta, da rendere del tutto incerta la copertura assicurativa. È appena da evidenziare che tale complessivo stato di cose, oltre a vanificare le finalità stesse dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile professionale, volta a tutelare il terzo danneggiato garantendogli il ristoro attraverso i solidi patrimoni delle Compagnie assicuratrici, finisce per gravare l’assicurato di rischi che auspicava di aver adeguatamente fronteggiato con la stipula di un contratto di assicurazione. In queste pagine si tenterà di dare conto della misura in cui la legge in commento abbia già fornito risposte efficaci alle finalità sopra indicate considerando che essa, sotto plurimi aspetti, rinvia all’approvazione di una normazione di secondo grado (cfr. art. 10, comma 6°, della legge), decreti del Ministero dello sviluppo economico, che sarebbero dovuti essere stati emanati entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge. Ciò al fine di determinare, tra l’altro, i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le professioni sanitarie, prevedendo l’individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati. Normazione di secondo grado la cui perdurante assenza, oramai trascorso oltre un anno dalla entrata in vigore della legge, ha già visto aprirsi un dibattito giurisprudenziale in ordine al tema della Responsabilità Medica 2019, n. 3

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cogenza e dell’operatività temporale degli obblighi assicurativi in essa previsti.

2. I soggetti destinatari dell’obbligo assicurativo Ai sensi dell’art. 10, comma 1°, della legge 8 marzo 2017, n. 24, destinatari dell’obbligo assicurativo sono anzitutto le struture sociosanitarie pubbliche e private le quali dovranno dotarsi di una polizza per la r.c. ovvero di altre analoghe misure per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d’opera, ai sensi dell’articolo 27, comma 1-bis, del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114. Per i medici dipendenti vi è solo l’obbligo di assicurarsi contro la possibile azione di rivalsa per il caso di dolo o colpa grave. Per i medici liberi professionisti si ribadisce l’obbligo, già previsto in generale per tutti i liberi professionisti dall’art. 3 del d.l. 138/11, convertito con l. n. 148/2011, di stipulare “idonea assicurazione per i rischi derivanti dall’attività professionale” e di “comunicare al cliente, al momento dell’incarico, gli estremi della polizza ed il relativo massimale”; obbligo quest’ultimo, peraltro, riaffermato dall’art. 5 del d.P.R. 137 del 7 agosto 2012, varato in ottemperanza della citata disposizione, immediatamente dopo l’enunciazione che la stipula dei contratti di assicurazione potrà avvenire anche “per il tramite di convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti”1. Come si è già anticipato, l’effettiva entrata in vigore dell’obbligo assicurativo nel settore sanitario, secondo i parametri contemplati dalla legge in commento, è, tuttavia, condizionato all’adozione del decreto ministeriale di cui all’art. 10, comma 6°, che stabilirà, in conformità ai principi della presente legge, i requisiti minimi delle polizze. In definitiva, si prevede anche per la materia medico-sanitaria, come è avvenuto per le assicura-

L’obbligo di comunicazione è altresì sancito dall’art. 9, comma 3° del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1.

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zioni relative alla responsabilità civile professionale degli avvocati, la necessità di un ulteriore intervento legislativo, con normazione di rango secondario, per l’individuazione dei requisiti minimi che dovranno connotare, verosimilmente inderogabilmente, il contenuto delle polizze assicurative in materia medico-sanitaria.

3. La quaestio dell’operatività temporale degli obblighi assicurativi introdotti dalla l. n. 24/2017 Una recentissima ordinanza del Tribunale di Milano2 affronta, per la prima volta, il tema della cogenza e dell’operatività temporale degli obblighi assicurativi introdotti dalla legge n. 24/2017. La controversia ha origine da un ricorso ex art. 700 c.p.c. proposto da una Compagnia di assicurazione nei confronti di un altro operatore assicurativo, al quale si contesta di aver posto in essere un atto di concorrenza sleale per aver promosso e commercializzato polizze che, in violazione del dettato dell’art. 11 della l. n. 24/2017, non prevedano la concessione automatica della copertura pregressa decennale in favore dell’assicurato, offrendo, di conseguenza, sconti rilevanti sulle polizze offerte sul mercato. Il ricorrente invoca l’inibitoria accompagnata da misure accessorie. In particolare a sostegno dell’invocata misura cautelare il ricorrente evidenzia che la l. n. 24/2017 ha imposto un contenuto contrattuale obbligatorio per le polizze assicurative in materia sanitaria il che ha una diretta incidenza sulla disciplina del mercato e sui rapporti di concorrenza, posto che non soltanto limita l’offerta dei prodotti assicurativi, ma incide anche sulle condizioni economiche, che risultano naturalmente correlate e condizionate dalla maggiore ampiezza dei rischi che le compagnie sono tenute ad assumere per effetto della previsione in polizza di una pregressa almeno decennale e di una copertura assicurativa postuma, anch’essa almeno decennale, per il caso

Ord. Trib. Milano, 6.7.2018, consultabile all’indirizzo: www.giurisprudenzadelleimprese.it

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di cessazione dell’attività professionale. Il giudice milanese ha rigettato la domanda accogliendo le difese della resistente e, tra queste, in particolare, l’eccezione secondo cui l’obbligo di prevedere in polizza una copertura pregressa di almeno dieci anni non è immediatamente efficace essendo subordinata l’operatività dell’obbligo in questione, dall’art. 10, comma 6°, della legge, all’emanazione di un decreto attuativo che determini i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le professioni sanitarie. Di qui, sottolinea il Giudice, “consegue che, nelle more di un intervento regolamentare, gli obblighi in parola, ivi compreso l’obbligo di retroattività, non possono ritenersi operativi” e rileva, altresì, che ritenere di contro “l’applicabilità immediata dell’obbligo di retroattività ex art. 11, in assenza di regole che ne disciplinano l’operatività, creerebbe sicuramente problemi interpretativi”; in particolare, non sarebbe chiaro: a) se il suddetto obbligo gravi solo sugli esercenti professioni sanitarie o anche sulle compagnie assicuratrici; b) se esso debba applicarsi anche a polizze stipulate da strutture o medici esordienti o con anzianità inferiore a 10 anni, nel qual caso la clausola di retroattività sarebbe inutile e coprirebbe un rischio inesistente. Sulla scorta di tali considerazioni il Tribunale di Milano giunge alla conclusione che la norma imperativa che sancisce gli obblighi assicurativi di cui innanzi “non sia ancora applicabile, non essendo stato ancora emanato il decreto del Ministro dello sviluppo economico” a decorrere dal quale, ai sensi del citato art. 10 della Legge, sono determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative in questione. Le riferite argomentazioni colgono nel segno; effettivamente è del tutto insensata la previsione della obbligatorietà di una pregressa decennale per le polizze di strutture o medici esordienti. Sul punto si dirà più diffusamente appresso ma, fin d’ora, appare del tutto evidente che la copertura siffatta finirebbe per assicurare un rischio inesistente con consequenziale nullità ex art. 1895 c.c., quantomeno della clausola che la dispone. Il premio versato dall’assicurato sarebbe, di conseguenza, parzialmente privo di giustificazione

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causale e, quindi, andrebbe in quota parte restituito dalla Compagnia. Tali incongruenze, frutto di una evidente svista del legislatore, dovranno essere risolte e portano giustamente a dubitare dell’immediata operatività dei connotati indicati dall’art. 11 della legge come tipizzanti, sempre e comunque, il modello delle polizze con clausola claims made, in materia sanitaria: dunque, sembra per ciò condivisibile la decisione del Tribunale di Milano considerato che la fattispecie da essa considerata è riguardante proprio un caso di polizza carente della pregressa perché destinata a medici esordienti. Tuttavia, la necessità che con la emananda disciplina di secondo grado siano risolte palesi incongruenze quali quella delineata, non esclude che l’art. 11, già ora, individui un modello di polizza assicurativa con clausola claims made in materia sanitaria, tipizzandone le caratteristiche essenziali. Per le polizze non destinate agli esordienti, la previsione di una claims made con pregressa decennale, per tutti di una postuma parimenti decennale in caso di cessazione definitiva dell’attività professionale per qualsiasi causa, nonchè la previsione della deening clause sono elevati a connotati tipizzanti ed irrinunciabili del nuovo modello di assicurazione in materia sanitaria3, anche se si ritenga che tali connotati non possano dirsi immediatamente operativi e cogenti in assenza del decreto attuativo di cui al comma 6° dell’art. 10 della l. n. 24/2017. In questo senso, d’altra parte, si esprime anche la recentissima pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione4, che, pur non affrontando specificamente il problema dell’immediata o meno operatività temporale degli obblighi assicurativi introdotti dalla legge n. 24/2017, evidenzia che la norma (speciale) “ne detta ora in regime di

In proposito nel mio scritto dal titolo Le nuove dinamiche assicurative nella relazione di cura: note a margine della L. 8.3.2017, n. 24, in Jus civile, 2018, 6, rilevavo che, per la prima volta con una norma di primo grado, “la clausola claims made trova […] la sua definitiva tipizzazione”.

Saggi e pareri

obbligatorietà le coordinate base, inderogabili in pejus, individuando in esse non solo il substrato del modello negoziale «meritevole», ma, con ciò, la stessa «idoneità» del prodotto assicurativo a salvaguardare gli interessi che entrano nel contratto, ai quali non è estraneo quello, di natura superindividuale, di una corretta allocazione dei costi sociali dell’illecito, che sarebbe frustrata ove il terzo danneggiato non potesse essere risarcito del pregiudizio patito a motivo dell’incapienza patrimoniale del danneggiante, siccome, quest’ultimo, privo di «idonea» assicurazione”.

4. L’azione diretta nei confronti dell’assicurazione ed il Fondo di garanzia Tra le previsioni certamente apprezzabili contenute nella disciplina in questione vi è quella che contempla la possibilità un’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’impresa assicuratrice. Come si è giustamente sottolineato5, si tratta di un “profilo della disciplina da ritenere inscindibilmente connesso allo stesso carattere obbligatorio dell’assicurazione”. D’altra parte sulla necessità della previsione dell’azione diretta si era già espressa la dottrina6 in sede di commento alla normativa (l’art. 3 del d.l. 138/11, convertito con l. n. 148/2011) che ha introdotto, per tutti i liberi professionisti, l’obbligo di stipulare un’assicurazione per la responsabilità civile professionale. Corollario dell’anzidetta disposizione, contenuta nell’art. 12 della legge, è l’altra che sancisce l’inopponibilità al danneggiato per l’intero massimale di polizza delle “eccezioni derivanti dal contratto” non espressamente previste in sede di definizione dei “requisiti minimi delle polizze assicurative”. Si tratta di una norma di salvaguardia per il danneggiato che rappresenta il principale destinata-

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Cass. sez. un., 24.9.2018, n. 22437, in Quot. giur., 2018, ed in Foro.it., 2018, I, 3015, con nota di De Luca, Clausole claims made: sono tipiche e lecite, ma di tutto si può abusare. 4

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Quadri, Il parto travagliato della riforma in materia di responsabilità sanitaria, in Giust.civ.com, 2017.

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6 Cfr., per tutti, Gazzara, L’assicurazione di responsabilità civile professionale, Napoli, 2016, 53 ss.


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rio della disciplina sull’assicurazione obbligatoria in questione. Tuttavia, ai sensi del comma 6° dell’art. 12, le disposizioni citate non sono immediatamente operative bensì si applicheranno all’esito dell’entrata in vigore del decreto ministeriale con il quale saranno determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e per gli esercenti le professioni sanitarie. Sempre nell’ottica di assicurare una reale tutela del danneggiato vi è la previsione (art. 14), come già si è fatto per la materia della circolazione stradale7, della costituzione di un “Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria”. Il comma 7° della norma individua i casi in cui il Fondo risarcisce i danni cagionati da responsabilità sanitaria: le ipotesi contemplate sono individuate nelle lettere a), b), c), e l’elenco sembrerebbe da ritenersi tassativo. In esso, tuttavia, non figura il caso in cui la struttura, in luogo della stipula di un contratto di assicurazione, ricorra, come la noma pur consente, all’adozione di una misura c.d. analoga, rivelatasi poi insufficiente. Mi riferisco alla c.d. autoassicurazione, attraverso l’appostazione in bilancio di riserve a copertura dei casi di responsabilità civile verso terzi e verso i prestatori d’opera. Ipotesi quest’ultima ove l’eventuale carenza delle riserve appostate e la consequenziale assenza di piena copertura dei sinistri da un lato non è oggetto di copertura da parte del Fondo8, dall’altro si riverbera non solo in danno dei possibili danneggiati ma anche dei medici

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Il punto è bene sottolineato da Quadri, op. cit., 13.

Il comma 7°, lett.a) dell’art. 14 della legge citata, fa solo riferimento all’ipotesi in cui il danno sia di importo eccedente “rispetto ai massimali previsti dai contratti di assicurazione stipulati dalla struttura sanitaria […] ovvero dall’esercente la professione sanitaria”, subordinando, pertanto, la possibile copertura da parte del Fondo, pur sempre, alla sussistenza di un contratto di assicurazione con massimale insufficiente. Nulla dice, invece, circa l’ipotesi in cui tale contratto non vi sia perché la struttura si sia avvalsa della pratica dell’autoassicurazione. Anche il comma 7°, lett.c) sembra alludere, perché possa accedersi alla copertura da parte del Fondo, alla sussistenza di un pregresso rapporto assicurativo risoltosi “per recesso unilaterale dell’impresa assicuratrice ovvero per la sopravvenuta inesistenza o cancellazione dall’albo dell’impresa assicuratrice stessa”.

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dipendenti che rischiano di vedersi privati della garanzia primaria prestata in loro favore dalla polizza della struttura, con la conseguenza, affatto marginale, di essere esposti in prima persona, sia pure a titolo di responsabilità aquiliana, all’azione risarcitoria intentata dal danneggiato. Parimenti il Fondo non assicura copertura nell’ipotesi di danni ultratardivi che eccedano la postuma decennale. Sul punto si dirà più diffusamente appresso.

5. Il contenuto minimo delle polizze in materia sanitaria e l’idoneità di esso ad individuare il modello negoziale “meritevole” e/o “idoneo” secondo le Sezioni Unite Come già si è accennato, nonostante la riserva espressa in favore della emananda normazione di secondo grado, la legge in questione, probabilmente sulla scorta proprio di quanto già stabilito per gli avvocati dal d.m. 22 settembre 2016, disciplinante le Condizioni essenziali e o i massimali minimi delle polizze assicurative a copertura della responsabilità civile e degli infortuni derivanti dall’esercizio della professione di avvocato, nonchè dell’imput fornito, nel 2016, dalla prima sentenza della Cassazione, a Sezioni Unite, in tema di claims made9, non ha rinunciato, però, già ad indicare una parte rilevante del contenuto minimo delle polizze in materia sanitaria. Ed infatti, l’art. 11 prescrive che “La garanzia assicurativa deve prevedere una operatività temporale anche per gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo, purché denunciati all’impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza”, ed inoltre che “In caso di cessazione definitiva

Cass. sez. un., 6.5.2016, n. 9140, in Giur. it., 2016, 2602. Tra i vari commenti alla decisione si segnalano, in particolare, Corrias, La clausola claims made al vaglio delle Sezioni Unite: un’analisi a tutto campo, in Banca, borsa e tit. cred., 2016, 656; Calvo, Clausole claims made tra meritevolezza e abuso secondo le Sezioni Unite, in Corr. giur., 2016, 927; Gazzara, La meritevolezza della clausola claims made al vaglio delle Sezioni Unite, in Danno e resp., 2016, 948. 9

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dell’attività professionale per qualsiasi causa deve essere previsto un periodo di ultra attività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di efficacia della polizza, incluso il periodo di retroattività della copertura. L’ultrattività è estesa agli eredi e non è assoggettabile alla clausola di disdetta”. In sostanza, da un lato si legittima e si tipizza la clausola claims made che potremmo definire “quasi pura”10, dall’altro si prevede un’ultra attività decennale in caso di cessazione dell’attività per qualsiasi ragione. Ultra attività estesa agli eredi e non assoggettabile alla clausola di disdetta. Dei due connotati di cui innanzi, la previsione di una necessaria postuma decennale, peraltro, è stata ribadita con riferimento generale a tutte le polizze sull’assicurazione professionale, relative quindi anche a settori diversi da quello sanitario, con la legge 4 agosto 2017, n. 124.

10 Come è noto la prassi distingue la claims made cd. pura dalla claims made cd. impura: mentre la prima non prevede limitazioni temporali alla propria “retroattività” rispetto alla stipulazione del contratto, la seconda prevede la copertura dei sinistri denunziati in costanza di rapporto ma verificatisi in un preciso arco temporale (solitamente non superiore ai due/tre anni) antecedente alla stipula del contratto. L’ipotesi contemplata dalla legge Gelli, proprio in quanto circoscrive in dieci anni la pregressa dovrebbe, a rigore, definirsi una claims impura, ma, per così dire, ad “ampia gittata”, considerato che copre un decennio, o una claims made “quasi pura”. Probabilmente la scelta di limitare la pregressa al decennio va spiegata di concerto con la previsione di una postuma decennale, nell’idea, invero discutibile, per quanto si dirà, della sicura maturazione della prescrizione per le richieste risarcitorie antecedenti al decennio. Per completezza merita, anche, ricordare che, nella pratica, è possibile riscontrare perfino polizze che, unitamente alla claims made, escludono del tutto una copertura pregressa, circoscrivendo, così, temporalmente la garanzia alla sola annualità di stipulazione del contratto nell’ambito della quale deve compiersi l’azione o l’omissione, prodursi il danno, essere ricevuta dall’assicurato la richiesta di risarcimento e da questi comunicata alla Compagnia. Concatenazione di eventi che, già ad una riflessione molto superficiale, appare talmente poco verosimile che si riesca a concentrare in un anno, perlomeno in talune attività professionali, ma forse la maggior parte di esse, che sembra evocare un vero e proprio paradosso, che, però, si risolve in danno dell’assicurato. Su questo tipo di polizza è particolarmente critica la pronuncia delle Sezioni Unite, sopra citata.

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Saggi e pareri

Per di più, nel dettato della norma da ultimo citata, il periodo decennale di ultrattività della copertura sembra sia esteso a qualsiasi ipotesi di cessazione del rapporto assicurativo, giacchè non si rinviene nel testo normativo una previsione, come quella invece contenuta nella legge Gelli e nell’art. 2, d.m. 22 settembre 2016, per gli esercenti le professioni legali, che subordina la copertura postuma al solo caso del verificarsi della cessazione dell’attività dell’assicurato11. L’art. 11 della legge Gelli contempla, inoltre, tra i connotati indefettibili delle polizze claims made in materia sanitaria, la c.d. deeming clause, che estende l’operatività della polizza ai fatti “denunciati all’impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza”12 (art. 11, comma 1°).

La disposizione all’art. 1, comma 26°, così recita: “Alla lettera e) del comma 5° dell’articolo 3 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «In ogni caso, fatta salva la libertà contrattuale delle parti, le condizioni generali delle polizze assicurative di cui al periodo precedente prevedono l’offerta di un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di operatività della copertura. La disposizione di cui al periodo precedente si applica, altresì, alle polizze assicurative in corso di validità alla data di entrata in vigore della presente disposizione. A tal fine, a richiesta del contraente e ferma la libertà contrattuale, le compagnie assicurative propongono la rinegoziazione del contratto al richiedente secondo le nuove condizioni di premio”. 11

12 L’ipotesi prospettabile è quella in cui l’assicurato sia a conoscenza di un evento che può dar luogo ad una richiesta di risarcimento, ma non è nella materiale possibilità di denunciarlo come sinistro, a causa della mancanza di un’effettiva richiesta risarcitoria da parte del potenziale danneggiato. Nella pratica accade sovente, infatti, che tra la condotta lesiva dell’assicurato, l’emergere del fatto dannoso e la successiva richiesta di risarcimento del danneggiato, possa intercorrere un considerevole lasso di tempo. Si pensi al caso di un medico che si accorga che, durante un intervento, si è verificato un evento in grado di poter generare un caso di medical malpractice, anche se l’eventuale anomalia che ne potrebbe risultare non si è ancora raffigurata e non è, quindi, nel frattempo, ancora intervenuta alcuna richiesta di risarcimento da parte del paziente. Durante tale periodo, il professionista potrebbe trovarsi nella scomoda condizione di dover comunicare la predetta circostanza o in sede di rinnovo della propria polizza (perché, ad esempio, la stessa esclude il tacito rinnovo) o perché intenzionato a sottoscrivere una


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Con tale previsione, che si discosta da quella propria della claims made ove la copertura assicurativa è assicurata in relazione alle “richieste risarcitorie” pervenute all’assicurato e comunicate alla Compagnia di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza, si dà al professionista la possibilità di denunciare all’assicurazione anche le semplici circostanze potenzialmente suscettibili di causare una futura richiesta di risarcimento. In assenza di una clausola di tal genere, peraltro fino ad oggi pressoché inesistente nelle polizze assicurative sulla r.c. professionale del mercato italiano, il professionista che sia a conoscenza di circostanze da cui ritenga che, con ogni probabilità, possano derivare, in futuro, una o più richieste di risarcimento, è di fatto costretto, per beneficiare della copertura assicurativa, a rinnovare la polizza con la stessa compagnia fino al momento della formalizzazione della richiesta di risarcimento. Laddove, infatti, cambiasse assicuratore si esporrebbe al rischio, sempre presente nelle polizze con formula claims made che contemplino una copertura pregressa, di vedersi opporre dal nuovo assicuratore l’inoperatività della polizza ai sensi degli artt. 1892 e 1893 c.c., norme il cui contenuto è, peraltro, espressamente richiamato in clausole uniformemente utilizzate nella prassi negoziale, ed in virtù delle quali l’assicurato dichiara di non essere a conoscenza di fatti che possano dar luogo a richieste risarcitorie13.

nuova polizza con una nuova compagnia di assicurazione. Ebbene qualora la polizza fosse corredata di una deeming clause l’assicurato ben potrebbe segnalare alla Compagnia il sinistro, assicurandosi così da quest’ultima la copertura, anche qualora la richiesta risarcitoria dovesse avvenire in un successivo momento e nel contempo sarà libero di poter tranquillamente cambiare assicuratore. Sul punto, con la consueta chiarezza, Gazzara, Note a margine della nuova disciplina in tema di polizze professionali per gli Avvocati, in Contr. e impr., 2017, 999. L’Autore, giustamente, si interroga, a proposito delle polizze per la responsabilità professionale degli avvocati, ma il discorso può tranquillamente estendersi alle polizze in campo medico sanitario, su cosa accada se il professionista si accorge di essere incorso in un evidente errore professionale in relazione al quale il danno non si è tuttavia ancora manifestato, ovvero il cliente non ha ancora presentato una richiesta di risarcimento. Ed evidenzia che “la sola denunzia di sinistro, a differenza di quanto accadrebbe nel regime codicistico, non 13

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Ne consegue che il mutamento di Compagnia assicurativa, nella vigenza della formula claims made, pura od impura che sia, non è mai privo di conseguenze perché finisce per esporre comunque l’assicurato all’eccezione di conoscere e di aver volutamente taciuto un fatto dannoso già verificatosi, con conseguente rischio del venir meno della copertura assicurativa da parte del nuovo assicuratore14. L’assenza della deeming clause nella claims made, di fatto, obbliga l’assicurato a non cambiare Compagnia assicurativa, il che se per le società di assicurazione, determina l’innegabile vantaggio della fidelizzazione definitiva del cliente, sotto altro profilo annichilisce la concorrenza nel mercato assicurativo, il che è foriero di non poche perplessità. Risulta, quindi, evidente la bontà della scelta legislativa di contemplare tra i connotati essenziali della polizza per r.c. sanitaria con clausola claims made la previsione di una deeming clause, ricomprendendo, così, nel concetto di sinistro anche qualsiasi circostanza di cui l’assicurato venga a conoscenza e che denunci alla Compagnia presumendo che possa ragionevolmente dare origine ad una richiesta di risarcimento nei sui confronti.

basterebbe a far rientrare il sinistro sotto la copertura della polizza claims a quel tempo vigente, giacché la denunzia di sinistro non equivale alla richiesta risarcitoria richiesta dalla polizza. Ma neppure il sinistro potrebbe a rigore essere coperto dalla successiva polizza, sotto la quale verrà per ipotesi a concretizzarsi la richiesta risarcitoria, giacché l’assicuratore potrebbe sempre opporre al Legale la conoscenza o la conoscibilità dell’errore professionale commesso. L’unica soluzione sarebbe stata quella di ricomprendere, tra i requisiti minimi della polizza, anche una sorta di deeming clause, rinvenibile in alcune polizze all risks, ma ancora poco diffusa in quella di r.c. professionale, in virtù della quale le richieste risarcitorie scaturenti da fatti denunziati dall’assicurato in corso di polizza si considerano come effettuate coevamente”. 14 Pari discorso vale nell’ipotesi in cui l’assicurato con formula claims made, senza garanzia postuma, intenda, cessata l’attività, assicurarsi per eventuali richieste risarcitorie. Facilmente potrà essergli opposto che il danno di cui si chiede il risarcimento era conseguenza di un errore professionale già conosciuto o conoscibile al momento della stipula. Sul punto le condivisibili riflessioni di Gazzara, L’assicurazione di responsabilità civile professionale, cit., 93-94, ma, anche, Gabasio, Modalità di validità della garanzia in claims made: il pensiero dell’assicuratore, in Medic. e dir., 2010, 46 ss.

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L’eventuale richiesta di risarcimento pervenuta in seguito alle comunicazioni così specificate sarà, infatti, considerata così come se fosse stata fatta durante il periodo di assicurazione, con consequenziale copertura del sinistro. Come si è detto la clausola claims made trova, nella normativa in questione, la sua definitiva tipizzazione, sia pure con riferimento ad uno specifico settore qual è quello medico-sanitario; è la prima volta che ciò accade con una norma di primo grado15 cui ha fatto seguito la citata legge 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 26°, di portata più generale. Se ben si comprendono le argomentazioni, non sempre di agevole lettura, svolte nella recentissima pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione16, la disciplina legale di cui alla legge Gelli “esprime un carattere imperativo” ed “inderogabile in pejus” e “sarà criterio guida nell’interpretazione della stipulazione intercorsa al fine di garantire l’assicurato dalla responsabilità civile anche in settori diversi da quello sanitario o professionale e, segnatamente, in quelli che postulano l’esigenza di una copertura dai rischi per danni da eziologia incerta e/o caratterizzati da una lungo latenza”. Detta conclusione delle Sezioni Unite, che porta quale conseguenza che i connotati indicati nell’art. 11 rappresentino la inderogabile disciplina legale di base cui fare riferimento nel valutare l’adeguatezza/validità del prodotto assicurativo, sembra invero non sufficientemente meditata considerato che da un lato la disciplina di cui all’art. 11, citato, è contenuta in una normativa di settore, dall’altro che vi è una diversa disciplina di settore per le professioni forensi, ove i connotati inderogabili in peius tutelano maggiormente l’assicurato prevedendo una pregressa illimitata, dall’altro ancora che la citata legge 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 26°, anch’essa norma di rango primario, successiva, ma di portata generale, non prevede affatto la necessità di una copertura pregressa.

La disciplina della claims made pura è, invece, delinata, nella normativa secondaria, dal d.m. 22 settembre 2016. 15

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Cass. sez. un., 24.9.2018, n. 22437, cit.

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Solo la legge Gelli, peraltro, ma non le altre disposizioni di cui innanzi, prevede che la clausola claims made sia necessariamente integrata con la previsione della deeming clause. In un contesto così variegato e per certi aspetti contraddittorio, sembra invero molto discutibile elevare tutti i connotati di cui all’art. 11 della legge Gelli a “regole di struttura”, inderogabili in peius, valevoli cioè per qualsiasi contratto di assicurazione con clausola claims made anche in settori diversi da quello specificamente sanitario. Al più si potrà dare per acquisito, quale unico connotato indefettibile, la necessità di una copertura postuma almeno decennale considerato che essa è contemplata in tutti gli interventi normativi relativi alla clausola in questione. In ragione di tali considerazioni appare quindi anche affrettata e da ridimensionare l’affermazione contenuta in detta sentenza delle Sezioni Unite laddove si elevano “le coordinate di base” sancite nella assicurazione della responsabilità civile sanitaria (art. 11) a “substrato del modello negoziale meritevole”, valevole, dunque, quale parametro di riferimento per valutare l’idoneità/validità di ogni tipo di polizza con clausola claims made anche in settori diversi da quello sanitario.

6. Il problema dell’incidenza del modello di cui all’art. 11 della l. n. 24/2017 sulle polizze difformi La scelta legislativa di fare assurgere a tipo legale, quantomeno in materia sanitaria, la polizza connotata dalle coordinate di base indicate dall’art. 11 apre all’ulteriore problema delle conseguenze civilistiche derivanti dall’inosservanza di dette coordinate sia per quanto concerne le polizze sanitarie stipulate prima dell’entrata in vigore della legge in commento sia per quelle ad essa successive, qualora si discostino dal modello tipizzato. Partendo dall’analisi di tale ultima questione sembrerebbe agevole ritenere che le nuove polizze in materia sanitaria, laddove difformi da quanto prescrive l’art. 11, siano inidonee e, perciò, sempre affette da nullità parziale relativamente a quelle previsioni negoziali che si discostano, in peius, dai connotati che inderogabilmente connotano il modello delineato dalla legge. Di conseguenza,


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fermo restante la validità del contratto di assicurazione, la polizza difforme dal modello tipizzato sarà affetta da nullità parziale e sarà sostituita dalla formula legale prevista dalla citata norma. Va puntualizzato, però, che bisogna essere consapevoli che a tale conclusione due argomenti sono, perlomeno nell’immediato, opponibili: quello, già accennato, della discussa operatività temporale degli obblighi assicurativi introdotti dalla legge n. 24/2017, in assenza dell’approvazione del decreto attuativo di cui al comma 6° dell’art. 10 della l. n. 24/2017, l’altro, in certa misura consequenziale al primo, della manifesta incongruità della previsione di una necessaria pregressa decennale per le polizze da stipularsi per le strutture o i medici esordienti. Manifesta incongruità auspicabilmente rimediabile con il decreto attuativo emanando. A tali argomenti può opporsi che è del tutto formalistico ritenere che quantomeno la necessaria previsione della postuma decennale (con esclusione della possibilità per la Compagnia di recedere dal contratto, durante il periodo di operatività della postuma) e la deeming clause non siano fin d’ora connotati irrinunciabili delle nuove polizze, giacchè tali connotati, anche a non voler ritenere immediatamente operante la prescrizione di cui all’art. 11, sono senza dubbio idonei a superare aspetti di palese immeritevolezza della clausola claims made che, senza tali correttivi, “attribuisce all’assicuratore un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropartita”17, viceversa

17 Merita citare al riguardo, per la esemplare chiarezza e rigore espositivi, le sentenze “gemelle” della Cassazione, depositate in data 28.4.2017, n. 10506 e 10509, pressoché identiche e scritte dal medesimo relatore, in Danno e resp., 4/2017, con note di Palmieri e Pardolesi, di Monticelli, di Locatelli, di Greco. Tre le ragioni indicate dal relatore a sostegno di quanto innanzi: anzitutto, sotto il profilo dello scambio negoziale, si evidenzia che la clausola in questione riduce “il periodo effettivo di copertura assicurativa, dal quale resteranno verosimilmente esclusi tutti i danni causati dall’assicurato nella prossimità della scadenza del contratto. È infatti praticamente impossibile che la vittima d’un danno abbia la prontezza e il cinismo di chiederne il risarcimento illico et immediate al responsabile. Ciò determina uno iato tra il tempo per il quale è stipulata l’assicurazione (e verosimilmente pagato il premio), e il tempo nel quale può avverarsi il rischio”. Iato temporale che “è inconciliabile con il tipo di responsabilità professionale cui può andare incontro il medi-

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non si vede perché debba qualificarsi parimenti immeritevole od inidonea la clausola che limiti o, addirittura, escluda la pregressa laddove l’assicurato, struttura o medico che sia, sia agli inizi dell’attività. In questo caso, come si è già detto, la pregressa è del tutto inutile e, di conseguenza, l’assenza di una previsione in tal senso non può, di per sé, minare la meritevolezza della clausola né l’idoneità di essa ad integrare il contenuto mi-

co, la cui opera può talora produrre effetti dannosi a decorso occulto, che si manifestano a distanza anche di molto tempo dal momento in cui venne tenuta la condotta colposa fonte di danno”. In secondo luogo, sotto il profilo dello svantaggio e della ingiustificata soggezione dell’assicurato, si sottolinea che la clausola in questione “fa dipendere la prestazione dell’assicuratore della responsabilità civile non solo da un evento futuro ed incerto ascrivibile a colpa dell’assicurato, ma altresì da un ulteriore evento futuro ed incerto dipendente dalla volontà del terzo danneggiato: la richiesta di risarcimento. L’avveramento di tale condizione, tuttavia, esula del tutto dalla sfera di dominio, dalla volontà e dall’organizzazione dell’assicurato, che non ha su essa alcun potere di controllo. Ciò determina conseguenze paradossali, che l’ordinamento non può, ai sensi dell’art. 1322, c.c., avallare. La prima è che la clausola in esame fa sorgere nell’assicurato l’interesse a ricevere prontamente la richiesta di risarcimento, in aperto contrasto col principio secolare (desumibile dall’art. 1904 c.c.) secondo cui il rischio assicurato deve essere un evento futuro, incerto e non voluto. La seconda conseguenza paradossale è che la clausola claim’s made con esclusione delle richieste postume pone l’assicurato nella seguente aporia: sapendo di avere causato un danno, se tace e aspetta che sia il danneggiato a chiedergli il risarcimento, perde la copertura; se sollecita il danneggiato a chiedergli il risarcimento, viola l’obbligo di salvataggio di cui all’art. 1915 c.c.”. Quale terzo motivo a sostegno dell’immeritevolezza della clausola si evidenzia che essa “può costringere l’assicurato a tenere condotte contrastanti coi superiori doveri di solidarietà costituzionalmente imposti. La clausola in esame infatti, elevando la richiesta del terzo a “condizione” per il pagamento dell’indennizzo, legittima l’assicuratore a sottrarsi alle proprie obbligazioni ove quella richiesta sia mancata: con la conseguenza che se l’assicurato adempia spontaneamente la propria obbligazione risarcitoria prima ancora che il terzo glielo richieda (come correttezza e buona fede gli imporrebbero), l’assicuratore potrebbe rifiutare l’indennizzo assumendo che mai nessuna richiesta del terzo è stata rivolta all’assicurato, sicché è mancata la condicio iuris cui il contratto subordina la prestazione dell’assicuratore (…). Esito, si diceva, paradossale, posto che quanto più l’assicurato è zelante e rispettoso dei propri doveri di solidarietà sociale, tanto meno sarà garantito dall’assicuratore”.

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nimo del contratto, anzi evita che, nel contratto, sussista un palese squilibrio giuridico tra rischio assicurato e premio. La previsione di una copertura pregressa finirebbe, infatti, per assicurare un rischio inesistente con consequenziale nullità ex art. 1895 c.c., quantomeno della clausola che la dispone.

7. Nullità della clausola claims made e conformazione del contratto C’è da chiedersi a questo punto se le conclusioni cui si è appena pervenuti possono in parte riproporsi per le polizze con clausola claims made per la r.c. in materia sanitaria, stipulate prima dell’entrata in vigore della Legge Gelli relativamente alle quali sia insorto un contenzioso. In esse, com’è noto, mancavano pressoché sempre sia la previsione di una copertura postuma (in rarissimi casi era prevista una postuma di pochi anni) sia la deeming clause, la stessa pregressa decennale, d’altra parte, era raramente presente, perlomeno con tale ampiezza (le polizze con claims made cd.pura erano una rarità). Come dire che la legge Gelli, unitamente agli altri recenti interventi normativi, hanno ridisegnato completamente il modello claims made nel tentativo di correggerne i palesi aspetti di immeritevolezza/indeguatezza idonei a creare nell’assicurato gravi svantaggi ed una ingiustificata soggezione. Non può negarsi, salvo avallare opinioni palesemente preconcette, che il nuovo modello claims made, con l’introduzione della postuma decennale, si avvicina, perlomeno nelle finalità, al modello loss. Ebbene, con riferimento alle polizze antecedenti il recente completo restiling della claims made, le Sezioni Unite, se ben si comprende l’argomentare dell’ultimo arresto, ritengono di affermare, quale principio di diritto, che il modello dell’assicurazione con clausole claims made non integrerebbe una fattispecie atipica quanto, piuttosto, una deroga consentita al primo comma dell’art. 1917 c.c. in cui il meccanismo di operatività della polizza legato alla richiesta risarcitoria del terzo danneggiato comunicata all’assicuratore non è idoneo ad incidere sulla funzione assicurativa, che rimarrebbe immutata. Responsabilità Medica 2019, n. 3

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In ragione di ciò, si afferma in sentenza, rispetto al singolo contratto di assicurazione, non si impone un test di meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, ai sensi dell’art. 1322, comma 2°, c.c., ma una verifica, ai sensi dell’art. 1322, comma 1°, c.c., della rispondenza della conformazione del tipo, operata attraverso l’adozione delle suddette clausole, ai limiti imposti dalla legge, da intendersi come l’ordinamento giuridico nella sua complessità, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale. Tale indagine riguarda, innanzitutto, la causa concreta del contratto – sotto il profilo della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dalle parti –, ma non si arresta al momento della genesi del regolamento negoziale, investendo, “in termini di effettività, diversi piani, dalla fase che precede la conclusione del contratto sino a quella dell’attuazione del rapporto, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili implicati ossia (esemplificando): responsabilità risarcitoria precontrattuale…; nullità, anche parziale, del contratto per difetto di causa in concreto, con conformazione secondo le congruenti indicazioni di legge o, comunque, secondo il principio dell’adeguatezza del contratto assicurativo allo scopo pratico perseguito dai contraenti; conformazione del rapporto in caso di clausola abusiva”. Pure a voler tralasciare ogni considerazione circa la ritenuta tipicità della fattispecie in esame, invero dubitabile quantomeno con riferimento alla clausola18, perlomeno prima della Legge Gelli, e pur volendo accedere alla tesi delle Sezioni Unite secondo cui, trattandosi di un contratto oramai tipico, la legittimità dell’assetto degli interessi in esso contenuto va vagliato ai sensi del primo comma dell’art. 1322 c.c., con riferimento alla causa concreta del contratto, si rileva che rispetto al prospettato variegato apparato rimediale indicato

18 Trattavasi, prima della Legge Gelli, di una clausola atipica di un contratto tipico, come peraltro correttamente sottolineato nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite del 19.1.2018, n. 1465, nonchè in molteplici altri arresti giurisprudenziali, cfr., da ultimo, App. Roma, 29.9.2017, in Pluris massima redazionale 2018; Cass., 28.4.2017, n. 10509, cit.; Cass., 28.4.2017, n. 10506, cit.


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dalla Corte quello che pone maggiori problemi applicativi discende dalla nullità, anche parziale, della clausola per l’affermato difetto di causa in concreto. È rispetto a tale caso che si pone, infatti, la consequenziale questione della successiva conformazione del contratto ope iudicis secondo le, non meglio specificate in sentenza, “congruenti indicazioni di legge” o, comunque, secondo il principio dell’adeguatezza del contratto assicurativo allo scopo pratico perseguito dai contraenti. Criteri, questi indicati dalla Corte nell’enunciare il principio di diritto, invero tutt’altro che chiari nemmeno nella parte argomentativa della sentenza se non per escludere che la integrazione debba avvenire tramite il modello della loss occurrence di cui al derogato art. 1917, comma 1°, c.c., con ciò smentendo, peraltro seccamente, quanto in precedenza sancito dalle medesime Sezioni Unite19. Esclusione cui fa seguito l’affermazione, quantomeno vaga, che l’integrazione debba avvenire “attingendo quanto necessario per ripristinare in modo coerente l’equilibrio dell’assetto vulnerato dalle indicazioni reperibili dalla stessa regolamentazione legislativa”. Ebbene, in proposito, segnatamente quanto alle c.d. congruenti indicazioni di legge, sembra corretto ritenere che non sia ermeneuticamente corretto riferirsi ai connotati di cui all’art. 11, “inderogabili in pejus”, come affermano le Sezioni Unite, giacchè, a parere di chi scrive, essi non possono costituire parametro nel cui alveo ricondurre dette vecchie polizze per la semplice ragione che esse sono state stipulate allorchè mancava del tutto una normativa che tipizzasse le clausole claims made fissandone la disciplina legale di base. Di qui consegue che il giudice chiamato a conformare il contratto all’esito dell’accertato difetto di

causa in concreto e, dunque della nullità parziale della clausola, si badi, fin dal momento della sua stipulazione, per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e reprimere l’abuso del diritto derivante dalla previsione illegittima fin dall’origine in essa contenuta, non potrà integrare lo statuto negoziale ex art. 1419, comma 2°, c.c., tramite il modello oggi in tesi vigente, ma dovrà ricercare a tali fini, con funzione integrativa, norme che vigevano al momento della stipulazione della polizza ed attualmente in vigore. Se si condivide quanto innanzi non si comprende perché il contratto di assicurazione, all’esito della declaratoria di nullità parziale riferita alla clausola, non potrà in nessun caso (nemmeno quello, senz’altro più frequente e peraltro oggetto proprio della vertenza portata all’attenzione delle Sezioni Unite, in cui si ponga un problema di inidoneità della clausola per assenza di una copertura postuma) essere integrato secondo il modello vigente al momento della stipulazione di esso. Ci si riferisce al modello loss occurrence di cui all’art. 1917, comma 1°, c.c.20, cui, peraltro, come si è detto innanzi, il nuovo modello di claims made palesemente e fortemente “ammicca” prevedendo come obbligatoria, sempre e comunque, una postuma almeno decennale, vero fulcro del problema. Come da tempo si è rilevato da chi scrive21 la norma dispositiva in questione, infatti, in quanto tale, non svolge solo una funzione meramente suppletiva dell’autonomia privata ma, come tutte le norme dispositive, rappresenta fondamentalmente il regime ottimale di un certo rapporto negoziale. Il punto di equilibrio, indicato dal legislatore, nella contrapposizione degli interessi delle parti. In altri termini il diritto dispositivo, sebbene non veicoli in se stesso ragioni di ordine pubblico, risponde, tuttavia, spesso a scelte precise del legislatore sui

Cass. sez. un., 6.5.2016, n. 9140, cit., ove espressamente si afferma: “Il contratto di assicurazione strutturato secondo lo schema del claims made (“a denuncia fatta”) può essere oggetto di una valutazione di meritevolezza concreta della deroga al regime legale previsto dall’art. 1917 c.c., in mancanza della quale il claims made deve essere sostituito con lo schema legale tipico di assicurazione che prevede una garanzia loss occurrence (“ad insorgenza del danno”)”.

Sul punto per maggiori approfondimenti si rinvia a MonIl giudizio d’immeritevolezza della claims made agli albori della tipizzazione legale, in Danno e resp., 2017, 452 ss.

19

20

ticelli,

Cfr. Monticelli, La clausola claims made tra abuso del diritto ed immeritevolezza, in Danno e resp., 2013, 711 ss.; Id., Il giudizio d’immeritevolezza della claims made agli albori della tipizzazione legale, cit. 21

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criteri di opportunità, efficienza e giustizia nella distribuzione dei rischi e dei poteri nei contratti22. Criteri ai quali non sarà legittimo derogare, specie nelle condizioni generali di contratto ed in presenza di una asimmetria di potere negoziale tra le parti, laddove la deroga, ben lungi dal rispondere ad una maggiore razionalizzazione dell’attività contrattuale, od a ragioni obiettive, abbia quale solo fine, quello di alterare ingiustificatamente l’equilibrio del contratto a vantaggio esclusivo del contraente predisponente, esprimendo così di per sé, da un lato, una lesione della altrui libertà contrattuale, dall’altro espressione di abuso della autonomia privata23. Come opportunamente sottolineato da un’attenta dottrina24, le norme dispositive, specie in materia negoziale, “sono permeate da un intrinseco valore aggiunto di giustizia sostanziale, in quanto assolvono al compito di realizzare la ragionevole suddivisione del rischio contrattuale” con la conseguenza che la loro deroga “può rendere il contenuto del contratto estremamente gravoso ex uno latere, al punto da vanificare il significato di giustizia aggregante i principali istituti di diritto privato”. Ebbene, tali condivisibili considerazioni si attagliano benissimo alla fattispecie che ci occupa: la maggior parte delle vecchie clausole claims made, infatti, mancando di tutti i connotati che la legislazione recente ha elevato, come riconosco-

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no anche le Sezioni Unite, a elementi inderogabili del tipo, erano idonee a realizzare “un ingiusto e sproporzionato vantaggio dell’assicuratore” e a porre “l’assicurato in una condizione di indeterminata e non controllabile soggezione” (come ben si sottolinea nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite), il che si verifica, in particolare e, si ribadisce, è il vero fulcro del problema25, allorquando la clausola claims made “escluda le richieste postume…in quanto attribuisce all’assicuratore un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropartita”26. E poiché appare innegabile che i nuovi interventi normativi sul tema, tra i quali in primis la legge Gelli, soprattutto proprio a tale aspetto di illegittimità della clausola intendono porre rimedio, considerato che in tutte le nuove disposizioni in materia il punto comune è la previsione di una copertura postuma decennale rispetto alla cessazione del rapporto assicurativo, non vi vede per quale ragione si debba escludere una conformazione del contratto alla luce dell’art. 1917, comma 1°, c.c. Va, infatti, considerato che detta norma dispositiva, assicurando la copertura assicurativa per il fatto-sinistro avvenuto durante il tempo dell’assicurazione, per sua natura risolve in radice il problema della copertura in questione. Opinare diversamente, come indicano le Sezioni Unite, sembra, invero, una posizione preconcetta foriera di un’inutile complicazione che certamente non agevola l’enucleazione delle regole giuridiche in termini di risultati applicativi27.

Di Marzio, La nullità del contratto, Padova, 661; ma cfr., anche, De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, 139, che pone in evidenzia che la tipizzazione tende a realizzare un regolamento degli ipotizzabili conflitti d’interesse nel modo ritenuto più equo, tenuto conto di quanto sia emerso nella prassi delle negoziazioni.

22

Sul punto concorda appieno Gazzara, L’assicurazione di responsabilità civile professionale, cit., 109. In generale sul tema, Calvo, Diritto civile, vol.II, Il contratto, Bologna, 2015, 23, precisa che “la deroga al diritto dispositivo è generalmente ammessa, purché non implichi la mortificazione dei poteri di autodeterminazione riconosciuti al capace d’agire nella gestione del patrimonio individuale”, sottolineando, altresì, “che la differenza fra norme cogenti e norme dispositive di fatto sfumi, perché nei riguardi della parte economicamente debole «l’adesione allo schema è una necessità se vuole concludere il contratto»” (op.ult.cit., 24).

23

24

Calvo, Diritto civile, vol.II, Il contratto, cit., 24.

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25 Sia dato rinviare ancora alle considerazioni svolte nello scritto Il giudizio d’immeritevolezza della claims made agli albori della tipizzazione della clausola, cit.

L’esclusione di una copertura postuma realizza infatti l’interesse primario delle Compagnie di azzerare le riserve nel momento in cui cessi il rapporto assicurativo. 26

Sia dato rinviare, per ulteriori approfondimenti in ordine alle ragioni di dissenso rispetto alla recentissima decisione delle Sezioni Unite sopra citata, a Monticelli, Nullità della claims made e conformazione della clausola nel teorema delle Sezioni Unite, in Nuova giur. civ. comm., 2019, I, 155 ss. 27


L’assicurazione della r. c. per i rischi sanitari

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8. I nodi problematici e le criticità in materia assicurativa della l. n. 24/2017

Sotto il profilo più specificamente negoziale va, poi, rilevato che la garanzia postuma decennale, pensata evidentemente in relazione alla prescrizione ordinaria in tema di danni da inadempimento, rischia di rilevarsi inutile in caso di danni c.d. lungo latenti, ove è ben possibile che la richiesta risarcitoria pervenga all’assicurato ben oltre il decennio. In tali ipotesi, infatti, nonostante sia decorso, dalla condotta omissiva o commissiva produttiva del fatto dannoso, il decennio, oggetto della copertura assicurativa, il danneggiato avrà comunque la possibilità di vedere soddisfatta la propria pretesa risarcitoria. Difatti, secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai pacifico per talune tipologie di danno, anche nello specifico settore della responsabilità professionale, la prescrizione decorre “non dal momento in cui la condotta del professionista determina l’evento dannoso, bensì da quello in cui la produzione del danno è oggettivamente percepibile e conoscibile dal danneggiato”28. In altri termini per i danni così detti lungo latenti vi è uno spostamento in avanti del termine di decorrenza della prescrizione, in cui il dies a quo è fissato nel momento della oggettiva percepibilità del danno dal soggetto danneggiato, il che in molteplici ipotesi di responsabilità professionale può significare un termine particolarmente lungo. Si pensi, ad esempio, non solo al caso della responsabilità medica laddove i danni per un intervento errato e/o incompleto potrebbero manifestarsi dopo anni ma, soprattutto, alla responsabilità professionale notarile29 ove la giurispru-

Il testo della normativa in esame, già ad una prima lettura, evidenzia, sotto il profilo assicurativo, talune rilevanti criticità e problematiche irrisolte di non poco rilievo. Essa, infatti, prevede, come si è detto, in alternativa alla copertura assicurativa la possibilità per le strutture di adottare “altre analoghe misure per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso i prestatori d’opera”. La formula sembra così legittimare la prassi, che da tempo va diffondendosi per le strutture sanitarie, di non stipulare assicurazioni per la responsabilità civile conseguente all’esercizio dell’attività medico-sanitaria, considerata l’elevata onerosità delle polizze, sostituendo ad esse pratiche di autoassicurazione, con l’appostazione periodica in bilancio di riserve per affrontare tali rischi. Si tratta di una scelta legislativa, a parere di chi scrive, molto discutibile che pone, peraltro, rilevanti problemi di controllo dell’adeguatezza delle riserve appostate e rischia di svilire le finalità di tutela del terzo danneggiato perseguite dal legislatore, anzitutto, con la previsione dell’assicurazione obbligatoria per l’esercizio dell’attività professionale di cui al d.l. 138/11, convertito con l. n. 148/2011. Altro grave limite dell’intervento normativo è quello che – a fronte dell’obbligo per le strutture e per i professionisti di assicurarsi – non è stato previsto un analogo obbligo a contrarre in capo alle Compagnie, vulnus questo da più autori opportunamente segnalato già in sede di commento al d.l. 138/11, convertito con l. n. 148/2011. È ben vero che tale obbligo legale, laddove fosse stato previsto in coerenza con lo spirito della normativa sull’assicurazione obbligatoria, non avrebbe impedito alle Compagnie di assicurazione di praticare una politica dei prezzi, in ragione del rischio assunto, tale da scoraggiare di fatto la stipula di contratti di assicurazione per così dire non graditi, perché troppo ad alto rischio; ciò nondimeno avrebbe, però, dato aggio alle strutture, come ai professionisti, di pretendere la stipula del contratto in questione, funzionale per l’esercizio dell’attività, sia pure a caro prezzo.

Cass., 22.9.2016, n. 18606, in CED Cass., 2016, in tema di responsabilità del notaio; Cass., 27.7.2007, n. 16658, in Resp. civ. on line, 2007 e Cass., 8.5.2006, n. 10493, in Mass. Giur. it., 2006, entrambe in tema di responsabilità dell’avvocato; principio analogo è stato affermato in tema di responsabilità del dottore commercialista ove si è fatto decorrere il termine di prescrizione non già dalla presentazione dell’errata dichiarazione ma dalla data di notifica dell’avviso di accertamento. Così Cass., 3.11.2010, n. 22358, in Contratti, 2011, 437, con nota di Sangermano, Responsabilità del fiscalista per errata presentazione delle dichiarazioni Iva. 28

Si ritiene che il problema delle richieste risarcitorie ultratardive riguardi particolarmente i notai considerato il lungo lasso temporale che può in concreto trascorrere tra il rogito di un determinato atto dispositivo di un bene immobile e il 29

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denza, in più occasioni, ha ribadito che nel caso in cui il notaio rogante l’atto pubblico di trasferimento abbia erroneamente asseverato l’inesistenza di pesi o vincoli sul bene immobile oggetto del negozio, ai fini della individuazione del momento iniziale di decorrenza del termine prescrizionale, non assume rilievo dirimente il momento della stipulazione dell’atto, dovendosi invece aver riguardo all’esistenza di un danno risarcibile ed al suo manifestarsi all’esterno, siccome percepibile dallo stesso danneggiato alla stregua del parametro dell’ordinaria diligenza30. Analogo discorso ed esempi possono agevolmente farsi per la responsabilità derivanti da altre attività libero professionali quali quella dell’avvocato, del commercialista, dell’ingegnere etc. Per tali richieste, che potremmo definire “ultratardive”, la polizza con formula claims made, benché accoppiata ad una clausola di ultrattività decennale, peraltro limitata alla cessazione definitiva dell’attività professionale, rischia di non essere operante, mentre ben lo sarebbe una polizza con formula loss act committed, secondo lo schema tipologico prescelto dall’art. 1917, comma 1°, c.c., ove ciò che rileva è solo la data di accadimento del fatto dannoso. Aggiungasi che il predetto grave limite di copertura può interessare non solo il professionista assicurato ma anche i suoi eredi i quali, falsamente tranquillizzati dalla copertura decennale postuma contemplata nella polizza, in ossequio alla previsione normativa di cui innanzi, potrebbero essere indotti ad accettare l’eredità loro devoluta dal professionista in modo puro e semplice, senza, dunque, quella prudenziale separazione tra il patrimonio del de cuius e quello dell’erede, assicurata dall’accettazione beneficiata; da tale accettazione deriverà, però, per gli eredi incauti la triste conseguenza di dover rispondere anche con il loro patrimonio della richiesta risarcitoria formulata nei confronti del professionista, per il danno cd.

rogito successivo concernente lo stesso cespite. Ed infatti, non è un caso che proprio in materia di responsabilità civile notarile si registrano numerosi arresti giurisprudenziali relativi a tale tipologia di richieste risarcitorie. 30

Cfr., tra le altre, Cass., 3.5.2016, n. 8703.

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Saggi e pareri

lungo latente. E ciò malgrado che il professionista assicurato abbia per anni puntualmente pagato un ricco premio all’assicurazione, senza ottenere, al momento della richiesta risarcitoria ultratardiva, alcuna copertura. Nel contempo se la finalità dichiarata dell’assicurazione obbligatoria per gli esercenti le libere professioni in generale e, nell’ipotesi di specie, per gli esercenti attività professionali in campo medico-sanitario è quella di assicurare ai danneggiati comunque un ristoro per i danni subiti da mal practice nell’esecuzione dell’opera professionale, confidando sulla solidità dei patrimoni delle compagnie di assicurazione, tale funzione verrà di fatto disattesa in quanto, almeno per la tipologia di danni di cui si è detto, la sopravvenuta carenza di copertura assicurativa terrà indenne la compagnia da ogni obbligo risarcitorio. Di qui l’inadeguatezza di una copertura postuma decennale, peraltro limitata al solo caso di cessazione dell’attività, prevista dalla disciplina in commento, non solo nel rispondere alle esigenze di tutela dell’assicurato ma, anche, nel salvaguardare sempre e comunque i terzi danneggiati, che il legislatore avrebbe la pretesa di tutelare con la previsione dell’obbligo assicurativo in questione. Peraltro, giova sottolineare, che il vulnus di cui sopra non è neppure attenuato dalla previsione di speciale salvaguardia di cui all’art. 14 della legge Gelli, contenente l’istituzione di un “fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria”, giacché nelle ipotesi contemplate al comma 7° della norma non rientra il caso dell’assenza di copertura assicurativa conseguente ad una richiesta risarcitoria eccedente la garanzia postuma decennale. Se l’ipotesi fosse stata, invece, prevista, certamente il meccanismo di tutela assicurativa sarebbe stato più completo e rispondente ed esigenze effettive di tutela tanto dell’assicurato quanto dei terzi danneggiati, senza, peraltro, snaturare le finalità del fondo né gravarlo eccessivamente sotto il profilo dell’esposizione dello stesso a richieste risarcitorie, considerata la peculiarietà e la marginalità dal punto di vista numerico delle richieste risarcitorie ultratardive.


L’assicurazione della r. c. per i rischi sanitari

9. Le trattative con il danneggiato e l’obbligo di comunicazione al danneggiante L’art. 13 della legge in questione, dopo aver previsto che le strutture sanitarie e sociosanitarie e le imprese di assicurazione che prestano la copertura assicurativa nei confronti del personale medico-sanitario comunicano all’esercente la professione sanitaria l’instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato, entro dieci giorni dalla ricezione della notifica dell’atto introduttivo, successivamente dispone che “Le strutture sanitarie e sociosanitarie e le imprese di assicurazione entro dieci giorni comunicano all’esercente la professione sanitaria, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con avviso di ricevimento, l’avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato, con invito a prendervi parte”. Avendo cura di precisare che “L’omissione, la tardività o l’incompletezza delle comunicazioni di cui al presente comma preclude l’ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa di cui all’articolo 9”. La norma è coerente sia con la previsione dell’azione diretta nei confronti dell’impresa di assicurazione del soggetto danneggiato che con la previsione della partecipazione al giudizio promosso direttamente contro l’assicurazione o contro la struttura sanitaria del soggetto danneggiante, quale litisconsorte necessario (art. 12, comma 4°). Opportunamente è richiesta la partecipazione del sanitario alla fase delle possibili trattative per la transazione della lite; detta previsione, benché non sia espressamente contemplato, andrebbe logicamente estesa alla fase della media-conciliazione obbligatoria sia per i giudizi promossi contro le assicurazioni che nei giudizi relativi a responsabilità medico-sanitaria intentati contro le strutture e gli operatori. E, perciò, pure in mancanza di una previsione espressa, sussistente, invece, in ordine alla partecipazione alla procedura di consulenza tecnica preventiva ex art. 8, comma 4°, della legge, per tutte le parti coinvolte, si ritiene che fin da tale fase sia prudenzialmente opportuno, nel rispetto dei tempi e dei modi sopra indicati, assicurare la partecipazione rispettivamente del personale medico-sanitario danneggiante, da parte

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dell’assicurazione o della struttura sanitaria che abbia avuto l’invito alla mediazione, o della struttura sanitaria da parte dell’assicurazione, pena, in mancanza, il maturare della preclusione delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa di cui all’articolo 9 della legge in questione.

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Saggi e pareri

Saggi e pareri

L’aiuto al suicidio tra norme ordinarie e deontologia medica

g g sa re e a p

Teresa Pasquino

Professoressa nell’Università di Trento Sommario: 1. L’aiuto al suicidio nell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018. – 2. Lo stato attuale della legislazione ordinaria sul fine vita. – 3. Tra norme ordinarie e norme del Codice di deontologia medica. – 4. Il limite dell’eutanasia e la via delle cure palliative. – 5. Tra il dire e il fare…

Abstract: Con l’ordinanza n. 207 del 16 novembre 2018, la Corte costituzionale ha invitato il legislatore ad integrare la disciplina del divieto dell’aiuto al suicidio con la previsione di cause di giustificazione ove ricorrano specifici presupposti, da essa espressamente indicati. Le considerazioni svolte nel presente lavoro tendono a vagliarne l’incidenza sulle norme di deontologia professionale del medico. With the order n. 207 of November 16, 2018, the Constitutional Court has asked the legislator to integrate the discipline of the prohibition of the aid to suicide with the provision of causes of justification where specific conditions exist, expressly indicated by it. The considerations made in this work tend to examine the impact on the medical professional ethics standards.

1. L’aiuto al suicidio nell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018 Era da tempo balzata all’attenzione mediatica delle cronache la vicenda umana di DJ Fabo, l’uomo che, a seguito di un incidente stradale, era rimasto paralizzato, divenuto cieco e tetraplegico, non più autosufficiente. Rifiutandosi di vivere in quello stato psico-fisico, nel tempo, aveva maturato la decisione di porre fine alla sua vita ed aveva

deciso di recarsi in Svizzera per essere aiutato a morire. In quest’ultima scelta, aveva chiesto di essere accompagnato da Marco Cappato, esponente dell’Associazione “Luca Coscioni” che ha sempre avuto tra le sue finalità anche quella di sensibilizzare il legislatore alla creazione di una legge sul fine vita. Rientrando in Italia, Cappato si era autodenunciato, sicché veniva accusato di aver violato l’art. 580 c.p.. Nel corso dello svolgimento del giudizio penale, la Corte di assise di Milano sollevava la questione di legittimità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui detta norma non prevede l’esclusione della punibilità di quelle pratiche di aiuto alla fine della vita «quando siano connesse a situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile o indegna dal malato stesso»1. Com’è noto, nel nostro ordinamento il suicidio non è punito dal codice penale; mentre è punito severamente (con la reclusione da cinque a dodici anni) chi concorre nel suicidio altrui, tanto nella forma del concorso morale, vale a dire determinando o rafforzando in altri il proposito sui-

I commenti all’ordinanza sono già numerosi; per una disamina delle questioni e per la bibliografia in argomento cfr. Aa. Vv., Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, a cura di Marini-Cupelli, Napoli, 2019. Si vedano anche i contributi presenti nel volume Aa. Vv., Autodeterminazione e aiuto al suicidio, a cura di Fornasari - Picotti - Vinciguerra, Padova, 2019. 1

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cida, quanto nella forma del concorso materiale, ossia agevolandone «in qualsiasi modo» l’esecuzione. Secondo la Consulta il legislatore, con questa previsione, ha inteso proteggere il soggetto da decisioni in suo danno: «non ritenendo, tuttavia, di poter colpire direttamente l’interessato, gli crea intorno una “cintura protettiva”, inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo con lui». A parere della Consulta, «Il divieto, anche nell’odierno assetto costituzionale, ha una sua “ragion d’essere” soprattutto nei confronti delle persone vulnerabili, che potrebbero essere facilmente indotte a concludere prematuramente la loro vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto». Pertanto, è stato ritenuto perfettamente in linea con il sistema consentire al legislatore di punire condotte che «spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3, comma 2°, Cost.). E tuttavia, sempre a parere della Corte, non si può non tener conto di specifiche situazioni, inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta. «Il riferimento – scrive la Corte – è, più in particolare, alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Si tratta, infatti, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare».

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Già nella legge n. 219 del 22 dicembre 20172 sul fine vita, è riconosciuto ad ogni persona «capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, compresi i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale, sottoponendosi a sedazione profonda continua. L’esercizio di questo diritto viene inquadrato nel contesto della «relazione di cura e di fiducia», la cosiddetta alleanza terapeutica, tra paziente e medico. Se, dunque, il valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di lasciarsi morire con l’interruzione dei trattamenti sanitari, ritiene la Corte che «non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale». In questi casi, «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli articoli 2, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile». Con la pronuncia richiamata, la Corte non ha, tuttavia, ritenuto di poter porre rimedio a tale discrasia con una declaratoria di incostituzionalità della

V. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 247 ss.; Canestrari, I fondamenti del biodiritto penale e la legge 22 dicembre 2017, n. 219, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2018, 55 ss. Un primo commento alla legge in Forum: la legge n. 219 del 2017. Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, in BioLaw Journal - Rivista di Biodiritto, 2018; Rodolfi – Casonato – Penasa, Consenso informato e DAT: tutte le novità, Milano, 2018; Foglia, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico, Torino, 2018; Baldini, Prime riflessioni a margine della legge n. 219/2017, in BioLaw Journal - Rivista di Biodiritto, 2018, 97 ss.; Cacace, Autodeterminazione in salute, Torino, 2017. 2


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L’aiuto al suicidio

norma che contempla il reato di aiuto al suicidio a vantaggio di chi si trovi in una situazione quale quella descritta. «Una simile soluzione lascerebbe, infatti, del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi». Di qui la decisione adottata di rinviare il giudizio al mese di settembre per dare al legislatore la possibilità di intervenire con una apposita disciplina «che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela»3. Nel frattempo, negli altri eventuali analoghi giudizi, spetterà al giudice valutare se, alla luce dei principi ora affermati, ci siano le condizioni per sollevare una uguale questione di legittimità costituzionale, così da evitare l’applicazione della disposizione censurata.

2. Lo stato attuale della legislazione ordinaria sul fine vita Nell’attuale sistema normativo sarebbe certamente illecita, perché contraria a talune norme penali, la richiesta del paziente volta ad ottenere da altri un comportamento attivo, idoneo a provocare la

La Consulta, con sentenza di cui si attende il deposito, ha deciso il 24 settembre 2019, ribadendo quanto aveva argomentato con l’ordinanza n. 207/2018, per la non punibilità dell’aiuto al suicidio, alle condizioni in essa fissate e previa verifica da parte del SSN e del parere del comitato etico territorialmente competente. Nelle more si è anche pronunciato il Comitato Nazionale di Bioetica che, con parere reso il 18 luglio 2019 (consultabile all’indirizzo: www.bioetica.governo. it), ha affrontato il tema dell’aiuto al suicidio sostanzialmente operando una ricognizione dello “stato dell’arte” sulla materia nella consapevolezza che le opinioni dei componenti fossero divergenti ed ha raccomandato: «[…]l’impegno di fornire cure adeguate ai malati inguaribili in condizione di sofferenza; chiede che sia documentata all’interno del rapporto di cura un’adeguata informazione data al paziente in merito alle possibilità di cure e palliazione; ritiene indispensabile che sia fatto ogni sforzo per implementare l’informazione ai cittadini e ai professionisti della sanità delle disposizioni normative riguardanti l’accesso alle cure palliative; auspica che venga promossa un’ampia partecipazione dei cittadini alla discussione etica e giuridica sul tema e che vengano promosse la ricerca scientifica biomedica e psicosociale e la formazione bioetica degli operatori sanitari in questo campo».

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morte (c.d. eutanasia consensuale attiva). Essa si porrebbe, infatti, in aperto contrasto con l’art. 579 c.p., il quale individua il reato dell’omicidio del consenziente che, per essere integrato nei suoi estremi, necessita, per l’appunto, di una condotta attiva ab esterno diretta a provocare la morte, ancorché ottenuta col consenso o a richiesta dell’interessato. Più problematica appariva, invece, la riconduzione al contesto normativo di riferimento della dichiarazione di volontà avente ad oggetto il rifiuto o la sospensione o l’interruzione di trattamenti sanitari; laddove, oggi il valore dell’autonomia della persona incontra l’ obbligo che deriva in capo al medico curante, di desistere dal trattamento, non essendo consentito alcun intervento contro la volontà della persona, ancorché l’omissione dell’intervento terapeutico possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte4.

Al riguardo, dai dati normativi e dai canoni deontologici attualmente in vigore emerge un quadro di riferimento piuttosto complesso. Infatti, da un lato, si è di fronte all’art. 8 della Convenzione di Oviedo, che prevede espressamente che «Allorquando in ragione di una situazione di urgenza, il consenso appropriato non può essere ottenuto, si potrà procedere immediatamente a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata»; principio, questo, che potrebbe essere richiamato ogni qual volta il medico dovesse intervenire senza preventivo consenso adducendo, appunto, il verificarsi di una situazione di urgenza. Dall’altro lato, esiste una serie di norme deontologiche che necessitano di adeguata armonizzazione. Sul punto, si è espresso anche il Comitato nazionale di bioetica che, con parere del 24 ottobre 2008, Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico (consultabile all’indirizzo: www.bioetica.governo. it), ha affrontato la questione del rifiuto (richiesta di non inizio) e della rinuncia (richiesta di sospensione) dei trattamenti sanitari salva-vita da parte del paziente cosciente e capace di intendere e di volere, adeguatamente informato sulle terapie ed in grado di manifestare in modo attuale la propria volontà; mentre, non ha tenuto conto delle situazioni riguardanti pazienti incapaci di esprimere una scelta consapevole e giuridicamente rilevante (minori, malati di mente, pazienti in stato vegetativo etc.). Il Comitato nazionale di bioetica ha ritenuto che il diritto a rifiutare le cure da parte del paziente capace e consapevole sia un diritto il cui fondamento è ormai incontrovertibile, potendo esso essere rinvenuto nell’ordinamento nazionale e sopranazionale e nel diritto vivente; ma ha, altresì, ritenuto necessario distinguere la posizione del paziente autonomo, ossia in grado di sottrarsi alla terapia

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Tali dichiarazioni si sottrarrebbero al giudizio di illiceità per contrarietà alle norme penali per la problematica configurabilità nel comportamento del medico del dovere di cura e dei suoi limiti a fronte della richiesta di sospensione o di interruzione del trattamento da parte del paziente5. Non è, infatti, incontroverso, agli effetti del ricorso di talune fattispecie penali, qualificare in tali casi la condotta del medico, posto che, per una parte della dottrina6, in tali situazioni, è necessario ricondurre il comportamento omissivo del medesimo al principio, di portata generale, in forza del quale «al venir meno dell’obbligo di cura corrisponde il sorgere dell’obbligo di omettere le cure»; sicché, interrompere una terapia rifiutata avrebbe, sul piano normativo, il medesimo significato che il non iniziarla, ossia quello di una doverosa omissione di trattamento terapeutico in assenza dei presupposti del dovere, con con-

senza coinvolgimento di terzi, da quella del paziente che si trovi in condizioni di dipendenza tali da richiedere l’intervento del medico. Su tali profili, sia consentito rinviare a Pasquino, Autodeterminazione e dignità della morte, Padova, 2009, 83 ss. La materia dell’autodeterminazione nel rapporto medico paziente è stata altresì ampiamente e proficuamente indagata da Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010. Il caso più noto, affrontato dalla giurisprudenza, è quello che ha dato luogo alla sentenza del Trib. Roma, 15.12.2006, in Questione giustizia, 2006, 6 ss. (su cui, in dottrina, cfr. Viganò, Esiste un diritto a “essere lasciati morire in pace?”. Considerazioni a margine del caso Welby, in Dir. pen proc., 2007, 5 ss.; Donini, Il caso Welby e le tentazioni pericolose di uno «spazio libero dal diritto», in Cass. pen., 2007, 902 ss.) nella quale il giudice civile, pur riconoscendo il diritto all’autodeterminazione del paziente, ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’interessato argomentando che l’ordinamento giuridico non prevede alcuna «disciplina specifica sull’orientamento del rapporto medico-paziente e sulla condotta del medico ai fini dell’attuazione pratica del principio dell’autodeterminazione per la fase finale della vita umana, allorché la richiesta riguardi il rifiuto o l’interruzione di trattamenti medici di mantenimento in vita del paziente» e che, in assenza di una definizione giuridica di ciò che va considerato accanimento terapeutico, la richiesta di sospensione non fosse azionabile. 5

Così, Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia, in Aa. Vv., Il valore della vita, Milano, 1985, 162 ss. Per la posizione attuale della dottrina penalistica, cfr. i contributi citati nella nt. 1. 6

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seguente esclusione di responsabilità derivante dall’art. 40 c.p.. Al riguardo, non si è mancato, peraltro, di rilevare come, ai fini della condotta integrante gli estremi delittuosi, altro è il caso della omissione delle cure, altro quello della interruzione. Mentre, infatti, nel caso di omissione, a fronte di un rifiuto del paziente, la morte di questi può essere spiegata, sul piano causale, come effetto della patologia di cui egli soffriva, nel caso, invece, di interruzione di cure, l’evento della morte non potrebbe essere spiegato senza fare riferimento alla condotta positiva del medico - che ha, ad esempio, materialmente “staccato la spina” di una macchina salva vita – la quale è condizione sine qua non dell’evento morte e comportamento penalmente tipico, rilevante ai fini del reato di omicidio. In questa ipotesi, l’esclusione della responsabilità penale dipenderebbe dal ricorso di una possibile causa di giustificazione; questa, tuttavia, non potrebbe essere rappresentata dal consenso dell’avente diritto, stante il divieto dell’omicidio del consenziente ex art. 579 c.p., e neppure dall’aiuto al suicidio, anch’esso punito ex art. 580 c.p., mentre potrebbe essere, invece, integrata dalla scriminante dell’adempimento di un dovere: per l’appunto, il dovere di interrompere la terapia rifiutata dall’interessato. Prima della l. n. 219/2017, nel caso di interruzione delle cure, l’opzione tra l’una o l’altra impostazione rilevava, ai nostri fini, oltre che per rinvenire una eventuale condotta penalmente rilevante del medico, anche per vagliare l’eventuale carattere di illiceità della dichiarazione anticipata del paziente, dovendosi essa ritenere illecita per contrarietà a norme imperative o di ordine pubblico e, come tale, passibile di invalidità assoluta, ove nella condotta del medico si fosse rinvenuta un’azione positiva, penalmente rilevante; ovvero, dovendosi, invece, propendere per la sua ammissibilità qualora non si fosse rinvenuta in essa una condotta penale “tipica” o, pur rinvenendosi, si potesse richiamare una giustificazione scriminante (adempimento di un dovere) che consentisse di


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sottrarre la dichiarazione al giudizio di illiceità e, dunque, alla sua nullità7. Con l’entrata in vigore della l. n. 219/2017 opportunamente dispone, ora al riguardo, l’art. 1, commi 5° e 6°, stabilendo che: «5. Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, con le stesse forme di cui al comma 4, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento, con le stesse forme di cui al comma 4, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. 6. Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale. Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali».

3. Tra norme ordinarie e norme del Codice di deontologia medica Le norme di rango primario e la stessa ordinanza della Corte costituzionale sopra citata, pur nell’autorevolezza dei loro dispositivi, non possono fare a meno di confrontarsi con altra categoria di regole di comportamento; quelle regole che sono destinate ai protagonisti veri e propri delle vicende del fine vita – ossia, ai medici ed agli operatori sanitari – e che contengono i canoni di correttezza professionale cui deve essere adeguato il loro comportamento nello svolgimento della relazione di cura8. Nella riformulazione concettuale e sostanziale che si è venuta affermando della relazione medico-paziente, viene preliminarmente in considerazione l’art. 20 cod. deont., rubricato, appunto, «Relazione di cura», dove è particolarmente valorizzata la qualità del rapporto che si instaura tra medico e paziente, tutto incentrato sulla libertà di scelta, garantita al paziente medesimo come suo diritto fondamentale, nonché la consapevolezza di agire nel rispetto della reciproca autonomia e con assunzione di responsabilità. Tale rapporto è espressamente qualificato come «alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti e su un’informazione comprensibile e completa», tanto che il tempo stesso della informazione e della comunicazione è espressamente considerato tempo di cura9. Si tratta di una regola che ben si allinea con i principi fondamentali, espressi già nelle norme di rango superiore, della libertà di autodeterminazione e del consenso consapevole, libero ed informato del paziente; peraltro, una regola alla quale fa da naturale contrappeso il successivo art. 22 cod. deont., laddove è garantito al medico il potere di «rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contra-

Il riferimento è al Codice di deontologia medica del 2014, attualmente in vigore.

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Sia consentito rinviare a Pasquino, voce «Autodeterminazione», in Le parole del diritto. Scritti in onore di Carlo Castronovo, 2018, Napoli, 119 ss.

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9 Sul punto, cfr. specificamente Penasa, Consenso informato e DAT: tutte le novità, in Forum: la legge n. 219 del 2017, op. cit., 31 ss.

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sto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici»; naturalmente, avendo cura di accertarsi previamente che «il suo rifiuto non sia di grave ed immediato nocumento per la salute della persona, fornendo comunque ogni utile informazione e chiarimento per consentire la fruizione della prestazione»10. Sono questi i due margini entro i quali deve svolgersi la relazione terapeutica tra medico e paziente all’insegna di tutti quei canoni residuali che la legge ordinaria e le regole di deontologia prescrivono: infatti, sia la l. n. 219 del 2017, sia l’ordinanza della Consulta n. 207 del 2018, pur senza fare esplicito riferimento ai canoni deontologici, riconoscono e muovono da questi presupposti per incardinare il diritto all’autodeterminazione del paziente anche quando esso possa essere declinato sotto forma di assistenza al suicidio. Si è già rilevato, al riguardo, come il diritto di rifiutare e di interrompere i trattamenti medici sia stato considerato parte integrante ed essenziale della «relazione di cura»; ne è prova quanto disposto al comma 5° dell’art. 1, l. n. 219/2017 ove è previsto che «Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, compresi l’alimentazione e l’idratazione artificiali, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica»; fermo restando, peraltro, quanto previsto all’art. 1, comma 6°, ove è stabilito che l’obbligo del medico di rispettare la volontà espressa dal paziente lo esonera da responsabilità civile o penale. In linea con tale previsione, l’ordinanza della Corte costituzionale si spinge anche oltre e riconosce, altresì, che, in simili casi, «la decisione di lasciar-

10 È, questo, un profilo assolutamente ignorato dalla l. n. 219/2017, ove manca qualsiasi riferimento al diritto all’obiezione di coscienza che deve essere garantito al medico ed a qualunque operatore sanitario e che, invece, è presente in altre leggi ordinarie che disciplinano materie altrettanto delicate; si pensi alla disciplina in materia di interruzione della gravidanza.

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Saggi e pareri

si morire potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua»11. Peraltro, con il rifiuto e la rinuncia alle cure ci si muove, tuttavia, sempre nell’ambito dell’autodeterminazione del paziente e del suo diritto di acconsentire o rifiutare i trattamenti in quanto nello stato di piena capacità e consapevolezza. La questione diviene più problematica laddove si presentino casi di necessità di interventi urgenti ovvero in situazioni di pericolo di vita, in quanto, mentre la l. n. 219/2017, al comma 7° dell’art. 1 prevede che «Nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i componenti dell’équipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla», il Codice di deontologia, all’art. 36, stabilisce che «Il medico assicura l’assistenza indispensabile, in condizioni d’urgenza e di emergenza, nel rispetto delle volontà se espresse o tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento se manifestate», a prescindere dal fatto che le condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla . Emerge chiaramente dalla lettura sinottica delle norme che mentre la norma deontologica sembra maggiormente orientata a far prevalere la volontà del paziente, la norma ordinaria di rango superiore, pone, invece, la riserva – che sarà il medico a dover sciogliere in scienza e coscienza – in ordine al recepimento della volontà del paziente, potendo egli, alla luce delle circostanze e delle condizioni cliniche del paziente, anche disattendere eventualmente la sua volontà. Affidata la decisione a questo tipo di valutazione da parte del medico, nelle situazioni di emergenza e di urgenza, alla luce della diversa impostazione testuale tra norma ordinaria e norma deontologica, egli

Corte cost., 16.11.2018, n. 207 in parte motiva, ove il riferimento esplicito è alla previsione di cui all’art. 2, comma 2° della legge n. 219 del 2017 che prevede espressamente, su consenso del paziente, il ricorso alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore. 11


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potrebbe non rispettare la volontà del paziente ed assumere una decisone discrezionale, seppure fondata e motivata, in osservanza della norma ordinaria; ovvero, rispettare la decisione del paziente, naturalmente previa adeguata informazione sulle conseguenze che ne potrebbero derivare, in ossequio alla norma deontologica: con la dovuta precisazione che, mentre nel primo caso la regola è contenuta in una norma ordinaria di rango sovraordinato, nel secondo caso, la regola di comportamento è affidata ad una norma di rango inferiore la quale non è dotata dello stesso grado precettivo di quella ordinaria.

4. Il limite dell’eutanasia e la via delle cure palliative È chiaro ormai a tutti e suggellato nelle norme di legge attualmente vigenti che l’autodeterminazione del paziente non può riconoscersi fino al punto di richiedere al medico di eseguire o agevolare trattamenti sanitari diretti a provocare la morte12. In questo, sia la l. n. 219/2017 (art. 1, comma 6°), sia il Codice di deontologia medica (art. 17), sia l’ordinanza della Corte costituzionale si muovono nella stessa direzione. Diversa è la prospettazione qualora il paziente si trovi nelle condizioni individuate dalla Consulta – a) persona con patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli – e non sia interessato alla interruzione dei trattamenti sanitari di sopravvivenza ed alla successiva terapia di cure palliative ma voglia sottrarsi alla morte lenta e prolungata cui potrebbe andare incontro con simili trattamenti.

12 Sia consentito ancora rinviare a Pasquino, Sul contenuto delle DAT tra autodeterminazione del paziente e decisioni di altri: profili civilistici, in BioLaw Journal - Rivista di Biodiritto, 2019, 283 ss.; Pasquino, Notazioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 18 novembre 2018: profili civilistici, in Autodeterminazione e aiuto al suicidio, cit., 107 ss.

A fronte di tale esigenza, l’ordinanza della Corte costituzionale apre alla possibilità che il paziente, così come ormai può chiedere l’interruzione delle cure che conduce alla morte, allo stesso modo possa chiedere l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa, alla predetta interruzione e così motiva: «Entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive». Da qui l’invito al legislatore affinché provveda – in un tempo che, peraltro, al momento in cui si scrive sta per scadere invano, essendo fissato al 24 settembre 2019 –, a completare la disciplina del divieto dell’aiuto al suicidio con la previsione di un esonero da responsabilità penale per quei casi in cui il paziente, che si trovi nello stato dalla Corte descritto, chieda di essere aiutato a morire dignitosamente13. E, tuttavia, l’invito al legislatore di muovere in tal senso non è “scoperto” e privo di opportuni accorgimenti se si pone nel giusto rilievo la pre-

Precisa, altresì, la Consulta «Dovrebbe essere valutata, infine, l’esigenza di adottare opportune cautele affinché – anche nell’applicazione pratica della futura disciplina – l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza – in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010 – sì da porlo in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza. Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative dovrebbe costituire, infatti, un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente». 13

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cisazione operata, al riguardo, dalla Consulta in ordine alla necessità di intraprendere ogni azione utile ad evitare che una simile possibilità rischi di diventare per il futuro una pratica di vero e proprio abbandono terapeutico; precisazione che ben si colloca sia nel quadro dei principi ispiratori della l. n. 219/2017, sia nel quadro delle norme di deontologia professionale. Infatti, vi è, da un lato, la legge ordinaria, con la previsione della tutela rafforzata dei malati con prognosi infauste, ai quali, escluse le pratiche integranti accanimento terapeutico14, è riconosciuto il diritto al trattamento con le cure palliative. Ancora più circostanziata è la norma deontologica che, all’art. 39, prevede che «Il medico non abbandona il paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza, ma continua ad assisterlo e, se in condizioni terminali, impronta la propria opera alla sedazione del dolore e al sollievo dalle sofferenze tutelando la volontà, la dignità e la qualità della vita. Il medico, in caso di definitiva compromissione dello stato di coscienza del paziente, prosegue nella terapia del dolore e nelle cure palliative, attuando trattamenti di sostegno delle funzioni vitali finché ritenuti proporzionati, tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento»; un principio, questo, che trova la sua piena attuazio-

Giova riportare quanto previsto dall’art. 2, l. n. 219/2017 «Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita. 1. Il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38. 2. Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente. 3. Il ricorso alla sedazione palliativa profonda continua o il rifiuto della stessa sono motivati e sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico». 14

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ne anche nella legge in materia di cure palliative, espressamente richiamata dalla l. n. 219/2017. Con la legge n. 39 del 26 febbraio 1999, infatti, le cure palliative sono state inserite nell’azione di intervento pubblico sanitario, con conseguente ampliamento dell’ambito di incidenza anche nella fase non terminale della malattia, divenendo parte essenziale ed integrante il piano sanitario nazionale15. Dopo venti anni, caratterizzati da intenti normativi meramente programmatici, l’intervento del legislatore più significativo e completo in materia è stato quello contenuto nella legge 15 marzo 2010, n. 38 nella quale, qualificandosi in modo esplicito l’accesso alle cure palliative quale vero e proprio diritto della persona (art. 1), è stata enucleata già la ratio dell’intero corpo normativo; dal quale emerge, in primis, l’intento di conferire effettività a tale diritto mediante l’istituzione di una rete nazionale per le cure palliative – costituita dall’insieme delle strutture sanitarie, ospedaliere e territoriali, e assistenziali, delle figure professionali e degli interventi diagnostici e terapeutici disponibili nelle regioni e nelle provincie autonome dedicati all’erogazione delle cure palliative – e da una rete nazionale di terapia del dolore. Le due reti operano in coordinamento tra loro sia a livello nazionale che regionale (art. 5, 1° comma), avendo come elemento comune denominatore l’importanza accordata alla “qualità della vita”, nonché il sollievo dalla sofferenza, quale componenti fondamentali del diritto alla salute dei malati terminali Nei casi di gravi patologie in cui sono praticabili, le cure palliative diventano, pertanto, componente essenziale del contenuto del diritto alla salute dei pazienti gravi, inteso sia nella sua dimensione “esterna” – inclusiva dell’apparato familiare del paziente – sia nella sua dimensione prettamente personalistica, ossia quale elemento qualificante della prestazione sanitaria che è dovuta a quella particolare categoria di pazienti con bisogno sa-

15 Sia consentito il rinvio a Pasquino, Le cure palliative nel prisma del diritto alla salute dei malati terminali in questa Rivista, 2017, 79 ss.


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nitario, sociale ed assistenziale “complesso”, nei confronti dei quali ancora più marcata si pone l’esigenza di tutelare la loro identità e la loro dignità.

5. Tra il dire e il fare … Nella cultura moderna, l’attenzione sulla fine della vita umana non è rimasta ferma al “fatto” della morte, ma si è estesa all’ “evento” del morire, un processo di cui appare assai difficile descrivere e definire i termini16, soprattutto allorquando esso riguardi persone sottoposte a trattamenti medici prolungati, in stato vegetativo permanente e spesso irreversibile. All’interno di questo processo si dipana il dilemma della necessità di distinguere tra il dovere di cura ed il divieto di accanimento terapeutico; si tratta di un momento dell’esistenza dell’uomo in cui una vita organica viene protratta o in assenza di una vita cognitiva ed interiore ovvero in eventuale conflitto con la capacità dell’uomo di sopportare il trattamento cui è sottoposto e che si sa già essere in una condizione di non ritorno. È stato opportunamente rilevato come di fronte al dolore, che può mettere alla prova la vita dell’uomo, sia necessario distinguere le diverse aree del disagio psico-fisico della persona che si percepisca come morente17, potendosi, allo stato, indivi-

Vovelle, La morte e l’occidente dal 1330 ai giorni nostri, 2 ed., Roma, 2000, rileva come la nostra civiltà cristiana è stata portatrice del modello, esemplificato dalla morte dei santi, della buona morte che si raggiunge giacendo a letto malati. Essa è quel tipo di morte che consente di dare le proprie disposizioni, di mettersi in pace con il cielo, evitando la sorpresa della morte violenta, valorizzazione obbligata del dolore in un’epoca in cui contro di essa nulla o ben poco era possibile. Il colpo di grazia misericordioso era il privilegio rarissimo o clandestino di pochi: il medico Cabanis che dà l’oppio a Mirabeau. Tra i giuristi, su questo specifico aspetto, v. per tutti, Rodotà, La vita e le regole tra diritto e non diritto, 2006, 247 ss., il quale rileva, al riguardo: «Ma se la morte appartiene alla natura, il morire è sempre più governabile dall’uomo, appartiene alla sua vita, e dunque rientra nell’autonomia delle scelte di ciascuno». Così, testualmente, a pagina 248. 16

Rileva, al riguardo, Scarpelli, La bioetica. Alla ricerca dei principi, in Bioetica laica, Milano, 1998, 20, come, nel delicato passaggio dalla vita alla morte, la possibilità etica di

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duare una fase in cui la persona soffre un dolore fisico non passibile di trattamento lenitivo e tale da pregiudicare quello stato minimo di benessere esistenziale; una fase in cui, pur in assenza di dolore fisico, la persona si trovi in un profondo disagio psichico per motivi legati alla sua concezione ideologica o religiosa della vita; una fase in cui la persona si trovi ad affrontare un dolore fisico sopportabile ma subisca dei gravi degradi fisio-psichici che la costringono ad essere fortemente dipendente da altri e viva tale sudditanza con disagio ed umiliazione. In tali situazioni, appare indubbio che la disciplina delle variegate istanze che possono promanare dal soggetto che soffre e, dunque, dei poteri che egli può esercitare, non possa che essere improntata al principio del consenso, avendo come fine ultimo la salvaguardia del diritto alla qualità ed alla dignità della vita; principi questi cui la scienza medica si è già da tempo conformata per effetto delle previsioni di legge e di autoregolamentazione ormai vigenti. In simili circostanze, è certo che il dolore, la malattia e tutti gli interventi sanitari che si interpongono tra la persona ed il suo corpo costituiscano una scissione dell’individuo nella sua interezza e possano rendere problematica la scelta tra i casi in cui appartiene alle esigenze primarie della persona intervenire sul corpo – anche in modo particolarmente invasivo – ed i casi in cui la lotta assoluta ed indefinita nei confronti della malattia non sia coerente con il fine di realizzare il benessere psico-fisico dell’uomo. Da tempo autorevole dottrina18 ha colto il punto più delicato – da un punto di vista giuridico – del rapporto tra l’identificazione o disidentificazione dell’io con il corpo nelle decisioni sulla propria sopravvivenza ed, al riguardo, ha rilevato che: «Qui infatti il problema del rapporto tra sé e il corpo esonda nel rapporto tra sé e la vita, nel problema di definirsi vivo, nonostante e contro una definizione di morte, o nel problema di voler-

lasciare a ciascuno la scelta finale per sè stesso debba prevalere sulla scelta etica di imporre norme e valori per tutti. Zatti, Il corpo e la nebulosa dell’appartenenza, in Nuova giur. civ. comm., 2007, II, 1 ss.

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si/non volersi vivo; e quindi quasi inevitabilmente nella concezione del rapporto tra corpo e persona»; da qui, gli interrogativi che l’Autore appena citato si pone con riguardo al corpo di una persona in coma irreversibile circa il potere statuale di trattare quel corpo, contro la convinzione della persona, «come soggetto di cui si asserisce un diritto inviolabile alla vita e un relativo dovere di prolungare la sopravvivenza […] E nel paradosso di identificazione e disidentificazione tra me e un corpo che mi costringe a sopportare l’insopportabile, nel disaccordo radicale tra forza del corpo (o forza dei sostegni terapeutici) e riconoscimento di sé, come non assecondare un diritto a seguire la via dell’io che non si riconosce più nella vita del corpo e che si riconosce interamente nel desiderio di chiudere l’esistenza? In altri termini, che rapporto c’è tra diritto all’identità e diritto alla vita? Può esistere un dovere alla vita contro un diritto all’identità? Il diritto alla vita è diritto alla sopravvivenza del corpo o è diritto a essere vivo, cioè a essere sé stesso in vita? E se così fosse, come dovremmo ragionare sull’indisponibilità del diritto alla vita? Possiamo davvero ammettere che un potere sociale mi imponga di essere ciò che non riconosco come me, semplicemente che mi imponga di esistere contro la mia identità?»19.

Questi i termini della questione così come è posta da ZatIl corpo e la nebulosa dell’appartenenza, cit.,11 s. Al profilo della identità della persona dedica ampie pagine Schlesinger, La persona (rilevanza della nozione e opportunità di rivederne le principali caratteristiche), in Riv. dir. civ., 2008, 384 ss., ove il concetto di identità personale, al di là dei dati generici o biografici che distinguono una persona, è posto in stretta relazione con la coscienza, così come acquisita da ciascun individuo nel corso della sua evoluzione: «coscienza evoluta o superiore che consente alla nostra specie di avere consapevolezza di chi siamo e di come viviamo, ed in particolare di essere, ciascuno di noi, l’autore delle proprie scelte e capace di riflettere e valutare “in prima persona” quanto gli accade, preferendo tra varie opzioni, volta a volta, quale abbracciare. Con l’acquisizione della coscienza auto-riflessiva (o superiore) diventiamo consapevoli (quanto meno in larga misura ed a partire dall’età in cui si raggiunge una adeguata maturità fisica e mentale) dei nostri cambiamenti e di quelli dell’ambiente che ci circonda, consentendoci di monitorare rapidamente le alternative che nei vari momenti ci troviamo aperte, cercando, in modi flessibili, le determinazioni da considerare per noi più confacenti e della cui realizzabilità pensiamo di essere in grado (in buona percentuale) di tentare

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Ricondotto ad un contesto più ampio – quello in cui si pongono le questioni esistenziali della vita dell’uomo -, il dilemma si pone perché è incerto anche il concetto stesso di “vita”, il quale, nel confronto tra scienza medica e scienza filosofica, è sempre in continua oscillazione tra la vita anonima dell’organismo e quella personalizzata dell’individuo; un contesto in cui emergono in tutta evidenza il ruolo e la rilevanza che assumono i due fondamentali criteri di riferimento per operare scelte più consone e più vicine alla dimensione esistenziale di ciascun individuo: il rinvio obbligato è al principio della dignità della persona, principio che, nella concezione moderna in cui è pervenuto ai giorni nostri, appare strettamente connesso all’altro fondamentale principio qual è quello dell’autodeterminazione consapevole ed informata: entrambi sono i principi cardine della relazione di cura.

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ti,

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di renderci conto, pur tra inevitabili errori e valutazioni imprecise o spesso perfino più o meno scorrette. La coscienza presuppone che la persona sia diventata capace di districarsi tra enormi insiemi di alternative e di tentare di operare scelte dopo aver valutato frettolosamente vantaggi ed inconvenienti delle possibili preferenze» (così, testualmente, a pagina 387).


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Saggi e pareri

L’attività medico-chirurgica in strutture pluripersonali complesse

g g sa re e a p

Luigi Cornacchia

Professore nell’Università di Bergamo

Abstract: Nella giurisprudenza in tema di responsabilità medica spesso la struttura necessariamente plurisoggettiva della cooperazione multidisciplinare che connota l’attività sanitaria in équipe viene assunta come fondamento della cooperazione colposa: cosicché, in caso di esito infausto di un trattamento, la mera appartenenza all’équipe è sufficiente a giustificare l’addebito a carico del sanitario, in evidente contrasto con il principio di responsabilità per fatto proprio di cui all’art. 27 Cost. Per interpretare la responsabilità sanitaria d’équipe in maniera costituzionalmente corretta occorre individuare le ripartizioni di competenza nel contesto di forme di organizzazione multidisciplinare strutturate secondo divisione dei compiti, relazioni gerarchiche, attività poste in successione diacronica. Questo contributo intende dimostrare come sia possibile identificare sfere di competenza separate, radicate nel principio di affidamento, che originano doveri di organizzazione o anche istituzionali, orientati al miglior controllo delle differenti aree di rischio. In particolare, si suggeriscono tre tipologie di doveri giuridici, sinergici, accessori e eterotropi. The jurisprudence on medical malpractice has normally provided as ground of criminal negligence the only membership, the fact to belong to the team: but it breaks the constitutional principle of individual responsibility (art. 27 Cost.). Placing responsibility in case of treatment practised by a doctors and nursing staff means in facts locating the specific act of alleged negligence which caused the injury: it may involve a degree of disentanglement, especially because we have to do with complex multi-

disciplinary team, grounded on division of labour, hierarchical relationships, diachronic tasks. In this paper I identify separated and specialized competences based on the reliance principle, which originate duties of organisation or institutional duties too, for the control of different risk areas with the best expertise, skill and care in treating patient. In particular I suggest three kind of duties, that is synergic, accessory and eterotropic duties.

1. La cooperazione multidisciplinare, propria dell’attività sanitaria d’équipe, è connotata da più condotte, contemporanee o dislocate in tempi diversi, ma orientate al raggiungimento dell’obiettivo comune della salvaguardia e cura del paziente e per questo collegate da un nesso funzionale derivante dalla necessità di un’interazione tra diverse competenze tecnico-scientifiche, senza la quale lo scopo non potrebbe essere efficacemente perseguito. Quando l’esito dell’intervento integrato di più competenze è infausto, proprio la struttura dell’attività, ossia il «modulo organizzativo imposto da esigenze connesse alla gestione del rischio nei riguardi di un medesimo soggetto»1, nel quale è implicita in capo a ogni interveniente la consapevolezza di agire in cooperazione, viene sovente

Cass. pen., 20.9.2012, n. 36280, in CED, rv 253565.

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assunto dalla giurisprudenza come fondamento della fattispecie dell’art. 113 c.p. In tal modo, però, viene obliata una distinzione essenziale, ricavabile soltanto sul piano normativo: un conto è la plurisoggettività fattuale (l’esistenza di un’équipe, oppure di un’associazione), del tutto lecita e mai passibile di giustificare di per sé una responsabilità penale; un conto è invece la plurisoggettività derivante dalla violazione di un obbligo giuridico, che può essere oggetto anche di un rimprovero penale. Questa distinzione, estremamente banale all’apparenza, viene offuscata ogni volta che si cerchi di ricavare direttamente dalla sussistenza di un nesso psicologico, e non normativo, il fondamento della responsabilità da reato: nel caso dell’attività medica d’équipe è in re ipsa che i diversi professionisti non soltanto interagiscono, ma evidentemente interagiscono consapevolmente, avendo oltretutto necessariamente reciproca contezza, pur entro certi limiti, dell’operato altrui. È un equivoco grossolano far coincidere la cooperazione multidisciplinare con la cooperazione colposa, o pretendere di edificare la seconda con la prima. L’art. 113 c.p. incrimina precisamente una colpa di concorso, vale a dire, una situazione in cui insorgono doveri cautelari di (non) cooperazione: obblighi di diligenza rivolti al comportamento altrui, della cui violazione occorre dare dimostrazione, non potendola certo ritenere implicita nella mera evenienza, fattuale, che più soggetti si siano trovati a interagire, magari per ragioni addirittura imposte dal ruolo professionale dispiegato: quest’ultima soluzione comporterebbe altrimenti che la trasgressione dell’obbligo cautelare verrebbe fatta discendere, paradossalmente, dall’adempimento del dovere professionale. Eppure, ogni volta che “le cose vanno male”, sembra assai difficile per chi faceva parte dell’équipe, e quindi sapeva come si stavano svolgendo le cose potendosi rendere conto in linea di massima delle attività svolte o omesse da altri professionisti, riuscire a dimostrare la propria estraneità. L’errore di uno dei cooperanti, o più spesso il caso fortuito, è un’infezione che contagia irrimediabilmente tutti i membri del team, senza possibilità di immunizzarsi preventivamente (magari premunendosi di linee guida o moduli per il consenso informato) Responsabilità Medica 2019, n. 3

Saggi e pareri

o in corso d’opera (se non esigendo una qualche forma di “verbalizzazione” del proprio dissenso di fronte a qualsiasi situazione sospetta, anche a discapito della cura del paziente). Una soluzione frequente in giurisprudenza, censurabile sul piano del principio di cui all’art. 27 Cost. perché si risolve di fatto in una forma di responsabilità di posizione2. La problematica emerge in alcune situazioni tipiche. 2. In primo luogo, vanno considerate quelle forme di organizzazione strutturate secondo il metodo della divisione dei compiti, una divisione che, in particolare, è realizzata in senso orizzontale: tale modello di ripartizione, come noto, è imposto dall’esigenza di far confluire contestualmente più competenze professionali qualitativamente diversificate. Il paradigma del lavoro d’équipe, frequente nell’ambito dell’attività medico-chirurgica (relazione tra chirurgo, anestesista e medici di diverse specializzazioni), peraltro di solito presenta anche rapporti interni verticali di tipo gerarchico. Pensiamo ad esempio, alla posizione dell’anestesista: è soggetto alla direzione tecnica del chirurgo capo della équipe, ma mantiene un’autonomia piena nella fase preoperatoria, rispetto all’individuazione e revisione degli apparati tecnici, alla valutazione delle analisi, alla anamnesi in funzione del prelievo degli organi in caso di donazioni; in fase operatoria, rispetto al controllo delle condizioni del paziente in costanza di somministrazione dell’anestesia e alla trasfusione di sangue; e in fase post-operatoria, per le possibili complicazioni cardiache, respiratorie, circolatorie conseguenza di tale somministrazione3.

2 Frequente la tendenza ad addossare a tutti i medici che hanno cooperato a un intervento chirurgico la responsabilità per non avere effettuato o controllato il conteggio dei ferri, onde evitare il rischio di derelizione di parti di esso – es. garze – all’interno del corpo del paziente: Cass. pen., 6.12.2018, n. 54573, in Riv. pen., 2019, 670 ss.; Cass. pen., 25.5.2016, n. 34503, in CED, rv 267548. 3 Sui rapporti tra chirurgo e anestesista, v. la disamina giurisprudenziale di Gizzi, La responsabilità medica in équipe, in Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e di impresa


L’attività medica in strutture pluripersonali complesse

In secondo luogo, va considerata la c.d. organizzazione gerarchica. Le attività gerarchicamente ripartite sono caratterizzate, rispetto alla precedente ipotesi della divisione del lavoro, per la distribuzione verticale delle incombenze, che non potrebbero essere assolte materialmente da un solo soggetto per ragioni quantitative, ma che, in ragione della struttura in oggetto, vengono sottoposte globalmente al controllo o supervisione di un soggetto sovraordinato: così, nell’attività medica d’équipe, il medico capo nei riguardi degli altri medici subordinati e del personale infermieristico4. Tipico di questa situazione è la possibilità, in capo al soggetto in posizione sovraordinata, di trasferire poteri o funzioni ai subordinati mediante delega5. Così come tipiche di questo ambito sono due forme di responsabilità: culpa in vigilando, del superiore gerarchico per omessa vigilanza sul suo sottoposto quale espressione del potere direttivo; (collegata alla questione della delega) culpa in eligendo a carico del capo responsabile che ha tra i propri compiti anche quello di selezionare in maniera oculata i propri collaboratori. Infine la c.d. organizzazione multidisciplinare diacronica presenta attività poste in essere in successione temporale, ma unificate dal peculiare nesso di cooperazione tra le discipline e specialità che presiedono alle attività stesse. Gli obblighi che scaturiscono da tale collegamento funzionale in capo ai soggetti che intervengono successivamente sono relazionati alle attività precedentemente svolte da altri, e viceversa6. Degno di nota è che non si tratta di una mera scansione temporale, in quanto le diverse attività, pertinenti a competenze professionali specialisti-

(un dialogo con la giurisprudenza), a cura di Bartoli, Firenze, 2010, 43 ss.

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che eterogenee, possono essere, e normalmente sono, separate anche logisticamente: anzi la dislocazione può impedire persino il contatto fisico tra i soggetti della procedura. L’unificazione è dunque di tipo teleologico (rispetto all’attività medico-chirurgica, l’insieme degli interventi è finalizzato alla tutela della salute del paziente) e normativo (gli obblighi giuridici derivanti dalle reciproche incombenze valgono a far convergere i diversi contributi verso lo scopo). 3. La questione essenziale della responsabilità medica d’équipe, in sintesi, è se ogni membro dell’équipe medica, oltre a doversi attenere al rispetto delle leges artis tipiche della propria sfera di preparazione e specializzazione, debba anche ritenersi tenuto all’osservanza di un più ampio obbligo cautelare, afferente al dovere di verifica e sorveglianza dell’operato altrui e, di conseguenza, se debba ritenersi eventualmente responsabile qualora la condotta colposa posta in essere da altro componente l’équipe medica abbia cagionato o concorso a causare eventuali episodi lesivi. Secondo orientamento tendenzialmente maggioritario in giurisprudenza, ciascun sanitario è responsabile non solo del rispetto delle regole di diligenza e perizia connesse alle mansioni specificamente ed effettivamente svolte, ma «deve costituire anche una sorta di garanzia per la condotta degli altri componenti e porre quindi rimedio agli eventuali errori altrui», purché siano «evidenti per un professionista medio e non settoriali di una specifica disciplina estranea alle sue cognizioni», come tali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio: la responsabilità per mancato o inesatto controllo insorge rispetto a comportamenti colposi per mancata osservanza delle leges artis generiche, e non specialistiche, pertinenti cioè alle conoscenze professionali di ciascun medico in quanto tale e rese evidenziabili dalle concrete circostanze del caso7.

Vallini, Gerarchia in ambito ospedaliero ed omissione colposa di trattamento terapeutico, in Dir. pen. proc., 2000, 1629 ss., in ptc. 1635, nt. 30.

4

Cass. pen., 26.4.2018, n. 18334, in Cass. pen., 2019, 2569 ss.

5

Vallini, Cooperazione e concause in ipotesi di trattamento sanitario “diacronicamente plurisoggettivo”, in Dir. pen. proc., 2000, 477 ss. 6

Così in un caso di lesione neuroprassica del tronco superiore del plesso branchiale derivata dall’essere stata la paziente mal posizionata sul lettino operatorio la paziente e mantenuta in tale incongrua posizione per tutta la durata dell’intervento, 7

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Pertanto, nel caso di équipe chirurgiche, ogni sanitario, deve rispettare non solo i canoni di diligenza e di prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, ma anche vigilare sugli obblighi degli altri sanitari componenti l’équipe. Tale dovere di controllo – incrociato – spetta anche ai medici dipendenti dal primario (oggi, dirigente sanitario apicale ovvero medico dirigente con responsabilità di strutture complesse), secondo un rapporto reciproco critico-dialettico che esclude esoneri di responsabilità per la mera posizione meno qualificata: anche i soggetti che hanno un ruolo subalterno, ove non condividano le scelte terapeutiche del sovraordinato che non abbia esercitato il suo potere di avocazione8, ritenendo «il trattamento costituire un rischio per il paziente o essere comunque inidoneo per le sue esigenze terapeutiche», sono tenuti a manifestare il motivato dissenso9, potendo altrimenti essere chiamati a rispondere dell’esito negativo dell’intervento ai

la Supra Corte ha ritenuto che «il malposizionamento della paziente sul lettino, pur essendo materialmente predisposto dall’anestesista, non poteva definirsi operazione del tutto sottratta al controllo del medico-chirurgo, incaricato dell’intervento» (Cass. pen., 2.4.2010, n. 19637, in Ragiusan, 2010, 168). 8 Secondo la giurisprudenza, il dirigente medico ospedaliero è titolare di una posizione di garanzia a tutela della salute dei pazienti affidati alla struttura, perché i decreti legislativi n. 502 del 1992 e n. 229 del 1999 di modifica dell’ordinamento interno dei servizi ospedalieri hanno attenuato la forza del vincolo gerarchico con i medici che con lui collaborano, ma non hanno eliminato il potere-dovere in capo al dirigente medico in posizione apicale di dettare direttive generiche e specifiche, di effettuare interventi programmatici e operativi, di vigilare e di verificare l’attività autonoma e delegata dei medici addetti alla struttura, ed infine il potere residuale di avocare a sé la gestione dei singoli pazienti. (cfr. Cass. pen., 23.12.2005, n. 47145, in CED, rv 232843). Ovviamente l’atteggiamento della giurisprudenza è specialmente severo nei confronti del primario che non eserciti i propri poteri, in primis quello di avocazione, qualora si avveda (o possa rendersi conto) della non conformità dell’attività posta in essere dai suoi collaboratori a leges artis o comunque a standard cautelari o in ogni caso è carente sul piano dell’idoneità a conseguire il miglior esito sperato per la salute del paziente.

E solamente qualora il superiore gerarchico ritenga di non approvare l’atteggiamento così manifestato dal sanitario di grado inferiore, quest’ultimo potrà considerarsi esentato da eventuali responsabilità (v. già Cass. pen., 28.6.1996, n. 7363, in Cass. pen., 1997, 3034). 9

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Saggi e pareri

sensi dell’art. 40, comma 2°, non avendo compiuto quanto in loro potere per impedire l’evento10. La posizione di garanzia (di protezione) sulla salute del paziente in capo ai sanitari collaboratori giustifica l’edificazione di regole cautelari di diligenza, attenzione, prudenza; oppure, attraverso singolare opera di trasmutazione categoriale, in capo al garante si arriva a configurare addirittura una posizione di impedimento dell’illecito altrui, anche in assenza di un ruolo gerarchicamente sovraordinato. Ma la responsabilità per omessa vigilanza presuppone una previa individuazione dei poteri impeditivi conformativi di cui il sanitario dovrebbe disporre ogni volta che sia riconoscibile un’anomalia nell’intervento dovuta alla condotta altrui: in assenza di tale essenziale predefinizione, si tratta di una responsabilità di pura posizione (in contrasto con l’art. 27 Cost.). Inoltre, anche rispetto al personale paramedico, l’attività svolta su direttiva dell’équipe, pur caratterizzata da autonomia, non esclude il dovere di vigilanza da parte dei medici dell’équipe stessa, tanto relativamente all’operazione, quanto agli adempimenti collegati, eventualmente anche successivi, pur se si tratta di mansioni puramente pratiche (es. suturare una ferita, somministrare farmaci, etc.): quantunque l’attribuzione di una responsabilità diretta per l’assistenza infermieristica da parte della l. n. 42 del 26 febbraio 1999 in capo al paramedico (e non più solo di mansioni esecutivi) dovrebbe far dubitare della configurabilità automatica di una culpa in vigilando a carico dei medici11. Una posizione di garanzia nei confronti del paziente pacificamente configurabile in capo all’équipe e a ogni suo membro. Altrettanto pacifico in giurisprudenza è che l’obbligo di protezione sulla salute del soggetto operato non si esaurisce con l’intervento, ma si estende anche alla fase post-operatoria, la quale deve essere adeguatamente

10 Cass. pen., 18.1.2000, n. 556, in Dir. pen. proc., 2000, 1626. Per una ricognizione critica Roiati, Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale, Milano, 2012, 286 ss. 11 Cfr. Palazzo, Responsabilità medica, disagio professionale e riforme penali, in Dir. pen. proc., 2009, 1065.


L’attività medica in strutture pluripersonali complesse

programmata, in modo da poter fronteggiare i rischi tipici successivi all’atto chirurgico12. Secondo tali linee interpretative, sembra emergere, soprattutto con riguardo alle posizioni apicali, un paradigma di tipo olistico, di responsabilità indivisa e a rischio totale (desunto da una indebita dilatazione dell’art. 113 c.), ai sensi del quale è sufficiente che l’altrui condotta scorretta fosse almeno prevedibile per essere chiamati a rispondere: di fatto, il rimprovero è per il fatto di essere membri dell’équipe medica. Ovvero, l’appartenenza all’équipe corrisponde alla partecipazione all’illecito altrui, sulla base di ciò che è conosciuto o comunque può esserlo, secondo quello schematismo di coincidenza tra plurisoggettività fattuale e normativa di cui si è detto13. 4. In realtà, rispetto ad attività poste in essere da più professionisti, magari con specialità differenziate, le corrispondenti competenze dovrebbero intendersi come separate: alla ripartizione dei compiti corrisponde “di principio” quella della responsabilità, per cui ogni soggetto risponde nell’ambito della “quota ripartita”14.

Cass. pen., 15.11.2012, n. 44830, in Danno e resp., 2013, 85. In particolare il capo dell’équipe ha il dovere di controllare e seguire, anche attraverso interposta persona, il decorso post-operatorio, «poiché le esigenze di cura e di assistenza dell’infermo sono note a colui che ha eseguito l’intervento più che ad ogni altro sanitari» (Cass. pen., 09.05.2012, n. 17222, in Danno e resp., 2012, 805. 12

Cfr. ad es. Cass. pen., 23.1.2018, n. 2207, in Riv. it. med. leg., 2018, 1097 ss.; Cass. pen., 20.4.2017, n. 27314, in Riv. it. med. leg., 2017, 1225 ss. 13

V. ad es. Sgubbi, Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975, 239. Per una tesi rigorosamente rispettosa del principio di cui all’art. 27, comma 1° Cost. con riguardo al lavoro in équipe v. già Bricola, I problemi giuridici relativi alla sperimentazione dei farmaci, in Regioni e ordinamento farmaceutico, Bologna, 1973, 76 ss.: non si configura un obbligo generale del capo-équipe di prevedere e impedire i comportamenti incauti degli altri membri, né un obbligo secondario laddove l’affidamento sul corretto comportamento altrui venga meno per la riconoscibilità di situazioni fattuali che annullino l’aspettativa stessa, ma «[…] ogni partecipante deve rispondere solo del corretto adempimento dei doveri di diligenza e di disciplina inerenti ai compiti che gli sono affidati […] dipenderebbe dalla natura e dal contenuto dei compiti spettati a ciascun membro del gruppo lo stabilire se, tra quei compiti, ci sia o meno anche quello di sorvegliare e controllare l’operato

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Del resto, ciascun sanitario ha una «posizione di garanzia (di protezione) sul paziente, ma non di controllo sugli altri professionisti, o di impedimento di illeciti altrui»15: una simile posizione di garanzia non ha alcun fondamento normativo, a meno di non considerare ciascun sanitario alla stregua di una “fonte di rischio umana” (e professionale!), ovvero di configurare, preter legem, un’ipotesi di responsabilità per fatto altrui (contro l’art. 27 Cost.), o, più drasticamente, di far coincidere ipotesi non assimilabili, fondando la sussistenza della posizione di controllo su quella di protezione (non assimilabili, se non altro, perché aventi oggettività giuridiche del tutto eterogenee16). La prospettiva di assumere competenze settoriali come limiti normativi alla sfera di responsabilità di ciascuno emerge in qualche orientamento giurisprudenziale, soprattutto nell’ambito della divisione orizzontale del lavoro tra specialisti17. Del resto, proprio questa linea interpretativa permette di apprezzare l’operatività del c.d. principio

altrui, e in quale direzione e con quale estensione e profondità». Segnalando peraltro come una simile opzione presupponga una chiara individuazione e specificazione delle mansioni spettanti a ciascuno dei componenti dell’équipe; e fatta salva comunque la configurabilità di una culpa in eligendo a carico del capo responsabile che abbia tra i propri compiti anche quello di scegliere i propri collaboratori. La configurabilità di una posizione “ibrida” di questo tipo viene giustificata dall’interpretazione giurisprudenziale, come noto, attraverso uso indebito del combinato disposto dell’art. 40, comma 2° e dell’art. 113, creando preter legem una forma di tipicità ulteriore rispetto a quella tratteggiata (in maniera già in sé non certo precisa) dal legislatore. 15

Secondo lezione sostanzialmente condivisa, mentre le posizioni di protezione vigono a tutela di un soggetto debole a fronte dei rischi che lo possono minacciare, quelle di controllo incardinano in capo al titolare un obbligo nei riguardi di una fonte di rischio di cui si ha la gestione. 16

17 Cass. pen.,12.2.2019, n. 30626 (che richiede la verifica effettiva del ruolo svolto); Cass. pen., 9.4.2009, n. 19755, in CED, rv 243511: «la responsabilità penale di ciascun componente di una équipe medica per il decesso del paziente sottoposto ad intervento chirurgico non può essere affermata sulla base dell’accertamento di un errore diagnostico genericamente attribuito alla équipe nel suo complesso, ma va legata alla valutazione delle concrete mansioni di ciascun componente, nella prospettiva di verifica, in concreto, dei limiti oltre che del suo operato, anche di quello degli altri».

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di affidamento, che esclude, di regola, la configurabilità di obblighi rivolti al comportamento di terzi. Come noto, all’affermazione topica secondo cui in via di principio ciascuno, proprio perché deve preoccuparsi di rispettare solo quegli obblighi che rientrano nella propria sfera di competenza, può fare legittimo affidamento nel fatto che altri rispetteranno gli obblighi che competono loro, si assegna, specialmente con riguardo ad attività riconosciute dall’ordinamento in funzione della salvaguardia di interessi di particolare rilevanza (come la salute dell’infermo), una ratio di implementazione del bene giuridico tutelato: è il principio di affidamento che offre ad ogni sanitario la garanzia sul piano giuridico di potersi indirizzare, in maniera esclusiva, all’espletamento della proprie mansioni di competenza liberamente e senza essere pressato dalla preoccupazione di dover continuamente verificare l’operato altrui18. La necessaria protezione del legittimo affidamento va riguardata dunque anche come corollario della tutela delle aspettative normative connesse ai beni giuridici fondamentali19. Vero è che il principio di affidamento, in quanto principio non codificato, di origine interpretativa, che quindi non vincola il giudice alla stregua di una legge, ha trovato fino ad oggi un’applicazione tutto sommato deludente in giurisprudenza20.

Mantovani, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, 543, ritiene preferibile, proprio in funzione cautelare, una vigilanza circoscritta a una vigilanza diffusa. In tema, con specifico riferimento alla responsabilità sanitaria, v. De Francesco, L’imputazione della responsabilità penale in campo medico-chirurgico: un breve sguardo d’insieme, in Riv. it. med. leg., 2012. Cfr. Cass. pen., 11.10.2007, n. 4317, in CED, rv 237891: «nell’attività medico-chirurgica in équipe, la divisione del lavoro costituisce un fattore di sicurezza, perché ciascuno dei sanitari è chiamato a svolgere il lavoro in relazione al quale possiede una specifica competenza e perché, in rapporto ad esso, è posto nelle condizioni di profondere tutta la diligenza, prudenza e perizia richieste, senza essere tenuto a controllare continuamente l’operato dei colleghi». 18

Roiati, op.cit., 255 s.

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Sulla tangibile elusione del principio di affidamento – e quindi dello stesso principio di personalità della responsabilità penale di cui costituisce corollario – in giurisprudenza v. Risicato, L’attività medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco. L’obbligo di vigilare come regola cautelare, 20

Responsabilità Medica 2019, n. 3

Saggi e pareri

Degno di nota appare peraltro quell’orientamento ai sensi del quale tale principio non trova applicazione «nei casi in cui la colpa attenga all’inosservanza di obblighi comuni o indivisi tra i vari operatori»21. Si tratta di estrinsecare il significato di tale concetto. 5. In realtà, le ragioni sostanziali cui si è fatto cenno fanno dell’affidamento un principio regolare, la cui vigenza viene meno solo in costanza di fattori una situazione eccezionale che ne giustifica la disapplicazione. Come noto, il principio dell’affidamento viene esautorato dalla sussistenza di un positivo stato di fatto, capace di invalidare l’aspettativa di una condotta altrui corrispondente ai doveri di diligenza, prudenza e perizia, come nei casi in cui, a cagione dell’altrui comportamento colposo, sia già in atto una situazione pericolosa per un paziente, oppure vi sia ragionevole motivo di ritenere che essa possa realizzarsi, in ragione delle reali contingenze di fatto che siano riconoscibili o possano essere percepite dall’agente (come ad esempio le condizioni di salute non buone di un collega, la sua età giovane, la sua inesperienza o la distrazione)22.

Torino, 2013. Maggiori resistenze incontra il principio di affidamento rispetto alle relazioni verticali, ove solitamente si esclude che possa invocare il principio di affidamento il capo équipe per gli esiti infausti dei trattamenti chirurgici effettuati dal team sanitario, in virtù della posizione di sorveglianza sull’operato dei collaboratori discendente dal ruolo apicale e gerarchicamente sovraordinato rivestito. Così Cass. pen., 20.12.2011, n. 46961, in Dir. pen. proc., 2012, 154. 21

V. ad es. Mantovani, op. cit., 11 ss. Non riteniamo, invece, che si debba escludere a priori l’operatività del principio rispetto a soggetti che rivestano una posizione di garanzia, o di supremazia gerarchica (ad es. capo équipe): tanto l’obbligo di impedimento quanto quello di sorveglianza sui subordinati non esclude la fiducia – normativamente tutelata – nel corretto operato altrui, né può annullare la ripartizione delle mansioni, ma semmai sarà da valutare con maggiore rigore il limite della riconoscibilità dell’altrui condotta scorretta. A ragionare altrimenti, si rischierebbe di configurare in capo a vertici e a garanti forme di responsabilità di pura posizione (come facilmente fa la giurisprudenza). Assegna rilievo all’analisi degli elementi fattuali del caso Roiati, op.cit., 298 s.

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L’attività medica in strutture pluripersonali complesse

Del resto, assumere come presupposto la ripartizione delle competenze in funzione delle specifiche mansioni non significa certo concepire ogni singolo sanitario alla stregua di un meccanico che si occupa soltanto di “un pezzo” dell’organismo. Quando in via di eccezione alla regola della “normale fiducia”, è riconoscibile o prevedibile la “disfunzione”, viene meno il principio di affidamento e sorgono particolari obblighi nei confronti delle attività esplicate da altri professionisti. L’ambito di emersione di tali cautele è quello delle sopra menzionate strutture pluripersonali complesse – divisione dei compiti, ripartizione gerarchica, multidisciplinarità diacronica – caratterizzate dall’interazione tra più soggetti; la ragione è la non vigenza, in via di eccezione, del principio di affidamento. Allora, in ragione della riconoscibilità dell’altrui comportamento scorretto, la competenza di ciascun interveniente può estendersi a condotte di terzi. In particolare, il principio d’affidamento opera sul presupposto (ordinario) che i terzi rispetteranno le cautele che competono loro. Si possono però verificare situazioni straordinarie in cui altri soggetti con cui si interagisce non potranno rispettare le cautele stesse: situazioni appunto extra ordinem, in particolari casi di debolezza o peculiare esposizione a pericolo del bene giuridico tutelato o di incapacità non preventivabile degli altri garanti23. Possono peraltro insorgere pure situazioni eccezionali in cui altri non le vorranno rispettare (situazioni appunto che fanno eccezione a una aspettativa normativamente tutelata). Dall’interazione non garantita da fiducia normativa si genera una situazione di rischio nuova, diversa da quella gestita attraverso l’ordinaria divi-

Ad es. la eventuale riconoscibile inesperienza del sanitario con cui si interagisce: afferma la Suprema Corte che deve considerarsi negligente il comportamento del chirurgo responsabile dell’intervento il quale, facendo esclusivo affidamento sulla pregressa anamnesi svolta dal suo aiuto e comunicatagli verbalmente in sala operatoria, proceda all’operazione senza aver prima proceduto al riscontro della diagnosi (nel caso, il chirurgo aveva operato il paziente al testicolo sbagliato: Cass. pen., 31.10.2008, n. 40789, in Dir. pen. proc., 2009, 25). 23

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sione delle competenze24, per la quale si richiede un surplus di prudenza di fronte al comportamento altrui palesemente inaffidabile25. Sono questi i casi in cui insorgono specifici obblighi relazionali: obblighi di attivare cautele verso terzi che codificano sul piano normativo gli esiti della non operatività del principio di affidamento. 6. La relazionalità è qui intesa quale effetto della struttura pluripersonale, o a necessaria interazione tra più soggetti, che caratterizza le particolari costellazioni in cui vengono in gioco (lavoro d’équipe, ripartizione gerarchica, successione diacronica multidisciplinare); ma la ragione dell’edificazione di siffatti obblighi è il venir meno del normale affidamento sul corretto comportamento altrui. Premesso che tutti gli obblighi cautelare possono avere in qualche modo a che fare con il comportamento altrui, va ribadito che, in un certo senso, la prima regola relazionale è originata dallo stesso principio di affidamento: una regola a contenuto non necessariamente (ma talvolta anche) precau-

In giurisprudenza per un simile ordine di idee cfr. Cass. pen., 9.11.2007, n. 41317, in Riv. pen., 2008, 836: «la divisione del lavoro rappresenta anche un fattore di rischio: fa infatti sorgere rischi nuovi e diversi (rispetto a quelli propri dell’attività medica monosoggettiva), essenzialmente derivanti da difetti di coordinamento e di informazione, da errori di comprensione o dovuti alla mancanza di una visione d’insieme e spesso tra loro collegati. E quando si appalesano circostanze tali da rendere evidente la negligenza altrui, ciascuno dei soggetti che si dividono il lavoro deve farsi carico di questi rischi peculiari». 24

Il normale affidamento sull’adozione di condotte diligenti da parte degli altri soggetti con cui si viene a interagire, che fonda la doverosità di una condotta conforme a tale aspettativa, viene meno al momento in cui sia conosciuta o comunque conoscibile l’altrui condotta negligente e il pericolo che essa origina: momento che «segna una modificazione della struttura di interazione e può costringere ad una correzione delle condotte […]»: Cafaggi, Profili di relazionalità della colpa. Contributo a una teoria della responsabilità extracontrattuale, Padova, 1996, 545 s. (che nell’ambito della responsabilità civile concepisce la diligenza come “regola di relazione concernente l’interazione” o “parametro di definizione delle modalità di interazione” – tra danneggiante e danneggiato, ratione materiae – e non più quale regola di condotta di ciascuna parte, siamo evidentemente debitori nell’esposizione di questi spunti: v. op. cit., 1996, 40 s. e passim, cui rimandiamo per l’ampia e approfondita indagine sul tema). 25

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zionale, che in via generale disciplina le relazioni intersoggettive (regola intersoggettiva primaria). Ma con il concetto di obblighi relazionali si fa riferimento in questa costellazione di casi a speciali cautele che ricevono dalla dimensione intersoggettiva la loro connotazione essenziale e la stessa ragion d’essere: la circostanza della sussistenza di una relazione rispetto a condotte di altri soggetti sembra costituire l’essenza, la ratio della diligenza richiesta che, in assenza di una situazione di interazione con altri soggetti, non si giustificherebbe. In generale, gli obblighi relazionali sono strettamente legati alla dimensione pluripersonale dell’attività, con la quale “stanno e cadono”: e in capo a ciascun interveniente, in particolare, sono configurabili tanto obblighi “interni”, imposti dalle peculiarità delle mansioni svolte; quanto obblighi “esterni” o “relazionali”, connessi alle attività altrui. 7. In primo luogo, vanno considerati doveri cautelari rivolti a coordinare la condotta di un soggetto con quella altrui, la cui peculiarità consiste nel fatto che la loro valutazione di idoneità dipende dal “contributo necessario” della diligenza di altro soggetto: obblighi “la cui efficacia dipenda dal comportamento dell’altra parte: in questa ipotesi l’adozione delle misure di precauzione di una parte non produce alcun effetto di prevenzione se non si accompagna ad un comportamento diligente dell’altra parte” (obblighi sinergici, ovvero, secondo qualificazione adottata in ambito civilistico per una costellazione sostanzialmente equivalente, complementari26). Un’infermiera, violando per disattenzione le prescrizioni, inietta al paziente una dose di farmaco superiore al dovuto ma inidonea a ledere la salute; altra infermiera, credendo che il farmaco non sia stato ancora assunto (e quindi violando la regola che impone di controllare le cartelle cliniche, gli orari, la divisione delle incombenze etc.),

Saggi e pareri

inietta al paziente una dose conforme alle prescrizioni: il cumulo delle due quantità provoca danni gravi al soggetto passivo. Ogni condotta è capace di produrre una modificazione della realtà esteriore (es. un disturbo lieve per il paziente; addirittura un progressivo miglioramento delle condizioni dello stesso nel caso della condotta dell’infermiera B, che inietta una dose conforme alle prescrizioni, quindi adeguata alla terapia finalizzata al ristabilimento della salute del paziente, quindi un evento lecito), ma non quella che dall’interazione dei due fattori si genera. Di solito, i casi che vengono in questione sotto tale profilo sono quelli che normalmente vengono trattati sotto la costellazione denominata causalità cumulativa, in cui la condizione colposa posta in essere da taluno è da sola carente dal punto di vista dell’idoneità lesiva, ma può essere compensata dall’interazione con altri fattori. Si verifica una convergenza di fattori che sono causali nel senso della conditio sine qua non, ma che al contempo sono incapaci di per sé di integrare quel quid minus rispetto alla causalità costituito dall’idoneità – incapaci quindi di integrare gli atti minimi richiesti nel nostro ordinamento dall’art. 56 c.p. per il tentativo – e che recuperano l’idoneità stessa solo cumulativamente nel contesto dell’interazione reciproca27. Peraltro, più che un problema di sussistenza del nesso causale, può residuare semmai quello della prova rispetto a ciascun soggetto agente: talvolta può essere poco chiaro quale delle cause colpose abbia esplicato efficacia diretta e quale efficacia mediata28.

27 Si ritiene preferibile parlare di causalità da condizione interattiva: sia consentito rinviare a Cornacchia, Il concorso di cause colpose indipendenti: spunti problematici, Parte II, in Ind.pen., 2001, 1081 ss.

Si pensi al seguente esempio: in corso di intervento chirurgico l’anestesista inietta al paziente una quantità eccessiva di narcotico; allo stesso tempo il chirurgo per imperizia provoca al paziente delle lesioni sensibilmente più gravi di quelle richieste dal tipo di intervento. Nelle ore successive al risveglio il paziente muore per le condizioni di grave debilitazione generale dell’organismo. Tali condizioni sono da ricondursi alle condotte dei due membri dell’équipe. Che i diversi fattori abbiano esplicato efficacia congiunta (nessuno dei due essendo 28

26 Sono obblighi «la cui efficacia dipenda dal comportamento dell’altra parte. In questa ipotesi l’adozione delle misure di precauzione di una parte non produce alcun effetto di prevenzione se non si accompagna ad un comportamento diligente dell’altra parte». In contrapposizione alle misure indipendenti, «la cui efficacia prescinde dall’occorrenza di altre»: Cafaggi, op.cit., 130 s.

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L’attività medica in strutture pluripersonali complesse

La complementarietà può essere rivista dunque sotto una duplice prospettiva. Da un lato, la sinergia caratterizza gli effetti: la singola condotta non integra tutti gli estremi della tipicità colposa se presa in sé (cioè, direttamente lesiva da sé sola nei confronti del bene tutelato), ma produce effetti dannosi se accostata ad altre condotte. Dall’altro, la potenzialità lesiva in sinergia comporta l’esigenza di coordinare il proprio contributo con quello altrui, quindi orienta la scelta delle cautele adeguate in vista di tale coordinamento. 8. Occorre considerare inoltre quelle regole di contenimento dei rischi non ubiquitari che uno dei sanitari può generare e che altri possono sfruttare per commettere illeciti. In via di principio, nessuno deve preoccuparsi dell’utilizzo che terze persone possano fare delle proprie prestazioni, per la generale operatività dello sbarramento costituito dal principio di affidamento: così è escluso che un soggetto possa rispondere per le attività da altri esplicate, sia pur sviluppando o portando a conseguenze delittuose decorsi causali innescati dal primo. Diversamente, però, se la condotta deviante dell’interveniente è riconoscibile (quindi viene meno l’affidamento) e inoltre il rischio prodotto dal primo su cui questa si inserisce assume in maniera stereotipa un significato delittuoso: in questo caso, inoperante il principio di affidamento perché neutralizzato dall’evidenza per cui altri non vorranno rispettare le cautele conformi al proprio dovere giuridico, ovvero non lo faranno perché nella normalità dei casi non potranno essere edotti della situazione di pericolo, si origina uno speciale obbligo di diligenza a carico dell’autore del primo fattore, orientato a contenere il

sufficiente da solo a cagionare l’esito mortale), o che abbiano operato disgiuntamente (ciascuno essendo sufficiente a prostrare l’organismo fino al rischio della vita), risulta difficile stabilire a quale dei due sia direttamente riconducibile l’evento: nel caso che si accerti l’operatività interattiva, è ben possibile che vi sia una dissimmetria tra i due contributi, uno dei quali abbia avuto efficacia diretta e l’altro abbia solo aggravato ulteriormente la situazione.

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comportamento astrattamente pericoloso o a neutralizzarne le conseguenze (obblighi accessori). Lasciare incustoditi determinati oggetti pericolosi non implica una responsabilità per i delitti commessi da chi se ne impossessi. Diversamente se si tratta di dotazioni per il cui possesso e utilizzo l’ordinamento richiede speciali cautele limitandone la disponibilità attraverso autorizzazioni, licenze, etc., circoscrivendo in tal modo l’area del rischio consentito: così, molto banalmente, lasciare incautamente alla portata di chiunque una fiala per analisi contenente siero infetto per può costituire violazione di obbligo accessorio. Tale tipologia di obblighi assume peculiare rilievo in ambiti – es. attività multidisciplinari diacroniche – in cui l’intersezione delle attività dispiegate anche in fasi diverse da più soggetti non solo giustifica l’affidamento nel comportamento altrui, ma fonda un vero e proprio dovere reciproco di affidamento (evidentemente, proprio a tutela della salute del paziente), che ingenera di converso l’obbligo (appunto, di tipo accessorio) di non creare incautamente affidamenti erronei negli altri intervenienti: in tale prospettiva, reciprocamente, gli altri soggetti che non tanto non potranno conoscere, ma prima ancora non saranno tenuti a conoscere la situazione di pericolo eventualmente insorta, potendo fare affidamento sulla correttezza delle attività altrui. Ovviamente, anche nell’ambito dell’organizzazione gerarchica, la permanenza di “spazi autonomi di manovra” in capo al subordinato – ad integrazione delle modalità operative delegate e di quelle che costituiscono mero adempimento degli ordini e delle istruzioni del superiore – fonda la configurabilità a suo carico di obblighi autonomi, tanto sinergici quanto accessori. 9. Infine, riguardano nello specifico il tema dell’interazione soggettiva strutturata secondo il modello del concorso gli obblighi di controllo, di ispezione, di verifica, di controllo nei confronti dell’operato di altri professionisti, di riferire a una diversa autorità, gerarchicamente sovraordinata, competente ad assumere decisioni, di correzione di eventuali errori evidenti e non settoriali, o addirittura di impedimento del comportamento altrui (obblighi relazionali in senso stretto o eteResponsabilità Medica 2019, n. 3


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rotropi): queste particolari figure (a prescindere dalla denominazione) hanno tradizionalmente incontrato molta diffidenza presso la dottrina italiana, in quanto riviste come meccanismi di aumento indiscriminato delle posizioni di garanzia al di là dei limiti sanciti dalla legge, in pratica come un tertium genus, di dubbia legittimità, rispetto agli obblighi giuridici di controllo e di protezione. In realtà, prescindendo dalla meccanica separazione tra reato commissivo e omissivo, piuttosto che ad astratte posizioni di garanzia, queste tipologie rimandano a concreti obblighi di controllo o di informazione nei confronti di terze persone, sottesi alle norme che individuano le competenza (le proprie competenze, e non certo quelle altrui), emergenti in particolari situazioni: in ragione della posizione di sovraordinazione-subordinazione rivestita dal soggetto obbligato (compartimentazione gerarchica); o in generale per le caratteristiche della divisione dei compiti, che preveda eventualmente compiti di supervisione in capo ad alcuni operatori; ovvero per le peculiari modalità in cui si è traslata una determinata competenza (fenomeno della successione nelle sfere di garanzia, che genera di informazione in capo al cedente nei confronti del subentrante). Compete certamente al capo dell’équipe medica, in ragione della sua competenza, vigilare – entro certi limiti – nel corso dell’intervento chirurgico sull’operato dei sanitari sottoposti, potendosi configurare una sua responsabilità concorrente per eventuali errori di altri componenti. Peraltro, lo standard di diligenza dovuta nell’espletamento di tale vigilanza può assumere contorni differenti, a seconda della situazione concreta e della possibilità o meno di richiamarsi al principio dell’affidamento: così, nel caso in cui ad esempio una specifica situazione di urgenza richieda un intervento particolarmente rapido, tale da potere essere compiuto solo da altro collaboratore (ad es. perché il medico capo deve contemporaneamente attendere ad altra incombenza), ovvero si tratti di operazione che richiede un particolare grado di specializzazione, cui è competente altro membro dell’équipe (mentre, in ipotesi, il medico capo può non essere sufficientemente edotto e quindi dovrà limitarsi a un mero controllo “esterno”), non si configureranno obblighi relazionali Responsabilità Medica 2019, n. 3

Saggi e pareri

del tipo che si è detto, ma tornerà a operare il principio di affidamento, con esclusione della responsabilità colposa da omessa vigilanza. Un ausilio a riguardo può provenire dall’attivazione di checklist, idonee a cristallizzare la ripartizione delle attività e dei controlli circoscrivendo i compiti rispettivi, onde consentire al capo équipe di concentrarsi sulle sue funzioni operative29. L’affidamento nelle condotte disimpegnate dai colleghi professionisti viene meno di fronte ad anomalie riscontrabili a livello di mancata ottemperanza alle procedure. Obblighi di tipo eterotropo sembrano potersi ricavare dalle norme sull’organizzazione gerarchica nell’ambito ospedaliero, che predispongono assetti organizzativi finalizzati a determinati scopi (ad esempio, la salvaguardia della salute del paziente, al cui interesse è funzionale l’insieme delle attività dispiegate nell’ambito di una procedura medica), definendo, in misura più o meno precisa, un vero e proprio programma d’azione (metaregole organizzatorie). In particolare, il decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (“Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’art. 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419”) – che all’art. 13 modifica l’art. 15 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 – regolamenta l’attività e le incombenze dei dirigenti sanitari30, nonché le funzioni dei dirigenti con incarico di direzione di struttura complessa

In questo senso il suggerimento di Caputo, “Filo d’Arianna” o “Flauto magico”? Linee guida e checklist nel sistema della responsabilità per colpa medica, in Diritto penale contemporaneo, 16 luglio 2012, 35; v. recentemente Buzio, Riflessioni in tema di attività medica svolta in équipe, in Riv. pen., 2019, 670 ss.; «strumenti ibridi di gestione del rischio» secondo Di Landro, Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione della colpa penale nel settore sanitario: misura oggettive e soggettiva della malpractice, Torino, 2012, 176 ss.

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Stabilendo da un lato il principio dell’autonomia tecnico-professionale nello svolgimento delle proprie mansioni e funzioni, coordinando dall’altro lo stesso principio con il rispetto della collaborazione multiprofessionale (art. 15, comma 3°); i compiti professionali assegnati al dirigente sanitario devono essere esercitati all’interno di precisi ambiti di autonomia nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura, con funzioni anche di collaborazione e corresponsabilità nella gestione delle attività (comma 4°). 30


L’attività medica in strutture pluripersonali complesse

– in particolare, «direzione e organizzazione della struttura, da esercitarsi anche mediante direttive a tutto il personale operante nella stessa, e adozione delle relative decisioni necessarie» per il corretto espletamento del servizio e per realizzare l’appropriatezza degli interventi con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, attuati nella struttura loro affidata – rinviando a criteri generali (per la graduazione nonché per l’assegnazione, valutazione e verifica degli incarichi) deputati a presiedere alle medesime funzioni dirigenziali31, da definirsi in sede di contrattazione collettiva nazionale (art. 13, comma 1°); e assegna, tra le altre, «funzioni ispettive, di verifica e di controllo» ai dirigenti ai quali non sia stata affidata la direzione di strutture32. La ripartizione delle competenze e delle corrispondenti responsabilità professionali e gestionali si basa oltretutto su una netta distinzione tra attività espressamente qualificata come “istituzionale” (caratterizzata inoltre come “prevalente”) e attività libero professionale. Il medesimo decreto legislativo sancisce poi all’art. 15 le attribuzioni del direttore di dipartimento, specificate sia in responsabilità professionali in materia clinico-organizzativa e della prevenzione, sia in responsabilità di tipo gestionale in ordine alla razionale e corretta programmazione e gestione delle risorse assegnate per la realizzazione degli obiettivi attribuiti33. Laddove l’espressa attribuzione di funzioni programmatiche e gestionali connota gli obblighi eterotropi emergenti come obblighi di corretta organizzazione della struttura34. In tal modo, chi riveste posizioni apicali deve

31 E individuando le strutture complesse nei dipartimenti e unità operative individuate secondo i criteri di cui all’atto di indirizzo e coordinamento previsto dall’art. 8-quater, comma 3°. 32 Sui riflessi prasseologici rispetto ai rapporti gerarchici tra sanitari prodotti dalla riforma della dirigenza medica v. Gizzi, équipe medica e responsabilità penale, Milanofiori Assago (MI), 2011, 121 ss.

Iadecola, La responsabilità medica in équipe alla luce della rinnovata disciplina della dirigenza sanitaria ospedaliera, in Cass.pen., 2007, 143 ss.

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Massaro, Principio di affidamento e obbligo di vigilanza sull’operato altrui: riflessioni in tema di attività medica o-chirurgica in équipe, in Cass.pen., 2011, 3868 ss. Sul punto Caputo, op.cit., 35 s., che distingue “cautele operative” dell’attività 34

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adempiere non a un generico e illimitato obbligo di vigilanza, ma a una concreta cautela organizzativa, tramite implementazione di protocolli di sala operatoria. 10. Con riguardo in particolare ad attività in cooperazione multidisciplinare diacronica (si pensi alla complessa procedura dei trapianti) l’esigenza di un coordinamento dei singoli ambiti di attività, di per sé interdipendenti, poste in essere da diversi sanitari o gruppi di sanitari in successione, in vista della migliore realizzazione dello scopo può generare, in determinate situazioni, obblighi relazionali a contenuto negativo, orientati a garantire che le diverse incombenze non si sovrappongano e non si intralcino a vicenda. Quando più attività multidisciplinari diversificate sul piano professionale sono orientate, come nel settore medico, a garantire la protezione e il miglioramento delle condizioni di salute del paziente, proprio la reciproca delimitazione normativa delle sfere di competenza cui le medesime fanno capo assurge a meccanismo di ripartizione funzionale al più efficace espletamento delle funzioni, che costituisce primario vantaggio per il paziente. In altre parole, in questi ambiti il principio d’affidamento sembra assumere una valenza eccentrica rispetto al suo normale utilizzo: non si tratta di tutelare le garanzie individuali dei professionisti che operano da possibili responsabilità penali, ma prima ancora di tutelare le stesse potenziali vittime, che hanno interesse al miglior funzionamento dell’organizzazione medico-sanitaria cui si sottopongono. Il che comporta che deve ritenersi vigente un vero e proprio obbligo

specialistica del singolo medico o infermiere, e “cautele organizzative” proprie dell’operato di chi sia titolare delle funzioni di guida di un’équipe multidisciplinare – ossia doveri di conformità alle checklist – cui corrispondono due livelli di rischio eterogenei e non sovrapponibili: in tale prospettiva, “un evento avverso che intervenga nonostante l’esatto adempimento dei doveri di organizzazione della sala operatoria, inclusi quelli relativi ai controlli, non potrà dirsi conseguenza del superamento del rischio consentito e nessun addebito andrà mosso al capo-équipe (fatta salva la comprovata esistenza di indicatori di inefficacia dei protocolli)” (ibidem, 36). Cfr. anche De Matteis, La responsabilità del primario tra passato e futuro, in Danno e responsabilità, 2011, 1218 ss.

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giuridico di affidarsi, laddove l’affidamento medesimo sia necessario a ottimizzare i risultati delle prestazioni professionali dei diversi specialisti che intervengono nella procedura. È la funzione peculiare, di carattere prescrittivo-cautelare, che il principio di affidamento dispiega in ambiti tecnico-professionali in cui i singoli “contributi” sono teleologicamente orientati alla massima implementazione del bene (la salute del paziente) a giustificare piuttosto l’attribuzione, secondo la dottrina più attenta, di una funzione precauzionale “aggiuntiva” alle leges artis incombenti sui singoli sanitari – si potrebbe dire, di tipizzare uno speciale obbligo relazionale – nei confronti degli altri partecipanti alla procedura: quella di evitare di ingenerare in capo ad altri soggetti che intervengono successivamente “affidamenti” non corrispondenti alla realtà della situazione clinica, inducendoli così a interventi erronei o a omettere interventi correttivi necessari. Si potrebbe dire, l’obbligatorietà dell’affidamento – operante quindi non già (come di norma) quale limite all’edificabilità di obblighi giuridici relazionali, ma come regola prescrittiva – genera obblighi di tipo accessorio, la cui funzione precauzionale è diretta a impedire la produzione di lesioni da parte di altri soggetti che intervengono in fasi successive. Fermo restando che il principio di affidamento, anche in questa sua valenza di regola cautelare negativa, viene meno quando il sanitario che lo invoca dispone di un bagaglio conoscitivo tale da rendere riconoscibile l’errore altrui35.

Il discernimento, sul piano ermeneutico, del rapporto tra obblighi relazionali positivi e negativi può risultare complesso, così come non facile è spesso la definizione della loro estensione di fronte a situazioni concrete36. Ma è certo che va frenata la tendenza giurisprudenziale a configurare in maniera indiscriminata in capo a tutti i sanitari intervenienti doveri di informazione, valutazione e controllo dell’attività altrui a estensione radiale, figlia di un esasperato precauzionismo e foriera della ben nota deriva verso esiti di medicina difensiva37.

Una paziente, sottopostasi a visita ginecologica, a distanza di una quindicina di giorni, secondo le indicazioni che lo specialista le aveva dato, si recò presso la casa di cura presso la quale lo stesso ginecologo che l’aveva visitata avrebbe dovuto eseguire, in laparoscopia, l’asportazione dell’ovaio destro, affetto da una cisti: qui però un primo medico trascrive sulla cartella che l’intervento avrebbe dovuto interessare l’ovaio sinistro; sia il capo chirurgo, che l’aiuto chirurgo, non effettua alcuna verifica di controllo; in conseguenza veniva erroneamente asportato l’ovaio sinistro, non interessato dalla patologia, così procurando l’indebolimento permanente dell’organo preposto alla procreazione. I chirurghi invocano da un lato il principio di affidamento, asserendo che non avrebbero potuto non fidarsi dell’attività svolta dal medico che in precedenza si era occupato del caso e aveva raccolto i dati anamnestici e le indicazioni diagnostiche

Sui margini di flessibilità del principio di affidamento, «tali da poter essere invocato a giustificazione di posizioni diametralmente opposte», v. Roiati, op.cit., 256.

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in sede di accettazione della paziente; dall’altro si giustificano facendo leva sulla c.d. “medicina dell’evidenza”, giacché durante l’intervento in laparoscopia l’operatore, attraverso la visione sul monitor degli organi interni, avrebbe teoricamente potuto rimediare ad eventuali errori diagnostici, ma purtroppo nel caso di specie, per incredibile fatalità, mentre l’ovaio destro malato, medio tempore, si era normalizzato, apparendo sano, quello di sinistra si presentava notevolmente aumentato di volume. La Suprema Corte nega che possa operare il principio di affidamento con riguardo a una mera annotazione cartacea, pur proveniente dal medico addetto all’accettazione, senza far luogo in sede preparatoria all’agevole, rapido e sicuro riscontro ecografico; e la stessa visione endoscopica, in casi del genere, non risulta risolutiva, poiché non in grado di evidenziare quale fosse l’ovaio malato da estirpare (Cass. pen., 13.12.2012, n. 48226). Va notato come il principio di affidamento viene esautorato non solo in virtù della disponibilità di un esame facile e sicuro come quello endoscopico, ma soprattutto alla luce dell’eclatante errore del capo chirurgo, che coincideva con il ginecologo che aveva compiuto solo qualche giorno prima la visita prodromica all’intervento (e lo aveva consigliato). 36

Sottolinea il nesso tra rigore degli orientamenti giurisprudenziali, elaborazione in via interpretativa, specialmente con riguardo all’attività sanitaria plurisoggettiva, di regole cautelari finalistiche (orientate all’azzeramento dei rischio) anziché modali e implementazione di scelte terapeutiche indirizzate verso l’autotutela del medico, anziché verso la salute del paziente, nell’ottica della defensive medicine, Roiati, op.cit., 316 ss. Sull’irrazionalità del modello preventivo di responsabilità medico fondato sull’illecito colposo e emergente dalla prassi e l’incremento della malpractice sanitaria che la medicina difensiva reca con sé v. ad es. Eusebi, Medicina difensiva e diritto penale «criminogeno», in Riv.it.med.leg., 2011, 1085 ss. 37


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Saggi e pareri

La bozza di regolamento ministeriale d’attuazione (art. 10, comma 6, l. 24/2017)

g g sa re e a p

Gianluca Romagnoli

Professore nell’Università di Padova Sommario: 1. Il processo di completamento della legge Gelli. Alcune considerazioni sulla bozza di regolamento. – 2. Il Titolo II «I requisiti minimi ed uniformi per l’idoneità dei contratti di assicurazione». – 3. Il Titolo III «I requisiti minimi di garanzia e condizioni di operatività delle misure analoghe».

Abstract: Lo scritto esamina la bozza di regolamento previsto dall’art. 10, comma 6°, l. n. 24/2017, concernente i requisiti minimi delle polizze assicurative e delle analoghe misure alternative alle polizze. The paper examines the draft regulation provided for by art. 10, comma 6°, l. n. 24/2017 on minimum requirements for insurance policies and self-insurance measures.

1. Il processo di completamento della legge Gelli. Alcune considerazioni sulla bozza di regolamento Dopo più di due anni dall’entrata in vigore della c.d. legge Gelli (l. n. 24/2017) si è riavviata l’attività diretta al completamento di una delle parti, forse, più importanti del suo tessuto normativo1.

I decreti ministeriali dovevano essere pubblicati nei 120 giorni successivi a quello della pubblicazione della legge

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Come è noto le «disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita», nella parte “assicurativa”, conferiscono all’amministrazione ministeriale un’amplissima, forse eccessiva2, delega normativa nella definizione delle scelte at-

(art. 10, comma 6o, l. n. 24/2017). Alla scadenza del termine è, poi, seguito un lungo periodo di mora nel corso del quale – in più occasioni – la stampa ha dato notizie – della sua imminente fine. La pubblicazione dei regolamenti, prima prevista per fine 2017, è stata posticipata all’inizio 2018 e, da ultimo, ad inoltrato 2019, è stato annunciato l’avvio di iniziative dirette a superare la stasi dell’attività normativa subprimaria. Risale al 15 aprile 2019 la dichiarazione del direttore generale del Ministero dello sviluppo economico secondo cui sarebbero stati superati alcuni punti critici e, quindi, i testi dei regolamenti sarebbero in un “avanzato stato d’elaborazione”, Cedrone, Responsabilità professionale, Fiorentino (MISE): «Ultimi decreti legge Gelli in fase di elaborazione, presto iniziative del Ministero», 2019, consultabile all’indirizzo: www.informazionesanità.it. Sulla portata e criticità delle deleghe normative, mi sia consentito il rinvio a Romagnoli, L’apporto della regolazione amministrativa nella legge Gelli-Bianco (critiche ed auspici d’un prossimo aggiustamento), in questa Rivista, 2018, spec. p. 18 ss.; Id, Il ruolo delle pubbliche amministrazioni e dei loro atti nella c.d. legge Gelli in materia di sicurezza delle cure, della persona assistita e di riforma della responsabilità sanitaria, in Resp. civ. e prev., 2017, 2020 ss. 2

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tuative3. L’art. 10, comma 6°, l. n. 24/2017, infatti, affida al regolamento il compito di “fissazione”: i) dei requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti la professione sanitaria; ii) dei requisiti minimi di garanzia e operatività delle altre «analoghe misure per la responsabilità civile» verso terzi e prestatori d’opera nonché relativamente all’assunzione diretta dei relativi rischi; iii) delle regole per il trasferimento del rischio nel caso di subentro contrattuale di un’impresa di assicurazione. A fine primavera del 2019 il Ministero dello sviluppo economico, incaricato dell’opera di concerto con il Ministero della salute (art. 10, comma 6°), ha messo a disposizione delle categorie interessate, ai fini della consultazione, una prima bozza di regolamento teso a dar sostanza a quelle disposizioni di principio contenute nella legge. Dopo un periodo di ponderazione dei dati raccolti il Dicastero ha diffuso, in piena estate, una seconda bozza, considerata da taluno migliorativa4, che recepiva alcune osservazioni raccolte in sede di confronto con le “categorie” interessate. Questa seconda, seguendo l’ordito della norma sulla normazione, raccoglie: nel titolo primo una disposizione definitoria ed una concernente il suo campo d’applicazione (artt. 1-2); nel titolo secondo le prescrizioni più strettamente assicurative, relative ai massimali di polizza ed alle clausole peculiari

L’importanza e delicatezza dello sforzo richiesto all’amministrazione è, peraltro, evidente sol si considera che al vigore del provvedimento ministeriale risultano subordinate non solo l’operatività della disciplina assicurativa ma anche altre novità – d’importanza non secondaria nell’economia della riforma – quali la c.d. azione diretta del danneggiato contro l’impresa che ha assunto il rischio (art. 12, comma 6°) o l’obbligo di partecipazione di quest’ultima alla fase di definizione stragiudiziale della questione controversa (art. 8, comma 4°) Per un’indagine sull’impatto conformativo della disciplina assicurativa della l. n. 24/2017, nelle more dell’adozione dei decreti attuativi, mi si permetta, ancora, di segnalare Romagnoli, L’attesa per l’operatività della disciplina assicurativa della legge Gelli – Bianco, in corso di pubblicazione in Nuova giur. civ. comm.

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Cfr. Benci, Assicurazione legge Gelli: senza assolvimento obblighi ECM nessuna copertura per il professionista, 2019, consultabile all’indirizzo: www.quotidianosanità.it.

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dei contratti di “settore” (artt. 3-7); in un corposo titolo terzo (artt. 8-16) le disposizioni caratterizzanti le «misure analoghe alle coperture assicurative» (artt. 8-14) ove si rinviene la disciplina del fondo rischi, del fondo riserva sinistri (artt. 9-11) nonché quella organizzativa/prudenziale (artt. 1415) tesa a garantire l’idoneità dei meccanismi a consentire l’effettiva e celere soddisfazione delle pretese risarcitorie dei danneggiati (art. 1, comma 2°, l. n. 24/2017). All’interno del titolo terzo, che si conclude con un articolo che raccoglie le disposizioni transitorie e finali (art. 16), si rinviene una disposizione dedicata al «subentro contrattuale di un’impresa d’assicurazione» (art. 12) ed un’ulteriore rubricata «rapporti tra assicuratore e struttura nella gestione del sinistro» (art. 13). Volendo anticipare una riflessione conclusiva, non sembra avventato manifestare una notevole perplessità sui contenuti della bozza unitamente all’auspicio d’una sollecita, quanto attenta, sua revisione correttiva anche se i suoi difetti sono, in molta parte, indotti dalle carenze della legge Gelli in punto coordinate da osservare nell’esercizio del potere regolamentare5. Già ad una prima lettura dell’elaborato si evidenzia non solo un’abbondanza – non rada nei regolamenti – di disposizioni ripetitive/ricognitive di precetti primari, di cui si darà solo in parte conto. A quelle proposizioni inutili, perché prive d’una reale portata innovativa, s’accompagnano delle altre afflitte da un eccesso di delega perché non autorizzate dalla legge. Da ultimo, nel documento si rinvengono delle disposizioni che si possono reputare espressione d’una scelta della P.A. di non avvalersi delle prerogative affidatele, eludendo così in modo sostanziale e non formale le consegne del legislatore. Come la legge Gelli, dunque, la bozza sembra scritta più perché si deve fare, per soddisfare una crescente attesa, che non in esito ad una ponderata riflessione sul come si doveva fare, ovviando

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Romagnoli, L’apporto della regolazione amministrativa, cit., 18 ss.

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Regolamento ministeriale d’attuazione ex art. 10, comma 6°, l. 24/2017

– nei limiti del consentito ad un atto “secondario” – quei molti dubbi sollevati dalla prima. Esempio di rinuncia allo svolgimento d’un’opera chiarificatrice è rappresentato dalla mancata precisazione del significato specifico del termine struttura, che è presupposto per l’applicazione di una serie di disposizioni recanti facoltà ed obblighi, diversi rispetto a quelli dei singoli sanitari. Infatti, si mantiene inalterata quell’incertezza legata alla equivocità del termine impiegato dalla l. n. 24/20176, eludendo un qualunque sforzo, definendola – tautologicamente – come quella «struttura sanitaria e sociosanitaria pubblica o privata che, a qualunque titolo, renda prestazioni sanitarie e favore di terzi» (art 1, comma 1°, h). Come esempio di invasione di ambiti preclusi, in spregio al principio di legalità, può indicarsi la disposizione rubricata «efficacia temporale della garanzia» (art. 5); in questa, invero, si rinviene una definizione eccentrica di rischio assicurato, rispetto a quella della legge, con conseguente “compressione” della prestazione dell’assicuratore. In fine, un’espressione di rinuncia parziale all’esercizio del potere normativo è da intravvedere nella disposizione che avrebbe dovuto individuare le eccezioni opponibili al danneggiato e, perciò, idonee a comprimere la sua pretesa al massimale assicurato. In tal ipotesi, il regolatore isola, in modo imperfetto, tramite il richiamo ad una definizione, l’ipotesi delle franchigie, impegnandosi, per lo più, a “chiosare” sui termini in cui l’assicuratore ha assunto l’obbligo di manleva. Quindi dilungandosi, in prevalenza, su indicazioni negoziali che incidono sulla sostanza del vincolo di quello – o, se si vuole, per effetto della concentrazione del rischio – limitano le richieste che il contraente assicurato può avanzare e che, a maggior ragione, non possono vincolare il primo verso l’esterno nei confronti del danneggiato. I dubbi e le perplessità sollevate dai vari articoli della bozza non si diradano neppure quando si giunge a quella di “chiusura” (art. 16). Infatti,

Sulle incertezze, anche operative, derivanti dall’impiego del termine generico “struttura” si veda, Romagnoli, Il ruolo delle pubbliche amministrazioni, cit., 2013 ss.

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questa non perspicua disposizione sembra aver l’effetto di differenziare, incomprensibilmente, il regime delle polizze delle strutture pubbliche rispetto a quello delle private. A tutte, invero, viene assegnato un termine per l’adeguamento o sostituzione delle coperture assicurative non conformi ma con uno “strappo”. Si ammette che le seconde se hanno concluso contratti assicurativi pluriennali tramite procedura di gara o «non liberamente rinegoziabili», «restano in vigore fino alla scadenza naturale» (art. 16, comma 4°)7.

2. Il Titolo II «I requisiti minimi ed uniformi per l’idoneità dei contratti di assicurazione» La parte dedicata alle disposizioni “assicurative in senso stretto” si apre con un primo articolo di natura “mista” (art. 3), in quanto al suo interno si rinvengono sia proposizioni pleonastico/ripetitive (art. 3, commi, 1° - 4°, 5°) che altre dotate di una forza innovativa, indicando elementi caratterizzanti le polizze di cui devono dotarsi i singoli sanitari, le strutture sanitarie, sociosanitarie residenziali e semiresidenziali. Il comma 3°, in particolare, si segnala per contenere una prescrizione che tempera la portata della previsione della legge Gelli, limitando la copertura per colpa grave imposta loro dalla stessa legge al fine di garantire l’efficacia delle azioni di regresso o rivalsa avviate dalle strutture nei confronti dei singoli (art. 12, comma 3°, l. n. 24/2017). Si prevede, infatti, che l’assicuratore che ha pagato può richiedere la restituzione delle

Ora, a prescindere dalle considerazioni stilistiche e contenutistiche, il regolatore sembra aver dimenticato l’istituto generale della revoca (art. 21-quinquies, l. n. 241/1990) che consente alla P.A. di liberarsi dagli effetti di una determinazione impegnativa di durata in esito alla riconsiderazione dell’interesse pubblico anche alla luce di una normativa sopravvenuta. Dunque, se non è possibile – per varie ragioni – modificare il contratto, comunque, la P.A. ha a disposizione uno strumento che le consente di sciogliersi da un rapporto non più in grado di soddisfare adeguatamente l’interesse pubblico o per il mutamento della situazione concreta o per sopravvenienze normative. Per una sintesi dei caratteri dell’istituto si rinvia a Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2019, 227 ss.

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somme all’assicurato «qualora l’esercente la professione sanitaria non abbia regolarmente assolto all’obbligo formativo e di aggiornamento previsto dalla normativa vigente in materia di educazione continua in medicina per il triennio formativo precedente la data del fatto generatore di responsabilità»8. Dunque, per stimolare l’osservanza d’un obbligo strumentale alla tutela della salute del paziente si introduce una sorta peculiare di “scoperto obbligatorio”9. Il rischio viene mantenuto a carico dell’assicurato se l’autore del danno è venuto meno al proprio obbligo formativo, con conseguente “surroga” dell’assicuratore nella posizione di chi ha ricevuto il risarcimento. Con la riserva di una più pacata riflessione, ad una prima lettura mi sembra quanto meno dubbia la legittimità della previsione sotto diversi profili. In primo luogo, è ragionevole ritenere che quella sanzione non possa essere introdotta per via regolamentare stante la carenza d’attribuzione di un corrispondente normativo10, non recuperabile neppure praticando una lettura assolutamente estensiva della legge Gelli. In secondo luogo, la prescrizione, verosimilmente, collide con il fondamentale principio di proporzionalità, poiché lega una privazione assoluta, ad un inadempimento magari marginale o formale11. Altra disposizione caratterizzante12 è quella del comma 6° dell’art. 3 che impone l’obbligo di in-

È da segnalare come l’ipotesi sopra descritta sia prevista come fattispecie ad applicazione differita. Infatti, il regolamento (art. 16, comma 3°) ne prevede l’applicabilità «a decorrere dal termine del periodo formativo 2010-2022».

Saggi e pareri

tervento integrale dell’assicuratore a copertura del sinistro anche nell’ipotesi di responsabilità solidale dell’assicurato con altri soggetti che hanno concorso nella realizzazione della condotta dannosa. Dunque, le polizze d’interesse non consentono all’assicuratore di concentrare il rischio assunto, limitandolo alla quota specifica di responsabilità del proprio assicurato, rilevante in sede di regolazione interna tra i corresponsabili cioè al momento del regresso da parte di chi ha pagato l’intero (art. 2055, comma 2°, c.c.)13. In fine, l’ultimo comma dell’art. 3 introduce un ulteriore elemento di caratterizzazione delle polizze sanitarie in punto di politiche di definizione dei premi da parte delle imprese. Infatti, il corrispettivo richiesto per l’assunzione del rischio descritto nel contratto, sembra debba essere personalizzato, muovendo dalla tariffa fissata dall’impresa per far fronte alle conseguenze patrimoniali negative derivanti dal pericolo di avveramento di una specifica tipologia di eventi avversi. Per il comma 7°, la quotazione astratta del rischio, fissata dall’impresa in sede di analisi e costruzione del prodotto proposto per la copertura del nuovo periodo assicurativo, dovrà subire delle correzioni in ragione di talune variabili individuate dalla stessa bozza quali: la verificazione o non verificazione dei sinistri nel periodo precedente, l’entità dei risarcimenti erogati, l’adempimento degli obblighi formativi e, comunque, si precisa che «le variazio-

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Infatti, lascia sostanzialmente a carico dell’assicurato quella parte di rischio che si presume legato al mancato aggiornamento. Sulla distinzione tra scoperti e franchigie, per tutti, si rinvia a Donati, Volpe Putzolu, Manuale di diritto delle assicurazioni, Milano, 2019, 151 s.

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Sulle coordinate del potere regolamentare, che è espressione d’una potestà amministrativa, essendo il regolamento un provvedimento particolare, per avere effetti normativi, per tutti si veda Clarich, op. cit., 70 ss., 105 ss. e 214 ss. 10

11 Si pensi all’ipotesi in cui si discuta di mancata osservanza dell’obbligo informativo perché al medico, magari, mancano un paio d’ore di attività d’aggiornamento. Sul valore del principio di proporzionalità e sulle ricadute della sua inosservanza in termini di invalidità, si rinvia a Clarich, op. loc. cit. 12

Si tratta, peraltro, di una disposizione di tenore identico a

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quella contenuta del regolamento recante le condizioni minime delle assicurazioni degli avvocati (art. 1, comma 1°, D.M. Giustizia 22.9.2016). 13 È da evidenziare come dalla previsione, che vuole l’integralità dell’intervento dell’assicuratore, potrebbe desumersi anche un divieto di coassicurazione di rischi sanitari, stante la responsabilità parziale che ciascun assicuratore assume rispetto al sinistro delle cui conseguenze si fa carico, con effetto esterno, nei limiti della quota da lui assicurata (art. 1911 c.c.). Infatti, si potrebbe ritenere che quelle esigenze di semplificazione dei rapporti con i danneggiati e di quanto più celere definizione dei sinistri, che sono alla base della previsione, rendano incompatibile la distribuzione dello stesso rischio tra più imprese anche nell’ipotesi in cui l’unitaria polizza contenga la c.d. clausola di delega che per la natura dei rapporti d’interesse, non implica l’assunzione da parte della delegataria dell’intera indennità pattuita. Cfr. Donati, Volpe Putzolu, op. cit., 145.


Regolamento ministeriale d’attuazione ex art. 10, comma 6°, l. 24/2017

ni del premio di tariffa devono essere in ogni caso coerenti e proporzionate alle variazioni dei parametri adottati per la definizione del premio stesso». Nella sostanza, il regolatore – per calmierare la dinamica dei premi – vincola in modo dubbiamente legittimo, la libertà d’impresa pretendendo di condizionare il costo dell’offerta dei servizi assicurativi in ambito sanitario14. Se non ci si inganna, accantonati i buoni propositi, la disposizione compie un’invasione di spazi che gli sono preclusi per essere riservati all’autonomia privata. In principio, infatti, la determinazione del premio è rimessa in via esclusiva agli assicuratori tant’è che, eccezionalmente, in ambiti particolarmente sensibili, caratterizzati da particolari condizioni costanti di mercato e di rischio, come nel caso della r.c. veicoli, risultano tollerabili indicazioni concernenti sconti obbligatori (art. 132 cod. ass.) o misure che introducono dinamiche tariffarie vincolate (art. 133 cod. ass.). Parte importante e particolarmente attesa del regolamento è quella sui «massimali di garanzia delle polizze assicurative» (art. 4), disposizione che sembra ispirata e dalla finalità di contenimento dei costi delle stesse polizze e da quella di massima semplificazione. La prima tendenza parrebbe trasparire dal confronto tra l’entità dei massimali indicati nella bozza ed i più elevati della r.c. veicoli del codice delle assicurazioni (art. 128, comma 1°, cod. ass.)15. La seconda, invece, sembrerebbe

Sembra, infatti, assolutamente difficile immaginare che la delega alla definizione delle condizioni minime delle polizze assicurative (art. 10, comma 6°, l. n. 24/2017) contenga una delega implicita anche all’adozione di disposizioni aventi incidenza sulle tariffe. Difficoltà che non pare potersi superare richiamando una delle finalità della riforma data dalla riattivazione dell’offerta assicurativa a fronte del versamento di premi “abbordabili”. 14

15 Per i danni alle persone, l’art. 128, comma 1°, cod. ass. prevede un massimale non inferiore a 5.000.000 euro per sinistro (lett. a) mentre per i danni derivanti alle persone causati dalla circolazione di veicoli “qualificati” il più alto importo pari a 15.000.000 euro per sinistro, indipendentemente dal numero delle vittime (lett. b-bis). È doveroso ricordare però che, rispetto al dato formale della fissazione dei massimali, l’importo indicato nella bozza pare idoneo a far fronte alle necessità di liquidazione dei sinistri sanitari il cui importo medio corrisposto nel corso del 2017 è stato pari a 23.741 (Bollettino statistico Ivass. I rischi da responsabilità

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emergere dalla scelta di fissare i massimali avendo riguardo a “macroaree” e, dunque, non diversificare gli importi in ragione delle singole specializzazioni e prestazioni mediche benché quelle, nel corso del tempo, hanno manifestato una diversa sinistrosità con significative differenze in termini di premio16. Invero, la differenziazione è costruita sulla base di tre “variabili” quali, rispettivamente, di luogo di erogazione della prestazione, di tipo di prestazione nonché in ragione della natura del soggetto che la eroga. Nell’ordine, si prevede (art. 4, comma 1°): a) un massimale non inferiore a 1.000.000 di euro per sinistro, ed al suo triplo per ciascun anno, per le strutture ambulatoriali che eseguono prestazioni non riservate agli ambulatori c.d. protetti, come definiti dal D.C.P.M. 12 gennaio 2017; b) un massimale non inferiore a 2.000.000 di euro, ed al suo triplo per ciascun anno, per le strutture che non svolgono «attività chirurgica, ortopedica, anestesiologica e parto», ma attività riservate a laboratori protetti, attività odontoiatrica e per quelle sociosanitarie residenziali o semiresidenziali; c) un massimale non inferiore a 4.000.000 di euro, ed al suo triplo per ciascun anno, per le strutture che svolgono «attività chirurgica, ortopedica, anestesiologica e parto». A chiusura, si contempla, poi, per tutte le strutture anche uno specifico massimale per i c.d. sinistri di serie, intesi, come pluralità di richieste di risarcimento originati da una stessa causa colposa (art. 1, comma 1°, lett. p). Per questi si indica un massimale, per sinistro e per anno assicurativo, pari al triplo degli altri, indipendentemente dal numero dei danneggiati (art. 4, comma 1°, lett. d). Per gli esercenti la professione sanitaria sono, invece, previsti tre distinti massimali (art. 4, comma 2°): a) non inferiore a 1.000.000 di euro per sinistro, ed al suo triplo per anno assicurativo, per chi non svolge «attività chirurgica, ortopedica, anestesiologica e parto»; b) non inferiore a 2.000.000

civile sanitaria in Italia 2010-2017, 2018, 14, consultabile all’indirizzo: www.ivass.it). 16 Per una panoramica, oltre alle fonti AGENAS, si può vedere il Dossier ANIA, Malpractice, il grande caos, 2014, consultabile all’indirizzo www.ania.it.

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di euro per sinistro, ed al suo triplo per anno assicurativo, per chi svolge «attività chirurgica, ortopedica, anestesiologica e parto»; c) triplicazione degli importi minimi indicati alle lett. a) e b) per il caso di sinistri seriali, indipendentemente dal numero dei danneggiati. Per quanto concerne il massimale dell’assicurazione di responsabilità per colpa grave, verso le strutture, dei singoli (ex art. 10, comma 3°, l. n. 24/2017) la bozza (art. 4, comma 3°) fa rinvio all’importo fissato dalla stessa legge (art. 9, commi 5° e 6°, l. n. 24/2017), precisando che tale limite non si applica nei confronti degli esercenti attività libero professionali presso strutture mentre fissa un massimale non inferiore a 2.000.000 di euro, rispettivamente per sinistro e per anno, per le polizze di responsabilità civile delle strutture verso i prestatori d’opera (art. 4, comma 4°). Fermo il dubbio sulla idoneità abilitativa della delega alla determinazione dei massimali17, la disposizione in esame sembra incompleta per un ulteriore profilo. Quella, infatti, difformemente da altre forme di assicurazione obbligatoria (art. 128 cod. ass.), non indica modalità “meccaniche” per il loro aggiornamento18. Il regolatore, in altri termini, non contempla automatismi che ne legano l’incremento alle dinamiche di indici predefiniti, limitandosi a contemplare la loro possibile rideterminazione in ragione dell’andamento del Fondo di garanzia per i danni da responsabilità sanitaria (art. 14, comma 7°, lett. a), l. n. 24/2017). Dunque, tramite il riesercizio della potestà regolamentare, con il conseguente espletamento di tutti gli incombenti istruttori previsti dalla legge e, quindi, con dispendio di tempi.

Romagnoli, Il ruolo delle pubbliche amministrazioni, cit., 2022 ss.

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18 L’art. 128, prevede, al suo comma 3°, i massimali siano «indicizzati automaticamente secondo la variazione percentuale indicata dall’indice europeo dei prezzi al consumo (IPCE), previsto dal regolamento (CE) n. 2494/95 del Consiglio, del 23 ottobre 1995, relativo agli indici dei prezzi al consumo armonizzati. L’aumento effettuato è arrotondato ad un multiplo di euro 10.000», la cui esatta entità – in base al comma successivo – è definita con apposito decreto del Ministro dello sviluppo economico da pubblicare in Gazzetta Ufficiale.

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Saggi e pareri

Procedendo nella ricostruzione delle specificità delle polizze sanitarie, ci si deve soffermare sulle disposizioni, rispettivamente, rubricate «efficacia temporale della garanzia» (art. 5) ed «eccezioni opponibili» (art. 7). La prima, ragionevolmente, si segnala per un duplice profilo “negativo”. Innanzitutto, non pare trovare il proprio fondamento in un delega legislativa. Infatti, non è dato rinvenire una norma sulla normazione abilitante ad incidere sulla variabile temporale. Poi, la medesima sembra voler incidere sull’operatività della polizza, sostanzialmente, riducendo lo spazio della garanzia, e così ponendosi in contrasto con le corrispondenti coordinate della legge Gelli. La collisione, con tutte le implicazioni in punto di legittimità, risulta evidente semplicemente raffrontando il testo di legge con il “corrispondente” della bozza. Il primo prevede la presa in carico da parte dell’assicuratore di quegli «eventi accaduti […] purché denunciati all’impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza» o di quelle richieste di risarcimento fondate su fatti generatori di responsabilità collocati nel periodo di vigenza ma denunciati per la prima volta nei dieci anni successivi anche se collocabili temporalmente nei dieci anni precedenti (art. 11, l. n. 24/2017). Il secondo, invece, – premesso che la garanzia assicurativa «è prestata nella forma “claims made”» – la limita alle «richieste formali di risarcimento avanzate per la prima volta nei confronti dell’assicurato nel periodo di vigenza della polizza […]» od in quello di ultrattività per il caso di cessazione dell’attività (art. 5, comma 1°- 2°)19 e ciò in coerenza con la definizione di sinistro che la bozza descrive come «la richiesta di risarcimento danni per i quali è prestata l’assicurazione (criterio “claims made”) ossia qualsiasi richiesta scritta avanzata per la prima volta dai terzi in vigenza di polizza nei confronti dell’assicurato […]» (art. 1, comma 1°, lett. o).

19 Con l’ulteriore precisazione dello stesso comma per cui «In caso di sinistri in serie la garanzia assicurativa opera per il sinistro denunciato con la prima richiesta».


Regolamento ministeriale d’attuazione ex art. 10, comma 6°, l. 24/2017

In conclusione, per il progetto di regolamento non sarebbe più sufficiente a far scattare l’obbligo d’intervento dell’assicuratore la “mera”, sia pur circostanziata, denunzia20 da parte dell’assicurato come è indicato dalla legge e segnalato dalla dottrina specialistica21. In fine, una specificità delle polizze sanitarie si dovrebbe ricavare dalla disposizione dedicata alle eccezioni opponibili al terzo, cioè da quella che dovrebbe individuare le clausole capaci di erodere la pretesa del danneggiato anche contenuta nel limite del massimale e, quindi, in deroga al principio dell’intangibilità di quest’ultimo (art. 12, comma 2°). Ora, se si ci si concentra su tale articolo (art. 7), esaminando il “gioco” tra legge e bozza di regolamento, si ha l’impressione che le prescrizioni del secondo abbiano generato un parziale “cortocircuito”. Infatti, il regolatore sembra aver eluso l’individuazione di clausole abilitate a comprimere, nel concreto, la pretesa del danneggiato, poiché ne viene indicata, tramite rinvio alle definizioni, solo un’ipotesi, peraltro, descritta in modo imperfetto. Si prevede, infatti, che sono opponibili «limitazioni quantitative del contratto assicurativo di cui all’art. 1, comma 1°, lettere r) e s)», vale a

E si deve sottolineare, ancora, che la bozza definisce la denuncia come «atto con il quale l’assicurato deve dare avviso scritto del sinistro all’assicuratore» (art. 1, comma 1°, lett. e) e cioè della richiesta di risarcimento danni. Denunzia, poi chiamata avviso, che deve essere effettuato nei trenta giorni successivi dalla recezione della richiesta o dalla sua conoscenza ma che può essere omesso se «l’impresa di assicurazione interviene entro il detto termine alle operazioni di salvataggio o di constatazione del sinistro» (art. 5, comma 3°). 20

Sul punto si vedano, per tutti, Corrias, I profili di rilievo assicurativo della legge Gelli-Bianco, in Aa. Vv., Risarcimento del danno e assicurazione nella nuova disciplina della responsabilità sanitaria (l. 8 marzo 2017, n. 24), a cura di Faccioli, Troiano, Napoli, 2019, 37; Facci, Le clausole claims made and reported ed il difficile equilibrio con la disciplina dell’obbligo d’avviso del sinistro, in Resp. civ., 2018, 1490 s.; La Russa, La riforma della responsabilità sanitaria nel diritto civile: l’istituzione del doppio binario ed il nuovo regime assicurativo, tra obbligo di copertura e possibilità di autotutela, ivi, 2019, 356. In particolare, si rinvia alle riflessioni di Facci, Gli obblighi assicurativi nella recente riforma legge Gelli- Bianco, in Nuova giur. civ. comm., 2019, II, 109 s. 21

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dire le clausole contemplanti franchigie (lett. s), poiché l’altra ipotesi – in realtà come le ulteriori della disposizione – vertendo sulla quota in autoritenzione, non è, per definizione, inclusa nel rischio assicurato. Tanto sottolineato, si deve ora evidenziare, come l’unica prescrizione che individua una clausola opponibile appaia insufficientemente confezionata e potrebbe risultare foriera di dubbi non specificando il tipo di franchigia dalla stessa considerata. Come è noto, la prassi conosce diverse ipotesi di clausole che lasciano a carico dell’assicurato parte del danno. Si distinguono franchigie semplici, assolute, aggregate, destinate ed operare in diverso modo22, e perciò sarebbe stata necessaria una diversa e maggiore attenzione. Ora se quella timida apertura alla opponibilità – con tutti gli interrogativi che solleva – può essere vista come espressione di una tendenza massimamente garantista delle ragioni del danneggiato23, non di meno non pare siano da sottovalutare le controindicazioni. Infatti, il “contenimento” praticato, rinforzato dalla previsione di dubbi vincoli formali, rappresenta un serio disincentivo per gli assicuratori al riaffacciarsi a questo non facile mercato. Se si passa all’analisi del testo, come anticipato, non si rinviene un elenco di clausole reputate opponibili dalla P.A. e, dunque, compatibili tanto con le esigenze dei danneggiati che con una possibile rivificazione dell’offerta assicurativa. Dei quattro casi indicati, infatti, i primi tre descrivono diverse ipotesi di danno non rientranti tra i rischi coperti dalla polizza (art. 1882 c.c.). Quindi se si vuole, in negativo, non attinenti all’oggetto del contratto perché esclusi, con l’ulteriore conseguenza che rispetto ad essi non si genera alcun obbligo d’intervento dell’impresa24. Il quarto, invece, contempla un’ipotesi obbiettiva di sospensione della polizza per mancata corresponsione da parte dell’assicu-

22

Donati, Volpe Putzolu, op. cit., 152.

Oltre alla dottrina citata nelle note precedenti si veda, Bugliolacchi, Le strutture sanitarie e l’assicurazione per r.c. verso terzi: natura e funzione dell’assicurazione obbligatoria nella legge 24/2017, in Resp. civ. e prev., 2017, 1037. 23

24

Cfr. Donati, Volpe Putzolu, op. cit., 98 e 102 s.

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rato del suo contributo alla comunione dei rischi e cioè del corrispettivo dovuto per essere sollevato dall’impresa in ipotesi di accadimento del sinistro25. Non dovrebbero esservi dubbi in merito all’assenza d’un impegno dell’assicuratore per: «a) fatti dannosi derivanti dallo svolgimento di attività che non sono oggetto di copertura assicurativa; b) fatti generatori di responsabilità verificatesi e le richieste di risarcimento presentate al di fuori dei periodi contemplati dall’art. 526; c) le limitazioni quantitative del contratto assicurativo di cui all’articolo 1, comma 1° letter[a] r; d) il mancato pagamento del premio». In conclusione, il documento normativo sull’opponibilità risulta “quasi del tutto inutile” se non pericoloso, potendo ingenerare una certa confusione, magari instillando l’idea che l’assicuratore risponda di tutto – compreso ciò che non ha assicurato – per il fatto d’aver contratto con una struttura sanitaria se non è stato rispettato lo specifico formalismo della «previa sottoscrizione di clausola contrattuale da approvare specificamente per iscritto» (art. 7, comma 1°) da parte del danneggiato.

3. Il Titolo III «I requisiti minimi di garanzia e condizioni di operatività delle misure analoghe» Il Titolo terzo della bozza è dedicato a dar sostanza ed a completare un aspetto centrale della regolazione della legge qual è l’individuazione dei requisiti qualificanti degli strumenti alternativi all’assicurazione, cioè gli elementi “selettivi” che fanno presumere la capacità della soluzione apprestata a dare una risposta analoga/ comparabile, in termini di soddisfazione effettiva del danneggiato, a quella offerta dall’impresa. La disciplina dei «requisiti minimi di garanzia» e delle «condizioni generali di operatività delle analoghe misure, anche di assunzione diretta del rischio» (art. 10, comma 6°, l. n. 24/2017), risulta fondamentale, in un’ottica di sollecita ed adegua-

25

Donati, Volpe Putzolu, op. cit., 117 ss.

26

Della stessa bozza.

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Saggi e pareri

ta risposta al bisogno risarcitorio, stante l’amplissimo ricorso a soluzioni c.d. in house, praticato da strutture pubbliche e private che ritengono non conveniente od inappropriato pagare agli assicuratori premi ritenuti troppo esosi. A fronte del fiorire e diffondersi di soluzioni assolutamente eterogenee, definite liberamente da chi si vedeva facultizzato a sperimentare percorsi alternativi alle polizze27, il legislatore ha affidato una funzione omologatrice alla disciplina subprimaria28. A quest’ultima, quindi, è demandato il compito di bandire soluzioni di tipo formale/nominale e, dunque, indirizzare l’autonomia organizzativa delle strutture (pubbliche e privata) verso la definizione di assetti idonei, in una prospettiva pratica e concreta, a consentire l’adeguato accantonamento di somme, rese intangibili da un vincolo di destinazione che renda certo il pagamento dei risarcimenti. La tensione regolatoria verso l’individuazione di soluzioni alternative all’assicurazione, comparabili in punto di efficienza ed efficacia, traspare chiaramente dall’articolazione delle prescrizioni procedurali poste per il compimento della scelta. Infatti, le strutture devono approvare la soluzione in house con una specifica delibera in cui risul-

Ad esempio, alcuni enti pubblici e privati hanno destinato a far fronte ai rischi gestiti in regime di “autoritenzione” od autoassicurazione gli importi destinati al pagamento dei premi negli anni precedenti così come si sono determinati nel corso d’esercizio, al verificarsi di una richiesta giudiziale o stragiudiziale di risarcimento, a portare a riserva “facoltativa” somme, di volta in volta determinate. Somme su cui non grava vincolo di destinazione e che, dunque, previa osservanza delle formalità contabili previste dall’ordinamento di ciascuna organizzazione potevano, nel corso del tempo, essere dirottate per far fronte ad altre necessità. 27

Cfr. Romagnoli, L’apporto della regolazione amministrativa, cit., 18, Id, Il ruolo delle pubbliche amministrazioni, cit., 2026. Per una panoramica delle soluzioni autoassicurative e delle relative problematiche, anche organizzative, mi sia consentito, anche il rinvio a Romagnoli, Autoassicurazione della responsabilità medica: compatibilità con i principi di diritto interno ed europeo, in Danno e resp., 2015, 329 ss. In fine, per un’ampia considerazione del tema, in una di comparazione tra esperienza italiana e di altri ordinamenti, si segnala il meditato lavoro di Velliscig, Assicurazione e “autoassicurazione” nella gestione dei rischi sanitari, Milano, 2018, spec. 247 ss. 28


Regolamento ministeriale d’attuazione ex art. 10, comma 6°, l. 24/2017

tino puntualmente descritte e ponderate le caratteristiche del modello interno adottato nonché le sue modalità di funzionamento (art. 8, comma 2°). Dunque, si richiede «ai vertici delle strutture sanitarie», cui è riservata la determinazione, d’esprimere un formale giudizio di idoneità dell’alternativa autoassicurativa, con tutto quanto ne consegue in termini di responsabilità, anche personale, quanto meno, interna. Sul piano dei requisiti, peraltro, la bozza si trova a seguire una sorta di percorso obbligato dovendo in qualche modo ispirarsi al parametro rappresentato dallo strumento assicurativo. Quindi, da quello riprende – con gli opportuni adattamenti – le previsioni sulla determinazione di adeguati accantonamenti adeguati nella riserva rischi e nella riserva sinistri, quelle relative alle verifiche di loro sufficienza e di vincolo di destinazione alla soddisfazione dei risarcimenti. Ulteriormente, scorrendo l’elaborato, si rinvengono – similmente alla regolazione assicurativa – disposizioni dedicate ai controlli sugli accantonamenti, cui seguono altre relative all’organizzazione interna delle attività che li riguardano29. Nel definire i criteri di formazione del fondo rischi, cioè di quello a copertura degli eventi individuati a fine esercizio cui non ha ancora fatto seguito da una richiesta risarcitoria, viene dato rilievo sia ad elementi di tipo statistico che alle peculiarità organizzative ed operative della struttura. Si precisa, infatti, che l’importo da accantonare deve essere definito tenendo conto «della tipologia e della qualità delle prestazioni erogate e delle dimensioni della struttura», in modo che sia «sufficiente a far fronte, nel continuo, al costo atteso per i rischi in corso ed al termine dell’esercizio» (art. 9, comma 2°, lett. a)). Si tratta, dunque, di valutazioni di carattere concreto e non astratto con la conseguenza che, a fronte di uno stesso evento dannoso, potrebbero risultare adeguati accantonamenti di distinta en-

Per una non condivisibile critica alla forte ispirazione dei criteri alla disciplina assicurativa si è espresso il presidente di Federsanità (Frittelli, Legge Gelli e copertura dei rischi. Assicurazioni e Aziende sanitarie non sono la stessa cosa (2019) consultabile all’indirizzo: www.quotidianosanità.it). 29

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tità, stanti le differenti criticità cui sono esposti i diversi centri di cura che pur praticano interventi del medesimo tipo30. A seguire si incontra la disposizione sulla riserva sinistri (art. 10, comma 1°), vale a dire quella relativa al fondo che «comprende l’ammontare complessivo delle somme necessarie per far fronte alle richieste di risarcimento presentate nel corso dell’esercizio o nel corso di quelli precedenti relative a sinistri denuncianti e non ancora pagati e relative a spese di liquidazione». A questa vanno imputati accantonamenti determinati avendo riguardo alle caratteristiche della domanda risarcitoria e, in funzione di quella, dei ragionevoli costi di definizione. Ulteriormente, considerato che tanto la determinazione del fondo rischi quanto quella del fondo sinistri sono il risultato di valutazioni – motivate e documentate – che, comunque, conservano un margine ineliminabile di opinabilità si prevedono due diversi ordini di cautele per garantire nel tempo la capacità solutoria della struttura. In primo luogo, si impone la “ricostruzione” della riserva rischi nel caso di sua erosione a fronte della presentazione di domande non corrispondenti alle previsioni che ne avevano orientato la formazione (art. 9, comma 3°). In secondo luogo, si dispone che un revisore contabile od il collegio sindacale certifichi la congruità del fondo rischi e del fondo sinistri a far fronte agli obblighi risarcitori potenziali ed attuali (art. 11, comma 1°).

È, peraltro, da segnalare come gli attivi imputati a questa riserva – così come per quelle dell’articolo successivo – non siano previste specifiche modalità di gestione di tipo vincolato; quindi se, da un lato, rimane ferma la loro inaggredibilità da parte dei creditori della struttura (art. 10, comma 6°, ultimo periodo, l. n. 24/2017, dall’altro, i vertici della stessa ne conservano la piena disponibilità potendo destinare le relative risorse all’impiego preferito. Nella seconda bozza c.d. migliorativa è, infatti, stato soppresso il testo di un articolo, presente nella precedente versione, rubricato «investimenti degli attivi a copertura del fondo rischi e del fondo riserva sinistri», che imponeva alle strutture, similmente a quanto è imposto agli assicuratori, di investire, in modo diversificato, le disponibilità rinvenienti dalle riserve in attivi di proprietà, affidabili, sicuri, capaci di produrre reddito e facilmente liquidabili. 30

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Nell’ambito del capo III sono, peraltro, collocate due disposizioni, una rubricata «subentro contrattuale di un’impresa di assicurazione», dedicata alla successione del soggetto esterno nella “gestione del rischio” (art. 12), l’altra «rapporti tra assicuratore e struttura nella gestione del sinistro» (art. 13). La loro lettura ne evidenzia subito la diversa portata e rilevanza. La prima, infatti, pare priva d’un apprezzabile contenuto innovativo, per essere sostanzialmente ricognitiva della disciplina legislativa; si limita, infatti, a ribadire che l’assicuratore si fa carico solo dei rischi denunciati dopo l’operatività della polizza. La seconda, invece, sembra essere di particolare interesse dando luogo – tramite l’imposizione d’un obbligo – ad un’opportuna valorizzazione degli strumenti negoziali come fattore di coordinamento tra concorrenti e complementari attività di assicurato ed assicuratore nell’esame e definizione del sinistro. La prescrizione relativa alla preventiva definizione di «appositi protocolli di gestione […] volti a disciplinare, in particolare, i criteri e le modalità di gestione, liquidazione ed istruzione del sinistro, nonché di valutazione del danno da risarcire», risulta peraltro più che opportuna consentendo di evitare nel futuro quelle frequenti questioni che si presentano nella pratica quotidiana nella “lavorazione” di sinistri il cui importo si situa a cavallo di quello fissato per definire la competenza di impresa e struttura. La precisa regolazione, con modalità vincolanti per le parti, dei criteri di stima e dei processi di liquidazione, dunque, contribuirà a garantire l’efficiente e tempestiva soluzione delle controversie; così ragionevolmente si eviterà che la scelta dell’impiego composito degli strumenti per far fronte al rischio sanitario si riveli un ostacolo alla sollecita soddisfazione del danneggiato. Le prescrizioni relative alle riserve trovano, se si vuole, il loro completamento in due articoli della bozza (artt. 14 -15) ove sono concentrate talune regole tendenti a garantire la correttezza del processo di valutazione dei rischi, della messa a riserva di adeguate risorse, della lavorazione dei sinistri nonché a rendere possibile, nel corso del Responsabilità Medica 2019, n. 3

Saggi e pareri

tempo, la persistente appropriatezza del sistema autoassicurativo a far fronte agli eventi dannosi che possono essere occasionati dal tipo di specifica attività esercitata e della sua “evoluzione”. Ogni struttura – che non opta in tutto od in parte per la soluzione assicurativa – deve istituire al proprio interno una funzione di valutazione dei sinistri. Questa, a supporto dei vertici dei centri di erogazioni di prestazione sanitarie, verifica; (i) la ragionevole affidabilità del calcolo delle probabilità di realizzazione di eventi infausti; (ii) la loro adeguata ed appropriata considerazione; (iii) la loro corretta valutazione anche in punto di composizione e di quantità dell’entità, eventualmente, da risarcire. La qualità delle indicazioni dello specifico “ufficio”, a sua volta, è garantita dalla prescrizione di una serie di competenze minime qualificanti quali la specializzazione in medicina legale, in loss adjusting, in campo giuridico e risk management31. Ed è proprio questa alta specializzazione tecnica che spiega il perché chi è investito del potere decisionale si debba avvalere del supporto della funzione di controllo rischi prima di compiere scelte particolarmente delicate quali quelle relative: alla determinazione di corrette e congrue poste da inserire in bilancio (art. 14, comma 1°); al processo di stima delle riserve rischi e sinistri; alla rispondenza ai principi contabili applicabili (art. 14, comma 2°). Il successivo articolo, a presidio della effettiva capacità operativa della funzione di controllo rischi, pone in risalto la necessità di una sua minima disponibilità di mezzi. Quella, si precisa, deve essere dotata di adeguate risorse umane e materiali, onde consentire un controllo di tipo continuativo sulle modalità di formazione della riserva rischi e sinistri seguendo procedure, trasparenti e preventivamente codificate (art. 15, comma 1°).

31 Competenze eventualmente integrate da speciali conoscenze contabili e statistiche, quando ciò sia richiesto ai fini di una corretta definizione delle poste da accantonare e della adeguatezza complessiva dei fondi posti a riserva, come si ricava implicitamente dalla previsione dell’art. 14, comma° della stessa bozza.


Regolamento ministeriale d’attuazione ex art. 10, comma 6°, l. 24/2017

Accanto alla nuova funzione di controllo, peraltro, continua ad operare quella di risk management prevista per le strutture pubbliche e private inserite nel Sistema nazionale dall’art. 1, comma 539°, l. n. 208/201532. Quest’ultima, coerentemente con le proprie competenze originarie, si vede riservare «il compito di identificare, valutare, gestire e monitorare i rischi cui è esposta [la struttura] in un’ottica attuale e prospettica, attraverso un processo di analisi che include, una valutazione sia delle prestazioni sanitarie offerte sia dell’utenza che ne usufruisce», operando con «metodologie di misurazione dell’esposizione al rischio che consentano di determinare l’ammontare massimo della perdita potenziale» (art. 15, comma 2°). Alla funzione di controllo dei rischi, infine, spetta una competenza, rispettivamente, di tipo propositivo/consultivo e di sintesi/giudizio da svolgere ad inizio e fine esercizio, anche impiegando i dati raccolti nel corso di quel controllo continuativo teso a monitorare i rischi emergenti legati alle variazioni dell’offerta sanitaria o delle condizioni in cui essa viene operata (art. 16, comma

32 L’art. 1, comma 539°, l. n. /2015, prevede infatti, che – nell’esercizio delle loro competenze normative ed amministrative – le regioni e le provincie autonome di Trento e Bolzano dispongano che tutte le strutture pubbliche e private, inserite nel Sistema sanitario nazionale, si dotino «di un’adeguata funzione di monitoraggio, prevenzione e gestione del rischio sanitario (risk management), per l’esercizio dei seguenti compiti: a) attivazione dei percorsi di audit o altre metodologie finalizzati allo studio dei processi interni e delle criticità più frequenti, con segnalazione anonima del quasi-errore e analisi delle possibili attività finalizzate alla messa in sicurezza dei percorsi sanitari. I verbali e gli atti conseguenti all’attività di gestione del rischio clinico non possono essere acquisiti o utilizzati nell’ambito di procedimenti giudiziari; b) rilevazione del rischio di inappropriatezza nei percorsi diagnostici e terapeutici e facilitazione dell’emersione di eventuali attività di medicina difensiva attiva e passiva; c) predisposizione e attuazione di attività di sensibilizzazione e formazione continua del personale finalizzata alla prevenzione del rischio sanitario; d) assistenza tecnica verso gli uffici legali della struttura sanitaria nel caso di contenzioso e nelle attività di stipulazione di coperture assicurative o di gestione di coperture auto-assicurative; d-bis) predisposizione di una relazione annuale consuntiva sugli eventi avversi verificatisi all’interno della struttura, sulle cause che hanno prodotto l’evento avverso e sulle conseguenti iniziative messe in atto».

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3°). Quell’ufficio interno, prima, deve «presentare annualmente ai vertici della struttura, per l’approvazione, un piano in cui sono identificati i principali rischi di responsabilità civile in ambito sanitario cui la struttura è esposta e le azioni proposte in un’ottica di mitigazione dei rischi stessi» (art. 16, comma 4°). La stessa unità organizzativa, poi, è chiamata a «predisporre annualmente per i vertici della struttura, per l’approvazione, una relazione sull’adeguatezza ed efficacia dei processi di valutazione dei rischi, sul raffronto tra le valutazioni effettuate ed i risultati emersi, nonché sulle criticità riscontrate, proponendo i necessari interventi migliorativi» (art. 15, comma 5°). La scelta per l’opzione alternativa all’assicurazione, dunque, risulta foriera di non trascurabili ricadute organizzative a carico delle strutture. Quella, infatti, comporta la necessità, anche per le strutture non «inserite nel servizio sanitario nazionale» d’istituire, almeno una funzione di risk management, con competenze integrate nei termini fissati dal regolamento (art. 15, comma 1°). La parziale corrispondenza tra compiti previsti dal regolamento e quelli fissati dall’art. 1, comma 539°, l. n. 208/2015, rende, invero, ragionevole immaginare che l’adempimento organizzativo possa essere assolto da un unico ufficio la cui operatività venga implementata anche tramite il ricorso a risorse esterne come prevede anche il regolamento (art. 14, comma 1°, ultimo periodo). La possibilità di concentrazione di funzioni, naturalmente, non preclude quella diversa di mantenere due servizi separati e, dunque, affiancare due uffici che sono titolari di competenze concorrenti e, forsanche, parzialmente coincidenti. La separazione, che potrebbe favorire un confronto dialettico tra uffici e, se si vuole, un controllo reciproco, pare essere, invece, necessaria nel caso di esternalizzazione delle “misure analoghe”, quando i rischi riferibili a soggetti distinti vengano amministrati da un centro di gestione unitario (art. 15, comma 1°) che si fa carico dei diversi adempimenti33.

33 Si pensi, per il privato, ad un gruppo sanitario o, per il pubblico, al sistema sanitario regionale. Nel primo caso le

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Nell’ultima ipotesi di amministrazione del rischio tramite un centro unitario la distinzione si impone per consentire la corretta determinazione degli accantonamenti da iscrivere a riserva, cui deve provvedere quest’ultimo (artt. 9, comma 1° e 10°). Il sistema per poter operare, presuppone, infatti, l’esistenza di punti d’osservazione presso le singole strutture, quali appunto sono i servizi di risk management, chiamati a trasmettere al centro le varie informazioni necessarie per la formazione dei due distinti fondi rischi e sinistri. Ancora, il centro unitario necessita del supporto e della collaborazione dei vari servizi di risk management per verificare la persistenza nel tempo dell’adeguatezza del sistema di controllo dei rischi attivato dalle singole strutture e, dunque, eventualmente, per poi fornire ai vertici delle seconde indicazioni utili. D’altronde, quella dualità ben potrà essere utilizzata anche nella prospettiva di una quanto più efficiente funzionalità dello stesso centro unitario di gestione del rischio. Questo, infatti, se da un lato intrattiene un’interlocuzione con i servizi di risk management delle singole strutture dall’altro è dalla stesse controllato e quest’ultime potrebbero stimolarne correttivi suggerendo ai vertici degli enti partecipanti al sistema interventi di tipo “modificativo/migliorativo”.

varie società che sono titolari di case di cura, centri d’analisi o poliambulatori, ben potrebbero delegare alla capogruppo l’attività di gestione del rischio, così spostando su quest’ultima ogni adempimento organizzativo ed operativo. Nel secondo caso si potrebbe immaginare che le varie aziende sanitarie locali, in molta parte sostenute dai finanziamenti regionali, vedano assegnata tale funzione, con traslazione dei relativi incombenti alla stessa regione o da un ente da questa individuato.

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Saggi e pareri


s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza

Corte d’Appello di Ancona, 16.1.2019

Danno da perdita della vita - Risarcibilità - Esclusione - Danno da sofferenza dei congiunti superstiti - Risarcibilità (Cost., artt. 2, 32; c.c., artt. 2043, 2059)

Il danno da perdita della vita del neonato non può essere risarcito a favore degli eredi in ragione del venire meno del soggetto legittimato a far valere il relativo credito risarcitorio. È parimenti escluso dall’area del danno risarcibile il danno derivante dalle sofferenze patite dal neonato (c.d. danno catastrofale) allorché tali sofferenze non siano ricollegabili alla condotta dei sanitari. È invece risarcibile il danno da sofferenza soggettiva invocato iure proprio dai genitori della vittima, accertata la responsabilità dei sanitari per non avere usato accorgimenti idonei a tenere in vita il neonato; danno che può essere presunto, e liquidato sulla base della forbice degli importi minimi e massimi previsti dalle tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista

La spinosa questione del danno da perdita della vita si mantiene nei binari fissati dalla Cassazione Nadia Busca

Dottoressa in Giurisprudenza Sommario: 1. Premessa. – 2. Il fatto e il decisum. – 3. Danno da perdita della vita iure hereditatis o danno c.d. tanatologico. – 4. Danno morale terminale da sofferenza soggettiva iure hereditatis o danno c.d. catastrofale. – 5. La liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale iure proprio.

Abstract: La sentenza offre alcuni interessanti spunti di riflessione sulla controversa questione del danno da perdita della vita del neonato e del c.d. danno catastrofale, allorquando la condotta negligente dei sanitari non ne abbia impedito la morte. La decisione della Corte d’Appello di Ancona ha aderito all’indirizzo giurisprudenziale seguito dalle recenti Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 2015 n. 15350.

The judgment offers some interesting insights on the contentious issue of the damage for the loss of life of the newborn and of the c.d. catastrophic damage, when the negligent conduct of health professionals has not prevented death. The decision of the Court of Appeal of Ancona has adhered to the jurisprudential guideline followed by the recent United Sections of the Court of Cassation of 2015 n. 15350.

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1. Premessa Con la decisione in commento sono stati esaminati alcuni dei profili più discussi in merito alla configurabilità ed alla risarcibilità iure proprio e iure hereditatis del danno da morte e da sofferenza soggettiva. In primo luogo, i giudici di merito hanno affrontato il tema del c.d. danno catastrofale, rimarcando i presupposti e le condizioni paradigmatiche per la constatazione dell’effettiva componente di sofferenza psichica soggettiva correlata alla consapevolezza della vittima dell’approssimarsi della fine della propria vita. In secondo luogo, in conformità al rinnovato orientamento giurisprudenziale, è stato affermato che il danno tanatologico, costituendo un danno-evento, non può dar luogo ad un’obbligazione risarcitoria in assenza del soggetto al quale sia riconducibile la perdita del bene vita e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito. Infine, per quanto attiene al danno da perdita del rapporto parentale, la Corte d’Appello, una volta accertata la risarcibilità di tale voce di danno, ha posto l’attenzione sul quantum del risarcimento spettante iure proprio agli stretti congiunti della vittima.

2. Il fatto e il decisum La decisione in epigrafe affronta la questione del danno da perdita della vita con riguardo alla drammatica vicenda della morte di un bambino avvenuta a distanza di poche ore dalla nascita. Il bambino, nato prematuro, è deceduto per un’insufficienza respiratoria legata ad una malattia congenita delle membrane ialine; patologia che, tuttavia, non è stata adeguatamente trattata dai sanitari dell’Azienda Ospedaliera locale1, i quali,

Il CTU, sulla base dei dati e delle informazioni a sua disposizione, ha riscontrato che, nonostante i sanitari abbiano operato correttamente nel fronteggiare il “distress respiratorio”, un corretto indirizzo diagnostico-terapeutico o l’eventuale tempestivo trasferimento presso una struttura sanitaria adeguata, avrebbe potuto, in termini probabilistici, ridurre il rischio di decesso nella misura del 90% (relazione causale

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Giurisprudenza

dopo circa 18-19 ore dall’inizio dell’ossigeno-terapia, non sono stati in grado di individuare correttamente la cura da apprestare; e neppure si sono attivati per il trasferimento immediato del piccolo paziente presso una struttura sanitaria più idonea ad affrontare quel tipo di emergenza2.

diretta, anche se non certa, ma comunque altamente probabile tra il decesso e le mancate cure tempestive). Circostanza che si ricollega al problema del risarcimento del danno in termini di “perdita di chance”. Su tale profilo v., da ultimo, Cass., 9.3.2018, n. 5641, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 1684 ss., con commento di Pucella, L’insanabile incertezza e le chances perdute. Cfr. Cass., 16.5.2000, n. 6318, in Riv. it. med. leg., 2000, 1301; Trib. Firenze, 21.6.2018, in Red. Giuffrè, 2018, con la quale i giudici di merito hanno confermato che, in caso di omesso tempestivo trasferimento del paziente presso il nosocomio dotato di attrezzature idonee per il trattamento della situazione patologica sopravvenuta, sussiste colpa nell’esercizio della professione sanitaria per violazione dei principi di diligenza, prudenza e perizia nell’adempimento dell’obbligo di intervento attraverso l’adozione di tutte le misure di emergenza necessarie. Per quanto attiene, invece, al profilo degli obblighi c.d. di protezione gravanti in capo alla struttura sanitaria (sia pubblica che privata) nei confronti del paziente, vi rientra l’obbligo di informazione e di messa a disposizione di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Dal contratto di spedalità, infatti, deriva l’obbligo di erogare la prestazione sanitaria con la massima diligenza e prudenza, nella piena osservanza delle normative in materia di dotazione e disponibilità di mezzi e risorse anche d’emergenza. In tal senso si veda Cass., 8.3.2016, n. 4540, ivi, 2016, con la quale la Suprema Corte ha affermato che “a carico della struttura sanitaria vi è l’obbligo di mettere a disposizione del paziente, il personale sanitario e le necessarie attrezzature idonee ed efficienti, della cui inadeguatezza la struttura risponde in maniera esclusiva. Solo nel caso in cui la struttura sia inadempiente scatta l’obbligo, sia da parte della struttura sanitaria che del medico, di informare il paziente di poter ricorrere a centri di più elevata specializzazione”; Cass., 19.10.2015, n. 21090, ivi, 2015; Cass. 22.10.2014, n. 22338, in Mass. Giust. civ., 2014; Cass., 11.5.2009, n. 10743, in La resp. civ., 2009, 101 ss., con nota di Schiattone, Carenza di attrezzature e responsabilità autonoma della struttura sanitaria; Cass., 16.5.2000, n. 6318, cit., con nota di Fiori, La Monaca, L’informazione del paziente ai fini del consenso: senza più limiti, con la quale è stato confermato l’obbligo per il medico responsabile della cura del paziente di doverlo informare dei possibili accorgimenti sostitutivi e della possibile inadeguatezza della struttura per l’indisponibilità, anche solo momentanea, di strumenti essenziali per una corretta terapia o per un’adeguata prevenzione di possibili complicazioni, tanto più se, nell’ambito di un parto prematuro, tali rischi siano prevedibili. Per un approfondimento si veda Bianca, Il contratto, Milano, 2000, 478 2


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Il danno da perdita della vita

In primo grado, gli attori (i genitori del neonato) hanno chiesto l’accertamento della responsabilità della struttura ospedaliera per l’operato dei sanitari, nonché la condanna della stessa al risarcimento del danno risarcibile iure proprio per le sofferenze patite in conseguenza della lesione del rapporto parentale e iure hereditatis per la perdita della vita del neonato (danno c.d. tanatologico) e per le sofferenze da lui stesso patite. Il giudice di prime cure ha riconosciuto esclusivamente il danno da lesione del rapporto parentale invocato dai genitori del neonato, ma non anche il danno biologico iure proprio richiesto dagli stessi3. Innanzi alla Corte d’Appello di Ancona i genitori del neonato hanno chiesto la riforma del provvedimento impugnato, deducendo l’errore del Tribunale per aver escluso il risarcimento del danno da morte del neonato e per aver liquidato il danno da sofferenza soggettiva iure proprio avvicinandosi al valore più basso della forbice delle Tabelle milanesi in virtù della brevità della vita del neonato e della mancanza del tempo per la consolidazione del rapporto affettivo. I giudici di appello, aderendo al più recente orientamento giurisprudenziale in tema di risarcibilità del c.d. danno da morte, hanno rigettato le richieste avanzate dagli appellanti, confermando l’ordinanza di primo grado.

ss.; Fiori, La Monaca, ibidem; Schiattone, ibidem; Polotti di Zumaglia, voce «Evoluzione ulteriore della responsabilità del medico e della struttura sanitaria», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., 2017, 1 ss. L’orientamento giurisprudenziale consolidato sostiene che il danno biologico patito dagli stretti congiunti di una persona deceduta per effetto dell’illecita condotta altrui sia risarcibile allorché la sofferenza abbia determinato loro una lesione dell’integrità psicofisica, sicché il risarcimento deve essere liquidato, anche in via equitativa, solo allorquando venga data prova di una vera e propria patologia scaturita quale conseguenza ulteriore e diversa dalla sofferenza legata alla perdita del rapporto parentale. Sul punto si cfr. Cass., 6.2.2007, n. 2546, in Mass. Giust. civ., 2007, 2; Cass., 16.4.2018, n. 9385, in Red. Giuffrè, 2018; Trib. Ravenna, 11.6.2019, ivi, 2019; Trib. Teramo, 20.4.2010, ivi, 2010; Trib. Milano, 10.4.2008, ivi, 2008. Si veda Fasano, Il danno non patrimoniale, Torino, 2004, 179 s.

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3. Danno da perdita della vita iure hereditatis o danno c.d. tanatologico La Corte d’Appello di Ancona, uniformandosi a quanto statuito dalle Sezioni Unite con l’intervento del 20154, ha negato il risarcimento iure hereditatis del danno da perdita della vita (c.d. danno tanatologico)5, in ragione della mancanza del soggetto che sia legittimato a farne valere il credito risarcitorio.

Cass., sez. un., 22.7.2015, n. 15350, in Danno e resp., 2015, 909 s., con nota di Ponzanelli, Le Sezioni Unite sul danno tanatologico, in Assic., 2016, 23 ss., con nota di Rossetti, La perdita della vita è un danno risarcibile?; in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, 1015 ss., con nota di D’Acunto, Le sezioni unite riaffermano l’irrisarcibilità “iure hereditatis” del danno da perdita della vita; in Foro it., 2015, I, 2698 ss., con nota di Caso, Le sezioni unite negano il danno da perdita della vita: giorni di un futuro passato; ivi, 2702 ss., con nota di Simone, La livella e il (mancato) riconoscimento del danno da perdita della vita: le sezioni unite tra principio di inerzia e buchi neri nei danni non compensatori. 4

Sull’argomento v. Lipari, Danno tanatologico e categorie giuridiche, in Riv. crit. dir. priv., 2012, 523 ss.; Bianca, Il danno da perdita della vita, in Vita not., 2012, 1498 ss.; Scognamiglio, L’influenza della dottrina sulla giurisprudenza in materia di responsabilità civile: il danno non patrimoniale, in Resp. civ. e prev., 2015, 1794 ss.; Id., Il danno tanatologico e le funzioni della responsabilità civile, ivi, 2015, 1430 ss.; Pucella, Coscienza sociale e tutela risarcitoria del valore-persona: sul ristoro del danno da morte, in Nuova giur. civ. comm., 2014, II, 269 ss.; Palmieri, Pardolesi, Di bianco o di nero: la “querelle” sul danno da morte, in Foro it., 2014, I, 760 ss.; Dellacasa, Rinnovamento e restaurazione nel risarcimento del danno da morte, in Riv. dir. civ., 2015, 1283 ss.; Bona, Sezioni Unite 2015: no alla “loss of life”, ma la saga sul danno non patrimoniale continua, in Danno e resp., 2015, 889 ss.; Astone, Il danno tanatologico (una controversa ricostruzione), in Dir. fam. e pers., 2017, 191 ss.; Viglianisi Ferraro, É risarcibile “iure hereditario” il danno da morte o il danno (“biologico irreversibile”) da lesioni mortali?, in Rass. dir. civ., 2017, 607 ss.; Bonaccorsi, Vittima inconsapevole e danno catastrofale, in Riv. it. med. leg., 2015, 285 ss.; Viceconte, La risarcibilità “iure hereditatis” del c.d. danno tanatologico, in Giur. it., 2016, 938 ss.; Clarizia, É risarcibile il danno biologico in ipotesi di apprezzabile lasso di tempo intercorso tra l’evento lesivo e la morte? Il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento è trasmissibile “iure hereditatis”? É trasmissibile, in ipotesi di morte immediata, il diritto al risarcimento del danno morale?, in Foro nap., 2016, 262 ss.; per uno sguardo comparativo a livello europeo si veda Houisse, Risarcibilità del danno tanatologico: uno sguardo comparativo, in Assic., 2016, 65 ss. 5

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Tale voce di danno, consistente nella perdita della vita causata dal fatto illecito altrui, ha sollevato negli anni accesi dibattiti in seno alla dottrina ed alla giurisprudenza in merito alla configurabilità di un risarcimento civilistico del bene vita, inteso quale bene giuridico inviolabile6. Ci si è chiesti, infatti, se la perdita della vita, in quanto tale, sia risarcibile e se, ai fini della risarcibilità, la morte possa essere intesa come lesione del diritto alla vita o alla salute. A tale riguardo, la giurisprudenza7 ha precisato che il danno da perdita della vita costituisce danno diverso da quello alla salute, poiché è diverso il bene giuridico tutelato. Ciò in quanto l’evento morte non costituisce la massima lesione possibile dell’integrità psicofisica dell’individuo, ma viceversa incide negativamente sul diverso e primario bene giuridico della vita, la cui perdita – secondo l’orientamento prevalente – non può tradursi in un diritto al risarcimento trasmissibile ai prossimi congiunti (“chi non è più non può acquistare un diritto che gli deriverebbe dal non essere più”)8.

Giurisprudenza

In senso opposto, altra parte della dottrina e della giurisprudenza9 sostiene che, nonostante la perdita della vita non abbia conseguenze inter vivos per la vittima, ciò non può e non deve condurre a negare in favore della medesima il ristoro per la vita perduta, poiché il bene supremo della vita non può rimanere privo di tutele sul piano civilistico. I giudici di merito, nell’affrontare tale questione e nel dare una risposta alle doglianze sollevate dagli appellanti, hanno aderito all’originario orientamento giurisprudenziale risalente alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 3475/192510, secondo il quale “se è alla lesione che si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quanto e fin quando il medesimo sia in vita”11. Con tale affermazione, la Corte di Cassazione ha voluto precisare che il danno tanatologico non può essere risarcito iure hereditatis poiché, morendo, il soggetto perde la capacità giuridica e non può più

Cfr. Cass., 23.1.2014, n. 1361, in Foro it., 2014, I, 719; Trib. Venezia, 15.6.2009, in Danno e resp., 2010, 1013; Trib. Terni, 20.4.2005, in Giur. it., 2005, 2281; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 14.1.2003, ivi, 2004, 3. Per un approfondimento si v. Lipari, op. cit., 535 ss.; Bianca, Il danno da perdita della vita, cit., 1498 ss; Bona, Danni da morte iure successionis, ivi, 2004, 3 ss.; Molinaro, La risarcibilità del danno tanatologico nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Giust.civ.com, 2016, 12; Garaci, Questioni in tema di risarcibilità del danno da perdita della vita, in Assic., 2014, 567 ss. 9

In tal senso v. Palmieri, Pardolesi, Morte senza danno, in Assic., 2016, 5 ss.; Sanna, “Mors et vita duello conflixere mirando”: il difficile caso del risarcimento del danno c.d. tanatologico (o da morte istantanea ovvero da perdita della vita), in Riv. it. med. leg., 2016, 643 ss.; Marchese, La clessidra della morte: riflessioni sulla difficoltà cronometrica del danno tanatologico, ivi, 2017, 511 ss.; Penta, Il danno tanatologico: cronaca di una morte annunciata, in Studium iuris, 2016, 391 ss.; Marlucci, Perdita della vita e risarcimento del danno. I pregiudizi risarcibili, in Arch. giur. circ., 2017, 1 ss. 6

In generale si veda Cass., 13.7.2018, n. 18555, in Red. Giuffrè, 2018; Cass., 9.3.2018, n. 5641, cit.; Cass., 8.8.2017, n. 19699, in Mass. Giust. civ., 2017; Cons. Stato, sez. III, 3.10.2018, n. 5691, in Foro amm., 2018, 1650; App. Catanzaro, 30.11.2018, in Red. Giuffrè, 2019; Trib. Arezzo, 23.7.2018, ivi, 2018.

7

Il che corrisponde all’antico brocardo: “Actio personalis moritur cum persona”. Sul punto v. Cricenti, Breve dogmatica della morte immediata, in Il danno da morte, a cura di Cricenti, Roma, 2016, 123 ss.; Navaretta, Il danno da uccisione supera i confini del danno alla salute: verso un’estensione dell’art. 2059, in Resp. civ. e prev., 1990, 620 ss.; Gorgoni, Il danno da perdita della vita: un nuovo orientamento della Cassazione, nota a Cass., 23.1.2014, n. 1361, in Nuova giur. civ. comm., 2014, II, 417 ss.; Pascale, I danni risarcibili, in La nuova responsabilità medica. Una ricostruzione giurisprudenziale alla luce della Legge Gelli-Bianco, a cura di Cassano, Santarcangelo di Romagna, 2019, 195. 8

Responsabilità Medica 2019, n. 3

10 Per un approfondimento si veda Cass., sez. un., 22.12.1925, n. 3475, in Foro it., 1926, I, 328; Cass., 23.1.2014, n. 1361, cit., 719 ss., con nota di Bianca, La tutela risarcitoria del diritto alla vita: una parola nuova della cassazione attesa da tempo, con la quale viene affermato che parte della dottrina ha ritenuto il richiamo alla massima del 1925 alquanto discutibile, poiché in grado di evocare un orientamento condiviso in un periodo storico in cui non era nemmeno ammessa la risarcibilità del danno non patrimoniale e, dunque, non idoneo a costituire un valido parametro a cui le Corti oggigiorno si possano attenere per escludere la risarcibilità del danno tanatologico.

Cass., sez. un., 22.12.1925, n. 3475, cit.; sul punto si veda Simone, Il danno tanatologico e la ricerca del vero precedente. A proposito di una risalente pronuncia della Cassazione del Regno, Roma, 2016, 577 ss.; Puntillo, Criteri di quantificazione del danno, in Famiglia e responsabilità civile, a cura di Cendon, Milano, 2014, 698 s. 11


357

Il danno da perdita della vita

essere titolare della connessa pretesa risarcitoria12. Tale soluzione negativa è giustificata dal fatto che, proprio perché l’evento morte è una semplice conseguenza del fatto lesivo altrui e non un elemento costitutivo dello stesso, il defunto non può essere titolare di alcun diritto al risarcimento del danno per lesioni di posizioni giuridiche soggettive effettivamente non subite13. Nel tempo, tuttavia, il sentire sociale ha iniziato a ripudiare questa concezione del danno da morte, reputando intollerabile la non risarcibilità del bene vita, inteso quale bene giuridico posto a fondamento dei diritti inviolabili dell’uomo: “negare alla vittima il ristoro per la perdita della propria vita”, verificatasi immediatamente o a brevissima distanza di tempo dalle lesioni subite, “significa determinare una situazione effettuale che in realtà rimorde alla coscienza sociale”14. A tal proposito, ci si è chiesti se le azioni spettanti agli eredi, in tale qualità, possano logicamente e giuridicamente essere quelle che avrebbe potuto esercitare la vittima deceduta se fosse stata ancora in vita. In tale prospettiva, ne potrebbe derivare la possibilità per i congiunti di esperire iure hereditatis un’azione volta ad ottenere il risarcimento dei danni dipendenti e consequenziali alla morte del famigliare, poiché tale diritto al risarcimento

risulterebbe già acquisito da costui al momento del decesso15. A fronte di questa nuova concezione del danno tanatologico e dei profili etici e valoriali che da sempre caratterizzano il dibattito sulla risarcibilità del danno da morte, la Corte di Cassazione, con la nota sentenza Scarano n. 1361/201416, ha ricondotto l’attenzione sui bisogni reali della società che tendono a tradursi in diritti, riconoscendo espressamente la risarcibilità del danno da perdita della vita iure hereditatis17. La lesione del bene vita diverrebbe, così, momento costitutivo di un diritto di credito che entrerebbe immediatamente nel patrimonio della vittima, a titolo di corrispettivo del danno ingiusto subito ed indipendentemente dal fatto che la morte si sia verificata istantaneamente o in via mediata18.

15

Cass., 23.1.2014, n. 1361, cit.; Cass., 12.7.2006, n. 15760, in Riv. giur. polizia, 2016, 749. Si v. Marlucci, op. cit., 1 ss.; Nesti, Sui danni da morte in attesa delle Sezioni Unite, in Giust.civ.com, 2015, 5 ss.; Viglianisi Ferraro, op. cit., 607 ss.; Procida Mirabelli Di Lauro, Il danno da perdita della vita e il “nuovo statuto” dei danni risarcibili, in Danno e resp., 2014, 686 ss.; Pascale, op. cit., 198 ss.; Molinaro, op. cit., 3 ss. 17

Si veda Cass., 13.12.2018, n. 32372, in Ri.da.re.; Cass., 8.4.2010, n. 8360, in Mass. Giust. civ., 2010, 516; Cass., 19.10.2007, n. 21976, ivi, 2007, 10; Cass., 23.2.2005, n. 3766, in Foro it., 2006, I, 2463; Cass., 27.10.1994, n. 372, in Foro amm., 1994, 572, secondo la quale, sulla base del rilievo che oggetto di risarcimento può essere solo la “perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva”, la risarcibilità del danno da perdita della vita deve essere negata nel caso in cui la morte immediata non abbia determinato una perdita a carico della persona offesa proprio perché non più in vita. 12

Sull’argomento v. Ziviz, Il danno non patrimoniale. Evoluzione del sistema risarcitorio, Milano, 2011, 480 ss.; Castronovo, Il danno non patrimoniale nel cuore del diritto civile, in Eur. e dir. priv., 2016, 293 ss.; Scognamiglio, L’influenza della dottrina sulla giurisprudenza in materia di responsabilità civile: il danno non patrimoniale, cit., 1794 ss.; Fasano, op. cit., 172 ss. 13

Cass., 23.1.2014, n. 1361, cit., 257 ss., con nota di Galasso, Il danno tanatologico; si veda altresì Penta, op. cit., 391 ss.; Marchese, op. cit., 511 ss.; Molinaro, op. cit., 1 ss.; Garaci, op. cit., 567 ss. 14

Viceconte, op. cit., 938 ss.

16

Galasso, op. cit., 258.

Cass., 23.1.2014, n. 1361, cit., con nota di Bianca, La tutela risarcitoria del diritto alla vita: una parola nuova della cassazione attesa da tempo, cit., 719 ss., con la quale si afferma che il danno tanatologico rileverebbe “nella sua oggettività di perdita del bene vita, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile” e che “il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita […] rileva ex se, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia avuto, dovendo ricevere ristoro anche in caso di morte “immediata” o “istantanea”, senza che assumano rilievo né la persistenza in vita della vittima per un apprezzabile lasso di tempo, né l’intensità della sofferenza dalla stessa subita per la cosciente e lucida percezione dell’ineluttabilità della propria fine”. In seguito a tale revirement giurisprudenziale, parte della dottrina si è fatta fautrice di tale tesi, propendendo per il riconoscimento della lesione del bene vita come momento costitutivo di un diritto soggettivo del danneggiato, trasmissibile ai prossimi congiunti, poiché, come affermato dalla Corte, la perdita della vita non può rimanere priva di conseguenze anche sul piano civilistico; in tal senso si veda Castronovo, op. cit., 293 ss.; Scognamiglio, Il danno tanatologico e le funzioni della responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 2015, 1430 ss.; Pascale, ibidem. 18

Responsabilità Medica 2019, n. 3


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La Suprema Corte ha, dunque, chiaramente affermato che il danno da perdita della vita19, pur essendo altro e diverso dal danno alla salute, rientra nel danno non patrimoniale acquisibile istantaneamente dalla vittima al momento della lesione mortale, assolvendo così ad una funzione compensativa in ragione della trasmissibilità iure hereditatis20. L’indisponibilità e l’intrasmissibilità di tale diritto, infatti, costituisce un mero retaggio ormai largamente contraddetto dal sentire comune, giacché il diritto al risarcimento sostituisce il diritto alla vita nel momento stesso in cui questa viene meno. Il fatto che tale ristoro sia percepito da soggetti diversi dalla vittima non esclude la funzione compensativa e non punitiva della sanzione civile in quanto il vantaggio che ne consegue il diretto danneggiato è da individuare nell’incremento del suo patrimonio che verrà poi lasciato ai congiunti21. Ciò nondimeno, parte della dottrina ha rilevato che il riconoscimento del danno tanatologico si

Per un approfondimento v. Palmieri, Pardolesi, Diritto alla vita (da carte europee), danno da morte, in Foro it., 2016, I, 3439 ss.; Faccioli, Il problema della risarcibilità del danno tanatologico fra discrezionalità dell’interprete e teoria dell’argomentazione, in Jus, 2016, 72 ss.

19

Lipari, op. cit., 523 ss. In senso opposto si veda Cass., 24.3.2011, n. 6754, in Mass. Giust. civ., 2011, 456, con la quale è stato affermato che “in tema di lesione del diritto alla vita, considerato che il risarcimento costituisce solo una forma di tutela conseguente alla lesione di un diritto, consistente nel diritto di credito, diverso dal diritto inciso, […] non solo non è giuridicamente concepibile che sia acquisito dal soggetto che muore, e che cosi si estingue, un diritto che deriva dal fatto stesso della sua morte (chi non è più non può acquistare un diritto che gli deriverebbe dal non essere più), ma è logicamente inconfigurabile la stessa funzione del risarcimento che, in campo civile, non è nel nostro ordinamento sanzionatoria, ma riparatoria o consolatoria”. 20

V. Bianca, Il danno da perdita della vita, cit., 1498 ss., il quale segnala come l’assunto dell’incedibilità e dell’intrasmissibilità del danno alla persona sia ormai superato. Nello stesso senso si veda Palmieri, Pardolesi, Morte senza danno, cit., 5 ss.; Id., Diritto alla vita (da carte europee), danno da morte, cit., 3439 ss.; Cricenti, Il danno non patrimoniale da inadempimento ed i diritti inviolabili, in Contr., 2010, 479 ss.; Petrolati, Sul fondamento (e la liquidazione) del danno tanatologico, in Giust.civ.com, 2014, 3 ss.; Galasso, op. cit., 262 ss.; Gorgoni, op. cit., 396 ss.; Pascale, op. cit., 200. 21

Responsabilità Medica 2019, n. 3

Giurisprudenza

porrebbe in aperto contrasto con il principio sancito della Suprema Corte con le sentenze di San Martino, in virtù del quale è risarcibile soltanto il danno-conseguenza e non anche il danno-evento22. In tale prospettiva, infatti, lasciando spazio al danno tanatologico, i giudici non risarcirebbero più le sole conseguenze dannose dell’evento morte, ma l’evento stesso. Alla luce di tali contestazioni, la Corte di Cassazione nel 2014 ha precisato che l’intenzione non deve essere quella di demolire il principio cardine della risarcibilità dei soli danni-conseguenza, ma di riconoscere in via eccezionale la risarcibilità del danno tanatologico. Ciò in ragione della preminenza del bene vita23che dovrebbe essere primariamente ed incondizionatamente tutelato dall’ordinamento in quanto, essendo il più prezioso dei beni personali, non è ammissibile che esso riceva una tutela inferiore a quella riconosciuta agli altri diritti della persona24. A sostegno dell’orientamento favorevole alla risarcibilità del danno da morte, parte della giurisprudenza ha altresì elaborato la tesi “cronometrica”, secondo la quale nel momento in cui la vittima subisce la lesione mortale, questa è ancora in vita ed è in grado di acquisire il diritto al risarcimen-

22 In questo senso v. Cricenti, Breve dogmatica della morte immediata, cit., 123 ss.; Astone, op. cit., 191 ss.; Faccioli, op. cit., 75.

I fautori della risarcibilità del danno da morte hanno anche evidenziato la necessità di individuare un sistema di quantificazione specifico e differente da quello dettato per il danno biologico, data l’autonomia del bene vita rispetto al bene salute; v. Gorgoni, op. cit., 417. 23

Sul punto si veda Ziviz, Illusioni perdute, in Resp. civ. e prev., 2015, 1443 ss.; Id., Grandi speranze (per il danno non patrimoniale), ivi, 2014, 340 ss.; Castronovo, op. cit., 293 ss.; Lipari, op. cit., 523 ss.; Palmieri, Pardolesi, Di bianco o di nero: la “querelle” sul danno da morte, cit.; Monateri, Danno biologico e danni da lesione di altri interessi costituzionalmente protetti, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 1341 ss.; Galasso, op. cit., 262; Gorgoni, op. cit., 417 ss., il quale, riportandosi a quanto sancito dalla Corte di Cassazione, qualifica come “improprio” il rilievo secondo cui, essendo quella risarcitoria la tutela minima di ogni diritto, la negazione della risarcibilità del danno da lesione del diritto alla vita a favore del soggetto stesso la cui vita è stata spenta, viene a porsi in contraddizione con il riconoscimento della tutela propria del primo tra tutti i diritti dell’uomo. 24


359

Il danno da perdita della vita

to del danno tanatologico poiché, anche a livello scientifico, risulta difficoltoso poter rinvenire un’autentica contemporaneità tra lesione fatale e decesso25. Tale revirement interpretativo, tuttavia, ha avuto breve durata, poiché le Sezioni Unite nel 2015 si sono nuovamente pronunciate sulla dibattuta questione, affermando che il danno da perdita della vita – giacché scaturente dalla morte – non può logicamente non essere successivo a tale evento infausto e, perciò, non può essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis in mancanza del soggetto legittimato a farne valere il credito risarcitorio26. Al momento del decesso, infatti, la vittima perde istantaneamente la capacità giuridica e, di conseguenza, anche la capacità di divenire titolare di qualsivoglia diritto al risarcimento del danno trasmissibile agli eredi27. In tale prospettiva, l’irrisarcibilità del danno tanatologico non deriva dalla natura personalissima del diritto leso, ma dall’assenza del soggetto al quale sia riconducibile la perdita del bene vita e

Si veda Cricenti, Breve dogmatica della morte immediata, cit., 123 ss.; Faccioli, op. cit., 77 ss.; Gorgoni, ibidem. Sul punto si veda Cass., 31.1.2019, n. 2773, in Foro it., 2019, I, 1685; Cass., 31.5.2018, n. 13753, in Dir. e giust., 2018; Cass., 23.1.2014, n. 1361, cit., con la quale è stato sancito che il diritto al risarcimento del danno da perdita della vita è acquisito dalla vittima un attimo prima della sua morte e, pertanto, è trasmissibile iure successionis; Cass., 12.7.2006, n. 15760, cit., con la quale la Corte ha affermato che “la certezza della morte, secondo le leggi nazionali ed europee è a prova scientifica, ed attiene alla distruzione delle cellule cerebrali e viene verificata attraverso tecniche raffinate che verificano la cessazione della attività elettrica di tali cellule. La morte cerebrale non è mai immediata, salvo due eccezioni: la decapitazione o lo spappolamento del cervello. In questo quadro anche il danno da morte, come danno ingiusto da illecito, è trasferibile mortis causa, facendo parte del credito del defunto verso il danneggiante ed i suoi solidali”. 25

Così Scognamiglio, L’influenza della dottrina sulla giurisprudenza in materia di responsabilità civile: il danno non patrimoniale, cit., 1794 ss.; Busnelli, Tanto tuonò, che … non piovve. Le sezioni Unite sigillano il “sistema”, in Resp. civ. e prev., 2015, 1530 ss.; Marlucci, op. cit., 1 ss.; Bona, Sezioni Unite 2015: no alla “loss of life”, ma la saga sul danno non patrimoniale continua, cit., 889 ss.; Viglianisi Ferraro, op. cit., 607 ss.; Penta, op. cit., 391 ss.; Franzoni, Danno tanatologico, meglio di no …, in Danno e resp., 2015, 899 ss.; Rossetti, op. cit., 34 ss.; D’Acunto, op. cit., 1015 ss. 26

27

Faccioli, op. cit., 78 ss.

nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito28. Nel caso in commento, la Corte d’Appello, non ravvisando nella più recente giurisprudenza argomentazioni decisive e plausibili per superare quelle già poste a fondamento dell’orientamento precedentemente consolidato29, ha rigettato l’istanza di risarcimento del danno da morte avanzata dagli appellanti, poiché, in assenza del soggetto legittimato a far valere l’eventuale credito risarcitorio, tale richiesta risulta esclusivamente riferita alle pretese patrimoniali iure proprio dei genitori del neonato30. Da ciò, come già affermato dalle Sezioni Unite con le Sentenze di San Martino, se ne deduce che il danno tanatologico puro non è risarcibile in favore degli eredi, ma sono esclusivamente risarcibili i riflessi morali negativi

La Suprema Corte è giunta a questa conclusione sostenendo che il sentire sociale non possa influenzare l’operato dei giudici, quali meri interpreti della legge, poiché non costituisce un vero e proprio argomento giuridico. Di diverso avviso Pucella, Lesione del valore-persona e danno-conseguenza: un’architettura da rimodernare, in Riv. crit. dir. priv., 2015, 55 ss.: “[…] è necessario che si abbandoni il ricorso a categorie classificatorie preconfezionate e che si colga nella lesione di valori della persona protetti dall’ordinamento un disvalore che la coscienza sociale può percepire come danno, capace di attualizzare la stessa idea di danno giuridico in funzione dell’effettività della tutela”, “[…] la soluzione è quella di ricercare se il disvalore che il sentire comune riconosce a quel genere di lesione abbia investito, nel caso concreto, la vittima dell’offesa […]”. Si veda altresì Piraino, Sulla nozione di bene giuridico in diritto privato, ivi, 2012, 459; Lipari, op. cit., 523 ss.; Sanna, op. cit., 643 ss.; Pascale, op. cit., 196. 28

Tuttavia, la tesi favorevole alla risarcibilità del danno da morte, secondo alcuni, appare essere quella più confacente all’etica ed alla moralità sociale nell’attuale momento storico. In tal senso v. Galasso, op. cit., 258, il quale sottolinea che in un sistema normativo come il nostro, definito semi-aperto, appare comprensibile e giustificabile che la vexata quaestio dei danni non patrimoniali e l’interpretazione dell’art. 2059 c.c. tornino periodicamente ad essere discusse. 29

Cass., 13.2.2019, n. 4146, Guida al dir., 2019, 15, 27; Cass., 13.7.2018, n. 18555, cit.; per un approfondimento si veda Patti, Danno da morte, coscienza sociale e risarcimento per i congiunti: verso una riforma del BGB?, in Riv. crit. dir. priv., 2017, 39 ss.; Simone, Il danno tanatologico e la ricerca del vero precedente. A proposito di una risalente pronuncia della Cassazione del Regno, cit., 577 ss.; Valore, La risarcibilità del danno da perdita della vita, in Giur. it., 2014, 832 ss. 30

Responsabilità Medica 2019, n. 3


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che l’evento morte ha provocato nella sfera giuridica dei parenti31.

4. Danno morale terminale da sofferenza soggettiva iure hereditatis o danno c.d. catastrofale Con la pronuncia in commento, i giudici di merito hanno negato la sussistenza di un danno, in favore dei genitori, per la sofferenza patita dal neonato, deceduto dopo 29 ore dal parto. A tale conclusione la Corte d’Appello è giunta non già perché il neonato sia incapace di provare sofferenza32 – benché un bambino appena nato non sia in grado di percepire coscientemente l’arrivo dell’evento morte – ma perché, da quanto emerso dalle risultanze della CTU, tali sofferenze non sono riconducibili alla condotta dei sanitari, i quali hanno posto in essere tutte le cure volte ad alleviare le sofferenze del neonato causate dalle difficoltà respiratorie insorte esclusivamente per cause naturali. La questione merita di essere approfondita partendo dall’inquadramento dottrinale e giurisprudenziale del danno da sofferenza soggettiva iure hereditatis. A fronte del decesso della vittima a breve distanza dall’evento lesivo, il danno da sofferenza è stato qualificato dalla Corte di Cassazione come danno morale terminale o c.d. catastrofale, il quale, essendo riconducibile ad una lata accezione del danno morale33, è stato altresì definito come lu-

Per un approfondimento si rinvia al punto 4; si veda Ziviz, Il danno non patrimoniale. Evoluzione del sistema risarcitorio, cit., 460 ss.; Ponzanelli, Le Sezioni Unite sul danno tanatologico, cit., 909 ss.; Patti, op. cit., 39 ss.; Pascale, op. cit., 198 s.; Viceconte, op. cit., 938 ss.; Faccioli, ibidem; Galasso, op. cit., 259. 31

32

Cass., 31.1.2019, n. 2773, cit.

Scognamiglio, Il danno morale (contributo alla teoria del danno extracontrattuale), in Riv. dir. civ., 1957, 277 ss., secondo il quale il danno non patrimoniale si affranca dal ruolo di mera sineddoche del danno morale subiettivo e consente la riparazione delle conseguenze della lesione dei diritti inviolabili; v. altresì Monateri, La “fenomenologia” del danno non patrimoniale, in Danno e resp., 2016, 724 ss.; Barcello33

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Giurisprudenza

cida agonia provata dalla vittima nell’avvertire coscientemente l’ineluttabile approssimarsi della fine della propria esistenza34. Si tratta della più antica voce di danno non patrimoniale derivante dalla tradizione romanistica e ricomprendente il c.d. pretium doloris, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima35. L’elemento imprescindibile del danno catastrofale è infatti rappresentato dal detrimento morale, cioè dalla lucida consapevolezza dell’inesorabile spegnersi della propria vita36.

na, Della risarcibilità del danno non patrimoniale e dei suoi limiti, ivi, 2012, 817 ss.; Pedrazzi, Il danno non patrimoniale da lesione di diritti inviolabili, in Il “nuovo” danno non patrimoniale, a cura di Ponzanelli, Padova, 2004, 117 ss.; si veda Corte. cost., 27.10.1994, n. 372, in Foro it., 1994, I, 3297, con nota di Ponzanelli, La Corte costituzionale e il danno da morte. Per una più recente qualificazione del danno morale si v. Trib. Catania, 14.8.2019, Red. Giuffrè, 2019.

Cass., 20.6.2019, n. 16592, in Dir. e giust., 2019, con nota di Savoia, Sopravvisse tre giorni all’incidente e poi morì: troppo poco liquidare 2500 euro al giorno quale danno catastrofale; Cass., sez. un., 11.11.2008, n. 26972, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 10 ss., con nota di Bargelli, Danno non patrimoniale: la messa a punto delle sezioni unite; in Resp. civ. e prev., 2009, 38 ss., con nota di Di Marzo, Danno non patrimoniale: grande è la confusione sotto il cielo, la situazione non è eccellente; Cass., sez. un., 11.11.2008, n. 26973, in Mass. Giust. civ., 2008, 2. Si veda anche Cass., sez. un., 22.7.2015, n. 15350, cit.; in Foro it., 2015, I, 2682, con nota di Musu, Analisi economica della responsabilità civile e valore del danno da morte e di Palmieri, Pardolesi, Danno da morte: l’arrocco delle sezioni unite e le regole (civilistiche) del delitto perfetto, con la quale è stato sancito che i c.d. “danni terminali” di natura giurisprudenziale, costituiscono le sole poste di danno liquidabili iure proprio alla vittima e successivamente trasmissibili iure hereditatis, purché il decesso non sia stato immediato ma sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo tra l’illecito altrui e l’evento morte. Per un approfondimento v. Viglianisi Ferraro, op. cit., 607 ss.; Bonaccorsi, op. cit., 285 ss. 34

Corte cost., 21.6.2007, n. 233, in Giust. civ., 2007, I, 1807, con la quale la Corte ha definito il danno morale terminale “transeunte”, cioè un pregiudizio transitorio che deve essere risarcito per l’arco temporale variabile in cui si è manifestata la sofferenza soggettiva derivante dalla lesione di valori della persona umana. Sul punto cfr. Cass., 19.8.2003, n. 12124, in Resp. civ. e prev., 2004, 233; Cass., sez. un., 21.2.2002, n. 2515, in Corr. giur., 2002, 461, con la quale la Corte ha riconosciuto l’autonoma risarcibilità del danno morale anche in mancanza di una lesione all’integrità psicofisica della vittima. 35

36 Cass., 23.10.2018, n. 26727, in Mass. Giust. civ., 2018; Cass., 13.12.2018, n. 32372, cit.; Cass., 29.11.2017, n. 28478,


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Il danno da perdita della vita

Tale danno può essere risarcito soltanto laddove la vittima abbia coscientemente vissuto l’aggravarsi delle proprie condizioni37. Ciò in quanto, a fronte dell’evento morte, il danno risarcibile è rappresentato non dalla perdita delle attività alle quali la vittima si sarebbe potuta dedicare se fosse sopravvissuta, ma dalla sensazione dolorosa di agonia patita dal soggetto deceduto38. In tema di durata della sofferenza psichica, la giurisprudenza ha precisato che è sufficiente che tale stato di lucida coscienza e consapevolezza perduri per un lasso di tempo anche minimo, purché apprezzabile39. Il concetto di “apprezzabile lasso

in Dir. e giust., 2017; Cass., 19.6.2015, n. 12722, in Red. Giuffrè, 2015; Cass., 13.6.2014, n. 13537, in Foro it., 2014, I, 2470, con la quale la Suprema Corte ha precisato che in difetto della consapevolezza dell’imminente fine della propria vita, non è nemmeno concepibile l’esistenza del danno morale terminale, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata dalle lesioni subite; Cass., 5.12.2014, n. 25731, in Dir. e giust., 2015; in Danno e resp., con nota di Nesti, Sui danni da morte in attesa delle Sezioni Unite, cit., 5 ss.; Cass., 28.11.2008, n. 28423, in Mass. Giust. civ., 2008, 1703; Cass., 2.4.2001, n. 4783, in Danno e resp., 2001, 820. Per un approfondimento si veda Cappelletti, Sui limiti alla risarcibilità “iure hereditatis” del danno biologico e morale in caso di morte del prossimo congiunto, in Danno e resp., 2016, 197 ss.; Penta, op. cit., 391 ss. 37

38 La concepibilità di un simile pregiudizio presuppone che la vittima sia stata cosciente nell’arco di tempo tra la lesione ed il decesso perché se non fosse consapevole della fine imminente, non potrebbe nemmeno prefigurarsela e, dunque, addolorarsi per essa; sul punto si veda Cass., 13.12.2018, n. 32372, cit.; Cass., 17.10.2016, n. 20915, in Dir. e giust., 2016. 39 Così Sanna, op. cit., 643 ss.; Balbusso, Il danno non patrimoniale da perdita del congiunto, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 403 ss.; Favilli, I danni non patrimoniali da uccisione e da lesioni del congiunto, in Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, a cura di Navarretta, Milano, 2010, 429 ss.; La Monica, La liquidazione del danno, in Il nuovo danno non patrimoniale, a cura di Farneti, Cucci, Scarpati, Milano, 2005, 80 ss.; Bargelli, op. cit., 723 ss.; Clarizia, op. cit., 262 ss.; Galasso, op. cit., 260; Pascale, op. cit., 212 s. Si veda altresì Cass., 20.6.2019, n. 16592, cit.; Cass., 28.6.2019, n. 17577, in Mass. Giust. civ., 2019; Cass., 19.6.2015, n. 12722, cit.; Cass., 21.3.2013, n. 7126, ivi, 2013; Cass., sez. un., 11.11.2008, n. 26972, cit., con la quale era già stato precisato che “una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione”.

di tempo” non è mai stato definito in modo univoco dalla giurisprudenza di legittimità e ciò ha comportato non indifferenti problemi interpretativi40. Per quanto attiene, invece, al profilo della quantificazione del danno catastrofale, come recentemente affermato dalla Suprema Corte con la sentenza n. 16592/201941, la peculiare natura di tale voce di danno rende necessaria una liquidazione affidata ad un criterio equitativo puro che tenga conto dell’enormità della sofferenza psichica subita, giacché tale danno, ancorché temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità e la durata della consapevolezza della vittima non rileva ai fini della sua oggettiva configurabilità, ma solo sul piano della quantificazione del risarcimento secondo i criteri di proporzionalità ed equità42. Alla luce di tali considerazioni e del consolidato orientamento giurisprudenziale43, la Corte ha escluso, nel caso di specie, la risarcibilità del danno morale soggettivo iure hereditatis poiché

40 Per un approfondimento si veda Cass., 13.2.2019, n. 4146, cit., con la quale la Suprema Corte ha affermato che il tempo apprezzabile per la configurazione del danno catastrofale non dipende, se non in via contingente, dalla durata della sopravvivenza, ma è strettamente collegato al maturare della coscienza dell’agonia in corso; Cass., 13.7.2018, n. 18524, in Danno e resp., 2018, con la quale è stato risarcito il danno morale terminale quando il decesso si è verificato a distanza di 45 minuti dall’evento lesivo; Cass., 7.2.2013, n. 2947, in Dir. e giust., 2013, con la quale è stato riconosciuto il risarcimento del danno catastrofale allorquando la morte si sia verificata a distanza di 8 giorni dall’evento lesivo; Cass., 22.3.2007, n. 6946, ivi, 2007, con la quale è stato risarcito il danno da morte dopo due dalla lesione subita dalla vittima. 41

Cass., 20.6.2019, n. 16592, cit.

In tal senso v. Bonaccorsi, op. cit., 285 ss.; Gorgoni, op. cit., 406 ss.; Nesti, op. cit., 7, secondo la quale “[…] non può tralasciarsi di considerare che, trattandosi di una quantificazione da operarsi necessariamente secondo valutazioni equitative (art. 1226 c.c.), essa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità se non sotto il profilo del vizio di motivazione ex art. 360, comma 1°, c.p.c., ravvisabile solo quando la decisione impugnata sia priva di una adeguata motivazione, non indichi i criteri generali presi in considerazione o i medesimi siano palesemente arbitrari od illogici, di modo che, quando il giudice d’appello abbia sufficientemente motivato, i margini di manovra della Cassazione sono pressoché inesistenti”.

42

43 Cfr. Cass., 20.4.2012, n. 6273, in Giust. civ., 2012, I, 1186; si veda altresì Gorgoni, ibidem.

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l’asserito danno morale non è riconducibile all’accertata responsabilità dei sanitari44 e, conseguentemente, tale preteso credito risarcitorio, non essendo confluito nel patrimonio della vittima, non può essere trasmesso ai congiunti, né sotto forma di danno biologico né di danno morale. A tal proposito, si evidenzia che i giudici di merito non hanno escluso a priori la capacità del neonato di dolersi per il suo stato di salute precario45 poiché, come sancito dalla Corte di Cassazione con la recentissima statuizione n. 2773 del 31 gennaio 201946, relativa ad un caso analogo, la risarcibilità del danno c.d. catastrofale può essere negata esclusivamente quando il neonato, a fronte del fatto illecito altrui, venga a trovarsi in uno stato meramente vegetativo47, tale da escludere con assoluta certezza che egli sia in grado di avvertire la sofferenza fisica e psichica per le lesioni subite48. Nel caso di specie, infatti, laddove le difficoltà respiratorie insorte non fossero sopraggiunte naturalmente e fosse stata accertata la responsabilità dei sanitari per aver omesso gli accorgimenti idonei ad alleviare le sofferenze del minore, non ne sarebbe derivata necessariamente l’assoluta impossibilità del neonato di avvertire le sofferenze legate all’imminente avvicinarsi dell’evento-mor-

44

Si veda Cass., 4.4.2001, n. 4970, in Red. Giuffrè, 2001.

La CTU, infatti, si è espressa esclusivamente sulla riconducibilità dell’evento-morte al comportamento colposo tenuto dai sanitari dell’Azienda Sanitaria locale e non sulle capacità del minore di avvertire le sofferenze psicofisiche.

Giurisprudenza

te. In tale circostanza, non versando in un vero e proprio stato vegetativo, sarebbe stato necessario un accertamento tecnico-sanitario dello stato di sofferenza patito dal piccolo, dal quale il giudice di merito non avrebbe potuto prescindere, anche nella determinazione del quantum. Soltanto in tal caso il danno morale terminale sarebbe entrato nel patrimonio della vittima e, in via successoria, nel patrimonio dei congiunti49.

5. La liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale iure proprio Argomento particolarmente dibattuto in dottrina ed in giurisprudenza è dato dalla risarcibilità dei danni consequenziali al fatto illecito altrui che colpiscono soggetti diversi dalla vittima, quali i suoi congiunti50. L’orientamento tradizionale riteneva che, per le regole della causalità adeguata, il danno non patrimoniale dovesse rappresentare la sola conseguenza immediata e diretta della condotta illecita altrui51. Oggi l’orientamento giurisprudenziale è mutato ed è stata riconosciuta la legittimazione al famigliare della vittima di agire iure proprio per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale da lui patito, nonostante costituisca una conseguenza mediata del fatto illecito altrui52. A tal proposito, le Sezioni Unite nel 2002 hanno impiegato per la prima volta il concetto di danni

45

46

Cass., 31.1.2019, n. 2773, cit.

Cass., 31.1.2019, n. 2773, cit., nel caso di specie, avente ad oggetto il decesso di un neonato, le risultanze peritali deponevano in modo univoco per l’accertamento della condizione di “vita meramente vegetativa” del neonato durante i tre giorni in cui fu ricoverato in rianimazione a seguito delle lesioni riportate, e, conseguentemente, è stata esclusa la percepibilità di una qualsiasi sofferenza da parte del soggetto in totale assenza di attività e funzionalità cerebrale. 47

Cass., 4.4.2001, n. 4970, cit., con la quale la Suprema Corte ha sancito che il danno morale va risarcito in tutte le ipotesi in cui non sia certo che la vittima di lesioni personali non abbia la possibilità di percepire la sofferenza, e cioè ogni qualvolta costei non versi in uno stato vegetativo destinato a protrarsi immutato nel tempo, sulla base delle risultanze medico-legali. 48

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In un primo momento, parte della giurisprudenza tendeva a negare in via generale la trasmissibilità iure hereditatis del risarcimento del danno morale a favore degli eredi per la peculiare natura di tale diritto, ritenuto personalissimo. Per un approfondimento v. Cappelletti, op. cit., 197 ss.; D’Acunto, op. cit., 1015 ss.; Pascale, op. cit., 195 ss. Si veda altresì Cass., 23.1.2014, n. 13753, in Red. Giuffrè, 2014; Cass., 11.10.2012, n. 17320, ivi, 2012; Cass., 24.3.2011, n. 6754, cit.; Cass., 2.2.2001, n. 1516, in Mass. Foro it., 2001. 49

In questo senso Sanna, op. cit., 643 ss.; Penta, op. cit., 391 ss.; Favilli, I danni non patrimoniali da uccisione e da lesioni del congiunto, cit., 437 ss. 50

51

Cass., 23.2.2000, n. 2037, in Mass. Giust. civ., 2000, 443.

Cass., sez. un., 1.7.2002, n. 9556, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 694; Cass., 10.2.2005, n. 2704, in Danno e resp., 2005, 1175; Cass., 23.10.2014, n. 22514, in Mass. Giust. civ., 2014; Cass., 20.4.2018, n. 9807, in Dir. e giust., 2018. 52


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Il danno da perdita della vita

riflessi o di rimbalzo53 per identificare la connessione sussistente tra i danni subiti dal soggetto leso e dai suoi prossimi congiunti non in termini di causalità materiale, ma di interesse leso e, quindi, di ingiustizia del danno sofferto54. In tal senso, la Suprema Corte ha affermato che “sembra doversi riconoscere che la nozione dei c.d. danni riflessi o mediati non evidenzi una differenza sostanziale e/o eziologica con i danni diretti, ma stia ad indicare la propagazione delle conseguenze dell’illecito (consistente in un danno alla persona) alle c.d. vittime secondarie, cioè ai soggetti collegati da un legame significativo con il soggetto danneggiato in via primaria”55. Dal punto di vista eziologico, il nesso di causalità sussistente tra il danno riflesso e la condotta lesiva tenuta dal danneggiante non si pone in termini di causalità materiale, ma di causalità giuridica, secondo il principio dell’id quod plerumque accidit56. Secondo tale assunto, affinché possa essere garantita una liquidazione unitaria ed omnicomprensiva, è necessario che venga effettuata un’attenta valutazione non solo dei danni diretti patiti dalla vittima, ma anche di quelli indiretti e mediati che si presentano come effetto normale dell’illecito secondo il principio di regolarità causale57.

53 In dottrina si parla anche di dommages par ricochet, cioè di danni che colpiscono i proches o congiunti della vittima; sul punto si veda Stefanelli, Figure di responsabilità civile esofamiliare e danno patrimoniale, in Famiglia e responsabilità civile, cit., 98 ss.; Balbusso, op. cit., 403 ss.; Christandl, La risarcibilità del danno esistenziale, Milano, 2007, 305 ss.; Pascale, op. cit., 194 s.

Così Favilli, Il danno non patrimoniale da uccisione e da lesioni del congiunto, ibidem; Fasano, op. cit., 179; Christandl, ibidem; Arrigo, La liquidazione dei danni per la lesione della salute del paziente. Il danno non patrimoniale da uccisione, in Le responsabilità in ambito sanitario, a cura di Aleo, De Matteis, Vecchio, Padova, 2014, 521 ss. Si veda Cass., sez. un., 1.7.2002, n. 9556, cit., con nota di Favilli, La risarcibilità del danno morale da lesioni del congiunto: l’intervento dirimente delle sezioni unite. 54

Cass., sez. un., 1.7.2002, n. 9556, cit.; Cass. 23.4.1998, n. 4186, in Danno e resp., 1998, 686. 55

Cfr. Trib. Trani, 15.1.2019, in Dir. e giust., 2019; Trib. Catanzaro, 23.12.2014, in Ri.da.re., 2015. 56

57

Cass., 10.1.2017, n. 238, in Guida al dir., 2017, 10, 61.

Non bisogna, infatti, dimenticare che tra i componenti di un nucleo famigliare si instaurano rapporti particolari e personalissimi, indipendentemente dalla loro durata, tali per cui la morte di un famigliare non solo investe e coinvolge la vita di tutti gli altri congiunti, ma lede in modo irreversibile tutte le posizioni giuridiche soggettive che scaturiscono dal vincolo famigliare, determinando la necessità di tutelare giuridicamente il relativo danno non patrimoniale58. È noto, per l’appunto, che generalmente la perdita di una persona cara non implica solo una sofferenza morale, ma un complesso sconvolgimento della vita famigliare tale da causare un’alterazione della personalità e della vita intima e personale dei prossimi congiunti59. Di qui, ne consegue che il soggetto che chiede iure proprio il risarcimento del danno subito in conseguenza al decesso del proprio famigliare, lamenta l’incisione di un interesse giuridico diverso sia dalla salute e sia dall’integrità morale, poiché l’interesse fatto valere è quello all’intangibilità della sfera degli affetti famigliari, peraltro oggetto di espressa protezione costituzionale60. Per quanto attiene alla qualificazione giuridica del danno da perdita del rapporto parentale, le Sezioni Unite, riagganciandosi a quanto in precedenza sancito con le Sentenze di San Martino, hanno ricondotto i patimenti soggettivi dei prossimi congiunti della vittima nella categoria del danno morale, ritenendo che “la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita, altro non sono che componenti del complesso pregiudizio che deve essere integralmente ed unitariamente ristorato”61. Inoltre, quando a richiederne il risarcimento sono le c.d. vittime seconda-

58

Fasano, op. cit., 182; cfr. Cass., 13.12.2018, n. 32372, cit.

Sul punto si veda Gorgoni, op. cit., 417; Pascale, op. cit., 211.

59

60 Per un approfondimento si veda Monateri, voce «Danno alla persona», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., V, Torino, 1989, 74 ss. Cfr. Trib. Arezzo, 23.7.2018, cit.; Trib. Bari, 6.2.2017, in Dir. e giust., 2017. 61 Cass., sez. un., 14.1.2009, n. 557, in Giust. civ., 2010, I, 135; si veda Puntillo, op. cit., 684 ss.

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rie, il danno da perdita del congiunto si configura come “danno autonomo” o iure proprio, il cui ristoro può essere garantito soltanto allorquando risulti giustificato dal punto di vista giuridico in relazione all’intensità del rapporto che esse intrattenevano con la vittima primaria62. In questa prospettiva, è pacifico che i famigliari non possano ottenere la duplice liquidazione del danno morale soggettivo iure proprio e del danno parentale poiché si tratta di voci di danno suscettibili di un unico omnicomprensivo risarcimento63 e il solo danno non patrimoniale loro risarcibile è quello che essi hanno subito quale conseguenza dell’illecito altrui che ha colpito la vittima e che ha reso non più esperibili le programmate e consolidate scelte di vita64. Sotto il profilo del quantum del risarcimento di tale voce di danno, la Corte d’Appello di Ancona ha respinto le pretese dei genitori del neonato in ordine all’entità della somma liquidata, basate sul fatto che i giudici di primo grado si sarebbero

Così La Monica, op. cit., 73 ss.; Cendon, Ziviz, Il risarcimento del danno esistenziale, Milano, 2003, 223 ss.; Buzzanca, Tipologie di danno, in Famiglia e responsabilità civile, cit., 39 ss.; si veda anche Trib. Trento, 19.5.1995, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 1017, il quale ha affermato che il concetto di prossimi congiunti, a cui nel tempo la Suprema Corte ha fatto riferimento, sta ad indicare quella categoria di soggetti uniti fra loro non solo da un vincolo meramente affettivo, ma affettivo giuridico, che riposa cioè su rapporti che costituiscono fonti di reciproci diritti-doveri perché diversamente si rischierebbe di dover riconoscere il danno morale anche per la perdita di un amico o di un lontano parente, allargando a dismisura la cerchia dei legittimati. 62

63 Cfr. Cass., 10.1.2017, n. 238, cit.; Ziviz, Il danno non patrimoniale. Evoluzione del sistema risarcitorio, cit., 428 ss.; Favilli, I danni non patrimoniali da uccisione e da lesioni del congiunto, cit., 429 ss., il quale afferma che “il fatto che i parametri risarcitori utilizzati per il danno morale siano gli stessi solitamente impiegati per il danno esistenziale/da lesione del rapporto parentale, non implica necessariamente un’identificazione tra le due poste, dal momento che il nucleo centrale dei criteri di liquidazione è comune a entrambe e si impernia, da un lato, sul tipo e sulla gravità dell’offesa e, da un altro lato, sulle condizioni oggettive del danneggiato. La differenza risiede nel fatto che tali parametri vengono adottati, per un verso, allo scopo di apprezzare il grado della sofferenza e, per un altro verso, per valutare le ricadute negative sull’esistenza della vittima secondaria”.

Barcellona, Il danno non patrimoniale, Milano, 2008, 101 ss.

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Giurisprudenza

attenuti ai valori più bassi della forbice prevista dalle Tabelle milanesi. La Corte ha infatti “ratificato” l’operato del Tribunale, il quale, nel liquidare il danno patito dai genitori65, non ha tenuto conto solo della brevità della vita del neonato, della giovane età dei congiunti e della mancanza obiettiva di tempo per la consolidazione di un rapporto affettivo, ma ha anche compensato tali indici negativi dando valore alla vicinanza corporea che nei mesi di gestazione la madre ha intrattenuto con il figlio nascituro, con conseguente riconoscimento alla medesima di un maggior importo, rispetto a quello liquidato al padre del bambino. La pronuncia in commento, coerentemente con il consolidato orientamento giurisprudenziale, ha rimesso la quantificazione del danno da recisione del rapporto parentale alla valutazione equitativa del giudice66, stante l’impossibilità di determinare il suo preciso ammontare67. Il giudice, infatti, nella critica determinazione del quantum del danno, deve attenersi ai parametri forniti dalle Tabelle milanesi, le quali, nella sezione dedicata al risarcimento dei danni patiti dalle c.d. vittime secondarie, sono state strutturate secondo ranges risarcitori funzionali e direttamente proporzionali al vincolo di parentela o al grado di affinità sussistente tra i congiunti e la vittima primaria68.

Si v. App. L’Aquila, 28.11.2018, in Red. Giuffrè., 2019, con la quale è stato affermato che in tema di quantificazione del danno da perdita parentale, l’allegazione e la prova di circostanze ulteriori – quali la durata e l’intensità del vissuto, la composizione del restante nucleo familiare e la capacità di reazione di ogni componente della famiglia – incide non sull’an, ma sul quantum del risarcimento, che deve essere integrale per ciascuno degli stretti congiunti e deve comprendere sia il danno morale (da identificare quale sofferenza interiore soggettiva patita sul piano strettamente emotivo), sia quello dinamico-relazionale (consistente nell’alterazione delle condizioni ed abitudini di vita). 65

Con il concetto di “equità” si fa riferimento non all’arbitrio, ma alla prudente discrezionalità del giudice. 66

67

Gorgoni, op. cit., 421.

Sull’argomento v. Favilli, Il danno non patrimoniale da uccisione e da lesioni del congiunto, in I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, a cura di Navarretta, Milano, 2004, 301 ss., con il quale si precisa che i parametri tabellari sono generalmente strutturati per relationem, cioè si basano sul rapporto di proporzionalità 68


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Il danno da perdita della vita

Per scongiurare che l’artificiosità e la standardizzazione (c.d. anche tariffazione della persona69), legata alla quantificazione tabellare del vincolo affettivo, possa trasformarsi in una regola del tutto ingiustificata, il giudice non deve mai prescindere dal caso concreto ma, anzi, deve personalizzare la misura del risarcimento, tenendo conto di tutti i diversi aspetti in cui il danno si atteggia. Soltanto operando in questo modo e garantendo una corretta correlazione tra l’entità oggettiva del danno e l’equivalente pecuniario liquidato (c.d. pretium doloris), il giudice può superare questa artificiosità che caratterizza il sistema risarcitorio del danno non patrimoniale70. In tal senso, sebbene le Tabelle milanesi abbiano assunto ormai valore generale71, in forza del principio di equità inteso come “parità di trattamento”, è rimasta ben salda l’esigenza di garantire una giustizia del caso concreto, che di volta in volta viene affidata alla personalizzazione liquidativa

diretta sussistente tra il danno riportato dalla vittima primaria e le conseguenze di ordine non patrimoniale subite dal familiare. 69

Gorgoni, op. cit., 417 ss.

Per un approfondimento v. Gorgoni, ibidem; Favilli, Il danno non patrimoniale da uccisione e da lesioni del congiunto, cit., 429 ss.; Fasano, op. cit., 179 ss.; Rossetti, Breve storia del danno non patrimoniale, in I nuovi danni non patrimoniali. Il risarcimento dei pregiudizi non pecuniari dopo Cass. 8827/03, a cura di Berti, Peccenini, Rossetti, Milano, 2004, 34 ss.; Rodolfi, Il danno non patrimoniale (danno biologico, danno morale in senso stretto e altri danni ai diritti fondamentali della persona): i criteri di liquidazione, in Il nuovo danno non patrimoniale, cit., 83 ss.; Puntillo, op. cit., 689 ss.; Pascale, op. cit., 187 s. Cfr. altresì Cass., 19.6.2015, n. 12717, in Red. Giuffrè, 2015; Cass., 26.5.2011, n. 11609, in Guida al dir., 2011, 26, 48; Cass., 22.5.2000, n. 6616, in Mass. Giust. civ., 2000, 1078. 70

Sul punto v. Negro, La liquidazione dei danni da malpractice medica, in La nuova responsabilità medica. Una ricostruzione giurisprudenziale alla luce della Legge Gelli-Bianco, cit., 536 ss.; Casazza, Pecunia doloris in caso di feto nato morto: sostanza del pregiudizio e rilevanza complementare dell’afflittività, in Giust. civ., 2015, I, 4 s. Si rinvia a Cass., 7.6.2011, n. 12408, in Mass. Giust. civ., 2011, 859, con la quale è stato sancito che, in assenza di criteri normativi, le Tabelle milanesi sono considerate un affidabile criterio di liquidazione, quasi alla stregua di fonti extra ordinem (per l’appunto, l’eventuale scostamento dalle stesse può legittimare il ricorso in Cassazione per violazione di legge o vizio di motivazione). 71

operata dal giudice72. I valori di riferimento adottati dal Tribunale di Milano, infatti, costituiscono il valore equo in grado di garantire la parità di trattamento in assenza di circostanze concrete idonee ad aumentarne o ridurne l’entità73. A tal proposito, come già accennato, il primo indice che deve essere preso in considerazione è dato dall’effettivo legame intercorrente con la vittima che, oltretutto, costituisce il presupposto alla base della legittimazione ad agire iure proprio per il risarcimento dei danni patiti in conseguenza all’illecita condotta altrui74. Accanto a tale parametro, vi sono quelli riconducibili alla durata della convivenza instauratasi con la vittima75, alla gravità

72 Cfr. T.A.R. Roma, 11.10.2018, in Foro amm., 2018, 1738; Cass., 12.7.2006, n. 15760, cit.; Cass., 21.8.2018, n. 20829, in Mass. Giust. civ., 2018, con la quale è stato sancito che il danno non può essere liquidato in termini puramente simbolici, ma deve esserne garantita la congruità in considerazione delle peculiarità del caso concreto e della reale entità del danno patito. Si veda altresì Astone, op. cit., 191 ss. 73 Cass., 7.6.2011, n. 12408, cit.; Cass., 19.11.2018, n. 29784, in Foro it., 2018, I, 178, con la quale la Corte ha affermato che “nel procedimento presuntivo ex art. 2727, c.c., l’evento infausto costituisce fatto noto dal quale il giudice può desumere la circostanza che i familiari stretti dello scomparso, in quanto per sempre privati della presenza del congiunto e del rapporto interpersonale, abbiano patito una sofferenza interiore tale da alterare la loro vita di relazione”.

Ziviz, Il danno non patrimoniale. Evoluzione del sistema risarcitorio, cit., 548 ss., la quale puntualizza che l’individuazione dei soggetti legittimati ad agire per il ristoro del danno non patrimoniale è questione rimessa all’interprete poiché il legislatore non ha elaborato alcuna indicazione specifica a tale fine e, conseguentemente, tale legittimazione è stata riconosciuta esclusivamente a quei soggetti i quali abbiano visto leso un proprio interesse giuridicamente tutelato. Sul punto cfr. Patti, op. cit., 39 ss.; Favilli, I danni da uccisione e da altre lesioni del congiunto, cit., 305 ss.; Fasano, ibidem. 74

Per un approfondimento si veda Brizzolari, Danno da morte del convivente: la coabitazione non è presupposto necessario per ottenere il risarcimento, nota a Cass., 13.4.2018, n. 9178, in Familia, 2018, 569 ss.; Favilli, I danni da uccisione e da altre lesioni del congiunto, cit., 301 ss.; Sbressa Agneni, Tipologie di vittime e interesse leso, in Famiglia e responsabilità civile, cit., 67 ss. Si veda anche Cass. pen., 1.2.2018, n. 18048, in Guida al dir., 2018, 26, 82; Cass., 7.12.2017, n. 29332, in Resp. civ. e prev., 2017, 1963, con la quale la Suprema Corte, dissentendo dai precedenti orientamenti, ha avuto modo di precisare che la convivenza non può costituire elemento discriminante per accordare o meno la tutela risarcitoria. 75

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della lesione, all’età della vittima primaria e dei prossimi congiunti76. Tutti questi criteri devono consentire al giudice di poter apprezzare concretamente in che modo l’evento lesivo abbia inciso effettivamente sulla vita di relazione e sull’estremo perturbamento della vita psicologica dei famigliari della vittima77. Per quanto attiene all’onere probatorio del danno da recisione del rapporto parentale, la Corte d’Appello di Ancona ha aderito a quanto statuito dal giudice di primo grado, secondo il quale tale danno deve essere presunto e liquidato in via equitativa all’interno della forbice degli importi minimi e massimi previsti dalle Tabelle milanesi. Ciò in quanto, come precisato dalla Corte Suprema, a fronte della morte di un figlio, l’esistenza di un danno soggettivo iure proprio patito dai congiunti, in tutte le sue componenti, appartiene al notorio78 e la relativa prova può essere presuntivamente desunta in capo ai soggetti che presentino uno stretto vincolo di parentela con la vittima primaria79. È evidente come la Corte abbia voluto puntualizzare che il danno da perdita del rapporto parentale non può considerarsi in re ipsa80, ma deve

In via generale, in caso di uccisione del congiunto, si ritiene che i giovani superstiti presentino una maggiore capacità di rielaborazione del lutto e che la residua possibilità di ricostruzione del nucleo famigliare costituisca un indice riduttivo ai fini della determinazione del quantum del risarcimento. Per un approfondimento si veda Cass., 13.6.2017, n. 14655, in Mass. Giust. civ., 2017; Pascale, op. cit., 209 ss. 76

Così Fasano, op. cit., 590 ss.; Sella, Lesione dell’integrità psichica di un congiunto e danni ai familiari, in Famiglia e responsabilità civile, cit., 161 ss.; Casazza, op. cit., 4 ss.; gli Autori sostengono che, ai fini della quantificazione del danno da perdita del rapporto parentale, in caso di decesso del neonato, è opportuno che venga considerata la potenzialità complessiva dell’evento nascita nel dar avvio ad un processo di consolidamento del rapporto famigliare sussistente tra il bambino ed i genitori, non solo dal punto di vista dell’unità fisio-psichica, ma anche dell’affettività, che racchiude al suo interno tutte le aspettative di future relazioni e di trasmissione di valori e conoscenze. 77

78

Cass., 19.7.2018, n. 19158, in Resp. civ. e prev., 2018, 1990.

App. Napoli, 26.2.2019, in Red. Giuffrè., 2019; App. L’Aquila, 28.11.2018, cit. 79

80 Cass., ord., 17.1.2018, n. 907, in Mass. Giust. civ., 2018, con la quale la Suprema Corte, ripotandosi al principio se-

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Giurisprudenza

essere allegato e provato, tuttavia, facendo ricorso alla prova presuntiva, consistente in un ragionamento logico-deduttivo per mezzo del quale dalle nozioni di comune esperienza è possibile risalire a fatti ignoti81. Il danno da recisione del rapporto parentale, infatti, costituendo un moto dell’animo, difficilmente può essere provato in concreto tramite le c.d. prove storiche, di talché deve farsi ricorso alle c.d. prove critiche. Tale difficoltà nel fornire una diretta dimostrazione del pregiudizio alla vita affettiva dei congiunti della vittima è stata espressamente riconosciuta dalla stessa Corte di Cassazione, la quale, già con le sentenze gemelle del 200882, ha qualificato la prova presuntiva come elemento concorrente all’affermazione del danno non patrimoniale sofferto. Ne deriva che, nel caso in cui i congiunti richiedano il risarcimento del maggior danno non patrimoniale conseguente alla recisione del rapporto parentale83, affinché il giudice possa liquidare

condo cui la possibilità di avvalersi delle presunzioni non esonera chi lamenta un danno e ne richiede il risarcimento dalla concreta prova delle sofferenze patite, ha affermato che, in tema di perdita del rapporto parentale, trattandosi di un danno-conseguenza, lo stesso non può essere considerato in re ipsa, bensì deve essere compiutamente descritto, allegato, provato e documentato nei suoi elementi costitutivi, facendo anche ricorso alle prova documentale, testimoniale e presuntiva. Per un approfondimento si veda Ziviz, Il danno non patrimoniale. Evoluzione del sistema risarcitorio, cit., 208 ss.; Bellè, Allegazione e prova del danno non patrimoniale, in Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, cit., 140 ss.; Secchi, Martini, Il nuovo danno non patrimoniale: opinioni e confronto, in Il nuovo danno non patrimoniale, cit., 21 ss; Gorgoni, op. cit., 417 ss. Si veda Favilli, I danni da uccisione e da altre lesioni del congiunto, cit., 301 ss.; Pascale, op. cit., 189. Si veda altresì Cass., 11.7.2017, n. 17058, in Red. Giuffrè., 2017; Trib. Trani, 15.1.2019, cit., con la quale è stato affermato che alla morte di una persona legata da uno stretto vincolo familiare corrisponde, generalmente, un pregiudizio di carattere non patrimoniale. 81

82 Cass., sez. un., 11.11.2008, n. 26972, cit.; Cass., sez. un., 11.11.2008, n. 26973, cit.; Corte cost., 27.10.1994, n. 372, cit.

Cass., 19.10.2016, n. 21060, in Red. Giuffrè, 2016; Cass., 13.10.2017, n. 24075, in Mass. Giust. civ., 2017, con la quale la Suprema Corte ha sancito che il giudice di merito non può limitarsi a liquidare la componente “sofferenza soggettiva”,

83


Il danno da perdita della vita

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correttamente ed equamente tale voce di danno facendo applicazione delle percentuali massime in aumento, è necessario che le c.d. vittime secondarie forniscano la prova concreta delle loro maggiori sofferenze84.

ma deve preliminarmente verificare se e come tale specifica componente di danno sia stata allegata e provata dal soggetto che ha azionato la pretesa risarcitoria, provvedendo successivamente, in caso di esito positivo della verifica, ad adeguare la misura della reintegrazione del danno non patrimoniale, indicando il criterio di “personalizzazione” adottato, che dovrà risultare coerente logicamente con gli elementi circostanziali ritenuti rilevanti a esprimere l’intensità e la durata della sofferenza psichica; una diversa impostazione dell’onere probatorio, infatti, snaturerebbe la funzione del risarcimento, il quale verrebbe concesso non a fronte dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata e punitiva per un comportamento lesivo. Per un approfondimento v. Cendon, Ziviz, op. cit., 225; SelIl quantum del risarcimento, in Famiglia e responsabilità civile, cit., 521 ss. Sul punto i giudici di merito (Trib. Lecce, 8.3.2018, in Red. Giuffrè, 2018) hanno affermato che in caso di richiesta di risarcimento di un danno non patrimoniale diverso e/o ulteriore rispetto alla sofferenza morale provocata dalla rottura del rapporto parentale, l’onere di allegazione va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche. La Corte di Cassazione, infatti, aveva già osservato (Cass., 19.10.2016, n. 21060, cit.) che “nel caso morte di un prossimo congiunto, un danno non patrimoniale diverso ed ulteriore rispetto alla sofferenza morale non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita che è onere dell’attore allegare e provare”. Ne consegue che il danneggiante è tenuto a fornire la prova contraria, dimostrando che, secondo il principio dell’id quod plerumque accidit, il danno lamentato dalle c.d. vittime secondarie, non costituisce una ragionevole conseguenza dell’evento lesivo da lui cagionato; in tal senso si veda Cass., 13.6.2017, n. 14655, cit.; App. Firenze, 9.11.2017, in Arch. giur. circ., 2018, 75; Trib. Catanzaro, 23.12.2014, cit. 84

la,

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o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo ci d di st i e r Quando il CTU vuol fare m giu il Giudice Anna Aprile

Professoressa nell’Università di Padova

Caro Giurista, mi accingo ad iniziare un dialogo partendo dalle parole di Paolo Zatti nella presentazione di questa “piccola rubrica” come da lui definita. Scriveva Zatti che la grande ambizione del “Dialogo” nel contesto di questa Rivista, è quello di tentare la via dell’amicizia e della connessione tra medicina e diritto allo scopo di capirsi evidenziando che, per capirsi bene, il metodo non può non passare attraverso la ricerca di un linguaggio condiviso. Il giurista deve quindi vigilare rinunciando alla gergalità forense, senza rinunciare al rigore necessario; al pari il medico non deve interloquire con il giurista utilizzando esclusivamente il vocabolario della comunicazione propria del mondo scientifico e sanitario. Un linguaggio chiaro e condiviso, quindi, come metodo, con l’obiettivo di trovare parole che possano soddisfare l’esigenza di orientare condotte e decisioni scientificamente e clinicamente valide quanto eticamente e giuridicamente corrette. Non si può non essere d’accordo. Ciò nonostante vorrei provare ad abbozzare una riflessione proponendoti situazioni in cui ho colto inadeguatezza e sconvenienza nell’utilizzo di un “linguaggio comune” tra diritto e medicina con ripercussioni improprie e confondenti. Si tratta di situazioni che nascono nel contesto di un ambito peculiare della medicina, quello della medicina legale e, in particolare, quello della medicina legale forense che impegna lo specialista come consulente del giudice. Ancora più in particolare, mi riferisco all’attività del medico legale consulente tecnico d’ufficio (CTU) chiamato a rispondere al quesito del giudice in tema di responsabilità professionale del medico nel contenzioso finalizzato al risarcimento del danno.

Per parteciparti la mia riflessione ritengo possa risultare utile proporti qualche esempio concreto, a seguito di una breve premessa, così ci comprendiamo meglio. Come ben sappiamo il contenzioso medico-legale ha assunto, negli ultimi lustri, un andamento crescente. La recente Legge 8 marzo 2017, n. 24 Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, tra i molti pregevoli e condivisibili obiettivi, primo di tutti l’attenzione al rischio clinico, mirava anche a divenire strumento di deflazione del contenzioso nei confronti dei singoli professionisti sanitari operanti nella strutture pubbliche sempre più propensi ad orientare il loro intervento nell’ottica di una costosa (per il servizio sanitario nazionale) e spesso inutile (per i pazienti), quando non dannosa, cosiddetta medicina difensiva. La prescrizione ridondante di esami e di accertamenti specialistici nell’ottica, distorta, della medicina difensiva da parte dei professionisti sembrava trovare impulso, oltre che nell’aumento delle richieste da parte dei pazienti e loro familiari, anche, e in parte a ragione, da un indirizzo giurisprudenziale sempre più orientato a riconoscere la sussistenza dell’ipotesi della natura contrattuale della responsabilità del medico. L’obiettivo di contenere le pratiche di medicina difensiva, nell’auspicio del legislatore, poteva essere raggiunto attraverso una differenziazione della natura della responsabilità civile in capo all’azienda sanitaria e ai singoli professionisti sanitari: responsabilità di natura contrattuale la prima, extracontrattuale la seconda così come statuito dall’articolo 7 della legge citata.

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Non voglio addentrarmi nel merito delle questione e disquisire se il legislatore abbia centrato o meno gli obiettivi, non è questa la sede, quanto piuttosto considerare alcuni aspetti che si vengono talora a realizzare nel contesto di cause civili scaturenti da ipotesi di responsabilità sanitaria. Accade che il ricorso, o l’atto di citazione, siano indirizzati nei confronti della struttura sanitaria e del/dei professionisti coinvolti, o ad una sola delle parti; nonostante le diverse implicazioni che questo comporta per i resistenti/convenuti, e che possono ben essere valutate dai difensori delle Parti, quando si giunga al conferimento di una CTU, il quesito che viene posto dal giudice al consulente tecnico dell’ufficio (o al collegio) non entra nel merito della diversa natura della responsabilità ed è sostanzialmente diretto, pur con formule non sovrapponibili, a chiarire storia clinica, caratteristiche tecniche dell’intervento contestato, condotta dei professionisti, esistenza di linee guida di riferimento, eventuale sussistenza della relazione causale tra la condotta e conseguenze di danno lamentate dal ricorrente/attore e non già ad esprimersi in ordine all’onere probatorio in capo alle Parti, alla validità delle prove o ad altre questioni consimili che attengono esclusivamente, dimmi se sbaglio, ai profili strettamente giuridici della vertenza. Accade invece, purtroppo non raramente, che taluni CTU nell’esprimere il loro parere al Giudice su temi di responsabilità professionale, si approprino, impropriamente (perdona il bisticcio di parole), di quegli aspetti di competenza giuridica che dovrebbero rimanere oggetto di valutazione dei difensori e del giudice e inseriscano nelle loro risposte espressioni tratte dal linguaggio forense e prive di contenuti scientifici di natura tecnico-biologica. Questa situazione non è del tutto nuova e non dipende dalle innovazioni giurisprudenziali e/o legislative sulla materia della responsabilità professionale ma ti cito alcuni esempi che da queste innovazioni promanano. Questo il primo: viene promossa azione civile dai familiari di un uomo di 80 anni deceduto per le complicanze intervenute a seguito di intervento di cardiologia interventistica. Il difensore di parte attrice, sulla scorta delle indicazioni del suo consulente di parte, contesta ai medici di non aver Responsabilità Medica 2019, n. 3

Dialogo medici-giuristi

operato in sicurezza avendo eseguito la procedura in questione senza guida ecografica, come si evince(rebbe) dalle lettura del verbale operatorio. Parte convenuta contesta questa affermazione indicando che nel modus operandi dei medici del reparto tutte le procedure, tra le quali quella in discussione, avvengono sotto guida ecografica e che il precisarlo nel verbale di intervento appariva loro del tutto pleonastico, trattandosi di un approccio talmente consolidato ed ovvio, da non dover essere verbalizzato. Ora, a me pare che, a fronte di un problema posto nei termini che ti ho presentato, la risposta del CTU avrebbe dovuto precisare che la manovra in questione (pericardiocentesi), in base alla norme di buona pratica clinica, richiede la sua effettuazione sotto guida ecografica, indicando i presupposti clinico-scientifici che stanno alla base di questo accorgimento prudenziale, precisando altresì che in cartella clinica non risulta alcuna annotazione circa la sua effettuazione. Il CTU, invece, nella relazione al Giudice esprime la propria valutazione e conclude riconoscendo la responsabilità di parte convenuta poiché, testuale, “in assenza di alcun riscontro documentale e in ragione della nota inversione dell’onere probatorio, è parte convenuta che deve dimostrare di aver eseguito la procedura sotto guida ecografica”. In modo del tutto analogo e sovrapponibile a quello precedente: parte attrice lamenta conseguenze di danno al neonato, affetto da paralisi cerebrale, a causa di sofferenza fetale per ritardata esecuzione di taglio cesareo; parte convenuta nega che vi fosse l’indicazione ad un taglio cesareo più precoce e ritiene che il danno cerebrale neonatale del bambino sia da riferire ad infezione della placenta in epoca prenatale. Anche in questa circostanza il CTU, dopo aver osservato, e censurato, la carenza documentale poiché all’epoca del parto non venne effettuato l’esame istologico della membrana placentare che avrebbe fornito elementi utili per accertare se vi fosse un’infezione, esprime la sua valutazione del caso affermando che “…spetta a parte convenuta, come noto, dare prova di quanto sostenuto e pertanto, in assenza di elementi idonei ad accertare la presenza dell’infezione in epoca prenatale, la causa più probabile (più probabile che non) rimane la sofferenza fetale e


Quando il CTU vuole fare il Giudice

va riconosciuta la responsabilità dell’ente per gli esiti neurologici accertati in capo a …”. Nessun riferimento critico alle caratteristiche del quadro clinico del neonato a supporto di una possibile diagnosi differenziale tra le cause latrici del danno (che, peraltro, ben dovevano essere prese in considerazione sulla base degli esami di laboratorio disponibili) bensì il ben più semplice sostegno del “più probabile che non”. Ancora: parte attrice lamenta conseguenze di danno legate ad un intervento di ovariectomia ritenuto non necessario a differenza di quanto sostenuto da parte convenuta. Il CTU “risolve” la questione nei seguenti termini: “Riteniamo che nel caso vi fu comportamento colposo per imprudenza in quanto buona norma impone, seppur in una situazione di emergenza (peraltro non grave), di non eseguire alcun ulteriore intervento che avesse carattere di elezione e non di necessità. Va inoltre sottolineato che spetta al chirurgo, in quanto convenuto, fornire la prova della necessità dell’intervento … ”. Il CTU nel considerare il comportamento dei professionisti sanitari implicati nella vicenda introduce un giudizio inerente all’istituto giuridico della colpa – l’“imprudenza” – facendo riferimento alla mancata osservanza di “buona norma” circa l’esecuzione di interventi consimili in emergenza. Tale affermazione non contiene alcuna precisazione riguardo a quale sia la “buona norma” della pratica clinica citata, né dove essa sia contenuta, non vi è alcun rinvio a documenti di consenso, linee guida, prove di evidenza né, tantomeno, quale sia la forza delle raccomandazioni tratte dalle evidenze che avrebbero dovuto guidare l’agire professionale. La discussione in merito alla condotta, nel caso specifico, appare priva dei requisiti fondamentali di evidenza scientifica e si basa sulla personale opinione del consulente espressa con un fraseggio povero e stereotipato - che certamente non si può definire proprio del lessico forense, ma che, in malo modo, lo riecheggia - e avulso dal linguaggio tecnico-scientifico che avrebbe dovuto supportare la valutazione della condotta del professionista e le conseguenze di danno contestate. Sono consapevole che quanto emerge dai casi che ti ho proposto, più che un problema di linguaggio in senso stretto, cela un problema culturale, in cui

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l’utilizzo da parte del medico di un linguaggio pseudo-giuridico mistifica e nasconde una povertà concettuale, e non fornisce argomenti contro la necessità di trovare un linguaggio comune, ma ti offro comunque questi spunti per accogliere, con interesse, la tua riflessione in merito.

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o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo ci d di st i e r Giudice e Medico-legale: m giu necessità di un dialogo tra funzioni distinte Roberto Pucella

Professore nell’Università di Bergamo

Caro Medico legale, le considerazioni che sviluppi nelle Tue pagine, anche attraverso esempi concreti tratti dalla esperienza professionale sul campo, appaiono di grande interesse. Poni, a bene vedere, due aspetti problematici distinti: quello della possibile “invasione”, da parte del Consulente del giudice, del territorio proprio del giurista (e dunque degli avvocati e del giudice stesso); e quello della possibile ricorrenza, nelle CTU, di un “fraseggio povero e stereotipato (come Tu stessa osservi) che certamente non si può definire proprio del lessico forense, ma che, in malo modo, lo riecheggia”; circostanza, questa, che “più che un problema di linguaggio in senso stretto, cela un problema culturale, in cui l’utilizzo da parte del medico di un linguaggio pseudo giuridico mistifica e nasconde una povertà concettuale…”. Le questioni appaiono certamente distinte ma presentano un denominatore comune, dato dal possibile ricorso strumentale nelle Consulenze medico-legali al linguaggio e all’utilizzo delle tecniche argomentative proprie del giurista; dove la strumentalità risiede, per un verso, nell’appropriazione del linguaggio e delle competenze altrui e, per l’altro, nello “svuotamento” del linguaggio stesso, che diviene “fraseggio povero e stereotipato”, funzionale ad una semplificazione del ragionamento che sostiene la risposta al quesito del giudice. A ben vedere entrambi gli aspetti trovano una sollecitazione nel quadro di un regime processuale probatorio che, quanto alla responsabilità del medico, si mostra sempre più articolato.

Mi riferisco in particolare a due aspetti, anche temporalmente distinti: il primo ha a che fare con il passaggio, quanto alla delicata prova del nesso causale, al regime del “più probabile che non” (ve ne è la consacrazione formale in una importante sentenza della Cassazione della fine del 2007); il secondo, assai più recente, si riconduce alle previsioni di cui alla legge n. 24 del 2017 e, in particolare, alla disposizione che riconduce la responsabilità del medico nell’alveo della responsabilità extracontrattuale. Forse ricorderai qual era il regime in vigore prima che prendesse piede il “più probabile che non”: vi era un florilegio di formule lessicali (le “elevate possibilità”; le “serie ed apprezzabili possibilità”; la “ragionevole certezza”, la “concreta, effettiva e non ipotetica possibilità” e così via) il cui apice era dato dalla “certezza morale” (che, ad esempio, un diverso sviluppo causale avrebbe condotto ad un diverso esito). Formule, queste, certamente sfuggenti e suscettibili di essere riempite a discrezione del giudicante (emblematica la certezza morale, no?) ma tutte accomunate dal fatto di rendere l’indagine medico-legale funzionale alla formazione del convincimento del giudice. La transizione al “più probabile che non” ha, per così dire, oggettivizzato il procedimento di ricostruzione della fattispecie – soprattutto sul versante della relazione causale tra atto medico ed effetto lesivo della salute – creando l’illusoria convinzione che la rappresentazione del grado di credibilità dell’ipotesi su base numerica (e soprattutto il suo posizionamento rispetto al fatidico 50%) risolvesse le questioni problematiche. Responsabilità Medica 2019, n. 3


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Ciò in due sensi: per un verso, aggirando l’intricato ostacolo del linguaggio, cioè delle equivoche modalità di rappresentazione lessicale dell’incertezza; per altro verso “imbrigliando”, per così dire, il potere del giudice nella valutazione del rilievo del dato (scientifico) probabilistico. Ciò che è più probabile diviene giuridicamente certo e ciò che lo è meno diventa insignificante; tertium non datur. Come vedi, siamo ben lontani dalle formule evanescenti che sopra ho ricordato e la certezza morale del giudice appare un pallido ricordo (pur ancora presente nella giurisprudenza di una ventina di anni fa). Se il primo risultato può dirsi apprezzabile, il secondo – vale a dire la ridefinizione dei ruoli di giudice e consulente – può condurre agli esiti inappaganti che Tu lamenti. Ti evidenzio alcune delle controindicazioni che anch’io, sul versante professionale, spesso constato: - l’idea della oggettivazione dell’indagine rischia di depotenziare, per così dire, il ruolo del giudice e di spostare il fulcro della decisione sulla conclusione cui il CTU perverrà; laddove il processo di ascrizione della responsabilità è un percorso complesso nel quale il dato scientifico va letto alla luce di ciò che le parti hanno allegato e dimostrato e in ragione della ripartizione dell’onere probatorio (e dell’allocazione del rischio dell’incertezza); - proprio in questo quadro emerge il problema da Te segnalato: che il Consulente del giudice, nella prospettiva di “chiudere il cerchio”, si spinga, come Tu osservi, a considerazioni sulla distribuzione dell’onere della prova o, peggio ancora, a valutazioni sulla responsabilità, che è conclusione giuridica, non medica; - il rischio, dall’angolo prospettico del giudice, è che costui rinunci ad una valutazione critica della CTU ergendosi a peritus peritorum e confermi, acriticamente, le conclusioni del suo Consulente. Sia ben chiaro: non sto affatto dicendo che il ruolo del medico-legale non sia cruciale ed insostituibile; lo è. La stessa legge n. 24, al suo articolo 15, ne richiama l’attualità e l’importanza. Sto evidenziando, piuttosto, come lo smarrimento delle Responsabilità Medica 2019, n. 3

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rispettive funzioni possa condurre agli esiti inappaganti che Tu stessa poni in luce. Ed è emblematico, in questo possibile smarrimento dei confini dei rispettivi ruoli, l’altro paradosso cui facevi cenno: che il medico legale mascheri la propria “povertà concettuale”, come Tu scrivi, proprio facendo ricorso ad un linguaggio – pseudo – giuridico (ma forse bisognerebbe dire: un linguaggio giuridico impropriamente utilizzato). Se ne capisce bene il senso: osservando, in un caso complesso, che spetta al chirurgo fornire la prova della necessità dell’intervento (come nell’ultimo esempio da Te riportato), il medico va dritto alla conclusione (giuridica) semplificando la valutazione tecnica; cosi facendo impoverisce il momento cruciale dell’indagine a lui affidata ed anticipa, ma impropriamente, la conclusione del giudice. È, questa, solo “povertà concettuale”, come Tu rilevi, e dunque limite culturale del singolo specialista, o vi è un problema … di sistema? Io ritengo (e qui forse non siamo in perfetta sintonia) che una parte della questione possa essere ricondotta sia al tentativo di oggettivazione del giudizio di responsabilità, sia all’inasprimento dell’onere probatorio in capo al danneggiato, in ragione dello slittamento della fattispecie – come sopra osservavo – nel novero della responsabilità c.d. extracontrattuale. È evidente che se il giudizio di responsabilità può essere risolto in via semplificata per il solo fatto di obbiettare al danneggiato di non aver dimostrato, allora la valutazione tecnico-scientifica posta a fondamento della riflessione dello specialista medico-legale può perdere di significatività. Ed è altrettanto evidente che se la partita si gioca sull’applicazione della regola, del tutto strumentale, del più probabile che non, vi è il rischio che la conclusione, in un senso o nell’altro, del Consulente del Giudice sciolga di per sé l’incertezza probatoria. Due condizioni apparentemente contraddittorie, a ben vedere, che al contempo indeboliscono e rafforzano la funzione del CTU, ma suscettibili di condurre agli esiti che Tu denunci: l’impoverimento concettuale dell’argomentazione tecnica e l’utilizzo, improprio, dello strumentario lessicale e concettuale giuridico.


Giudice e Medico-legale: necessità di un dialogo tra funzioni distinte

La circostanza che Tu avverti – mi riferisco al possibile utilizzo del linguaggio giuridico nell’argomentazione del CTU – è paradossale se il suo significato diviene quello di semplificare il percorso che porta all’accertamento o all’esclusione della responsabilità, perché proprio la regola che dovrebbe governare in modo efficiente la fattispecie (penso al “più probabile che non”, nel caso da Te richiamato) può divenire elemento, nella mani di un improprio utilizzatore, per eludere le difficoltà che il caso pone. La soluzione non può che essere quella di far si che Giudice e Consulente di Ufficio dialoghino strettamente, ma nella rigorosa osservanza delle rispettive competenze; e se ciò significa, per il CTU, rinunciare ad avvalersi delle scorciatoie che un inadeguato utilizzo della regola giuridica può offrire, vuol dire nel contempo ribadire la centralità del ruolo del Giudice nella determinazione di tutti quegli aspetti che hanno a che vedere con il piano della responsabilità (civile o penale) del medico e che a volte vengono, negli stessi quesiti del giudice, demandati al Consulente. Mi rendo conto che ciò è più facile a dirsi che a farsi, perché la fattispecie di responsabilità è pur sempre unica e Giudice e Consulente la osservano – ed intervengono – in momenti diversi di uno stesso percorso: pensa, ad esempio, nell’accertamento del danno esistenziale, a come sia difficile stabilire con precisione quale parte dell’indagine che conduce alla sua determinazione sia di spettanza dell’uno e quale dell’altro. Ciò non toglie, al contempo, che vi siano altri profili (come quelli che evidenzi Tu: la distribuzione dell’onere della prova e la rilevanza delle prove acquisite al processo; a me viene in mente, ad esempio, la questione che attiene al c.d. “appesantimento” del punto di invalidità, sulla quale i medici legali spesso si pronunciano) per i quali il perimetro delle rispettive competenze appare ab origine tratteggiato in modo netto e chiara non può che essere la separazione delle rispettive funzioni. Il problema del linguaggio, per rispondere alla Tua ultima sollecitazione, è dunque un problema di dialogo e di determinazione dei rispettivi copioni; è importante – proprio nella più rigida prospettiva che la legge 24 e la giurisprudenza si

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pongono in relazione all’accertamento della responsabilità medica – che i ruoli siano rispettati.

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r o t Osservatorio medico-legale a Osservatorio medico-legale erv ico s d le s e o La valutazione delle preesistenze m ga le nel danno alla persona Barbara Bonvicini*, Alessia Viero**, Massimo Montisci*** Sommario: 1. Inquadramento generale. – 2. La vicenda clinica. – 3. La Consulenza tecnica. – 4. Riflessioni medico-legali. – 5. Conclusioni.

L’adeguato apprezzamento del danno biologico permanente in soggetto con preesistenze menomative, capaci di determinare un maggiore pregiudizio dello stato psico-fisico in esito ad un fatto illecito, rappresenta da tempo uno dei più complessi e controversi problemi operativi che ricorrono nell’attività medico-legale ed uno degli argomenti maggiormente dibattuti dalla dottrina specializzata nel settore, soprattutto a seguito dei ben noti mutamenti giurisprudenziali in materia. La mancanza di una metodologia condivisa conduce a giudizi non sempre univoci nel definire il personal damage, con il rischio che si possano verificare sotto il profilo valutativo situazioni di undercompensation o overcompensation. Prendendo spunto da un caso caratterizzato da peculiari implicazioni in termini di valutazione dello stato anteriore, gli Autori propongono alcune riflessioni metodologiche con l’obiettivo di fornire ai Tecnici operatori della materia i presupposti per la definizione di un congruo risarcimento capace di garantire l’integrale ripartizione del danno sofferto dal danneggiato. The biological damage’s evaluation in a subject with known pre-exististing conditions is one of the most complex and controversial problems in the Medico-Legal ascertainment and one of the most debated topics, especially in light of recent jurisprudential changes. The lack of a shared methodology leads to ambiguous and non-objective judgments, with the risk of under- or overcompensation. Starting from a case characterized by peculiar implications in terms of assessing the previous state, the Authors propose some methodological reflections in order to provide the basis for a suitable compensation’s definition such as to guarantee complete economic recovery.

1. Inquadramento generale L’attenta analisi dello stato anteriore risulta essere di fondamentale importanza qualora si intenda valutare il danno biologico permanente derivante da menomazioni che, inserendosi in un quadro già compromesso da patologia, determinino un pregiudizio maggiore rispetto a quanto analoghe minorazioni avrebbero determinato in soggetto esente da preesistenze patologiche. Il Codice Civile italiano prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale ex artt. 2059 e 2043 qualora questo sia conseguente a fatto illecito. L’imputabilità risarcitoria di un eventuale “incremento” del pregiudizio richiede, pertanto, un’accurata riflessione, onde evitare di far gravare sul danneggiante una quota di danno estranea alla relativa condotta. La Corte di Cassazione1 riteneva originariamente che non potesse essere comparata l’incidenza eziologica di una concausa naturale e di una condotta umana imputabile, non potendo quindi realizzarsi alcuna riduzione del risarcimento in funzione di condizioni pregresse. Successivamente, la sentenza n. 975/2009 stabiliva invece di “procedere alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile all’uno – status preesistente – o all’altra –

*

Medico legale in Padova.

**

Dottoranda nell’Università di Padova.

*** 1

Professore nell’Università di Padova.

Cass., 28.3.2007, n. 7577, in Mass. Giur. it., 2007.

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condotta umana imputabile –, eventualmente con criterio equitativo”2. Numerose ulteriori sentenze hanno poi affermato che, una volta accertata la causalità materiale della condotta umana nel determinismo di un evento, al responsabile non devono essere attribuite “le conseguenze dannose non riconducibili eziologicamente all’evento di danno, bensì alla pregressa situazione patologica del danneggiato”3. Al contrario “debbono essere addebitati all’agente i maggiori danni, o gli aggravamenti, che siano sopravvenuti per effetto della sua condotta, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, che non si sarebbero verificati senza di essa, con conseguente responsabilità dell’agente stesso per l’intero danno differenziale”4. Nella quantificazione del danno correlato ad esiti di menomazioni su soggetti affetti da preesistenze patologiche, c’è il rischio che la valutazione porti ad una undercompensation o una overcompensation; nel primo caso, riducendosi l’entità del risarcimento rispetto al danno patito, mentre nel secondo il danneggiato si trova ad avere un risarcimento superiore, talora anche in maniera consistente, rispetto all’entità del danno subito5. Inoltre, l’ampliamento del risarcimento potrebbe aprire la via ad una dibattuta funzione preventiva e sanzionatoria6. Relativamente alla metodologia valutativa di eventuali preesistenze, il principale riferimento normativo consiste nei criteri applicativi della tabella delle menomazioni alla integrità psico-fisica comprese tra 1 e 9 punti di invalidità (Decreto 3 luglio 2003) in cui, a proposito delle menomazioni preesistenti, si recita “le indicazioni date dalla tabella andranno modificate a seconda della effettiva incidenza delle preesistenze rispetto ai valori medi”. Nel tempo, in assenza di presupposti condivisi dalla Comunità Medico-Legale Italiana, sono state

2

Cass., 16.1.2009, n. 975, in Foro it., 2010, I, 994.

3

Cass., 21.7.2011, n. 15991, in Mass. Giust. civ., 2011, 1098.

4

Cass., 12.6.2012, n. 9528, in Mass. Giust. civ., 2012, 776.

Ponzanelli, La responsabilità civile, Bologna, 1992, p. 28 ss. 5

Corte cost., 14.7.1986, n. 184, in Foro it., 1986, I, 2053 ss. con note di Ponzanelli e Monateri.

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Osservatorio medico-legale

proposte due metodologie di quantificazione del danno biologico permanente conseguente a fatto illecito in soggetto con preesistenze, ovvero il c.d. “metodo tradizionale” ed il c.d. “metodo innovativo”7. Con l’utilizzo del “metodo tradizionale”, si valuta la misura in cui, in conseguenza del danno subito, il soggetto, con il suo valore di “100” (i.e. insieme di abilità e disabilità che gli appartengono), vede ridotta la capacità di vivere la vita che aveva prima. Utilizzando il “metodo innovativo”, invece, si considera quale danno (Delta) il risultato della formula Delta = (D.B.1+ D.B.2) – D.B.1, stabilendo la misura percentuale del danno biologico complessivo, derivante dalla menomazione preesistente (D.B.1.) e da quella sopravvenuta (D.B.2.), e sottraendo dal valore ottenuto quello attribuito alla preesistenza (D.B.1.), cosi detto danno differenziale. Nella quotidiana attività medico-legale si evidenzia tuttavia come non vi sia preponderanza assoluta di uno dei due metodi, stanti le caratteristiche che li contraddistinguono. Nella fattispecie, con il “metodo tradizionale”, a fronte delle specifiche preesistenze individuate, non è possibile confinare all’interno dei bàremes percentuali la valutazione globale della menomazione (pesati sull’uomo medio in buono stato di salute); in siffatta circostanza la valutazione deve tener conto del pregiudizio reale arrecato alla persona. L’applicazione di tale metodo è esposto al rischio di un soggettivismo valutativo – al quale è necessario far fronte con una rigorosa formazione specialistica medico-legale – ma ha il pregio, se ben applicato, di garantire un congruo ristoro al danneggiato e di evitare di porre a carico del danneggiante la responsabilità di ciò che non sia direttamente ascrivibile alla sua condotta (i.e. stato anteriore). Con il “metodo innovativo”, invece, tale rischio diviene tangibile e comporta, soprattutto nei casi in cui si riscontri una menomazione di lieve entità su un individuo già gravemente compromesso

Ronchi, Mastroroberto, Genovese, Guida alla valutazione medico-legale dell’invalidità permanente in responsabilità civile e nell’assicurazione privata contro gli infortuni e le malattie, Milano, 2015.

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La preesistenza nel danno alla persona

(e.g. esiti di frattura di alluce in soggetto paraplegico), una “ipervalutazione liquidativa” della menomazione stessa, frutto del calcolo differenziale (D.B.2-D.B.1) a partenza da un valore percentuale attribuito arbitrariamente alla condizione patologica preesistente (D.B.1) ed erroneamente desunto dai valori di danno biologico permanente riportati nei bàremes di riferimento. Infine, per entrambi i metodi si rileva come la quantificazione retrospettiva dell’invalidità preesistente sia spesso ricostruita “approssimativamente” utilizzando criteri presuntivi, ovvero sulla base della raccolta anamnestica e della ricostruzione cronologica dei dati sanitari a disposizione, con permanenza di un certo grado di soggettivismo derivante dalla necessità di ricorrere a valutazioni “per analogia” in assenza di menomazioni tabellate.

2. La vicenda clinica Con Atto di Citazione ritualmente notificato, la sig. ra G.M. conveniva in giudizio la propria Compagnia Assicuratrice chiedendo di essere adeguatamente risarcita del danno all’integrità psico-fisica subito a seguito di un sinistro stradale con responsabilità di terzi. I fatti risalgono al novembre 2015 quando la donna, mentre si trovava alla guida della propria autovettura con cintura di sicurezza regolarmente posizionata, veniva improvvisamente urtata da tergo da un altro automezzo (cd. tamponamento), riportando un trauma distorsivo amielico del rachide cervicale, foriero di un quadro algico post-traumatico con apprezzabile contrattura muscolare paravertebrale e limitazione dei movimenti del collo. La vis lesiva agiva peraltro su un distretto anatomico già menomato, posta la preesistenza di esiti di un pregresso intervento neurochirurgico di discectomia C5-C6 e C6-C7, con fusione a quest’ultimo livello secondo Cloward, al quale erano residuati postumi invalidanti la funzionalità statico-motoria del distretto cervicale del rachide. Un’indagine di RMN eseguita nel corso dell’iter diagnostico documentava inoltre l’avvenuta rettificazione della fisiologica lordosi, con alterazioni spondilodiscoartrosiche, sede di modesto bulging discale C4 C5 e lieve retrolistesi di C5 su C6.

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Sotto il profilo clinico, nella paziente andava inoltre manifestandosi cervicobrachialgia bilaterale e sintomatologia vertiginosa per la quale veniva prescritto un controllo otorinolaringoiatrico che documentava un quadro di sofferenza delle vie vestibolari centrali (a sede tronco encefalica) di verosimile natura post-traumatica. A seguito di trattamento fisioriabilitativo si assisteva ad un progressivo, ancorché parziale, recupero della funzionalità articolare cervicale, mentre permanevano parestesie periferiche al terzo e quarto dito di entrambe le mani, nonché disturbi vertiginosi con episodi di acuzie da necessitare cure specialistiche. Allo stabilizzarsi delle condizioni cliniche il Consulente medico-legale di parte lesa, chiamato a quantificare le ripercussioni di danno di natura extrapatrimoniale, dopo aver stimato nella misura del 6% il danno biologico permanente esitato alla lesività del sinistro stradale de quo, osservava che la preesistenza menomativa sulla quale aveva agito il trauma (che lo stesso riteneva incidere sull’integrità psico-fisica nella misura del 9%) di fatto determinava “una situazione di aggravio rispetto a condizioni standard”. La lesione causata dal sinistro, proseguiva il Consulente di parte lesa, “innestandosi sulla compromissione biologica preesistente, innalzava quindi l’invalidità permanente della danneggiata sino alla complessiva misura del 15%”. Sulla base di tale proposta valutativa la somma oggetto di risarcimento risultava essere quella corrispondente alla differenza tra il 9% originario ed il 15% finale con conteggio del valore monetario del punto percentuale di danno biologico da riferirsi, non già al range tra 0% e 6%, ma a quello tra 9% e 15%. Le richieste risarcitorie attoree, fondate sulla proposta di un danno differenziale, non venivano accolte dalla Compagnia Assicuratrice perché ritenute frutto di un percorso metodologico valutativo non condivisibile che conduceva a sovrastimare la reale entità del danno riportato dalla Danneggiata. Parte convenuta affermava infatti la non correttezza di “porre come base di partenza valutativa una condizione psicofisica assolutamente integra (ossia uno 0%)”, posto che la Danneggiata risultava già compromessa nella sua integrità “da un fatto preResponsabilità Medica 2018, n. 3


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cedente e diverso” da non imputarsi certamente al responsabile del fatto illecito che cosí facendo si sarebbe trovato a pagare “un danno diverso e più oneroso di quello realmente a lui imputabile”. Si assisteva quindi al disconoscimento della pretesa risarcitoria da parte della Compagnia di Assicurazione, a fronte della quale era avanzato il ricorso a vie legali ritenendo che la sinistrosità stradale, proprio perché incidente su un distretto anatomico già menomato, appariva in grado di cagionare alla paziente un aggravio di danno rispetto a quanto normalmente atteso in consimili casi.

3. La consulenza tecnica La Consulenza Tecnica d’Ufficio, nella parte in cui si trattava di accertare natura, entità e nesso di causa delle lesioni subite dalla Sig.ra M.G con il sinistro stradale oggetto di causa, risultava di agevole esecuzione, mentre erano richieste specifiche cognizioni e competenze laddove si doveva procedere alla quantificazione delle conseguenze biologiche di danno esitate sotto il profilo permanente. Nel quesito formulato il Giudice richiedeva infatti espressamente di quantificare in punti percentuali il danno subito dalla Periziata a seguito del tamponamento, nonché di quello in precedenza derivato a seguito dell’intervento di erniectomia. Sotto il profilo metodologico l’accertamento medico-legale si articolava nel modo seguente: 1) giungere ad una diagnosi medico-legale della lesione sulla base dei mezzi di prova disponibili; 2) valutare il quadro disfunzionale (menomazione) omnicomprensivo mediante accertamento medico-legale diretto: il quadro clinico sarà, ovviamente, il risultato del concorso della menomazione dello stato anteriore e dell’evento traumatico; 3) documentare con criterio medico-legale probabilistico ed avendo riguardo ai mezzi di prova forniti (clinico-strumentali-obiettivi) e con riferimento alla classica criteriologia medico-legale in tema di nesso materiale di causalità un aggravamento dello stato anteriore; 4) valutare la componente menomativa post-traumatica mediante i disvalori riconosciuti per analoghe fattispecie dalle Tabelle di Legge e/o dai barémes riconosciuti; Responsabilità Medica 2018, n. 3

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5) segnalare con ragionamento controfattuale quale sia il valore di invalidità preesistente (cd. danno biologico base) su cui monetizzarsi il tasso di invalidità riconosciuto, al fine di giungere ad un adeguato risarcimento. Il Consulente Tecnico d’Ufficio accertava che nonostante il trattamento e le cure fisioriabilitative, la guarigione clinica non era avvenuta con il completo recupero dello stato psico-fisico anteriore al sinistro, residuando un quid pluris di danno foriero di un aggravamento del quadro menomativo vertebrale di cui risultava già latrice la Periziata in epoca antecedente. Tale modificazione in peius trovava riscontro oggettivo nei rilievi di Consulenza, con obiettività clinica che risultava espressiva sia del quadro preesistente che degli esiti del trauma distorsivo, capaci nel complesso di determinare una menomazione permanente della funzionalità statico motoria del distretto cervico-dorsale del rachide che veniva quantificata nella misura del 13-14%. Posto che la preesistenza menomativa, tenuto conto dei rilievi documentali e dei riferimenti Tabellari di consolidato uso in ambito medico-legale, sulla base di un criterio empirico, appariva incidere sull’integrità psico-fisica nella misura del 9%, ne deriva che il quid pluris di danno biologico permanente ascrivibile agli esiti del sinistro doveva quantificarsi nella misura del 4,5%. In estrema sintesi, tenuto conto che la preesistenza menomativa interessava proprio l’organo e apparato leso in conseguenza del fatto illecito, il Consulente applicava la cd. “regola della differenza”, alias metodo del danno differenziale, o danno incrementativo secondo la quale il quantum di danno risarcibile (DBr), espresso in termini percentuali, è dato dalla differenza tra menomazione finale (DBtot) e menomazione preesistente (DBp), secondo la formula DBr% = DBtot% - DBp%.

4. Riflessioni medico-legali Ciascun individuo, in epoca antecedente ad un fatto illecito, possiede un proprio “stato anteriore”, quantificabile in un valore convenzionale pari a “100”, quale espressione di abilità e disabilità personali, non automaticamente coincidente con un 100% inteso come la piena validità psico-fisica. In-


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fatti, in virtù del principio di inesauribilità del bene salute, l’involuzione fisiologica legata ai processi di invecchiamento, al pari delle condizioni patologiche congenite/acquisite, comporta un continuo riadattamento/rimodellamento delle abilità e disabilità della persona, pur mantenendo sempre un proprio valore di “100” (c.d. “cento esistenziale”). Pertanto, la valutazione medico-legale di un danno biologico da fatto illecito sopraggiunto in un soggetto con palesi preesistenze, deve vertere sull’effettiva riduzione dell’integrità psico-fisica del soggetto, ovvero del “100” che lo caratterizzava nel momento in cui è stata prodotta la lesione. Tale valutazione dovrà quindi tenere debitamente conto dello “stato anteriore” del danneggiato, ossia di come questo abbia amplificato o ridotto la portata menomativa della lesione sopraggiunta. Una menomazione vede, infatti, ampliati i suoi aspetti disabilitanti nel momento in cui gli apparati che funzionalmente potrebbero svolgere un’azione vicariante, rivestendo nell’individuo una valenza funzionale superiore a quella di un uomo medio, risultino a loro volta precedentemente menomati. Concordemente con quanto sancito dai criteri applicativi della Tabella delle menomazioni alla integrità psico-fisica comprese tra 1 e 9 punti e tra 10 e 100 punti di invalidità, si ritiene che, alla luce dell’estrema variabilità delle condizioni preesistenti, sia necessaria e doverosa una valutazione priva di rigidi schematismi matematici, in cui, caso per caso, la quantificazione percentuale della menomazione finale sia maggiorata o ridotta rispetto ai valori tabellari formulati in riferimento all’uomo medio privo di preesistenze, in base all’effettivo peggioramento dello stato anteriore. A tal proposito, si ritiene che debbano essere debitamente valutate le concrete preesistenze concorrenti (omogenee), ovvero quelle situazioni lesive/ menomative che agiscono sullo stesso apparato anatomico o su apparati funzionalmente strettamente correlati, rispetto alle preesistenze coesistenti (eterogenee), riguardanti apparati anatomo-funzionali del tutto indipendenti, pur rammentando che, soprattutto nel caso in cui lo stato anteriore risulti gravemente compromesso, gli effetti disabilitanti difficilmente restano circoscritti esclusivamente all’apparato organo-funzionale interessato, ma

più frequentemente si ripercuotono sulla funzionalità globale dell’individuo. Il compito del medico-legale consiste appunto nel valutare nella maniera più equa possibile la riduzione globale dell’integrità psico-fisica dell’individuo determinata dalla menomazione al fine di fornire i presupposti per un congruo risarcimento. Alla luce delle premesse sopra esposte, si ritiene che, nei casi in cui le menomazioni insistano su soggetti già compromessi, l’approccio tradizionale sia metodologicamente più corretto. Nella quotidiana applicazione dello stesso, stanti le intrinseche problematiche attribuibili al soggettivismo valutativo, con rischio di sconfinamento più o meno marcato dai bàremes percentuali, si ravvisa la necessità di: 1. un rigoroso approccio metodologico nella valutazione dello stato anteriore, mediante esposizione, con dovizia di particolari, di quanto desunto dalla documentazione sanitaria a disposizione, di quanto rilevato alla visita medico-legale effettuata e di quanto prodotto dal danneggiato stesso; 2. un’esaustiva descrizione della condizione menomativa concretamente realizzatasi a carico del danneggiato, sottolineando le maggiori o minori disabilità correlate alla condizione preesistente. L’adattamento della percentuale dei bàremes di riferimento al caso specifico, sarà frutto di un valido, congruo, esplicito e condivisibile ragionamento logico-deduttivo, che confinerà il rischio di produzione di percentuali di danno inadeguate alla rappresentazione della reale entità di danno sofferto dalla persona.

5. Conclusioni Il problema valutativo del danno alla persona è tuttora oggetto di studio e sempre più dibattuti appaiono i criteri relativi alla valutazione delle preesistenze menomative. Da quando il Cazzaniga, nel 1928, nel ridisegnare il concetto di validità medico-legale del danneggiato, richiamava all’attenta valutazione dello stato anteriore, perché utile sia “per la valutazione dello scarto in peggio avvenuto nell’efficienza personale per effetto dell’evento lesivo ma anche … per evitare il pericolo di pretestazioni e di false attribuzioni che in buona o in mala fede il leso sia per mettere Responsabilità Medica 2018, n. 3


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innanzi a scopo di risarcimento”8, numerosi Autori hanno affrontato la questione in oggetto. Da sempre, la dottrina del risarcimento del danno, laddove lo stato anteriore incida sulla quantificazione percentuale dello stato finale di menomazione psico-fisica, ha risentito dell’influenza delle regole vigenti in ambito di infortunistica lavorativa (ove si utilizza la cd. formula di Gabrielli) adottando lo stesso concetto di aggravamento anche all’alveo risarcitorio civilistico laddove le menomazioni concorrano funzionalmente. Nella situazione di semplice coesistenza la valutazione del danno deve invece limitarsi alla quantificazione della sola menomazione sopravvenuta, salvo però richiamare l’attenzione del medico sulla necessità di informare il Giudice sulle complessive condizioni del danneggiato (evidentemente allo scopo di favorire un apprezzamento equitativo che, in qualche modo, tenga conto anche delle condizioni di disabilità indipendenti, sia causalmente che funzionalmente, da quelle derivate dal fatto illecito). I pareri sull’utilizzazione di formule matematiche ed in particolare di quella indicata di legge sono tuttavia discordi ed aspre sono risultate le critiche formulate dalla Comunità medico-legale perché ritenute inadeguate nel valutare la complessiva interazione dei differenti quadri lesivi sulle funzioni organiche. Tutto ciò, ovviamente, sta a testimoniare sulla importanza rivestita dall’argomento ed anche sulla incompletezza dei risultati sin qui ottenuti, dato che il corpo umano, nel suo complesso organo-funzionale, mal si presta a rigidi schemi vincolativi. Il precetto di massima, afferma Domenici nelle Linee Guida redatte nel 20169, è che le percentuali tabellari di danno biologico dovrebbero essere modificate in plus o in minus a seconda che le interazioni tra menomazione e preesistenza aumentino, ovvero diminuiscano, l’entità del danno rispetto ai

8 Cazzaniga, Le basi medico-legali per la stima del danno alla persona da delitto e quasidelitto, Milano, 1928.

Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni, Linee Guida per la valutazione del danno alla persona in ambito civilistivo, Milano, 2016.

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valori medi tabellari (e rimane immodificata qualora l’interazione sia nulla). Purtroppo non esiste un accordo nella dottrina e nella pratica professionale, su come applicare codesto precetto, eccezion fatta per alcuni casi esemplari in cui risulta palese come la preesistenza non costituisca stato anteriore rilevante ai fini della valutazione medico-legale (ad esempio, preesistente amputazione della falange distale del mignolo, in soggetto che debba essere risarcito per stenosi nasale post-traumatica). In tutti gli altri casi, il giudizio valutativo dovrà essere espresso attraverso l’attenta analisi dell’entità della preesistenza, della menomazione da stimare e dell’effettivo grado di reciproca autonomia delle funzioni considerate. Alla luce di quanto sopra esposto e consapevoli della difficoltà di inquadrare in un’unica fattispecie valutativa l’estrema variabilità multiforme della condizione umana, si rileva pertanto la cogente necessità di identificare una metodologia da un lato equa e dall’altro di agevole applicazione, da condividere all’interno della Comunità Medico-Legale Italiana. In quest’ottica le diverse Società ed Associazioni italiane di Medicina Legale si stanno muovendo sinergicamente, istituendo un tavolo di lavoro comune, al fine di giungere ad uno statment applicativo condiviso da utilizzare nella pratica quotidiana.


r o t Osservatorio normativo e internazionale a Osservatorio normativo e internazionale erv ivo t s a s Liability for Medical Malpractice o rm zio o a n n in the Czech Republic r e int Tomáš Holčapek

Assistant Professor at Charles University of Prague Summary: 1. Introduction. – 2. Wrongfulness and Professional Standards. – 3. Question of Fact or Law. – 4. Standard and Burden of Proof. – 5. Deficiency of Medical Records. – 6. Causation. – 7. Deficiency of Informed Consent. – 8. Conclusion.

Abstract: Czech legal framework of relationship between health care provider (physician, hospital or any other) and patient is one of private (civil) law. It is typically built on a contract for health care; a minor but still significant part of care is provided outside contractual relationship (e.g. emergency situations, obligatory treatment of serious contagious diseases, some vaccinations etc.). This is the case even when the care provider is a public institution, e.g. a public university hospital. Consequences of failure to provide proper care are therefore also regulated by private law, mainly the relatively new Civil Code (in force since 2014). The elements of liability are mostly traditional and include a wrongful act or omission, an ensuing harm and a causal link between them; a special requirement of fault is obligatory only in some scenarios. Recent case law has discussed possible changes to some long-held principles, e.g. whether to accept some methods for alleviation of burden of proof in cases of unclear causation or lost medical records, in which the care provider could have an unfair advantage due to insufficient evidence.

fessional level. It has evolved throughout centuries. Today’s view of it often emphasises equality between the involved parties, in the sense that the physician cannot unilaterally dictate what should be performed, but should respect the patient as a partner1. On the other hand, we recognise that as a professional, the physician is necessarily in a position allowing him/her to exert greater influence on the patient than vice versa. Any legal regulation needs to take both aspects into consideration. While it is not the sole possibility, a frequent way how to regulate health care in developed countries is to use a combination of private (civil) and public law. The basis for providing care is typically a contract between the two parties2. Various fac-

For an analysis of development of Czech medical law from paternalism to partnership between physician and patient cf. Šustek, Two Decades of the Convention on Biomedicine: Has It Been Any Good?, in Šturma et al., Czech Yearbook of International Public & Private Law, Prague, 2018, 257 ss. 1

Health care may also be provided outside the scope of a contractual relationship. The examples include treatment in emergency situations (e.g. of an unconscious patient after a traffic accident, who is obviously unable to express his/her will and to conclude a contract), obligatory treatment of serious contagious diseases set out by the laws regulating the protection of public health, certain obligatory vaccinations (again in the interest of protection of public health) etc. For Czech law cf. Holčapek, Zákroky bez souhlasu [Interventions without Consent], in Šustek et al., Zdravotnické právo [Health Law], Prague, 2016, 234 s. 2

1. Introduction Relationship between patients and physicians (or more broadly, health care providers) is not a new phenomenon, it has existed as long as people have been trying to provide health care on a pro-

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tors may modify the basic scheme, i.e. the interest in protection of a weaker party (usually patient as a consumer) or the role of the subject that pays for the care (e.g. a health insurance company) may demand some alterations. But the underlying principle is quite often a civil law contract. This is the case of the Czech Republic, similarly to the neighbouring countries3. Czech Civil Code4 even contains a special contractual type, which regulates several important elements of a contract for provision of health care5. This is in line with the principle according to which a legal reason (a legal justification) is needed for any interference with personal integrity. While some other reasons may be stipulated by the law, the predominant one is free and informed consent of the patient as a party of the private law relationship. Nevertheless, public law has a great impact too. It sets criteria for exercising the medical profession, regulates licensing and supervision of health care providers and numerous specific issues which contribute to the overall standard of health care in the country. In this respect, Czech law does not distinguish between public and private health care providers – they have to fulfil similar conditions, they carry out their activities under the same legal framework and they all often enter into civil law contracts with patients for provision of health care. Liability for medical malpractice forms an inseparable part of the relationship between provider of care and its recipient. Without it a breach of duties of one of the parties might not be sufficiently remedied and the injured party would not be entitled to request full compensation or at least adequate satisfaction6. Medical malpractice is

Osservatorio normativo e internazionale

usually understood to encompass various cases in which a health care provider fails to adhere to professional standards and as a result, a patient suffers harm, such as personal injury, loss of earnings, emotional distress etc. As mentioned above, in the Czech Republic the relationship for providing health care is based on civil law. Therefore, consequences of failure to provide proper care, and in particular, the duty to repair harm caused to the patient are also regulated by civil law, especially by the Civil Code. Its aim is to ensure reparation of the suffered harm as much as possible, reflecting all individual and special circumstances of the case and the interests of justice and decency, without creating a profit for the harmed party and without punishing the responsible party beyond the duty to repair harm (no punitive damages are awarded). Obviously, some losses cannot be fully repaired, e.g. injury to physical or mental health, personal integrity, privacy or dignity may not be truly undone, but it may be remedied indirectly, be means of adequate satisfaction which aims to balance out the injury. Czech law differentiates between various cases of civil liability, particularly between a general civil delict (further differentiated as a breach of contract or a negligent breach of law) and special delicts (in medical context e.g. liability for defective equipment or medicaments). Malpractice is covered by the general rule which requires a wrongful act or omission, ensuing harm7 and a causal link between them. In the noncontractual subgroup of liability cases, the law sets an additional requirement under the notion of fault8. Traditionally,

Which may consist both in the worsening of state of health or in its non-improvement when such improvement could be expected in the normal course of events [analogously to the concept of lost profit (lucrum cessans)]. We cite a case of a cataract-removing eye surgery below. Had a correct artificial lens been inserted, the patient would not just have gotten rid of her cataract, but her short-sightedness would have been treated as well – and the Constitutional Court (in its ruling of 9th January 2014, file no. III. ÚS 2253/13) held that this reasonable expectation of improvement gave ground for a compensation claim. 7

Cf. Šustek, Smlouva o péči o zdraví [Contract for Health Care], in Šustek et al., Zdravotnické právo [Health Law], cit., 38 ss.

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Act No. 89/2012 Coll., the Civil Code, as amended, in force since 1st January 2014.

4

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Cf. sec. 2636ff. of the Civil Code.

Cf. Holčapek, Občanskoprávní odpovědnost v medicíně a její uplatňování u českých soudů [Civil Liability in Medicine and its Application by Czech Courts], in Právní rozhledy, 2016, 305.

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This outline is somewhat simplified as it leaves aside the


Liability for Medical Malpractice in the Czech Republic

Czech law understood fault in a rather narrow sense as a concept different from wrongfulness, and describing the mental relationship of the perpetrator towards his/her act or omission. In this sense fault may have the form of either intent or negligence9. Wrongfulness on the other hand focuses more on the act or omission in question being contrary to law. A health care professional who objectively fails to adhere to professional standards is acting wrongfully. However, from the practical perspective wrongfulness and fault usually go hand in hand, because objective failure to provide proper medical care is in most cases also negligent. For this reason, the law10 actually sets a presumption of fault in the form of negligence provided that a wrongful act or omission is proven11. In addition, the issue of fault does not arise at all in cases of contractual liability (vast majority of health care being provided on the basis of a contract), because fault as an element separate from objective wrongfulness is not required in them12. Therefore from a practical perspective, wrongfulness and causation stand out as the most important fundaments of liability.

question whether the wrongful act harmed an absolute right of the patient (health, privacy, property etc.) or not, but medical malpractice cases usually do not depend on this aspect as they are typically based on some harm to health or other personality rights of the patient. Cf. sec. 2910 of the Civil Code. The current Civil Code may have changed this paradigm by shifting the notion of fault towards a more objective standard and somewhat blurring its distinction from wrongfulness – but that is for a more detailed discussion exceeding the scope of this text.

9

10

Sec. 2911 of the Civil Code.

The presumption is rebuttable but it is usually difficult to imagine it being rebutted on its own without also disproving the wrongfulness of the act or omission in question at the same time. In the context of health care it would mean that a provider failed to render care of the required standard but they were not negligent in doing so. Most probably, this would be an example of vis maior (or force majeure), an extraordinary external factor which caused the care to be objectively insufficient but without any blame on the part of the provider. That is a rather rare scenario. 11

12

Cf. sec. 2913 of the Civil Code.

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2. Wrongfulness and Professional Standards The element of wrongfulness is associated with a breach of legal obligation. In cases of medical malpractice a wrongful act, or an omission of a person who was under an obligation to act, may consist in not adhering to the standard of care to which the patient is entitled. In most circumstances the health care provider has an obligation of means, i.e. they have to act diligently and in conformity with relevant professional standards, but without responsibility for achieving a particular outcome13. According to the relevant law, health care must have appropriate professional quality, which requires compliance with rules of science and recognized medical methods together with respect of the patient’s individuality, specific conditions and objective possibilities14. It is not enough to carry out a medical intervention correctly from the technical point of view, but a broader perspective should be used, taking also organization of care by a particular provider, respect for patients’ rights and other aspects into account. This point may be illustrated by a case of an eye surgery on a patient with a cataract, during which a doctor inserted an artificial lens of incorrect optical magnitude15. The cataract problem was successfully resolved, but the patient remained severely short-sighted. The reason for insertion of an unsuitable lens was that a pre-operative examination had not been performed properly and wrong information had been put into the patient’s medical records (probably, another patient’s examination results were filed there inste-

13 Health care often attempts to influence processes which take place in a human body without full control over them. Even proper care may be unsuccessful and all medical interventions are associated with risk of failure, including also the risk of additional harm caused to the patient. Provided that the medical professional acted in conformity with all relevant obligations and standards, materialization of such risk does not establish liability.

Sec. 4(5) and sec. 28(2) of the Act No. 372/2011 Coll., on Health Services, as amended. 14

15 Cf. the ruling of the Constitutional Court of the Czech Republic of 9th January 2014, file no. III. ÚS 2253/13.

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ad). The surgery in itself was carried out without any error, but on the whole, the health care was not de lege artis, it did not match the expected standard. Had the examination been performed and recorded properly, the patient could have received a different lens and her sight could have improved much more than merely by removing the cataract. Similarly, a health care provider acted in contravention with professional standards and legal obligations when two newborn infants were inadvertently switched in a hospital soon after their births. As a result, they had stayed with “wrong” parents for several months before the error was discovered by means of a DNA test carried out on the initiative of one of the fathers who suspected his wife of adultery. Although none of the involved persons suffered any physical injury, this was still an obvious example of legal harm in respect of rights to privacy and family life caused by an act of medical malpractice16.

3. Question of Fact or Law For practical application of malpractice liability, it may matter a lot whether medical professionals acted in accordance with the relevant standards or not. If they did not, they most likely breached a legal obligation and committed a wrongful act (or omission, as the case may be). It is quite important to ask who is entitled to answer this question. In Czech civil law system, the court acts as a trier of both facts and law. But while legal conclusions are for the court to make on its own, in order to determine facts it must proceed on the basis of relevant evidence. In medical malpractice cases this evidence will often comprise expert opinions of physicians, and their outcome will frequently have a critical impact on the disposition of the case. A particular act of a doctor will seldom be found incorrect unless so denoted by other doctors17.

Cf. the judgment of the Supreme Court of the Czech Republic of 31st May 2011, file no. 30 Cdo 2428/2010. 16

17

Cf. Brazier, Medicine, Patients and the Law, (3rd edition),

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Two Supreme Court cases illustrate this point18. In both of them it was held that in claims for compensation related to health care a medical expert opinion is usually necessary to determine whether the provider acted in conformity with current medical science. How the provider actually acted is a question of fact. How they should have acted is a question of law, but in practice convertible to a question how – in the particular circumstances – a reasonable and responsible person of the same profession and qualification acts (or would have acted). By this conversion, the question gets very close to a question of fact which the court answers on the basis of evidence. In other words, although determination of standard of care adequate in particular circumstances remains a question of law, for practical purposes it becomes a question of fact at least to the extent that the answer is highly dependent on medical expert evidence.

4. Standard and Burden of Proof Evidence in a dispute may be ambiguous. Its individual pieces may contradict each other or may not be fully convincing. Therefore it is quite substantial to determine the level of conviction which a court must have in order to find an allegation of fact proven. In Czech civil procedure, each party has traditionally been expected to prove the facts on which its legal position (a claim or defence against a claim) is based to the level of certainty or practical certainty19. This is a rather demanding stan-

London, 2003, 172, 188 s. Cf. judgments of the Supreme Court of the Czech Republic of 26th October 2011, file no. 25 Cdo 4223/2009, and of 27th May 2015, file no. 25 Cdo 259/2012. 18

In its judgement of 27th September 1990, file no. 1 Cz 59/90, the Supreme Court speaks about the necessity of proving the alleged facts “safely” and expressly notes that mere probability is not sufficient. The judgment of the Supreme Court of 26th June 2014, file no. 21 Cdo 2682/2013, declares that an alleged fact may be considered proven if the evidence allows the court to achieve certainty (conviction) without reasonable doubt that the allegation is true; mere possibility of its being true (or even probability) is not enough. 19


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dard similar to the one used in matters of criminal law. In medical malpractice cases, it may be particularly difficult to prove a wrongful act or omission of the health care provider, and also causal link with the ensuing harm, with such high level of persuasiveness. There have been some partial attempts to help the party that has allegedly been harmed to satisfy its burden of proof, especially in the case law of the Constitutional Court, but so far there has been no systemic approach. In 2008, the Constitutional Court called for reevaluation of the rigid rule in an obiter dictum related to proof of causation, noting that the requirement of proof with 100 % certainty could not be inflexible and was unrealistic20. In 2015, the same court issued its decision in a case involving nosocomial infection of a new-born child with serious permanent consequences21. According to evidence available in the latter case, hospital managers admitted during a meeting with the child’s parents as conceivable that a nurse might forget to disinfect hands before treating a child patient in an incubator. From this the parents concluded that the child had really been infected by a nurse and that it was not fair to require them to prove it with certainty. The hospital defended the claim with the argument that there were various ways how infection may have been contracted, and there was no proof of any actually incorrect course of action of any particular nurse. An expert opinion was provided, but was inconclusive: the experts confirmed that while disinfection is highly important, they could not deduce the actual mechanism how the particular child had been infected. The relevant bacteria may be present even on healthy children in whom they cause no harm. Lower courts denied compensation, but the Constitutional Court disagreed. It stated that experts tend to prefer unassailable opinions and therefore avoid unambiguous con-

Ruling of the Constitutional Court of the Czech Republic of 12th August 2008, file no. I. ÚS 1919/08. 20

21 Ruling of the Constitutional Court of the Czech Republic of 26th August 2015, file no. I. ÚS 3253/13.

clusions. But a court is entitled to push the expert to describe the various alternatives (e.g. possible causes of infection) with quantification of their probability. This is a novel approach, as it implicitly accepts that probability may be an important factor in the court’s decision. In this respect the Constitutional Court went against the established principles of adjudicating liability claims. However, as mentioned above, this decision has not yet led to any systemic abandoning of the rule of practical certainty.

5. Deficiency of Medical Records Every health care provider has a duty stipulated by the law to keep detailed medical records related to patients and their treatment or other care. If such records are lacking or are not properly maintained, it constitutes a breach of legal obligation. But if a malpractice dispute arises, the deficiency may mean that the claiming patient may be deprived of relevant evidence which could prove treatment errors. It is obviously unfair that someone who breached their legal obligation (by not keeping proper records) should benefit from it by having it easier to defend a malpractice claim. An illustrative example is provided by an obstetrics case. A child’s birth, while usually a happy occasion for the parents, is associated with many serious risks, and even with perfectly correct medical procedure it may take an undesirable turn, leading sometimes to lasting damage. In the particular circumstances an expectant mother was admitted to a hospital due to sudden pains after a normal, uneventful pregnancy. Heart activity of the foetus was monitored each 20 or 30 minutes. After several hours a nurse used a different monitoring apparatus, as the original one turned out not to function properly. The heart activity was now found to be abnormal and a caesarean section was performed immediately. The child was born with permanent brain damage of a very severe kind and a claim for compensation was raised. An expert opinion stated that the cause of harm was lack of oxygen but that it was not possible to determine whether any malpractice took place. The cardiotocographic record had been printed Responsabilità Medica 2019, n. 3


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by such technology that it faded out in the meantime. The experts were unable to confirm or refute that the (potential) lack of oxygen could have been recognised earlier and an immediate caesarean section performed. The case reached the Supreme Court twice. On the first occasion22, the lower court’s decision was quashed for unrelated reasons, but regarding the critical issue of lack of records the Supreme Court concluded that there was no presumption of malpractice and that Czech law did not have any adequate solution for the situation of incomplete medical records; therefore, standard principles of burden of proof applied. The rather surprising development came when the case returned. Lower courts found again in favour of the claimant and the hospital again appealed back to the Supreme Court. In its second decision23 the court held that rules of evidence should be interpreted in such manner that division of burden of proof among the parties may be modified if the normal rule lead to one party being burdened unacceptably when they had no information on the relevant facts. When medical records are missing in breach of the provider’s duty, the defendant should not benefit from it. The final disposition was therefore in favour of the claimant. The Constitutional Court was faced with a similar problem in another case24. It also concerned obstetrics, serious hypoxia of the newborn and missing cardiotocographic record (in this case it having been somehow lost). Ordinary courts, including the Supreme Court, denied the claim because the elements of liability had not been proved. The Constitutional Court pointed out that the right to fair trial comprises the principle of equality of weapons, and that this should also include that burdens of the parties in the proceedings, such as burden of proof, should not be dispropor-

Judgment of the Supreme Court of the Czech Republic of 27th March 2013, file no. 30 Cdo 3631/2011. 22

Osservatorio normativo e internazionale

tionate or unbearable. The courts are entitled to require a party to produce evidence which is under its control (such as cardiotocographic record made by the hospital), and when a party fails to comply, it is fair to infer appropriate unfavourable conclusions. If the party is unable to comply because it does not have the piece of evidence in breach of its obligation (such as that the hospital either failed to make the record in contravention of its legal duty, or subsequently lost it), the court may reverse the burden of proof25. As the relevant party may then not be able to satisfy the reversed burden, such approach will often lead to success of the claim. Notwithstanding the apparent development of jurisprudence, the new attitude is still far from being settled law, especially given earlier decisions to the contrary. The solution proposed by the Constitutional Court is also somewhat problematic, because with a case-by-case approach it will not be entirely foreseeable which circumstances the courts will find compelling enough to reverse the burden of proof, with obvious impact on the outcome.

6. Causation In order to succeed with a civil liability claim, the claimant should prove a causal link between a wrongful act or omission of the defendant and the claimant’s harm. In medical malpractice litigation it may be particularly difficult to satisfy this requirement, especially on the level of practical certainty as the ordinary standard of proof. The Constitutional Court pertinently noted: “To find a simple relationship of cause and consequence in medical procedures is by definition very hard. The essence of medicine is to intervene in the whole chain of causes and consequences, in processes taking place in human body, and to affect these processes by external interference, change their direction, impact etc. ... Even in case of an active act of a physician who selected a particular treatment it is very difficult, and even unfeasible, to

Judgment of the Supreme Court of the Czech Republic of 28th June 2016, file no. 30 Cdo 1144/2014. 23

24 Ruling of the Constitutional Court of the Czech Republic of 9th May 2018, file no. IV. ÚS 14/17.

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25

Ibidem.


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determine whether such treatment was beyond all reasonable doubt the sole possible cause of the ensuing harm. It is yet more difficult in case of an omission, when a physician does not carry out a treatment which could and should have been chosen on the basis of state-of-the-art medical knowledge”26. Czech courts sometimes seek ways how to alleviate this heavy burden without abandoning the strict rule of proof with certainty. It might be perhaps better if they did abandon it in favour of a less strict standard, at least in relation to proof of causation. But even without that they in some cases resort to alternative approaches with similar result. An example is provided by another Supreme Court decision. Although causation should be proven with certainty, an expert opinion’s inferences based on mere probability do not make it impossible for the court to achieve certainty because of the principle of free evaluation of evidence27. Strictly speaking, this is a debatable proposition. If the evidence calculates only with probability, how can the court, without other unambiguous evidence, answer the relevant question of fact with certainty? But judicial decisions of this kind are understandable in the circumstances. Regarding a particularly deserving claimant judges may succumb to a very natural and humane tendency to slightly distort the otherwise applicable rules in order to provide compensation. Czech legal doctrine and some case law28 have discussed the concept of loss of chance as a potential means to get round the problem. However, in our system of civil law, loss of chance has not yet been accepted as a distinct kind of harm which could be compensable. On the contrary, it

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might be argued that the whole concept merely masks uncertainty of causation in an attempt to circumvent the strict rule of standard of proof and is unsuitable for further development of the law29.

7. Deficiency of Informed Consent A patient who underwent a thyroid gland surgery sued the relevant hospital for compensation of pain, loss of faculties and loss of earnings. She alleged that she had not been properly informed about risks of the treatment. The surgery (performed correctly) led to damage of recurrent laryngeal nerves. Shortness of breath and a speech impairment ensued. Lower courts held in favour of the claimant, stating that without proper information, the patient’s consent had been invalid, the intervention had therefore been carried out unlawfully and the hospital should bear all risks associated with such wrongful act, even if those risks were unavoidably connected with the particular treatment. The Supreme Court noted that in accordance with Article 5 of the 1997 Convention on Human Rights and Biomedicine, which the Czech Republic ratified, any intervention in the health field may only be carried out after the person concerned has given free and informed consent to it. Without proper information, the patient’s consent is indeed insufficient and treatment performed on its basis may be wrongful. However, the court declared that there was no general principle that all risks of an unlawful medical intervention must be borne by the care provider who carried it out. The patient must prove that had he/she known all relevant information (which should have been provided by the care provider), it would have been realistically likely that he/she would not have undergone the surgery. After all, in many cases the

Ruling of the Constitutional Court of the Czech Republic of 12th August 2008, file no. I. ÚS 1919/08. 26

Judgment of the Supreme Court of the Czech Republic of 3rd February 2015, file no. 25 Cdo 1222/2012. 27

E.g. ruling of the Constitutional Court of the Czech Republic of 12th August 2008, file no. I. ÚS 1919/08, judgment of the Supreme Court of the Czech Republic of 31st July 2014, file no. 25 Cdo 1628/2013, or ruling of the Constitutional Court of the Czech Republic of 20th December 2016, file no. III. ÚS 3067/13. 28

For a more detailed discussion cf. Holčapek, Doctrine of Loss of Chance in Medical Malpractice Cases: Comparative, International and Transnational Aspects, in Šturma et al., Czech Yearbook of International Public & Private Law, Prague, 2017, 445 ss, or Šustek, Current Debates on Medical Liability in the Czech Republic, in Journal de Droit de la Santé et de l’Assurance Maladie, 2019, 67 s. 29

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patient would make the same decision even with additional information30. The cited decision goes in the right direction, because without any liability for intervention performed without proper informed consent, an important incentive for health care providers to inform patients would be much weakened. Nevertheless, significant questions remain open. Firstly, what should the care provider be actually liable for? If a correct medical procedure was performed and only a risk normally associated with it materialized, why should the care provider be obliged to compensate pain, loss of faculties or loss of earnings? Would it be more appropriate to only compensate the patient for unlawful interference with personal autonomy instead of damage to health? The amount of compensation could obviously be very different. Secondly, should we distinguish between cases of total lack of information (or even total lack of consent) and those in which some information was not provided but some was? What if the health care provider correctly performs an objectively necessary medical intervention without any consent at all? Should they be liable at least then for all resulting misfortunes that befall the patient? These important questions have not been fully answered yet by Czech courts. In 2017 the Supreme Court allowed decisions of lower courts to stand in which they granted claim for compensation to the patient who alleged that it was realistically possible she would not have undergone the surgery; the compensation included pain and other harms associated with the outcome of the surgery, although performed correctly31. This seems to contradict the earlier decision partially quoted above, which appeared to suggest that compensation should rather cover unlawful interference with personal autonomy. Further clarification by future case law is highly desirable32.

Judgment of the Supreme Court of the Czech Republic of 29th April 2015, file no. 25 Cdo 1381/2013. 30

Ruling of the Supreme Court of the Czech Republic of 20th June 2017, file no. 25 Cdo 5311/2016.

31

For a more detailed discussion which also takes into consideration the Convention on Biomedicine cf. Holčapek, Con32

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8. Conclusion This text outlines some fundamental elements and recent developments of Czech civil law in respect of medical malpractice compensation claims. The new Civil Code increases emphasis on intangible, non-proprietary rights, including also the right to protection of health, privacy, dignity and personal integrity. The number of claims and the amounts claimed are, and probably will remain, on the rise. Contemporary legal discourse focuses e.g. on determination of proper amount of financial compensation in cases of personal injury, maintaining or adjusting the standard of proof (or finding methods for its alleviation), liability for nosocomial infections or treatment performed without proper informed consent. There is no fixed upper limit on amount of monetary satisfaction and courts should award compensation which is just and decent. This rule is solid from the constitutional perspective, but creates a risk of grossly dissimilar damages awarded in similar cases. To mitigate this risk, there are some guidelines to help courts reach comparable amounts of compensation, but the discussion is still ongoing33. Other topics which may deserve to be included in the discussion and perhaps reflected by law encompass e.g. early disclosure and apology, claims for wrongful life or birth or the issue of secondary victims. An early apology may help a lot in order to prevent the breakdown of physician-patient relationship of trust and in resolving any disputes, but fear of litigation may create an incentive to do the opposite and admit no responsibility34. Cas-

vention on Biomedicine and Liability Resulting from Deficiency in Informed Consent, in Šturma et al., Czech Yearbook of International Public & Private Law, Prague, 2018, 270 ss. 33 Cf. a 2014 methodology developed by a group of experts in which certain Supreme Court judges participated, attempting to offer a structured system of evaluation of various types of pain and suffering and loss of faculties and principles for assessing an increase or decrease in compensation in a particular case. However, the methodology remains controversial and is not universally accepted. 34 Cf. a general introduction to the problem of alternative dispute resolution including early disclosure and apology in Šustek, Holčapek, Alternative Dispute Resolution in Medical


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es of claims for wrongful birth may be rare, but highly controversial, requiring the courts to determine what types of tangible and intangible harm should be compensated in order to balance the parents’ right to private life with respect to the value of life of the child35. The issue of secondary victims may need new consideration in light of the Civil Code emphasis on compensation of intangible harm. As medical science and technology constantly develop36, they are bound to introduce even more scenarios and aspects of medical malpractice and reasons for legal discourse and regulation, whether in the Czech Republic or in other countries facing similar challenges.

Malpractice Disputes, in Radic et al., Economic and Social Development (Book of Proceedings), 22nd International Scientific Conference on Economic and Social Development – “The Legal Challenges of Modern World”, Varazdin, 2017, 233 ss. Cf. Šustek, Šolc, Court Decisions in Wrongful Birth Claims As Possible Discrimination Against the Child, in Espaço Jurídico Journal of Law, 2017, 31 ss.

35

36 Also liability for personal injury in the context of medical research represents an interesting issue of Czech tort law. Cf. Šustek, Holčapek, Odpovědnost obecná a zvláštní [General and Special Liability], in Šustek et al., Zdravotnické právo [Health Law], cit., 310 ss., or Šolc, Právo, etika a kmenové buňky [Law, Ethics, and Stem Cells], Prague, 2018, 206 ss.

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r o t Osservatorio normativo e internazionale a Osservatorio normativo e internazionale erv ivo t s a s Informed Consent in the Czech o rm zio o a * n n Republic r e int Petr Šustek

Assistant Professor at Charles University of Prague Summary: 1. Introduction. – 2. Consent to Any Intervention to Integrity. – 3. Consent to Medical Interventions. – 3.1. Provision of Health Services Without Consent. – 4. Conclusion.

1. Introduction In the Czech Republic, modern discussion on informed consent was initiated after the ratification of the Convention on Human Rights and Biomedicine in 2001. Initially, the Czech legislators did not fully realise the importance of the Convention and simply believed that the ratification of another human rights document will be popular1. However, the Convention proved to be of paramount significance. Its Chapter II, which is dedicated to consent, represented a standard above the paternalistic Czech healthcare practice of the time. Following the ratification, the Act No. 20/1966 Coll., on the Care for the Health of the People, was subjected to several amendments. Nevertheless, the necessary health law reform was realised in 2012 when three new laws entered into force, most important of them being Act No. 372/2011 Coll., on Health Services and Conditions of Their Provision (hereinafter “Act on Health Services”)2. In a certain sen-

se, the reform was finished when Act No. 89/2012 Coll., Civil code (hereinafter “Civil Code”) entered into force in 2014. The new Civil Code, being significantly anthropocentric (individual-oriented), put a further emphasis on the importance of the protection of person and personal autonomy3. The Civil code encompasses the general regulation of interference with physical and mental integrity as well as the informed consent in the frame of the contractual provision of health care. Act on Health Services contains a special regulation of informed consent to health services. However, the regulation of informed consent in the Civil Code is in some aspects more detailed so certain provisions of the Civil Code are in fact special to the regulation in Act on Health Services4. There can also be found regulation in several special acts related to specific areas of health services5.

cy Medical Services. For an analysis of the effects of the Convention on Human Rights and Biomedicine ratification on Czech health law cf. Šustek, Two Decades of the Convention on Biomedicine: Has It Been Any Good?, cit., 257 ss.

3

The article was written with the support of the Charles University research project Progres Q04 “Právo v měnícím se světě” [“Law in the Changing World”].

*

The author remembers the then-Senator Tomáš Julínek recollect this memory. Cf. also Šustek, Two Decades of the Convention on Biomedicine: Has It Been Any Good?, in Šturma et al., Czech Yearbook of Public & Private International Law. Česká ročenka mezinárodního práva veřejného a soukromého, Prague, 2018, 260. 1

The other two laws are Act No. 373/2011 Coll., on Specific Health Services, and Act No. 374/2011 Coll., on Emergen-

2

Cf. Holčapek, Tomáš. Informovaný souhlas v právním řádu [Informed Consent in the National Law], in Šustek, Holčapek et al., Zdravotnické právo [Health Law], Prague, 2016, 236. 4

Among these special acts, we may highlight Act No. 373/2011 Coll., on Specific Health Services (regulating for example consent to artificial reproduction, sterilisation, genetic testing, or sex reassignment surgery), Act No. 285/2002 Coll., Transplantation Act, or Act No. 66/1986, on Artificial

5

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2. Consent to Any Intervention to Integrity Informed consent is the most usual legal grounds for interference with the integrity of another. In the Civil Code there are regulated instances of this interference in other cases than the provision of health services (such as tattooing, application of piercing, etc.). According to the Explanatory Report to the Civil Code, the general prohibition of the interference with bodily integrity without consent is one of the fundamental principles of the protection of personal integrity in Czech civil law6. The Civil Code regulation of the right to mental and physical integrity starts with a concise proclamation in Section 91: “An individual is inviolable”. Any interference with the integrity of another without informed consent is generally prohibited7. The patient’s full knowledge of the nature, possible consequences, and alternatives of the interference is to be secured by a clear explanation from a person who wishes to perform the intervention. Section 94 (1) of the Civil Code states that “[e]xplanation is duly provided if it can be reasonably assumed that the other party has understood the nature and purpose of the intervention, including the expected consequences and possible dangers to his health, as well as whether or not a different approach is possible.”

3. Consent to Medical Interventions The prohibition of provision of health services without consent is one of basic patient rights, guaranteed in Section 28 (1) of Act on Health Services

Interruption of Pregnancy. Explanatory Report to the Civil Code, Special Part, Explanation to Sections 91 to 103.

6

Section 93 (1) of the Civil Code:“Except as provided by a statute, no one may interfere with the integrity of another individual without his consent granted with the knowledge of the nature of the interference and its possible consequences. If a person consents to serious harm being caused to him, it is disregarded; this does not apply if the interference is, given all the circumstances, necessary in the interest of the life or health of the individual concerned”.

7

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which states that “[h]ealth services can only be provided to a patient with their free and informed consent, unless this Act states otherwise”. More detailed regulation of informed consent is to be found in Sections 34 to 37 of Act on Health Services, while the scope of information is set in Sections 31 to 33. Special provisions on informed consent of minors and adult persons without full legal capacity are embodied in Section 35. The Czech law strictly distinguishes two aspects of informed consent, i.e. the provision of information and the consent itself. The requirement of free consent is rather self-evident, meaning the absence of any coercion (even though the line between explanation and coercion might in practice be unclear). For the purposes of this paper, we will therefore primarily focus on the provision of information. The condition that the consent is informed generally means that the patient was provided – in a comprehensible way and in a sufficient scope – with the information regarding their health condition, the proposed individual treatment, and all its changes. The additional questions of the patient or their relatives must be answered. The definition of the necessary scope of information about the patient’s health condition, however it is vague, is crucial. The patient must be informed about the cause of the illness, its stage, and prognosis; the purpose, nature, supposed benefit, possible consequences, and risks of proposed health services including particular interventions; therapeutic alternatives, their suitability, benefits, and risks; necessary following treatment; lifestyle limitations and recommendations. Furthermore, it is necessary to inform the patient about their right to refuse the information (in which case the consent is considered informed)8. The purpose of informed consent requires that the patient really understands the provided information so they can base their decision on it. For this reason, the information as it was understood by the patient is decisive rather than the information objectively handed over by the health professional. The content of the information, as well as the way

8

Section 31 (2) of Act on Health Services.


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it is conveyed, must be adjusted to the patient’s education, intelligence, overall health condition, age, cultural background, etc. If it is possible, the patient should be informed in sufficient advance so they can ponder all information and make their decision without additional time stress. It is very unfortunate that a widespread practice consists in providing the patients with standardised informed consent forms without a deeper personal dialogue9. The information must be provided by a health professional who is qualified for providing relevant health services10. Therefore, if the information is related to intervention which only a physician can carry out, it must be provided by a physician. Of course, it does not mean that a nurse or other health professional cannot discuss with patient their questions; however, it is necessary to ensure that the final information will be provided by a competent physician11. Every medical intervention, even when carried out flawlessly, is connected to many possible risks. The provider cannot be obliged to inform the patient about all these risks: it would not be possible to fulfil such duty12. The law or the case law has not yet established any statistical threshold of probability which would constitute the obligation to inform about the given risk. Nevertheless, the necessity to inform about a particular risk is based on proportionality between its probability and seriousness. The more serious the risk is, the less

Cf. Salač, Informovaný souhlas jako nástroj vyrovnání informačního deficitu ve vztahu lékař-pacient [Informed Consent as an Instrument of Equalizing the Information Asymmetry in the Physician-Patient Relationship], in Paneurópske právnické listy, 2019, available at http://www.paneuropskepravnickelisty.sk/index.php/salac-j/ accessed 20th August 2019.

9

10

Article 31 (3) of Act on Health Services.

Cf. Holčapek, Informovaný souhlas v právním řádu [Informed Consent in the National Law], in Šustek, Holčapek et al., Zdravotnické právo [Health Law], cit., 245.

11

Cf. for example Holčapek, Obsah a podoba poučení [The Content and the Form of the Information], in Šustek, Holčapek et al., Zdravotnické právo [Health Law], cit., 243. Cf. also the Supreme Court judgment of 29 April 2015, 25 Cdo 1381/2013. 12

probability suffices to establish the provider’s obligation to inform13. The failure to fulfil this obligation might establish the provider’s liability for moral harm resulting from the violation of the patient’s integrity and right to self-determination. An important question, though, is whether it also establishes liability for a personal injury which occurred as a result of materialisation of inherent risk even though the intervention was carried out in accordance with the standard of care. According to the Supreme Court of the Czech Republic, the crucial question in these cases is that of causal link. In order to prove causation, the plaintiff has to claim and prove that if they had been informed of decisive facts, it would have been realistically plausible that they would not have consented to the intervention14. Apparently, proving this claim can be exceedingly difficult in practice. The patient has the right to identify persons who will be informed about their health condition, who will have access to their medical records, or who will provide the informed consent on behalf of the patient in case of the patient’s incapacity. On the other hand, it is also possible for the patient to exclude a particular person from the provision of any information regarding the patient15. If the health condition of the patient or the nature of their disease requires so, the provider of health services is entitled to provide the persons who will personally care for the patient with the information necessary for the provision of care or protection of their health16. We may recall the European Court of Human Rights judgment Colak and Tsakiridis v. Germany in which there was discussed the possibility of breaking medical confidentiality in order to inform the patient’s wife about the fact that her husband is HIV-positive17. If the wife was her hu-

Cf. Holčapek, Obsah a podoba poučení [The Content and the Form of the Information], in Šustek, Holčapek et al., Zdravotnické právo [Health Law], cit., 243 s.

13

Cf. the Supreme Court judgment of 29 April 2015, 25 Cdo 1381/2013. 14

15

Section 33 of Act on Health Services.

16

Section 31 (6) of Act on Health Services.

17

Colak and Tsakiridis v. Germany, the ECtHR judgment of

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sband’s caregiver, such a situation would represent a typical case for the application of the above-mentioned provision. There are two exemptions from the provider’s obligation to inform. The first one is the so-called therapeutic privilege18. The second exemption consists in the right to withhold the information about a minor patient (or a patient with restricted legal capacity) from the patient’s caregiver in case of a suspicion that the caregiver participates in abuse or mistreatment of the patient and the provision of the information could endanger the patient. 3.1 Provision of Health Services Without Consent There are several cases in which health services can be provided without the patient’s consent. Obviously, in these cases the provision of health services is not based on contract. It is rather based either on the decision of a public authority (usually a court) or directly on the law. These cases include protective treatment according to Act No. 40/2009 Coll., Criminal Code, an isolation, quarantine, or treatment of exhaustively defined infectious diseases according to Act No. 258/2000 Coll., on the Protection of Public Health, and a physical examination according to Act No. 141/1961 Coll., on Criminal Judicial Procedure, or Act No. 292/2013 Coll., on Special Court Proceedings. Hospitalisation can be directly based on the law in two types of cases. The first one is the so-called civil involuntary placement19. It is permitted when a person immediately and seriously threatens herself or other persons and shows signs of a mental disorder or is under the influence of drugs if the danger cannot be averted by other means. Such a person can be involuntarily hospitalised, usually in a psychiatric facility or a sobering-up station20.

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Secondly, it is legal to hospitalise the patient who is not capable of granting informed consent due to their health condition21. Generally, it is necessary to note that even if there is a cause for an involuntary hospitalisation, it does not legitimise particular health interventions. Every intervention must have its own legal grounds for its provision22. Furthermore, individual urgent interventions are permissible if the patient’s health condition makes them incapable of granting consent23 or if the interventions consist in treatment of a serious mental illness which – if not treated – would most likely result in a serious injury to the patient’s health24. In the case of non-consensual hospitalisation, the provider is obliged to notify a court within twenty-four hours25. The so-called detention proceedings is regulated by Act No. 292/2013 Coll., on Special Court Proceedings26.

(usually alcohol) intoxication. Cf. Mravčík et al., Záchytné stanice v České republice v kontextu obdobných služeb o akutně intoxikované v Evropě [Sobering-up stations in the Czech Republic in the context of analogous models of care for acute intoxications in Europe], in Časopis lékařů českých [ Journal of Czech Physicians], 2013, 129 ss. English abstract available at https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23822545 accessed 1st July 2019. 21

Section 38 (1) c) of Act on Health Services.

Cf. Holčapek, Práva člověka převzatého do zařízení bez souhlasu a detenční řízení [Rights of a Person Placed in Facility Without Consent and Detention Proceedings], in Šustek, Holčapek et al., Zdravotnické právo [Health Law], cit., 229. 22

Unless there is a valid advance directive which forbids medical intervention in given situation. Cf. Salač, Dříve vyslovené přání – úvaha [Previously Expressed Wish – Thoughts on Matter], in Dvořák et al., Pocta Aleně Winterové k 80. narozeninám [Tribute to Alena Winterová on the occasion of her 80th birthday], Prague, 2018, 371 ss. 23

24

Section 38 (3) of Act on Health Services.

This obligation is embodied in several acts: in Section 105 (2) of the Civil Code, in Section 40 (1) a) of Act on Health Services, and in Section 75 of Act on Special Court Proceedings. 25

5 March 2009, application nos. 77144/01 and 35493/05. 18 Section 32 (2) of Act on Health Services. For an analysis of therapeutic privilege cf. Šolc, Therapeutic Privilege as the Last Bastion of Paternalism?, in this issue of Responsabilità medica, 401 ss. 19

Section 38 (1) b) of Act on Health Services.

Sobering-up stations form special health facilities used for short-term hospitalisation of persons with acute drug 20

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26 For a more detailed introduction to involuntary hospitalisation in Czech law cf. Šustek, Restrictions of Personal Freedom in the Context of Psychiatric Care in the Czech Republic, in Šturma et al., Czech Yearbook of Public & Private International Law. Česká ročenka mezinárodního práva veřejného a soukromého, Prague, 2017, 412 ss.


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Informed Consent in the Czech Republic

Regardless of whether the hospitalisation was voluntary or not, the patients can be subjected to the use of means of restraint (most often in psychiatric facilities and sobering-up stations). Their use is only legal under certain conditions and the court must be notified within twenty-four hours if the patient did not grant consent27. Means of restraint are exhaustively listed in Act on Health Services, ranging from the grip of the patient by medical personnel to psychotropic medication to protective strips and straightjackets28. The most controversial of them are net-beds. The government long resisted the human rights organisations criticism of the use of cage-beds. However, the situation changed when the wave of media interest was sparked after J. K. Rowling, the author of Harry Potter books, read a newspaper article about children placed in cage-beds in the Czech Republic and started to campaign against the practice. In 2008, four years after the beginning of Mrs. Rowling’s involvement, cage-beds were banned and replaced by net-beds. Nowadays, the net-beds too are subjected to a long-term criticism of international bodies for allegedly being unnecessary and contradicting human dignity29. The Czech government30 insists that they are still necessary in certain cases31.

27

Section 40 of Act on Health Services.

28

Section 39 (1) of Act on Health Services.

4. Conclusion Following the ratification of the Convention on Human Rights and Biomedicine in 2001, Czech health law had to undergo important changes in order to strengthen the autonomy of will of the patient. Health law reform peaked with the enactment of three laws which entered into force in 2012 including Act on Health Services which regulates informed consent to health services. General regulation of informed consent to an intervention to integrity is to be found in the Civil Code which entered into force in 2014. Both laws put a strong emphasis on the individual and their free will, leading to a modern regulation of informed consent as the basic and the most usual legal grounds for the provision of health services. The failure to provide sufficient information establishes the provider’s liability for moral harm. Nevertheless, there are several important uncertainties regarding informed consent. For example, there is not defined the minimum probability of risk which establishes the obligation to inform the patient about it. It is also difficult to prove the causal link between the failure to provide sufficient information and a personal injury which occurred as a result of materialisation of the inherent risk of the procedure.

Cf. United Nations Committee against Torture, Concluding observations of the sixth periodic report of the Czech Republic, 6 s. available at https://tbinternet.ohchr.org/Treaties/CAT/Shared%20Documents/CZE/CAT_C_CZE_CO_6_31240_E.pdf accessed 20th August 2019 and Council of Europe, Report to the Czech Government on the visit to the Czech Republic carried out by the European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) from 2 to 11 October 2018, 7, 48 ss. available at https:// rm.coe.int/168095aeb4 accessed 20th August 2019. 29

Response of the Czech Government to the report of the European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) on its visit to the Czech Republic from 1 to 10 April 2014, 26 s. available at https://rm.coe.int/CoERMPublicCommonSearchServices/ DisplayDCTMContent?documentId=090000168069568e accessed 20th August 2019. 30

For an analysis of the problem of means of restraint in the context of Czech psychiatry cf. Šustek, Restrictions of Personal Freedom in the Context of Psychiatric Care in the Czech Republic, in Šturma et al., Czech Yearbook of Public & Priva31

te International Law. Česká ročenka mezinárodního práva veřejného a soukromého, cit., 417 ss.

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r o t Osservatorio normativo e internazionale a Osservatorio normativo e internazionale erv ivo t s a s o rm zio Therapeutic Privilege as the o a * n n Last Bastion of Paternalism? r e int Martin Šolc

Ph.D. student at Charles University of Prague Summary: 1. Introduction. – 2. Legal Regulation of Therapeutic Privilege. – 3. Ethical Permissibility of Therapeutic Privilege. – 3.1. The Concept of Autonomy. – 3.2. Necessary Safeguards. – 4. Conclusion.

1. Introduction During the last decades, the health care paradigm underwent a major shift from the paternalistic approach to an autonomy-based understanding1. Apart from several special cases mostly consisting in emergency situations or the protection of public interest, health services can only be provided on the basis of the patient’s free and informed consent2. From the legal perspective, informed consent represents a legal ground for interference with the patient’s bodily integrity3. It is a crucial instrument for equalizing the information asymmetry between the patient and the physician4 and for preserving the patient’s right

The article was written with the support of the Charles University Grant Agency (GAUK) research project no. 910319 “Legal Paradigm of Medical Research: Civil Liability for Death and Bodily Harm”.

*

For an insight into the development of informed consent in Czech law, see Šustek, Two Decades of the Convention on Biomedicine: Has It Been Any Good?, in Šturma et al., Czech Yearbook of Public & Private International Law. Česká ročenka mezinárodního práva veřejného a soukromého, Prague, 2018, 257. 1

For an analysis of informed consent from Italian perspective cf. Foglia, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico [The Consent and the Cure. Solidarity in the Therapeutic Relationship], Torino, 2018.

to self-determination so they can still have control over the direction of their own life. The patient must be provided with full information on their health condition and planned treatment and their decision must be respected. However, even though these general principles are strongly promoted in medical practice, there remain several areas where the paternalism seems to still prevail. In the clinical context, a seemingly highly paternalistic practice is represented by the so-called therapeutic privilege. The term denotes the right of health professionals to withhold information on unfavourable diagnosis or prognosis from the patient if the provision of such information could cause a serious personal injury to the patient. While this paper will be based on Czech legal regulation, the subsequent ethical considerations of permissibility and suitability of therapeutic privilege will have general validity.

2. Legal Regulation of Therapeutic Privilege Article 10 (2) of the Convention on Human Rights and Biomedicine5 guarantees everyone the right

2

Cf. Salač, Souhlas [Consent], in Šustek et al., Zdravotnické právo [Health Law], Prague, 2016, 250.

3

Cf. Salač, Informovaný souhlas jako nástroj vyrovnání informačního deficitu ve vztahu lékař-pacient [Informed Con-

4

sent as an Instrument of Equalizing the Information Asymmetry in the Physician-Patient Relationship], in Paneurópske právnické listy, 2019. The Convention for the protection of Human Rights and Dignity of the Human Being with regard to the Application of Biology and Medicine.

5

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“to know any information collected about his or her health. However, the wishes of individuals not to be so informed shall be observed”. However, Article 10 (3) states that “[i]n exceptional cases, restrictions may be placed by law on the exercise of the rights contained in paragraph 2 in the interests of the patient”. In Czech national law, therapeutic privilege is enabled by Section 32 (2) of Act on Health Services which also delineates the conditions under which it can be used. The statutory provision states: “The information on unfavourable diagnosis or prognosis of the patient’s health condition can be withheld from the patient in an absolutely necessary scope and for an absolutely necessary time if it can be reasonably assumed that the provision of the information could cause a serious personal injury to the patient”. The same provision excludes the applicability of the therapeutic privilege alternatively if “the information on a certain disease or predisposition to it is the only way to enable the patient to undergo preventive measures or timely treatment,” if “the patient’s health condition represents a risk to others,” or if “the patient explicitly asks for an exact and true information in order to be able to arrange their personal matters”. Even if the therapeutic privilege is applicable, it does not prevent health professionals from informing the patient’s caring persons if such provision of information is necessary6. A very similar rule is contained in Article 26407 of Act No. 89/2012 Coll., the Civil Code (hereinafter

Section 31 (6) of Act on Health Services: If the health condition of the patient or the nature of their disease requires so, the physician is entitled to provide the persons who will personally care for the patient with the information necessary for the provision of care or protection of their health.

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“Civil Code”). This provision is applicable in case of the contractual provision of health care which represents the major part of health care provision in the Czech Republic. Nevertheless, even in these cases there will be usually applied Act on Health Services regulation since it is more detailed, more accurate, and more restrictive. From the Civil Code regulation there would probably be applied the legal presumption from Article 2640 according to which the provider of health services has no right to withhold the information from the patient “unless the obviousness and seriousness of the danger is confirmed by another person providing health care in the relevant field”8.

3. Ethical Permissibility of Therapeutic Privilege Therapeutic privilege touches the concept of informed consent in its very core. It denies the patient the most basic element of informed consent, i.e. the information itself9. For this reason, we believe that therapeutic privilege does represent an interference with the patient’s autonomy of will. As such, it needs serious reasons to be justified. The crucial aspect of therapeutic privilege is that it does not protect the patient from the consequences of their own free and informed decision. It rather prevents adverse health effects of receiving the information (such as a stroke or the worsening of clinical depression). It can also prevent the patient from acting under the influence of either mental disorder or strong emotional misbalance. In these cases, it can be reasonably concluded that while therapeutic privilege arguably represents a certain expression of basic paternalistic

6

Article 2640 of the Civil Code: If this would obviously and seriously jeopardise the health condition of the patient, the patient may be given the explanation in full subsequently, when there is no need to worry about the danger. The provider is presumed not to have that right unless the obviousness and seriousness of the danger is confirmed by another person providing health care in the relevant field. (2) If the patient is denied the explanation and if it is required by the patient’s interests, the explanation is given to another 7

(1)

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person authorised by the patient, unless otherwise provided by another legal regulation. Cf. Holčapek, Obsah a podoba poučení [The Content and the Form of the Information], in Šustek et al., Zdravotnické právo [Health Law], cit., 247.

8

For example, Czech medical ethicist Helena Haškovcová believes that it is irrelevant whether the patient will be able to cope with the truth or not since they have to bear their disease in some way. Cf. Haškovcová, Lékařská etika [Medical Ethics], Prague, 2002, 142. 9


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Therapeutic Privilege

beliefs, it can be understood as a part of the lex artis in a broad sense. Withholding information – when absolutely necessary – represents a part of the requirement of sensitive communication style which prevents unnecessary harm to the patient. 3.1. The Concept of Autonomy On a more theoretical level, there can be identified several notions of autonomy. The so-called default autonomy stems from the concept of negative autonomy (i.e. freedom from coercion) and consists in intentional action carried out with understanding and without relevant external influences. This is the concept of autonomy reflected in Beauchamp’s and Childress’ autonomous choice10. However, there are also more complex theories of autonomy. One of them is the split-level theory which is sometimes called the theory of authenticity. This theory is based on the distinction between the first-order desires which aim at some action (e.g. the desire to buy expensive watches) or some state of affairs (e.g. the desire to be affluent), and the second-order desires which aim at the first-order desires. Therefore, the examples of the second-order desires might be the desire to want to buy expensive watches or the desire to want to be affluent; or, the desire not to want to buy the watches and not to wish to be rich. This is most obviously demonstrated in cases of addiction – the second order desire might consist in a strong desire not to crave a drug. An autonomous person defines themselves on the basis of their second-order desires: they express their life plan and their true self. For this reason, an autonomous person finds the first-order desires which are not in accordance with their second-order desires to be unauthentic11.

Cf. Beauchamp, Childress, Principles of Biomedical Ethics, New York, 2009, 100; Cf. Doležal, Pojetí autonomie v moderní bioetice a jeho dopady na teorii informovaného souhlasu [The concept of autonomy in modern bioethics and its impacts on the theory of informed consent], in Časopis zdravotnického práva a bioetiky [ Journal of Medical Law and Bioethics], 2019, 9. 10

11

Cf. Doležal, op cit., 11.

It can be argued that when it comes to prevention of self-destructive behaviour, the therapeutic privilege protects the patient from the first-order desires which might otherwise prevail in a very emotional situation. It actually protects the patient’s authenticity – and therefore their true autonomy – by helping them to live according to their life plan and not to surrender to a first-order desire which could be momentarily very strong. Understood this way, therapeutic privilege is an example of what is sometimes called soft paternalism. Beauchamp and Childress describe the concept as situations in which “an agent intervenes in the life of another person on grounds of beneficence or nonmaleficence with the goal of preventing substantially nonvoluntary conduct”12. Since its aim is in fact the preservation of autonomy, soft paternalism does not involve a conflict between the respect for autonomy and the principle of beneficence (or, as in case of therapeutic privilege, the principle of nonmaleficence)13. The moral problem with soft paternalism lies rather in the difficulty of drawing the line between authentic and unauthentic actions14. The above-outlined approach suggests that therapeutic privilege can be used especially in cases of the patient’s suicidal tendencies stemming from strong emotional response or severe depression. However, these tendencies need to pose a real and immediate threat to the patient’s life should the information be provided at the moment. On the other hand, physicians should not withhold information from the patient solely on the basis of

Beauchamp, Childress, op cit., 209; It needs to be noted, though, that Beauchamp and Childress do not mention any connection between therapeutic privilege and soft paternalism. In their book, they acknowledge the controversial nature of therapeutic privilege and do not take a definite stance on its ethical permissibility. Cf. Beauchamp, Childress , op cit., 124.

12

In their influential book Principles of Biomedical Ethics, Tom L. Beauchamp and James F. Childress identify four basic principles of medical ethics: respect for autonomy, nonmaleficence, beneficence, and justice. Cf. Beauchamp, Childress, op cit., 206; Beauchamp and Childress aptly denote paternalism as a conflict between beneficence and autonomy. Cf. Beauchamp, Childress, ibidem. 13

14

Cf. Beauchamp, Childress, op cit., 210.

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a more vague fear that the patient could choose suicide (for example if they know about the patient’s approval of euthanasia or suicide in certain life conditions, etc.). In these cases, the patient should be provided with the full information regarding their health condition and its prognosis while they can be recommended for a consultation with a psychologist, psychiatrist, or a hospital chaplain. 3.2. Necessary Safeguards Therapeutic privilege is an institute which could very easily destroy the respect to the patient’s autonomy of will. The institute can easily be abused. Even more so, it can be assumed that in most cases it would not even be fair to talk about its abuse – for the destruction of the practice of informed consent-based health care, it would be enough if a sufficient proportion of well-meaning health professionals was too protective of patients’ feelings. Until the second half of the 20th century, the so-called pia fraus, or a merciful lie, was widely used in clinical settings as it was considered a noble part of the physician’s lex artis15. The reason behind this practice was the perceived priority of the principle of not doing harm over the principle of patient’s autonomy. The ethical and legal consensus is very different nowadays. Furthermore, the lack of information itself can be harmful to the patient if it prevents them from writing a testament, healing the relationships with their close ones, or otherwise take care of their last things. For these reasons, even if therapeutic privilege as such is justified, it needs to be subjected to sufficient safeguards. Generally, therapeutic privilege should be used as a means of last resort when the patient’s health cannot be protected otherwise. A high level of caution should be required in the use of the institute. It is especially impermissible to use it in order to avoid the patient’s reluctance to grant informed consent to a certain medical procedure or out of fear of a “mere” emotional burden imposed

15 Cf. Šustek, Two Decades of the Convention on Biomedicine, cit., 261.

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on the patient16. The (more or less) objective criterion of expert confirmation of the justifying reasons which we find in the Czech law is highly recommendable since it is helpful in preventing the abuse of therapeutic privilege as well as a simple wrong clinical judgment made by an attending physician. It also helps health professionals to realise that the use of therapeutic privilege needs to be restricted to cases of immediate and serious danger. Furthermore, we also find it necessary to exclude the possibility of therapeutic privilege when the patient explicitly asks for the full and true information. To do otherwise would rather disrupt than protect the patient’s ability to live according to their own life plan. It would also endanger the patients’ trust in their physician and perhaps in the health system as a whole which could have serious societal consequences. We take it for granted that therapeutic privilege should never be used if it would pose a threat to the patient’s health greater than is the threat represented by the provision of information. In this sense, the decision to withhold information needs to be based on proportionality between various risks. Furthermore, the therapeutic privilege must be impermissible if it would endanger the health of third persons.

4. Conclusion The term therapeutic privilege denotes the right of health professionals to withhold from the patient the information on unfavourable diagnosis or prognosis if the provision of such information could cause a serious personal injury to the patient. Since therapeutic privilege risks to undermine the autonomy-based approach to health care, it can only be justified by serious reasons. However, we believe that under certain conditions it is permissible. It should only be applied in order to prevent negative effects on the patient’s health or their actions based on a momentarily

Cf. Holčapek, Obsah a podoba poučení [The Content and the Form of the Information], cit., 247.

16


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strong emotional response. The limitation of therapeutic privilege to an absolutely necessary scope and an absolutely necessary time which we find in the Czech Act on Health Services is vital. Therapeutic privilege should be used as a means of last resort and should be excluded if the patient explicitly asks for the full and true information. The requirement of confirmation of an immediate threat to the patient’s health by another expert, as it is set in the Civil Code, is also suitable. With these safeguards in place, therapeutic privilege might help the patient cope with a very stressful situation and, as a result, live in accordance with their own life plan in the sense of the theory of authenticity. Understood this way, therapeutic privilege represents an example of the so-called soft paternalism which does not diminish but rather protects the patient’s true autonomy.

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